Giovanni
Boccaccio
Il
Filocolo
Edizione
di riferimento:
Giovanni
Boccaccio: Filocolo, a cura di E. Quaglio, in Tutte le opere, a
cura di V. Branca, vol. I, Mondadori, Milano 1967
LIBRO
PRIMO
[1]
Mancate
già tanto le forze del valoroso popolo anticamente disceso del troiano Enea,
che quasi al niente venute erano per lo maraviglioso valore di Giunone, la
quale la morte della pattovita Didone cartaginese non avea voluta inulta
dimenticare e all'altre offese porre non debita dimenticanza, faccendo degli
antichi peccati de' padri sostenere a' figliuoli aspra gravezza, possedendo la
loro città, la cui virtù già l'universe nazioni si sottomise, sentì che quasi
nelle streme parti dello ausonico corno ancora un picciolo ramo della ingrata
progenie era rimaso, il quale s'ingegnava di rinverdire le già seccate radici
del suo pedale. Commossa adunque la santa dea per le costui opere, propose di
ridurcelo a niente, abbattendo la infiammata sua superbia, come quella degli antecessori
avea altra volta abbattuta con degno mezzo. E posti i risplendenti carri agli
occhiuti uccelli, davanti a sé mandata la figliuola di Taumante a significare
la sua venuta, discese della somma altezza nel cospetto di colui che per lei
tenea il santo uficio, e così disse:
«O
tu, il quale alla somma degnità se' indegno pervenuto, qual negligenza t'ha
messo in non calere della prosperità dei nostri avversarii? quale oscurità t'ha
gli occhi, che più debbono vedere, occupati? levati su: e però che a te è
sconvenevole a guidare l'armi di Marte, fa che incontanente sia da te chiamato
chi con la nostra potenza abbatta le non vere frondi, che sopra lo inutile
ramo, le cui radici già è gran tempo furono secche, dimorano, e in maniera che
di loro mai più ricordo non sia. Intra 'l ponente e i regni di Borrea sono
fruttifere selve, nelle quali io sento nato un valoroso giovane, disceso
dell'antico sangue di colui che già i tuoi antecessori liberò dalla canina
rabbia de' longobardi, loro rendendo vinti con più altri nimici alla nostra
potenza. Chiama costui però che noi gli abbiamo quasi l'ultima parte delle
nostre vittorie serbata, e sopra noi gli prometti valorose forze. Io gli farò
li fauni e' satiri e le ninfe graziose ne' suoi affanni: Nettunno e Eolo disiderano
di servirmi; e Marte a' miei prieghi vigorosamente l'aiuterà; e il nostro Giove
è di tutte queste cose contento, però c'ha preso isdegno, veggendo a gente
portare per insegna quello uccello nella cui forma già molte volte si mostrò a'
mondani, che più a' sacrifici di Priapo intendono che a governare la figliuola
d'Astreo, loro debita sposa. Io ancora ti prometto di commuovere con le
infernali furie un'altra volta gli abondevoli regni in suo servigio, come già
feci quando ne' paesi italici entrò il santo uccello, la cui ruinazione non
permisi allora, volendogli prestare tempo nel quale potendosi pentere meritasse
perdono, e ancora però che sentiva che di lui dovea discendere lo edificatore
di questo luogo pontificale. Adunque sollecita queste cose; e se ciò non farai,
sanza più porgerti le mie forze io ti lascerò nelle sue mani».
E
detto questo, si partì, discendendo a' tenebrosi regni di Pluto; e con
lamentevole voce chiamata Aletto, disse:
«A
te conviene la seconda volta rivolgere le fedeli menti de' discendenti di
colui, il quale tu non potesti altra volta per tua forza del tutto sturbare che
negli italici regni smisurate forze non prendesse: ma ciò fu nel principio
delle loro prosperità; ma questo fia nell'ultima parte delle loro avversità, la
quale ultima parte la loro fama spegnerà nel mondo».
E
questo detto, voltato il suo carro, tornò al cielo. Gli oscuri regni, udendo
tale novella si dolfero, veggendo apertamente per quella la loro preda mancare:
ma al volere della santa dea non si potea resistere. Però Aletto, lasciati
quelli, tornò agli altri, i quali ella già a crudeli battaglie aveva commossi,
e quivi gli animi de' più possenti impregnò di volontà iniqua contra 'l
principale signore, mostrando loro come venereamente le loro matrimoniali letta
avea violate; e così, pregni d'iniquo volere e d'ira mormorando, gli lasciò
focosi, ritornandosi donde partita s'era. Il vicario di Giunone sanza indugio
chiamò il giovane dalla santa bocca eletto a' suoi servigi, il quale allora
signoreggiava la terra la quale siede allato alla mescolata acqua del Rodano e
di Sorga, e a lui mostrò i larghi partiti promessigli dalla santa dea, se in
tale servigio con le loro forze si mettesse; e ultimamente gli promise d'ornare
la sua fronte di reale corona del fruttifero paese, se la maladetta pianta del
tutto n'estirpasse.
Non
fece il valoroso giovane disdetta a sì fatta impresa, ma, disideroso di dare a
sé e a' suoi simile scanno, chente i predecessori aveano avuto, si mise con
vigorose forze alla mirabile impresa; e in brieve tempo con la sua forza e con
gli promessi aiuti la recò a fine, posando il suo solio negli adimandati regni,
avendo annullati i nemici di Giunone con proterva morte; e quivi nuova progenie
generata, stato per alquanto spazio, rendeo l'anima a Dio. Quegli che dopo lui
rimase successore nel reale trono, lasciò appresso di sé molti figliuoli: tra'
quali uno, nominato Ruberto, nella reale dignità constituto, rimase
integramente con l'aiuto di Pallade reggendo ciò che da' suoi predecessori gli
fu lasciato. E avanti che alla reale eccellenza pervenisse, costui, preso del
piacere d'una gentilissima giovane dimorante nelle reali case, generò di lei
una bellissima figliuola; ben che volendo di sé e della giovane donna servare
l'onore, con tacito stile, sotto nome appositivo d'altro padre teneramente la
nutricò, e lei nomò del nome di colei che in sé contenne la redenzione del
misero perdimento che avvenne per l'ardito gusto della prima madre. Questa
giovane, come in tempo crescendo procedea, così di mirabile virtù e bellezza
s'adornava, patrizzando così eziandio ne' costumi, come nell'altre cose facea;
e per le sue notabili bellezze e opere virtuose più volte facea pensare a molti
che non d'uomo ma di Dio figliuola stata fosse.
Avvenne
che un giorno, la cui prima ora Saturno avea signoreggiata, essendo già Febo
co' suoi cavalli al sedecimo grado del celestiale Montone pervenuto, e nel
quale il glorioso partimento del figliuolo di Giove dagli spogliati regni di
Plutone si celebrava, io, della presente opera componitore, mi ritrovai in un
grazioso e bel tempio in Partenope, nominato da colui che per deificare
sostenne che fosse fatto di lui sacrificio sopra la grata; e quivi con canto
pieno di dolce melodia ascoltava l'uficio che in tale giorno si canta, celebrato
da' sacerdoti successori di colui che prima la corda cinse umilemente
essaltando la povertade e quella seguendo. Ove io dimorando, e già essendo,
secondo che 'l mio intelletto estimava, la quarta ora del giorno sopra
l'orientale orizonte passata, apparve agli occhi miei la mirabile bellezza
della prescritta giovane, venuta in quel luogo a udire quello ch'io
attentamente udiva: la quale sì tosto com'io ebbi veduta, il cuore cominciò sì
forte a tremare, che quasi quel tremore mi rispondea per li menomi polsi del
corpo smisuratamente; e non sappiendo per che, né ancora sentendo quello che
egli già s'imaginava che avvenire gli dovea per la nuova vista, incominciai a
dire:
«Oimè,
che è questo?»; e forte dubitava non altro accidente noioso fosse. Ma dopo
alquanto spazio rassicurato, un poco presi ardire, e intentivamente cominciai a
rimirare ne' begli occhi dell'adorna giovane; ne' quali io vidi, dopo lungo
guardare, Amore in abito tanto pietoso, che me, cui lungamente a mia stanza
avea risparmiato, fece tornare disideroso d'essergli per così bella donna
suggetto. E non potendomi saziare di rimirare quella, così cominciai a dire:
«Valoroso
signore, alle cui forze non poterono resistere gl'iddii, io ti ringrazio, però
che tu hai dinanzi agli occhi miei posta la mia beatitudine: e già il freddo
cuore, sentendo la dolcezza del tuo raggio, si comincia a riscaldare. Adunque
io, il quale ho la tua signoria lungamente temendo fuggita, ora ti priego che
tu, mediante la virtù de' begli occhi ove sì pietoso dimori, entri in me con la
tua deitade. Io non ti posso più fuggire, né di fuggirti disidero, ma umile e
divoto mi sottometto a' tuoi piaceri».
Io
non avea dette queste parole, che i lucenti occhi della bella donna sintillando
guardarono ne' miei con aguta luce, per la quale luce una focosa saetta, d'oro
al mio parere, vidi venire, e quella, per li miei occhi passando, percosse sì
forte il cuore del piacere della bella donna, che ritornando egli nel primo
tremore ancora trema; e in esso entrata, v'accese una fiamma, secondo il mio
avviso, inestinguibile, e di tanto valore, che ogni intendimento dell'anima ha
rivolto a pensare delle maravigliose bellezze della vaga donna. Ma poi che di
quindi col piagato cuore partito mi fui, e sospirato ebbi più giorni per la
nuova percossa, pur pensando alla valorosa donna, avvenne che un giorno, non so
come, la fortuna mi balestrò in un santo tempio dal prencipe de' celestiali
uccelli nominato, nel quale sacerdotesse di Diana, sotto bianchi veli, di neri
vestimenti vestite, cultivavano tiepidi fuochi divotamente; là dove io
giungendo, con alquante di quelle vidi la graziosa donna del mio cuore stare
con festevole e allegro ragionamento, nel quale ragionamento io e alcuno
compagno domesticamente accolti fummo. E venuti d'un ragionamento in un altro,
dopo molti venimmo a parlare del valoroso giovane Florio, figliuolo di Felice,
grandissimo re di Spagna, recitando i suoi casi con amorose parole. Le quali
udendo la gentilissima donna, sanza comparazione le piacquero, e con amorevole
atto inver di me rivolta, lieta, così incominciò a parlare:
«Certo
grande ingiuria riceve la memoria degli amorosi giovani, pensando alla grande
costanza de' loro animi, i quali in uno volere per l'amorosa forza sempre
furono fermi servandosi debita fede, a non essere con debita ricordanza la loro
fama essaltata da' versi d'alcun poeta, ma lasciata solamente ne' fabulosi
parlari degli ignoranti. Ond'io, non meno vaga di potere dire ch'io sia stata
cagione di rilevazione della loro fama che pietosa de' loro casi, ti priego che
per quella virtù che fu negli occhi miei il primo giorno che tu mi vedesti e a
me per amorosa forza t'obligasti, che tu affanni in comporre un picciolo
libretto volgarmente parlando, nel quale il nascimento, lo 'nnamoramento e gli
accidenti de' detti due infino alla loro fine interamente si contenga».
