Giovanni
Boccaccio
Ninfale
Fiesolano
Edizione
di riferimento: Giovanni Boccaccio: Ninfale Fiesolano, a cura di Armando
Balduino, in Giovanni Boccaccio: Tutte le opere, a cura di Vittore
Branca, vol. III, Mondadori, Milano 1974.
COMINCIA
IL LIBRO CHIAMATO NINFALE: E PRIMAMENTE MOSTRA IL FACITORE CHE DI FAR QUESTO
GLI È CAGIONE AMORE.
1
Amor
mi fa parlar, che m'è nel core
gran
tempo stato e fatto n'ha su' albergo,
e
legato lo tien con lo splendore
e
con que' raggi a cui non valse usbergo,
quando
passaron dentro col favore
degli
occhi di colei, per cui rinvergo
la
notte e 'l giorno pianti con sospiri,
e
ch'è cagion di tutti e' mie' martìri.
2
Amor
è que' che mi guida e conduce,
nell'opera
la qual a scriver vegno;
Amor
è que' ch'a far questo m'induce,
e
che la forza mi dona e lo 'ngegno;
Amor
è que' ch'è mia scorta e mia luce,
e
che di lui trattar m'ha fatto degno;
Amor
è que' che mi sforza ch'i' dica
un'amorosa
storia molto antica.
3
Però
vo' che l'onor sia sol di lui,
poi
ch'egli è que' che guida lo mio stile,
mandato
dalla mia donna, lo cui
valor
è tal ch'ogni altro mi par vile,
e
che 'n tutte virtù avanza altrui,
e
sopra ogni altra è più bella e gentile:
né
non le mancheria veruna cosa,
sed
ella fosse un poco più pietosa.
4
Or
priego qui ciascun fedele amante
che
siate in questo mia difesa e scudo
contro
a ogni invidioso e mal parlante
e
contro a chi è d'amor povero e 'gnudo;
e
voi care mie donne tutte quante,
che
non avete il cor gelato e crudo,
priego
preghiate la mia donna altera
che
non sia contro a me servo sì fera.
5
Prima
che Fiesol fosse edificata
di
mura o di steccati o di fortezza,
da
molta poca gente era abitata:
e
quella poca avea presa l'altezza
de'
circustanti monti, e abandonata
istava
la pianura per l'asprezza
della
molt'acqua ed ampioso lagume,
ch'a
pie de' monti faceva un gran fiume.
6
Era
'n quel tempo la falsa credenza
degl'iddii
rei, bugiardi e viziosi;
e
sì cresciuta la mala semenza
era,
ch'ognun credea che graziosi
fosson
in ciel come nell'apparenza;
e
lor sacrificavan con pomposi
onori
e feste, e sopra tutti Giove
glorificavan
qui sì come altrove.
7
Ancor
regnava in que' tempi un'iddea
la
qual Diana si facea chiamare,
e
molte donne in divozion l'avea;
e
maggiormente quelle ch'osservare
volean
verginità, e che spiacea
lor
la lussuria e a lei si volean dare,
costei
le riceveva con gran feste,
tenendole
per boschi e per foreste.
8
Ed
ancor molte glien'erano offerte
dalli
lor padri e madri, che promesse
l'avean
a lei per boti, e chi per certe
grazie
o don che ricevuto avesse;
Diana
tutte con le braccia aperte
le
riceveva, pur ch'elle volesse
servar
verginità e l'uom fuggire,
e
vanità lasciar e lei servire.
9
Così
per tutto 'l mondo era adorata
questa
vergine iddea; ma ritornando
ne'
poggi fiesolan, dove onorata
più
ch'altrove era, lei glorificando,
vi
vo' contar della bella brigata
delle
vergini sue, che, lassù stando,
tutte
eran ninfe a quel tempo chiamate
e
sempre gìan di dardi e d'archi armate.
10
Avea
di queste vergini raccolte
gran
quantità Diana, del paese,
per
questi poggi, benché rade volte
dimorasse
con lor molto palese,
sì
come quella che n'aveva molte
a
guardar per lo mondo dall'offese
dell'uom;
ma pur, quando a Fiesol venìa,
in
cotal modo e guisa ella apparia:
11
ell'era
grande e schietta come quella
grandezza
richiedea, e gli occhi e 'l viso
lucevan
più ch'una lucente stella,
e
ben pareva fatta in paradiso,
con
raggi intorno a sé gittando quella,
sì
che non si potea mirar ben fiso;
e'
cape' crespi e biondi, non com'oro,
ma
d'un color che vie meglio sta loro.
12
E
le più volte sparti li tenea
sopra
'l divelto collo, e 'l suo vestire
a
guisa d' una cioppa il taglio avea;
d'un
zendado era ch'a pena coprire,
sì
sottil era, le carni potea:
tutta
di bianco, sanz'altro partire
cinta
nel mezzo, e talor un mantello
di
porpora portava molto bello.
13
Venticinque
anni di tempo mostrava
sua
giovinezza, sanz'aver niun manco;
nella
sinistra man l'arco portava,
e
'l turcasso pendea dal destro fianco,
pien
di saette, le qua' saettava
alle
fiere selvagge, e talor anco
a
qualunque uom che lei noiar volesse
e
le sue ninfe gli uccidea con esse.
14
In
cotal guisa a Fiesole venìa
Diana
le sue ninfe a visitare,
e
con bel modo, graziosa e pia,
assai
sovente le facea adunare
intorno
a fresche fonti, o all'ombria
di
verdi fronde, al tempo ch'a scaldare
comincia
il sol la state, com'è usanza;
e
di verno al caldin faceano stanza.
15
E
quivi l'amoniva tutte quante
nel
ben perseverar verginitate;
alcuna
volta ragionan d'alquante
cacce
che fatte aveano molte fiate
su
per que' poggi, seguendo le piante
delle
fiere selvagge, che pigliate
e
morte assai n'avean, ordine dando
per
girle ancor di nuovo seguitando.
16
Cota'
ragionamenti tra costoro,
com'io
v'ho detto, tenean di cacciare;
e
quando si partia Diana da loro,
tosto
una ninfa si facea chiamare,
la
qual fosse di tutto il concestoro
di
lei vicaria, faccendo giurare
all'altre
tutte di lei ubidire,
se
pel suo arco non volean morire.
17
Quella
cotal da tutte era ubidita,
come
Diana fosse veramente;
e
ciascheduna d'un panno vestita
di
lin tessuto molto sottilmente,
faccendo,
con lor archi, d'esta vita
passar
molti animali assai sovente:
e
qual portava un affilato dardo,
più
destre che non fu mai liopardo.
Qui
tien Diana consiglio alla fonte;
Africo
vede, innamorasi d'una
di
quelle ninfe che poi sale il monte:
di
sé si duole e de la sua fortuna.
18
Era
'n quel tempo del mese di maggio,
quando
i be' prati rilucon di fiori,
e
gli usignuoli per ogni rivaggio
manifestan
con canti i lor amori,
e'
giovinetti, con lieto coraggio,
senton
d'amor i più caldi valori,
quando
la dea Diana a Fiesol venne,
e
con le ninfe sue consiglio tenne.
19
Intorno
ad una bella e chiara fonte
di
fresca erba e di fiori intorniata,
la
qual ancor dimora a piè del monte
Cécer,
da quella parte che 'l sol guata
quand'è
nel mezzogiorno a fronte a fronte,
e
fonte Aquelli è oggi nominata,
intorno
a quella Diana allor sì volse
essere,
e molte ninfe vi raccolse.
20
Così
a sedere tutte quante intorno
si
poson alla fonte chiara e bella,
ed
una ninfa, sanza far sogiorno,
si
levò ritta, leggiadretta e snella,
ed
a sonar incominciò un corno
perch'ognuna
tacesse: e poi, quand'ella
ebbe
sonato, a seder si fu posta,
aspettando
di Diana la proposta.
21
La
qual, com'usata era, così allora
diceva
lor ch'ognuna si guardasse
che
con niun uom facesse mai dimora,
–
E se avvenisse pur che l'uom trovasse,
fuggal
come nimico ciascun'ora,
acciò
che 'nganno o forza non usasse
contra
di voi: ché, qual fosse ingannata,
da
me sarebbe morta e sbandeggiata. –
22
Mentre
che tal consiglio si tenea,
un
giovinetto ch'Africo avea nome,
il
qual forse venti anni o meno avea,
sanz'ancor
barba avere, e le sue chiome
bionde
e crespe, ed il suo viso parea
un
giglio o rosa, over d'un fresco pome;
costui,
ind'oltre abitava col padre,
sanz'altra
vicinanza, e con la madre;
23
il
giovane era quivi in un boschetto
presso
a Diana quando il ragionare
delle
ninfe sentì, ch'a suo diletto
ind'oltre
s'era andato a diportare;
per
che fattosi innanzi, il giovinetto
dopo
una grotta si mise a 'scoltare,
per
modo che veduto da costoro
non
era, ed e' vedeva tutte loro.
24
Vedea
Diana sopra l'altre stante,
rigida
nel parlar e nella mente,
con
le saette e l'arco minacciante,
e
vedeva le ninfe parimente
timide
e paurose tutte quante,
sempre
mirando il suo viso piacente,
istando
ognuna cheta, umile e piana
pel
minacciar che facea lor Diana.
25
Poi
vide che Diana fece in piede
levar
ritta una ninfa, ch'Alfinea
aveva
nome, però ch'ella vede
che
più che niun'altra tempo avea,
dicendo:
– Ora m'intenda qual qui siede:
i'
vo' che questa nel mio loco stea,
però
ch'i' 'ntendo partirmi da voi,
sì
che, com'io, ubidita sia poi. –
26
Africo
stante costoro ascoltando,
fra
l'altre una ninfa agli occhi li corse,
la
qual alquanto nel viso mirando,
sentì
ch'Amor per lei il cor gli morse
sì
che gli fe' sentir, già sospirando,
le
fiaccole amorose: ché gli porse
un
sì dolce disio, che già saziare
non
si potea della ninfa mirare.
27
E
fra se stesso dicea: «Qual saria
di
me più grazioso e più felice,
se
tal fanciulla io avessi per mia
isposa?
Ché per certo il cor mi dice
ch'al
mondo sì contento uom non saria;
e
se non che paura mel disdice
di
Diana, i' l'arei per forza presa,
che
l'altre non potrebbon far difesa».
28
Lo
'nnamorato amante in tal maniera
nascoso
stava infra le fresche fronde,
quando
Diana, veggendo che sera
già
si faceva, e che 'l sol si nasconde
e
già perduto avea tutta la spera,
con
le sue ninfe, assai liete e gioconde,
si
levâr ritte, ed al poggio salendo,
di
belle melodi' e canzon dicendo.
29
Africo
quando vide che levata
s'era
ciascuna, e simil la sua amante,
udì
che da un'altra fu chiamata:
–
Mensola, andianne –, e quella, su levante,
con
l'altre tosto si fu ritrovata.
E
così via n'andaron tutte quante:
ognuna
a sua capanna si tornoe,
poi
Diana si partì e lor lascioe.
30
Avea
la ninfa forse quindici anni:
biondi
com'oro e grandi i suoi capelli,
e
di candido lin portava i panni;
du'
occhi in testa rilucenti e belli,
che
chi li vede non sente mai affanni;
con
angelico viso ed atti isnelli,
e
'n man portava un bel dardo affilato.
Or
vi ritorno al giovane lasciato.
31
Il
qual soletto rimase pensoso,
oltre
modo dolente del partire
che
fe' la ninfa col viso vezzoso,
e
ripiatando il passato disire,
dicendo:
«Lasso a me, che 'l bel riposo
ch'ho
ricevuto mi torna in martire,
pensando
ch' i' non so dove o 'n qual parte
cercarmene
giammai, o con qual arte.
32
Né
conosco costei che m'ha ferito,
se
non ch'io udi' che Mensola avea nome:
e
lasciato m'ha qui, solo e schernito,
sanz'avermi
veduto; ed almen come
i'
l'amo sapesse ella, e a che partito
Amor
m'ha qui per lei carche le some!
Omè,
Mensola bella, ove ne vai,
e
lasci Africo tuo con molti guai?».
33
Poi,
ponendosi a seder in quel loco
ove
prima seder veduto avea
la
bella ninfa, e nel suo petto il foco
con
più fervente caldo s'accendea;
così
continovando questo gioco,
il
viso bel nell'erba nascondea:
baciandola
dicea: – Ben se' beata,
sì
bella ninfa t'ha oggi calcata. –
34
E
poi dicea: «Lasso a me,» sospirando
«qual
ria fortuna, o qual altro destino,
oggi
qui mi condusse lusingando,
perché,
di lieto, dolente e tapino
io
divenissi una fanciulla amando,
la
qual m'ha messo in sì fatto cammino,
sanz'aver
meco scorta o guida alcuna,
ma
sol Amore è meco e la fortuna!
35
Almen
sapesse ella pur quanto amata
ell'è
da me, o veduto m'avesse!
Ben
ch'i' credo che tutta spaventata
se
ne sarebbe, sed ella credesse
esser
da me o da uom disiata;
e
son ben certo, in quanto ella potesse,
ella
si fuggiria, sì come quella
c'ha
'n odio l'uomo ed a lui si rubella.
36
Che
farò dunque, lasso, poi ch'io veggio
ch'a
palesarmi saria 'l mio piggiore,
e
s'io mi taccio, veggio ch'è 'l mio peggio,
però
ch'ognor mi cresce più l'ardore?
Dunque,
per miglior vita, morte cheggio,
la
qual sarebbe fin di tal dolore:
bench'io
mi credo ch'ella penrà poco
a
venir, se non si spegne esto foco.»
37
Cotali
ed altre simili parole
diceva
il giovinetto innamorato;
ma
poi, veggendo che già tutto 'l sole
era
tramonto, e che 'l cielo stellato
già
si facea, il che forte gli dole
per
lo partir; ma poi ch'alquanto stato
sopra
sé fu, e' disse: «O me tapino,
ch'or
foss'egli di domane il mattino!».
38
Ma
pur levato, piede innanzi piede,
pien
di molti pensier, per la rivera
si
mise vêr l'ostello, che ben vede
che
non ritorna qual venuto v'era;
così
pensoso che non se n'avvede,
alla
casa pervenne, la qual era,
scendendo
verso 'l pian, della fontana
forse
un quarto di miglio o men lontana.
39
Quivi
tornato, nella cameretta
dove
dormia, soletto se n'entroe,
e
sospirando in sul letto si getta,
ch'a
padre o madre prima non parloe;
quivi
con gran disio il giorno aspetta,
né
'n tutta notte non s'adormentoe,
ma
in qua e 'n là si volge sospirando
e
ne' sospir Mensola sua chiamando.
40
Acciò
che voi, allora, non crediate
che
vi fosson palagi o casamenti,
com'or
vi son, sì vo' che voi sappiate
che
sol d'una capanna eran contenti;
sanz'esser
con calcina allor murate,
ma
sol di pietre e legname le genti
facean
lor case, e qual facea capanne
tutte
murate con terra e con canne.
41
E
forse quattro eran gli abitatori
che
facevano stanza nel paese,
giù
nelle piagge de' monti minori,
che
son a piè de' gran poggi distese;
ma
ritornar vi voglio a' gran dolori
che
Africo sentia, che presso a un mese
stette
sanza veder Mensola mai,
benché
dell'altre ne scontrasse assai.
Venere
ad Africo viene in visione;
promettegli
aiuto; ricerca per lei,
truova
altre ninfe, domanda di lei:
fuggon
sanza rispondere al garzone.
42
Amor,
volendo crescer maggior pena,
come
usato è di fare, al giovinetto,
parendogli
ch'avesse alquanto lena
ripresa
e spento il foco nel suo petto,
legar
lo volle con maggior catena,
e
con più lacci tenerlo costretto,
modo
trovando a fargli risentire
le
fiaccole amorose col martìre.
43
Per
ch'una notte il giovane, dormendo,
veder
in visione gli parea
una
donna con raggi risplendendo,
ed
un piccol garzone in collo avea,
ignudo
tutto ed un arco tenendo;
e
del turcasso una freccia trata
per
saettar, quando la donna: – Aspetta, –
gli
disse – figliuol mio: non aver fretta. –
44
E
poi la donna, ad Africo rivolta,
sì
gli diceva: – Qual mala ventura,
o
qual pensier, o qual tua mente stolta
t'ha
fatto volger? Credo che paura
o
negligenza Mensola t'ha tolta,
ché
di suo amor non par che facci cura,
ma
com'uom vile stai tristo e pensoso,
quando
cercar dovresti il tuo riposo.
45
Leva
su, dunque, e cerca queste piagge
di
questi monti, e tu la troverai,
ch'a
lor diletto le fiere selvagge
con
l'altre ninfe seguir la vedrai:
e
ben ch'al correr le sien preste e sagge,
sanza
niun fallo tu la vincerai,
né
ti bisogna temer di Diana,
però
ch'ell'è di qui molto lontana.
46
E
i' ti prometto di darti il mio aiuto,
al
qual niuno può far mai resistenza,
pur
che questo mio figlio abbi voluto
ferir
con l'arco per la mia sentenza;
ch'i'
son colei che sì ben ho saputo
adoperar
con questa mia scienza,
che,
non ch'altri, ma Giove ho vinto e preso
con
molti iddii, che niun non s'è difeso. –
47
Poi
disse: – Figliuol mio, apri le braccia,
fagli
sentire il tuo caldo valore;
fa'
che tu rompa ogni gelata ghiaccia,
dentro
al suo petto e nel gelato core;
or
fa', figliuol mio, fa' sì che mi piaccia,
come
far suoi –; e poi parea ch'Amore
per
sì gran forza quell'arco tirasse,
che
'nsieme le duo cocche raccozzasse.
48
Quando
Africo volea chieder mercede,
sentì
nel petto giugner la saetta,
la
qual, dentro passando, il cor gli fiede
sì
che, svegliato, la man puose in fretta
al
petto, ché la freccia trovar crede:
trovò
la piaga esser salda e ristretta;
poi
guardò se la donna rivedea
col
suo figliuol che fedito l'avea.
49
Ma
non la vide, perch'era sparita,
e
'l sonno rotto che gliel dimostrava;
e
battendogli 'l cor per la ferita
che
ricevuto avea, si ricordava
della
sua amante, quando fe' partita
dalla
fontana, e nel cor gli tornava
gli
atti gentili col vezzoso modo,
e
ta' pensier al cor gli facean nodo.
50
E
poi dicea: «Questa donna mi pare,
ch'ora
m'apparve, Vener col figliuolo:
e,
s'io bene intesi il suo parlare,
promesso
m'ha di far sentir quel duolo
a
Mensola, ch'a me ha fatto fare;
però,
s'ella esce mai fuor dello stuolo
dell'altre
ninfe, i' pur m'arrischieroe:
per
forza o per amor la piglieroe».
51
Così,
racceso di questo disio
la
fiamma nel suo petto, si dispose
di
Mensola cercar per ogni rio,
fin
che la troverà; e cota' cose
pensando,
intanto il bel giorno appario,
il
qual egli aspettava con bramose
voglie:
e soletto di casa s'usciva
e
'nvêr la fonte Aquelli se ne giva.
52
E
quivi giunto, alquanto vi ristette,
i
sospiri amorosi rinnovando,
«Di
qui» dicendo «mi fêr le saette
d'Amor
già partir forte sospirando».
Ma
poi che tai parole egli ebbe dette,
saliva
'l poggio, la fonte lasciando,
ascoltando
e mirando tuttavia
se
ninfa alcuna vedeva o sentia.
53
Così
salendo suso verso il monte,
trasviato
d'amor e dal pensiero,
alto
portando sempre la sua fronte
per
veder me' per ciaschedun sentiero,
e
le gambe tenendo preste e pronte,
se
gli facesse di correr mestiero;
ed
ogni foglia che menar vedea,
credea
che fosse ninfa e là correa.
54
Ma
poi che cota' beffe ed altre assai
avean
più volte il giovane ingannato,
sanza
niuna ninfa trovar mai,
e'
presso che 'n sul monte era montato,
quando
un pensier gli disse: «Dove vai
pur
su salendo, e nulla ci hai trovato,
e
già è terza. I' non vo' più salire,
ma
per quest'altra via vogli' or gire».
55
E
'nverso Fiesol vòlto, piaggia piaggia
guidato
d'Amor, ne gìa pensoso,
caendo
la sua amante aspra e selvaggia,
e
che facea lui star malinconoso;
ma
pria ch'un mezzo miglio passato aggia,
ad
un luogo pervenne assai nascoso,
dove
una valle i duo monti divide:
quivi
udì cantar ninfe, e poi le vide.
56
Quando
appressato fu a quel vallone
alquanto,
udì un'angelica boce
con
duo tinori. Ad ascoltar si pone,
faccendo
delle braccia a Giove croce,
con
umil priego stando ginocchione,
dicendo:
«Iddio, sarebbe in questa foce
Mensola
tra costoro? Or voglia Iddio
ch'ella
vi sia, ch'i' v'anderò anch'io».
57
Qual
è colui che 'l grillo vuol pigliare,
che
va con lunghi e radi e leggier passi
sanza
far motto, tal era l'andare
che
Africo facea su per que' massi,
pur
dietro andando a quel dolce cantare
che
nella valle udia, e 'nnanzi fassi
tanto
che vide dimenar le fronde
d'alcun
querciuol che le ninfe nasconde.
58
Per
che, sanza scoprirsi, s'appressava
tanto
che vide donde uscia quel canto:
vide
tre ninfe, ch'ognuna cantava;
l'una
era ritta, e l'altre duo in un canto
a
un acquitrin, che 'l fossato menava,
sedeano,
e le lor gambe vide alquanto,
ché
si lavavan i piè bianchi e belli,
con
loro cantando dimolti augelli.
59
L'altra
che stava in piè colse due frondi,
e
d'esse una ghirlanda si facea,
poi
sopra suoi capelli crespi e biondi
la
si ponea, perché 'l sol l'offendea;
poi,
per le sue compagne, folte e fondi
ne
fece due, e poi quelle ponea
in
sulle trecce lor non pettinate,
le
quali eran di frondi spampanate.
