Giovanni Verga

Nedda

 

Edizione di riferimento: Giovanni Verga, Tutte le novelle, Introduzione, testo e note a cura di Carla Riccardi, I Meridiani, Arnoldo Mondadori editore, 1979, VI edizione 2001

 

Il focolare domestico era sempre ai miei occhi una figura rettorica, buona per incorniciarvi gli affetti più miti e sereni, come il raggio di luna per baciare le chiome bionde; ma sorridevo allorquando sentivo dirmi che il fuoco del camino è quasi un amico. Sembravami in verità un amico troppo necessario, a volte uggioso e dispotico, che a poco a poco avrebbe voluto prendervi per le mani o per i piedi, e tirarvi dentro il suo antro affumicato, per baciarvi alla maniera di Giuda. Non conoscevo il passatempo di stuzzicare la legna, né la voluttà di sentirsi inondare dal riverbero della fiamma; non comprendevo il linguaggio del cepperello che scoppietta dispettoso, o brontola fiammeggiando; non avevo l’occhio assuefatto ai bizzarri disegni delle scintille correnti come lucciole sui tizzoni anneriti, alle fantastiche figure che assume la legna carbonizzandosi, alle mille gradazioni di chiaroscuro della fiamma azzurra e rossa che lambisce quasi timida, accarezza graziosamente, per divampare con sfacciata petulanza. Quando mi fui iniziato ai misteri delle molle e del soffietto, m’innamorai con trasporto della voluttuosa pigrizia del caminetto. Io lascio il mio corpo su quella poltroncina, accanto al fuoco, come vi lascierei un abito, abbandonando alla fiamma la cura di far circolare più caldo il mio sangue e di far battere più rapido il mio cuore; e incaricando le faville fuggenti, che folleggiano come farfalle innamorate, di farmi tenere gli occhi aperti, e di far errare capricciosamente del pari i miei pensieri. Cotesto spettacolo del proprio pensiero che svolazza vagabondo intorno a voi, che vi lascia per correre lontano, e per gettarvi a vostra insaputa quasi dei soffi di dolce e d’amaro in cuore, ha attrattive indefinibili. Col sigaro semispento, cogli occhi socchiusi, le molle fuggendovi dalle dita allentate, vedete l’altra parte di voi andar lontano, percorrere vertiginose distanze: vi par di sentirvi passar per i nervi correnti di atmosfere sconosciute: provate, sorridendo, senza muovere un dito o fare un passo, l’effetto di mille sensazioni che farebbero incanutire i vostri capelli, e solcherebbero di rughe la vostra fronte.

E in una di coteste peregrinazioni vagabonde dello spirito, la fiamma che scoppiettava, troppo vicina forse, mi fece rivedere un’altra fiamma gigantesca che avevo visto ardere nell’immenso focolare della fattoria del Pino, alle falde dell’Etna. Pioveva, e il vento urlava incollerito; le venti o trenta donne che raccoglievano le olive del podere, facevano fumare le loro vesti bagnate dalla pioggia dinanzi al fuoco; le allegre, quelle che avevano dei soldi in tasca, o quelle che erano innamorate, cantavano; le altre ciarlavano della raccolta delle olive, che era stata cattiva, dei matrimoni della parrocchia, o della pioggia che rubava loro il pane di bocca. La vecchia castalda filava, tanto perché la lucerna appesa alla cappa del focolare non ardesse per nulla; il grosso cane color di lupo allungava il muso sulle zampe verso il fuoco, rizzando le orecchie ad ogni diverso ululato del vento. Poi, nel tempo che cuocevasi la minestra, il pecoraio si mise a suonare certa arietta montanina che pizzicava le gambe, e le ragazze incominciarono a saltare sull’ammattonato sconnesso della vasta cucina affumicata, mentre il cane brontolava per paura che gli pestassero la coda. I cenci svolazzavano allegramente, e le fave ballavano anch’esse nella pentola, borbottando in mezzo alla schiuma che faceva sbuffare la fiamma. Quando le ragazze furono stanche, venne la volta delle canzonette: — Nedda! Nedda la varannisa! — sclamarono parecchie. — Dove s’é cacciata la varannisa?

— Son qua — rispose una voce breve dall’angolo più buio, dove s’era accoccolata una ragazza su di un fascio di legna.

— O che fai tu costà?

— Nulla.

— Perché non hai ballato?

— Perché son stanca.

— Cantaci una delle tue belle canzonette.

— No, non voglio cantare.

— Che hai?

— Nulla.

— Ha la mamma che sta per morire, — rispose una delle sue compagne, come se avesse detto che aveva male ai denti.

La ragazza, che teneva il mento sui ginocchi, alzò su quella che aveva parlato certi occhioni neri, scintillanti, ma asciutti, quasi impassibili, e tornò a chinarli, senza aprir bocca, sui suoi piedi nudi.

Allora due o tre si volsero verso di lei, mentre le altre si sbandavano ciarlando tutte in una volta come gazze che festeggiano il lauto pascolo, e le dissero: — O allora perché hai lasciato tua madre?

— Per trovar del lavoro.

— Di dove sei?

— Di Viagrande, ma sto a Ravanusa —.

Una delle spiritose, la figlioccia del castaldo, che doveva sposare il terzo figlio di massaro Jacopo a Pasqua, e aveva una bella crocetta d’oro al collo, le disse volgendole le spalle: — Eh! non è lontano! la cattiva nuova dovrebbe recartela proprio l’uccello —.

Nedda le lanciò dietro un’occhiata simile a quella che il cane accovacciato dinanzi al fuoco lanciava agli zoccoli che minacciavano la sua coda.

— No! lo zio Giovanni sarebbe venuto a chiamarmi! — esclamò come rispondendo a se stessa.

— Chi è lo zio Giovanni?

— È lo zio Giovanni di Ravanusa; lo chiamano tutti così.

— Bisognava farsi imprestare qualche cosa dallo zio Giovanni, e non lasciare tua madre, — disse un’altra.

