Giovanni Verga

Racconti e bozzetti

 

UN’ALTRA INONDAZIONE

 

Mi rammento, nell’ultima eruzione dell’Etna, di avere assistito ad uno di quei semplici episodi che vi colpiscono più profondamente della catastrofe istessa. Era lo spettacolo di un casolare, in fondo alla valle, che la lava stava per seppellire. Davanti al casolare, c’era un cortiletto, cinto da un muricciuolo, il quale aveva arrestato per poco la corrente, e le scorie gli si ammonticchiavano addosso adagio adagio; sembrava si gonfiassero, come un rettile immane irritato, e scoppiavano in larghi crepacci infuocati. Allora il casolare ne era improvvisamente rischiarato, e si vedevano le finestre spalancate, una tettoia accanto alla porta, e un albero nel cortiletto. L’immensa valle era tutta nera di scorie fumanti, che si squarciavano qua e là, e avvampavano nelle tenebre, e le scorie irrompevano da quei crepacci, con un acciottolio prolungato e sinistro, come di un’immensa distesa di tegole che rovinasse. Una delle finestre del casolare si era illuminata, e dava un aspetto di cosa viva a quella casuccia abbandonata in mezzo a tanta desolazione; ma ciò che colpiva maggiormente era quel cortiletto deserto e sgombro d’ogni cosa, senza un cane, né una gallina, né un pezzo di legno, quasi spazzato da un vento furioso. Di tanto in tanto vi si vedeva comparire un uomo, il quale sembrava nero nel riflesso ardente della lava, e piccin piccino per la grande distanza. Egli si affacciava sotto la tettoia, e guardava. Dal poggio dove eravamo, si scorgevano anche col cannocchiale altri uomini piccini e neri, che formicolavano sul tetto, e ne levavano le tegole, i travicelli, le imposte, tutto ciò che potevasi strappare di dosso alla povera casa, la quale pareva sempre più desolata a misura che la spogliavano nuda prima di abbandonarla. E intanto dal poggio gli spettatori, seccati dalla cenere che li accecava, e dalle emanazioni che toglievano il respiro, s’impazientivano del lungo tempo che ci metteva la lava a soverchiare l’altezza del muricciuolo, e calcolavano, coll’orologio in mano, il tempo che ci avrebbe messo a circondare la casuccia. Tutt’a un tratto l’albero accanto alla porta avvampò come una fiaccola, e la lava si rovesciò nel cortile.

 

E nella immensa valle nera non si vide altro che il rosseggiare qua e là delle lave che irrompevano, accompagnate dall’acciottolio sinistro delle scorie che precipitavano. Alle volte, mentre la corrente infuocata si ammonticchiava a poco a poco per 50 metri d’altezza, non si udiva né si vedeva più nulla, tranne il fruscio soffocato della pioggia di cenere, che stampavasi come uno sterminato nuvolone nero sul pallido cielo di luna nuova, e le fiamme che si accendevano di tratto in tratto nella valle, e indicavano il corso della corrente di fuoco. Ah! quanti alberi se ne andavano in quelle fiamme! e quanti filari di vigne zappati, potati, accarezzati, guardati cogli occhi assorti nei castelli in aria della povera gente! e quante cannucce con le immagini di sant’Agata miracolosa, che non erano valse ad arrestare il fuoco! e quante avemarie biascicate colle labbra tremanti!

E noi che correvamo ad assistere a quel triste spettacolo in brigate chiassose! e le strade della montagna che erano popolate di notte come alla vigilia di una festa, e i cocchieri che facevano scoppiettare allegramente le fruste perché non avevano né vigne né case, e la loro vigna era quella provvidenza dell’eruzione che avrebbe dovuto non finir più, se voleva Dio! e le bettole affollate e fumanti, e i campi lungo le siepi, e le storielle dettagliate del disastro che si raccontavano per renderne più piccante lo spettacolo a coloro che spendevano 20 lire per andarlo a vedere! — Quante ricchezze aveva ingoiate il fuoco, quanti campi aveva distrutto, quanto erano distanti i boschi del barone A. e quanto potevano valere i nocciuoleti del marchese B. minacciati dell’eruzione. — Insomma i particolari più desolanti, come il pepe della pietanza, che vi facevano sospirare dal piacere pensando che non ci avevate nemmeno un palmo di terra da quelle parti.

 

Un tale, il giorno prima, vi possedeva una vigna che gli fruttava 3000 lire all’anno, una ricchezza, sebbene non avesse altro, per sé e per la sua numerosa famiglia. Tutt’a un tratto vennero a dirgli che il fuoco si divorava la sua ricchezza, e lo lasciava povero e pazzo, come si dice. Egli accorse a cavallo dell’asino, e trovò il vignaiuolo affaccendato a levare le imposte del palmento, e le tegole del tetto, le doghe delle botti, tutto ciò che si poteva salvare, come avevano fatto quei del casolare. Il padrone, giungendo alla porta senz’uscio del palmento, dinanzi alla sua vigna che gli fumava e gli crepitava sotto gli occhi, filare per filare, domandò al vignaiuolo con la faccia bianca; — Perché avete levato le tegole e le imposte, e le doghe delle botti? — Per salvarle dal fuoco — rispose il contadino. — Il fuoco fra tre ore sarà qui. — Lasciate stare ogni cosa, — disse il padrone. — Io non ho più bisogno di palmento, né avrò più cosa metterci nelle botti. Io non ho più nulla . — Egli non aveva nemmeno la zappa da camparsi la vita, come il suo vignaiuolo. Poi baciò il cancello della vigna, che ancora rimaneva in piedi, e se n’andò, tirandosi dietro l’asinello.

Io non ho assistito a quella scena, ma essa mi è rimasta stampata dinanzi agli occhi più nettamente del casolare che ho visto distruggere dalle lave. E quando mi avviene di sentire di qualche altra catastrofe, penso a quei poveretti che si sono voltati a guardare da lontano la vigna inondata e la casuccia distrutta, ed hanno detto; — Io non ho più cosa metterci nelle botti quest’anno, né nel granaio. Io non ho più nulla, — come quel tale che aveva baciato per l’ultima volta il cancello della sua vigna, e se n’era andato tirandosi dietro l’asinello.

CASAMICCIOLA

Quando giunse la notizia del disastro che aveva colpito Ischia mi parve di rivedere l’isoletta, quale mi era sfilata dinanzi agli occhi attraverso gli alberi del battello a vapore, in una bella sera d’autunno.

La mensa era ancora apparecchiata sul ponte, e gli ultimi raggi del sole indoravano il marsala nei bicchieri. Dei viaggiatori alcuni s’erano già levati, e passeggiavano su e giù. Altri, coi gomiti sulla tovaglia, guardavano l’immensa distesa di mare che imbruniva sotto i caldi colori del tramonto su cui Ischia stampavasi verde e molle, e dove la riva s’insenava come una coppa. Casamicciola, bianca, sembrava posare su di un cuscino di verdura.

A tavola due che tornavano dal Giappone discorrevano di seme di bachi. Una coppia misteriosa era andata a rannicchiarsi a ridosso del tubo del vapore. Un giovane che non aveva mangiato quasi, e stava seduto in un canto, pallido, col bavero del paletò rialzato, guardava l’isoletta con occhi pensierosi e lenti, in fondo alle occhiaie incavate.

Tutt’a un tratto sul profilo dell’isola che spiccava dalla luce diffusa del crepuscolo, apparve netto e distinto un fabbricato, quasi sorgesse d’incanto, e l’ultimo raggio di sole scintillò sui vetri, come l’accendesse.

Quel dettaglio del paesaggio che si animava all’improvviso apparve così chiaro e luminoso come se si fosse avvicinato d’un tratto.

Tutti si volsero ad ammirare lo spettacolo, e i negozianti di cartoni giapponesi tacquero un momento. Soltanto la coppia ch’era andata a nascondersi dietro il fumajuolo non si mosse, e gli occhi del giovane pallido che teneva il bavero rialzato non si animarono neppure.

Così succede ogni dì; e due sole preoccupazioni bastano per sé stesse, l’amore e la malattia, l’origine e la fine della vita. Quasi cotesta riflessione fosse venuta istintivamente a tutti in quel momento, si cominciò a parlare dell’azione benefica che hanno le acque e l’aria di Casamicciola, e dei malati che vanno a cercarvi la salute o la speranza. Invece il giovane dal paletò, pensava probabilmente, come si fa delle cose che si desiderano, alle gioie tranquille e ignote che dovevano esserci in quell’isoletta verde, fra quelle casette bianche, dietro quei vetri scintillanti. E quando i vetri si spensero, e la casa si dileguò ad un tratto quasi al mutare di una lanterna magica, e i contorni dell’isoletta sfumarono nel mare livido, il suo volto si offuscò.

Adesso quella casetta bianca è forse distrutta, e degli occhi senza lagrime e senza sorriso ne contemplano le rovine, dalle occhiaie incavate, su dei visi pallidi.

I DINTORNI DI MILANO

L’impressione che si riceve dall’aspetto del paesaggio prima d’arrivare a Milano, per quaranta o cinquanta chilometri di ferrovia, è malinconica. La pianura vi fugge dinanzi verso un orizzonte vago, segnato da interminabili file di gelsi e di olmi scapitozzati, uniformi, che non finiscono mai; cogli stessi fossati diritti fra due file di alberelli, colle medesime cascine sull’orlo della strada, in mezzo al verde pallido delle praterie. Verso sera, allorché sorge la nebbia, il sole tramonta senza pompa, e il paesaggio si vela di tristezza.

