Giovanni Verga
Nasce a Catania, secondo di sei figli, il 2 settembre 1840 al numero 8 di via Sant'Anna da Giovan Battista Verga Catalano e Caterina Di Mauro Barbagallo originaria di Belpasso (paesino a circa 15 Km a ovest di Catania), ed era discendente del ramo cadetto dei baroni di Fontanabianca, appartenente alla nobiltà antica di Vizzini, un grosso borgo che si trova a metà strada sulla via che porta da Catania a Ragusa, e che ha cercato di rivendicare i natali dello scrittore. Un documento dell'8 settembre 1840 dell'archivio arcivescovile di Catania attesta che la nascita del Verga era stata "rivelata" in quello stesso giorno insieme al battesimo avvenuto nella chiesa dei Santi Apostoli, alla presenza dei due padrini, gli zii don Giuseppe e donna Domenica Verga. Manifesta fin da giovane un grande interesse per la letteratura. Trascorre i primi anni in Sicilia, scrivendo assai presto tre romanzi storici, che risultano però poco significativi e alquanto influenzati dallo scrittore francese Alessandro Dumas. Nel '58 si iscrive alla facoltà di giurisprudenza, ma presto l'abbandona per dedicarsi completamente alla letteratura. Tra il '60 e il '64, dopo aver prestato servizio nella Guardia nazionale al tempo dell'impresa garibaldina in Sicilia, si dedica al giornalismo politico-patriottico, dirigendo alcuni periodici che però ebbero vita breve. Fra il '65 e il '71 vive a Firenze, in quegli anni capitale d'Italia, dove ebbe i primi contatti letterari e dove pubblicò con successo due romanzi: Una peccatrice (1866) e Storia d'una capinera (1871). Nel primo si narra l'amore di una nobildonna con un giovane scrittore, il quale, dopo aver suscitato nell'amante una passione intensa e tormentosa, la trascura spingendola al suicidio. Nel secondo si narra la storia di una ragazza, costretta dalla matrigna a farsi novizia. Tornata per breve tempo a casa in seguito a un'epidemia di colera, la ragazza s'innamora del fidanzato della sorellastra. Ma la famiglia la obbliga a ritornare in convento e a prendere i voti definitivamente. La ragazza muore pazza. Questi due romanzi sono il prodotto di una sensibilità tardo-romantica (l'amore passionale e travolgente che porta alla disperazione o alla morte), ma, soprattutto il secondo, presentano anche uno studio dell'ambiente ben documentato, la ricerca della verità e dell'efficacia sociale o pedagogica del loro contenuto. Il Verga mira qui a trasferire nei protagonisti dei romanzi i suoi stessi stati d'animo e sentimenti (di qui il loro valore autobiografico). Le avventure, benché non vissute ma immaginate, vengono descritte con lo scopo di criticare la falsità e l'immoralità della società borghese e aristocratica (specie quella elevata) contemporanea allo stesso scrittore. In particolare al Verga non piace la concezione borghese individualistica e raffinata che cerca nell'amore passionale un diversivo per sfuggire alla noia della vita quotidiana. Dal '72 al '93 Verga visse a Milano, dove fu in stretto contatto con gli ambienti letterari che facevano allora di Milano la città più viva d'Italia (si pensi p.es. al fenomeno della Scapigliatura, che contestava su posizioni bohémienne il falso pudore borghese e l'aristocratico rigore della lingua letteraria tradizionale). A Milano Verga stringe amicizia con Luigi Capuana, che è il teorico del Verismo italiano. Caratteristiche fondamentali del Verismo, di cui il Verga diverrà l'artista più rappresentativo, sono:
Il Verga non accetta subito integralmente l'ideologia e la poetica del Verismo. A Milano continua a comporre romanzi in cui ancora polemizza con la vita e il costume della media e alta borghesia: amori travagliati, impossibili, melodrammatici, che spesso si concludono con la disperazione, la morte per malattia, il suicidio, la pazzia (in età matura egli rifiuterà questa sua produzione). E' nel '74 che, con la pubblicazione di Nedda, avviene il salto qualitativo. La novella è diversa per argomento e per stile. Narra la vicenda di una raccoglitrice di olive siciliana che, rimasta orfana, lavora a giornata presso varie fattorie per mantenere la madre ammalata, che poi morirà. Dal suo amore per un giovane povero nasce una bambina, ma il ragazzo, prima ancora di sposarla, muore di malaria. Nedda viene respinta da tutti e non trovando più lavoro vede morire di stenti la propria bambina. Il racconto è significativo perchè il Verga polemizza non più con le contraddizioni interne alla vita borghese, ma con quelle che questa vita produce esternamente, nelle classi più umili. Non gli interessa più l'alta società milanese e fiorentina, ma la Sicilia dei poveri. Come mai questa svolta? Quattro fattori lo influenzarono più o meno decisamente:
Nell'80 il Verga compone una raccolta di sette novelle che intitola Vita dei campi; nell'83 pubblica Novelle rusticane e progetta un ciclo di cinque romanzi, I vinti, di cui però scrive solo i primi due: I Malavoglia nell'81 e Mastro don Gesualdo nell'88, che sono i suoi capolavori, riconosciuti a livello europeo. Tutte queste opere hanno come sfondo la Sicilia intorno a Catania, e come protagonisti uomini e donne delle classi subalterne: contadini, pastori, pescatori, artigiani, braccianti... Dura è la critica nei confronti dell'aristocrazia nobiliare. Nel progetto originario, I vinti dovevano rappresentare gli sconfitti nella lotta per il progresso, in cinque fasi diverse: I Malavoglia sono la storia di una famiglia di pescatori che esce sconfitta dal suo tentativo di conquistarsi migliori condizioni di vita; Mastro don Gesualdo è la sconfitta di un povero muratore che, divenuto ricco, vuole ottenere una promozione sociale sposando una nobildonna decaduta, che però non lo ama, né lo ama la figlia, che gli rinfaccia la sua origine umile. Mastro don Gesualdo morirà di cancro, abbandonato da tutti, con il patrimonio intaccato dal genero. I "galantuomini" del paese, invidiosi e preoccupati della sua fortuna, gli erano sempre rimasti ostili. Gli altri tre romanzi non scritti dovevano narrare la sconfitta dei sentimenti negli alti ambienti sociali, la sconfitta delle ambizioni politiche tese alla conquista del potere, la sconfitta dell'artista che mira alla gloria. In questi romanzi, che pur possono sembrare molto pessimisti, vi sono degli aspetti positivi:
Senonché nell'ultimo Verga il pessimismo tende a prevalere su ogni considerazione positiva nei riguardi degli oppressi. Dopo aver capito che le conquiste risorgimentali per l'unità d'Italia erano state strumentalizzate dalla borghesia per affermare il proprio dominio a livello nazionale; dopo aver capito che la borghesia non era disposta a redistribuire le terre dei latifondisti ai contadini (vedi ad es. la repressione garibaldina dei contadini di Bronte in Sicilia); infine, dopo aver capito che il nuovo Stato unitario era diventato lo strumento nelle mani della borghesia al nord e dei latifondisti al sud, strettamente alleati -- il Verga è altresì convinto sia che le classi disagiate del sud, vittime della loro stessa ignoranza e arretratezza, non saranno capaci di modificare questo stato di cose, sia che il giovane movimento di orientamento socialista, cresciuto nelle progredite e "lontane" regioni settentrionali, non abbia intenzione di lasciarsi coinvolgere attivamente nelle preoccupazioni del Mezzogiorno. Agli inizi del '900 il pessimismo del Verga diventa così cupo ch'egli praticamente smette di scrivere. Dal 1893 sino al 1922, anno della morte, egli si ritira a Catania, dove vive in un silenzio pressoché totale, amareggiato dall'incomprensione che circondava la sua opera (e che continuerà per tutto il ventennio fascista). L'ultimo romanzo, Dal tuo al mio, del 1905, attesta questa sua involuzione politica: esso infatti descrive il voltafaccia di un sindacalista operaio che, il giorno in cui sposa la figlia del padrone, si rende conto di essere passato dall'altra parte della "barricata", e lo dimostra difendendo con le armi la miniera di zolfo che i solfatari minacciavano di far saltare. IDEOLOGIA E POETICA L'opera del Verga è una rivalutazione della serietà morale degli oppressi, ma senza paternalismi. Egli rifiuta di dipingere con tinte idilliache la vita dei campi o delle officine. La sua letteratura è tragica, la