E
questo detto, si tacque. Io sentendo la dolcezza delle parole procedenti dalla
graziosa bocca, e pensando che mai, cioè infino a questo giorno, di niuna cosa
era stato dalla nobilissima donna pregato, il suo priego in luogo di
comandamento mi riputai, prendendo per quello migliore speranza nel futuro de'
miei disii, e così risposi:
«Valorosa
donna, la dolcezza del vostro priego, a me espressissimo comandamento, mi
stringe sì, che negare non posso di pigliare e questo e ogni maggiore affanno
che a grado vi fosse, avvegna che a tanta cosa insofficiente mi senta; ma
seguendo quel detto, che alle cose impossibili niuno è tenuto, secondo la mia
possibilità, con la grazia di Colui che di tutto è donatore, farò che quello
che detto avete sarà fornito».
Benignamente
mi ringraziò, e io, costretto più da ragione che da volontà, col piacere di lei
di quel luogo mi partii, e sanza niuno indugio cominciai a pensare di voler
mettere ad essecuzione quello che promesso aveva. Ma però che, come di sopra è
detto, insofficiente mi sento sanza la tua grazia, o donatore di tutti i beni,
ad impetrar quella quanto più posso divoto ricorro, supplicandoti, con quella
umiltà che più può fare i miei prieghi accettevoli, che a me, il quale ora
nelle sante leggi de' tuoi successori spendo il tempo mio, che tu sostenghi la
mia non forte mano alla presente opera, acciò che ella non trascorra per troppa
volontà sanza alcun freno in cosa la quale fosse meno che degna essaltatrice
del tuo onore, ma moderatamente in etterna laude del tuo nome la guida, o sommo
Giove.
[2]
Adunque,
o giovani, i quali avete la vela della barca della vaga mente dirizzata a'
venti che muovono dalle dorate penne ventilanti del giovane figliuolo di
Citerea, negli amorosi pelaghi dimoranti disiosi di pervenire a porto di salute
con istudioso passo, io per la sua inestimabile potenza vi priego che
divotamente prestiate alquanto alla presente opera lo 'ntelletto, però che voi
in essa troverete quanto la mobile fortuna abbia negli antichi amori date varie
permutazioni e tempestose, alle quali poi con tranquillo mare s'è lieta rivolta
a' sostenitori; onde per questo potrete vedere voi soli non essere sostenitori
primi delle avverse cose, e fermamente credere di non dovere essere gli ultimi.
Di che prendere potrete consolazione, se quello è vero, che a' miseri sia
sollazzo d'avere compagni nelle pene; e similemente ve ne seguirà speranza di
guiderdone, la quale non verrà sanza alleggiamento delle vostre pene. E voi,
giovinette amorose, le quali ne' vostri dilicati petti portate l'ardenti fiamme
d'amore più occulte, porgete le vostre orecchi con non mutabile intendimento a'
nuovi versi: li quali non vi porgeranno i crudeli incendimenti dell'antica
Troia, né le sanguinose battaglie di Farsaglia, le quali nell'animo alcuna
durezza vi rechino; ma udirete i pietosi avvenimenti dello innamorato Florio e
della sua Biancifiore, li quali vi fieno graziosi molto. E, udendoli, potrete
sapere quanto ad Amore sia in piacere il fare un giovane solo signore della sua
mente, sanza porgere a molti vano intendimento, però che molte volte si perde
l'un per l'altro, e suolsi dire che chi due lepri caccia, talvolta piglia l'una
e spesso non niuna. Dunque apprendete d'amare uno solo, il quale ami voi
perfettamente, sì come fece la savia giovane, la quale per lunga sofferenza
Amore recò al disiato fine. E se le presenti cose, o voi, giovani e donzelle,
generano ne' vostri animi alcun frutto e diletto, non siate ingrati di porgere
divote laudi a Giove e al nuovo autore.
[3]
Quello
eccelso e inestimabile prencipe sommo Giove, il quale, degno de' celestiali
regni posseditore, tiene la imperiale corona e lo scettro, per la sua
ineffabile providenza avendo a sé fatti cari fratelli e compagni a possedere il
suo regno molti, conosceo lo iniquo volere di Pluto, il quale più grazioso e
maggiore degli altri avea creato, che già pensava di volere il dominio maggiore
che a lui non si conveniva; per la qual cosa Giove da sé il divise, e in sua
parte a lui e a' suoi seguaci diede i tenebrosi regni di Dite, circundata dalli
stigi paduli, e loro etterno essilio segnò dal suo lieto regno; e provide di
nuova generazione volere riempiere l'abandonate sedie, e con le propie mani
formò Prometeo, al quale fece dono di cara e nobile compagnia. Questo veggendo
Pluto, dolente che strana prole fosse apparecchiata per andare ad abitare il
suo natale sito, del quale elli per suo difetto era stato cacciato, imaginò di
far sì che le nuove creature da quella abitazione facesse essiliare; e con
sottile inganno la sua imaginazione mise in effetto, e del santo giardino voltò
le prime creature, le quali per suo consiglio il precetto del loro creatore
miserabilemente prevaricarono, e seguentemente loro con tutti li loro
discendenti rivolse alle sue case, e rallegrandosi d'avere per sottigliezza
annullato il proponimento di Giove. Lungamente sofferse Colui che tutto vede
questa inguiria, ma poi che tempo gli parve di dovere mostrare la sua pietà
inver di coloro che stoltamente s'aveano lasciato ingannare e che stavano ne'
tenebrosi luoghi rinchiusi, allora miracolosamente il suo unico Figliuolo mandò
in terra da' celestiali regni, e disse:
«Va,
e col nostro sangue libera coloro, a cui Dite è stata così lunga carcere, e
appresso te lascia in terra sì fatte armi, che gli altri futuri, a' quali ella
ancora non s'è mostrata, prendendole, si possano valorosamente difendere dalle
false insidie e occulte di Pluto: e ricominci Vulcano per lo tuo comandamento
nuove folgori, le quali, tu gittando, dimostrino quanta sia la nostra potenza,
come già feciono».
Scese
al comandamento del suo Padre l'unico Figliuolo dalla somma altezza in terra, a
sostenere per noi la iniqua percossa d'Antropos, apportatore delle nuove armi,
in disusato modo, non operando in lui la natura il suo uficio come negli altri
uomini. La terra, come sentì il nuovo carico della deità del figliuolo di
Giove, diede per diverse parti della sua circunferenza allegri e manifesti
segni di futura vittoria agli abitanti; e egli, già in età ferma pervenuto,
cominciò a riempiere la terra delle aportate armi e a fare avedere coloro, che
con perfetta fede i suoi detti ascoltavano, del ricevuto inganno, porto
dall'antico oste; i quali, come il perduto conoscimento riaveano, così delle
nuove armi per loro difesa si guarnivano, e contra gli ignoranti la verità
moveano varie battaglie e molte; e verso loro alcuno che volesse non si trovava
potere resistere, però che sanza cura d'affanno e di corporale morte gli
trovavano. E già delle vittorie de' nuovi cavalieri entrati contra Pluto in
campo, tutto l'oriente ne risonava; ma ancora le loro magnifiche opere
l'occidente non sentiva, quando il Figliuol di Dio, avendo spogliata di molti
prigionieri l'antica Dite, e essendo al suo padre ritornato, e mandato a'
prencipi de' suoi cavalieri lo 'mpromesso dono del santo ardore, volendo che
l'ultimo ponente sentisse le sante operazioni, elesse uno de' suddetti
prencipi, quello che più forte gli parve a potere resistere alle infinite
insidie che ricevere dovea, e sopra l'onde di Speria trasportare il fece a un
notante marmo. Il quale, pervenuto nella strana regione, con la forza della
somma deità, cominciate contro quelli, i quali resistenti trovò, aspre
battaglie, acquistò molte vittorie, e molti delle celestiali armi novelle vi
rivestì. Ma poi, dopo molto combattere, trovata più resistente schiera, sanza
volgere viso o sanza alcuna paura l'ultimo colpo d'Antropos umile e divoto
sostenne, e al cielo, per lungo affanno meritato, rendé la santa e gloriosa
anima. I cui seguaci, dopo la sua passione, prese le martirizzate reliquie, in
notabile luogo reverentemente le sepelliro non sanza molte lagrime. E ad
etterna memoria di così fatto prencipe, poco lontano all'ultime onde
d'occidente, sopra il suo venerabile corpo edificarono un grandissimo tempio,
il quale del suo nome intitolarono, ardendo in esso continuamente divotissimi
fuochi, rendendo in essi al sommo Giove graziosi incensi. E esso, giusto
essauditore, non fu tanto nella sua vita valoroso resistente a' difenditori
della falsa oppinione, quanto dopo il suo ultimo dì fu molto più grazioso
conservatore de' suoi fedeli, però che Giove in servigio di lui, nel suo tempio
essaudendo le debite orazioni, mirabili cose facea, onde la fama
dell'occidentale Iddio risonava per l'universo. Certo ella passò in brieve
tempo le calde onde dello orientale Ganges, e nelle boglienti arene di Libia fu
manifesta, e dagli abitanti nelle ghiacciate nevi d'Aquilone fu saputa, però
che egli non porgea risponsi, come far soleano i bugiardi iddii, ma con vere
operazioni ne' bisogni soccorrea e soccorre i divoti domandatori: e per questo
più la santa fama per il mondo risuona.
[4]
Suona
adunque la gran fama per l'universo della mirabile virtù del possente Iddio
occidentale, e in te, o al ma città, o reverendissima Roma, la quale igualmente
a tutto il mondo ponesti il tuo signorile giogo sopra gl'indomiti colli, tu
sola permanendone vera donna, molto più che in alcun'altra parte risuona, sì
come in degno luogo della cattedrale sedia de' successori di Cefas. E tu di ciò
dentro a te non poco ti rallegri, ricordando te essere quasi la prima
prenditrice delle sante armi, però che conoscesti te in esse dovere tanto
divenire valorosa, quanto per adietro in quelle di Marte pervenisti, e molto
più; onde contentati che come già per l'antiche vittorie più volte la tua
lucente fronte ti fu ornata delle belle frondi di Pennea, così di questa ultima
battaglia, con le nuove armi triunfando tu vittoriosamente, meriterai d'essere
ornata d'etternal corona, e, dopo i lunghi affanni, la tua imagine tra le
stelle onorevolemente sarà locata, tra le quali co' tuoi antichi figliuoli e padri
beata ti ritroverai. E i tuoi figliuoli già per la nuova fama prendono a'
lontani templi divozione, e adomandando allo Iddio dimorante in essi i
bisognevoli doni, promettono graziosi boti: i quali doni ricevuti, ciascuno
s'ingegna d'adempiere la volontaria promissione visitandoli, ancora che sieno
lontani: la qual cosa appo Iddio grandissimo merito sanza fallo t'impetra.