— Lo zio Giovanni non è ricco, e gli dobbiamo diggià dieci lire! E il medico? e le medicine? e il pane di ogni giorno? Ah! si fa presto a dire! — aggiunse Nedda scrollando la testa, e lasciando trapelare per la prima volta un’intonazione più dolente nella voce rude e quasi selvaggia: — ma a veder tramontare il sole dall’uscio, pensando che non c’è pane nell’armadio, né olio nella lucerna, né lavoro per l’indomani, la è una cosa assai amara, quando si ha una povera vecchia inferma, là su quel lettuccio! —

E scuoteva sempre il capo dopo aver taciuto, senza guardar nessuno, con occhi aridi, asciutti, che tradivano tale inconscio dolore, quale gli occhi più abituati alle lagrime non saprebbero esprimere.

— Le vostre scodelle, ragazze! — gridò la castalda scoperchiando la pentola in aria trionfale.

Tutte si affollarono attorno al focolare, ove la castalda distribuiva con paziente parsimonia le mestolate di fave. Nedda aspettava ultima, colla sua scodelletta sotto il braccio. Finalmente ci fu posto anche per lei, e la fiamma l’illuminò tutta.

Era una ragazza bruna, vestita miseramente; aveva quell’attitudine timida e ruvida che danno la miseria e l’isolamento. Forse sarebbe stata bella, se gli stenti e le fatiche non ne avessero alterato profondamente non solo le sembianze gentili della donna, ma direi anche la forma umana. I suoi capelli erano neri, folti, arruffati, appena annodati con dello spago; aveva denti bianchi come avorio, e una certa grossolana avvenenza di lineamenti che rendeva attraente il suo sorriso. Gli occhi erano neri, grandi, nuotanti in un fluido azzurrino, quali li avrebbe invidiati una regina a quella povera figliuola raggomitolata sull’ultimo gradino della scala umana, se non fossero stati offuscati dall’ombrosa timidezza della miseria, o non fossero sembrati stupidi per una triste e continua rassegnazione. Le sue membra schiacciate da pesi enormi, o sviluppate violentemente da sforzi penosi, erano diventate grossolane, senza esser robuste. Ella faceva da manovale, quando non aveva da trasportare sassi nei terreni che si andavano dissodando; o portava dei carichi in città per conto altrui, o faceva di quegli altri lavori più duri che da quelle parti stimansi inferiori al còmpito dell’uomo. La vendemmia, la messe, la raccolta delle olive per lei erano delle feste, dei giorni di baldoria, un passatempo, anziché una fatica. È vero bensì che fruttavano appena la metà di una buona giornata estiva da manovale, la quale dava 13 bravi soldi! I cenci sovrapposti in forma di vesti rendevano grottesca quella che avrebbe dovuto essere la delicata bellezza muliebre. L’immaginazione più vivace non avrebbe potuto figurarsi che quelle mani costrette ad un’aspra fatica di tutti i giorni, a raspar fra il gelo, o la terra bruciante, o i rovi e i crepacci, che quei piedi abituati ad andar nudi nella neve e sulle rocce infuocate dal sole, a lacerarsi sulle spine, o ad indurirsi sui sassi, avrebbero potuto esser belli. Nessuno avrebbe potuto dire quanti anni avesse cotesta creatura umana; la miseria l’aveva schiacciata da bambina con tutti gli stenti che deformano e induriscono il corpo, l’anima e l’intelligenza. — Così era stato di sua madre, così di sua nonna, così sarebbe stato di sua figlia. — E dei suoi fratelli in Eva bastava che le rimanesse quel tanto che occorreva per comprenderne gli ordini, e per prestar loro i più umili, i più duri servigi.

Nedda sporse la sua scodella, e la castalda ci versò quello che rimaneva di fave nella pentola, e non era molto.

— Perché vieni sempre l’ultima? Non sai che gli ultimi hanno quel che avanza? — le disse a mo’ di compenso la castalda.

La povera ragazza chinò gli occhi sulla broda nera che fumava nella sua scodella, come se meritasse il rimprovero, e andò pian pianino perché il contenuto non si versasse.

— Io te ne darei volentieri delle mie, — disse a Nedda una delle sue compagne che aveva miglior cuore; — ma se domani continuasse a piovere... davvero!... oltre a perdere la mia giornata non vorrei anche mangiare tutto il mio pane.

— Io non ho questo timore! — rispose Nedda con un triste sorriso.

— Perché?

— Perché non ho pane di mio. Quel po’ che ci avevo, insieme a quei pochi quattrini, li ho lasciati alla mamma.

— E vivi della sola minestra?

— Sì, ci sono avvezza; — rispose Nedda semplicemente.

— Maledetto tempaccio, che ci ruba la nostra giornata! — imprecò un’altra.

— To’, prendi dalla mia scodella.

— Non ho più fame; — rispose la varannisa ruvidamente, a mo’ di ringraziamento.

— Tu che bestemmi la pioggia del buon Dio, non mangi forse del pane anche tu? — disse la castalda a colei che aveva imprecato contro il cattivo tempo. — E non sai che pioggia d’autunno vuol dire buon anno? —

Un mormorio generale approvò quelle parole.

— Sì, ma intanto son tre buone mezze giornate che vostro marito toglierà dal conto della settimana! —

Altro mormorio d’approvazione.

— Hai forse lavorato in queste tre mezze, perché ti s’abbiano a pagare? — rispose trionfalmente la vecchia.

— È vero! è vero! — risposero le altre, con quel sentimento istintivo di giustizia che c’è nelle masse, anche quando questa giustizia danneggia gli individui.

La castalda intuonò il rosario, le avemarie si seguirono col loro monotono brontolio, accompagnate da qualche sbadiglio. Dopo le litanie si pregò per i vivi e per i morti, e allora gli occhi della povera Nedda si riempirono di lagrime, e dimenticò di rispondere amen.

— Che modo è cotesto di non rispondere amen? — le disse la vecchia in tuono severo.

— Pensava alla mia povera mamma che è tanto lontana; — balbettò Nedda timidamente.

Poi la castalda diede la santa notte, prese la lucerna e andò via. Qua e là, per la cucina o attorno al fuoco, s’improvvisarono i giacigli in forme pittoresche. Le ultime fiamme gettarono vacillanti chiaroscuri sui gruppi e su gli atteggiamenti diversi. Era una buona fattoria quella, e il padrone non risparmiava, come tant’altri, fave per la minestra, né legna pel focolare, né strame pei giacigli. Le donne dormivano in cucina, e gli uomini nel fienile.