60
Africo
si diceva infra se stesso:
«E'
non mi par che Mensola ci sia».
E
poi, fattosi a lor un po' più presso,
la
sua mata ventura maladia,
dicendo:
«Vener, quel che m'hai promesso
non
mi par ch'avvenuto ancor mi sia;
ma
che farò? Domanderò costoro
s'elle
la sanno, e scoprirommi a loro».
61
Diliberato
adunque 'l giovinetto
di
scoprirsi a costor, si fece avanti
oltre
vicino a lor; poi ebbe detto
con
bassa boce e con umil sembianti:
–
Diana, a cui 'l cor vostro sta suggetto,
vi
mantenga nel ben ferme e costanti!
O
belle ninfe, non vi spaventate,
ma
priegovi chun poco m'ascoltiate.
62
I'
vo caendo una di vostra schiera,
la
qual Mensola credo che chiamata
sia
da voi per ciascuna rivera,
e
ben è un mese ch'io l'ho seguitata;
ma
ella è tanto fuggitiva e fera,
che
sempre innanzi a me s'è dileguata:
però
vi priego, dilettose e belle,
che
la 'nsegniate a me, care sorelle. –
63
Quali
sanza pastor le pecorelle,
assalite
dal lupo e spaventate,
fuggon
or qua or là, le tapinelle,
gridando
bé con boci sconsolate;
e
qual fanno le pure gallinelle,
quand'elle
son dalla volpe assaltate,
quanto
più posson ognuna volando
verso
la casa, forte schiamazzando;
64
tal
fêr le ninfe belle e paurose:
quando
vidon costui, – Omè – gridaro;
alzando
i panni, le gambe vezzose,
per
correr meglio, tutte le mostraro;
e
già niuna ad Africo rispose,
ma,
ricogliendo lor archi, n'andaro
su
verso 'l monte, e qual pur per la piaggia,
forte
fuggendo com fiera selvaggia.
65
Africo
grida: – Aspettatemi un poco,
o
belle ninfe, ascoltate 'l mio dire;
sacciate
ch'io non venni in questo loco
per
voi noiar o per farvi morire,
ma
sol per darvi allegrezza con gioco,
in
quanto voi non vogliate fuggire;
io
vengo a voi come di voi amico,
e
voi fuggite me come nimico. –
66
Ma
che ti vale, o Africo, pregalle?
elle
si fuggon pur su per la costa,
e
tu soletto riman nella valle,
sanza
da lor aver altra risposta.
Rimanti,
dunque, di più seguitalle,
poi
ch'ognuna a fuggir è pur disposta;
le
tue lusinghe col vento ne vanno,
e
le ninfe di correr non ristanno.
67
Ell'eran
già da lui tanto lontane
che
di veduta perdute l'avea:
per
che di più seguirle si rimane,
e
'nfra se stesso forte si dolea
di
quelle ninfe sì selvagge e strane.
«Che
farò dunque, lasso a me?» dicea.
«I'
non ci veggio modo niun pel quale
i'
possa aver da lor altro che male.
68
E'
non mi val lusinghe né pregare,
e
nulla fare' mai s'io mi tacessi;
né
non posso con lor la forza usare,
che
volentier l'userei, s'i' potessi.
E
s'io potessi almen pure spiare
dove
Mensola fosse, o pur sapessi
dove
cercarne, o dove si riduce!
Ma
vo errando com'uom sanza luce».
69
Tanto
'l diletto l'avea tranquillato,
di
Mensola cercare, e poi di quelle
ninfe
che nel vallone avea trovato
istare
all'ombra di fresche ramelle,
e
poi dal seguitarle trasviato,
sol
per saper di Mensola novelle,
che
non s'accorse ch'egli era già sera,
e
poco già lucea del sol la spera.
70
Per
che, malinconoso e malcontento,
sé
maladiva e la vegnente notte
che
sì tosto venia; e poi con lento
passo
scendeva giù per quelle grotte,
perché
di star più quivi avea pavento
degli
anima' crudeli, ch'a quell'otte
cominciavan
andar pe' folti boschi,
donando
a chi trovavan di lor tòschi.
71
Così,
sanz'aver punto il dì mangiato,
verso
la casa sua prese la via,
ove
quel giorno dal padre aspettato
era
stato con gran malinconia,
paura
avendo che non fosse stato
da
qualche bestia morto ove che sia,
e
divorato con doglia l'avesse:
però
a casa tornar non potesse.
72
Ed
ancor di Diana avea temenza,
che
non si fosse con lei abbattuto,
come
nimica della sua semenza
sempre
mai stata, e da lei fosse suto
morto,
o fattolo, per più penitenza,
diventar
pietra o albero fronzuto;
e
'n tai pensieri stava lui aspettando,
or
una cosa or altra imaginando.
Di
Girafone ad Africo suo figlio
un
esempletto perché più non vada
dietro
alle ninfe, ché corre periglio.
73
Il
sol era già corso in occidente,
e
sì nascoso che più non lucea,
e
già le stelle e la luna lucente
nell'aria
cilestrina si vedea;
e
l'usignuol più cantar non si sente,
ma
cantan que' che 'l giorno nascondea
per
lor natura, e scuopreli la notte;
Africo
giunse a casa a cota' otte.
74
Alla
qual giunto, l'aspettante padre
con
gran letizia ricevette il figlio,
sì
come que' che temea che le ladre
fiere
non gli avesson dato di piglio;
e
la pietosa e piangente sua madre
l'abracciava
dicendo: – O fresco giglio,
ove
se' tu stato oggi, car figliuolo,
che
tu ci hai dato tanta pena e duolo? –
75
E
similmente il padre il domandava
ove
stato era il dì, sanza mangiare.
Africo
sopra sé alquanto stava
per
legittima scusa a ciò trovare,
la
qual Amore tosto gl'insegnava,
come
far suoi gli animi assottigliare
de'
veri amanti; ed al padre rispose,
e
una bugia cotal sì gli dispose:
76
–
O padre mio, egli è gran pezzo ch'io
in
questi poggi vidi una cerbietta,
la
qual tanto bella era, al parer mio,
che
mai non credo ch'una sì diletta
se
ne vedesse, e veramente Iddio
con
le sue man la fe' sì leggiadretta;
e
nell'andar come gru era leve,
e
bianca tutta come pura neve.
77
Sì
ne 'nvaghii, ch'io la seguii gran pezza,
di
bosco in bosco, credendo pigliarla;
ma
ella tosto de' monti l'altezza
prese;
per ch'io, di più seguitarla
sì
mi rimasi con molta gramezza,
e
'n cor mi puosi d'ancor ritrovarla,
e
con più agio seguirla altra volta;
e
così, a casa tornando, die' volta.
78
Io
mi levai staman e, a dire il vero,
veggendo
il tempo bel, mi ricordai
della
cerbietta, e vennemi in pensiero
di
lei cercar: così diliberai.
Così
mi misi su per un sentiero,
ch'io
non m'accorsi ch'io mi ritrovai
a
mezzo 'l poggio quando 'l sol già era
a
mezzo 'l ciel, con la lucente spera;
79
quando
sentii e vidi menar foglie
di
freschi quercioletti, ond'io più presso
mi
feci alquanto. Dietro alcune scoglie
tacitamente
per veder fu' messo:
vidi
tre cerbie gir con pari voglie
l'erba
pascendo, per che, 'nfra me stesso
avvisando
pigliarne una, pian piano
vêr
lor n'andai con un po' d'erba in mano.
80
Ma
com'elle mi vidon, si fuggiro
suso
al monte, sanza punto aspettarmi,
ed
io di questo alquanto me n'adiro,
veggendo
quivi beffato lasciarmi;
e
così dietro loro un pezzo miro
poi
a seguirle, sanz'aver altre armi
che
ora m'abbia, infin che di veduta
non
me le tolse la notte venuta.
81
Or
sai della mia stanza la cagione,
o
caro padre, e di questo sie certo. –
Il
padre, ch'avea nome Girafone,
gli
parve intender quel parlar coperto,
e
ben s'avvide e tenne oppinione,
sì
come savio e di tai cose sperto,
che
ninfe state dovean esser quelle
ch'e'
dicea ch'eran cerbie tanto belle.
82
Ma
per non farlo di ciò mentitore,
e
non paresse ch'e' se n'accorgesse,
e
per non crescergli 'l disio maggiore
di
più seguirle, ed ancor se potesse
far
che lasciasse da sé questo amore,
e,
sanza palesargliel, giù 'l ponesse,
ciò
c'ha detto fa vista di credègli;
poi
'ncominciò in tal guisa a parlar egli:
83
–
Caro figliuolo, e dolce mio diletto,
per
Dio ti priego ti sacci guardare
da
quelle cerbie che tu or m'hai detto,
ed
in malora via le lascia andare:
ché
sopra la mia fé io ti prometto
che
di Diana son, cha diportare
si
van pascendo su per questi monti,
l'acque
bevendo delle fresche fonti.
84
Diana,
le più volte, va con esse
con
le saette e l'arco micidiale,
e
se per tua sventura s'avvedesse
che
tu le seguitassi, con lo strale
morte
ti donerebbe, come spesse
volte
ell'ha fatto a chi vuol far lor male;
sanza
ch'ell'è grandissima nimica
di
noi e della nostra schiatta antica.
85
Omè,
figluol, ch'a lagrimar mi muove
la
morte del mio padre sventurato,
tornandomi
a memoria il come e 'l dove
fu
da Diana morto e consumato;
o
figliuol mio, così m'aiuti Giove,
com'io
dirò il vero del suo peccato,
che,
come sai, ebbe nome Mugnone
il
padre mio, sì com'io Girafone.
86
La
storia saria lunga, a voler dire
ogni
parte del suo misero danno,
ma
per tosto all'effetto pervenire,
per
questi monti andava, come vanno
i
cacciator, per le bestie ferire;
e
così andando, dopo molto affanno,
'n
una piaggia sopra un fiume arrivoe,
il
qual Mugnon poi per lui si chiamoe.
87
E
quivi giunto, ad una bella fonte
trovò
una ninfa star tutta soletta,
la
qual, vedutol, tutta nella fronte
impalidio,
e su si levò in fretta
«Omè,
omè» dicendo, e giù pel monte
si
fuggìa paurosa e pargoletta;
il
volonteroso padre a pregarla
incominciò,
e poi a seguitarla.
88
O
miser padre, tu non t'avvedevi
che
tu correvi dietro alla tua morte;
e'
lacci suoi, tapin, non conoscevi,
dove
preso tu fosti con rie sorte;
gl'iddii
volesson che, quando correvi
dietro
alla ninfa sì veloce e forte,
Diana
l'avesse in uccel trasmutata,
o
'n pietra, o 'n alber l'avesse piantata!
89
Ella
non era al fiume giunta appena,
che
la raccolta e sottil sua guarnacca
tra
le gambe le cadde, e già la lena
perdea,
di correr e di dolor fiacca;
lo
sciagurato Mugnon gioia ne mena,
avendola
già giunta per istracca,
e
presa la tenea infra le braccia,
donando
baci alla vergine faccia.
90
Quivi
usò forza e quivi violenza,
quivi
la ninfa fu contaminata,
quivi
ella non potè far resistenza:
o
misero garzone, o sventurata
ninfa,
quanto dogliosa penitenza
divise
amendue voi quella fiata!
Diana,
di sul soprastante monte,
abracciati
gli vide a fronte a fronte.
91
Ella
gridò: «O miser, quest'è l'ora
che
'nsieme n'anderete nello 'nferno!
voi
sarete oggi d'esto mondo fora,
sanza
veder di questa state il verno;
e'
vostri nomi faranno dimora
nel
fiume dove siete, in sempiterno!».
E
poscia l'arco tese con grand'ira,
faccendo
de' duo amanti una sua mira.
92
A
un'otta giunson l'ultime parole
e
la freccia che 'nsieme li confisse.
O
figliuol mio, io non ti dico fole:
così
gl'iddii volesson ch'io mentisse,
che
per dolor ancor il cor mi dole!
E'
convenne ch'ognun di lor morisse:
un
ferro sol tenea fitti i duo cori;
così
finiron quivi i loro amori.
93
Il
sangue del mio padre doloroso
il
fiume tinse di rosso colore,
e
corse tutto quanto sanguinoso,
e
manifesto fe' questo dolore;
e
'l corpo suo ancor vi sta nascoso,
che
mai non se ne seppe alcun sentore,
né
dove s'arrivasse poi e 'l come,
salvo
che 'l fiume ritenne il suo nome.
94
Dissesi
che Diana ragunoe
il
sangue della ninfa tutto quanto,
e
'l corpo, insieme con quel, trasmutoe
in
una bella fonte dall'un canto
allato
al fiume; e così la lascioe,
acciò
che manifesto fosse quanto
ell'è
crudele, forte e dispietata
a
chi l'offende solo una fiata.
95
Così
di mille te ne potre' dire
che
'n questi monti son fonti ed uccelli,
e
qua' in alber ha fatto convertire,
che
misfatto hanno a lei, i tapinelli;
ancor
del sangue tuo fece morire,
anticamente,
duo carnal fratelli;
però
ti guarda, per l'amor di Dio,
dalle
sue mani, caro figliuol mio! –
Qui
truova Africo Mensola sua
e
priegala; ella fugge e non risponde;
lanciali
un dardo, e poi si nasconde.
96
Posto
avea fine al suo ragionamento
il
vecchio Girafone lagrimando;
Africo
ad ascoltarlo molto attento
istava,
bene ogni cosa notando;
e
come che alquanto di pavento
avesse
per quel dir, pur fermo stando
nella
sua oppinione, al padre disse:
–
Deh, non temer cotesto a me venisse!
97
Da
or innanzi, i' le lascerò andare,
sed
egli avien ch'i' le truovi più mai;
andianci
dunque, padre, omai a posare,
ch'i'
sono stanco, sì m'affaticai
oggi
per questi monti, per tornare
di
dì a casa, che mai non finai
ch'i'
son qui giunto con molta fatica,
sì
ch'io ti priego che tu più non dica. –
98
Giti
a dormir, non fu sì tosto il giorno
ch'Africo
si levava prestamente
e
negli usati poggi fe' ritorno,
dove
sempre tenea 'l cor e la mente;
sempre
mirandosi avanti e dintorno,
se
Mensola vedea poneva mente;
e
com piacque ad Amor, giunse ad un varco
dov'ella
gli era presso ad un trar d'arco.
99
Ella
lo vide prima ch'egli lei,
per
ch'a fuggir del campo ella prendea;
Africo
la sentì gridar – Omei –
e
poi, guardando, fuggir la vedea,
e
'nfra sé disse: «Per certo costei
è
Mensola» e poi dietro le correa,
e
sì la priega e per nome la chiama,
dicendo:
– Aspetta que' che tanto t'ama.
100
Deh,
o bella fanciulla, non fuggire
colui
che t'ama sopra ogni altra cosa;
io
son colui che per te gran martìre
sento,
dì e notte, sanz'aver mai posa;
io
non ti seguo per farti morire,
né
per far cosa che ti sia gravosa:
ma
sol Amor mi ti fa seguitare,
non
nimistà, né mal ch'i' voglia fare.
101
Io
non ti seguo come falcon face
la
volante pernice cattivella,
né
ancor come fa lupo rapace
la
misera e dolente pecorella,
ma
sì come colei che più mi piace
sopra
ogni cosa, e sia quanto vuol bella;
tu
se' la mia speranza e 'l mio disio,
e
se tu avessi mal, sì l'are' io.
102
Se
tu m'aspetti, Mensola mia bella,
i'
t'imprometto e giuro sopra i dèi
ch'io
ti terrò per mia sposa novella,
ed
amerotti sì come colei
che
se' tutto 'l mio bene, e come quella
c'hai
in balia tutti i sensi miei;
tu
se' colei che sol mi guidi e reggi,
tu
sola la mia vita signoreggi.
103
Dunque,
perché vuo' tu, o dispietata,
esser
della mia morte la cagione?
Perch'esser
vuoi di tanto amor ingrata
verso
di me, sanz'averne ragione?
Vuo'
tu ch'i' mora per averti amata,
e
ch'io n'abbia di ciò tal guiderdone?
S'i'
non t'amassi, dunque, che faresti?
So
ben che peggio far non mi potresti.
104
Se
tu pur fuggi, tu se' più crudele
che
non è l'orsa quand'ha gli orsacchini,
e
se' più amara che non è il fiele,
e
dura più che sassi marmorini;
se
tu m'aspetti, più dolce che 'l mèle
sei,
o che l'uva ond'esce i dolci vini,
e
più che 'l sol se' bella ed avvenente,
morbida
e bianca, ed umile e piacente.
105
Ma
i' veggio ben che 'l pregar non mi vale,
né
parola ch'io dica non ascolti,
e
di me servo tuo poco ti cale,
e
mai indietro gli occhi non hai volti;
ma
com'egli esce dell'arco lo strale,
così
ten vai per questi boschi folti,
e
non ti curi di pruni o di sassi,
che
graffian le tue gambe, o di gran massi.
106
Or
poi che di fuggir se' pur disposta
colui
che t'ama, secondo ch'i' veggio,
sanza
ai mie' prieghi far altra risposta,
e
par che per pregar tu facci peggio,
i'
priego Giove che 'l monte e la costa
ispiani
tutta, e questa grazia cheggio,
e
pianura diventi umile e piana,
ch'al
correr non ti sia cotanto strana.
107
E
priego voi, iddii, che dimorate
per
questi boschi e nelle valli ombrose,
che,
se cortesi foste mai, or siate
verso
le gambe candide e vezzose
di
quella ninfa, e che voi convertiate
alberi
e pruni e pietre ed altre cose,
che
noia fanno a' piè morbidi e belli,
in
erba minutella e 'n praticelli.
108
Ed
io, per me, omai mi rimarroe
di
più seguirti, e va' ove ti piace,
e
nella mia malora mi staroe
con
molte pene, sanz'aver mai pace;
e
sanza dubbio al fin ch'i' ne morroe,
ch'i'
sento 'l cor che già tutto si sface
per
te, che 'l tieni in sì ardente foco,
e
mancali la vita a poco a poco. –
109
La
ninfa correa sì velocemente,
che
parea che volasse, e' panni alzati
s'avea
dinnanzi per più prestamente
poter
fuggir, e aveasegli attaccati
alla
cintura, sì ch'apertamente,
di
sopra a' calzerin ch'avea calzati,
mostra
le gambe e 'l ginocchio vezzoso,
ch'ognun
ne diverria disideroso.
110
E
nella destra mano aveva un dardo,
il
qual, quand'ella fu un pezzo fuggita,
si
volse indietro con rigido sguardo,
e
diventata per paura ardita,
quello
lanciò col buon braccio gagliardo,
per
ad Africo dar mortal ferita;
e
ben l'arebbe morto, se non fosse
che
'n una quercia innanzi a lui percosse.
111
Quand'ella
il dardo per l'aria vedea
zufolando
volar, e poi nel viso
guardò
del suo amante, il qual parea
veracemente
fatto in paradiso,
di
quel lanciar forte se ne pentea,
e
tocca di pietà lo mirò fiso,
e
gridò forte: – Omè, giovane, guarti,
ch'i'
non potrei omai di questo atarti! –
112
Il
ferro era quadrato e affusolato
e
la forza fu grande, onde si caccia
entro
la quercia, e tutt'oltre è passato,
come
se dato avesse in una ghiaccia;
ell'era
grossa sì ch'aggavignato
un
uomo non l'arebbe con le braccia;
ella
s'aperse, e l'aste oltre passoe,
e
più che mezza per forza v'entroe.
113
Mensola
allor fu lieta di quel tratto,
che
non aveva il giovane ferito,
perché
già Amor l'avea del cor tratto
ogni
crudel pensiero, e fatto 'nvito;
non
però ch'ella aspettarlo a niun patto
più
lo volesse, o pigliasse partito
d'esser
con lui, ma lieta saria stata
di
non esser da lui più seguitata.
114
E
poi da capo a fuggir cominciava
velocissimamente,
poi che vide
che
'l giovinetto pur la seguitava
con
ratti passi e con prieghi e con gride;
per
ch'ella innanzi a lui si dileguava,
e
grotte e balzi passando ricide,
e
'n sul gran colle del monte pervenne,
dove
sicura ancor non vi si tenne.
115
Ma
di là passa molto tostamente,
dove
la piaggia d'alberi era spessa,
e
sì di fronde folta, che niente
vi
si scorgeva dentro: per che messa
si
fu la ninfa là tacitamente,
e
come fosse uccel, così rimessa
nel
folto bosco fu, tra verdi fronde
di
bei querciuol, che lei cuopre e nasconde.
Africo
qui nell'amor si raccese
quando
il parlare di Mensola intese.
116
Diciamo
un poco d'Africo, che, quando
vide
il lanciar che la ninfa avea fatto,
alquanto
sbigottì, ma poi ascoltando
il
gridar «Guarti guarti» con un atto
assai
pietoso verso lui mostrando
con
la luce degli occhi, che 'n un tratto
gli
ferì 'l core e fecel più bramoso
di
seguitarla, e più volonteroso.
117
E
come fa 'l tizzon ch'è presso a spento,
e
sol rimasa v'è una favilla,
ma
poi che sente il gran soffiar del vento,
per
forza il foco fuor d'esso ne squilla,
e
diventa maggior per ognun cento;
tal
Africo sentì, quando sentilla
a
lui parlar con sì pietosa boce,
maggiore
'l foco che lo 'ncende e coce.
118
E
gridò forte: – Ora volesse Giove,
poi
che tu vuo', che tu m'avessi morto
a
questo tratto, acciò che le tue pruove
fosson
compiute, avendomi al cor porto
l'aguto
ferro, il qual percosse altrove;
e
come che tu abbia di ciò 'l torto,
i'
pur sare' contento d'esser fore,
per
le tue man, delle fiamme d'Amore. –
Ismarrisce
Africo Mensola; torna
a
casa e dice si sente gran duolo;
duolsi
di Vener e Amor suo figliuolo,
po'
s'adormenta in sul suo letticciuolo.