[5]
Risuona per Roma, com'è detto, la gran fama
nella quale un nobilissimo giovane dimorava, il quale si chiamava Quinto Lelio
Africano, disceso del nobile sangue del primo conquistatore dell'africana
Cartagine. Era questo ornatissimo di belli costumi e abondante di ricchezze e
di parenti, già per la sua virtù prescritto all'ordine militare, e avea,
secondo la nuova legge del Figliuol di Dio, una giovane romana nobilissima,
nata della gente giulia, e Giulia Topazia nominata, presa per sua legit tima
sposa, la quale per la sua gran bellezza e infinita bontà era molto da lui
amata. E già era con lei, poi che Imineo coronato delle frondi di Pallade fu
prima nelle sue case e le sante tede arse nella sua camera, dimorato tanto, che
Febo cinque volte era nella casa della celestiale Vergine rientrato, e ancora
di lei niuno figliuolo avea potuto avere, de' quali egli sopra tutte le cose
era disideroso; e in molte maniere cercato com'egli potesse fare che la giovane
concepesse, e niuna pervenuta ad effetto, sentiva nell'animo angoscioso
tormento. Ma l'infinita pietà di Colui a cui nulla cosa si nasconde non
sostenne che sanza parte del suo disio vedere egli finisse i giorni suoi, a'
quali poco più spazio era assegnato, anzi saviamente precorse in cotal modo:
che, essendo Lelio un giorno intorno a quel disio molto pensoso, udì narrare di
quello Iddio, che sopra gli sperii liti dimorava lontano, maravigliose cose per
lui fatte; le quali poi ch'egli ebbe udite, se n'andò in uno santo tempio, là
dove la reverenda imagine del glorioso santo era figurata, nel cospetto della
quale disse così:
«O
grazioso Iddio, il quale sopra i liti occidentali lasciasti il tuo santo corpo,
l'anima renduta al sommo Giove, ricevi le mie voci, degne d'essere essaudite,
nella tua presenza. E così come a niuno, che divotamente giusto dono ti
domandi, li nieghi, così a me la mia domanda, s'è giusta, non negare, ma
perfettamente me la adempi. Io sono giovane d'eccellentissima fama, e di famosi
parenti disceso, e nella presente città copioso di ricchezze e di congiunti
parenti, accompagnato di nobilissima e bella giovane, con la quale io sono
stato tanto tempo ch' io veggio incominciare la sesta volta al sole l'usato
cammino, e niuno figliuolo ancora di lei ho potuto avere, il quale dopo
l'ultimo nostro giorno possa il nostro nome ritenere e possedere l'antiche
ricchezze possedute lungamente per ereditaggio; di che nell'animo sostengo
gravissima noia. Ond'io divotamente ti priego che nel cospetto dello
onnipotente Si gnore grazia impetri, che se Egli dee essere della mia anima
bene, e del suo e tuo onore essattamento, che Egli uno solamente concedere me
ne deggia, il quale dopo me me rapresenti. La qual cosa se Egli me la concede,
io ti prometto e giuro per l'anima del mio padre e per la deità del sommo Giove
che i tuoi lontani templi saranno da me visitati personalmente, e i tuoi altari
di divoti fuochi saranno alluminati».
E
fatta la degna orazione, tornò al suo militar palagio, quasi contento:
"Così come niuno giusto priego può esser fatto sanza essere essaudito,
così questo, però che era giusto, sanza essaudizione non pote trapassare".
Ma già i disiosi cavalli del sole, caldi per lo diurno affanno, si bagnavano
nelle marine acque d'occidente, e le menome stelle si poteano vedere, essendo
già Lelio e Giulia, dopo i dilicati cibi da loro presi, quasi contenti del
fatto voto, sperando grazia, andatisi a riposare nel congiugale letto, nel
quale soavissimo sonno gli avea presi, quando il santo, per cui Galizia è
visitata, volle fare a Lelio manifesto quanto il suo giusto priego, fatto il preterito
dì, gli fosse a grado; e disceso dagli alti cieli, e entrato radiante di
maravigliosa luce nella camera di Lelio, con lieto viso gl'incominciò a
parlare, dormendo egli, e disse così:
«O
Lelio, io sono colui il quale tu il passato giorno con tanta divozione
chiamasti, pregando ch'io t'impetrassi grazia, nel conspetto di Colui che tutte
le dona sanza rimproverare, che tu potessi avere degna erede del tuo nome, nel
quale dopo la tua morte la tua fama vivesse. Onde Egli, misericordioso
essauditore de' giusti prieghi, e di tutto bene benignissimo donatore, per me
ti manda a dire che il tuo priego è essaudito da Lui, e che, la prima volta che
tu con la tua sposa onestamente ti congiugnerai, veramente riceverai il
dimandato dono».
E
queste parole dette, ad un'ora egli e 'l sonno di Lelio si partirono. Lelio,
svegliato, pieno di maraviglia e d'allegrezza, per lungo spazio volse gli occhi
per la camera per vedere se ancora l'aportatore della lieta novella vi fosse;
ma poi che vide lui non esservi, umilemente cominciò a ringraziare colui che
mandata aveva tanto disiata ambasciata; e chiamata Giulia, la quale ancora
dormia, le narrò la veduta visione. Di che ella si maravigliò molto, e lieta
quasi sanza fine incominciò a ringraziare Iddio. E non dopo molto spazio stato
tra loro quella congiunzione che annunziata fu a Lelio, s'avide Giulia esser
gravida, secondo che il santo Iddio avea annunziato.
[6]
Non
dopo molti giorni, mostrando già Calisto dintorno al polo quanto era lucente,
incominciò Lelio e Giulia insieme a ragionar della mirabile visione, e dopo
alquante parole, Giulia, che già avea sentito e sentia in sé il disiato frutto
nascoso, disse:
«Certo,
Lelio, già per effetto mi par sentire il grazioso dono esserci dato, però che
più grave esser mi pare che per lo preterito parere non solea».
Quando
Lelio udì queste parole fu tanto allegro, che nulla giusta comparazione si
potrebbe porre alla sua allegrezza, e disse:
«Adunque
niuno indugio si vuole porre a fare gl'impromessi doni, ma così tosto come i
chiari raggi di Apollo ne recheranno il chiaro giorno, io con quella compagnia
che mi parrà voglio prendere il lungo cammino e portare i graziosi incensi
promessi a' lontani altari».
Allora
disse Giulia:
«Deh!
ora sarà il tuo cammino sanza me fatto?».
Lelio
rispose:
«Giulia,
tu se' giovane, e sì fatto affanno sarebbe alla tua tenera età impossibile, e
noioso al disiato frutto che tu nascondi; però tu rimarrai degna donna della
nostra casa, lietamente aspettando la mia tornata».
Giulia,
udendo queste parole, bagnò il suo viso d'amare lagrime, dicendo:
«Certo,
quando la fortuna ti fosse contraria, mi crederei io esser vie più possente
sostenitrice dell'armi e degli affanni, sempre aiutandoti e seguendoti, che non
fu Issicratea a Mitridate, non che nelle felicità, nelle quali il venirti
appresso mi porge smisurato diletto. Se tu mi lasci sola di te, tu mi lascerai
accompagnata di molti e varii pensieri: il mio petto sarà sempre pieno di molte
sollecitudini, e nascosamente sosterrò maggior affanno, sempre di te dubitando,
ch'io non potrei mai fare venendo teco».
O
Tiberio Gracco, fu tanta la pietà che tu avesti di Cornelia, tua cara sposa,
quando lasciasti la femina serpe, risparmiando anzi la sua vita che la tua
propia, quanto fu quella di Lelio vedendo le lagrime della cara compagna? Certo
appena! Ond'egli le rispose:
«Giulia,
poni fine alle tue lagrime, ché i lontani templi da me sanza te non saranno
cercati; e però disponi il tuo virile animo al nuovo cammino, che al nuovo
giorno credo cominceremo».
Giulia
contenta si tacque.
[7]
L'Aurora
avea rimossi i notturni fuochi e Febo avea già rasciutte le brinose erbe,
quando Lelio, chiamata Giulia, lieti si levarono da' notturni riposi, e
comandarono che quelle cose le quali a camminare fossero necessarie, fossero
sanza indugio apparecchiate. E mandato per quelli i quali a loro piacque
d'eleggere per loro compagnia, loro narrarono il lieto avvenimento, comandando
ad essi che immantanente fossero presti d'andare con loro a mettere ad effetto
le fatte promissioni. Al quale comandamento fu risposto loro essere presti ad
ogni loro piacere.
[8]
Fu
sanza alcuno indugio messo ad essecuzione il comandamento di Lelio; onde egli e
Giulia e la loro compagnia, tornando da' santi templi da porgere pietosi
prieghi al sommo Giove che il loro andare e tornare facesse essere
prosperevole, salirono sopra i portanti cavalli, e, piangendo, appena a' cari
parenti e amici poterono dire addio: e partironsi, e con lieto animo
cominciarono il disaventurato cammino.
[9]
Il
miserabile re, il cui regno Acheronta circunda, veggendo che lo essercizio era
alle sue invasioni inique contrario, e che i lunghi cammini porgevano alla
carne affannosa gravezza, per la quale i sostenitori d'essa fuggivano le inique
tentazioni e meritavano il mal conosciuto regno da lui, il quale egli, per
disiderare oltre dovere, perdé, afflitto di noiosa sollecitudine, veggendo la
maggior parte di quelli che andar soleano alle sue case esser disposti a quello
affanno, o ad altri simiglianti o maggiori, pensò di volergli ritrarre da sì
fatte imprese con paura; e convocati nel suo conspetto gl'infernali ministri,
disse:
«Compagni,
voi sapete che Giove non dovutamente degli ampi regni, i quali egli possiede,
ci privò, e diedeci questa strema parte sopra il centro dell'universo a
possedere, e in dispetto di noi creò nuova progenie, la quale i nostri luoghi
riempisse. Noi ingegnosamente li sottraemmo, sì che noi volgemmo i loro passi
alle nostre case: e Egli ancora, non parendogli averci tanto oltraggiato, mandò
il suo Figliuolo a spogliarcene al quale non potendo noi resistere, ci spogliò,
e dopo tutto questo fece aveduti gli abitanti della terra de' nostri lacciuoli,
e donò loro armi con le quali essi leggiermente le nostre spezzano. E che noi
di questi oltraggi ci andiamo a vendicare sopra di lui, il salire in su c'è
vietato, e Egli è più possente di noi: però ci conviene pur con ingegno il
nostro regno aumentare, e fare di ria vere ciò che per adietro abbiamo perduto.
Tra l'altre cose che il Figliuolo di Giove lasciò in terra al suo popolo, a noi
più contraria, fu continuo essercizio, al quale del tutto si vuole intendere da
noi, acciò che si spenga con volonteroso ozio delle loro menti, e li romani
massimamente, i quali, quasi agli altri principali, hanno questo essercizio
molto impreso, e quasi ogni gente da loro lo 'mprende. Ond'io ho proposto di
volerli almeno ritrarre dall'andare li strani templi visitando, con paura; e
questo sanza fallo mi verrà fatto troppo bene sopra gran quantità d'essi, che
ora al tempio che sopra l'ultime piagge di Speria dimora, vanno, sopra i quali
io vendicherò la mia ira, e voi siate intenti di fare il simigliante ovunque
voi ne sentite alcuno».