Dove poi il padrone è avaro, o la fattoria è piccola, uomini e donne dormono alla rinfusa, come meglio possono, nella stalla, o altrove, sulla paglia o su pochi cenci, i figliuoli accanto ai genitori, e quando il genitore è ricco, e ha una coperta di suo, la distende sulla sua famigliuola; chi ha freddo si addossa al vicino, o mette i piedi nella cenere calda, o si copre di paglia, s’ingegna come può; dopo un giorno di fatica, e per ricominciare un altro giorno di fatica, il sonno è profondo, al pari di un despota benefico, e la moralità del padrone non è permalosa che per negare il lavoro alla ragazza la quale, essendo prossima a divenir madre, non potesse compiere le sue dieci ore di fatica.

Prima di giorno le più mattiniere erano uscite per vedere che tempo facesse, e l’uscio che sbatteva ad ogni momento sugli stipiti, spingeva turbini di pioggia e di vento freddissimo su quelli che intirizziti dormivano ancora. Ai primi albori il castaldo era venuto a spalancare l’uscio, per svegliare i pigri, giacché non è giusto defraudare il padrone di un minuto della giornata lunga dieci ore, che gli paga il suo bravo tarì, e qualche volta anche tre carlini (sessantacinque centesimi!) oltre la minestra.

— Piove! — era la parola uggiosa che correva su tutte le bocche, con accento di malumore. La Nedda, appoggiata all’uscio, guardava tristemente i grossi nuvoloni color di piombo che gettavano su di lei le livide tinte del crepuscolo. La giornata era fredda e nebbiosa; le foglie avvizzite si staccavano strisciando lungo i rami, e svolazzavano alquanto prima di andare a cadere sulla terra fangosa, e il rigagnolo s’impantanava in una pozzanghera, dove s’avvoltolavano voluttuosamente dei maiali; le vacche mostravano il muso nero attraverso il cancello che chiudeva la stalla, e guardavano la pioggia che cadeva con occhio malinconico; i passeri, rannicchiati sotto le tegole della gronda, pigolavano in tono piagnoloso.

— Ecco un’altra giornata andata a male! — mormorò una delle ragazze, addentando un grosso pan nero.

— Le nuvole si distaccano dal mare laggiù, — disse Nedda stendendo il braccio; — verso il mezzogiorno forse il tempo cambierà.

— Però quel birbo del fattore non ci pagherà che un terzo della giornata!

— Sarà tanto di guadagnato.

— Sì, ma il nostro pane che mangiamo a tradimento?

— E il danno che avrà il padrone delle olive che andranno a male, e di quelle che si perderanno fra la mota?

— È vero, — disse un’altra.

— Ma pròvati ad andare a raccogliere una sola di quelle olive che andranno perdute fra mezz’ora, per accompagnarla al tuo pane asciutto, e vedrai quel che ti darà di giunta il fattore!

— È giusto, perché le olive non sono nostre!

— Ma non sono nemmeno della terra che se le mangia!

— La terra è del padrone, to’! — replicò Nedda trionfante di logica, con certi occhi espressivi.

— È vero anche questo; — rispose un’altra, la quale non sapeva che rispondere.

— Quanto a me preferirei che continuasse a piovere tutto il giorno, piuttosto che stare una mezza giornata carponi in mezzo al fango, con questo tempaccio, per tre o quattro soldi.

— A te non ti fanno nulla tre o quattro soldi, non ti fanno! — esclamò Nedda tristemente.

La sera del sabato, quando fu l’ora di aggiustare il conto della settimana, dinanzi alla tavola del fattore, tutta carica di cartacce e di bei gruzzoletti di soldi, gli uomini più turbolenti furono pagati i primi, poscia le più rissose delle donne, in ultimo, e peggio, le timide e le deboli. Quando il fattore le ebbe fatto il suo conto, Nedda venne a sapere che, detratte le due giornate e mezza di riposo forzato, restava ad avere quaranta soldi.

La povera ragazza non osò aprir bocca. Solo le si riempirono gli occhi di lagrime.

— E laméntati per giunta, piagnucolona! — gridò il fattore, il quale gridava sempre, da fattore coscienzioso che difende i soldi del padrone. — Dopo che ti pago come le altre, e sì che sei più povera e più piccola delle altre! e ti pago la tua giornata come nessun proprietario ne paga una simile in tutto il territorio di Pedara, Nicolosi e Trecastagne! Tre carlini, oltre la minestra!

— Io non mi lamento... — disse timidamente Nedda intascando quei pochi soldi che il fattore, ad aumentare il valore, aveva conteggiato per grani. — La colpa è del tempo che è stato cattivo e mi ha tolto quasi la metà di quel che avrei potuto buscarmi.

— Pigliatela col Signore! — disse il fattore ruvidamente.

— Oh, non col Signore! ma con me che son tanto povera!

— Pàgagli intiera la sua settimana, a quella povera ragazza; — disse al fattore il figliuolo del padrone, il quale assisteva alla raccolta delle olive. — Non sono che pochi soldi di differenza.

— Non devo darle che quel ch’è giusto!

— Ma se te lo dico io!

— Tutti i proprietari del vicinato farebbero la guerra a voi e a me se facessimo delle novità.

— Hai ragione! — rispose il figliuolo del padrone, il quale era un ricco proprietario, e aveva molti vicini.

Nedda raccolse quei pochi cenci che erano suoi, e disse addio alle compagne.

— Vai a Ravanusa a quest’ora? — dissero alcune.

— La mamma sta male!

— Non hai paura?

— Sì, ho paura per questi soldi che ho in tasca; ma la mamma sta male, e adesso che non son più costretta a star qui a lavorare, mi sembra che non potrei dormire, se mi fermassi anche stanotte.

— Vuoi che t’accompagni? — le disse in tuono di scherzo il giovane pecoraio.

— Vado con Dio e con Maria — disse semplicemente la povera ragazza, prendendo la via dei campi a capo chino.