119
Appena
avea finito il suo parlare
Africo,
quando Mensola giugnea
in
sul gran monte, e videla passare
dall'altra
parte, e più non la vedea;
onde
di ciò molto mal gliene pare,
perch'ella
innanzi a lui tal campo avea
ch'e'
temea forte che lei di veduta,
com'egli
avvenne, non aver perduta.
120
E
lassù giunto dopo molto affanno,
gli
occhi a mirar di lei subito pone;
e
come i cacciatori spesso fanno
quando
levata s'è la cacciagione,
e
di veduta poi perduta l'hanno,
con
la testa alta vanno baloccone,
correndo
or qua or là, or fermi stando,
e
come smemorati dimorando;
121
tal
Africo faceva in sul gran monte,
di
lei mirando con alzato volto,
e
con le man si percotea la fronte,
e
di fortuna ria si dolea molto,
che
già gli aveva fatte dimolte onte;
e
poi ne giva verso il bosco folto,
poi
ritornava indietro e dicea: «Forse
ch'ella
da questa mano il cammin torse».
122
E
tosto là, correndo, se n'andava,
se
vederla potesse in nessun lato,
e
poi che non la vede, ritornava
in
altro loco, molto addolorato;
e
poi ch'andata fosse s'avvisava
da
un'altra parte, ma 'l pensier fallato
tuttavia
li venìa, onde che farsi
e'
non sapea, né dove più cercarsi.
123
E
ben dicea fra sé: «Forse costei
in
questo bosco grande s'è nascosa;
e
s'ella v'è, mai non la troverei,
se
menar non vedessi alcuna cosa,
e
più d'un mese cercar ne potrei
la
piaggia tutta per le fronde ombrosa;
e
non ci veggio donde entrata sia,
né
fatta per lo bosco alcuna via.
124
Né
'l cor giammai mi dare' d'avvisare
in
qual parte sia ita, tante sono
le
vie dond'ella se ne puote andare:
e
se a cercar di lei più m'abandono,
per
avventura il contrario cercare
potre'
dov'ella fosse, onde tal dono,
chente
aver mi parea, non prender mai,
ond'io
rimaso son con molti guai.
125
Né
so s'io me ne vo, né s'io m'aspetti
se
riuscir la veggio in nessun lato,
benché
sì folti son questi boschetti,
che
vi staria a cavallo un uom celato
sanza
d'esser veduto aver sospetti;
e
pognàn pur ch'ella uscisse d'aguato:
più
ch'un buon mezzo miglio di lontano
da
me uscirebbe, ond'io correrei 'nvano».
126
E
poi guardò il sol, che presso all'ora
di
nona era venuto, onde dicea:
«Poi
che io son d'ogni speranza fora
d'aver
colei, la qual i' mi credea,
i
non vo' più quinci oltre far dimora»,
tornandogli
a memoria quel ch'avea
raccontatogli
il padre, il dì davanti,
come
fûr morti insieme i due amanti.
127
Dall'altra
parte Amor gli facea dire:
«I'
non curo Diana, pur che io
sol
una volta empiessi il mio disire,
che
poi contento sarebbe il cor mio;
e
se mi convenisse poi morire,
n'andre'
contento ringraziando Iddio;
ma
di lei più che di me mi dorrebbe:
s'ella
morisse per me, mal sarebbe».
128
Cota'
ragionamenti rivolgendo
Africo
in sé, vi dimorò gran pezza,
né
che si far né che dir non sappiendo,
tanto
Amor lo lusinga e si l'avvezza;
e
nella fin pur partito prendendo,
che,
per non dar al padre suo gramezza,
d'a
casa ritornar contro a sua voglia;
così
si mise in via con molta doglia.
129
Così
sen torna Africo malcontento,
rivolgendosi
indietro ad ogni passo,
istando
sempre ad ascoltare attento
se
Mensola vedea, dicendo: «Lasso
a
me tapino, in quanto rio tormento
rimango,
e d'ogni ben privato e casso!».
E
– Tu rimani, o Mensola? – chiamando,
più
e più volte indietro ritornando.
130
Molto
sarebbe lungo chi volesse
le
volte raccontar che e' tornava
indietro
e innanzi, tant'erano spesse,
per
ogni foglia che si dimenava;
e
quanta doglia dentro al cor avesse,
ognuno
il pensi, e quanto gli gravava
di
partir quindi; ma per dir più brieve,
a
casa si tornò con pena grieve.
131
Alla
qual giunto, in camera ne gìa
sanza
da padre o madre esser veduto,
e
'n sul suo picciol letto si ponia,
sentendosi
già al cor esser venuto
Cupìdo,
il qual già si forte 'l feria,
che
volentieri arebbe allor voluto,
morendo,
uscir di tanta pena e noia,
veggendosi
privato di tal gioia.
132
E
tutto steso in sul letto bocconi,
Africo
sospirando dimorava;
e
sì lo punson gli amorosi sproni,
che
– Omè, omè – per tre volte gridava
sì
forte, ch'agli orecchi que' sermoni
della
sua madre vennon, che si stava
'n
un orticello allato alla casetta,
e
ciò udendo in casa corse in fretta.
133
E
nella cameretta ne fu andata,
del
suo figliuol la boce conoscendo,
e
giunta là, si fu maravigliata,
il
suo figliuol boccon giacer veggendo;
per
che con boce rotta e sconsolata
lui
abbracciò, – Caro figliuol, – dicendo –
deh,
dimmi la cagion del tuo dolere,
e
donde vien cotanto dispiacere.
134
Deh,
dimmel tosto, caro figliuol mio,
dove
ti senti la pena e 'l dolore,
sì
che io possa, medicandoti io,
cacciar
da te ogni doglia di fore;
deh,
leva 'l capo, dolce mio disio,
ed
un poco mi parla per mio amore:
i'
son la madre tua che t'allattai,
e
nove mesi in corpo ti portai. –
135
Africo,
udendo quivi esser venuta
la
sua tenera madre, fu cruccioso
perch'ella
s'era di lui avveduta;
ma
fatto già per amor malizioso,
tosto
nel cor gli fu scusa caduta,
e
'l capo alzò col viso lagrimoso,
e
disse: – Madre mia, quando tornava,
istaman,
caddi, e tutto mi fiaccava.
136
Poi
mi rizzai, e rimasemi al fianco
una
gran doglia, ch'appena tornare
potei
'nfin qui, e divenni sì stanco
che
sopra me non pote' dimorare,
ma
come neve al sol veniva manco;
per
ch'io mi venni in sul letto a posare,
e
parmi alquanto la doglia ita via,
che
prima tanto forte m'impedia.
137
E
però, madre mia, se tu m'hai caro,
ti
priego che di qui facci partenza,
e,
per Dio, questo non ti sia discaro,
che
'l favellar mi dà gran penitenza,
né
veggio alla mia doglia altro riparo;
or
te ne va', sanza più resistenza
far
al mio dir, che per certo conosco
che
'l più parlar m'è velenoso tòsco. –
138
E
questo detto, il capo giù ripose,
sanza
più dir, ma forte sospirando.
La
madre, avendo udito queste cose,
con
seco venne alquanto ripensando,
dicendo:
«E' mi s'accosta che gravose
e
maggior pena gli sia favellando,
ché
forse gli rimbomba quella boce
dove
la doglia nel fianco gli nuoce».
139
E
della camera uscita, in sul letto
lasciò
'l figliuol pien di molti sospiri,
il
qual po' che si vide esser soletto,
d'Amor
si dolea forte e de' martirî,
i
qua' crescean nel non usato petto
con
maggior forza e più caldi disiri
che
prima non facean, dicendo: «I' veggio
ch'Amor
mi tira pur di mal in peggio.
140
I'
mi sento arder dentro tutto quanto
dall'amorose
fiamme, e consumare
mi
sento 'l petto e 'l core da ogni canto,
né
non mi può di questo alcuno atare,
né
conforto donar, poco né quanto;
sol
una è quella che mi può donare,
s'ella
volesse, aiuto e darmi pace,
e
di me sol può far quanto le piace.
141
E
tu sola, fanciulla bionda e bella,
morbida,
bianca, angelica e vezzosa,
con
leggiadro atto e benigna favella,
fresca
e giuliva più che bianca rosa
ed
isplendente sopra ogni altra stella,
se',
che mi piaci più ch'ogni altra cosa,
e
sola te con disidèro bramo,
e
giorno e notte ed ognora ti chiamo.
142
Tu
se' colei ch'alle mie pene e guai
sola
potresti buon rimedio porre;
tu
se' colei che nelle tue mani hai
la
vita mia, e non la ti posso tôrre;
tu
se' colei la qual, se tu vorrai,
me
da misera morte potrai storre;
tu
se' colei che mi puo' atar, se vuoi:
così
volessi tu, come tu puoi!».
143
E
poi diceva: «Oh me lasso dolente,
che
tu se' tanto dispietata e dura,
e
tanto se' selvaggia dalla gente,
che
hai di chi ti mira gran paura;
e
di mia vita non curi niente,
la
qual in carcer tenebrosa e scura
istà
per te, e tu, lasso, nol credi
ch'i'
per te senta quel che tu non vedi».
144
Poi,
sospirando, a Vener si volgea,
dicendo:
– O santa iddea, la quale suoi
ogni
gran forza vincer, che volea
difesa
far contro a li dardi tuoi,
e
niun da te difendersi potea,
ora
mi par che vincer tu non puoi
una
fanciulla tenera, la quale
la
forza tua contra lei poco vale.
145
Tu
hai perduto ogni forza e valore
contro
di lei; e lo 'ngegno sottile,
che
suol aver il tuo figliuol Amore
contro
ad ogni cor villano e gentile,
perduto
l'ha contro al gelato core,
il
qual ogni tua forza tien a vile,
e
sprezza l'arco e l'agute saette
che
solea far con esse tue vendette.
146
Tu
ti credesti forse lei pigliare
agevolmente
come me pigliasti
e
nel gelato petto tosto entrare
co'
tuoi 'ngegni, come nel mio entrasti:
ma
ella fe' le frecce rintuzzare,
con
le qua' di passarla t'ingegnasti;
ed
io, tapin, che non fe' difensione,
rimaso
son in eterna prigione.
147
Né
spero d'essa giammai riuscire,
né
pace aver né triegua né riposo,
ma
ben aspetto che maggior martìre
mi
cresca ognor col pensier amoroso,
il
qual al fin farà del corpo uscire
l'anima
trista con pianto noioso,
e
gir fra l'ombre nere a suo dispetto:
e
questo fia di me l'ultimo effetto.
148
Ed
io ti cheggio, Morte, poi che dèi
medicina
esser di mia amara vita;
perché
contro a mia voglia viverei,
se
non mi dài nel cor la tua ferita,
e
sempre mai di te io mi dorrei,
e
se tu vien, sarai da me gradita;
dunque,
vien tosto, e scio' questa catena,
con
la qual son legato in tanta pena. –
149
Poi,
detto questo, forte lagrimando,
si
ricordò del dardo il qual lanciato
gli
avea la bella ninfa, e poscia quando
con
pietose parole avea parlato
ch'egli
schifasse il dardo, che volando
venia
ver lui per l'aria affusolato;
quelle
parole gli davan fidanza
alcuna
di pietà con isperanza.
150
Così
piangendo e sospirando forte
lo
'nnamorato giovane in sul letto,
bramando
vita e chiamando la morte,
isperando
e temendo con sospetto,
lo
dio del sonno uscì delle gran porte
e
fece adormentare il giovinetto,
il
qual per le fatiche era sì stanco,
che
quasimente venìa tutto manco.
[La
tener madre, credendo che 'l duolo
d'Africo
fosse molto periglioso,
colse
certe erbe per farlo gioioso:
e
prestamente gli fe' un bagnuolo.]
151
La
maestrevol madre colto avea
d'erbe
gran quantità, per un bagnuolo
far
a quel mal, il qual ella credea
che
nel fianco sentisse il suo figliuolo,
sì
come quella che non conoscea
onde
veniva l'angoscioso duolo;
e
mentre che tal opera dispone,
a
casa ritornava Girafone.
152
Il
qual del caro figlio domandava,
se
in quel giorno a casa era tornato.
La
donna, ch'Alimena si chiamava,
di
sì rispose, e poi gli ha raccontato
il
fatto tutto, e come gli gravava
sì
lo parlar che so l'ha lasciato,
perché
si possa a suo modo posare:
–
Però ti priego che tu 'l lasci stare.
153
I'
ho fatto un bagnuol molto verace
a
quella doglia, il qual, poscia ch'alquanto
riposato
sarà quanto a lui piace,
il
bagneren' con esso tutto quanto;
questo
bagnuol ogni doglia disface
e
sanerallo dentro in ogni canto:
però
lo lascia star quanto si vuole,
che,
quando parla, il fianco più gli duole. –
154
Il
paterno amor non sofferse stare
che
non vedesse subito 'l figliuolo;
udendo
quelle cose raccontare
alla
sua donna, al cor sentì gran duolo,
e
nella cameretta volle andare,
ov'Africo
dormia 'n sul letticciuolo;
e
veggendol dormir, lo ricopria
e
tostamente quindi se n'uscia.
155
E
disse alla sua donna: – O cara sposa,
nostro
figliuol mi pare adormentato,
e
molto ad agio in sul letto si posa,
sì
ch'a destarlo mi parria peccato,
e
forse gli saria cosa gravosa,
se
io l'avessi del sonno isvegliato. –
–
E tu di' ver, – rispondeva Alimena –
lascial
posar, e non gli dar più pena. –
[Dormito
ch'ebbe, Africo doloroso
su
si levò, e ‘l padre domandollo
e
la sua madre molto confortollo;
dicean:
– Perché sì se' malinconoso? –]
156
Poscia
che 'l sonno ebbe Africo tenuto
nelle
sue reti gran pezza legato,
e
fu nel petto suo tutto soluto,
un
gran sospir gittando, fu svegliato;
e
poi che vide non esser veduto,
nel
suo primo dolor fu ritornato,
e
non gli era però di mente uscito
il
dolce sguardo che l'avea ferito.
157
Ma
per non far la cosa manifesta
al
padre, che sentito già l'avea,
su
si levò, faccendo sopravesta,
col
viso infinto, ad Amor che 'l pungea;
e
poi ch'alquanto il bel viso e la testa
e
gli occhi col lenzuol netto s'avea,
perch'era
ancor di lagrime bagnato,
poi
uscì fuori, un pochetto turbato.
158
Girafon,
quando 'l vide, tostamente
gli
si faceva incontro, domandando
del
caso suo e poi come si sente;
ed
Alimena ancora, lui mirando,
il
domandava, e que' diceva: – Niente
quasi
mi sento, e dicovi che, quando
i'
mi destai, mi senti' andato via
la
doglia che sì forte m'impedia. –
159
Nondimen
fece il padre apparecchiare
il
bagnuol caldo perché si bagnasse:
ed
e' vi si bagnò, per dimostrare
ch'altra
pena non fosse che 'l noiasse.
O
Girafon, tu nol sai medicare,
e
non potresti far che si saldasse
con
bagnuol la ferita che fe' Amore:
e
non la vedi, ch'è nel mezzo al core!
160
Ma
lasciàn qui che, poi che fu bagnato,
passò
quel giorno assai malinconoso;
e
l'altro e 'l terzo e 'l quarto egli ha passato
con
molte pene senz'alcun riposo,
e
già, ogni diletto abandonato,
sanza
mai rallegrarsi sta pensoso;
né
mai partiva il pensier da colei,
per
cui dì e notte chiamava gli omei.
161
Già
padre e madre e tutt'altre faccende
gli
uscian di mente sanz'averne cura,
né
più a niuna cosa non attende,
lasciandole
menare alla ventura;
ma
ogni suo pensier in quella spende,
la
qual il tien in tal prigione oscura,
e
solo in lei ha posto ogni sua speme,
e
di lei ha paura, e lei sol teme.
162
Esso,
quando poteva in nessun loco
che
veduto non fosse ritrovarsi,
quivi,
sfogando l'amoroso foco,
dogliendosi
d'Amor poneva a starsi;
e
sol questo era suo sollazzo e gioco,
quando
potea con agio lamentarsi
e
ricordar i casi intervenuti,
ch'eran
tra lui e la sua amante suti.
163
Continovando
adunque in tal lamento
Africo,
ognora crescendogli pena,
e
già sì stanco l'aveva il tormento,
ch'avea
perduto la forza e la lena;
vivea
contra sua voglia, malcontento,
e
già sì stretto l'avea la catena
d'Amor,
che quasi punto non mangiava,
e
più di giorno in giorno lo stremava.
164
Già
fuggito era il vermiglio colore
del
viso bello, e magro divenuto,
e
'n esso già si vedea 'l palidore
e
gli occhi in dentro col mirar aguto;
e
trasformato sì l'avea il dolore,
ch'appena
si saria riconosciuto
a
quel ch'esser solea prima che preso
fosse
d'Amor, e dalle fiamme offeso.
165
Sì
gran dolor il padre ne portava,
che
raccontar non vel potre' giammai;
e
con parole spesso il confortava,
dicendo:
– Figliuol mio, dimmi che hai
e
che è quella cosa che ti grava:
ch'i'
ti prometto che, se 'l mi dirai,
pur
che sia cosa che possibil sia,
per
certo tu l'arai in fede mia.
166
E
s'ell'è cosa che non si potesse
aver
per forza o per ingegno umano,
provederem
s'altro modo ci avesse
a
cacciar via questo pensier villano,
acciò
che tanta noia non ti desse,
e
che tu torni, com'esser suoi, sano;
e'
non può esser che qualche consiglio
i'
non ti doni buon, caro mio figlio. –
167
Simile
ancora la sua madre cara
il
domandava spesso qual cagione
fosse
della sua vita tanto amara,
che
'l conduceva a tanta turbagione,
dicendo:
– Figlio, tanto m'è discara
questa
tua angoscia, ch'a disperazione
i'
credo venir tosto, poi ch'i' veggio
che
ogni giorno vai di mal in peggio. –
168
Niun'altra
cosa Africo rispondea,
se
non che nulla di mal si sentia,
e
la cagion di questo non sapea;
alcuna
volta pur acconsentia
ch'un
poco il capo o altro gli dolea,
perché
di più domandarlo ristia;
onde
più volte egli era medicato
non
di quel mal che saria bisognato.
[Africo,
essendo in dolorosa vita,
andando
un dì coll'armento pel monte,
si
specchiò arrivando ad una fonte
e
la persona sua vide smarrita.]
169
Adunque,
in cotal vita dimorando,
Africo,
un giorno, essendo con l'armento
del
suo bestiame, quind'oltre guardando,
sen
giva in qua e 'n là con passo lento;
sempre
della sua amante gìa pensando,
per
la qual dimorava in tal tormento;
poi
una fonte vide molto bella
presso
di lui, più chiara ch'una stella.
170
Ell'era
tutta d'alber circundata,
e
verdi fronde che faceano ombria
ad
essa; e poi ch'alquanto l'ha mirata,
a
piè di quella a seder si ponia,
pensando
alla sua vita sventurata,
e
dove Amor condotto già l'avia;
poi
si specchiava nell'acqua,
e
pon cura quanto fatta era la sua faccia scura.
171
Per
che, pietà di se stesso gli venne,
veggendosi
sì forte sfigurato,
e
le lagrime punto non ritenne,
ma
forte a pianger ch'egli ha cominciato,
maladicendo
ciò che gl'intervenne
il
primo giorno che fu 'nnamorato,
dicendo:
«Lasso a me, a che periglio
veggio
la vita mia sanza consiglio!».
172
E
con la man la gota sostenendo,
in
sul ginocchio il gomito posava,
e
sì diceva, tuttavia piangendo:
«Oh
me dolente, la mia vita prava!
ch'ella
si va come neve struggendo
al
sol, tanto questa doglia la grava,
e
come legno al fuoco mi divampo,
né
veggio alcun riparo allo mio scampo.
173
Io
non posso fuggir che io non ami
questa
crudel fanciulla che m'ha preso
il
cor, e ch'io non lei sempre ma' brami
sopra
ogni cosa; e poi veggio ch'offeso
i'
son sì forte da questi legami,
che
giorno e notte i' sto in foco acceso,
sanza
speranza d'uscirne giammai,
se
morte non pon fine a questi guai».
174
E
poi, guardando, vide nel suo armento
le
belle vacche e' giovenchi scherzare;
vedea
ciascuno il suo amor far contento,
e
l'un con l'altro si vedea baciare;
sentia
gli uccei con dolce cantamento
ed
amorosi versi rallegrare,
e
gir l'un dietro all'altro sollazzando,
e
gli amorosi effetti gir pigliando.
175
Africo,
questo veggendo, dicea:
«O
felici animai, quanto voi sete
più
di me amici di Venere iddea,
e
quanto i vostri amor più lieti avete,
e
con maggior piacer ch'i' non credea,
e
quanto più di me lodar dovete
Amor
de' vostri amori e bei piaceri,
ch'e'
v'ha prestati sì compiuti e 'nteri!
176
Voi
ne cantate e menatene gioia,
manifestando
la vostra allegrezza,
ed
io ne piango con tormento e noia,
e
giorno e notte menando gramezza,
e
veggio pur ch'al fin convien ch'i' muoia:
così
mi liberrò d'ogni gravezza,
sanz'aver
mai avuto alcun diletto,
di
quella che m'ha 'l cor tanto costretto!».
177
E
dopo un gran sospir, sì fortemente
a
pianger cominciava il giovinetto,
e
le lagrime sì abondevolmente
gli
uscian degli occhi, che le guance e 'l petto
parevan
fatte un fiumicel corrente,
tant'era
dalla gran doglia costretto;
poi
nella fonte bella si specchiava,
e
con l'ombra di se stesso parlava.
178
Poi
che si fu con lei molto doluto,
e
la fonte di lagrime ripiena,
e
molti pensier vari avendo avuto,
alquanto
di più pianger si raffrena,
per
un pensier che nel cor gli è venuto
ch'alquanto
mitigò la grieve pena,
tornandogli
a memoria la speranza,
che
gli diè Vener sopra sua leanza.