[10]
Dette
queste parole a' suoi, prese vana forma simigliante d'un nobilissimo cavaliere,
il quale sotto la potenza del gran re Felice, reggitore de' regni di Speria,
nipote di Atalante, sostenitore de' cieli, governava vicino a' colli
d'Appennino una città chiamata Marmorina. E salito sopra un cavallo, le cui
ossa per magrezza quasi quante fossero apertamente mostrava, e correndo sopra
esso, pervenne ne' lontani regni, e trovato il re, il quale le silvestre bestie
cacciando prendea diletto, fu davanti a lui. E come tal volta sogliono i corpi morti
gravosi cadere alla terra sanza essere urtati, cotale costui fittivamente
cadendo davanti gli si gittò, e con voce affannata, tanto che appena s'udiva,
piangendo cominciò a dire:
«O
signor mio, tu vai l'innocenti bestie davanti a te cacciando, e nelle loro
innocenti interiora metti aizzando gli aguti denti de' feroci cani, ma io
misero ho nella vostra città Marmorina lasciato il romano fuoco, il quale, sì
com'io vidi già per li più alti luoghi, tutta la città guasta va: e come ciò
avvenisse a me è occulto; se non che avendo noi il giorno davanti celebrati i
santi sacrificii di Bacco con grandissima festa, e la vegnente notte,
riposandosi, ciascuno avea già di sé la quarta parte passata, quando io, quasi
dormendo, cominciai a sentire grandissimo pianto d'uomini, di garzoni e di
femine, e impetuoso suono di non usate armi. Allora, abandonato del tutto il
quieto sonno, pauroso mi levai, e salii negli alti luoghi della nostra casa, e
vidi tutta la città piena di fuoco e di noiose ruine, e di maggior pianto furono
ripiene le mie orecchie. E già presso alla nostra casa udendo il terribile
suono delle sonanti trombe, disarmato corsi per le fidate armi, per risalire
armato nelle fortezze della nostra casa, scendendo contra i molti amici, i
quali contra i crudeli osti, per lo bene della città, s'apparecchiavano con le
taglienti spade d'aspramente combattere. Allora dissi, quasi avendo nella loro
vita compassione: "O giovani, or non vedete voi che fortuna sia nelle
presenti cose? Quelli iddii nei quali la forza in che la speranza della nostra
signoria dimorava, sono fuggiti e hanno abandonato i loro altari e però voi
soccorrete indarno alla città. Ma se voi avete certa fidanza nelle vostre armi,
andiamo, e in mezzo de' nemici combattiamo, essendo io duce: e quivi, o vinciamo,
o, sdebitandoci di tal vergogna, mandiamo le nostre anime alle infernali sedie:
"sola salute è a' vinti non isperar salute"". La città, da tutte
parti presa, era da' nemici con gli aguti spuntoni guardata; ma noi poi,
assicurati, ci movemmo ad andare alla non dubbiosa morte tutti per una via.
Oimè! chi potrebbe mai narrare la ruina e la tempesta di quella notte? Chi
potrebbe parlando dire la menoma parte della uccisione o con le lagrime
agguagliare la fatica? L'antica città, la quale molti anni vittoriosa sotto le
nostre braccia dimorò, fu da' miei occhi veduta quella notte cadere quasi tutta
in picciola ora; ma noi miseri, portati da' miserabili fati, ovunque andavamo,
per le larghe vie trovavamo cadere corpi gravati da mortale gelo: ad ogni passo
trovavamo nuovo pianto, e in ogni parte era romore e uccisione infinita. E
andando per diverse parti della città, dandone l'accese case aperti passaggi,
più volte scontrandoci in picciole schiere di nemici combattemmo. Ma già quasi
propinqui all'ultima ora della notte, vaghi del nuovo giorno, fummo da
innumerabile moltitudine di nemici aspramente assaliti, e quivi difendendoci
virilmente, vidi io gran parte de' miei compagni bagnare la terra del loro
sangue, e sanza niuna misericordia essere dagli avversario uccisi. Onde non
potendo noi più sostenere il crudele assalto, con alquanti diedi le spalle,
fuggendo verso il nostro palagio; ma quivi trovata più aspra battaglia, quasi
furiosi, sanza alcuna speranza di salute, io e' miei compagni tra gli aguti
ferri de' nemici ci gittammo. Quivi io, ferito in molte parti, rientrai nelle
mie case, nelle quali alquanti de' miei compagni vinti vilmente si fuggirono; e
saliti nel superiore pavimento, vedemmo tutta la città essere d'ardenti fiamme
e di noiosi fummi ripiena, la quale piangendo riguardavamo. Allora fummo
assaliti di nuovo accidente, però che rotte le porti dell'antico palagio, salì
uno grandissimo uomo romano con molti seguaci, il quale, sì come il fiero lupo
le timide pecore sanza difesa strangola, così costui andava uccidendo qualunque
davanti gli si parava. A lui vidi io uccidere il vecchio padre e due miei
figliuoli, e altri molti. Sopra il quale volendo io prendere debita vendetta,
ricevetti infiniti colpi della sua spada; ma poi la vecchia madre e altre femine
con lei, mettendo le loro persone per la mia vita tra la sua spada e 'l mio
corpo, fortunosamente mi trassero delle sue mani. E uscito fuori della non già
città, veggendo che per me più niuno soccorso vi si potea porgere,
miserabilemente me verso queste parti mi dirizzai, e qui nel vostro conspetto
mi sono fuggito. E dicovi che il vostro regno è sanza dubbio assalito da gente
tanto acerba, che non che contro a voi, ma ancora contro i nostri iddii hanno
prese armi; e che ciò ch'io ho narrato sia vero, manifestevelo il sangue mio,
il quale per tante ferite potete vedere davanti da voi spandere. Io ho appena,
fuggendo, potuta la mia vita ricuperare, la quale omai credo sarà brieve; e le
mie ferite, le quali più tosto medico e riposo che affanno richiedevano,
marcite costringono l'anima d'abandonare il misero corpo. E però vi priego che
voi v'apparecchiate acciò che i vostri nemici, i quali credo che non sieno di
qui guari lontani, possiate con più forte fronte ricevere che io non potei, e
acciò che voi altressì vendichiate le mie ferite, acciò che io tosto tra gli
altri spiriti possa alzare la testa per la vendicata morte».
E
appena finì queste parole con intera voce, che davanti al re il corpo sanza
anima freddo lasciò.
[11]
Con
le mani prese, nell'aspetto stupefatto stava il re Felice ad ascoltare le fitte
parole; ma poi che vide lo spirito del parlante cavaliere avere abandonato il
corpo e più non dire, mutato il naturai colore, tornò palido, e, oppresso nel
segreto petto di varie cure, quasi per greve doglia appena ritenne le lagrime.
E non sappiendo che partito prendere del subito annunzio, mostrandosi vigoroso
per rincorare i suoi, comandò che al morto corpo fosse data sepoltura; e
abandonata la cominciata caccia, volse i passi co' suoi compagni verso le reali
case. Alle quali poi che fu giunto sospirando, a' suoi cavalieri comandò che
sanza niuno dimoro prendessero l'usate armi; e sollecitamente fatti convocare i
vicini popoli, i quali sotto la sua signoria si costringeano, adunò grandi
dissimo essercito in pochi giorni, intendendo di volere obviare gli assalitori
del suo regno.
[12]
Poi
che questo tutto fu fatto, e il giorno, il quale segretamente avea proposto di
movere col suo essercito, fu venuto, egli comandò che divoti sacrificii
s'apparecchiassero a Marte, acciò che la sua deità, la quale verso loro parea
indebitamente crucciata, sacrificando si mitigasse; e esso personalmente
volendo sacrificare acciò che il suo andare prosperamente si dirigesse verso i
suoi nemici, andò al sacrato tempio davanti agli altari di Marte, la cui
effigie riguardando per più effettuosamente porgere pietosi prieghi, vide
bagnata di novelle lagrime, le quali non poco dubbio gli porsero. Ma poi,
imaginando che Marte per compassione de' suoi danni avesse lagrimato, alquanto
riprese conforto, e fatto venire un giovane toro per volerlo sopra i detti
altari sacrificare, disse così:
«O
vera deità, la quale a' nostri danni hai mostrata lagrimando vera compassione,
ricevi i nostri volontarii sacrificii, i quali presenzialmente ti facciamo, e
con lieto viso ne porgi speranza di prosperevole andata».
E
dette queste parole, ferì lo 'ndomito toro, il quale, sì tosto come sentì la
puntura del freddo coltello, per duolo sì forte si scosse, che, uscito delle
mani di coloro che 'l teneano, furiosamente fuggì verso i marini liti
d'occidente, il suo sangue spandendo, allungandosi, e torcendo i passi da
quella parte onde i nimici, secondo il falso detto, doveano il reame avere
assalito.
[13]
Vedendo
questo, il re non poté dentro per fortezza d'animo ritenere le lagrime, ma
forte piangendo cominciò a dire:
«Ora
manifestamente possiamo noi ben vedere l'ira degl'iddii quanto ella verso noi
adopera, e quanto i fortunosi fati ci si sono incontro rivolti! Oimè, che
Marte, lagrimando, non de' preteriti danni ma de futuri mostra d'aver
compassione! Egli e gli altri iddii rifiutano i nostri sacrificii, sì come di
non degni sacrificatori: e ciò apertamente si vede, ché già il toro ferito per
mitigar la loro ira è fuggito dinanzi da' loro altari delle nostre mani, e va
dello innocente sangue bagnando il nostro terreno, mostrandone manifesti segni
della nostra fuga, la quale infino agli ultimi termini della nostra potenza
mostra che si debba con crudele uccisione distendere. Ma, o sommi iddii, se i
miseri meritano d'essere da voi in alcuno atto essauditi, non ischifate le mie
piangenti voci, però che, come voi sapete, io non sono quello Dionisio, il
quale più volte i vostri templi e le vostre imagini privò di corone e d'altri
ornamenti degni a' vostri altari. Io già mai, o Giove, non ti spogliai come
costui fece, dicendo che la risplendente roba fosse di state grave e di verno
fredda, rivestendoti di comuni drappi, utili all'uno tempo e all'altro. Né a
te, o figliuolo d'Apolio, feci mai con tagliente ferro levare la cara barba; né
a te, o santa Giunone, scopersi il santo tempio, come Quinto Fulvio fece, per
ricoprirne alcuno altro: per le quali cose, sì come sacrilego, io e 'l mio
popolo meritiamo giusta distruzione, ma sempre voi e' vostri templi furono da
noi onorati. Dunque non consentite che la nostra potenza, da voi a' nostri
antecessori benignamente conceduta, crudelmente sanza cagione si distrugga, e
almeno da quel popolo, il quale con nuove armi alla vostra forza s'ingegna di
contrastare. E se pure ci è alcuna cagione per la quale la vostra ira
giustamente contro a noi si muova, la quale o io o 'l mio popolo abbia commessa
contro la vostra deità, venga di grazia sopra me tutto il pondo. Deh! non mi
fate men degno di questo dono che voi faceste Camillo, il quale i romani per
lui molto essaltati, per la sua orazione la quale essaudiste, mandarono ivi a
poco tempo in essilio: avvegna che l'arsa Marmorina, e lo sparto sangue, e'
partiti spiri ti de' nostri uomini vi dovrebbono essere stati sofficiente
sacrificio a mitigarvi. Sia da voi conce, conceduto che io prima, percosso da
Antropos, renda lo spirito agl'iddii infernali co' precedenti morti insieme;
che io sotto le mie braccia vegga il mio regno annullare».