Il sole era tramontato da qualche tempo e le ombre salivano rapidamente verso la cima della montagna. Nedda camminava sollecita, e quando le tenebre si fecero profonde, cominciò a cantare come un uccelletto spaventato. Ogni dieci passi voltavasi indietro, paurosa, e allorché un sasso, smosso dalla pioggia che era caduta, sdrucciolava dal muricciolo, o il vento le spruzzava bruscamente addosso a guisa di gragnuola la pioggia raccolta nelle foglie degli alberi, ella si fermava tutta tremante, come una capretta sbrancata. Un assiolo la seguiva d’albero in albero col suo canto lamentoso; ed ella, tutta lieta di quella compagnia, gli faceva il richiamo, perché l’uccello non si stancasse di seguirla. Quando passava dinanzi ad una cappelletta, accanto alla porta di qualche fattoria, si fermava un istante nella viottola per dire in fretta un’avemaria, stando all’erta che non le saltasse addosso dal muro di cinta il cane di guardia, che abbaiava furiosamente; poi partiva di passo più lesto, rivolgendosi due o tre volte a guardare il lumicino che ardeva in omaggio alla Santa, nello stesso tempo che faceva lume al fattore, quando doveva tornar tardi dai campi.

Quel lumicino le dava coraggio, e la faceva pregare per la sua povera mamma. Di tempo in tempo un pensiero doloroso le stringeva il cuore con una fitta improvvisa, e allora si metteva a correre, e cantava ad alta voce per stordirsi, o pensava ai giorni più allegri della vendemmia, o alle sere d’estate, quando, con la più bella luna del mondo, si tornava a stormi dalla Piana, dietro la cornamusa che suonava allegramente; ma il suo pensiero correva sempre là, dinanzi al misero giaciglio della sua inferma. Inciampò in una scheggia di lava tagliente come un rasoio, e si lacerò un piede; l’oscurità era sì fitta che alle svolte della viottola la povera ragazza spesso urtava contro il muro o la siepe, e cominciava a perder coraggio e a non saper dove si trovasse. Tutt’a un tratto udì l’orologio di Punta che suonava le nove, così vicino che i rintocchi sembravano le cadessero sul capo. Nedda sorrise, quasi un amico l’avesse chiamata per nome in mezzo ad una folla di stranieri.

Infilò allegramente la via del villaggio, cantando a squarciagola la sua bella canzone, e tenendo stretti nella mano, dentro la tasca del grembiule, i suoi quaranta soldi.

Passando dinanzi alla farmacia vide lo speziale ed il notaro tutti inferraiuolati che giocavano a carte. Alquanto più in là incontrò il povero matto di Punta, che andava su e giù da un capo all’altro della via, colle mani nelle tasche del vestito, canticchiando la solita canzone che l’accompagna da venti anni, nelle notti d’inverno e nei meriggi della canicola. Quando fu ai primi alberi del diritto viale di Ravanusa, incontrò un paio di buoi che venivano a passo lento ruminando tranquillamente.

— Ohé, Nedda! — gridò una voce nota.

— Sei tu, Janu?

— Sì, son io, coi buoi del padrone.

— Da dove vieni? —  domandò Nedda senza fermarsi.

— Vengo dalla Piana. Son passato da casa tua; tua madre t’aspetta.

— Come sta la mamma?

— Al solito.

— Che Dio ti benedica! — esclamò la ragazza come se avesse temuto il peggio, e ricominciò a correre.

— Addio, Nedda! — le gridò dietro Janu.

— Addio, — balbettò da lontano Nedda.

E le parve che le stelle splendessero come soli, che tutti gli alberi, noti uno per uno, stendessero i rami sulla sua testa per proteggerla, e i sassi della via le accarezzassero i piedi indolenziti.

Il domani, ch’era domenica, venne la visita del medico, il quale concedeva ai suoi malati poveri il giorno che non poteva consacrare ai suoi poderi. Una triste visita davvero! perché il buon dottore non era abituato a far complimenti coi suoi clienti, e nel casolare di Nedda non c’era anticamera, né amici di casa ai quali si potesse annunciare il vero stato dell’inferma.

Nella giornata seguì anche una mesta funzione; venne il curato in rocchetto, il sagrestano coll’olio santo, e due o tre comari che borbottavano non so che preci. La campanella del sagrestano squillava acutamente in mezzo ai campi, e i carrettieri che l’udivano fermavano i loro muli in mezzo alla strada, e si cavavano il berretto. Quando Nedda l’udì per la sassosa viottola tirò su la coperta tutta lacera dell’inferma, perché non si vedesse che mancavano le lenzuola, e piegò il suo più bel grembiule bianco sul deschetto zoppo, reso fermo con dei mattoni. Poi, mentre il prete compiva il suo ufficiò, andò ad inginocchiarsi fuori dell’uscio, balbettando macchinalmente delle preci, guardando come trasognata quel sasso dinanzi alla soglia su cui la sua vecchierella soleva scaldarsi al sole di marzo, e ascoltando con orecchio distratto i consueti rumori delle vicinanze, ed il via vai di tutta quella gente che andava per i propri affari senza avere angustie pel capo. Il curato partì, ed il sagrestano indugiò invano sull’uscio perchè gli facessero la solita limosina pei poveri.

Lo zio Giovanni vide a tarda ora della sera la Nedda che correva sulla strada di Punta.

— Ohé! dove vai a quest’ora?

— Vado per una medicina che ha ordinato il medico —.

Lo zio Giovanni era economo e brontolone.

— Ancora medicine! — borbottò, — dopo che ha ordinato la medicina dell’olio santo! già, loro fanno a metà collo speziale, per dissanguare la povera gente! Fai a mio modo, Nedda, risparmia quei quattrini e vatti a star colla tua vecchia.

— Chissà che non avesse a giovare! — rispose tristemente la ragazza chinando gli occhi, e affrettò il passo.

Lo zio Giovanni rispose con un brontolio. Poi le gridò dietro: — Ohe! la varannisa!

— Che volete?

— Anderò io dallo speziale. Farò più presto di te, non dubitare. Intanto non lascerai sola la povera malata —.

Alla ragazza vennero le lagrime agli occhi.

— Che Dio vi benedica! — gli disse, e volle anche mettergli in mano i denari.

— I denari me li darai poi; — rispose ruvidamente lo zio Giovanni, e si diede a camminare colle gambe dei suoi vent’anni.