sua filosofia della vita è profondamente pessimistica. Dio è assente nei suoi romanzi e lo è pure l'idea di provvidenza. Verga non crede nemmeno in un avvenire migliore conquistato, sulla terra, con le forze degli uomini, né crede alle lotte politico-sindacali del "quarto stato" (i poveri). A lui interessano solo i "vinti", cioè quelli che "cadono lungo la strada" con eroica rassegnazione, con la dignità umile e austera di chi sa di non poter modificare il corso degli eventi. Chi cerca di deviare da questo corso viene sempre sconfitto da chi detiene il potere. Quindi, piuttosto che illudersi, è meglio rassegnarsi coscientemente. Per quanto riguarda lo stile, egli ha cercato di rendere più viva la lingua del Manzoni, liberandola da ogni residuo letterario e accademico. La prosa dei Promessi sposi, così corretta, classica e tradizionale, è assai diversa dalla sua, che è più diretta, più immediata, più coinvolgente il lettore. Gli stessi sentimenti, le reazioni psicologiche dei protagonisti dei suoi romanzi, il loro modo di vedere le cose sono semplici ed elementari. Questa prosa discorsiva accentua il realismo degli avvenimenti e nasconde meglio la presenza dello scrittore, tanto che le parti connettive dei suoi romanzi sembrano essere narrate da un personaggio del luogo. Il Verga insomma non voleva creare una prosa nazionale lavorando "a tavolino" sui migliori dialetti italiani, ma voleva creare una "prosa parlata", di cui il dialetto siciliano doveva restare parte integrante. Il tempo avrebbe detto -a suo giudizio- se questa prosa "popolare" meritava una rilevanza a livello nazionale. Ma la borghesia al potere non poteva accettare una letteratura che la criticava così duramente. L'anomalia del Verga I) Nella letteratura italiana il Verga rappresenta un'anomalia. E' troppo "borghese" per piacere alla sinistra, ma lo è troppo poco per piacere alla borghesia. Egli critica aspramente la vita borghese ma non dà speranze al proletariato. Critica altrettanto duramente l'aristocrazia, ma considera i contadini e i braccianti dei "vinti" per natura, segnati inesorabilmente dal destino. Egli in pratica ha dimostrato, senza volerlo, che non si diventa scrittori "proletari" solo perché si ha coscienza delle contraddizioni della borghesia e dell'aristocrazia. Occorre la prassi e questa gli è mancata. Di qui il suo tragico e desolante pessimismo. Di fatto il Verga proviene socialmente da un ambiente aristocratico benestante e soprattutto egli s'è formato intellettualmente negli ambienti borghesi medio-alti di Firenze e di Milano. Solo quando questi ambienti gli sono venuti a noia, egli ha deciso di ritornare a Catania, cominciando ad interessarsi delle condizioni miserevoli dei meridionali. Verga è stato uno dei pochi grandi romanzieri in Italia a comprendere il tradimento della borghesia post-unitaria, ma, nello stesso tempo, egli è stato anche uno dei pochi romanzieri che, nonostante una tale consapevolezza politica e sociale, non ha saputo intravedere nell'emergente movimento socialista una risposta alle contraddizioni del Sud. Persino la borghesia non rimase indifferente a tale movimento. Ma il suo merito maggiore non sta solo nell'aver evidenziato la miseria del Sud come "prodotto" dell'opulenza del Nord (vedi il "blocco" della borghesia con gli agrari); sta anche nell'aver creato un modo nuovo di "fare letteratura", cioè nell'aver elaborato uno stile popolare, più diretto e immediato, che meritava sicuramente, da parte della critica e delle commissioni che redigono i programmi ministeriali, un'attenzione maggiore. Verga, in realtà, è stato il primo a dimostrare che una letteratura nazionale non può essere il frutto di un lavoro "a tavolino" sui migliori (o sul migliore dei) dialetti regionali, ma è anzitutto il frutto di una letteratura popolare che, per esser tale, deve per forza essere regionale e che può aspirare a diventare nazionale solo se i valori che esprime vengono accolti positivamente dai lettori di altre regioni. Una letteratura nazionale può essere riconosciuta solo a posteriori, mettendo radici in modo lento e graduale. Essa non