[14]
Mentre
che il re con lagrime e con sospiri faceva la detta orazione, volgendo alquanto
i lagrimosi occhi verso quella parte dalla quale il furioso toro era fuggito,
vide il toro in uno vicino bosco per difetto di sangue caduto, e sopr'esso
essere, come folgore volando, disceso da cielo il divino uccello, e sopr'esso
toro per grande spazio essersi pasciuto, e appresso quindi levarsi e volare
verso quelle parti onde doveano quello giorno prendere il loro cammino i suoi
popoli. La qual cosa veduta, in se medesimo preso il volo di quello uccello per
buono agurio, assai più d'allegrezza e di speranza si riempié, che non fece
Paulo alla voce di Tarsia, quando disse: " Persio è morto", o Lucio
Silla quando vide dallato del suo altare cadere il morto serpente ne' campi di
Nola. E mutato il lagrimoso aspetto in lieto, con alta voce cominciò a dire al
suo popolo:
«Rallegratevi
e prendete debito conforto, signori, però che Giove pietosamente ha mutato
consiglio e, fatto verso noi pietoso, gli è de' nostri danni incresciuto, però
ch'io ho veduto che il sacrificio da noi rifiutato e che delle nostre mani
fuggì, egli l'ha benignamente accettato: e ciò ci manifesta il suo santo
uccello, al quale io vidi il toro, già con poca forza rimaso, abbattere nel
vicino bosco, e sopr'esso per lungo spazio si pascé, levandosi poi, ha il suo
volo ripreso, verso i nostri avversarii, quasi mostrandoci che via noi dobbiamo
fare. Onde pare che Giove benignamente ricevuto l'abbia, poi che alle nostre
schiere ha mandato sì fatto duca. Or dunque cacciate da voi ogni dolore, e
pieni d'allegrezza accendete i fuochi sopra i santi altari, e date agl'iddii
divoti prieghi per la nostra vittoria, e poi sanza niuno indugio i nostri passi
verso quella parte, onde volò il santo uccello, dirizziamo, però che già si
manifesta agli occhi la disiderata vendetta dovere pervenire fatta a
prosperevole fine».
[15]
Arsi
i fatti fuochi e dissoluti i nebulosi fummi avvolti ne' sacri templi, le trombe
sonarono e i cavalli presti alle fiere battaglie, udito il suono, cominciarono
a fremire; e allora il re, acceso di focoso disio per la speranza presa del
detto agurio, comandò che le reali bandiere fossero spiegate a' venti e che
tutti i suoi, abandonandosi a' fortunosi fati, verso Marmorina drizzassero il
loro cammino: al quale comandamento le bandiere spiegate e la via presa fu
sanza niuna dimoranza. Ma il misero Lelio, il quale dell'ultimo giorno, a lui
ruinosamente apparecchiato dalla fortuna, e a' suoi compagni simigliantemente,
non s'accorgeva, anzi con solleciti passi si studiava di pervenire a' dolenti
fati; e già quattro volte cornuta e altretante tonda s'era mostrata la
figliuola di Latona dopo la sua partita da Roma, la quale egli mai non dovea
rivedere, e camminando s'avea lasciate dietro le bianche spalle d'Appennino,
affrettandosi di pervenire al santo tempio, il quale da' suoi occhi non dovea
essere veduto, né da alcuno altro de' suoi compagni.
[16]
Entrava
il sole nella rosata aurora con lento passo, e' torbidi nuvoli occupavano il
suo viso, per la qual cosa la sua luce, come usato era, non porgea chiara;
forse a lui, che tutto vede, era già manifesta la fierità del crudel giorno, al
quale egli s'apparecchiava di dar lume: quando Lelio e la sua compagnia lieti
a' loro danni cavalcavano per una profonda valle, la quale piena di nebbia
molto impediva le loro viste, tanto che appena l'uno vicino all'altro si
poteano vedere. Era sopra la profonda valle una altissima montagna, tanto che
parea che trapassando i nuvoli con le stelle si congiugnesse, la quale dovendo
passare, già per la sua ertezza cominciava ad allentare i loro passi. Sopra la
detta montagna l'avversario re, da loro non conosciuto, già era pervenuto con
la sua gente, e quella notte sopr'essa per più sicurtà del suo essercito, sanza
scendere al piano, s'era attendato. Ma già avendo il sole co' suoi aguti raggi
cominciato a dissolvere l'oscure nebbie, il re, che sopra l'alta sommità
dimorava, nella sua mente imaginando i cammini che col suo popolo far dovea,
ficcando gli occhi fra la folta nebbia nel fondo della oscura valle, vide la
divota gente cavalcare verso di lui; la quale veduta, incontanente dubitando,
non altramenti essarse che fa la piombosa pietra, la quale uscendo della
risonante rombola vola, e volando imbianca per l'impeti che davanti truova alla
sua foga; e con alta voce voltato a' suoi cavalieri gridò:
«Venite,
franchi campioni e cari amici e fratelli, però che già credo che i nostri
nemici ci si manifestano».
E
poi alquanto racchetato in se medesimo, parlò loro così:
«Signori,
se gli occhi non mi mentono, a me par vedere, sì come mostrato v'ho, parte de'
nostri avversarii già essere nella profonda valle appiè del monte e venire
verso di noi, e essi, sì com'io credo, ancora di nostro movimento, né delle
nostre armi prese niente sanno, né noi ancora qui non hanno potuto vedere per
la folta nebbia, la quale ancora non è dissoluta. Però a me parrebbe che essi
fossero da essere obviati con aspro scontro sanza più dimorare, acciò che essi,
avedendosi prima di noi che noi gli assalissimo, non potesseno prendere rimedio
a noi nocevole, né al loro scampo utile. Io son certo che essi sono infino a
questo luogo venuti sanza trovare alcuna resistenza, per la qual cosa io avviso
che essi cavalchino sanza alcuna paura dissolutamente; per che, assalendoli
subito, li troverebbe l'uomo sanza alcuno argomento e di loro avrebbe o la
morte o la vita, qual più gli piacesse: ond'io vi priego che sanza alcuno
dimoro vigorosamente sieno da voi assaliti, cacciando da voi ogni tema. E già
vedeste voi, anzi che noi le nostre case abandonassimo, che gi'iddii ne
mostrarono segni di riconciliazione, e per più certezza di questo ci dierono il
santo uccello per vero duca, il quale voi vedete che ha i nostri passi
dirizzati in quella parte, che noi per lo preterito tanto abbiamo disiato.
Appresso, voi sapete che questi vengono assetati del nostro sangue, e per voler
nelle nostre interiora bagnare le loro spade, sanza ragionevole cagione; e
vengono per occupare le nostre case, e per mandar noi nelle estravaganti parti del
mondo in doloroso essilio. Adunque, sì per lo laudevole agurio, il quale
prospera fine ne dimostrò, sì per la ragione la quale è nostra perfettamente,
sì per difendere noi medesimi e le nostre case assalite da nuovi popoli,
ciascuno, sì come vigoroso cavaliere, debba le sue armi adoperare. Pensate che
voi non siete cavalieri usati di perdere le cominciate battaglie, ma
continuamente per la vostra maravigliosa fortezza acquistando molte vittorie,
v'avete per adietro fatto temere. Simigliantemente ancora vi dee porgere molto
più ardire veggendo me armato disiderare la vostra salute con la mia insieme,
essendo oramai quasi negli anni della mia ultima età, alla quale più tosto
riposo che affanno si converrebbe. Or poi che tante ragioni vi deono muovere ad
esser disiderosi della vittoria, movetevi in quello agurio che voi
l'acquistiate».
E
dette queste parole, comandò che le sue insegne scendessero il monte contro a
coloro che ancora nella valle dimoravano. Allora i cavalieri gridando dierono
segno di gran volontà di combattere, e le trombe sonarono, e corni e altri
strumenti molti; e cavalieri sanza niuno ordine si mossero così furiosi, come
talvolta il fiero cane, tratto della catena, sentendo sonare le frondi
dell'antico bosco, seguendo la preda corre sanza niuno ritegno, discendendo
l'alpestro monte.
[17]
Sì
come gli impetuosi fiumi, i quali dell'alte montagne, turbati per la piovuta
acqua, ruinosi impetuosamente caggiono sanza ritegno, menando seco alcuna volta
grandissime pietre, le quali fanno insieme non minore fracasso che l'acque;
così giù per la straripevole montagna, sanza tener via o sentiero diritto, si
dirupava lo iniquo essercito, goloso dello innocente sangue, con un romore e
con una tempesta sì di suoni di corni e di trombe e d'altri crudeli strumenti,
come del forte strepito dell'armi medesime e de' cavalli, che tutta la valle
faceano risonare. Giulia, meno piena di varie sollecitudini, sentendo il romore
prima s'avvide della iniqua gente; la quale, vedendoli sì tempestosamente
ventre, temendo come la timida cerva davanti al leone divenne, e tornata fredda
come i bianchi marmi, a Lelio temorosamente s'accostò, e con rotta voce
cominciò a dire:
«O
Lelio, ove è fuggito il tuo lungo provedimento? Or non vedi tu quella gente
armata che sì furiosamente verso noi discende dell'alto monte? Che gente può
ella essere? Come non provedi tu al necessario rimedio ora, se elli vengono per
offenderci?».
A
queste voci alzò Lelio gli occhi e guardossi davanti, e vide il maladetto
popolo ancora assai lontano, ma non tanto che fuga avesse potuto sé e' suoi
compagni trarre delle mani degli avversario; ond'egli alquanto pavido nella
mente, rivolto alla sua compagna disse:
«Non
dubitare, fatti sicura che questi non cercano noi» tenendo con forte viso
nascosa la creata paura; e poi fra sé cominciò a pensare, dicendo: "Certo
costoro scendono sì furiosi per prenderci al varco della montagna, e vogliono
di noi l'una delle due cose: o essi vogliono farsi del nostro avere posseditori
privandone noi, o elli vengono, sì come ribelli della nostra legge, per
privarci di vita, essendosi già loro in alcuno atto manifestata la nostra
condizione. E a dire che di qui noi fuggendo volessimo scampare, questo è
impossibile, però che i loro cavalli, freschi e possenti, assai tosto
sopragiugnerebbono i nostri, affannati; e il volere loro con l'arme resistere,
noi siamo picciola quantità a sì gran moltitudine. Dunque solamente aspettare
la lor pietà, misericordia chiamando, è il migliore, acciò che fuggendo noi non
incrudeliamo più gli animi; la quale s'elli la concedono, avanzeremo con Dio il
nostro cammino, e se no, nelle nostre braccia, sperando in Dio, rimanga
l'ultima parte della nostra salute».
[18]
Già
tutti i compagni di Lelio e altri giovani molti, giunti per loro scampo in loro
compagnia, disiderosi di pervenire a quel medesimo tempio ove costoro andavano,
cominciavano fra loro a mormorare per la veduta gente; e quasi ciascuno
dubitava di muoverne verso Lelio alcuna parola, vedendolo forse nel sopradetto
pensiero occupato, quando Lelio, sentito il loro mormorio e veduta la loro dubitanza,
si voltò verso essi con pietoso aspetto, così parlando:
[19]
«O
nobilissimi giovani e cari amici e compagni, i quali avete infino a questo
luogo seguiti i miei passi, faccendo di me duca e principale capo di tutti voi,
non per dovere, ma essendone perfetto amore mediante cagione, a' miei orecchi
sono pervenute le tacite parole, le quali tra voi della non conosciuta gente,
che a' nostri occhi giù per lo monte discendere si manifesta, avete dette. Onde
io, essendo stato ne' prosperevoli passi lieto conducitore, ne' dubbiosi non
sosterrò, in quanto piacere vi sia, d'essere per alcun altro condotto; ma,
prendendo in questo caso luogo di franco e vero duca, prima il mio avviso vi
narrerò, poi i miei passi secondo il vostro consiglio perseguirò. Quando prima
agli occhi miei, per le parole di Giulia, questa gente che noi veggiamo corse,
incontanente, pensando il luogo ove noi siamo, due pensieri nella mente mi
vennero: l'uno de' quali fu che costoro, forse indigenti delle mondane
ricchezze, veggendo il nostro arnese molto, o forse avendone manifesta indetta,
si mossero e vengono per volercene del tutto privare. La qual cosa se così
avviene che sia, niuna resistenza se ne faccia loro a lasciarlo prendere, ma
liberamente di piano patto sia tutto loro donato, però che, lodato sia Colui
che di questo e degli altri beni è donatore, le nostre case sono a Roma copiose
di molto oro, e però questo forse a loro fia molto e a noi poco sarebbe.