D’inverno un immenso strato di neve a perdita di vista, costantemente rigato da sterminate file d’alberi nudi, tirate colla lenza, a diritta, a sinistra, dappertutto, sino a perdersi nella nebbia. Di tratto in tratto, al fischio improvviso della macchina, vi si affaccia allo sportello, e scappa come una visione un campanile di mattoni, un fienile isolato e solitario. Sicché finalmente appena nella sconfinata pianura bianca, fra tutte quelle linee uniformi, vi appare del cielo smorto la guglia bianca del Duomo, il vostro pensiero si rifugia frettoloso nella vita allegra della grande città, in mezzo alla folla che si pigia sui marciapiedi, davanti ai negozi risplendenti di gas, sotto la tettoia sonora della Galleria, nella luce elettrica del Gnocchi, nella fantasmagoria di uno spettacolo alla Scala, dove sboccia come in una serra calda la festa della luce, dei colori e delle belle donne.

I dintorni di Milano sono modellati sulle linee severe di questo paesaggio. Basta salire sul Duomo in un bel giorno di primavera per averne un’impressione complessiva. È un’impressione grandiosa ma calma. Al di là di quella vasta distesa di tetti e di campanili che vi circonda, tutta allo stesso livello, si spiega la pianura lombarda, di un verde tranquillo, spianata col cilindro, spartita colle seste, solcata da canali diritti, da strade più diritte ancora, da piantagioni segnate col filo, senza un’ondulazione di terreno e senza una linea capricciosa in gran parte. L’occhio la percorre tutta in un tratto sino alla cinta delle Alpi ed alle colline della Brianza. E se rimaneste un giorno intero lassù non ne avreste un’impressione nuova, né scoprireste un altro dettaglio. È la stessa cosa percorrendo i dintorni immediati della città. Sempre le stesse strade più o meno diritte, fiancheggiate dagli stessi alberi; il medesimo fossato da una parte, o il medesimo canale dall’altra, lo stesso muro grigio, rotto di tanto in tanto dal portone di una fabbrica, sormontato da un fumaiuolo nero che sporca il cielo azzurro, gli stessi orti chiusi tra filari di gelsi e divisi in scompartimenti di cavoli e lattughe senza mutar di prospettiva. Sicché la cosa più difficile per un viandante pare che dovrebbe essere di riconoscere la sua strada fra quelle altre cento strade che si somigliano tutte, e per un proprietario di ritrovare il suo podere fra tutti quei poderi fatti sul medesimo stampo.

Nondimeno il milanese ha la passione della campagna. Bisogna vederlo a San Giorgio o in qualche altra festa campestre per farsene un’idea. Appena la stagione comincia a farsi mite e il ciglio dei fossati a verdeggiare, tutti corrono fuori del dazio, a godersi il verde sminuzzato a quadretti, e ad empirsi i polmoni di polvere. Codesto è il motivo di tante osterie di campagna, di tante isole, di tanti giardini piantati in botti da petrolio. Allora le strade melanconiche, i ciglioni intristiti, i quadrelli di verdura pallida formicolano di un’altra vita, risuonano di organetti, di chitarre, di allegria chiassosa e bonaria.

L’uniformità del fondo dà alcunché di piccante alla varietà delle macchiette. Qui il paesaggio, in un orizzonte sconfinato, è circoscritto costantemente fra due file di alberi, lungo due muri polverosi, fra le sponde di un canale diritto, smorto, che sembra immobile, ombreggiato dacché spuntano i primi germogli sinché cadano le ultime foglie, e i raggi del sole non hanno più colori né festa. La mucca che leva il muso grondante d’acqua, un gruppo di contadine che lavorano nei campi, e mettono sul prato la nota gaia delle loro gonnelle rosse, la carretta che va lentamente per la stradicciuola, un desco zoppicante sotto il pergolato di un’osteria, coll’operaio in maniche di camicia, e la sua donna coi gomiti sulla tovaglia e gli occhi imbambolati, due cavalli da lavoro accanto a una carretta colle stanghe in aria, davanti a una porta chiusa, sono tutti i quadri della campagna milanese, su di un fondo uniforme. Lo spettacolo grandioso di un tramonto bisogna andare a vederlo in Piazza d’Armi, su quella bella spianata che corre dal Castello all’Arco del Sempione; e tuttavia l’effetto più grandioso gli viene dalle linee stupende del monumento, sul fondo opalino, e da quei cavalli di bronzo che si stampano come una visione del bello dell’arte, in alto, nella gloria degli ultimi raggi.

Ma la ineffabile melanconia di quell’ora non l’ho mai provata come in una delle Certose dei dintorni di Milano. Colà, in mezzo a mirabili pagine d’arte, la luce muore nelle invetriate dipinte, vi sorprende uno strano sentimento della vanità dell’arte e della vita, un incubo del nulla che vi si stringe attorno da ogni parte, dalla campagna silenziosa e uniforme. Io non ho mai passata un’ora più tetra come quella che provai in uno di quei cortiletti di verdura cupa della Certosa di Pavia, chiusi fra quattro mura di cimitero, e allietati da quattro file di bosso, nel caldo meriggio d’aprile, in cui non si udiva il ronzare delle mosche.

Di cotesta impressione alquanto melanconica del paesaggio milanese ne avete un effetto anche ai Giardini pubblici, dove mettendo sottosopra il tranquillo suolo lombardo sono riesciti a rendere un po’ del vario e pittoresco che è la bellezza della campagna. Il popolo però li ha cari, e nei giorni di festa e di sole ci reca in folla la sua allegria e la sua vita. Tutto ciò infine prova che Milano è la città più città d’Italia. Tutte le sue bellezze, tutte le sue attrattive sono nella sua vita gaia ed operosa, nel risultato della sua attività industre. Il più bel fiore di quella campagna ricca ma monotona è Milano; un prodotto in cui l’uomo ha fatto più della natura. Che importa a Milano se non ha che 3 o 400 metri di passeggiata, da Porta Venezia al ponte della via Principe Umberto? I suoi equipaggi non sono splendidi quanto quelli della Riviera di Chiaja e delle Cascine? e la prima domenica di quaresima, quando il sole scintilla sugli arnesi lucenti, e sui colori delicati, per tutte quelle file di cocchi e di cavalli, in mezzo a quella folla elegante che formicola nei viali, col fondo maestoso di quelle Alpi ancora bianche di neve, il cielo trasparente e gli ippocastani già picchettati di verde, lo spettacolo non è bello? e quando il teatro alla Scala comincia ad essere troppo caldo anche per le spalle nude, e l’alba imbianca troppo presto sulle finestre delle sale da ballo, Milano non ha la sua Brianza per farvi trottare i suoi equipaggi? non ha i laghi per rovesciarvi la piena della sua vita elegante? non ha Varese per farvi correre i suoi cavalli? Le passeggiate e i dintorni di Milano sono un po’ lontani, è vero; ma sono fra i più belli del mondo.

Io mi rammento ancora della prima gita che feci al Lago di Como, in una giornata soffocante di luglio, dopo una di quelle estati di lavoro e di orizzonti afosi che vi mettono in corpo la smania del verde e dei monti.

La prima torre sgangherata che scorsi in cima alla montagna posta a guardia del lago mi si stampò dinanzi agli occhi come un faro di pace, di riposo, di freschi orizzonti. Il paesaggio era ancora uniforme. Tutt’a un tratto, dalle alture di Gallarate, vi si svolge davanti un panorama che è una festa degli occhi. Allorché vi trovate per la prima volta sul ponte del battello a vapore, rimanete un istante immobile, e colla sorpresa ingenua del piacere stampata in faccia, né più né meno di un contadino che capiti per sorpresa in una sala da ballo. L’ammirazione è ancora d’impressione, vaga e complessiva. Non è lo spettacolo grandioso del Lago Maggiore, né quello un po’ teatrale del Lago di Lugano visto dalla Stazione. È qualche cosa di più raccolto e penetrante. Tutto il Lago di Como a prima vista è in quel bacino da Cernobbio a Blevio, e la prima idea netta che vi sorga è di sapere da che parte se n’esca.

A poco a poco comincia a sorgere in voi come un’esuberanza di vita, quasi un’esultanza di sensazioni e di sentimenti, a misura che lo svariato panorama si va svolgendo ai vostri occhi. Sentite che il mondo è bello, e se mai non l’avete avuta, principia a spuntare in voi, come in un bambino, la curiosità di vederlo tutto, così grande e ricco e vario, di là di quelle cime brulle, oltre quei boschi che si arrampicano come un’immensa macchia bruna sui dossi arditi, dopo quei campanili che sorgono da un folto d’alberi, di quelle cascate che biancheggiano un istante nella fenditura di un burrone, di quelle ville posate come un gingillo, su di un cuscino di verdura, che vi creano in mente mille fantasie diverse, e la vostra immaginazione popola di figure leggiadre, dietro le stoie calate ed i vetri scintillanti, in quelle barchette leggiere che battono il remo silenzioso come un’ala, e si dileguano mollemente, con un cinguettìo lontano di voci fresche, strascinandosi dietro delle bandiere a colori vivaci. È come un sogno in mezzo a cui passate, e vi sfila dinanzi Villa d’Este elegante, Carate civettuolo, Torno severo, e Balbianello superbo. Poi come tutt’a un tratto vi si allarga dinanzi la Tremezzina quasi un riso di bella fanciulla, nell’ora in cui sulla Grigna digradano le ultime sfumature di un tramonto ricco di colori e Bellagio comincia a luccicare di fiammelle, e il ramo di Colico si fa smorto, di là di Varenna, e Lenno e San Giovanni vi mandano le prime squille dell’Avemaria, voi vi chinate sul parapetto a mirare le stelle che ad una ad una principiano a riflettersi sulla tranquilla superficie del lago, e appoggerete la fronte sulla mano sentendovi sorgere in petto del pari ad una ad una tutte le cose care e lontane che ci avete in cuore, e dalle quali non avreste voluto staccarvi mai.