La ragazza tornò indietro e disse alla mamma: — C’è andato lo zio Giovanni, — e lo disse con voce dolce insolitamente.

La moribonda udì il suono dei soldi che Nedda posava sul deschetto, e la interrogò cogli occhi.

— Mi ha detto che glieli darò poi; — rispose la figlia.

— Che Dio gli paghi la carità! — mormorò l’inferma, — così resterai senza un quattrino.

— Oh, mamma!

— Quanto gli dobbiamo allo zio Giovanni?

— Dieci lire. Ma non abbiate paura, mamma! Io lavorerò! —

La vecchia la guardò a lungo coll’occhio semispento, e poscia l’abbracciò senza aprir bocca. Il giorno dopo vennero i becchini, il sagrestano e le comari. Quando Nedda ebbe acconciato la morta nella bara, coi suoi migliori abiti, le mise tra le mani un garofano che aveva fiorito dentro una pentola fessa, e la più bella treccia dei suoi capelli; diede ai becchini quei pochi soldi che le rimanevano perché facessero a modo, e non scuotessero tanto la morta per la viottola sassosa del cimitero; poi rassettò il lettuccio e la casa, mise in alto, sullo scaffale, l’ultimo bicchiere di medicina, e andò a sedersi sulla soglia dell’uscio, guardando il cielo.

Un pettirosso, il freddoloso uccelletto del novembre, si mise a cantare tra le frasche e i rovi che coronavano il muricciuolo di faccia all’uscio, e saltellando fra le spine e gli sterpi, la guardava con certi occhietti maliziosi come se volesse dirle qualche cosa: Nedda pensò che la sua mamma, il giorno innanzi, l’aveva udito cantare. Nell’orto accanto c’erano delle olive per terra, e le gazze venivano a beccarle; ella le aveva scacciate a sassate, perché la moribonda non ne udisse il funebre gracidare; adesso le guardò impassibile, e non si mosse; e quando sulla strada vicina passarono il venditore di lupini, o il vinaio, o i carrettieri, che discorrevano ad alta voce per vincere il rumore dei loro carri e delle sonagliere dei loro muli, ella diceva: — costui è il tale, quegli è il tal altro —. Allorché suonò l’avemaria, e s’accese la prima stella della sera, si rammentò che non doveva andar giù per le medicine a Punta, ed a misura che i rumori andarono perdendosi nella via, e le tenebre a calare nell’orto, pensò che non aveva più bisogno d’accendere il lume.

Lo zio Giovanni la trovò ritta sull’uscio.

Ella si era alzata udendo dei passi nella viottola, perché non aspettava più nessuno.

— Che fai costà! — le domandò lo zio Giovanni. Ella si strinse nelle spalle, e non rispose.

Il vecchio si assise accanto a lei, sulla soglia, e non aggiunse altro.

— Zio Giovanni, — disse la ragazza dopo un lungo silenzio, — adesso non ho più nessuno, e posso andar lontano a cercar lavoro; partirò per la Roccella, ove dura ancora la raccolta delle olive, e al ritorno vi restituirò i denari che ci avete imprestati.

— Io non sono venuto a domandarteli i tuoi denari! — le rispose burbero lo zio Giovanni.

Ella non disse altro, ed entrambi rimasero zitti ad ascoltare l’assiolo che cantava. Nedda pensò che era forse quello stesso di due sere innanzi, e sentì gonfiarsi il cuore.

— E del lavoro ne hai? — domandò finalmente lo zio Giovanni.

— No, ma qualche anima caritatevole troverò, che me ne darà.

— Ho sentito dire che ad Aci Catena pagano le donne abili per incartare le arance in ragione di una lira al giorno, senza minestra, e ho subito pensato a te; tu hai già fatto quel mestiere nello scorso marzo, e devi esser pratica. Vuoi andare?

— Magari!

— Bisognerebbe trovarsi domani all’alba al giardino del Merlo, all’angolo della scorciatoia che conduce a Sant’Anna.

— Posso anche partire stanotte. La mia povera mamma non ha voluto costarmi molti giorni di riposo.

— Sai dove andare?

— Sì, poi mi informerò.

— Domanderai all’oste che sta sulla strada maestra di Valverde, al di là del castagneto ch’è sulla sinistra della via. Cercherai di massaro Vinirannu, e dirai che ti mando io.

— Ci andrò, — disse la povera ragazza.

— Ho pensato che non avresti avuto del pane per la settimana, — disse lo zio Giovanni cavando un grosso pan nero dalla profonda tasca del suo vestito, e posandolo sul deschetto.

La Nedda si fece rossa, come se facesse lei quella buona azione. Poi, dopo qualche istante riprese:

— Se il signor curato dicesse domani la messa per la mamma, io gli farei due giornate di lavoro, alla raccolta delle fave.

— La messa l’ho fatta dire — rispose lo zio Giovanni.

— Oh! la povera morta pregherà anche per voi! — mormorò la ragazza coi grossi lagrimoni agli occhi.

Infine, quando lo zio Giovanni se ne andò, e udì perdersi in lontananza il rumore de suoi passi pesanti, chiuse l’uscio, e accese la candela. Allora le parve di trovarsi sola al mondo, ed ebbe paura di dormire in quel povero lettuccio ove soleva coricarsi accanto alla sua mamma.

 

Le ragazze del villaggio sparlarono di lei perché andò a lavorare subito il giorno dopo la morte della sua vecchia, e perché non aveva messo il bruno; e il signor curato la sgridò forte, quando la domenica successiva la vide sull’uscio del casolare, mentre si cuciva il grembiule che aveva fatto tingere in nero, unico e povero segno di lutto, e prese argomento da ciò per predicare in chiesa contro il mal uso di non osservare le feste e le domeniche.

La povera fanciulla, per farsi perdonare il suo grosso peccato, andò a lavorare due giorni nel campo del curato, acciò dicesse la messa per la sua morta il primo lunedì del mese; e la domenica, quando le fanciulle, vestite dei loro begli abiti da festa, si tiravano in là sul banco, o ridevano di lei, e i giovanotti, all’uscire di chiesa, le dicevano facezie grossolane, ella si stringeva nella sua mantellina tutta lacera, e affrettava il passo, chinando gli occhi, senza che un pensiero amaro venisse a turbare la serenità della sua preghiera — ovvero diceva a se stessa a mo’ di rimprovero che si fosse meritato: — Son così povera! — oppure, guardando le sue due buone braccia: — Benedetto il Signore che me le ha date! — e tirava via sorridendo.