L'altro pensiero fu questo, il quale molto più che 'l primo mi spaventa, che io
dubito molto che costoro non rechino nelle loro mani la nostra morte, però che
noi dimoriamo in quelle parti nelle quali ha più persecutori della nostra
novella e santa legge, che quasi in niuna altra del mondo; e ancora me ne
accerta più il vedere il modo per lo quale elli discendono a noi, ché voi
vedete che essi vengono con grandissime bandiere spiegate, e con terribile
romore, il quale andare non suole esser de' predoni. E però a questo ultimo,
più che al primo pensando, nella mia mente ogni via essaminata, e niuna utile
per noi ci trovo, però che, come voi vedete, il voler fuggire niuna cosa
sarebbe, se non accendere gli animi loro in maggio re ira, e forse dare loro
materia d'offenderci, dove essi non l'avessero; e poi che noi volessimo pur fuggire,
manifesta cosa è che non ci è il dove, se non nelle loro braccia, però che
d'alte montagne d'ogni parte in questa valle ci veggiamo racchiusi. E il volere
con le nostre armi resistere alla loro potenza, noi siamo picciolo popolo a
rispetto di loro; e però a me pare che qui sieno da aspettare. E convocata la
loro misericordia, se essi si muovono a pietà di noi, ringraziando Iddio, il
nostro cammino meneremo a perfezione, e se non, con le nostre braccia
vigorosamente aiutandoci difenderemo, e vendicheremo le nostre morti, le quali
Giove per lungo tempo cessi da noi».
[20]
Mentre
Lelio le sue pietose parole porgeva a' cari compagni, ciascuno, portando a se
medesimo e a lui compassione, amaramente piangea. Alcuni piangeano dicendo:
«Oimè,
vecchio padre, che vita sarà la tua dopo la mia morte, s'egli avviene ch'io
muoia, il quale ora cresciuto dovea essere bastone che la tua vecchiezza
sostenesse?».
Altri
piangeano i piccioli figliuoli rimasi a Roma con la giovane donna,
ramaricandosi del loro infortunio; e altri i cari fratelli, e l'abandonate
ricchezze per seguire Lelio. E tutti generalmente piangeano la cara compagnia e
amistà tra loro e Lelio sì dolcemente congiunta, che in così brieve tempo
mostrava di doversi sì amaramente partire. Ma non dopo molto spazio per li
conforti di Lelio, il quale diceva loro:
«O
vigorosi giovani, ove sono fuggiti i vostri animi virili? Voi spandete per
picciola paura amare lagrime, come se voi foste femine. Evvi sì tosto partita
della memoria l'aspra morte che Catone sostenne in Utica con forte animo,
volendo più tosto morir libero che vivere servo de' suoi nemici, dando
insiememente essemplo a' suoi di sostenere ogni gravoso affanno per la cara
libertà? Or che fareste voi se io facessi il simigliante? Credo che vie più
lagrimereste. Cacciate queste lagrime da voi, e non dubitate de' vecchi padri,
né delle giovani donne, né de' piccioli figliuoli, né ancora dell'abondanti
ricchezze, le quali voi avete abandonate in servigio di Colui che ve le donò,
però che essi tutti nacquero alla sua speranza e non alla vostra, e Egli tutti
a buon fine gli recherà. E non è gran fatto se in servigio di così largo
donatore di grazie si pone alcuna volta il mortal corpo»; abandonate le
lagrime, si deliberarono al consiglio di Lelio, rispondendogli che lui per duca
e per signore continuamente aveano tenuto e teneano, e piacea loro per inanzi
di tenerlo, e che in questo accidente e in ogni altro essi ad ogni suo piacere
erano disposti di metterlo con lui insieme in essecuzione, offerendosi di
seguirlo infino alla morte. Allora Lelio di tanto onore reverentemente gli
ringraziò e comandò che ciascuno prendesse le sue armi e apprestassesi di
resistere a' nemici, faccendo di loro tre schiere. E la prima, nella quale egli
mise quelli giovani nelle cui forze più si confidava, fece guidare ad un
giovane romano, il quale si chiamava Sesto Fulvio, nobilissimo e ardito. La
seconda, nella quale erano quasi tutti quelli che a loro per lo cammino s'erano
accostati per compagnia, fece menare ad un giovane della sua terra, Ostazio,
sommo poeta, nominato Artifilo, valoroso e possente molto. La terza, nella
quale la maggior parte della sua poca gente riservò, diede a conducere a
Sculpizio Gaio, suo caro compagno e parente, sé di tutte faccendo capitano e
correggitore; e poi che così gli ebbe ordinati, parlò così verso loro:
[21]
«Cari
signori e compagni, com'io davanti vi ragionai, questi che noi veggiamo verso
di noi venire con tanta fu ria, a noi è di lor venuta la cagione occulta. Ma
tanto mi par bene che essi sono iniqua gente e ribelli alla nostra legge,
presumendo il luogo ove trovati gli abbiamo. E essendo tal gente, per niuna
altra cagione si dee credere che elli s'affrettino tanto di venire a noi, se
non per privarci di vita avanti che per noi niuno scampo si possa prendere.
Onde se questo avviene, se essi in noi le lor mani voglion crudelmente
distendere, voi non siete uomini i quali siate usi di contaminare la vostra
fama etterna per viltà, ma continuamente nel preterito tempo voi e' vostri
predecessori avete poste l'anime e' corpi per etternale onore. E che questo sia
vero, la inestinguibile memoria de' nostri antichi cel manifesta. Ahi, quanto
dovrebbe crescere il vostro vigore ogni ora che la gran fortezza d'Orazio
Codico vi torna a mente! Il quale, come voi sapete, al tempo che' trusciani
entrati in Roma con grandissime forze, già essendo per prendere il ponte
Sublicio e per passare nell'altra parte della città, andato sopr'esso, ritenne
la loro potenza con aspri combattimenti infino che 'l forte ponte gli fu dietro
tagliato, e la città per lo tagliamento liberata. E similemente Marco Marcello,
il quale assalì i Galli con minor popolo che voi non siete, e tanto con la sua
forza operò, che avuta di loro vittoria e morto il loro re, sacrificò le sue
armi a Giove Feretrio. E simigliantemente quello che fece Publio Crasso per non
essere suggetto ad Aristonico. Oh quanti e quali essempli de' nostri antichi si
potrebbono porre! E tutti non tanto per sé quanto per la republica sostennero
gravosi affanni e pericoli. Or adunque noi, che qui per la salute di noi
medesimi e per l'onore di tutti siamo a sì stretto partito, che dobbiamo fare?
Certo più vigorosamente combattere, anzi che noi, che già molti servi
francammo, divegnamo servi degli iniqui barbari o siamo da loro vilmente
uccisi. Ma però che io vi conosco tutti vigorosi giovani e forti combattenti,
porto nelle vostre destre mani grandissima speranza di vittoria, aiutandoci la
fortuna, e in me molto me ne conforto. Ma se pure avvenisse che gli avversarii
fati portassero invidia alle nostre forze, non vi lasciate almeno uccidere sì
come fanno le timide pecore a' fieri lupi, sanza alcuna difesa, ma fate che
essi abbiano la vittoria piangendo. E nondimeno vi torni alla memoria che voi
in questo luogo contro a costoro siete in luogo di campioni e forti difenditori
della legge del figliuolo di Giove, il quale per trarre noi dell'impie mani di
Pluto, nelle quali il primo nostro padre disubidendo miseramente ci mise,
sapete quanto fosse obbrobriosa e crudele la morte che egli sostenne! Dunque
non pare ingiusta cosa se noi pogniamo in essaltamento della sua legge e per la
salute di noi medesimi i nostri corpi, i quali s'avviene che muoiano, per la
presente morte meriteranno perdono e etterna fama; e rimesseci le preterite
offese, con ciò sia cosa che niuno viva sanza peccare, le nostre anime
viveranno in etterno, e ancora le nostre ceneri saranno con divozione visitate,
come visitavamo il santo tempio: al quale ancora spero che lietamente e tosto
perverremo. E però ciascuno si porti vigorosamente».
[22]
Giulia,
la quale dolente ascoltava le parole del suo compagno, incominciò sì forte a
dolersi e a fare sì grande il pianto, che niuno, per durezza di cuore, vedendola,
s'avrebbe potuto tenere di non fare il simigliante; e parlava così a Lelio:
«Oimè,
dolce signor mio, questo non è lo 'ntendimento per lo quale noi abandonammo le
nostre case. Noi ci partimmo divotamente per pervenire a' santi templi del
benedetto Iddio, posti in su li estremi liti d'occidente: e tu ora pare che
voglia con arme commuovere nuove battaglie. Deh! or pensa se a' pellegrini sta
bene così fatto mestiero! Certo no. Deh! almeno per ché t'affretti tu così di
combattere? Che sai tu chi costoro si sieno? Non credi tu che le diverse
nazioni del mondo abbiano fra sé altre nimistà che quelle dei romani? Io dubito
forte, e è da dubitare, che essi veggendo armati te e' tuoi compagni, forse
credano che voi siate quelli nimici che essi vanno cercando, e per questo
avranno cagione di cominciare la forse non pensata battaglia, e avranno
ragione. Lascia adunque questa volontà per mio consiglio, e pon giù le prese
armi, tu e' tuoi compagni! E se tu disarmato temi le loro lance, chi credi tu
che sia tanto crudele e sì vile, che andasse armato a ferire i disarmati? Certo
non alcuno. E tu simigliantemente per adietro co' tuoi prieghi solevi atutare
l'acerbe volontà della romana giovanaglia, superba per troppo bene non
conquistato da loro, e non ti fidi con le tue parole amollare l'ira di costoro
se sopra te adirati venissero! Forse tu imagini di non essere ascoltato da
loro: or credi tu che questi sieno nati delle dure querce o delle alpestre
rocce, che essi non abbiano pietà, né che essi non ascoltino le tue parole, le
quali sì tosto come l'udiranno piene di soavità, così daranno incontanente
luogo alla nostra via? Deh! non ti recare a volere la forza del tuo piccolo
popolo sperimentare con così grande essercito, ch'egli è fortuna e non ragione,
quando di così fatte imprese si riesce a prosperevole fine. Non vedi tu che i
tuoi compagni volentieri sanza prendere armi si sarebbono stati, perché
conoscono il pericolo, se a te non l'avessero vedute pigliare? Ma tu,
prendendole, ne se' loro stata cagione. E se tu pur dubiti della crudeltà di
coloro, molto meglio è a fuggirci mentre che noi possiamo, che voler combattere
con loro. Vedi che le vicine montagne sono piene di folti boschi e di nascosi
valloni, ne' quali noi ci potremo assai bene nascondere, chi in una parte e chi
in un'altra. Deh! non aspettiamo più le punte di quelli ferri, i quali,
veggendoli, già mi porgono mortal paura. Andiamo, incominciamo la salutevole
fuga, alla quale non nocerà la non dissoluta nebbia che fa questa valle oscura.