NELLA STALLA (INONDAZIONE)

Le mucche, lungo le rastrelliere, si voltavano indietro, a fiutare quel tramestìo che si era fatto attorno alla lettiera della Bigia. La pioggia batteva contro le impannate; e le bestie scuotevano le catene sonnolente: di quando in quando, nell’ombra cui non arrivavan mai a dissipare le lanterne polverose, si udiva il tonfo di quelle che si accovacciavano, ad una ad una nello strame alto, dei muggiti brevi e sommessi, un ruminare svogliato, il fruscìo della paglia. Di tanto in tanto le mucche inquiete levavano il capo, tutte in una volta.

La Bigia aveva ai piedi un vitellino, ancora tutto molle e lucente nella lettiera, e lo leccava e lo lisciava muggendo sotto voce. — Di fuori si udiva un rombo che cresceva, dappertutto. Poco dopo accadde un gran trambusto nelle stanze superiori: dei passi precipitosi, e dei mobili che strascinavano sul pavimento. Uno spalancare di usci e di finestre e delle voci che chiamavano nel cortile.

Quindi si udirono delle schioppettate e delle strida di donne che piangevano. Il gallo, in cima alla scala, saettava il capo, spaventato, chiocciando. Di fuori, il cane uggiolava.

Ad un tratto le bestie cominciarono a muggire tutte in una volta, fiutando verso l’uscio, cogli occhi spaventati, e tiravano forte le catene, come cercassero di strapparle.

Per tutta la corsìa oscura corse un volo pesante e schiamazzante di galline. Immediatamente si udì il rombo vicino che scuoteva i muri, e sembrava montare verso le finestre. La Bigia allora levava il muso fumante verso l’impannate, e metteva un muggito lungo e doloroso. Poi ritornava a fiutare il vitellino, raccoccolato colle zampe sotto il ventre.

Il cane non uggiolava più. Della gente correva pel cortile, delle voci affannate, delle grida. L’uscio si spalancò all’improvviso, ed entrò un’ondata d’acqua sporca. Allora nella stalla successe un trambusto, un rovinìo, tutta una fila di mucche avea strappata l’asse, alla quale erano legate, e scappava all’impazzata trascinandosela dietro, inciampando le une colle altre, mentre le galline fuggivano schiamazzando fra le loro gambe.

Nella corte su di un palo, ardeva un fascio di legna secca, e illuminava tutto intorno l’acqua nera, che luccicava dove cadevano le scintille. — Le bestie irruppero dalla stalla come una valanga, rompendo, scavalcando ogni cosa, sguazzando nella pozzanghera, la Bigia in mezzo. Poi tornò indietro, levando il muso, con lunghi muggiti, verso le finestre della cascina. Andava e veniva per la corte colla coda ritta; infine si decise di rientrare nella stalla. Il vitellino era là coll’acqua al collo, la madre tentava di spingerlo dolcemente verso l’uscio, scalpicciando in mezzo all’acqua. Ad ogni momento levava il capo verso il soffitto come per chiamare aiuto. Giunse un’altra ondata che gorgogliò al posto dove era il vitello, poi si agitò disperatamente e ribollì; la lanterna era sempre accesa nella stalla nera che sembrava barcollare. Infine l’onda si allargò quieta ed immobile dappertutto. Allora la Bigia scappò muggendo al vento, colla coda ritta, l’occhio pazzo di terrore, e si prese nell’oscurità profonda.

PASSATO! (RICORDI)

Qui, quando la città è più festosa e la folla più allegra, penso alla campagna lontana, laggiù, fra i miei monti, dietro il mare azzurro.

Penso ai sentieri verdeggianti, alle siepi odorose, alle lodole che brillano al sole, alla canzone solitaria che sale dai campi, monotona e triste come un ricordo d’altre patrie.

Penso a quell’ora dolce del tramonto, quando l’ultimo raggio indora le nevi della montagna, e il fumo svolgesi dai casolari, e le campane degli armenti risuonano nella valle, e la campagna si nasconde lentamente nella notte.

Penso a quell’ora calda di luglio quando il sole innonda la pianura riarsa, e il cielo fosco di caldura sembra pesare sulla terra, e il grillo nelle stoppie canta la canzone dell’ora silenziosa.

Penso alle notti profonde, alle lucciole innamorate, al coro dei vendemmiatori, al rumore lontano dei carri che sfilano nella pianura odorosa di fieno, ai cespugli immobili e neri come spettri nel raggio misterioso della luna.

Penso alle lunghe notti d’inverno spazzate dal vento e dagli acquazzoni, agli alberi che gemono nel temporale, e vi raccontano fantastiche storie cui sorridono gli occhi dei vostri cari, raccolti intorno alla lampada domestica.

Penso alla mia fanciullezza, che sembra sia tutta trascorsa in quella nota campagna; penso a quei colli, a quei valloni, a quei sentieri, a quella fontana, davanti alla quale è passata tanta gente, che veniva da lontano, a quel cespuglio su cui moriva il sole d’autunno quel giorno in cui vi passaste anche voi, con me, per l’ultima volta.

Quest’ultimo raggio di sole che mi è rimasto in cuore come un addio, come la vaga angoscia dei giorni spensierati dell’infanzia, che ci fa presentire le amarezze della vita, con un senso di vaga e dolorosa dolcezza.

Penso a quel sasso in cui ho segnato il primo amore de’ miei tredici anni, quando non conoscevo ancora altri dolori all’infuori di quelli creatimi dalla mia fantasia.

Ora che il dolore so cosa sia, il dolore vero, quelle che vi immerge le unghie nella carne viva e vi ricerca le fibre del cuore, quello che vi divorava le lagrime, le sensazioni e le idee, quando la morte entrò nella vostra casa...; penso ancora a quei luoghi, a quelle scene serene che vi tornano dinanzi agli occhi feroci come un’ironia nell’ora terribile di quell’angoscia; penso al muricciolo di quella fontana al quale si sono appoggiati quelli che non son più, a quell’erba che si è piegata sotto i loro passi, a quelle pietre sulle quali si sono messi a sedere.

Ora l’erba è morta anch’essa, ed è risorta tante volte. Il sole l’ha bruciata, e la pioggia fatta rinascere. Quando le nuove gemme hanno verdeggiato nella siepe lì accanto, ne’ bei giorni d’aprile, essi non sapevano più nulla di voi, miei cari!

Io che sono rimasto, penso a quell’erba che non è più la stessa, a quelle pietre che dureranno ancora, mentre voi siete passati su di loro — e per sempre; penso che dell’altra erba spunta e muore fra le pietre della vostra fossa; e quando penso che lo strazio feroce di questo dolore non è più così vivo dentro di me, che ogni strappo dell’anima lentamente va rimarginandosi, mi viene uno sconforto amaro, un senso desolato del nulla, d’ogni cosa umana, se non dura nemmeno il dolore, e vorrei sdraiarmi su quell’erba, sotto quei sassi, anch’io nel sonno, nel gran sonno.

Il Carnevale fallo con chi vuoi; — Pasqua e Natale falli con i tuoi

Così andava dicendo compar Menico, a ogni conoscente che incontrava, salutandolo "Viva Maria!" — Il paesetto rideva là al sole, col campanile aguzzo fra il grigio degli ulivi.

— Cosa ci portate a casa, per le feste? — gli chiese il vetturale che gli andava accanto sul basto dondoloni.

— Quel che dà la provvidenza, — rispose compare Menico ridendo fra di sé. La bisaccia per la salita non gli pesava, tanto aveva il cuore leggiero; e gli facevano allegria financo i passeri che si lisciavano le penne, gonfi dal freddo, sulle spine della siepe. La strada ora gli sembrava lunga, dopo tanto tempo.

— E vostra moglie che vi aspetta? — gli disse il vetturale. Compare Menico fece cenno di sì, ridendo sempre fra di sé.

La casa era in fondo al paese. Passò la fontana; passò la piazza; passò la beccheria, dove c’era gente che comprava carne, e da per tutto, a ogni cantonata, gli altarini parati a festa, cogli aranci e le ostie colorate. Nelle case il suono delle cornamuse metteva allegria.

In fondo al vicoletto del Gallo si udiva un gridìo di ragazzi che giuocavano alle fossette, colle mani rosse. Compar Menico guardava la finestra, da lontano, per vedere se sua moglie l’aspettava. Ma la finestra era chiusa. C’erano comare Lucia a sciorinare il bucato, e comare Narcisa, che filava al ballatoio per fare la gugliata lunga. Lo sciancato andava zoppiconi a raccogliere le galline che fuggivano schiamazzando.

Compare Menico posò la bisaccia, che gli pesava, e sedette ad aspettare accanto all’uscio chiuso, senza accorgersi delle vicine che ridevano dei fatti suoi, nascoste dietro l’impannata. Aspetta e aspetta, infine lo zio Sandro mosso a compassione gli si accostò passo passo, col fare indifferente e le mani dietro la schiena.

Dopo un pezzetto che stavano seduti accanto colle gambe larghe, guardando di qua e di là, lo zio Sandro domandò;

— Che aspettate la zia Betta, compar Menico?

— Sissignore, vossignoria. Son venuto a fare il Natale.

E vedendo che avrebbe aspettato fino al giorno del giudizio, lo zio Sandro si decise a dirgli:

— O che non sapete nulla, dunque?

— Nossignore, zio Sandro. Che cosa devo sapere?

— Che vostra moglie se n’è andata con Vito Scanna, e si è portata via la chiave —.

Compare Menico lo guardò stupefatto, grattandosi la testa. Quindi balbettò:

— E dove se n’è andata?

— Io non lo so, compare Menico. Credevo che lo sapeste.

— Nossignore, io non sapevo niente, — rispose il poveraccio ripigliando la bisaccia. — Non sapevo che mi aspettava a casa questo bel regalo, la festa di Natale —.