179
Ma
veggendo l'effetto non venire
di
tal promessa, e sé condotto a tale
che
'n brieve tempo gli convien morire,
disse:
«Forse che Vener, del mio male
non
si ricorda, né del mio martìre,
né
vede come morte ria m'assale».
Per
che, con sacrificio ed onor farle,
propose
la 'mpromessa rammentarle.
180
E
'n piè levato, se ne giva in parte,
donde
vedeva il ciel meglio scoperto:
e
quivi, con fucile e con su' arte,
il
foco accese molto chiaro e aperto,
e
poi con un coltel taglia e diparte
dimolte
legne, e 'l foco n'ha coperto;
e
ratto poi prese una pecorella
del
suo armento, molto grassa e bella.
181
E
quella presa, la condusse al foco
e
quivi tra le gambe la si mise,
e
come que' che ben sapeva il gioco,
nella
gola ferendola l'uccise,
e
'l sangue uscendo fuori a poco a poco
sopra
'l foco lo sparse; e poi divise
la
pecorella, e duo parti n'ha fatto,
e
nel foco la mise molto ratto.
182
L'una
parte per Mensola vi misse,
l'altra
in suo nome volle che v'ardesse,
per
veder se miracol n'avenisse
per
lo quale speranza ne prendesse,
o
buona o rea, pur che ella venisse,
acciò
sapesse che sperar dovesse;
e
poi si mise in terra ginocchione,
faccendo
a Vener cotale orazione:
[A
Venere fa Africo orazione;
raccomandasi
a lei divotamente
che
in suo aiuto sia liberamente,
sì
come ha fatto a molte altre persone.]
183
–
O santa iddea, la cui forza e valore
ogni
altra passa mondana e celesta,
o
Vener bella, col tuo figlio Amore,
che
fere i cori e gli animi molesta,
a
te ricorro con divoto core,
sì
come quella c'hai in tua podesta
il
cor di tutti, ché questo mio priego
degni
ascoltar, e non mi facci niego.
184
Tu
sai, iddea, come agevolmente
i'
mi lascia' pigliar al tuo figliuolo,
il
giorno che Diana parimente
vidi
alla fonte con l'adorno stuolo
delle
sue ninfe, e come tostamente
nel
cor sentii delle tue frecce il duolo,
per
una ch'io vi vidi tanto bella,
che
sempre poi m'è stata nel cor quella.
185
E
quanti sien poi stati i miei martirî,
ch'i'
ho per lei patiti e sostenuti,
e
l'angosciose pene ed i sospiri,
assai
ben chiar gli puo' aver conosciuti;
e
quanto la fortuna a' miei disiri
contraria
è stata, posson esser suti
ver
testimoni i boschi tutti quanti
di
questa valle, sì gli ho pien di pianti!
186
Ancora
il viso mio assai palese
fa
manifesto come la mia vita
è
stata e sta ancora in fiamme accese,
e
che tosto morendo fia finita,
e
fuor di tutte quante le tue offese,
se
prima la tua forza non l'aita;
e
se non pon' rimedio alla mia pena,
morte
mi scioglierà di tal catena.
187
Tu
prima fosti che principio desti
alla
mia angoscia, e che in visione
venendo
a me col tuo figliuol, dicesti
ch'io
seguissi la mia oppinione;
e
detto questo, poi mi promettesti,
come
tu sai, che sanza tardagione,
che
tosto il mio amor verria in effetto;
poi
mi lasciasti ferito in sul letto.
188
Per
che del tuo parlar presi speranza,
e
l'animo disposi ad amar quella,
avendo
in te di ciò ferma fidanza;
ed
un giorno trovandola, quand'ella
mi
vide, di me prese gran dottanza,
ed
a fuggir si diè crudele e fella,
e
sì veloce che una saetta,
quand'esce
d'arco, non va tanto in fretta.
189
Né
mai pote', con lusinghe o preghiera,
far
ch'ella mai aspettar mi volesse,
ma
com'un veltro se ne gìa leggiera,
mostrando
ben che poco le calesse
della
mia vita; e poi ardita e fera,
veggendo
ch'a seguirla aveva messe
tutte
mie forze, si volse, ed un dardo
ver
me lanciò col bel braccio gagliardo.
190
Allor
potestù ben vedere, o dea,
che
morto da quel colpo saria stato,
se
un albero non fosse, il qual avea
davanti
a me, che 'l colpo ebbe arestato.
Poi
passò 'l monte, e più non la vedea,
lasciando
me tapino e sconsolato;
né
pote' poi ritrovarla giammai,
ond'io
rimaso son con molti guai.
191
Ond'io
ti priego, iddea, per tutti i prieghi
che
far si posson per l'umana gente,
ch'un
poco gli occhi tuoi verso me pieghi,
e
mira la mia vita aspra e dolente
pietosamente,
e che nel cor tu leghi
di
Mensola il tuo figlio strettamente,
sì
ch'a lei facci come a me sentire
le
fiaccole amorose col martìre.
192
E
se tu questo non volessi fare,
ti
priego almen che, quando la mia vita
verrà
a morte, che poco più stare
potrà
che le converrà far partita
di
questo mondo e 'l corpo abandonare,
che
la mia amante veggia mia finita,
e
che la morte mia non le sia gioia
almen,
poi che la vita mia l'è noia. –
[Miracol
vide della pecorella
Africo,
di che, preso gran conforto,
e'
ringraziò Venere iddea bella.]
193
A
pena avea finita l'orazione
Africo,
quando, nel foco mirando,
vide
che 'n esso era arso ogni tizzone,
e
che la pecorella, su levando,
l'una
parte con l'altra s'accozzone,
come
fu mai, e poi, forte belando,
sanz'arder
punto stette ritta un poco,
e
poi, ardendo, ricadde nel foco.
194
Questo
miracol donò gran conforto
ad
Africo ch'ancora lagrimava,
parendogli
vedere assai iscorto,
che
Vener l'orazion sua accettava,
la
qual divotamente l'avea porto;
per
che sovente la dea ringraziava,
parendogli
il miracol buon segnale
da
dover aver fine omai 'l suo male.
195
E
perché già il sol era calato
in
occidente, e poco si vedea,
tutto
l'armento suo ebbe adunato,
e
'nverso il suo ostello il conducea,
dove,
nel volto assai più che l'usato
e
nella vista allegro, vi giugnea,
e
dove fu dal padre suo raccolto
e
dalla madre ancor con lieto volto.
196
Ma
poi che nel ciel già tutte le stelle
si
vedean e la notte era venuta,
cenaron
tutti, e dopo assai novelle
d'una
cosa e d'un'altra intervenuta,
Africo,
ch'avea poco il core a quelle,
la
stanza quivi gli era rincresciuta;
per
che a dormir s'andò tutto soletto,
da
speranza e pensier nuovi costretto.
197
Ma
prima che dormir punto potesse,
o
che sonno gli entrasse nella testa,
migliaia
di volte credo si volgesse
pel
letticciuol, d'altra parte or da questa,
mostrando
ben che tutto il core avesse
fisso
a colei che tanto lo molesta;
ma
pure, atato forte da speranza,
del
sì e del no stava in dubitanza.
198
Pur
alla fine, già press'al mattino,
il
sonno vinse gli occhi dell'amante:
e
leggiermente dormendo supino,
Venere
iddea gli venne davante,
e
'n collo avea Amor, picciol fantino,
con
l'arco e le saette minacciante;
poi
gli pareva che Venere iddea
cota'
parole verso lui dicea:
199
–
Lo sacrificio tuo e l'orazione
che
mi facesti fu da me accettata,
per
modo che n'arai buon guiderdone
da
me, di quel che fu' da te pregata:
ed
abbi certa e ferma oppinione
che
la mia forza non ti fia negata
in
tuo aiuto e quella del mio figlio,
se
tu seguir vorrai il mio consiglio.
200
Fatti
una vesta fatta in tale stile
ch'ella
sia larga e lunga insino a' piedi,
tutta
ritratta ad atto feminile;
poi
d'un arco e d'un dardo ti provedi,
a
modo d'una ninfa tutto umìle;
poi
ti metti a cercar se tu la vedi.
Tu
parrai, come lor, ninfa per certo,
se
tu saprai con lor andar coperto.
201
E
se tu truovi Mensola, con lei
piacevolmente
a parlare enterrai
di
cose sante e di cose d'iddei,
e
con lei ragionando ti starai.
E
perché sappi ben ciò che far déi,
questo
mio figlio nel cor tu arai,
e
ben t'insegnerà dire ogni cosa
che
fia a lei piacente e graziosa.
202
E
quando 'l tempo ti vedi più bello,
e
tu a lei allor ti manifesta:
ella
si fuggirà, sì come uccello
seguito
dal falcon per la foresta,
ma
fa' che tu non fossi tanto fello
che,
quando ti palesi, ella più presta
fosse
a fuggir che tu presto a pigliarla:
che
non ti varria poi più lo 'ngannarla.
203
Non
temer di sforzarla, ché 'l mio figlio
la
ferirà in tal modo e tal maniera
che
non potrà uscir del tuo artiglio,
e
di lei arai ogni tua voglia intera.
Or
fa' che tu t'attenga al mio consiglio,
e
adempierai ciò che 'l tuo disio spera. –
E
poi sparì, quand'Africo sentissi,
ch'era
già dì, e tosto rivestissi.
204
E
come que' che molto ben avea
la
vision di Venere compresa,
e
molto questo modo gli piacea,
onde
si fu allor la fiamma accesa
più
nel suo core, sì che tutto ardea
per
la speranza che già n'avea presa:
per
che pensava come aver potesse
una
gonnella, la qual si mettesse.
205
Ma
dopo assai pensar, si ricordava
che
la sua madre aveva un bel vestire,
il
qual non mai o poco lo portava,
e
fra sé disse: «S'i' 'l posso carpire,
ottimo
fia»; poi la madre aspettava,
se
fuor di casa la vedesse uscire,
per
quel vestir in tal parte riporre
che
d'imbolìo non l'avesse più a tòrre.
206
E
fugli assai in questo la fortuna
favorevole
e buona: ché, già sendo
ispenti
tutti i raggi della luna
e
delle stelle e già 'l giorno venendo,
si
levò Girafone, e sanza alcuna
stanza
quivi, fuori di casa uscendo,
dandosi
a fare certi suoi lavori;
così
la donna ancor s'uscì di fuori.
207
Africo
non fu lento a questo tratto,
veggendo
ognun di lor di fuor andato,
ma
dov'era il vestire n'andò ratto,
e,
sanza cercar troppo, l'ha trovato;
e
ben gli venne ciò che volea fatto,
ché,
sanz'esser veduto, l'ha portato
fuor
dalla casa un gran pezzo lontano,
e
nascoselo in luogo molto strano.
208
Poi
verso casa faccendo ritorno,
gli
pareva il suo avviso aver fornito,
né
però metter si volle quel giorno
a
Mensola trovar, ma 'n casa gito
ritrovò
tosto un suo bell'arco adorno,
ed
un turcasso a saette guernito,
e
d'ogni cosa si fu proveduto.
Passò
quel giorno, e l'altro fu venuto.
[La
vesta bianca Africo si mette
e
verso 'l monte ne va isperando,
e
vede ninfe le qua' van cacciando
un
porco: Africo il fier con sue saette.]
209
Febo
era già, co' veloci cavalli,
col
fin di Leo venuto in oriente,
e
già faceva gli alti monti gialli,
e
rosseggiava l'aria in occidente,
ma
non luceva ancor per tutte valli,
quand'Africo,
levato prestamente,
l'arco
e 'l turcasso prese, e fuor si caccia,
alla
madre dicendo: – I' vo alla caccia. –
210
E
dove il dì d'innanzi aveva messo
il
vestir della madre ne fu gito,
e
quivi giunto, i panni di lui stesso
si
trasse, e tosto quel s'ebbe vestito
e
una vitalba si cinse sopr'esso,
per
poter esser più presto e spedito;
e
certamente che Vener l'atava
acconciar
quel vestir, sì ben gli stava.
211
Po'
i suoi capelli, non già pettinati,
pendean
in giù con non troppa grandezza,
ma
biondi sì che d'or parean filati,
e
ricciutelli con somma bellezza;
ma
come che, per gli affanni passati,
nel
viso avesse ancor la palidezza,
pur
nondimen, quel color era tale
che
più gli dava feminil segnale.
212
E
poi che s'ebbe acconcio in tal maniera,
il
turcasso si cinse al destro lato,
e
l'arco in mano, e una freccia leggiera;
e
poi ch'alquanto sé ebbe mirato,
gli
parve essere quel ched e' non era
e
femina di maschio trasmutato.
E
certo chi non l'avesse saputo,
per
maschio non l'arìa mai conosciuto.
213
Poscia
i suoi panni in quel loco rimise,
donde
'l vestir feminile avea tratto;
poi
verso i monti fiesolan si mise
così
acconcio, non già troppo ratto,
e
molte fiere in questo mezzo uccise,
prima
che su fosse salito affatto;
ma
poi che fu in sul monte maggiore
de'
tre, sentì di là un gran romore.
214
Africo,
vòlto verso quelle stride,
vide
più ninfe ind'oltre gir cacciando
ed
accennar vêr lui con alte gride:
–
Sta' ferma, al passo la fiera aspettando. –
Africo
pose mente, e venir vide
un
fier cinghiar fortemente rugghiando,
con
frecce molte fitte nel suo dosso.
Africo
sbarra l'arco suo dell'osso,
215
e
d'una freccia, nel petto, al cinghiale
ferì,
che li passò insino al core,
ché
pelle dura o callo non gli vale,
e
poco andò che gli mancò 'l furore,
e
cadde in terra pel colpo mortale;
e
come piacque a Vener ed Amore,
Mensola
era in luogo che assai scorto
vide
quel colpo, e 'l cinghiar cader morto.
216
Quivi
trasse di ninfe gran brigata,
credendo
ben ch'Africo ninfa fosse,
e
Mensola con lor si fu adunata,
e
poi alle compagne a parlar mosse,
ed
a lor la novella ha raccontata,
dicendo:
– I' vidi com'ella il percosse,
né
sì bel colpo vidi alla mia vita
quanto
fe' questa ninfa qui apparita. –
217
Quanto
Africo sentisse di piacere
dentro
dal cor, udendosi a colei
lodar
cotanto che già dispiacere
le
fu vederlo, dir non vel potrei,
ma
color sol lo posson ben sapere
c'hanno
d'Amor sentiti i colpi rei;
e
a chi non lo sapesse fo palese
che
presso fu più volte non la prese.
218
Ma
credo il tenne, più ch'altro, paura
delle
compagne e degli archi ch'avièno;
ma
poi ch'alquanto con lor s'assicura,
cominciò
a dir di quel ch'elle dicièno,
e
ragionar con lor della sventura
di
quel cinghiar che morto lì tenièno,
e
come lo trovaro, e tutti i tratti
ch'ognuna
avea adosso al cinghiar fatti.
219
Mensola
disse: – Or ci fosse Diana,
che
noi le faren questo bel presento. –
Africo,
udendo che di lì lontana
era
Diana, fu molto contento;
ma
poi ch'ebbon assai di questa strana
bestia
tenuto lì ragionamento,
fecion
da parte un berzaglio tra loro
e
cominciaro a saettar costoro.
220
Ognuna
quivi l'animo assottiglia
con
gli archi loro, e qual dardo lanciava.
Mensola
tosto il suo dardo in man piglia,
e
più presso che l'altre al segno dava;
Africo
di ciò si fe' maraviglia,
e
tosto l'arco suo 'n man si recava,
e
allato al dardo di Mensola ha messo
la
freccia, sì ch'amenduo fûr più presso.
221
E
come Amor sa ben far quando vuole
far
l'un dell'altro tosto innamorare,
quel
giorno usò gl'ingegni ch'usar suole,
quando
le cose ad effetto menare
vuole
e non menarle per parole;
così
quel giorno seppe sì ben fare,
che
d'Africo e di Mensola lo strale
sempre
mai eran più presso al segnale.
222
Per
la qual cosa Mensola, veggendo
che
sempre di lor due era l'onore,
ognora
più le veniva piacendo
e
già gli aveva posto molto amore.
Africo,
sempre gli occhi a lei tenendo,
piacevolmente
le dava favore
e
acconsentiva ciò ch'ella dicea,
ed
ella a lui il simile facea.
223
Ma
poi ch'ell'ebbon molto saettato,
a
rincrescer cominciò loro il gioco;
per
che tutte partîrsi da quel lato,
ed
ivi presso ne giron a un loco
dov'era
una caverna, e lì trovato
una
di quelle ninfe ch'avea il foco
acceso
e messo a cuocer del cinghiale,
e
con esso non so ch'altro animale.
224
Aveva
il sole già la terza via
fatta
del corso suo, quando costoro
s'adunâr
tutte ad una bell'ombria
che
facea lì un grandissimo alloro;
e
sopra un masso grande si ponia
la
cotta carne, sanz'altro savoro,
e
pan che di castagne allor facièno,
che
grano ancor le genti non avièno.
225
Per
bere, usavan acqua con mèl cotta
e
con cert'erbe, e quello era lor vino;
e
li nappi con che beveano allotta
di
legname era, il grande e 'l piccolino;
e
apparecchiata tutta quella frotta
delle
ninfe, mangiando di cor fino,
Africo
a Mensola si sedea allato,
con
l'altre avendo il masso circondato.
[Mangiato
ebber le ninfe con fervore,
chi
'n qua chi 'n là a lor diporto andaro;
Africo
e Mensola s'accompagnaro:
nell'acqua
poi la prese con dolzore.]
226
Venuto
il fin dell'allegro mangiare,
le
ninfe tutte quante si levaro,
e
per lo monte, con dolce cantare,
a
due a tre a quattro se n'andaro,
chi
qua chi là, come ad ognuna pare;
Africo
e Mensola non si scevraro,
ma
con tre altre ninfe si partiro:
su
per lo colle inver Fiesol ne giro.
227
Com'i'
v'ho detto, Mensola invaghita
tra
d'Africo sì, pel saettare
che
sì ben avea fatto, e per l'ardita
presenza
sua, e pel dolce parlare,
che
già l'amava come la sua vita,
né
saziar si potea di lui guatare;
ma
non pensi niun che già mai questo
amor
fosse con pensier disonesto,
228
però
che fermamente ella credea
che
ninfa fosse ind'oltre del paese,
perché
segnal mascolin non avea
nella
persona, che fosse palese;
ché,
se saputo quel che non sapea
avesse,
non saria suta cortese,
com'ella
fu, con l'altre a fargli onore,
ma
dànno gli arìan fatto e disonore.
229
S'Africo
innamorato di lei era
non
bisogna più dir, ch'assai n'ho detto;
ma
'nsieme andando per cotal maniera,
portava
ascoso il foco dentr'al petto,
e
più ardeva che non fa la cera;
veggendosi
mirar al suo diletto,
e
parlar e toccar e farsi onore,
per
peritezza gli batteva il core.
230
E
fra sé dicea: «Come farò io?
i'
non so ch'i' mi dica, o ch'i' mi faccia:
se
io scuopro a costei il mio disio,
i'
temo forte che poi i' non le piaccia,
e
che 'l suo amor non mi tornasse in rio
odio,
e con l'altre mi desson la caccia;
e
s'io non me le scuopro questo giorno,
non
so quando a tal caso mi ritorno.
231
Se
queste ninfe almen si gisson via,
che
son con noi, i' pur mi rimarrei
qui
solo nato con Mensola mia,
e
più sicuramente mi potrei
a
lei scoprire, e mostrar quel ch'i' sia;
e
se fuggir volesse, allor sarei
a
pigliarla sì accorto, che fuggire
non
si potrebbe, né da me partire.
232
Ma
io mi credo che punto da noi
in
questo giorno non si partiranno;
e
s'io m'indugio, non so se mai poi
queste
venture innanzi mi verranno;
meglio
è che tu facci or quel che tu puoi,
ché
molti per indugio perduto hanno».
E
fu tutto che mosso per pigliarla;
poi
si ritenne, e non volle toccarla.
233
«Ora
m'insegna, Vener, or m'aiuta,
ora
mi dona il tuo caro consiglio;
ora
mi par che l'ora sia venuta,
nella
qual debbo a costei dar di piglio.»
E
poi, pensando, il pensier suo rimuta,
parendogli
a far questo pur periglio:
e
'l sì e 'l no nel capo gli contende,
e
l'amoroso foco più lo 'ncende.
234
Ell'eran
già tanto giù per lo colle
gite,
ch'eran vicine a quella valle
ch'e'
duo monti divide, quando volle
d'Africo
Amor le voglie contentalle,
né
più oltre che quel giorno indugiolle,
trovando
modo ad effetto menalle;
ché,
mentre in tal maniera insieme gièno,
nella
valle acqua risonar sentièno.
235
Né
furon guari le ninfe oltre andate,
che
trovaron due ninfe tutte ignude,
che
'n un pelago d'acqua erano entrate,
dove
l'un monte con l'altro si chiude;
e
giunte lì, s'ebbon le gonne alzate,
e
tutte quante entrâr nell'acque crude,
con
l'altre ragionando del bagnare:
–
Che faren noi? Voglianci noi spogliare? –
236
Perch'allor
era la maggior calura
che
fosse in tutto 'l giorno, e dal diletto
tirate
di quell'acqua alla frescura,
e
veggendosi sanz'alcun sospetto,
e
l'acqua tanto chiara e netta e pura,
diliberaron
far com'avean detto,
e
per bagnarsi ognuna si spogliava;
e
Mensola con Africo parlava,
237
e
sì diceva: – O compagna mia cara,
bagnera'ti
tu qui con esso noi? –
Africo
disse con la boce chiara:
–
Compagna mia, i' farò quel che vòi,
né
cosa che vogliate mi fia amara. –
E
fra se stesso si diceva poi:
«S'elle
si spoglian tutte, al certo ch'io
non
terrò più nascoso il mio disio».