Niuno nimico dee più volere del suo avversario che vederlosi fuggire davanti,
mostrando di temere la sua potenza. Però s'elli vengono per offenderci, essi
saranno contenti di vederci fuggire, e, ridendo fra loro, riterranno i correnti
cavalli, faccendosi beffe di noi: le cui beffe noi non curiamo, solamente che
noi scampiamo delle loro mani. Poi, se licito non c'è d'andar più avanti,
tornianci inanzi a Roma che noi vogliamo morire e non sapere come, però che
ciascuno è per divino comandamento tenuto di servare la sua vita il più che
puote. E siati ancora manifesto che ogni cavaliere non è della volontà del
signore, né così fiero. Questi, quando alquanto ci avranno cacciati,
lasciandoci andare, volontieri si riposeranno, e trovando le nostre ricchezze,
le quali sono assai, intenderanno a prenderle: e in quello spazio, concedendolo
Iddio, in alcuna parte ci potremo salvare. Deh! fa, Lelio, che in questa parte
sia il mio consiglio udito e servato da voi, e non guardare per che feminile
sia, che tal volta le femine li porgono migliori che quelli che subitamente
sono presi dall'uomo. Sia questa la prima e ultima grazia a me in questo
viaggio, nel quale alcun'altra domandata non te n'ho».
Queste
parole e molte altre piangendo Giulia fortemente diceva, abbracciando sovente
Lelio e rompendogli le parole in bocca; alla quale Lelio, ascoltato un pezzo,
rispose così:
[23]
«Giulia,
queste non sono le parole le quali a Roma nella nostra casa mi dicevi, quando
di grazia mi chiedesti di volere venire meco nel presente viaggio. Ov'è il tuo
virile ardire così tosto fuggito? Tu dicevi che più vigorosamente sosterresti
ne' bisogni l'armi e gli affanni che la vigorosa moglie di Mitridate, e io avea
intendi mento d'aggiugnerti al numero de' miei cavalieri con l'armi indosso, se
non fosse il creato frutto che tu nascondi in te. E tu ora solamente nella
veduta d'uomini de' quali noi dubitiamo, e ancora di loro condizione non siamo
certi, né sappiamo se sono amici o nimici, vuogli, non sappiendo per che,
pigliare la fuga? In questo atto non risomigli tu Cesare, il tuo antico avolo,
il quale ardire e prodezza ebbe più che alcun altro romano avesse mai. Ora,
cara compagna, non dubitare, e renditi sicura che niuno utile consiglio per noi
è che nelle nostre menti non sia molte volte stato ricercato e essaminato, e
niuno più utile che quello ch'è preso ne troviamo per la nostra salute. E credi
che Iddio non vuole che i suoi regni vilmente operando s'acquistino, ma
virtuosamente affannando: e però taciti, e nelle nostre virtù come noi medesimi
ti confida».
[24]
Udendo
Giulia Lelio esser pur fermo nel suo proposito, più amaramente piangendo gli si
gittò al collo, dicendo:
«Poi
che al mio consiglio non ti vuoi attenere, né mi vuoi far lieta della dimandata
grazia, fammene un'altra, la quale sia ultima a me di tutte quelle che fatte
m'hai. Fa almeno che quando le tue schiere affrontate co' non conosciuti nimici
saranno, che quando tu vedrai quel crudele cavaliere, qual che egli si sia, che
verso te dirizzerà l'aguta lancia, io misera, sì come tuo scudo, riceva il
primo colpo, acciò che agli occhi miei non si manifesti poi alcuno che disideri
d'offenderti. Questa mi fia grandissima grazia, però che un colpo terminerà
infiniti dolori. Oimè sconsolata! Or s'egli avvenisse che io sanza te mi
trovassi viva, qual dolore, quale angoscia fu mai per alcuna misera sentita sì
noiosa, che alla mia si potesse assimigliare? E quello che più mi recherebbe
pena sarebbe il voler morire e non potere. Ma certo io pur potrei, però che se
questo avvenisse, io sanza alcuno indugio, in quella maniera che Tisbe seguì il
suo misero Piramo, così la mia anima, cacciata del misero corpo con aguto
coltello, seguirebbe la tua ovunque ella andasse. Ma concedimi questa ultima
grazia, acciò che tu privi di molta tristizia la poca vita corporale che m'è
serbata: e io, la quale spero d'andare ne' santi regni di Giove, ti farò fare
presto degno luogo alla tua virtù».
Mentre
costei così pietosamente piangendo parlava, avendo a Lelio quasi tutto bagnato
il viso delle sue lagrime, il suo cuore per greve dolore temendo di morire,
chiamate a sé tutte l'esteriori forze, lasciò costei in braccio a Lelio
semiviva, quasi tutta fredda. E Lelio che lagrimando la volea confortare,
vedendo questo, sceso del suo cavallo, e presala nelle sue braccia, la ne portò
in un campo quivi vicino, nel quale fatto distendere alcun tappeto, lei a
giacere vi pose suso, e raccomandatala ad alquante damigelle di lei,
prestamente risalito a cavallo, tornò a' suoi compagni. Oimè, Lelio, or dove
lasci tu la tua cara Giulia, la quale tu mai non dei rivedere? Deh! quanto
Amore si portò tra voi villanamente, avendovi tenuti insieme con la sua virtù
tanto tempo caramente congiunti! e ora nell'ultimo partimento non consentire
che voi v'aveste insieme baciati, o almeno salutati! Tu vai, Lelio, al tuo
pericolo correndo, e lei semiviva abandoni ne' suoi danni. Oh! quanto le fia
gravoso il ritornare in sé gli spiriti, i quali vagabundi pare che vadano per
lo vicino aere, più che se mai non ritornassero, però che con minor doglia le
parrebbe essere passata.
[25]
A'
quali compagni ritornato, Lelio li trovò per le predette parole sì animosi
della battaglia che, poco più che fosse dimorato, gli avrebbe trovati mossi per
andare verso i loro nimici. Ma poi che egli con alcuna dolce paroletta gli ebbe
alquanto raffrenati, comandò a un santo uomo, il quale menato aveano con seco
per tal volta sacrificare a Giove, che egli prestamente gli rendesse degni
sacrificii; e questo fatto, davanti alle sue schiere, sì alto che tutti
potevano vedere, voltato a' suoi compagni, gli pregò che divotamente pregassero
Giove per la loro salute. E così, sanza discendere de' loro cavalli, in atto
reverente tutti divotamente cominciarono a pregare; e Lelio, davanti a tutti,
dicea così:
«O
sommo Giove, grazioso Signore, per la cui virtù con perpetua ragione si governa
l'universo, se tu per alcuni prieghi ti pieghi, riguarda a noi, e nel presente
bisogno ne porgi il tuo aiuto. Noi solamente in te speriamo, i quali disiderosi
dimoriamo nel santo viaggio del tuo caro fratello. E come tu, a cui niuna cosa
si nasconde, vedi, noi ci apparecchiamo di muovere nuove battaglie a strani
popoli, e non per ampliare le nostre ricchezze o il mondano onore, ma solamente
perché la tua santa legge per negligenza di noi non si occulti sotto la falsa
volontà di questa gente, la quale veramente credo che del tutto le siano
ribelli. Adunque prima il tuo aiuto ci porgi, sanza il quale indarno s'affatica
ciascuno operante, e appresso alcun manifesto segno dalla tua somma sedia ne
dimostra, il quale le nostre speranze conforti e i nostri cuori sempre ne' tuoi
servigi. E in questo ne dimostra il tuo piacere, acciò che noi, credendoci bene
adoperare, non bagnassimo le nostre mani in innocente sangue, o, sanza dovere,
nel nocente».
Appena
ebbe finita Lelio la sua orazione, che sopra lui e i suoi cavalieri apparve una
nuvoletta tanto lucente che appena poteano con li loro occhi sostenere tanta
luce; della quale una voce uscì, e disse:
«Sicuramente
e sanza dubbio combattete, che io sarò sempre appresso di voi aiutandovi
vendicare le vostre morti; e sanza alcuna ammirazione le presenti parole
ascoltate, che tal volta conviene che 'l sangue d'uno uomo giusto per
salvamento di tutto un popolo si spanda. Voi sarete oggi tutti meco nel vero
tempio di Colui il cui voi andate a vedere, e quivi le corone apparecchiate
alla vostra vittoria vi donerò».
E
questo detto, come subita venne, così subitamente sparve. Allora Lelio co'
suoi, lieti, si dirizzarono, ringraziando la divina potenza, e, riprese le loro
armi, s'apparecchiarono di resistere a' loro nimici, i quali con grandissimo
romore già s'appressavano a loro.
[26]
Non
credo che ancora i giovani compagni di Lelio avesseno riprese nelle destre mani
le loro lance, ripieni per le parole di Lelio di vigoroso ardire, disideranti
di combattere con la non conosciuta gente, quando a loro si scontrò molto
vicino, tanto che i dardi di ciascuna parte poterono, essendo gittati, ferire i
suoi avversarii, il nimico essercito. Gli aguti raggi del sole, il quale avea
già dissolute le noiose nebbie, gli lasciava insieme apertamente vedere, e
quelli che fidandosi della loro moltitudine erano discesi del monte sanza
alcuno ordine, credendo i loro avversarii trovare improvvisi, vedendogli armati
e con aguzzata schiera, superbi nell'aspetto, aspettarli fermati, dubitarono di
correre alla mortale battaglia così subiti.
I
divoti giovani stavano feroci avendo già dannata la loro vita, sicuri della
battaglia, e impalmatasi la morte anzi che cominciare vilissima fuga; e niuno
romore avverso rimosse le menti apparecchiate a grandi cose. Lelio allora
davanti a tutti i suoi, con dovuto ordine, a piccolo passo mosse la prima
schiera, la quale Sesto Fulvio guidava, e con aperto segno manifestò all'altre
che sanza bisogno non li seguissero. E già innumerabile quantità di saette e di
tremanti dardi erano sopra i romani giovani discese, gittate dagli archi di
Partia dalle arabe braccia, quando Lelio, nell'animo acceso di maravigliosa
virtù, mosso il potente cavallo, dirizzò il chiaro ferro della sua lancia verso
un grandissimo cavaliere, il quale per aspetto parea guidatore e maestro di
tutti gli altri, al quale niuna arme fu difesa, ma morto cadde del gran
destriere. Questi portò prima novelle della iniqua operazione commessa da Pluto
a' fiumi di Stige; questi prima bagnò del suo sangue il mal cercato piano e li
romani ferri.