Tutto il vicinato si scompisciava dalle risa, vedendo compare Menico che s’era fatta dare una scala per entrare dal tetto in casa sua, peggio di un ladro. Egli stette rintanato in casa, festa e vigilia, senza aver animo di mettere il naso fuori.

— Questa ch’è la maniera di fare, servo di Dio? — gli diceva comare Senzia la vedova. — La grazia di Dio che lasciate andare a male, tali giornate! e il crepacuore che covate per dar gusto ai vostri nemici! —

Egli non sapeva che dire, in verità; ora il compassionarlo che faceva la zia Senzia lo inteneriva, in mezzo a tutto quel ben di Dio che c’era in casa.

— Che gli mancava, gnà Senzia, ditelo voi? che gli mancava a quella buona donna per farmi questo tradimento?

— Noialtre donne, compare Menico, ci meritiamo il castigo di Dio, — rispondeva comare Senzia.

Quella era veramente una buona donna, che aveva cura del poveraccio, abbandonato al pari di un orfano, e gli teneva la chiave della casa allorché compare Menico se ne fu tornato in campagna come se le feste per lui non ci fossero mai state.

Lì, nel maggese, gli giungevano altre notizie della moglie; — L’abbiamo vista alla fiera di Mililli. — Vito Scanna se l’è portata a incartar limoni nei giardini di Francofonte —. Tutti gli facevano la predica: — La moglie giovane non va lasciata sola, compare Menico! —

Infine il torto cadeva su di lui. In giugno, colla schiera dei mietitori assoldati dal capoccia, giunse al podere anche Vito Scanna, tutto cencioso, senz’altro bene che la sua falce.

— Guardate che non voglio scene fra di voi! — raccomandò il fattore. — Ciascuno al suo lavoro, com’è dovere —.

Sicché gli toccò anche vedersi Scanna mattina e sera sotto il naso, mangiare e bere e cantare come la cicala, nelle ore calde, per non sentire il sole. Un giorno che il sole gli scaldò la testa a tutti e due, e volevano bucarsi la pancia colla forca, per amore di quella donna, il fattore li minacciò di scacciarli su due piedi, e convenne aver pazienza. Certo è che Betta doveva fare la mala vita, ora che Vito Scanna l’aveva abbandonata.

Il Signore l’aveva castigata, come soleva dire comare Senzia. Zio Menico portava a casa vino, olio, frumento, al par della formica, nella casa senza padrona, dove la zia Senzia si godeva tutto.

— Solo come un cane non posso starci — diceva lui, il poveraccio, per scolparsi. — Chi baderebbe alla casa e mi farebbe cuocere la minestra? —

Il curato, servo di Dio, cercava di toccargli il cuore, e far cessare lo scandalo, ora che sua moglie era sola e pentita. — Aprite le braccia e perdonatele, come al figliuol Prodigo, adesso che s’avvicina il Santo Natale.

— Come posso vedermela di nuovo in casa, vossignoria, dopo il tradimento che mi ha fatto? — rispondeva lo zio Menico — senza pensare a Vito Scanna, che stavamo per ammazzarci colla forca, Dio libero, alla messe! —

Dall’altro canto comare Senzia, che mangiava la foglia, ogni volta che vedeva lo zio Menico parlare col curato, gli faceva un piagnisteo, lamentandosi che volevano abbandonarla nuda e cruda in mezzo a una strada.

— Allora vedrete che il castigo di Dio vi sta sul capo,— conchiudeva il prete. — E la gente a sparlare di lui, che si ostinava a vivere nel peccato, come una bestia.

Il castigo di Dio lo colse infatti a Ragoleti con una febbre perniciosa, peggio di una schioppettata. Lo portarono in paese su di un mulo, che aveva già la morte sulla faccia. Sua moglie allora corse insieme al viatico, colla faccia pallida e torva, e siccome la zia Senzia era ancora lì, umile e atterrita, si mise i pugni nei fianchi, e la scacciò di casa sua come una mala bestia.

Ora ella era la padrona. Compare Menico in un angolo non parlava e non contava più. Appena chiusi gli occhi, la vigilia dell’Immacolata, sua moglie si vestì di nero da capo a piedi, senza perdere un minuto.

E coi vicini, i quali si erano accostati, in occasione della disgrazia, parlavano spesso del morto, poveretto, che aveva lavorato tutta la vita per fare un po’ di roba, e grazie a Dio, lasciava la vedova nell’agiatezza. Ma quando Vito Scanna tornava a ronzarle attorno, vestito di nuovo, come un moscone, essa si faceva la croce e gli diceva:

— Via di qua, pezzente! —

CARNE VENDUTA (FRAMMENTO I)

Su per la china, dalla città addormentata nell’alba chiara, saliva di tratto in tratto come il muggito del mare in burrasca, e nel porto la fregata si copriva di fumo. Tornavano indietro contadini frettolosi, spingendosi innanzi le loro bestie, spiando il cammino con occhio inquieto. Una comare che s’era fermata un momento a metter giù la cesta e ripigliar fiato, disse stendendo il braccio a indicar laggiù, verso la città; — Vengono!... I soldati!... La cavalleria!... —

Più tardi erano passati dei soldati infatti: cacciatori neri, fantaccini di cui i calzoni rossi facevano come una ondata di sangue, nella via bianca, e per tutta la strada, di qua e di là, non si udiva altro che il tintinnio delle armi, in cadenza col passo grave e uniforme della moltitudine. Neppure le galline s’erano arrischiate nell’aia, dinanzi al cortile, per paura del sacco e fuoco che dicevano. Compare Nunzio, colle spalle appoggiate al muricciuolo, stava a guardia del suo orto. Alla Lia, che s’era affacciata all’uscio, venuta l’ora di mangiare un boccone, aveva risposto di no, col capo.

Era più di un’ora che passavano dei soldati, prima in folla, come un armento in mezzo al polverone; poi a gruppi di dieci o venti, alla spicciolata, col fucile a bandoliera, e il chepì sulla nuca, stanchi e trafelati. Alcuni chiedevano dell’acqua, rossi pavonazzi dall’arsura. Uno, stanco morto, s’era messo a sedere all’ombra del mandorlo, col fucile fra le gambe. — Vieni tanto da lontano? — gli chiese compare Nunzio. L’altro levò il capo e lo guardò cogli occhi azzurri come il fiore del lino, senza comprendere e senza rispondere. Aveva i capelli biondi come le spighe, e una carnagione bianca di fanciullo o di donna, dove non era arsa dal sole, sotto il collarino di cuoio, e l’uniforme sbottonata. — Di dove sei? Non capisci nemmeno la lingua del paese dove vai? Che ci sei venuto a fare? — L’altro balbettò infine qualche parola che nessuno capiva, come una povera bestiola che non sa dire il suo bisogno. — Poveretto! — disse la Lia. — Carne venduta! — ribatté compare Nunzio. Il soldato guardava lui, guardava la ragazza, e non aggiungeva altro. Poi si alzò da sedere, affibbiò il cinturone, rimise in spalla il suo fucile, e se ne andò cogli altri.

— Va, vattene alla malora! — gli gridò dietro lo zio Nunzio. — Tu e chi ti paga! —

Colla notte scese un gran silenzio, come succede al cadere del vento, prima della burrasca. Solo, per quanto era lungo lo stradale, correva un uggiolìo di cani. A un tratto, dietro le imposte sbarrate del casolare si udì un gran tramestìo, della gente in folla che correva, e delle voci alte e brusche, in mezzo al mormorio. Verso l’alba si udirono pure le prime fucilate, e il cannone laggiù, e le campane che suonavano a martello, nella città. Poi cannonate e fucilate scoppiarono vicine, furiose, come un uragano. Il muro del pollaio crollò a un tratto, e sulle tegole le palle fioccavano fitte come una grandinata. Insieme grida e urli disperati, dei colpi tirati a bruciapelo, dalle imposte, dalle finestre, e degli altri colpi che rispondevano, dalle siepi, da ogni albero vicino, dalla cresta dei muri, di lassù in cima allo stradale. Una tempesta di colpi che squassò casa e villaggio, per più di un’ora, e si lasciò dietro uno strascico di gemiti e di rantoli, quando si dileguò infine, laggiù, verso il piano, distruggendo e bruciando ove passava, e i cadaveri sparsi, per la via, fra i seminati, lungo i muri, dietro le siepi. All’ombra del mandorlo, in una pozza di sangue, giaceva il giovanetto biondo del giorno innanzi, colle braccia aperte, e cogli occhi azzurri spalancati che sembravano guardare l’azzurro del cielo che non era quello del suo paese. — Poveretto! — tornò a dire la Lia. — Carne venduta! — tornò a ribattere compare Nunzio. — Che ci veniva a fare? —

OLOCAUSTO

Il sermone del Paradiso chiudeva il corso degli esercizi spirituali per le monache, dopo la sottile analisi delle colpe recondite, la fosca descrizione del gastigo, e gli anatemi contro il peccato. La voce del predicatore adesso levavasi alta ed esultante nel sole di Pasqua che scintillava sulle dorature della vòlta. Giù in chiesa una dozzina di donnicciuole pregavano inginocchiate dinanzi all’altare della Vergine splendente di ceri. Dietro la grata del coro biancheggiavano confusamente i soggoli e i visi delle suore impalliditi nella clausura e nella penitenza; luccicavano degli occhi perduti nell’estasi di visioni luminose. La voce del missionario, grave e calda, scendeva ai toni bassi come una confidenza e una carezza, saliva trionfante come un inno, modulava i pensieri e le aspirazioni di tutte quelle vergini tentate e sbigottite dal mondo, andava a ricercare le più intime fibre di quei cuori chiusi nelle sacre bende e li faceva palpitare avidamente, aveva tutti gli slanci, le trepidazioni, come dei sospiri d’amore e d’estasi che morivano ai piedi della croce, e facevano intravvedere quasi un balenìo d’ali iridescenti, dei brividi di carni rosse di cherubini che passavano fra nuvole trasparenti, in un’aureola, in ampie distese color di cielo e color d’oro. L’uomo era tutto in quella voce, in quell’inno, in quella letizia: il viso scorgevasi appena, come trasfigurato, nell’ombra del pulpito: degli occhi luminosi, ardenti di fede, pieni di visioni celesti, il viso pallido ed ascetico, immateriale, il segno austero della tonsura sui capelli giovanili, e la mano bianca ed immacolata che accennava, essa sola in luce, fuori della nicchia scura, e pareva stendersi verso le peccatrici, per sollevarle al cielo in un amplesso di perdono e d’affetto, dopo essersi levata minacciosa a fulminare, dopo esser scesa a frugare nei cuori, dopo aver sentito palpitare la tentazione, e i fremiti e le ribellioni della carne. Ora quella mano facevasi lieve, morbida e carezzevole, al pari della voce che addolcivasi in un mormorio affettuoso e in una promessa soave, nella quale passava l’alito di carità, di pietà immensa, e si umiliava, e implorava, e facevasi complice delle povere anime turbate e derelitte, per incoraggiarle, sostenerle e attirarle a Dio.