238
Ed
avvisossi di prima lasciarle
tutte
spogliar, e poi egli spogliarsi,
acciò
che le lor armi adoperarle
contra
lui non potessono, ed a trarsi
cominciò
lento il vestir, per poi farle,
quando
nell'acqua entrasse per bagnarsi,
per
vergogna fuggir pe' boschi via:
e
Mensola per forza riterria.
239
E
'nnanzi che spogliato tutto fosse,
le
ninfe eran nell'acqua tutte quante;
e
poi spogliato verso lor si mosse,
mostrando
tutto ciò ch'avea davante.
Ciascuna
delle ninfe si riscosse,
e,
con boce paurosa e tremante,
cominciarono
urlando: – Omè, Omè,
or
non vedete voi chi costui è? –
240
Non
altrimenti lo lupo affamato
percuote
alla gran turba degli agnelli,
ed
un ne piglia, e quel se n'ha portato,
lasciando
tutti gli altri tapinelli:
ciascun
belando fugge spaventato,
pur
procacciando di campar le pelli;
così
correndo Africo per quell'acque,
sola
prese colei che più gli piacque.
241
E
tutte l'altre ninfe molto in fretta
uscîr
dell'acqua, a' lor vestir correndo;
né
però niuna fu che lì sel metta,
ma
coperte con essi via fuggendo,
ché
punto l'una l'altra non aspetta,
né
mai indietro si givan volgendo;
ma
chi qua e chi là si dileguoe,
e
ciascuna le sue armi lascioe.
242
Africo
tenea stretta nelle braccia
Mensola
sua nell'acqua, che piangea,
e
baciandole la vergine faccia,
cota'
parole verso lei dicea:
–
O dolce la mia vita, non ti spiaccia
se
io t'ho presa, ché Venere iddea
mi
t'ha promessa, cuor del corpo mio;
deh,
più non pianger, per l'amor di Dio! –
243
Mensola,
le parole non intende
ch'Africo
le dicea, ma quanto puote
con
quella forza ch'ell'ha si difende,
e
fortemente in qua e 'n là si scuote
dalle
braccia di colui che l' offende,
bagnandosi
di lagrime le gote;
ma
nulla le valea forza o difesa,
ch'Africo
la tenea pur forte presa.
244
Per
la contesa che facean si desta
tal
che prima dormia malinconoso,
e,
con superbia rizzando la cresta,
cominciò
a picchiar l'uscio furioso;
e
tanto dentro vi diè della testa,
ch'egli
entrò dentro, non già con riposo,
ma
con battaglia grande ed urlamento
e
forse che di sangue spargimento.
245
Ma
poi che messer Mazzone ebbe avuto
Monteficalli,
e nel castello entrato,
fu
lietamente dentro ricevuto
da
que' che prima l'avean contastato;
ma
poi che molto si fu dibattuto,
per
la terra lasciare in buono stato,
per
pietà lagrimò, e del castello
uscì
poi fuor, umil più ch'un agnello.
246
Poi
che Mensola vide esserle tolta
la
sua verginità contro a sua voglia,
forte
piangendo ad Africo fu volta
e
disse: – Poi c'hai fatto la tua voglia
ed
hai 'ngannata me, fanciulla stolta,
usciàn
dell'acqua almen, ch'i' muo' di doglia,
però
ch'i' vo' del mondo far partita,
togliendomi
con le mie man la vita. –
247
Africo,
udendo il suo pietoso dire,
con
lei insieme uscì dell'acqua fuori,
e
veggendo la doglia sua e 'l martìre,
dentro
dal cor ne sentia gran dolori;
e
ben ch'avesse in parte il suo disire
contento,
gli crescevan vie maggiori
le
fiamme dentro al petto e più cocenti,
veggendo
a lei cotanti turbamenti.
248
Ma
poi che rivestiti amenduo furo,
Mensola
il dardo suo prendeva presta,
e
al petto si poneva il ferro duro,
per
morte darsi sanz'altra richiesta.
Veggendo
Africo il suo pensier oscuro,
prestamente
là corse, e prese questa
alle
gavigne, e quel dardo gittava
per
lo boschetto, e poi così parlava:
249
–
Omè, anima mia, o che è quello
che
tu volevi far? O che sciocchezza
è
questa? O qual pensier fu tanto fello,
che
qui ti conducea a cotal fierezza?
O
lasso, a me, che fare' io tapinello
se
io perdessi la tua gran bellezza?
Che
solo un'ora in vita non starei,
ma
con le propie man m'ucciderei! –
250
Sì
gran dolore a Mensola al cor venne
che,
nelle braccia d'Africo cascata,
tramortì
tutta; ond'egli la sostenne,
e
poi che nel bel viso l'ha mirata,
le
lagrime negli occhi più non tenne,
temendo
ch'ella non fosse passata
di
questa vita: per che tra le fronde
de'
molti albori con lei si nasconde.
251
Quivi
a seder con lei 'nsieme si pose,
in
sul sinestro braccio lei tenendo,
e
con la destra man le lagrimose
guance
di lei asciugava, e poi piangendo
diceva
con parole aspre e pietose:
–
O Morte, or hai ciò ch'andavi caendo:
che,
poi che tolto m'hai ogni mia gioia,
con
lei insieme converrà ch'i' muoia. –
252
E
poi baciando il tramortito viso,
lei
chiamando, diceva: – O amor mio,
perché
da te sì tosto m'ha diviso
la
ria fortuna e questo giorno rio? –
E
questo ed altro, mirandola fiso,
diceva,
bestemmiando il suo disio
che
fu troppo corrente a tal impresa,
e
che sì forte avea Mensola offesa.
253
Ma
poi ch'egli ebbe fatto gran lamento
sopra
'l palido viso tramortito,
e
mille volte e più con gran tormento
baciato,
e delle lagrime forbito,
non
più avendo di viver talento,
di
morte darsi avea preso partito;
e
per morir già si volea levare
quando
Mensola sentì sospirare.
254
Gli
spiriti di Mensola, errando
eran
per l'aria buona pezza andati,
e
dopo molto nel corpo tornando
nelli
lor luoghi si fûr rientrati,
quando
Mensola, forte sospirando,
si
risentì, con atti spaventati
dicendo:
– Omè, omè, lassa, ch'i' moro! –
E
a pianger cominciò sanza dimoro.
255
Africo,
quando vide ch'era viva
Mensola
sua, che prima parea morta,
tutto
nel cor di letizia ravviva,
e
poi con tai parole la conforta:
–
O fresca rosa aulente e giuliva,
per
cui la vita mia gran pena porta,
deh,
non ti sgomentar, né aver paura,
che
tu puo' star con meco ben sicura.
256
Tu
sei 'n braccio di colui il quale
sopra
ogni cosa t'ama e vuolti bene;
ed
ogni tuo spiacere ed ogni male
sono,
nei cor mio, angosciose pene.
Oh,
lasso a me, ch'i' mi credetti aguale
che
morte ti tenesse in sue catene,
e
voleami levar per morte dare,
se
non che ora ti senti' sospirare! –
[Duolsi
Mensola con molto dolore;
Africo
con pietà la confortava
e
dolcemente, ch'ella ripiatava,
raccontandole
prima il suo amore.]
257
–Oh
me dolente, lassa, sventurata! –
diceva
Mensola Africo mirando.
–
Tapina a me, perché fu' i' mai nata,
o
mai vivuta? dicea lagrimando.
–
Or foss'io stata il giorno strangolata
ch'io
prima fu' veduta, o almen, quando
le
veste di Diana mi fûr Messe,
ch'un
feroce cinghiar morta m'avesse! –
258
Deh,
non ti sgomentare, anima mia,
Africo
disse – ché 'l cor mi si sface,
veggendo
a te tanta malinconia,
sanza
prender consolazione o pace,
e
menar la tua vita tanto ria;
e
certo che bisogno non ti face,
però
che se' con colui che più t'ama
che
non fa sé, e che sola te brama.
259
Acciò
che tu mi creda che sia vero
ch'io
t'ami tanto quanto ora t'ho detto,
io
ti vo' raccontare il fatto intero:
ch'egli
è ben quattro mesi che soletto
giva
cacciando sanza alcun pensiero
per
questa costa, quando in un boschetto
sentii
mormorar boci, onde più presso,
per
veder chi parlava, mi fu' messo.
260
I'
vidi intorno a una bella fontana
molte
ninfe sedere, e vidi poi,
sopra
tutte, seder la dea Diana,
che
sermonando amoniva voi
con
rigido parlar e molto strana;
poi
a' miei occhi corson gli occhi tuoi
e
la tua gran bellezza, ché nel core
sentii
ferirmi dello stral d'Amore. –
261
Poi
le diceva com'ivi nascoso
gran
pezza stette sol per lei mirare,
e
come venne sì desideroso
di
lei, che non potea gli occhi saziare
di
mirar questo bel viso vezzoso
(e
sì dicendo lo volle baciare)
e
come poi, quando ognuna partie,
–
Mensola, andianne – chiamarla sentie.
262
Raccontò
poi le lagrime e' sospiri
che
per lei avea sparte in abondanza,
e
l'angosciose pene co' martirî;
e
come Vener, sopra sua leanza,
gli
avea promesso lei ne' suoi dormiri,
e
datogli di ciò grande speranza;
e
quante volte l'era ita cercando,
ed
ogni cosa le venìa narrando.
263
E
poi com'egli un giorno la trovoe
tutta
soletta, e com'ella fuggiva,
e
quanto umilemente la pregoe.
e
com'ella, crudele, non l'udiva;
e
poi del dardo ch'ella gli lancioe,
e
della quercia dove quel feriva,
e
come disse: Guarti! e poi smarrilla,
né
più la vide poi, né più sentilla;
264
ancor
del sacrificio ch'avea fatto
alla
dea Venere, e della risposta
ch'ella
gli fe', e come tosto e ratto
si
contrafe', e poi per quella costa,
a
modo d'una ninfa contrafatto,
a
cercar lei si mise sanza sosta,
e
com'ora in sul monte la trovoe:
Da
poi sai tu com'io che seguitoe.
265
Ora
t'ho raccontato il gran tormento
ch'i'
ho, per te, portato e sostenuto;
però
se io ho usato isforzamento,
l'ho
fatto sol perché forza m'è suto,
non
perch'i' sia di noiarti contento;
ma
sol Amor, che m'ha per te tenuto
in
queste pene, n'ha colpa e cagione.
Duolti
di lui, che n'arai più ragione!
266
Mensola,
avendo Africo bene inteso
ciò
ch'avea detto del suo innamorare,
e
come fu da prima per lei preso,
e
poi le cose ch'Amor gli fe' fare,
alquanto
nel suo cor si fu acceso
il
foco, e cominciava a sospirare:
e
pure Amore l'avea già ferita,
come
che le paresse esser tradita.
267
Poi
disse: – Omè, e' mi ricorda bene
ch'i'
fu', l'altrier, gran pezza seguitata
da
un, non so se tu quel desso sene
che
ora m'hai così vituperata;
e
ben so io che, per donarti pene,
inverso
lui mi rivolsi crucciata,
e
'l dardo mio a lui forte lanciava,
veggendo
pur ched e' mi seguitava.
268
E
ricordami ancor che, se non fosse
che
quando vidi 'l dardo vêr lui gire,
non
so perché, pietà allor mi mosse,
ch'io
gridai: – Guarti guarti! – e po' a fuggire
mi
die', e vidi che 'l dardo percosse
in
una quercia e félla tutta aprire;
poi
mi nascosi ivi presso in un bosco:
se
tu se' desso, i' non ti riconosco.
269
Non
mi ricorda mai più ne' dì miei,
da
poi ch'i' fu' a Diana consacrata,
ch'io
vedessi uomo; e volesson gl'iddei
che
anche tu non m'avessi trovata,
né
mai veduta: ch'ancora sarei
da
Diana con l'altre annoverata,
dov'or
sarò da lei, omè, sbandita,
e
sanza fallo mi torrà la vita.
270
E
tu, o giovinetto, il qual cagione
sarai
della mia morte e del mio danno,
come
tu sai, sanz'averne ragione,
ti
rimarrai sanz'alcuno affanno;
ma
sian di me a Diana testimone
alberi
e fiere, che veduta m'hanno,
com'io
mi sono a mia possa difesa,
e
come tu per forza m'hai pur presa,
271
ed
io, fanciulla pura ed innocente,
son
da te stata ingannata e tradita.
Ma
di questo peccato veramente
m'assolverò,
togliendomi la vita
con
le mie mani; e poi che del presente
mondo
sarò, tapina, dipartita,
ti
rimarrai contento, né giammai,
lassa,
di me non ti ricorderai. –
[Piacevolmente
Africo abracciava
Mensola
e priegala si dia conforto;
è,
s'ella s'uccidesse, lui ancor morto;
e
i suo' begli occhi con dolzor baciava.]
272
Africo
allora l'abracciava stretta,
e
lagrimando disse: – Oh me tapino,
non
creder che giammai così soletta
i'
ti lasciassi, dolce amor mio fino!
ma
vo' che, per mio amor, tu mi prometta
di
levar via questo pensier meschino,
o
in pria che tu, la vita mi torroe,
sì
che dietro da te non rimarroe.
273
I'
non potre' giammai stare diviso
da
te, dolce mio bene. E poi baciando
la
dolce bocca e l'angelico viso,
e
con la mano i begli occhi asciugando,
dicendo:
Veramente in paradiso
tu
fosti fatta; e' capei rispianando,
giva
dicendo: Mai sì be' capelli
non
fûr veduti, tanto biondi e belli.
274
Benedetto
sia l'anno e 'l mese e 'l giorno,
e
l'ora e 'l tempo, ed ancor la stagione,
che
fu creato questo viso adorno,
e
l'altre membra con tanta ragione!
ché
chi cercasse il mondo a torno a torno,
e
nel cielo ancor tra la legione
delle
dee sante, non poria trovarsi
una
ch'a te potesse ma' agguagliarsi.
275
Tu
se' viva fontana di bellezza,
e
d'ogni bel costume chiara luce;
tu
sei adatta e piena di franchezza;
tu
se' colei, 'n cui sola si riduce
ogni
vertù ed ogni gentilezza,
e
quella che la mia vita conduce;
tu
se' vezzosa e se' morbida e bianca:
niuna
cosa bella non ti manca!
276
Dunque,
deh, non voler, Mensola mia,
guastar
una sì bella e tanta cosa
chente
tu se', con tua malinconia,
né
con niun'altra cosa niquitosa:
ma
da te caccia ogni rio pensier via
e
non istar con meco più crucciosa,
chi
esser non può non fatto quel ch'è fatto,
perch'io
con teco ancor fossi disfatto.
277
Però
ti priego che tu ora facci
sì
come savia, e di questi partiti
il
miglior prendi e 'l piggior da te cacci;
e
gli spiriti tuoi ispauriti
conforta
un poco, e fa' che tu m'abracci,
e
bacia me con baci savoriti,
anima
mia, sì com'io bacio tene;
prendi
diletto, se tu vuoi, di mene! –
[Africo,
seppe tanto lusingare
Mensola
sua con vere ragioni,
ch'egli
la svolse di sue oppinioni,
ché
ella cominciò lui ad amare.]
278
Amor
legava tuttavia il core,
con
le parole ch'Africo dicea,
di
Mensola, sì che 'n parte il dolore
s'era
partito già, perché vedea
ch'altro
esser non potea, e poi l'amore,
ch'ad
Africo portò quando credea
che
ninfa fosse, or più forte s'accende
quando
le sue dolci parole intende.
279
E,
per volerlo in parte contentare,
gli
gittò in collo il suo sinistro braccio,
ma
non lo volle ancor però baciare,
forse
parendole ancor troppo avaccio
di
doversi con lui sì assicurare;
e
disse: – Oh me tapina, ch'i' non saccio
com'io
possa campar, se tal peccato
sarà
a Diana giammai appalesato.
280
Né
ardirò giammai con ninfa alcuna,
com'io
solea, nell'acqua più bagnarmi,
né
anco, poi che vuol la mia fortuna,
dove
ne sia niuna ritrovarmi:
ché,
s'elle ciò sapesson, ciascheduna
tosto
a Diana andrebbon accusarmi,
onde
pur sola mi converrà stare,
fuggendo
quel che già solea cercare.
281
E
ben conosco che, s'io m'uccidessi,
che
'l mio peccato minor non sarebbe;
e
quel che tu hai fatto non avessi,
son
molto certa ch'esser non potrebbe;
e
se 'l contradio di questo credessi,
a
quest'otta, doman non giugnerebbe
la
vita mia, ché di cotal fallenza
m'are'
ben data degna penitenza.
282
Ma
poi ch'e' tuoi conforti son sì buoni
che
rivolto hanno tutto 'l mio pensiero,
e
sì legata m'hanno i tuoi sermoni
che
'l mio voler tanto crudel e fiero
ho
via levato; ma quel che ragioni
di
rimanerti meco, a dirti 'l vero,
non
consentire' mai, perché sarebbe
mal
sopra mal, e saper si potrebbe.
283
Perché
riconosciuto tu saresti
da
tutte quelle ninfe che veduto
questo
dì t'hanno, e forse che potresti
esser
morto da lor, se conosciuto
fossi
da loro; e creder lor faresti
quel
che non è ancor per lor saputo,
ch'i'
dirò sempre, a chi di lor mi truova,
ch'i'
abbia teco vinto la mia pruova;
284
come
che lor compagnia sempre mai,
a
giusto 'l mio potere, i' fuggirò;
e
priego te, o giovane, poi c'hai
toltomi
quel che giammai non riarò,
che
tu ne vadi, e me con questi guai
lascia
star sola, che 'l me' ch'i' potrò
mi
passerò, dandomi di ciò pace;
deh,
fallo, i' te ne priego, se ti piace! –
285
Africo
aveva molto ben compreso,
per
le parole sue, che già il foco
Amor
l'aveva dentr'al petto acceso,
ma
pur ancor si vergognava un poco;
e
poi ch'egli ebbe tutto bene inteso,
disse
fra sé: «Prima che d'esto loco
mi
parta, tu farai meco ragione:
e
farotti cantar d'altra canzone».
286
Poi
baciandola disse: – O savorita
dolce
mia bocca, cor del corpo mio;
o
faccia bella, fresca e colorita,
nella
qual i' ho messo il mio disio,
tu
donna sola se' della mia vita,
ed
amo te più ch' i' non faccio Iddio;
io
son risuscitato, poi ch'i' veggio
che
pigli 'l meglio e lasci andar il peggio.
287
Ma
come potre' io mai sofferire
di
partirmi da te, che t'amo tanto
che
sanza te mi par ognor morire?
Essendo
teco, non so giammai quanto
più
ben mi possa aver, né più disire;
ma
sallo ben Amor, in quanto pianto
istà
la vita mia, la notte e 'l giorno,
mentre
non veggio questo viso adorno.
288
E
pognàn pur che partirmi potessi
come
tu di': mai non sarei contento
che
sì malinconosa rimanessi
e
gissi, a mia cagion, faccendo stento;
e
non so se mai più ti rivedessi:
onde
la vita mia maggior tormento
non
sentì mai quanto allor sentirei,
e
più che vita, morte bramerei.
289
Ma
poi che tu non vuogli che con teco
rimanga
qui, venirtene potrai
qui
presso a casa mia, con esso meco,
e
con la madre mia lì ti starai:
la
qual, mentre che tu sarai con seco,
sempre
come figliuola tu sarai
da
lei trattata, e da mio padre ancora,
e
potrai esser d'amenduo lor nuora. –
[Africo
priega Mensola con lui
a
la sua casa ne dovesse andare;
ella
per nulla cosa il volse fare,
ma
ben promise di tornare a lui.]
290
–Cotesto
ancora per nulla vo' fare, –
Mensola
disse – ch'io teco ne venga
a
casa tua, per voler palesare
il
mio peccato, ed ancor mi convenga
in
questo sì gran mal perseverare;
prima
la vita mia morte sostenga,
ch'i'
vada mai là dove sia persona,
poi
ch'o perduta sì bella corona.
291
I'
non mi misi a seguitar Diana
per
al mondo tornar per niuna cosa;
che,
s'i' avessi voluto filar lana
con
la mia madre, e divenire sposa,
di
qui sarei ben tre miglia lontana
col
padre mio, che sopra ogni altra cosa
m'amava
e volea bene; ed è cinqu'anni
che
mi fûr messi di Diana i panni.
292
Però
ti priego, se 'l mio pregar vale,
per
quell'amor che tu ora m'hai detto
che
fu cagion di far far questo male,
che
te ne vadi a casa tua soletto;
ed
io ti giuro per colei la quale
tu
di' che ti ferì per me nel petto,
ch'io
bramerò la vita per tuo amore
ed
amerotti sempre di buon core. –
293
Se
io credessi Africo disse allora
che
tu facessi quel che mi prometti,
e
che nel cor m'avessi ciascun'ora,
alquanto
andrebbon via li miei sospetti;
ma
quel che più m'offende e più m'accora,
si
è ch'i' temo, se 'n questi boschetti
ti
lascio sola, di mai ritrovarti,
e
però temo sanza me lasciarti. –
294
Mensola
disse: Io verrò molto spesso
in
questo loco, sì che tu potrai
meco
parlar e vedermi da presso,
onestamente,
quanto tu vorrai;
e
certamente quel ch'i' t'ho promesso
i'
t'atterrò, se mai ci tornerai,
però
che tu m'hai già mezza legata
e
parmi esser venuta innamorata. –
295
Africo,
quando tai parole intende,
infra
se stesso si rallegra molto,
veggendo
che Amor forte l'accende
e
che 'l pensier suo rio avea rivolto;
più
stretta con le braccia allor la prende
e
poi, baciando l'angelico volto,
le
disse: – Intendi un poco mia parola,
poi
che disposta se' di star pur sola.
296
I'
vo', se t'è 'n piacer, rosa novella,
da
te una grazia prima ch'io mi parti:
tu
sai quanto la tua persona bella
i'
ho bramata, e quanti ingegni ed arti
usato
ho per averti, o chiara stella;
or,
per piacerti, mi convien lasciarti;
però
ti priego sia di tuo volere,
ch'io
teco prenda un poco di piacere.