 

Una sera — aveva spento da poco il lume — udì nella viottola una nota voce che cantava a squarciagola, e con la melanconica cadenza orientale delle canzoni contadinesche: Picca cci voli ca la vaju’ a viju. A la mi’ amanti di l’arma mia!...

— È Janu! — disse sottovoce, mentre il cuore le balzava dal petto come un uccello spaventato, e cacciò la testa fra le coltri.

 E il domani, quando aprì la finestra, vide Janu col suo bel vestito nuovo di fustagno, nelle cui tasche cercavano entrare per forza le sue grosse mani nere e incallite al lavoro, con un bel fazzoletto di seta nuova fiammante che faceva capolino con civetteria dalla scarsella del farsetto, il quale si godeva il bel sole d’aprile appoggiato al muricciolo dell’orto.

— Oh, Janu! — diss’ella, come se non ne sapesse proprio nulla.

— Salutamu! — esclamò il giovane col suo più grosso sorriso.

— O che fai qui?

— Torno dalla Piana —.

La fanciulla sorrise, e guardò le lodole che saltellavano ancora sul verde per l’ora mattutina.

— Sei tornato colle lodole.

— Le lodole vanno dove trovano il miglio, ed io dove c’è del pane.

— O come?

— Il padrone m’ha licenziato.

— O perché?

— Perché avevo preso le febbri laggiù, e non potevo più lavorare che tre giorni per settimana.

— Si vede, povero Janu!

— Maledetta Piana! — imprecò Janu stendendo il braccio verso la pianura.

— Sai, la mamma!... — disse Nedda.

— Me l’ha detto lo zio Giovanni —.

Ella non aggiunse altro, e guardò l’orticello al di là del muricciolo. I sassi umidicci fumavano; le gocce di rugiada luccicavano su di ogni filo d’erba; i mandorli fioriti sussurravano lieve lieve e lasciavano cadere sul tettuccio del casolare i loro fiori bianchi e rosei che imbalsamavano l’aria; una passera, petulante e sospettosa nel tempo istesso, schiamazzava sulla gronda, e minacciava a suo modo Janu, che aveva tutta l’aria, col suo viso sospetto, di insidiare al suo nido, del quale spuntavano tra le tegole alcuni fili di paglia indiscreti. La campana della chiesuola chiamava a messa.

— Come fa piacere a sentire la nostra campana! — esclamò Janu.

— Io ho riconosciuto la tua voce stanotte, — disse Nedda facendosi rossa, e zappando con un coccio la terra della pentola che conteneva i suoi fiori.

Egli si volse in là, ed accese la pipa, come deve fare un uomo.

— Addio, vado a messa! — disse bruscamente la Nedda, tirandosi indietro dopo un lungo silenzio.

— Prendi, ti ho portato codesto dalla città — le disse il giovane sciorinando il suo bel fazzoletto di seta.

— Oh! com’è bello! ma questo non fa per me!

— O perché? se non ti costa nulla! — rispose il giovanotto con logica contadinesca.

Ella si fece rossa, come se la grossa spesa le avesse dato idea dei caldi sentimenti del giovane, gli lanciò, sorridente, un’occhiata fra carezzevole e selvaggia, e scappò in casa; e allorché udì i grossi scarponi di lui sui sassi della viottola, fece capolino per accompagnarlo cogli occhi mentre se ne andava.

Alla messa le ragazze del villaggio poterono vedere il bel fazzoletto di Nedda, dove c’erano stampate delle rose che si sarebbero mangiate, e su cui il sole, scintillante dalle invetriate della chiesuola, mandava i suoi raggi più allegri. E quand’ella passò dinanzi a Janu, il quale stava presso il primo cipresso del sacrato, colle spalle al muro e fumando nella sua pipa intagliata, ella sentì gran caldo al viso, e il cuore che le faceva un gran battere in petto, e sgusciò via alla lesta. Il giovane le tenne dietro fischiettando, e la guardava a camminare svelta e senza voltarsi indietro, colla sua veste nuova di fustagno che faceva delle belle pieghe pesanti, le sue brave scarpette, e la sua mantellina fiammante. — La povera formica, or che la mamma stando in paradiso non l’era più a carico, era riuscita a farsi un po’ di corredo col suo lavoro. — Fra tutte le miserie del povero c’e anche quella del sollievo che arrecano le perdite più dolorose al cuore!

Nedda sentiva dietro di sè, con gran piacere o gran sgomento (non sapeva davvero che cosa fosse delle due), il passo pesante del giovanotto, e guardava sulla polvere biancastra dello stradale, tutto diritto e inondato di sole, un’altra ombra, la quale di tanto in tanto si distaccava dalla sua. Tutt’a un tratto, quando fu in vista della sua casuccia, senza alcun motivo, si diede a correre come una cerbiatta spaventata. Janu la raggiunse, ella si appoggiò all’uscio, tutta rossa e sorridente, e gli allungò un pugno sul dorso. — To’! —

Egli ripicchiò con galanteria un po’ manesca.

— O quanto l’hai pagato il tuo fazzoletto? — domandò Nedda togliendoselo dal capo per sciorinarlo al sole e contemplarlo in aria festosa.

— Cinque lire, — rispose Janu un po’ pettoruto.

Ella sorrise senza guardarlo; ripiegò accuratamente il fazzoletto, studiando i segni che avevano lasciato le pieghe, e si mise a canticchiare una canzonetta che non soleva tornarle in bocca da lungo tempo.

La pentola rotta, posta sul davanzale, era ricca di garofani in boccio.

— Che peccato, — disse Nedda, — che non ce ne siano di fioriti! — e spiccò il più grosso bocciolo e glielo diede.

— Che vuoi che ne faccia se non è sbocciato? — diss’egli senza comprenderla, e lo buttò via. Ella si volse in là.

— E adesso dovrai andare a lavorare? — gli domandò dopo qualche secondo.

Egli alzò le spalle: — Dove andrai tu domani!

— A Bongiardo.