Egli parlava rivolto al coro, quasi attratto anch’esso dalla simpatia ardente che vi destava, come indovinasse i cuori che rispondevano al suo e gli si aprivano sitibondi. Ivi pure delle teste tonsurate si chinavano, delle labbra tremavano commosse, dei veli candidi palpitavano sui seni incontaminati, sfiorati soltanto dai fremiti che sorgono nelle tenebre, nelle notti irrequiete e paurose.

Il sagrestano s’alzò d’appiè del pulpito e andò ad accendere le altre candele dell’altare — una gloria di fiammelle tremolanti, delle gocce di splendore nella mattinata limpida, nella gaiezza primaverile, nel profumo dei fiori, e dell’incenso, nel suono grave dell’organo che levavasi dalle profondità misteriose del coro — un canto alato, un inno di grazie e di gloria che irrompeva, e libravasi al cielo trionfante. Fra le monache raccolte nel coro una voce bella e fresca intuonò il Tantum ergo, una voce di donna che sembrava cantare la giovinezza, l’amore, il sogno, l’azzurro, i fiori e la vita in quell’inno religioso, una voce che aveva le lagrime, le estasi, i sorrisi, la gioventù, la bellezza, e li deponeva trepidante ai piedi dell’altare. Il frate orava in ginocchio, a capo chino. Sembrava che a quel canto si riverberassero delle sfumature rosee sulla nuca bianca d’adolescenza casta e prolungata. Egli stesso sembrava quasi immateriale fra le pieghe molli della tonaca nera che cadeva sui gradini dell’altare, simile a una veste muliebre. Poi sorse un’irradiazione abbagliante, una gloria di raggi che ecclissò, nell’aureola dell’ostensorio gemmato, l’uomo segnato dalla stola d’oro, come in una croce, sulla cotta spumante di trine al pari di un abito da sposa. Tutte le teste si prostrarono umiliate. Le campane squillarono alte in un coro festante, insieme alle note gravi e sonore dell’organo che vibravano sotto la vòlta dorata della chiesa, irrompevano dalle finestre dipinte, pel cielo azzurro, nella primavera gioconda, sotto il sole radioso, mentre il canto moriva in un’estasi sovrumana.

Suor Crocifissa era rimasta accanto all’organo, colle mani ancora erranti sulla tastiera, le labbra palpitanti dell’inno d’amore mistico, smarrita nella visione interiore di quegli splendori che alla sua anima esaltata dalla musica, dalla reclusione, dal digiuno, dal cilicio e dalla preghiera in comune recavano uno sgomento e una dolcezza nuova della vita, un turbamento degli echi e degli incitamenti che venivano a morire sotto le mura del convento colla canzone errante, coi rumori del vicinato, colla carezza della luna che entrava dall’alta inferriata a posarsi sul lettuccio verginale, e tentava il mistero pudibondo della cella solitaria, e vi destava le curiosità timide, le fantasie vagabonde, e gli scrupoli vaghi che annidavansi nell’ombra. Ella sentiva ora una bramosia calda, un desiderio quasi carnale di mondarsi l’anima e lo spirito di quelle allucinazioni peccaminose, di difendersi dal mondo, di agguerrirsi contro la tentazione, coll’aiuto di quell’uomo il quale discerneva la via della colpa coi suoi occhi luminosi e insinuavasi nei cuori colla voce soave, e scacciava il peccato colla mano fine e bianca, e parlava dell’amore eterno con accento d’innamorato. — Accostarsi a lui, essere con lui, confondersi in lui. — Avere in quell’uomo purificato dal sacramento il consigliere, il conforto, l’amico, il confidente, il perdono, la verità e la luce.

Una suora la toccò dolcemente sull’omero. Ella si scosse e la seguì vacillante, cogli occhi ardenti di fede, premendo colle mani ceree in croce sul seno il cuore che sbigottiva di passione, chinando il capo umiliato dall’umana miseria nella benda che chiudeva le trecce recise e incorniciava il viso di un’altra bianchezza fredda, sbattuta, stirata d’angoscia, illividita da vigilie tormentose, come la sua povera anima sbigottita, e chiese alla superiora il permesso di confessarsi al predicatore. L’abbadessa acconsentì, alzando la mano a benedire, leggendo forse le stesse inquietudini dolorose che avevano provato la sua giovinezza trascorsa in quelle sopracciglia lunghe e nere, e in quelle labbra dolorose, soltanto vive nel viso mortificato ed austero.

 

Lì, attraverso la grata del confessionario che aguzzava il mistero e rincorava la coscienza trepida, aprirgli il cuore, tutto, coi suoi palpiti, colle sue angosce, coi suoi pudori. Parlare d’amore con lui, parlargli di colpa e di perdizione, dirgli quello che non avrebbe osato mormorare sottovoce, da sola ai piedi del crocifisso muto. Udire il suono delle proprie parole, colla fronte ardente su quella grata di ferro dietro alla quale lui ascolatava. Intravvedere il riflesso dei propri pensieri, delle proprie allucinazioni, dei propri terrori su quella testa china. Vedere arrossire e impallidire del pari quella fronte pura. Aver lì, sotto il proprio anelito concitato, quel sacerdote, quella coscienza, quell’intelletto, quella carità, quel turbamento, quella simpatia, quell’uomo, trasfigurato dall’abito sacro, legato dal vingolo indissolubile, segnato fra gli eletti dalla tonsura religiosa, agitato al par di lei, sbigottito come lei, palpitante come lei, mentre la sua voce velata giungeva a lei come attraverso la lapide di una tomba, per consigliare, per sorreggere, per consolare, sommessa, confidente, nel mistero, nel segreto delizioso della chiesa deserta. E vederlo trasalire sotto l’angoscia della passione di lei, vederlo arrossire al riverbero della sua vergogna, vedere il soffio infocato della sua parola che implorava aiuto, scendere sino in fondo a quell’uomo, e destare in lui le debolezze istesse perché ne sentisse la miseria e la pietà, e rifiorirgli nei brividi e nei pallori improvvisi della carne. Sentirsi ricercare nel più profondo del cuore e delle viscere da quella voce dolce e insinuante, nel più vivo, nel segreto, dove s’annidiavano e rabbrividivano pensieri, e desideri, e palpiti ch’essa stessa non avrebbe neppur sospettato — la confusione dolce, il rossore trepido, l’abbandono del pudore violentato, — e darsi tutta a lui come in uno smarrimento dei sensi. Scorgere in lui, nel consigliere, nel ministro, nel forte, la simpatia di quelle debolezze, la pietà di quei dolori; sentire nella sua voce commossa l’eco e il fascino trepido delle medesime inquietudini — con una tenerezza trepida per lui, maggiormente esposto al pericolo, votato alla lotta col peccato, solo nel mondo, nella tentazione, senza altra difesa che quell’abito che trasfigurava l’uomo, e il segno irrevocabile della tonsura come un marchio di castità sui capelli castagni — con un desiderio materno di stringersi al petto quel viso impallidito e sbattuto dalle medesime angosce, quel capo tonsurato in cui bollivano le stesse febbri, onde proteggerlo e difenderlo.

Egli ascoltava, raccolto, colla fronte velata dalla mano scarna, gli occhi vaghi e senza sguardo. Passavano dei bagliori di tanto in tanto in quegli occhi pensierosi, dei fantasmi che dileguavano dinanzi alla volontà severa, dei fremiti destati da quell’alito caldo e profumato di donna, dalla parola commossa, l’ombra di tutte le debolezze, di tutte le miserie, di tutti gli allettamenti, le effusioni, le dolcezze, gli struggimenti, le febbri, le estasi. Con lei rifaceva l’aspro cammino che avevano fatto verso la croce quei piedi delicati. Rivedeva la fanciullezza orfana, l’adolescenza precocemente mortificata, la gioventù scolorita e trista, l’agonia dello spirito e le ribellioni della carne. Fuori, il cielo azzurro, l’ampia distesa dei prati, il sole, la luce, l’aria, lontani, perduti in un mondo al quale non apparteneva più, — e la gran rinunzia di tutto ciò, per sempre! — E pensava qual eco dovesse avere fra quelle mura claustrali la voce di un uomo o il pianto di un bambino, il brivido che doveva portarvi il profumo di un fiore o un raggio di primavera. — Le fronti pallide che trasalivano, gli occhi spenti che guardavano lontano, le labbra che mormoravano inconsciamente accenti desolati. E sentiva una grande pietà, una gran tenerezza per quelle povere anime che tendevano al cielo strette ancora fra i legami della terra, per quei gemiti d’agonia che si tradivano nella parola esitante e supplichevole, per quelle mani tremanti che si stendevano verso di lui, che cercavano di aggrapparsi alla vita, al perdono, alla fede, alla costanza, e che doveva lasciarsi cadere ai piedi, insensibile e inesorabile, che doveva abbandonare dietro di sé continuando sulla terra il suo pellegrinaggio d’apostolato, e scuotendo i lembi della sua tonaca perché non si contaminasse a quella seduzione, — anch’esso solitario, legato soltanto dalla disciplina dell’ordine alla fredda famiglia religiosa, senza genitori, senza casa, senza patria, passando sulla terra cogli occhi rivolti al cielo, fallendo se inciampava, se le spine del cammino gli insanguinavano le carni, o le voci del mondo penetravano nelle sue orecchie, se la vita batteva nelle sue arterie o tumultuava nel suo cuore, se la tentazione di quell’incognita, il ricordo di quella sconosciuta che si era data a lui in ispirito, in un momento di mistico abbandono, veniva a turbare la sua fantasia o a fargli tremare la preghiera sulle labbra.