297
E
più contento poi mi partirò,
poi
che pur vuoi ch'io mi parta da te;
or
dammi la parola, ch'io farò
cosa,
che fia diletto a te e a me,
e
poi, doman, qui a te tornerò
a
rivederti, però che tu se'
colei
in cui ho messo i miei diletti.
Deh,
di' ch'io prenda gli'amorosi effetti! –
298
Oh
me dolente, che vuo' tu più fare,
Mensola
disse o che altro diletto
puo'
tu di me sventurata pigliare,
che
tu preso hai? E però, giovinetto,
ti
priego che omai ne debbi andare,
ed
io mi rimarrò com'io t'ho detto;
tu
vedi che del giorno omai ci ha poco,
e
potremmo esser trovati in sto loco. –
299
–
Tu sai ben che 'l diletto ch'i' ho avuto
di
te, insino a qui chent'egli è stato,
e
quel che tra noi due è addivenuto,
e
con quanti dolor s'è mescolato,
che
'n verità poco piacer m'è suto;
ma
or ch'ognun di noi è consolato,
sarà
il nostro diletto assai maggiore
e
più compiuto e con maggior dolzore. –
300
Deh,
non volere, o giovane piacente,
che
sopra 'l mal c'ho fatto i' faccia peggio:
ché,
s'i' fossi di ciò consenziente,
gran
pena ancor n'arei, e chiaro il veggio,
se
mai Diana ne saprà niente;
però
di grazia questo don ti cheggio:
che
ti piaccia partir, come ch'a me
non
sia, forse, minor doglia ch'a te. –
301
–
Anima mia, quel mal arai di questo,
ch'aver
tu dèi di quello ch'abbiàn fatto, –
Africo
disse – benché manifesto
non
fia a Diana mai questo misfatto,
né
a persona, sì ch'alcun molesto
per
questo non arai, che tanto piatto
è
suto e sì nascoso, che veduti,
se
non da Dio, non possiam esser suti.
302
E
certissima sia che, s'io ne voe
sanza
da te aver niun'altra cosa,
per
gran dolor, tosto me ne morroe;
deh,
sia un poco verso me pietosa! –
Ed
una volta e due la ribacioe
dicendo:
– Or bacia me, o fresca rosa,
assicurati
meco e prendi gioia,
e
non voler che per amarti io muoia! –
303
Molte
lusinghe e molte pregherie,
più
ch'i' non dico, ben per ognun cento,
Africo
fece a Mensola quel die,
baciandole
la bocca e 'l viso e 'l mento
sì
forte che più volte ella stridie,
come
che ciò le fosse in piacimento;
ancor
la gola le baciava e 'l seno,
il
qual pareva di viole pieno.
[Le
dolci parole e lusinghe avièno
il
cor di Mensola infin convertito
al
disio d'Africo e <a> l'appetito:
con
gran piacer insiem si congiugnièno.]
304
Qual
torre fu già mai sì ben fondata
in
sulla terra, che, sendo ella suta
da
tanti colpi percossa e scalzata,
che
non si rosse piegata o caduta?
O
qual fu quella mai sì dispietata,
col
cor d'acciaio, che non fosse arrenduta
per
le lusinghe d'Africo e 'l baciare,
ch'arebbon
fatto le montagne andare?
305
Mensola,
che d'acciaio non avea 'l core,
s'era
gran pezza scossa e ancor difesa,
ma
non potendo alle forze d'Amore
risister,
fu da lui legata e presa;
ed
avendo ella il suo dolce sapore
prima
assaggiato con alquanta offesa,
pensò
portar quel poco del martìre
mescolato
con sì dolce disire.
306
E
tant'era la sua semplicitade,
che
non pensò che altro ne potesse
addivenir,
come quella che rade
fiate
o forse mai niuna avesse
giammai
udito per qual degnitade
l'uom
si creasse, e poi come nascesse;
né
sapea che quel tal congiugnimento
fosse
'l seme dell'uomo e 'l nascimento.
307
Ella
'l baciò, e disse: Amico mio,
i'
non so qual destino o qual fortuna
vuol
pur ch'io faccia tutto 'l tuo disio,
né
vuol ch'io faccia più difesa alcuna
contro
di te, e però m'arrendo io,
come
colei che non ha più niuna
forza
a poter contastar ad Amore,
che
m'ha, per te, ferito a mezzo 'l core.
308
Però,
farai omai ciò che ti piace;
ché
tu puo' far di me ciò che tu vuoi,
poi
c'ho perduta ogni forza ed aldace
contro
ad Amor, e contro a' prieghi tuoi;
ma
ben ti priego, se non ti dispiace,
che
poi ne vadi il più tosto che puoi,
che
mi par esser tuttavia trovata
dalle
compagne mie e da lor cacciata. –
309
Sentì
Africo allora gran letizia,
veggendo
che a ciò era contenta,
e
donandole baci a gran dovizia,
a
quel che bisognava s'argomenta;
più
da natura che da lor malizia
atati,
s'alzâr su le vestimenta,
faccendo
che lor due parevan uno,
tanto
natura insegnò a ciascheduno.
310
Quivi
l'un l'altro baciava e mordeva,
e
strignean forte, e chi le labbra prende:
–
Anima mia! – ciaschedun diceva.
–
All'acqua all'acqua, ché il foco s'accende! –
Il
mulin macina quanto poteva,
e
ciaschedun si dilunga e distende:
–
Attienti bene! Omè, omè, omè,
aiuta
aiuta, ch'i' moio 'n buona fé! –
311
L'acqua
ne venne, e 'l foco fu ispento,
il
mulin tace, e ciascun sospirava;
e
come fu di Dio in piacimento,
d'Africo
Mensola s'ingravidava
d'un
fantin maschio, di gran valimento
e
di virtù, sì ch'ogni altro avanzava
al
tempo suo, sì come questa storia
più
'nnanzi al fin ne fa chiara memoria.
312
Il
giorno tutto quasi se n'era ito,
e
molto poco si vedea del sole,
quando
ciascuno i suoi fatti ha fornito,
e
preso quel piacer che ciascun vuole.
Africo,
poi ch'avea preso partito
di
doversene andar, forte si duole,
e,
Mensola tenendo infra le braccia,
dicea,
baciando l'amorosa faccia:
313
–
Maladetta sia tu, o notte scura,
tanto
invidiosa de' nostri diletti;
perché
mi fai da sì nobil figura
partir
sì tosto, come ch'io aspetti
ancor
riaver questa cotal ventura? –
E
con cotali e con molt'altri detti,
quanto
poteva il più, si dolea forte,
parendogli
il partir più dur che morte.
314
Mensola
bella, tutta vergognosa
stava,
parendole aver fatto fallo,
come
che non le fosse sì gravosa,
come
la prima volta, il contentallo,
e
che paruta le fosse la cosa
molto
più dolce, sanza risalgallo.
Pur,
di non esser trovata col frodo
avea
paura, e parlò in questo modo:
315
Or
non so io che tu possa più fare,
né
che di non partirti abbia cagione;
però,
per lo mio amor ti vo' pregare
che,
poi che 'nteramente tua intenzione
da
me avuta hai, te ne deggi andare,
sanza
far meco più dimoragione:
ché
sicura non mi terrò giammai,
se
non quando tu gito ne sarai.
316
E
com'i' veggio menar una foglia,
le
mie compagne mi credo che sièno;
però
'l partir da me non ti sia doglia,
ché
sopra me le colpe tornerièno.
Come
che sia 'l partir anche a me doglia,
io
il consento perché 'l mal sia meno,
e
perché si fa sera, e noi abbiàno
andar
ciascun di qui assai lontano.
317
Ma
dimmi prima, giovane, il tuo nome,
ch'accompagnata
mi parrà con esso
esser,
e più leggier mi fian le some
d'Amor,
che non sarian sendo sanz'esso. –
Africo
disse: – Anima mia, o come
potrò
io viver, non sendoti presso? –
E
'l nome suo le disse e fece chiaro,
e
mille volle insieme si baciaro.
318
I'
non potrei giammai raccontar quante
fiate
fûr per partirsi i duo amanti,
né
i baci e le parole, che fûr tante
che
non si potrian dire in mille canti;
ma
puollo ben saper ciascun amante,
se
di questi piaceri ebbe mai tanti,
e
che gran doglia sia e che martìre
il
dipartir da sì dolce disire.
319
E'
si baciaron non solo una volta,
ma
più di mille, e poi che dipartiti
s'erano
un poco, indietro davan volta,
dandosi
baci a' visi coloriti.
–
Anima mia, perché mi se' tu tolta? –
diceva
l'uno all'altro; ed infiniti
sospir
gittando, partir non si sanno,
ma
or si parton, or tornan, or vanno.
320
Ma
poi che vidon che più dilungare
non
si potea 'l partire, alle gavigne
si
preson amenduo, ed abracciare
si
cominciaro, e sì l'un l'altro strigne
che'
n mena furon di non ne scoppiare,
sì
forte Amor di pari gli costrigne;
e
così stetton gran pezza abracciati
insieme,
i due amanti innamorati.
[Partîrsi
i due amanti sospirando
ed
insieme composon di tornare
il
dì a venire, e ivi sollazzare,
pria
l'un l'altro mille volte baciando.]
321
Pur
alla fine l'un l'altro ha lasciato,
e
per partirsi le man si pigliaro,
e
poi ch'alquanto fiso s'han mirato,
il
modo a ritrovarsi lì ordinaro;
così
preson l'un dall'altro commiato,
sendo
ad ognun di lor molto discaro:
–
Vatti con Dio, Mensola mia, addio! –
–
Va', che Dio mi ti guardi, Africo mio! –
322
Africo
se ne giva verso 'l piano;
Mensola
al monte su pel colle tira,
molto
pensosa, col suo dardo in mano,
e
del malfatto forte ne sospira.
Africo,
ch'era ancor poco lontano
da
lei, con gli occhi la segue e rimira,
e
ad ogni passo indietro si voltava
a
rimirar colei che tanto amava.
323
Mensola
ancora spesso si volgea
a
rimirar colui ch'a forza amava,
e
che ferita sì forte l'avea
che
poco altro che lui disiderava;
e
l'un all'altro di lontan facea
ispesso
cenni ed atti, e salutava
infin
che non fu lor dal bosco folto
e
dalle coste e ripe il mirar tolto.
324
Tornossi
Africo là dove nascoso
aveva
il suo vestir quella mattina,
e
quivi giunto, sanz'altro riposo,
si
vestì la gonnella mascolina,
poi
verso casa tornando gioioso;
e
giunto lì, la vesta feminina
ripose
nel suo luogo, che la madre
non
se n'accorse, né ancora il padre.
325
E
come che assai malinconia
avesse
avuto, il giorno, Girafone
ed
Alimena, mirando la via
se
ritornar vedevano il garzone,
pur,
quando ritornato lo vedia,
amenduo
n'ebbon gran consolazione,
e
domandârlo perché tanto stato
era,
ch'a casa non era tornato.
326
Molte
bugie e scuse Africo fece
per
ricoprir l'amoroso disire,
il
qual, più che non fa 'l foco la pece,
l'ardeva
più che mai, a non mentire;
e
pareali aver fatto men ch'un cece,
e
'nfra se stesso incominciava a dire:
«Sarà
giammai doman, che io ritorni
a
baciar quella bocca e gli occhi adorni?»
327
Così
ogni cosa venìa raccontando,
con
seco stesso, di ciò ch'avea fatto,
molto
diletto di questo pigliando,
rammentandosi
ben di ciascun atto
ch'avean
insieme fatto; ma poi, quando
il
tempo fu, per dormir n'andò ratto,
come
che punto dormir non potette,
ma
tutta notte in tai pensieri stette.
[Mensola
si dolea fra sé, dicendo
«Oh
me tapina, lassa e sventurata!»,
maladicendo
il dì ch'ella fu nata,
il
suo peccato molto riprendendo.]
328
Torniamo
un poco a Mensola, la quale
sen
gìa, pensosa e sola, su pel monte;
e
parendole aver fatto pur male,
forte
pentiasi, e con la man la fronte
si
percotea, dicendo: «Poi che tale
fortuna
m'ha percossa con tant'onte,
deh,
Morte, vieni a me: i' te ne priego,
che
non mi facci d'uccidermi niego».
329
Così
passò del gran monte la cima,
e
poi scendendo giù per quella costa,
là
dove 'l sol percuote quando prima
si
leva, e ch'a oriente è contraposta;
e
secondo che 'l mio avviso stima,
era
la sua caverna, in quella, posta,
forse
un trar d'arco sopra 'l fiumicelo,
ch'a
piè vi corre con grosso ruscello.
330
E
giunta alla caverna sua, in quella
entrò
occupata di molti pensieri,
e
quivi ogni sua doglia rinnovella,
dicendo:
«Lassa a me, perché l'altr'ieri,
quand'Africo
mi vide tanto bella
con
Diana alla fonte, da primieri,
non
fu' io morta, o 'l giorno maladetto
ch'i'
mi scontrai in questo giovinetto?
331
Non
so giammai, tapina, con qual faccia
vada
innanzi a Diana, nè che modo
i'
mi debba tener, né ch'io mi faccia;
ché
di paura mi consumo e rodo,
ed
ogni senso dentro mi s'agghiaccia,
e
nella gola mi s'è fatto un nodo,
per
la malinconia e pel dolore
ch'i'
sento, che m'offende dentro al core.
332
Deh,
Morte, vieni a questa sventurata,
vieni
a questa mondana peccatrice,
vieni
a colei che 'n malora fu nata;
non
t'indugiar, ché mi fia più felice,
morir
agual, poi che contaminata
i'
ho verginità: che 'l cor mi dice
che,
se da te non verrai molto tosto,
di
farmi incontro a te ho 'l cor disposto.
333
Omè,
compagne mie, voi non pensate
ch'i'
sia uscita fuor di vostra schiera;
omè,
compagne mie, che solavate
tenermi
tanto cara, quand'io era
sanza
peccato e con verginitate,
ora
mi caccerete come fiera,
e
come quella che ha al tutto corrotta
verginità,
e vostra legge rotta.
334
I'
posso esser annoverata omai,
o
Caliston, con teco, che com'io
già
fosti ninfa, e poi con molti guai
Diana
ti cacciò per ogni rio,
perché
Giove t'ingannò, come sai,
ed
in orsa, crudel, ti convertio;
e
givi errando, e le cacce temevi,
mugghiando
quando favellar volevi.
335
O
Cialla ninfa, di Diana compagna,
la
qual fosti sforzata da Mugnone,
Diana,
che di te ancor si lagna,
t'uccise
nelle braccia col garzone;
ed
or se' fatta fonte, e Mugnon bagna,
a
piè di te, le rive del vallone;
i'
son di vostra schiera, a mio dispetto:
così
sia questo giorno maladetto!
336
E'
mi par già che Diana trasmuti
le
membra mie in un corrente fiume,
overo
in fiera co' dossi velluti,
o
com'uccel mi par già aver le piume,
o
alber fatta co' rami fronzuti,
e
di persona perduto 'l costume;
né
son più degna del dardo portare,
né
anco come ninfa più cacciare.
337
O
padre, o madre, o fratelli e sorelle,
quando
a Diana voi mi consecrasti,
e
vestistimi le sacre gonnelle,
ben
mi ricorda che mi comandasti
che
Diana ubidissi, e tutte quelle
che
seguon lei, e poi m'accompagnasti
in
questi monti, non perch'io peccassi,
ma
sempre mai verginità osservassi.
338
Voi
non pensate ch'i' abbia rotta fede
alla
sacra Diana, né ch'i' sia
in
tanta angoscia, e niun di voi vede
in
quanta pena sta la vita mia:
che,
se 'l sapesse, pietà né merzede
non
aresti di me, ma come ria
e
peccatrice me uccideresti,
e
certamente molto ben faresti».
339
Sì
grande era la doglia e 'l gran lamento
che
Mensola menava, e l'angoscioso
e
duro pianto con grieve tormento,
ch'i'
nol potre' mai pôr sì doloroso
in
iscrittura che, per ognun cento,
maggior
non fosse: il suo parlar pietoso
arebbe
fatto le pietre e gli albòri
sol
per pietà di lei menar dolori.
340
E
con cota' lamenti e pianto amaro
logorò
quella notte; ma apparito
che
poi fu 'l giorno bellissimo e chiaro,
perché
la notte non avea dormito,
sì
gli occhi lagrimosi la gravaro,
ch'ogni
spirito fu da lei partito,
e
adormentossi, mentre che piangea
per
la gran doglia che patito avea.
[Africo
torna la mattina al loco
credendo
trovar Mensola alla fonte,
e
non trovolla; con parole pronte,
sperando
e non venendo, entrò nel foco.]
341
Africo,
che nell'amoroso foco
ardeva
più che mai, si fu levato,
come
vide 'l mattin, che molto poco
la
notte avea dormito, e fu 'nviato
sus'alto
al monte, e giunto fu nel loco
dove
con Mensola, il giorno passato,
avea
preso piacer, diletto e gioia,
come
ch'al fine gli tornasse in noia.
342
Quivi
credette Mensola trovare,
ma
non trovando lei, infra sé disse:
«Egli
è ancor assai tosto» ed a 'spettare
la
cominciò, perché, quando venisse,
quivi
'l trovasse; e perché 'l soprastare
non
gli paresse lungo, sì si misse,
per
far ghirlande, ind'oltre a coglier fiori
piccioli
e grandi e di vari colori.
343
E
fatta che n'ebbe una, in su' capelli
biondi
di lui si mise, e la seconda
cominciò
a far, d'alquanti fior più belli,
mescolando
con essi alcuna fronda
d'odoriferi
e gentili albuscelli,
dicendo:
«Questa in sulla treccia bionda,
con
le mie man, di Mensola porroe
quando
verrà, e poi la baceroe».
344
Così
aspettando invano il giovinetto
Mensola
sua, la qual ancor dormia,
cogliendo
ind'oltre fiori a suo diletto
perch'aspettarla
grave non gli sia,
e
riguardando spesso pel boschetto
e
'n qua e 'n là, se Mensola venìa ;
ed
ogni busso che ode, o che vede
foglia
menar, che Mensola sia crede.
345
Ma,
sendo l'ora già più che di terza,
e
non veggendo Mensola venire,
aspettò
tanto, che del sol la ferza
era
sì calda che già sofferire
non
si potea; onde più non ischerza
con
fiori o con ghirlande, ma a sentire
cominciò
pena e farsi maraviglia,
alzando
spesso or qua or là le ciglia.
346
E
cominciò: «Omè,» seco dicendo
«che
vorrà questo dir, ch'ella non viene?»
E
'nfra sé pensier nuovi va volgendo,
scuse
trovando spesso alle sue pene,
e
di lei mille casi al core avendo,
sì
come ad altri assai spesso interviene,
che,
disiando che la cosa venga,
imagina
ch'assai cose intervenga.
347
Passò
la nona e 'l vespro, e già la sera
era
venuta, e 'l giorno era fuggito,
che
Mensola venuta mai non v'era:
ond'Africo
rimase sbigottito,
forte
doglioso, e con turbata cera
di
partirsi di lì prese partito,
dicendo:
«Forse ch'ella arà trovato,
tra
via, le sue compagne in qualche lato,
348
le
quai l'aranno forse ritenuta,
e
però l'aspettar mio saria 'nvano;
e
veggio già la notte esser venuta,
ed
i' ho andar di qui molto lontano:
e
bench'i' abbia oggi la beffe avuta,
per
aspettarla in questo luogo strano,
i'
ci ritornerò pur domattina».
E
per girsene scese la collina.
[Mensola
abandona Africo a gran torto,
fuggendo
per li boschi a nol trovare;
Africo,
il qual de' lei sempre cercare,
non
la trovando, col dardo s'è morto.]
349
Mensola
s'era in su la nona desta
tutta
dogliosa e forte addolorata,
sendole
molte cose per la testa
gite,
ch'ella se n'era spaventata;
ma
non tanto la 'mpedí la tempesta,
ch'ella
avesse, però, dimenticata
ciò
che 'l giorno davanti avea promesso
ad
Africo, di ritornar ad esso.
350
Ma
tanto s'era di quel ch'avea fatto
pentuta,
che disposto ha non tornare
dove
avea fatto con Africo patto
di
doversi con lui il dì trovare;
ma,
quant'ella potesse, in ciascun atto
volere
il fallo suo grande occultare,
acciò
che, quando Diana venisse,
il
fallo ch'avea fatto non sentisse.
351
Non
però le potè giammai del core
Africo
uscir, che continovamente
non
gli portasse grandissimo amore,
e
che nol disiasse occultamente;
ma
tanto la costringeva il timore
ch'aveva
di Diana nella mente,
ch'ella
non andò mai dove credesse
ch'Africo
fosse, o trovarlo potesse.
352
Così
passò 'l secondo e 'l terzo giorno,
e
'l quarto e 'l quinto e il sesto, e ancora il mese,
ch'Africo
mai non vide il viso adorno
della
sua amante, ma con molte offese
vivea,
faccendo sovente ritorno
nel
luogo là dove Mensola prese
e
qua e là per lo monte cercando,
molte
cose di lei imaginando.
353
Ma
nulla venia a dir la sua fatica:
ché
la Fortuna, già fatta invidiosa
di
lui, e d'ogni suo piacer nimica,
volle
pôr fine misera e angosciosa
alla
sua vita dolente e mendica,
come
colei che non truova mai posa,
ma
sempre va le cose rivolgendo
del
mondo, nulla mai fermo tenendo.
354
Per
che, già sendo un mese e più passato
che
non poté mai Mensola vedere,
e
sendogli pel gran dolor mancato
sì
la natura e la forza e 'l podere,
ch'un
animal parea già diventato
nel
viso e nel parlar e nel tacere,
e
'l capo biondo smorto era venuto
e
sanza parlar quasi stava muto.
355
E
sendo un giorno a guardia del suo armento,
ind'oltre
a piè del monte, come spesso
egli
era usato, gli venne talento
di
gir al luogo là dove promesso
da
Mensola gli fu, con saramento,
di
ritornare a lui; e fussi messo,
lassando
del bestiame il grande stuolo,
sol
con un dardo in man, nel cammin solo.