può imporsi né per il genio dell'autore, né per la compiacenza della critica, ma solo per il suo contenuto autenticamente umano e popolare. I governi borghesi, che fino ad oggi si sono succeduti, hanno voluto fare dei Promessi sposi il modello della letteratura nazional-popolare, ma i Malavoglia o Mastro don Gesualdo non rientrano forse in questo stesso modello? E' bene comunque intendersi, poiché anche il Verga presenta dei limiti che vanno superati: una vera alternativa al Manzoni può essere costituita non tanto da una letteratura "per" il popolo, dove il popolo è sì protagonista ma chi ne parla non ne fa parte, quanto piuttosto da una letteratura in cui il popolo sia portavoce di se stesso, cioè soggetto protagonista di storia. Una letteratura di questo genere è ancora tutta da costruire. II) Il Verga è un realista perché pone a fondamento delle vicende umane l'economia. Tuttavia, egli considera l'economia para-feudale del Mezzogiorno ottocentesco come una realtà immodificabile. Gli uomini dei suoi romanzi si sentono impotenti appunto perché "poveri" e in questa povertà si sentono "soli", divisi tra loro. A partire dal romanzo Nedda, il Verga ha cominciato a guardare con rassegnazione le sofferenze della gente povera, come prima guardava con disgusto, anche se con altrettanta rassegnazione, i limiti della borghesia e dell'aristocrazia. La differenza tra le due rassegnazioni sta nel "disgusto", che, a partire da Nedda, egli non può più provare, essendo mutato l'oggetto dei suoi interessi sociali. Il proletariato infatti merita comprensione e pietà, non disgusto, pur senza paternalismi di sorta. Se il Verga fosse stato un autentico realista avrebbe saputo trovare nello sviluppo borghese dell'economia un fattore di progresso rispetto alla stagnazione dell'economia precapitalistica degli agrari del Sud. Il suo pessimismo radicale forse è dipeso dal fatto ch'egli si aspettava dall'unificazione nazionale, ovvero dalla rivoluzione borghese, un mutamento immediato, positivo, della situazione meridionale. Egli cioè ingenuamente aveva creduto che l'unificazione avrebbe potuto comportare per i meridionali una sorta di rivoluzione democratica "dall'alto", senza un'effettiva partecipazione delle masse popolari. Sarebbe di grande interesse, in questo senso, esaminare gli articoli ch'egli scriveva quand'era giornalista a Catania. La roba Verga descrive il passaggio dal feudalesimo al capitalismo nelle campagne usando la psicologia del carattere e la fenomenologia del comportamento individuale, ma non riesce a dare una spiegazione sociale convincente di tale transizione. E' infatti inverosimile credere che un bracciante sia potuto diventare capitalista agrario attraverso un iter di tipo rurale. E' vero che Verga sottolinea atteggiamenti furbeschi come l'inganno, la menzogna, l'illegalità..., ma non è con questi atteggiamenti che un bracciante si trasforma in capitalista. Il capitalista agrario nasce proprio cacciando i contadini dalla terra, i quali si trasformano in braccianti. Un contadino cacciato dalla terra, normalmente, in città, diventava operaio, oppure si poneva in qualche modo contro le istituzioni dominanti; poteva anche diventare borghese, ma solo in condizioni molto particolari (attraverso la criminalità mafiosa o usando personali abilità commerciali). In ogni caso un barone non avrebbe mai permesso a un proprio servo della gleba di arricchirsi in quanto servo. Il servo doveva o andarsene o farsi cacciare o ribellarsi. Il processo non era graduale ma traumatico. Il racconto, a causa del pessimismo radicale del Verga, è finito in maniera negativa, drammatica, ma avrebbe potuto finire in maniera costruttiva o quanto meno problematica. Il protagonista cioè avrebbe potuto concedere un prestito a tasso agevolato a una serie di persone, scelte tra i suoi operai, che avessero mostrato capacità imprenditoriali; oppure, visto che non aveva eredi, avrebbe potuto mettere il suo patrimonio a disposizione dei lavoratori, affinché lo valorizzassero. Note biografiche a cura di Enrico Galavotti.
Le Opere
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