Un campanello squillò. Il prete cinse la stola fulgida che lo sollevava dalla terra, e si accinse a comunicarla. Ella genuflessa dinanzi allo sportellino aperto della grata annichilivasi nella contemplazione degli splendori celesti che apriva la sfera d’oro. Un languore soave, una calma infinita, una dolcezza ineffabile per tutto l’essere: la battaglia vinta, il cuore librantesi nella fede, il conforto, la forza, l’ardore di quell’ostia consacrata che scendeva nel suo petto e si confondeva col suo sangue — l’ostia che le posava lui stesso sulle labbra trepide, colle mani trepide, mormorando soavemente le parole sacramentali, chinando gli occhi, dolci, come velati da una visione interiore nelle occhiaie profonde e misteriose, sul viso sbattuto ed emaciato anch’esso. — Egli la vide quel momento solo, in quell’abbandono, in quella bramosia arcana, in quell’estasi, colle pupille smarrite, il viso trasfigurato, in un’irradiazione candida di veli, sporgendo le labbra avide e innamorate.

Essa chinò il capo, nell’atto di ringraziamento, in un torpore e in uno sfinimento delizioso di tutta se stessa. La chiesa tornò vuota e silenziosa come una tomba.

 

Il missionario era andato via per sempre, continuando il suo viaggio di carità, lasciando a lei la benedizione di quella pace e di quella fede. Essa lo accompagnava col pensiero per strade e per paesi sconosciuti; vedeva ancora quegli occhi dolci, quel viso emaciato, quella tonaca fluttuante dietro la sua persona esile, in altre chiese risonanti della sua parola, dinanzi ad altre monache palpitanti; lo seguiva nei rumori che giungevano dalla via, nelle notti stellate, nel cielo che stendevasi al di là delle inferriate claustrali. Era un grande sconforto, un isolamento più tristo, come un abbandono. Poi, quando la sua coscienza inquieta cominciò a ridestarsi, pregò una delle sorelle anziane che aveva sofferto e dubitato come lei d’intercedere presso l’antico confessore, il quale si rifiutava a confessarla geloso che essa gli avesse preferito una volta il predicatore di passaggio. Era un vecchio incanutito nel confessionario, con dei grandi occhi chiari e penetranti, abituati a guardare nelle tenebre dei cuori, e il pallore delle lunghe confidenze e delle attese pazienti sulle guance incavate.

— No. Io non servo di ripiego... M’ha messo da banda una volta; si cerchi un altro confessore...

— Ma essa aveva sempre la speranza...

— Speranza si chiama vossignoria. Essa chiamasi suor Crocifissa —.

LA CACCIA AL LUPO

Una sera di vento e pioggia, vero tempo da lupi, Lollo capitò all’improvviso a casa sua, come la mala nuova. Picchiò prima pian piano, sporse dall’uscio la faccetta inquieta, e infine si decise ad entrare, giallo al par dello zafferano, e tutto grondante d’acqua.

Fuori l’ira di Dio, lui con quella faccia, e a quell’ora insolita: sua moglie, poveretta, cominciò a tremare come una foglia, ed ebbe appena il fiato di biascicare:

— Che fu?... Che avvenne? ... —

Ma Lollo non rispose nemmeno — Crepa —. Uomo di poche chiacchiere, specie quando aveva le lune a rovescio. Masticò sa lui che parole tra i denti, e seguitò a guardare intorno cogli occhietti torbidi. Il lume era sulla tavola, il letto bell’e rifatto, tanto di stanga all’uscio di cucina, dove polli e galline, spaventati anch’essi pel temporale, certo, facevano un gran schiamazzo, tanto che la donna diveniva sempre più smorta, e non osava guardare in faccia il marito.

— Va bene, — disse lui. — In un momento mi sbrigo —.

Appese a un chiodo lo scapolare, posò sulla tavola l’agnella che ci aveva sotto, così legata per le quattro zampe, e sedé a gambe larghe, curvo, colle mani ciondoloni fra le cosce, senza dir altro. La moglie intanto gli metteva dinanzi pane, vino, e la pipa carica anche, che non sapeva più quel che si facesse, in quel turbamento.

— A che pensi? Dove hai la testa? — brontolò Lollo. — Una cosa alla volta, bestia! —

Masticava adagio, facendo i bocconi grossi, colle spalle al muro e il naso sulla grazia di Dio. Di tanto in tanto volgeva il capo, e dava un’occhiata all’agnella, che cercava di liberarsi, belando, e picchiava della testa sulla tavola .

— Chetati, chetati! — brontolò Lollo infine. — Chetati, che ancora c’è tempo.

— Ma che volete fare? Parlate almeno! —

Egli la guardò quasi non avesse udito, con quegli occhietti spenti che non dicevano nulla, accendendo la pipa tranquillamente, tanto che la povera donna smarrivasi sempre più, e a un tratto si buttò ginocchioni per slacciargli le ciocie fradice.

— No, — disse lui, respingendola col piede. — No, torno ad uscire.

— Con questo tempo? — sospirò lei, tirando un gran respiro.

— Non importa il tempo... Anzi!... Anzi!... —

Quando parlava così, con quella faccia squallida, e gli occhi falsi che vi fuggivano, quell’omettino magro e rattrappito faceva proprio paura — in quella solitudine — con quel tempaccio che non si sarebbe udito "Cristo aiutami!".

La moglie sparecchiava, in silenzio. Lui fumava e sputacchiava di qua e di là. A un tratto la gallina nera si mise a chiocciare, malaugurosa.

— S’è visto oggi Michelangelo? — domandò Lollo.

— No... no... — balbettò la moglie, che fu ad un pelo di lasciarsi cader di mano la grazia di Dio.

— Gli ho detto di scavare la fossa... Una bella fossa grande... L’avrà già fatto.

— Oh, Gesummaria! Perché?... perché?...

— C’è un lupo... qui vicino... Voglio pigliarlo —.

Ella istintivamente volse una rapida occhiata all’uscio della cucina, e fissò gli occhi smarriti in volto al marito, che non la guardava neppure, chino sulla sua pipa, assaporandola, quasi assaporasse già il piacere di cogliere la mala bestia. Ella, facendosi sempre più pallida, colle labbra tremanti, mormorava: — Gesù!... Gesù!...

— Non aver paura. Voglio pigliarlo in trappola... senza rischiarci la pelle... Ah, no! Sarebbe bella!... con chi viene a rubarvi il fatto vostro... rischiarci la pelle anche! Ho già avvisato Zango e Buonocore. Ci hanno il loro interesse pure —.

Fosse il vinetto che gli scioglieva la lingua, o provasse gusto a rimasticare pian piano la bile che doveva averci dentro, non la finiva più, grattandosi il mento rugoso, appisolandosi quasi sulla pipa, ciarlando come una vecchia gazza.

— Vuoi sapere come si fa?... Ecco: gli si prepara il suo bravo trabocchetto... un bel letto sprimacciato di frasche e foglie... l’agnella legata là sopra... che lo tira la carne fresca, il mariolo!... E se ne viene come a nozze, al sentire il belato e la carne fresca... Col muso al vento, se ne viene, e gli occhi lucenti di voglia... Ma appena cade nella trappola, poi, diventa un minchione, che chi gliene può fare, gliene fa: sassi, legnate, acqua bollente! —

L’agnella, come se capisse il discorso, ricominciò a belare, con una voce tremola che sembrava il pianto di un bambino, e toccava il cuore. Sobbalzava di nuovo a scosse, rizzando il capo, e tornava a batterlo sulla tavola come un martello.

— Basta! basta, per carità! — esclamò la donna, giungendo le mani, quasi fuori di sé.

— No, l’agnella non la tocca neppure, appena si trova preso in trappola con essa... Le gira intorno, nella buca... gira e rigira... tutta la notte, per cercar di fuggirla anche... la tentazione... Come capisse che è finita, e bisogna domandar perdono a Dio e agli uomini... Bisogna vederlo, appena spunta il giorno, con quella faccia rivolta in su, che aspetta i cani e i cacciatori, con gli occhi che ardono come due tizzoni... —

Si alzò finalmente, adagio adagio, e si mise a girondolare per la stanza, come un fantasma, strascicando le ciocie fradice, frucacchiando qua e là, col lume in mano.

— Ma che cercate? Che volete? — chiese la povera moglie, annaspandogli dietro affannata.

Egli rispose con una specie di grugnito, e cacciò il lume sotto il letto.

— Ecco, ecco, l’ho trovato —.

Il turbine in quel momento parve portarsi via la casa. Uno scompiglio in cucina: la donna che strillava, attaccata all’uscio: una ventata soffiò sul lume a un tratto, e buona notte.

— Santa Barbara! Santa Barbara!... Aspettate... Cerco gli zolfanelli... Dove siete? Dove andate? Rispondete almeno!