356
E
pervenuto all'acqua del vallone,
ove
Mensola sua sforzato avea,
quivi
mirandosi intorno, il garzone
«O
Mensola,» infra se stesso dicea
«i'
non credetti mai tal tradigione
della
tua fé, che promesso m'avea
di
ritornar con saramenti e giuri:
or
par che poco di Dio o di me curi!
357
Non
ti ricorda quando con le mani
insieme
in questo luogo ci pigliamo,
e
con tuoi saramenti falsi e vani
dicesti
di tornar, poi ci baciamo
insieme
gli occhi, che stann'or lontani,
ed
in quel luogo poi ci partavamo?
Non
ti ricorda quanti testimoni
aggiugnesti
alle tue promessioni?».
358
I'
non potre' mai dir tanti lamenti,
quant'Africo
facea quivi piangendo;
e',
per crescer maggiori i suoi tormenti,
giva
ogni cosa quivi rivolgendo
de'
suoi amori, ciascuni accidenti,
buoni
e cattivi; per questo, crescendo
la
doglia sua ognor molto maggiore,
diliberò
d'uscir di tal dolore.
359
E
sopra l'acqua del fossato gito,
l'aguto
dardo si recava in mano,
e
al petto si ponea 'l ferro pulito,
e
'n terra l'asta, dicendo: «O villano
Amor,
che m'hai condotto a tal partito,
ch'i'
moro in questo modo tanto strano!
e
pure, innanzi ch'i' voglia più stare
in
cotal vita, mi vo' disperare.
360
O
padre, o madre, fatevi con Dio!
i'
me ne vo nello 'nferno angoscioso;
e
tu, fiume, riterrai 'l nome mio,
e
manifesterai il doloroso
caso,
ch'è occorso sì crudel e rio;
a
chiunque ti vedrà sì sanguinoso
correr,
o lasso, del mio sangue tinto,
paleserai
dove Amor m'ha sospinto».
361
E
detto questo, Mensola chiamando,
il
ferro tutto nel petto si mise,
il
qual, al cor tostamente passando
del
giovinetto, con doglia l'uccise;
per
che, morto nell'acqua allor cascando,
l'anima
da quel corpo si divise,
e
l'acqua che correa per la gran fossa,
del
sangue tinta, venne tutta rossa.
[Il
sangue in abondanza se n'andava
d'Africo,
e giva forte ruinando
e
'nverso della sua casa andando:
e
Girafon veggendol mal pensava.]
362
Facea
quel fiume, sì come fa ancora,
di
sé duo parti alquanto giù più basso;
e
quella parte che fa minor gora,
presso
alla casa del giovane lasso,
correva
sanguinoso: e sendo allora
Girafon
fuori, e' vide il fiume grasso
di
sangue, per che subito nel core
gli
venne annunzio di futur dolore.
363
Per
che, sanza dir nulla, di presente
n'andò
dove sentì ch'era 'l suo armento;
e
non trovando Africo, immantanente
su
per lo fiume, non con passo lento,
tenne
per trovar donde primamente
di
quel sangue venia 'l cominciamento,
e
di chi fosse, e chi n'era cagione;
e
giunse al loco ov'Africo trovòne.
364
Quando
vide 'l figliuol morto giacere,
col
dardo fitto nel giovanil petto,
appena
in piè si potea sostenere,
sì
fu dal dolor subito costretto,
e
per l'un braccio con gran dispiacere
il
prese, e disse: – Omè, qual maladetto
braccio
fu quel che ti diè tal ferita,
o
figliuol mio, che t'ha tolto la vita? –
365
Egli
'l trasse dell acqua, e 'n sulla riva
il
pose lagrimando, il padre vecchio,
e
con dolor quel giorno maladiva,
dicendo:
O figliuol, del tuo padre specchio,
or
che farà la madre tua cattiva,
che
non arà mai più un tuo parecchio?
Che
faren noi, tapini e pien di duoli,
poi
che rimasi siàn di te sì soli? –
366
E
'l fitto dardo gli cavò del core,
e
'l ferro rimirava con tristizia,
e
poi dicea con pianto e con dolore:
Chi
ti lanciò così crudel nequizia
nel
petto, o figliuol mio, con tal furore
ch'i'
n'ho perduto ogni ben e letizia?
Credo
che fu Diana dispietata,
che
non fia ancor del mio sangue saziata.
367
Ma
poi ch'egli ha quel dardo rimirato
più
e più volte, conobbe ch'egli era
quel
che 'l suo figlio sempre avea portato;
per
che, con trista e lagrimosa cera,
disse:
O tapin figliuolo sventurato,
qual
fu quella cagion cotanto fera
che
ti condusse qui, a sì rie sorte?
O
chi ti diè col dardo tuo la morte? –
368
Poi,
dopo molto ed infinito pianto,
Girafone
il figliuol si gittò 'n collo,
e
con quel dardo, doloroso tanto,
alla
casetta lor così portollo,
ed
alla madre il fatto tutto quanto,
piangendo
tuttavia, raccontollo;
e
'l dardo le mostrava, e sì dicea
come
del petto tratto gliel'avea.
369
Se
la madre fe' quivi gran lamento
non
ne domandi persona nessuna,
ché
dir non si potrebbe a compimento
le
grida e 'l pianto, per cosa veruna,
e
quanta doglia sentì con tormento,
bestemmiando
gl'iddei e la fortuna;
e
'l viso stretto con quel del figliuolo
tenea,
piangendo e menando gran duolo.
370
Pure
alla fine, sì com'era usanza
a
quel tempo di far de' corpi morti,
così
allor, dopo gran lamentanza
ed
urli e pianti durissimi e forti,
arson
quel corpo con grande abondanza
di
lagrime e dolor sanza conforti,
come
color ch'altro ben non avièno,
il
qual si veggon or venuto meno.
371
E
poi raccolson la polver dell'ossa
del
lor figliuol, e al fiume se n'andaro,
là
dove l'acqua ancor correva rossa
del
propio sangue del lor figliuol caro;
e
'n sulla riva feciono una fossa,
e
dentro quella polver sotterraro,
acciò
che 'l nome suo non si spegnesse,
ma
sempre mai quel fiume il ritenesse.
372
Da
poi in qua quel fiume dalla gente
Africo
fu chiamato, e ancor si chiama.
Quivi
rimase sol tristo e dolente
il
padre e la sua madre molto grama.
Tal
fu la fine d'Africo piacente,
e
così al fiume rimase la fama.
Or
lasciam qui, e ritorniamo omai
a
Mensola, la qual io vi lasciai.
[Fe'
creder Mensola alle sue compagne
ch'ella
scampata fosse da colui,
il
qual pigliar la volse, e poi da lui
si
sviluppò, ch'ancor ne trema e piagne.]
373
Mensola,
in questo mezzo, assai dolente
era
vivuta e con malinconia,
ma
pur, veggendo che levar niente
di
ciò che fatto avea non si poria,
de'
casi avversi venne paziente,
e
cominciò con la sua compagnia
alcuna
volta pur a ritrovarsi,
e
contro alla sua voglia a rallegrarsi.
374
E
più fiate si trovò con quelle
ninfe
che 'l giorno con lei eran sute
che
Africo la prese; e le novelle
per
tutte l'altre già eran sapute,
non
dico del peccato, ma com'elle
dal
giovane pigliar furon volute;
e
Mensola con suoi casi e bugie
fe'
creder lor ch'anch'ella si fuggie.
375
Così
più ogni giorno assicurata
Mensola
s'era, da poi ch'ella vede
che
dalle sue compagne era onorata
sì
come mai, e ch'ognuna si crede
che
com'elle non sia contaminata,
e
ch'alle sue bugie si dava fede,
e
perché, ancor, a Diana credea
il
peccato celar che fatto avea.
376
Né
però Amor l'avea tratto del petto
Africo,
ch'ella non si ricordasse
del
nome suo e del preso diletto,
e
che tacitamente nol chiamasse
quand'avea
'l tempo, ed alcun sospiretto
assai
sovente per lui non gittasse;
sì
come innamorata e paurosa,
tenea
la fiamma dentro al cor nascosa.
377
E
come far solea, già cominciava
con
le compagne sue, col dardo in mano,
a
gir cacciando, e quand'ella arrivava
dove
Africo la prese, di lontano
quel
luogo rimirando, sospirava,
dicendo
infra se stessa molto piano:
«O
Africo mio, quanta gioia avesti
già
in quel luogo, quando mi prendesti!
378
Or
non so io più che di te si sia,
ma
credo ben che stai in gran tormento
per
me; ma non è già la colpa mia:
paura
è che mi toglie ogni ardimento».
Così
dicendo, volentier vorria
Africo
suo aver fatto contento,
ove
credesse che giammai saputo
da
Diana o da ninfa fosse suto.
[E
sendo già i tre mesi passati,
il
corpo a Mensola cominciò a ingrossare;
ella
si cominciò a maravigliare,
non
sappiendo dello 'mpregnar gli aguati.]
379
Vivendo
adunque Mensola in tal vita,
innamorata
e suggetta a temenza,
alquanto
nel bel viso impalidita
era
venuta, per quella semenza
che
nel suo ventre già era fiorita;
passò
tre mesi sanz'aver credenza
di
partorir giammai o far figliuolo,
com'ella
fece poscia con gran duolo.
380
Ma
faccendo suo corso la natura,
in
capo di tre mesi incomincioe
a
manifesto far la creatura
che
dentro al ventre suo s'ingeneroe;
per
la qual cosa, a ciò ponendo cura,
Mensola
forte si maraviglioe,
veggendosi
ingrossare il corpo e' fianchi,
e
di gravezza pieni e fatti stanchi.
381
Di
questo si facea gran maraviglia
Mensola,
la cagion non conoscendo,
come
colei che mai figliuol né figlia
non
avea avuto, ma fra sé dicendo:
«Saria,
questo, difetto, che mi piglia
sì
la persona, ch'ognor va crescendo,
ed
ogni giorno vengo più pesante,
e
fatta tutta svogliata e cascante?».
382
Una
ninfa abitava in quella piaggia,
un
mezzo miglio a Mensola vicina,
a
una spelonca profonda e selvaggia,
la
qual, maestra d'ogni medicina,
sopra
dell'altre ell'era la più saggia,
e
ben sapea di ciascuna dottrina;
e
di cent'anni e più ell'era vecchia,
e
chiamata era ninfa Sinedecchia.
383
Mensola
puramente n'andò a questa,
e
disse: – O madre nostra, il tuo consiglio
m'è
di bisogno – e poi le manifesta
il
caso suo e ciascun suo periglio;
Sinedecchia,
con la crollante testa,
rispose
tosto con turbato piglio:
–
Figliuola mia, tu hai con uom peccato,
e
non puoi più tener questo celato. –
384
Mensola
nel bel viso venne rossa,
udendo
tai parole, per vergogna,
e
non veggendo che negarlo possa,
con
gli occhi bassi timida trasogna,
volendosi
mostrar di questo grossa;
ma
poi, veggendo che non le bisogna
celar
a lei che tutto conoscea,
sanza
guatarla, o risponder, piangea.
385
Sinedecchia,
veggendo il suo lamento,
e
la vergogna e la sua puritade,
avvisò
che di suo consentimento
non
fosse questo, né sua volontade,
ma
fosse stato con isforzamento;
perché
alquanto gliene venne pietade,
e
per volerla un poco confortare,
in
questo modo cominciò a parlare:
386
–
Figliuola mia, questo peccato è tale,
che
nol potrai celar lungamente;
e
come ch'abbi fatto pur gran male,
non
vo' però che tanto fieramente
tu
ti sconforti, ch'omai poco vale,
se
tu te n'uccidessi veramente;
ma
veniamo a' rimedi, e dimmi come
e
chi ti tolse di castità il pome. –
387
Niente
a questo Mensola risponde,
ma,
per vergogna, in grembo il capo pose
a
Sinedecchia, e 'l bel viso nasconde,
udendo
rammentarsi cota' cose;
e
gli occhi suoi parean fatti due gronde
che
fosson d'acqua molto doviziose,
tanto
forte piangea e dirottamente,
sanza
parlar o risponder niente.
388
Ma
Sinedecchia pur le disse tanto,
con
sue parole, ch'ella confessoe,
con
boce rotta e con singhiozzi e pianto,
sì
come un giovinetto la 'ngannoe,
ed
in che modo è 'l fatto tutto quanto,
e
come ultimamente la sforzoe;
e
poi a pianger cominciò più forte
per
la vergogna, chiamando la morte.
389
La
vecchia ninfa, quando questo intese,
come
per sottil modo fu ingannata
e
quanti lacci quel giovane tese,
pietà
le venne della sventurata;
poi
con parole alquanto la riprese
del
fallo suo, perch'un'altra fiata,
sotto
cotal fidanza, non peccasse,
e
perché più 'ngannar non si lasciasse.
390
Poi
tanto seppe dire e confortarla,
ch'ella
la fe' di piangere restare,
promettendole
di sempre ma' atarla
come
figliuola, in ciò che potrà fare;
poi,
d'ogni cosa volendo avvisarla,
in
questo modo cominciò a parlare:
–
Figliuola mia, quel ch'io ti dico intendi,
e
fa' che bene ogni cosa comprendi.
391
Quando
compiuti i nove mesi arai,
dal
giorno che peccasti cominciando,
una
creatura tu partorirai;
allor
la dea Lucina tu chiamando,
il
suo aiuto l'addomanderai,
e
la pietosa tel darà; e poi, quando
nato
sarà, quel che fia noi 'l vedremo,
e
ben ad ogni cosa provedremo.
392
E
tu di questo non ti dar pensiero:
lascialo
a me, ch'i' ho ben già pensato
dentro
dal cor ciò che farà mestiero,
e
ciò che far dovrò quando fia nato;
ma
fa' che tu fuor di questo sentiero
non
vadi 'n questo mezzo, che 'l peccato
non
sia palese a quelle che nol sanno,
che
tornar ti potrebbe in troppo danno.
393
Ma
sola ti starai alla caverna,
e'
panni porta larghi quanto puoi,
sanza
cintura, che non si discerna
il
corpo grande' pe' peccati tuoi;
e
quivi pianamente ti governa,
dandoti
pace, sì come far suoi,
e
spesso vieni a me, ed io ti dirò
ciò
che far tu dovrai intorno a ciò. –
394
Queste
parole dieron gran conforto
alla
fanciulla, e disse: – Madre mia,
poi
che condotta sono a questo porto
pel
mio peccato e per la mia follia,
perch'io
conosco molto chiaro e scorto
che
'l vostro aiuto molto buon mi fia,
a
voi mi raccomando e al vostro aiuto,
poi
ch'ogn'altro consiglio i' ho perduto. –
395
–
Or te ne va', – Sinedecchia rispose
ch'i'
t'atterrò ben ciò ch'io t'ho promesso,
e
non ti dar pensier di queste cose:
tien'
pur celato il peccato commesso. –
Mensola,
con le guance lagrimose,
disse:
– I' 'l farò – e pel cammin più presso
si
mise, e ritornò alta sua stanza
alquanto
confortata da speranza.
396
Quivi
si stava pensosa e dolente
sanza
gir mai, come soleva, attorno,
e
per compagno tenea nella mente
Africo
sempre col suo viso adorno;
e
perché sempre continovamente
il
corpo suo più crescea ogni giorno,
sanza
cintura i panni suoi portava;
e
assai sovente a Sinedecchia andava.
397
E
cominciolle a crescer sì nel core,
per
la creatura ancor non partorita,
contro
ad Africo un sì fervente amore,
che
volentier ne vorrebbe esser gita
con
esso lui a starsi a tutte l'ore,
il
giorno ch'ella si tenne tradita,
e
'l dì se ne pentea mille fiate,
chiamando
lui, con lagrime versate.
398
Questo
pensier la fe' più volte andare
al
loco ov'ella fu contaminata,
sol
per saper s'Africo può trovare,
per
essersene a casa con lui andata;
ma
non si seppe mai tanto arrischiare,
per
la vergogna, d'andar sola nata
a
casa sua; e pur presso v'andoe,
alcuna
volta, e poi 'ndietro tornoe.
399
Ma
invan cercava, perché non sapea
ched
e' si fosse per lei disperato.
E
già 'l suo corpo sì cresciuto avea,
e
'l peso del fantin tanto aggravato,
ch'andare
attorno omai più non potea;
per
che, sanza cercar più 'n nessun lato,
si
stava alla caverna, ed aspettava
del
parto il tempo ch'omai s'appressava.
400
E
tanta grazia le fe' la fortuna,
che
'n questo mezzo non s'accorse mai
ch'ell'avesse
peccato ninfa alcuna,
e
già trovate pur n'aveva assai;
come
che maraviglia ciascheduna
di
lei si desse, ne' tempi sezzai,
veggendola
si magra nella faccia,
e
non andar, come solea, alla caccia.
[Mensola
partorì un bel figliuolo,
e
in quel tempo Diana lì venne
e
con le ninfe sue consiglio tenne;
Lucina
soccorse Mensola, ma con duolo.]
401
Diana
a Fiesol in quel tempo venne,
com'usata
era sovente di fare;
grande
allegrezza pe' monti si tenne,
sentendo
di Diana il ritornare,
e
ciascheduna ninfa festa fenne:
e
cominciârsi tutte a ragunare,
com'usate
eran, con lei molto spesso
tutte
le ninfe, da lunge e da presso.
402
Mensola
sentì ben la sua venuta,
ma
comparir non volle innanzi a lei
per
non esser da lei mal ricevuta,
dicendo:
«S'io v'andassi, i' non potrei
tener
celata la cosa ch'è suta,
e
grande strazio di me far vedrei».
E
fu da Sinedecchia consigliata
di
non v'andar, ma stessisi celata.
403
Avvenne
adunque in questi giorni, un die,
ch'alla
caverna sua Mensola stando,
per
tutto 'l corpo doglie si sentie;
per
che, la dea del parto allor chiamando,
un
fantin maschio quivi partorie,
il
qual Lucina di terra levando
gliel
mise in collo e disse: – Questi fia
ancor
gran fatto – e poi isparì via.
404
Come
che doglia grande e smisurata
Mensola
avea sentita, come quella
ch'a
tal partito mai non era stata,
veggendo
aversi fatto una sì bella
creatura,
ogn'altra pena fu alleggiata;
e
subito gli fece una gonnella,
com'ella
seppe il meglio, e poi lattollo,
e
mille volte quel giorno baciollo.
405
Il
fantin era sì vezzoso e bello
e
tanto bianco, ch'era maraviglia,
e
'l capel com'òr biondo e ricciutello,
e
'n ogni cosa il padre suo somiglia
sì
propiamente, che parea, a vedello,
Africo
ne' suoi occhi e nelle ciglia,
e
tutta l'altra faccia sì verace,
ch'a
Mensola per questo più le piace.
406
E
tanto amore già posto gli avea,
che
di mirarlo non si può saziare;
e
a Sinedecchia portar nol volea,
per
non volerlo da sé dilungare,
parendo
a lei, mentre che lui vedea,
Africo
veder propio: ed a scherzare
cominciava
con lui, e fargli festa,
e
con le man gli lisciava la testa.
[Standosi
Mensola in questa allegrezza,
Diana
molte volte domandava
di
lei ed ancor come ella stava;
'n
acqua la convertì con molta asprezza.]
407
Diana
avea più volte domandato
quel
che di Mensola era le compagne:
fulle
risposto, da chi l'era allato,
che
gran pezzo era che 'n quelle montagne
veduta
non l'avean in nessun lato;
altre
dicean che, per certe magagne,
e
per difetto ch'ella si sentia,
davanti
a lei con l'altre non venìa.
408
Per
che un dì, di vederla pur disposta,
perché
l'amava molto e tenea cara,
con
tre ninfe se ne gì 'n quella costa
dove
la sventurata si ripara;
e
giunta alla caverna sanza sosta,
innanzi
all'altre Diana si para,
credendola
trovar, ma non trovolla;
per
ch'a chiamar ciascuna cominciolla.
409
Ell'era
andata col suo bel fantino
inverso
'l fiume giù poco lontana,
e
'l fanciul trastullava ad un caldino,
quando
sentì la boce prossimana
chiamar
sì forte, con chiaro latino.
Allor
mirando in su, vide Diana
con
le compagne sue che giù venièno,
ma
lei ancor veduta non avièno.
410
Sì
forte sbigottì Mensola, quando
vide
Diana, che nulla rispose;
ma
tutta quanta per paura tremando,
in
un cespuglio tra' pruni nascose
il
bel fantino, e lui solo lasciando,
di
fuggir quindi l'animo dispose:
e
'nverso 'l fiume ne gìa quatta quatta,
tra
quercia e quercia fuggendo via ratta.
411
Ma
non potè sì coperta fuggire,
che
Diana, fuggendo, pur la vide,
e
poi cominciò quel fanciullo a udire,
il
qual forte piangea con alte stride.
Diana
incominciò allotta a dire
inverso
lei con grandissime gride:
–
Mensola, non fuggir, ché non potrai,
se
io vorrò, né 'l fiume passerai.
412
Tu
non potrai fuggir le mie saette
se
l'arco tiro, o sciocca peccatrice!
Mensola
già per questo non ristette,
ma
fugge quanto può alla pendice,
e
giunta al fiume, dentro vi si mette
per
valicarlo; ma Diana dice
certe
parole, ed al fiume le manda,
e
che ritenga Mensola comanda.
413
La
sventurata era già a mezzo l'acque,
quand'ella
i piè venir men si sentia,
e
quivi, sì come a Diana piacque,
Mensola
in acqua allor si convertia;
e
sempre poi in quel fiume si giacque
il
nome suo, ed ancor tuttavia
per
lei quel fiume è Mensola chiamato.
Or
v'ho del suo principio raccontato.
[Comandato
Diana che portato
il
bel fantino a Sinedecchia sia,
subito
le ninfe misonsi in via:
a
casa a Girafon fu trasportato.]