— Del lavoro ne troverò; ma bisognerebbe che non tornassero le febbri.

— Bisognerebbe non star fuori la notte a cantare dietro gli usci! — gli diss’ella tutta rossa, dondolandosi sullo stipite dell’uscio con certa aria civettuola.

— Non lo farò più, se tu non vuoi —.

Ella gli diede un buffetto, e scappò dentro.

— Ohé! Janu! — chiamò dalla strada lo zio Giovanni

— Vengo! — gridò Janu; e alla Nedda: — Verrò anch’io a Bongiardo, se mi vogliono.

— Ragazzo mio, — gli disse lo zio Giovanni quando fu sulla strada, — la Nedda non ha più nessuno, e tu sei un bravo giovinotto; ma insieme non ci state proprio bene. Hai inteso?

— Ho inteso, zio Giovanni; ma se Dio vuole, dopo la messe, quando avrò da banda quel po’ di quattrini che ci vogliono, insieme ci staremo benissimo —.

Nedda, che aveva udito da dietro il muricciolo, si fece rossa, sebbene nessuno la vedesse.

L’indomani, prima di giorno, quand’ella si affacciò all’uscio per partire, trovò Janu, col suo fagotto infilato al bastone.

— O dove vai? — gli domandò.

— Vengo anch’io a Bongiardo, a cercar lavoro —.

I passerotti, che si erano svegliati alle voci mattutine, cominciarono a pigolare dietro il nido. Janu infilò al suo bastone anche il fagotto di Nedda, e s’avviarono alacremente, mentre il cielo si tingeva all’orizzonte delle prime fiamme del giorno, e il venticello diveniva frizzante.

 

A Bongiardo c’era proprio del lavoro per chi ne voleva. Il prezzo del vino era salito, e un ricco proprietario faceva dissodare un gran tratto di chiuse da mettere a vigneti. Le chiuse rendevano 1200 lire all’anno in lupini ed olio; messe a vigneto avrebbero dato, fra cinque anni, 12 o 13 mila lire, impiegandovene solo 10 o 12 mila; il taglio degli ulivi avrebbe coperto metà della spesa. Era un’eccellente speculazione, come si vede, e il proprietario pagava, di buon grado, una gran giornata ai contadini che lavoravano al dissodamento, 30 soldi agli uomini, e 20 alle donne, senza minestra; è vero che il lavoro era un po’ faticoso, e che ci si rimettevano anche quei pochi cenci che formavano il vestito dei giorni di lavoro; ma Nedda non era abituata a guadagnar 20 soldi tutti i giorni.

Il soprastante s’accorse che Janu, riempiendo i corbelli di sassi, lasciava sempre il più leggiero per Nedda, e minacciò di cacciarlo via. Il povero diavolo, tanto per non perdere il pane, dovette accontentarsi di discendere dai 30 ai 20 soldi.

Il male era che quei poderi quasi incolti mancavano di fattoria, e la notte uomini e donne dovevano dormire alla rinfusa nell’unico casolare senza porta, e sì che le notti erano piuttosto fredde. Janu diceva d’aver sempre caldo, e dava a Nedda la sua casacca di fustagno perché si coprisse per bene. La domenica poi tutta la brigata si metteva in cammino per vie diverse.

Janu e Nedda avevano preso le scorciatoie, e andavano attraverso il castagneto chiacchierando, ridendo, cantando a riprese, e facendo risuonare nelle tasche i grossi soldoni. Il sole era caldo come in giugno; i prati lontani cominciavano ad ingiallire, le ombre degli alberi avevano qualche cosa di festevole, e l’erba che vi cresceva era ancora verde e rugiadosa.

Verso il mezzogiorno sedettero al rezzo, per mangiare il loro pan nero e le loro cipolle bianche. Janu aveva anche del vino, del buon vino di Mascali che regalava a Nedda senza risparmio, e la povera ragazza, la quale non c’era avvezza, si sentiva la lingua grossa, e la testa assai pesante. Di tratto in tratto si guardavano e ridevano senza saper perché.

— Se fossimo marito e moglie si potrebbe tutti i giorni mangiare il pane e bere il vino insieme; — disse Janu con la bocca piena, e Nedda chinò gli occhi, perché egli la guardava in un certo modo.

Regnava il profondo silenzio del meriggio; le più piccole foglie erano immobili; le ombre erano rade; c’era per l’aria una calma, un tepore, un ronzio di insetti che pesava voluttuosamente sulle palpebre. Ad un tratto una corrente d’aria fresca, che veniva dal mare, fece sussurrare le cime più alte de’ castagni.

— L’annata sarà buona pel povero e pel ricco, — disse Janu, — e se Dio vuole alla messe un po’ di quattrini metterò da banda... e se tu mi volessi bene!... — e le porse il fiasco.

— No, non voglio più bere. — disse ella colle guance tutte rosse.

— O perché ti fai rossa? — diss’egli ridendo.

— Non te lo voglio dire.

— Perché hai bevuto!

— No!

— Perché mi vuoi bene? —

Ella gli diede un pugno sull’omero e si mise a ridere.

Da lontano si udì il raglio di un asino che sentiva l’erba fresca. — Sai perché ragliano gli asini? — domandò Janu.

— Dillo tu che lo sai.

— Sì che lo so; ragliano perché sono innamorati, — disse egli con un riso grossolano, e la guardò fiso.

Ella chinò gli occhi come se ci vedesse delle fiamme, e le sembrò che tutto il vino che aveva bevuto le montasse alla testa, e tutto l’ardore di quel cielo di metallo le penetrasse nelle vene.

— Andiamo via! — esclamò corrucciata, scuotendo la testa pesante.

— Che hai?

— Non lo so, ma andiamo via!

— Mi vuoi bene? —

Nedda chinò il capo.

— Vuoi essere mia moglie? —

Ella lo guardò serenamente, e gli strinse forte la mano callosa nelle sue mani brune, ma si alzò sui ginocchi che le tremavano per andarsene. Egli la trattenne per le vesti, tutto stravolto, e balbettando parole sconnesse, come non sapendo quel che si facesse.

Allorché si udì nella fattoria vicina il gallo che cantava, Nedda balzò in piedi di soprassalto, e si guardò attorno spaurita.