— Zitta — disse Lollo ch’era corso a stangare la porta di casa. — Zitta, non ti muovere, tu! —

E si diede a battere l’acciarino sull’esca, verde come lo zolfanello che aveva acceso, tanto che alla povera moglie tremava il lume in mano.

Egli tornò a girondolare, cheto cheto. Prese un bastoncello di rovere, lo intaccò da un capo e vi legò una funicella di pelo di capra. La moglie, che le erano tornati gli spiriti vitali al veder dileguarsi il temporale, e mostrava di stare attenta anzi a quel lavoro, coi gomiti sulla tavola, e il mento fra le mani, volle sapere: — Che è questo?

— Questo?... Che è questo? — mugolò lui, soffiando e fischettando. — Questo è il biscotto per chiuder la bocca la lupo... Ce ne vorrebbe un altro per te, ce ne vorrebbe! Ah, ah!... Ridi adesso?... T’è tornato il rossetto in viso?... Voi altre donne avete sette spiriti, come i gatti... —

Essa lo guardava fisso fisso, per indovinare quel che covasse sotto quel ghigno: gli si strusciava addosso, proprio come una gatta, col seno palpitante, e il sorriso pallido in bocca.

— Sta ferma, sta ferma, che fai versare l’olio... L’olio porta disgrazia...

— Sì, che porta disgrazia! — proruppe lei. — Ma che avete infine? Parlate!

— Tò! Tò! Ecco che vai in collera ora!... Le sai tutte, le sai!... Vuoi sapere anche come si fa a pigliarlo? Ecco qua: gli si cala questo gingillo nella buca; il lupo, sciocco, l’addenta; allora, lesto, gli si passa la funicella all’altro capo del bastone, e si lega dietro la testa. L’affare è fatto. Dopo, il lupo potete prenderlo e tirarlo su, che non fa più male... E ne fate quel che volete... Ma bisogna aspettare a giorno chiaro... Ora vo a preparare la trappola...

— V’aspetto adunque? Tornate? —

Lollo andò a staccare lo scapolare grugnendo: — Uhm!... uhm!... — E tornò a prendere l’agnella: — Vedremo... Il gusto è a vederlo in trappola... che ne fate poi quel che volete... senza dar conto a nessuno... Anzi vi danno il premio al municipio!... Tu sta cheta, sta cheta — ripeté mettendosi l’agnella sotto il braccio. — Sta cheta che il lupo non ti tocca. Ha da pensare ai casi suoi, piuttosto —.

Uscì così dicendo, senza dar retta alla moglie, e chiuse l’uscio di fuori.

— Che mi chiudete a chiave? — strillò la donna picchiando dietro l’uscio. — Eh? Che fate? —

Lollo non rispose, e si allontanò fra l’acqua e il vento.

— Oh Vergine santissima! — esclamò la poveretta aggirandosi per la stanza colle mani nei capelli.

S’aprì invece l’uscio della cucina e comparve Michelangelo, pallido come un morto, che non si reggeva in piedi.

— Presi!... Siamo presi! — balbettò lei con un filo di voce. — Ci ha chiusi a catenaccio! —

Lui da prima voleva fare il bravo. Tirò su i calzoni per la cintola, incrocicchiò le braccia sul petto, tentò di balbettare qualche cosa per far animo alla povera donna: — Va bene!... son qui... t’aspetto!... — Poi, tutt’a un tratto, fosse il naturale suo proprio che lo vincesse, o il nervoso che gli metteva addosso il va e vieni di lei che pareva proprio una bestia presa in gabbia, scappò a correre anche lui all’impazzata, di qua e di là per la stanza, in punta di piedi, pallido, stralunato, tentò e ritentò la porta, scosse l’inferriata della finestra, s’arrampicò sulla tavola e sul letto per dar la scalata al tetto annaspando colle braccia tremanti, cieco di paura e di rabbia.

Infine s’arrese, trafelato, guardando bieco la complice, accusandola d’averlo attirato nel precipizio.

— Ah! — scattò allora su lei, colle mani ai fianchi. — È questa la ricompensa?

— Zitta! — esclamò lui spaventato, chiudendole la bocca colla mano. — Zitta!... Non vedi che abbiamo la morte sul collo?

— Doveva cogliermi un accidente, quando mi siete venuto fra i piedi! — seguitò a sbraitare la donna. — Doveva cogliermi una febbre maligna!

— Ssss!... — fece lui colle mani e la voce stizzosa. — Ssss! —.

Si udiva solo il vento, e l’acqua che scrosciava sul tetto. Lei si teneva il capo fra le mani, e lui stava a guardarla, inebetito.

— Ma che disse? Che fece? — biascicò infine. — Alle volte... Ci è parso perché siamo in sospetto...

— No! — rispose la moglie di Lollo. — È certo! È certo che sapeva!...

— E allora?... allora?... — scattò su Michelangelo, tornando ad alzarsi come fuori di sé.

Il lume, a cui mancava l’olio, cominciava a spegnersi.

Egli furioso scuoteva di nuovo porta e finestra, rompendosi le unghie per scalzar l’intonaco, mugolando come una bestia presa al laccio. — Ave Maria, aiutatemi voi! — supplicava invece la donna.

— Prima dovevi dire le avemarie... prima!... — esclamò infine lui.

E cominciò a sfogarsi dicendole ogni sorta d’improperi.

FRAMMENTO II

Nella città straniera, stranieri l’uno all’altra, s’erano trovati accanto alla stessa tavola d’albergo e alla medesima rappresentazione teatrale che attirava da ogni parte gli zingari della gran vita.

Ella fine e delicata come un fiore — egli baldo e rapace come un uccello da preda. E appena si guardarono in viso la prima volta tornarono a guardarsi, ella facendosi sempre pallida. — E dopo, nella semioscurità del teatro che concentrava una sensazione estraumana, lo sfolgorio delle scene, e l’ebbrezza delle piene orchestre, egli si impadronì risoluto delle piccole mani tremanti, e le tenne strette quanto durò la loro stagione d’amore.

Dolce stagione che dileguò al pari della visione scenica! — Dolce musica che respirava — gli incanti svaniti colla grazia un po’ triste e la tenerezza penetrante delle cose che non son più — là, in quell’altro teatro di un altro paese dove si erano trovati insieme l’ultima volta, ancora accanto, e pure tanto lontani!

 

Milano, 10 giugno 1900

"NEL CARROZZONE DEI PROFUGHI" (FRAMMENTO III)

Nel carrozzone dei profughi, due povere donne sedute accanto, col fagotto della roba che avevano avuto al Municipio sulle ginocchia, si narravano i loro guai. Anzi una non parlava più; guardava nella folla con certi occhi stralunati, quasi cercando la figlia che le avevano detto fosse stata salvata da un giovanotto quando trassero anche lei dalle fiamme e dalle macerie. Una ragazza bella come il sole, che chi l’aveva vista una volta l’avrebbe riconosciuta fra mille. L’avevano vista rifugiata sotto un portone — tra i feriti del Savoja — alla stazione. Tutti l’avevano vista, fuori che lei! Dalla stazione aveva visto soltanto la sua casa che bruciava, per due ore, sinché il treno stette lì. E ora, mentre cercava la sua creatura fra la gente, da otto giorni, e pensava a lei che forse la cercava e chiamava aiuto, vedeva ancora quella distruzione e quell’incendio come un rifugio, una disperata certezza.

— Ora son sola — diceva l’altra. — Quando incontrai mio marito, qui, per caso, salvo anche lui, non mi pareva vero. Ma avevo tre figli: una maritata, colla grazia di Dio, e il maggiore che mi portava a casa già la sua giornata... Tutti! Tutti!... Io mi ero alzata appunto pel più piccolo ch’era malato, quando successe il terremoto. Il Signore non mi volle —.

Ne parlava tranquillamente, colla faccia gialla e la testa fasciata.

— Ora, quando lui sarà guarito andremo in America —.

L’altra alzò gli occhi, soltanto, e la guardò.

— Certo, che faremo qui?

— In America? — disse un altro profugo. — Non sapete che vita da cani! Peggio dei cani li trattano i cristiani! —

Ella a sua volta guardò sbigottita colui, come a ripetere: — Che faremo qui?

— Qui siamo nati; qui sono le pietre delle nostre case! — dissero gli altri.

FRAMMENTO IV

Mi sembra ancora di vederla quella figura sconvolta, uomo o donna, non so. Rammento solo due occhi pazzi e una bocca spalancata, enorme, urlando forse nel gridìo generale, nera anch’essa, ma di un pallore cadaverico. Dibattevasi per farsi largo nella ressa dei profughi giunti con le prime corse, che si accavallavano sul balcone del Municipio all’arrivo di altre barelle e di altri carrozzoni che portavano altri profughi e altri gemiti. Ad un tratto vide, riconobbe qualcuno nella sfilata tragica, laggiù in fondo alla piazza. Si spinse innanzi disperatamente, quasi volesse buttarsi giù e si mise a chiamare, a gridare, a chiedere chissà? un nome, una notizia di vita o di morte, qualcosa che l’altro soltanto poteva udire e comprendere in quel frastuono immenso, dall’altra estremità della piazza immensa, urlando. E l’altro, di laggiù, vide lei sola, in quel formicolio umano, udì, indovinò il nome e la domanda ansiosa, e rispose certo con una parola, un segno che al di sopra della folla, della confusione, del frastuono giunsero diritti a lei, che si cacciò le mani nella criniera arruffata, senza una parola, senza un grido, e cadde, scomparve nell’ondata di altri che gridano e chiamano ansiosi, dolorosamente egoisti.

UNA CAPANNA E IL TUO CUORE

La capanna stavolta era l’Albergo della Stella. Quando vi giunsi, fra quelle quattro case arrampicate in cima al monte, dopo una giornata afosa nelle bassure della zolfara, mi parve di essere davvero nelle stelle, all’ombra della tettoia sgangherata che faceva da angiporto.