414
Le
ninfe ch'eran con Diana, veggendo
come
Mensola era acqua diventata,
e
giù per lo gran fiume va correndo,
perché
molto l'avean in prima amata,
per
pietà tutte dicevan piangendo:
–
O misera compagna sventurata,
qual
peccato fu quel che t'ha condotta
a
correr sì com'acqua a fiotta a fiotta? –
415
Diana
disse lor che non piangessono,
ché
quel martir molto ben meritava;
e
perché 'l suo peccato elle vedessono,
dove
'l fanciul piangeva le menava;
poi
disse lor che elle lo prendessono,
e
traessol de' prun dov'egli stava;
allor
le ninfe sel recaro in braccio,
e
trassol del cespuglio molto avaccio.
416
Molta
festa le ninfe gli facièno,
veggendol
tanto piacevole e bello,
e
racchetandol, volentier vorrièno
con
esso loro in que' monti tenello;
ma
a Diana dirlo non volièno,
la
qual comandò lor che tosto quello
fantin
portato a Sinedecchia sia,
e
con lor ella ancor si mise in via.
417
Giunta
Diana a Sinedecchia, disse
com'ella
avea quel fantolin trovato
in
un cespuglio, ove Mensola il misse
per
celato tenere il suo peccato:
–
Ma ella dopo questo poco visse,
ché,
fuggendo ella, e volendo 'l fossato
di
là passare, il fiume la ritenne,
e
com'io volli, allor acqua divenne. –
418
Mentre
Diana dicea tai parole,
la
vecchia ninfa per pietà piangea,
tanto
'l caso di Mensola le dole,
e
quel fanciullo in braccio poi prendea,
ed
a Diana disse: – O chiaro sole
di
tutte noi, altri ch'io non sapea
questo
peccato, e a me sola lo disse,
e
tutta nelle mie man si rimisse. –
419
Poi
ogni cosa a Diana ebbe detto,
come
Mensola era stata sforzata,
e
'l dove e 'l come, da un giovinetto,
e
'n che modo da lui fu ingannata;
e
disse poi: – O iddea, i' ti 'mprometto
sopra
la fé ch'i' t'ho sempre portata,
che,
s'io non fossi, morta si sarebbe,
ma
io non la lasciai, sì me ne 'ncrebbe.
420
Ma
poi che tu l'hai fatta diventare
acqua,
ti priego, almen, che tu mi doni
questo
fanciullo, che 'l vorrò portare
di
qui lontano assai, 'n certi valloni,
ov'io
ricordo anticamente stare
uomini
con lor donne a lor magioni,
e
a loro il donerò, che car l'aranno,
e
me' di noi allevare lo sapranno. –
421
Quando
Diana tai parole intende,
come
Mensola era stata tradita
alquanto
del suo mal pietà le prende,
perché
molto l'amò quand'era in vita;
ma
perché l'altre da cota' faccende
si
guardasson, si mostrò 'ncrudelita,
e
disse a Sinedecchia che facesse,
di
quel fantin, quel che me' le paresse.
422
Poi
si partì con la sua compagnia,
e
a Sinedecchia quel fantin lascioe;
la
qual, poscia che vide andata via
Diana,
tostamente s'invioe
con
esso in collo, e 'n quelle parti gìa
ove
Mensola bella l'acquistoe ;
ché
ben sapea per tutto ogni rivera,
tanto
tempo in que' monti usata era.
423
E
già aveva da Mensola udito,
com'avea
nome que' che la sforzone,
e
più da lei ancora avea sentito,
quando
partissi, in qual parte n'andone;
per
che, considerato ogni partito,
istimò
troppo ben che quel garzone
in
quella valle stesse, ove vedea
una
casetta che fummo facea.
424
Là
giù n'ando, non con poca fatica,
e
per ventura trovò Alimena,
alla
qual disse: – O carissima amica,
grande
è quella cagion ch'a te mi mena,
ed
è pur di bisogno ch'io tel dica;
però
ti priego che non ti sia pena
d'ascoltar
una gran disavventura,
e
com'è nata questa creatura. –
425
Poi
ogni cosa le venne narrando:
com'un
giovane, ch'Africo avea nome,
sforzò
una ninfa, e 'l dov' e 'l com' e 'l quando
a
parte a parte disse, e poscia come
ell'era
ita gran pezza tapinando,
poi
partorì quel bello e fresco pome,
e
poi come Diana trasmutoe
la
ninfa in acqua, e dove la lascioe;
426
e
come quel fantin avea trovato
Diana,
tra molti pruni, e come a lei,
con
altre ninfe, poi l'avean donato;
ma
mentre che cota' cose costei
raccontava,
Alimena ebbe mirato
nel
viso quel fantino, e disse: – Omei,
questo
fanciul propiamente somiglia
Africo
mio! – e poi in braccio il piglia.
427
E
lagrimando per grande allegrezza,
mirando
quel fantin, le par vedere
Africo
propio in ogni sua fattezza,
e
veramente gliel par riavere;
e
lui baciando con gran tenerezza,
diceva:
– Figliuol mio, gran dispiacere
mi
fia a contare, e grandissimo duolo,
la
morte del tuo padre e mio figliuolo. –
428
Poi
cominciò alla vecchia ninfa a dire
del
suo figliuol, per ordine, ogni cosa,
e
come stette gran tempo in martìre,
e
della morte sua tanto angosciosa.
Sinedecchia,
stando questo a udire,
venne
del caso d'Africo pietosa,
e
con lei 'nsieme di questo piangea,
e
Girafon quivi tra lor giugnea.
429
Quand'egli
intese il fatto, similmente
per
letizia piangeva e per dolore:
e
mirando 'l fanciul, veracemente
Africo
gli pareva, onde maggiore
allegrezza
non ebbe in suo vivente;
poi
faccendogli festa con amore,
e
quel fantin, quando Girafon vide,
da
naturale amor mosso, gli ride.
430
Sì
grande fu l'allegrezza e la festa
che
fêr costor, che 'n buona veritade,
che',
se non fosse che pur lor molesta
il
cor de' due amanti la pietade,
niuna
ne fu mai simile a questa;
ma
poi che Sinedecchia l'amistade
con
lor ebbe acquistata, sen vuol gire
alla
montagna, e da lor dipartire.
431
Girafon
mille grazie l'ha renduto,
ed
Alimena similmente ancora,
del
buon servigio da lei ricevuto,
e
molto ciaschedun quivi l'onora;
ma
poi che Sinedecchia ebbe 'l saluto
renduto
a lor, sanza far più dimora
alla
spelonca sua si ritornava,
e
quel fantin a lor quivi lasciava.
432
La
novella fu subito saputa
per
tutti i monti, ed ha ciascun palese
come
Mensola era acqua divenuta,
e
a molte ninfe gran pietà ne prese;
ma
dopo alquanto Diana si muta
da
questi luoghi, ed in altro paese
n'andò,
com'era usata, e primamente
amoní
le sue ninfe parimente.
433
Rimase
adunque le ninfe in tal mena,
sempre
quel fiume Mensola chiamaro.
Torniamo
a Girafone ed Alimena,
che
con latte quel fantin allevaro
del
lor bestiame, non con poca pena,
e
per nome Pruneo lo chiamaro,
perché
tra' pruni pianger fu trovato,
e
così fu sempre mai poi chiamato.
434
E
crescendo Pruneo venne sì bello
della
persona che, se la natura
l'avesse
fatto in pruova col pennello,
non
potre' dargli sì bella figura;
e
venne destro più ch'un lioncello,
arditissimo
e forte oltre misura,
e
tanto propio il padre era venuto,
che
da lui non si saria conosciuto.
435
Gran
guardia ne faceva Girafone
ed
Alimena, la notte e lo die,
e
più volte gli disson la cagione,
sì
come Africo suo padre morie,
perché
paura n'avesse il garzone,
di
mai voler andar per quelle vie,
e
della madre sua i grievi danni;
e
così stando venne in diciott'anni.
[Atalante,
passando per Toscana,
ne'
poggi fiesolan si riposoe
e
per le genti da torno mandoe;
e
Fiesol pose non di gente strana.]
436
Passò
poi Atalante in questa parte
d'Europa
con infinita gente;
e
per Toscana ultimamente sparte,
come
scritto si truova apertamente,
Appollin
vide, faccendo su' arte,
che
'l poggio fiesolan veracemente
era
'l me' posto poggio, e lo più sano
di
tutta Europa, di monte e di piano.
437
Atalante
vi fece allotta fare
una
città che Fiesole chiamossi;
le
genti cominciaron a pigliare
di
quelle ninfe che lassù trovossi,
e
qual potè dalle lor man campare,
da
tutti questi poggi dileguossi;
e
così fûr le ninfe allor cacciate,
e
quelle che fûr prese, maritate.
438
Tutti
gli abitator di quel paese,
Atalante
gli volle alla cittade.
Girafon,
quando questo fatto intese,
tosto
v'andò con buona volontade,
e
menò seco il piacente e cortese
Pruneo,
adorno d'ogni dignitade,
ed
Alimena, e comparì davante
con
riverenza al signore Atalante.
439
Quando
Atalante vide il vecchio antico,
graziosissimamente
il ricevette,
e
presol per la man, sì come amico,
cota'
parole verso lui ha dette:
–O
vecchio savio, intendi quel ch'io dico,
che
la mia fede ti giura e promette
che,
se tu 'n questa terra abiterai,
de'
miei maggior consiglier tu sarai,
440
e
meco abiterai nella mia rocca,
insiememente
con questo tuo figlio. –
Girafon
tai parole vêr lui scocca:
–O
Atalante, sempre il mio consiglio
fia
apparecchiato a quel che la tua bocca
comanderà;
ma io mi maraviglio,
ch'avendo
teco uomini tanto savi,
più
ch'io non sono, a far questo mi gravi. –
441
–
Tu di' ver ch'i' ho meco savia gente, –
Atalante
rispose – ma perch'io
veggio
ch'esser tu déi anticamente
'n
questi paesi stato, al parer mio,
e
sapere déi tutto 'l convenente
di
questi luoghi, qual è buono o rio,
a
molte cose mi puoi esser buono
in
questi luoghi ove arrivato sono. –
442
Girafon
disse lagrimando quasi:
–
Omè, Atalante, che tu parli 'l vero
ch'i'
son antico, e' miei gravosi casi
manifestano
il fatto tutto intero:
e
non è molto tempo ch'io rimasi
sol
con la donna mia 'n questo sentiero
se
non che poi costui mi fu recato,
ch'è
figliuol d'un mio figliuol sventurato. –
443
Poi
gli contava il fatto com'era ito
d'Africo
suo e Mensola sua amante,
e
poscia di Mugnon che fu fedito
e
morto da Diana, e tutte quante
le
sue sventure disse; e poi col dito
gli
dimostrava, di dietro e davante,
i
fiumi, ed i lor nomi gli dicea,
e
la cagion per che sì nome avea.
444
E
poi ad Atalante si voltoe
dicendo:
– I' vo' far ogni tuo comando. –
Atalante
di questo il ringrazioe,
e
poi, 'nverso Pruneo rimirando
e
piacendogli molto, lo chiamoe,
e
poscia inverso lui così parlando
disse:
– I' vo' che tu sia mio servidore
alla
tavola mia, per lo mio amore. –
445
Così
Atalante fece Girafone
suo
consigliere, e 'l giovane Pruneo
dinnanzi
a lui serviva per ragione,
e
tanto bene a far questo imprendeo,
ch'era
a vederlo grande ammirazione;
ed
oltre a questo la natura il feo
ardito
e forte tanto, che non truova
niuno
che 'l vinca a far niuna pruova.
446
E
d'ogni caccia maestro divenne
tanto,
che fiera non potea campare
dinnanzi
a lui, tant'ottimo e solenne
corridor
era, e destro nel saltare;
e
sì ben l'arco nelle sue man tenne,
che
vinto arìa Diana a saettare;
costumato
e piacevol era tanto,
ch'io
non potre' mai raccontar il quanto.
447
Atalante
gli pose tanto amore,
veggendo
ch'era sì savio e valente,
che
siniscalco il fe', con grande onore,
sopra
la terra e sopra la sua gente,
e
di tutto 'l paese guidatore;
ed
e' reggeva sì piacevolmente,
che
da tutti era amato e ben voluto,
tanto
dava ad ognuno il suo dovuto.
448
E
già più di venticinque anni avea,
quando
Atalante gli diè per mogliera
una
fanciulla, la qual Tironea
era
'l suo nome, e figliuola sì era
d'un
gran baron che con seco tenea;
e
donògli tutta quella rivera,
ch'è
in mezzo tra Mensola e Mugnone:
e
questa fu la dota del garzone.
449
Pruneo
fe' far, dalla chiesa a Maiano
un
po' disopra, un nobil casamento,
donde
vedeva tutto quanto il piano,
ed
afforzollo d'ogni guernimento;
e
quel paese, ch'era molto strano,
tosto
dimesticò, sì com'io sento,
e
questo fece sol per grande amore
ch'al
paese portava di buon core.
450
Quivi
gran parte del tempo abitava,
dandosi
sempre diletto e piacere;
dicesi
che sovente i fiumi andava
del
padre e della madre sua a vedere
e
che cogli spiriti lor parlava,
dell'acque
uscendo boci chiare e vere,
e
piene di sospiri e di pietate,
le
cose rammentandogli passate.
[Dopo
molt'anni ch'è Girafon morto,
e
Alimena, e po' Pruneo con duoli,
di
lui rimason dieci be' figliuoli,
che
assai visson con molto diporto.]
451
Girafon,
ristorato de' suoi danni,
gran
tempo visse, ma poi che sua vita
ebbe
compiuti i suoi lunghissimi anni,
di
questo mondo faccendo partita,
Alimena
lasciò con molti affanni;
la
qual, poi che l'età sua fu fornita,
con
Girafon fu messa in un avello
nella
città, qual era molto bello.
452
Pruneo
rimase in grandissimo stato
con
la sua Tironea, della qual ebbe
dieci
figliuol, ciascun pro' e costumato
tanto,
che maraviglia a dir sarebbe;
e
poi ch'egli ebbe a ciascun moglie dato,
in
molta gente questa schiatta crebbe,
e
sempre furo a Fiesol cittadini,
grandi
e possenti sopra lor vicini.
453
Morto
Pruneo, con grandissimo duolo
di
tutta la città fu seppellito;
così
rimase a ciascun suo figliuolo
tutto
'l paese libero e spedito,
ch'Atalante
donato avea a lui solo;
e
ben lo s'ebbon tra lor dipartito,
e
sempre poi la schiatta di costoro
signoreggiaro
questo tenitoro.
454
Ma
poi che Fiesol fu la prima volta
per
li Roman consumata e disfatta,
e
poi ch'a Roma la gente diè volta,
que'
che rimason dell'africhea schiatta
alla
disfatta fortezza a raccolta
tutti
si fur, che Pruneo avea fatta,
e
quivi il me' che seppon s'allogaro,
faccendo
case assai per lor riparo.
455
Poi
fu Firenze posta pe' Romani,
acciò
che Fiesol non si rifacesse
pe'
nobili e possenti Fiesolani
ch'eran
campati, ma così si stesse:
per
la qual cosa in molte parti strani,
le
genti fiesolane si fûr messe
ad
abitar, come gente scacciata,
sanz'aiuto
o consiglio abandonata.
456
Ma
poi ch'uscita fu l'ira di mente,
per
ispazio di tempo, e pace fatta
tra
li Romani e la scacciata gente,
quasi
tutta la gente fu ritratta
ad
abitare in Firenze possente:
fra'
qual vi venne l'africhea schiatta,
i
quai vi fûr volentier ricevuti
da'
cittadini, e molto car tenuti.
457
E
per levar lor ogni sospeccione,
sed
e' l'avesson, d'esser oltraggiati,
e
ancor per dare lor maggior cagione
d'amar
la terra e d'esser anco amati,
e
fatto fosse a ciaschedun ragione,
si
furo insieme tutti imparentati,
e
fatti cittadin con grande amore,
avendo
la lor parte d'ogni onore.
458
Così
multiplicando la cittade
di
Firenze in persone e 'n gran ricchezza,
gran
tempo resse con tranquillitade;
ma,
come molti libri fan chiarezza,
già
era in essa la cristianitade
venuta,
quando, presa ogni fortezza,
fu
da Totile infin da' fondamenti
arsa
e disfatta, e cacciate le genti.
459
Poi
fece il crudel Totile rifare
ogni
fortezza di Fiesole e mura,
ed
un bando per lo paese andare,
che
qual fosse che dentro alla chiusura
di
Fiesole tornasse ad abitare,
vi
fosse ogni persona ben sicura,
giurando
prima di far sempre guerra
con
li Romani e con ogni lor terra.
460
Per
la qual cosa la schiatta africhea,
per
grande sdegno, tornar non vi volle,
ma
nel contado ognun si riducea,
ciò
è nel lor primaio antico colle,
ove
ciascuno abitazione avea,
faccendo
quivi un forte battifolle
per
lor difesa, se bisogno fosse,
da'
Fiesolani e dalle lor percosse.
461
Così
gran tempo quivi dimoraro,
infin
che 'l buon re Carlo Magno
venne
al soccorso d'Italia, ed a riparo
della
città di Roma, che sostenne
gran
novità; allor si raunaro
l'africhea
gente, e consiglio si tenne
con
gli altri nobil che s'eran fuggiti
per
lo contado, e preson tai partiti:
462
ch'a
Roma si mandasse, al padre santo
ed
al re Carlo Magno, un'ambasciata,
significando
il fatto tutto quanto,
come
la lor figliuola rovinata
giaceva
in terra, e' cittadin con pianto
l'avean
per forza tutta abandonata,
e
perché avean de' Fiesolan paura,
non
vi potean rifar casa né mura.
463
Ma
perch'altrove chiara questa storia
si
truova scritta, fo con brievitade.
Tornando
al papa Fiorenza a memoria
per
l'ambasciata, glien venne pietade;
ma
poi che Carlo Magno ebbe vittoria,
passò
di qua nelle nostre contrade,
e
rifece la città di Fiorenza,
la
qual poi crebbe ogni di sua potenza.
464
Per
la qual cosa quei d'Africo nati
con
gli altri vi tornaro ad abitare;
e
come poi si siano traslatati
di
grado in grado non potre' contare,
e
d'uno in altro, ma in molti lati
son,
di lor, gente scesa d'alto affare,
e
d'altri che son di lassù venuti,
che
per lor gente non son conosciuti.
465
Ma
sia come si vuole omai la cosa,
i'
son venuto al porto disiato,
ove
'l disio e la mente amorosa
per
lunghi mari ha gran pezza cercato;
e
qui donando omai alla penna posa,
ho
fatto quel che mi fu comandato
da
tal, ch'i' non potre' nulla disdire,
tant'è
sopra di me fatto gran sire.
[Comenda
qui l'autore il suo signore,
dicendo
ch'egli è que' che può dar pace
a
chi lui segue con amor verace:
ed
anco, a chi gli par, dona amarore.]
466
Adunque,
poi ch'i' son al fin venuto
d'esto
lavoro, a colui 'l vo' portare,
il
qual m'ha dato la forza e l'aiuto
e
lo stile e lo 'ngegno del rimare:
dico
ad Amor, di cui son sempre suto
ed
esser voglio; e lui vo' ringraziare
e
a lui 'l libro portar là dov'egli usa,
e
poi davanti a lui porre una scusa:
467
–
Altissimo signore, Amor sovrano,
sotto
cui forza, valor e potenza,
è
sottoposto ciascun cor umano,
e
contro a cui non può far resistenza
nessuno,
e sia quanto si vuol villano,
il
qual non venga tosto a tua ubidienza,
pur
che tu voglia; ma pur più ti giova
d'usar
contro a' gentili la tua prova;
468
tu
se' colui che sai, quando ti piace,
ogni
gran fatto ad efetto menare;
tu
se' colui che doni guerra e pace
a'
servi tuoi, secondo che ti pare;
tu
se' colui che li lor cori sface,
e
che gli fai sovente suscitare;
tu
se' colui che gli assolvi e condanni,
e
qual conforti, e qual arrogi affanni.
469
I'
son un de' tuoi servi, al qual imposto
mi
fu per te, com'a servo leale,
di
compôr questa storia; e io, disposto
sempre
a ubidirti, come quegli al quale
una
donna m'ha dato e sottoposto,
col
tuo aiuto ho il libro fatto tale,
chent'è
suto possibile al mio ingegno,
il
qual i' ho acquistato nel tuo regno.
470
Ma
ben ti priego, per gran cortesia,
e
per dover, e per giusta ragione,
che
questo libro mai letto non sia
per
l'ignoranti e villane persone,
e
che non seppon mai chi tu ti sia,
né
di voler saperlo hanno intenzione:
ché
molto certo son che biasimato
saria
da lor ogni tuo bel trattato.
471
Lascial
leggere agli animi gentili,
e
che portan nel volto la tua 'nsegna,
e
a' costumati, angelichi ed umili,
nel
cor de' quali la tua forza regna;
costor
le cose tue non terran vili,
ma
esser la faran di lode degna.
Te'
ch'i' tel rendo, dolce il mio signore,
al
fin recato pel tuo servidore. –
[Risponde
Amore all'autore detto,
lodandol
che lo libro a compimento
egli
ha condutto con bello ornamento:
e
'l priego suo sarà messo in effetto.]
472
–
Ben venga l'ubidente servo mio
quanto
niun altro che sia a me suggetto,
il
qual ha messo tutto il suo disio
in
recar al suo fin il mio libretto;
e
perché certo son ch'è tal, qual io
il
disiava, volentier l'accetto,
e
nell'armar', tra gli altri miei contratti,
appresso
il metterò, de' miei gran fatti.
473
E
'l priego tuo sarà ottimamente,
di
ciò che m'hai pregato, esaudito,
che
ben guarderò 'l libro dalla gente,
la
qual tu di' che non m'ha mai servito;
non
perch'io tema lor vento niente
né
perch'io sia per lor meno ubbidito,
ma
perché ricordato il nome mio
tra
lor non sia; e tu riman' con Dio! –