— Andiamo via! Andiamo via! — disse tutta rossa e frettolosa.

 

Quando fu per svoltare l’angolo della sua casuccia si fermò un momento trepidante, quasi temesse di trovare la sua vecchiarella sull’uscio deserto da sei mesi.

Venne la Pasqua, la gaia festa dei campi coi suoi falò giganteschi, colle sue allegre processioni fra i prati verdeggianti e sotto gli alberi carichi di fiori, colla chiesuola parata a festa, gli usci delle casipole incoronati di festoni, e le ragazze colle belle vesti nuove d’estate. Nedda fu vista allontanarsi piangendo dal confessionario, e non comparve fra le fanciulle inginocchiate dinanzi al coro che aspettavano la comunione. Da quel giorno nessuna ragazza onesta le rivolse più la parola, e quando andava a messa non trovava posto al solito banco, e bisognava che stesse tutto il tempo ginocchioni: — se la vedevano piangere, pensavano a chissà che peccatacci, e le volgevano le spalle inorridite: — e quelle che le davano da lavorare, ne approfittavano per scemarle il prezzo della giornata.

Ella aspettava il suo fidanzato che era andato a mietere alla Piana, raggruzzolare i quattrini che ci volevano a mettere su un po’ di casa, e a pagare il signor curato.

Una sera, mentre filava, udì fermarsi all’imboccatura della viottola un carro da buoi, e si vide comparir dinanzi Janu pallido e contraffatto.

— Che hai? — gli disse.

— Son stato ammalato. Le febbri mi ripresero laggiù, in quella maledetta Piana; ho perso più di una settimana di lavoro, ed ho mangiato quei pochi soldi che avevo fatto —.

Ella rientrò in fretta, scucì il pagliericcio, e volle dargli quel piccolo gruzzolo che aveva legato in fondo ad una calza.

— No, — diss’egli. — Domani andrò a Mascalucia per la rimondatura degli ulivi, e non avrò bisogno di nulla. Dopo la rimondatura ci sposeremo —.

Egli aveva l’aria triste facendole questa promessa, e stava appoggiato allo stipite, col fazzoletto avvolto attorno al capo, e guardandola con certi occhi luccicanti.

— Ma tu hai la febbre! — gli disse Nedda.

— Sì, ma ora che son qui mi lascerà; ad ogni modo non mi coglie che ogni tre giorni —.

Ella lo guardava senza parlare, e sentiva stringersi il cuore, vedendolo così pallido e dimagrato. — E potrai reggerti sui rami alti? — gli domandò.

— Dio ci penserà! — rispose Janu. — Addio, non posso far aspettare il carrettiere che mi ha dato un posto sul suo carro dalla Piana sin qui. A rivederci presto! — e non si moveva. Quando finalmente se ne andò, ella lo accompagnò sino alla strada maestra, e lo vide allontanarsi, senza una lagrima, sebbene le sembrasse che stesse a vederlo partire per sempre; il cuore ebbe un’altra strizzatina, come una spugna non spremuta abbastanza — nulla più, ed egli la salutò per nome alla svolta della via.

 

Tre giorni dopo udì un gran cicaleccio per la strada. Si affacciò al muricciolo, e vide in mezzo ad un crocchio di contadini e di comari Janu disteso su di una scala a piuoli, pallido come un cencio lavato, e colla testa fasciata da un fazzoletto tutto sporco di sangue. Lungo la via dolorosa, prima di giungere al suo casolare, egli, tenendola per mano, le narrò come, trovandosi così debole per le febbri, era caduto da un’alta cima, e s’era concio in quel modo. — Il cuore te lo diceva: — mormorava con un triste sorriso. Ella l’ascoltava coi suoi grand’occhi spalancati, pallida come lui e tenendolo per mano. Il domani egli morì.

Allora Nedda, sentendo muoversi dentro di sé qualcosa che quel morto le lasciava come un triste ricordo, volle correre in chiesa a pregare per lui la Vergine Santa. Sul sacrato incontrò il prete che sapeva la sua vergogna, si nascose il viso nella mantellina e tornò indietro derelitta.

Adesso, quando cercava del lavoro, le ridevano in faccia, non per schernire la ragazza colpevole, ma perché la povera madre non poteva più lavorare come prima. Dopo i primi rifiuti, e le prime risate, ella non osò cercare più oltre, e si chiuse nella sua casipola, al pari di un uccelletto ferito che va a rannicchiarsi nel suo nido. Quei pochi soldi raccolti in fondo alla calza se ne andarono l’un dopo l’altro, e dietro ai soldi la bella veste nuova, e il bel fazzoletto di seta. Lo zio Giovanni la soccorreva per quel poco che poteva, con quella carità indulgente e riparatrice senza la quale la morale del curato è ingiusta e sterile, e le impedì così di morire di fame. Ella diede alla luce una bambina rachitica e stenta; quando le dissero che non era un maschio pianse come aveva pianto la sera in cui aveva chiuso l’uscio del casolare dietro al cataletto che se ne andava, e s’era trovata senza la mamma; ma non volle che la buttassero alla Ruota.

— Povera bambina! Che incominci a soffrire almeno il più tardi che sia possibile! — disse.

Le comari la chiamavano sfacciata, perché non era stata ipocrita, e perché non era snaturata. Alla povera bambina mancava il latte, giacché alla madre scarseggiava il pane. Ella deperì rapidamente, e invano Nedda tentò spremere fra i labbruzzi affamati il sangue del suo seno. Una sera d’inverno, sul tramonto, mentre la neve fioccava sul tetto, e il vento scuoteva l’uscio mal chiuso, la povera bambina, tutta fredda, livida, colle manine contratte, fissò gli occhi vitrei su quelli ardenti della madre, diede un guizzo, e non si mosse più.

Nedda la scosse, se la strinse al seno con impeto selvaggio, tentò di scaldarla coll’alito e coi baci, e quando s’accorse che era proprio morta, la depose sul letto dove aveva dormito sua madre, e le s’inginocchiò davanti, cogli occhi asciutti e spalancati fuor di misura.

— Oh! benedette voi che siete morte! — esclamò. — Oh! benedetta voi, Vergine Santa! che mi avete tolto la mia creatura per non farla soffrire come me!