— Una stanza? — uscì a dire l’ostessa asciugandosi il sugo di pomidoro dalle braccia. — Ma ci abbiamo tutta la compagnia.

— Oh!

— Sicuro, quella delle operette. Però, se si contenta della mia... —

Passando pel baraccone tutto scompartimenti come una stalla, vidi infatti una bella giovane che si rizzò lesta dal tavolato dov’era distesa, e mi salutò arrossendo un poco anche sotto il rossetto della sera innanzi.

Dovetti accontentarmi, poiché non ci era altro, della stamberga con tanto di letto matrimoniale dell’ostessa, e mentre essa apparecchiava un po’ di tavola "per quel che c’era", si udì un baccano dalla parte della compagnia.

— È la lavandaia che viene a fare le solite scenate, — disse l’ostessa. — Gente senza educazione. Ora vo a dire che ci sono dei forestieri —.

Ma fu inutile, e il diavoleto peggio di prima. Appena fui seduto per mandar giù "un po’ di quel che c’era", comparve sull’uscio la ragazza della compagnia.

— Scusi. Avrebbe, per caso, due lire e settantacinque di spiccioli, in piacere?

— Ecco.

— Grazie. Ora torno —.

Tornò infatti, collo stesso risolino di palcoscenico. — Che vuole? Scusi tanto. I nostri comici sono tutti fuori. Appena tornano...

— Oh, faccia a suo comodo.

— Buon appetito allora — disse sorridendo anche al piatto che recava l’ostessa.

— E a lei pure, giacché vedo ch’è l’ora...

— Oh, noi... I nostri uomini sono stati invitati a fare una scampagnata dai signori del paese...

— Se vuol favorire dunque...

— Anzi... Molto gentile. Se permette, lo dico anche alla mia amica ch’è napoletana e le piacciono tanto gli spaghetti.

— Tanto piacere anche la sua amica napoletana —.

L’ostessa non se lo fece neanche dire e tornò indietro per gli altri spaghetti. La napoletana si fece pregare un po’, di là, ma venne lei pure, col salutino del pubblico.

— Il nostro soprano. Una voce! Dovrebbe venire a sentirci, domani sera.

— Domani sera spero di essere a casa mia, finalmente.

— Peccato! Qui non si recita che il sabato e la domenica sera, perché gli altri giorni il nostro pubblico è occupato nelle zolfare — .

Il soprano, più contegnoso, si occupava a mandar giù gli spaghetti in punta di forchetta, quasi fosse già il sabato o la domenica sera, dinanzi al pubblico .

— Una vera diva!... E vederla in costume, con quel décolleté!... — La diva protestò levando su la forchetta col gomitolo di spaghetti, o per poca modestia, o perché il décolleté non fosse troppo in bella vista.

— Eh, che male c’è se gli uomini hanno occhi per vedere... e mandar giù le platee?... È vero, sì o no? Ditelo anche voi —.

Voltandomi, vidi sull’uscio altri visetti che dicevano già di sì, in attesa pur esse.

— Venite, venite anche voi. Il signore è così gentile... —

E naturalmente venne anche l’ostessa, carica d’altri piatti.

— La signorina Fides, mezzo soprano. — La signorina Vanda, contralto. — La signorina Ines, contraltino, che al bisogno fa le parti d’amoroso. Come vede i nostri uomini ci lasciano a trarci d’imbarazzo anche nelle parti d’amoroso.

— Vedremo se ci portano almeno dei fiori dalla loro scampagnata.

— Quelli sì, perché non si mangiano.

— Che delizia! — sospirò allora la diva. — Che paesaggi avete da queste parti... sotto questo sole!...

— A chi lo dice!

— No? Non è del paese lei?

— È che l’ho avuto tutto il giorno sulla testa, quel sole! —

Dopo gli spaghetti venne del baccalà, poi delle ova sode, poi del caciocavallo, insomma “un po’ di quel che c’era”, e dei fichi d’India, già bell’e sbucciati dalle mani stesse della locandiera, chi ne volesse. Le artiste dicevano sempre di sì; tanto che dopo i fichi d’India chiesero del cognac.

— Cognac non ce n’è. Abbiamo della menta—sèlse. Ma ora, dopo tavola...

— Non importa. È per fare i brindisi —.

Prima naturalmente a me, ch’ero stato tanto gentile. Poi sfilarono altri nomi e altri ricordi, che brillarono un istante in quegli occhietti lustri.

— A te!... Sempre! — A quella prima notte... di luna!...

— Tutta roba passata! — sentenziò la stella napoletana. — Tout passe, tout lasse, tout casse... — E volle anche spiegare il suo francese alle compagne che sgranavano gli occhi. — Passa via... ti lascio... La canzone finisce sempre così.

— Sempre, no. Tu lo sai bene... — Ella si strinse nelle spalle. — Il tuo avvocato...

— Un avvocato!

— Sissignore! E ha lasciato moglie e figliuoli per venire a fare il suggeritore.

— Un bell’affare! E quella megera s’è permesso anche di venire a farmi le scene, coi suoi mocciosi, in casa mia!

— Poveretti! Bisognava sentirli piangere...

— Al cuore non si comanda, — conchiuse una delle signorine Ines o Fides. — Certo, se si sapesse prima... —

— Prima — il caso — l’incontrarsi in quegli occhi che vi mangiano dalla platea quando vi viene la nota giusta. — Le scioccheriole che vi contano all’uscita dal teatro — la scappatella che sembrava di passaggio, ahimé!... Ciascuna rammentava la sua, in quel momento di vino tenero. Gli occhi ancora umidi, o pei ricordi di prima, o per quelli della scena. — Così, senza saper come, la scioccheriola che mutavasi in duetto serio — o la passatina sotto la finestra che andava a finire nella stanzetta in due. Poi il destarsi a bocca asciutta — o amara — o tra gli sbadigli e i — non mi seccare —, ch’è peggio. — O peggio ancora la farsetta che minaccia di cambiarsi in tragedia... — Come quando si dovette levar le tende in fretta e furia, tutta la compagnia che non c’entrava affatto... E a un pelo di rimborsar gli abbonati per giunta! — conchiuse la signorina Fides.

— Oh, questa poi!...

— Sì, in un paesetto qui vicino, allorché quelli del partito contrario vollero giocare un tiro al sindaco che veniva a fare quattro chiacchiere con una di noi; e una bella notte, quando volle tornare a casa della moglie, gli fecero trovare murata la porta della locanda coi materiali della strada in riparazione. Allora figuriamoci!... —

Essa non aveva fatto alcun nome; ma tutte le altre guardavano sottecchi da una parte, ridendo, però col naso sul piatto. La napoletana che invece aveva il naso in su, rimbeccò subito:

— Tu stai zitta, che di queste disgrazie non ne capitano certo pei tuoi begli occhi al tuo banchiere!

— Anche un banchiere?

— Sì, quello che scopa le tavole —.

Fides scattò inviperita: — Prima di scopare le tavole contava dei bei bigliettoni, quello!

— E te li buttava dietro in fiori per le serate e il braccialetto col sempre d’oro. Per questo dovette fare i conti col principale, che gli sbatté in faccia lo sportello della banca, e te lo lasciò appeso al collo, col sempre del braccialetto! —

Io cercai di mettere qualche buona parola, anzi le loro parole stesse: — Cose che succedono. Se si sapesse prima...

— Prima o poi, quello era un galantuomo e rimase un galantuomo. Povero, ma onorato. Perciò quando me lo vidi comparire dinanzi, con le tasche vuote ma tanto di cuore aperto... ed anche le braccia, mentre mi diceva: "Eccomi... Son qua...".

Ella singhiozzava quasi, col tovagliolo al viso, ripetendo quelle parole, tanto che le amiche le si strinsero intorno a confortarla, e la stessa napoletana volle ricordare come succedono queste cose:

— Si sa. Ogni giorno che veniva, le ariette e i duettini... Una bella seccatura a sentirli mattina e sera...

— Egli aveva una vocetta promettente allora — aggiunse la signorina Vanda.

— E per una disgrazia leggeva anche dei romanzi, tanto che gli pareva vero...

— Io glielo dissi — riprese Fides con gli occhi ancora umidi. — E che vuoi fare adesso? "Son qua... Son qua...". Non sapeva dir altro, con quel viso pallido, e quelle braccia aperte... Anch’io ero là... E mi chiamo Fede... La mano nella mano dunque...

— Ecco! Sino alla prima voltata.

— Voltata no, e neppure corda al collo — rispose Fides con gli occhi adesso asciutti. — Io devo fare l’artista, e non posso voltare le spalle a questo e a quello se mi dicono che piaccio.

— O quando fanno dei regalucci.

— Bisogna mandare avanti la baracca anche —.

 

Quando gli uomini, a sera, tardi, dopo aver mangiato bene e bevuto meglio tornarono alla capanna ed al cuore, furono liti e questioni invece di fiori e paroline dolci. La vocetta mezzo soprano di Fides che strillava: — Ah, sei stato a far l’assolo? Anch’io ci ho trovato qui per il duetto. Prendi! —

L’avvocato perdeva il suo tempo a perorare di qua e di là, scusando queste e quelli e cercando di metter pace. La napoletana gli sbatté con lo scarpone sul muso:

— Porco! Ci vorrebbero qui i tuoi mocciosi a piangerti per il pane, adesso! —

 

Me li vidi comparire dinanzi io pure, il giorno dopo; lui con la gota fasciata, a spiegarmi quel che doveva essere stato il po’ di chiasso che forse avevo udito nella notte. Ma la napoletana, ancora imbronciata, tagliò corto:

— Basta, basta. Arrivederci dunque. Il mondo è tondo, e chi non muore si rivede —.

 

Io non ho più rivisto quegli occhi rapaci e quel décolleté petulante.