Sesto,
che appresso Lelio correndo cavalcava, ferendone un altro, diede compagnia alla
misera anima. E i valorosi giovani seguendo i loro capitani, niuno ve n'ebbe
che peggiore principio facesse di Lelio, ma tutti valorosamente combattendo,
abbattuti i loro scontri, cavalcarono avanti. E già aveano la maggior parte di
loro, tutti per difetto delle rotte lance, tratte fuori le forbite spade, le
quali percosse, da' chiari raggi del sole, riflettendo minacciavano i
sopravegnenti nimici. Niuno risparmiava la volonterosa forza, ma tutti sanza
alcuna paura combatteano con la vile moltitudine. Lelio e Sesto, i quali avanti
procedeano, combatteano virilmente con due grandissimi barbari, i quali forti e
resistenti trovarono. E mentre l'aspra pugna durava, la moltitudine della
iniqua gente abondante premeva tanto i romani, che quasi costretti da vera
forza oltre al loro volere rinculavano. Lelio, il quale avea già abbattuto il
suo avversario, rivolto verso i suoi, li vide alquanto tirarsi indietro: allora
volto la testa del suo cavallo, con ritondo corso gli circuì, dicendo loro:
«L'ora
della vostra virtù disiderata è presente: spandete le vostre forze. Alla vostra
salute non manca altro che l'opera de' ferri aiutata dalle vostre braccia:
qualunque disidera di rivedere l'abandonata patria, e' cari padri, e' figliuoli,
e la moglie, e i lasciati amici, con la spada gli domandi. Iddio ha poste tutte
queste cose nel mezzo della battaglia. La migliore cagione ci dee porgere
speranza di vittoria, e la nostra vittoria ha bisogno di pochi combattitori,
però che la gran quantità de' nemici impediranno se medesimi ristretti nel
picciolo campo. Imaginate che qui davanti a voi dimorino li vostri padri, e le
vostre madri, e' vostri figliuoli piccolini, e ginocchioni lagrimando vi
prieghino che voi adoperiate sì l'arme, che voi vi rendiate a loro medesimi
vincitori; sì che voi poi narrando loro i corsi pericoli, paurosi e lieti gli
facciate in una medesima ora».
Le
parole di Lelio, parlante cose pietose, infiammarono i non freddi petti de'
romani giovani: essi sospinsero avanti la sostenuta battaglia, uccidendo non
picciola quantità della canina gente. Scurmenide, potentissimo barbaro, gia
riguardando la gente del suo signore per picciola quantità di combattenti
invilita voltarsi verso le sue insegne; come stimolo de' suoi e rabbia
dell'empio popolo, per tema che 'l cominciato male non perisca, da alcuna parte
si parò davanti a' paurosi cavalieri, e mirando verso loro conobbe quali
coltelli erano stati poco adoperati, e quali mani tremavano premendo la spada,
e chi avea le lance lente e chi le dispiegava, e chi combatte bene e chi no; e
questo veduto, parlò così:
«Ahi!
vilissimo popolazzo, ove torni tu? Con quale merito di guiderdone rivolgi tu i
tuoi passi verso le guardate bandiere? Certo la mia spada taglierà qualunque
arditamente non combatterà co' nimici».
Le
spente fiamme de' barbari cuori alquanto per le parole di costui si
ravvivarono; e voltarono i visi. Scurmenide accende i furori con le sue voci:
elli dava i ferri alle mani di coloro che gli aveano perduti, e gridava che i
contrarii volti sanza alcuna pietà sieno uccisi. Egli promuove e fa andare
inanzi i suoi, e coloro che si cessano sollicita con la battitura della rivolta
asta, e si diletta di veder bagnare i freddi ferri nell'innocente sangue.
Grandissima oscurità di mali vi nasce, e tagliamenti e pianti, a similitudine
di squarciata nube quando Giove gitta le sue folgori: l'armi sonano per lo peso
de' cadenti colpi, le spade sono rotte dalle spade. Sesto co' suoi non possono
più sostenere, però che la piccola quantità era tornata a minor numero
d'uomini.
Lelio,
che i casi della battaglia tutti provede con sollicita cura, con altissima voce
e con manifesti atti provoca la seconda schiera alla battaglia. Artifilo, che
lungo spazio avea sostenuto il disio della battaglia, muove sé e' suoi con
dovuto ordine; e volonterosi sottentrano a' gravi pesi della battaglia. E nel
primo scontro si dirizzò Artifilo verso il crudele Scurmenide, e mettendo
l'aguta lancia nelle sue interiora, sopra il polveroso campo l'abbatté morto.
Molti
n'uccisero nella loro venuta i nuovi schierati condotti da Artifilo, ma di loro
furono simigliantemente molti morti. Artifilo, perduta la lancia, portava nelle
sue mani una tagliente accetta, e sostenendo il sinistro corno della battaglia
andava uccidendo tutti coloro che davanti gli si paravano; e Lelio e Sesto nel
destro corno della battaglia combattevano. Uno ardito arabo, il quale Menaab si
chiamava, veduto il crudo scempio che Artifilo del barbarico popolo faceva con
la nuova arme, temendo i colpi suoi, prese un arco, e di lontano l'avvisò sotto
il braccio nell'alzare ch'egli facea dell'accetta, e quivi feritolo con una
velenosa saetta il credette aver morto. Ma Artifilo, sentito il colpo, quasi
come se niuna doglia sentisse, con la propia mano trasse la saetta delle sue
carni. E ripresa l'accetta, dirizzata la testa del suo cavallo verso colui che
già s'era apparecchiato di gittar l'altra, sopragiuntolo, gli diede sì gran
colpo sopra la testa che in due parti gliele divise. Quivi fu egli da molti de'
nemici intorniato, e il possente cavallo gli fu morto sotto: sopra 'l quale,
poi che morto cadde, dritto si levò difendendosi vigorosamente.
La
furiosa gente premeva tutta adosso a lui: egli uccideva qualunque nimico gli
s'appressava. E già n'avea tanti uccisi dintorno a sé, che, quanto la sua
accetta era lunga, per tanto spazio dintorno a sé avea di corpi morti
ragguagliata l'altezza del suo cavallo; e il taglio della sua arme era perduto,
ma in luogo di tagliare, rompeva e ammaccava le dure ossa degli aspri
combattitori. Infinite saette e lance sanza numero ferivano sopra Artifilo: il
suo forte elmo era in molti pezzi diviso; e già era più carico di saette, fitte
per lo forte dosso, che delle sue armi. Niuno era che a lui s'ardisse ad
appressare; ma egli, sopra i corpi morti andando, s'appressava a' suoi nimici
uccidendoli, e difendendo sé e chiamando i cari compagni che 'l soccorressero.
Veggendo
questo, Tarpelio, nipote del crudele re, trattosi avanti tra' suoi cavalieri,
lui ferì con una grossa lancia nel petto, e egli, già debole per lo mancato
sangue, cadde in terra, dove da' compagni di Tarpelio fu morto sanza niuno
dimoro. Lelio, che avea gli occhi volti in quella parte e molto si maravigliava
della grande virtù di Artifilo, quando vide questo non poté ritenere le
lagrime, ma sotto l'elmo chetamente bagnò per pietà il suo viso; e abandonato
Sesto, corse in quella parte ove ancora alquanti de' compagni d'Artifilo rimasi
vivi combattevano vigorosamente, ingegnandosi di vendicare la morte del loro
capitano. E quivi con la sua forza lungamente sostenne i pochi compagni. Ma poi
ch'egli vide Sesto, rimaso quasi solo, in molte parti del corpo ferito,
combattere, e sé male accompagnato, tirato indietro per convenevole modo, mosse
la terza schiera di Sculpizio Gaio, loro ultimo soccorso; alla quale Sesto e
quelli che erano per la battaglia pochi rimasi delle due schiere prime, tutti
s'accostarono, e rincominciarono sì forte la sventurata battaglia, che alcuna
volta prima non v'era stata tale. E ben che i resistenti fossero molti, la loro
moltitudine nel piccolo luogo nocea, però che l'uno impediva la spada
dell'altro per istrettezza: onde Sesto e Sculpizio, i quali avanti agli altri
vigorosamente combattevano con li loro pochi cavalieri, per forza,
uccidendogli, gli fecero rinculare e fuggire in campi ancora non bagnati
d'alcun sangue.
Il
re, che della montagna era disceso con fresca schiera, vedendo questo, alquanto
raffreddò l'ardente disio, e dubitando mosse i suoi cavalieri, e li terribili
suoni de' battagliereschi strumenti fecero di nuovo tremare i secchi campi. E
tanta polvere coperse l'aria con la sua nebbia per la furia de' correnti
cavalli, quanta ne manda il vento di Trazia nella soluta terra. E poi che la
superba e nuova compagnia de' cavalieri sopravenne adosso agli stanchi
combattitori, la dubbiosa vittoria manifestò il suo posseditore, però che non
fu licito a' cavalieri di Lelio d'andare adosso a' nimici, sì furono
subitamente intorniati da lungi e da presso con le piegate e con le diritte
lance.
La
piova delle saette mandate dagli africani bracci, e le gittate lance aveano
coperta la luce alla picciola schiera de' romani; ella si raccolse in piccola
ritondità, tanto che quelli i quali per le sopravegnenti saette, sanza potere
fare alcuna difesa, morivano, rimaneano ritti, i loro corpi sostenuti dagli
stretti compagni. Sculpizio, il quale non avea ancora le sue forze provate, fu
il primo che partito dalla ritonda schiera uscì correndo verso il re, il quale
s'apparecchiava d'affrettare la loro morte, e ferillo sì vigorosamente sopra
l'elmo che il re cadde a terra del gran cavallo quasi stordito, ma per lo buon
soccorso de' suoi tosto fu rilevato. Lelio e Sesto rincominciarono la
battaglia, faccendosi con le loro spade fare amplissimo luogo. Ma Sesto
fortunosamente correndo tra' nimici fu intorniato da loro, e mortogli il suo
cavallo sotto, e caduto in mezzo il campo, anzi che egli, debile, si potesse
rilevare, fu miserabilmente ucciso. Lelio, il quale la sua morte vide, pieno di
grave dolore conobbe bene il piacer di Dio; e ricordandosi dello annunzio fatto
loro, che tal volta conveniva che uno morisse per salvamento di tutto il
popolo, disse così:
«O
sommo Giove, e tu beato Iddio, i cui templi io visitare credea, poi che a voi è
piaciuto che i nostri passi più avanti che questo luogo non si distendano, io
non intendo di volere, co' pochi compagni i quali rimasi mi sono, per fuga
abandonare l'anime di quelli che davanti agli occhi miei giacciono morti. Io vi
priego che le loro anime riceviate e la mia, in luogo di degno sacrificio, se
vostro piacere è».
E
dette queste parole, corse sopra un cavaliere, il quale volea spogliare le
pertugiate armadure a Sesto, e lui ferì sì forte sopra il sinistro omero con la
sua spada, che gli mandò il sinistro braccio con tutto lo scudo in terra, e
quelli cadde morto sopra Sesto. Egli incominciò a fare sì maravigliose cose,
che nullo ve n'avea che non se ne maravigliasse; e Sculpizio non si portava
male. E' pochi compagni ricominciarono più aspramente a mostrare le loro forze
che non aveano fatto davanti, ma poco poterono durare. Il re, che d'ira ardeva
tutto dentro, vedendo Lelio sì maravigliosamente combattere e aver già perdute
per li molti colpi la maggior parte delle sue armi, quanto poté gli si fece
vicino, e gittatagli una lancia il ferì nella gola, e lui cacciò morto in terra
del debole cavallo. Sculpizio, vedendo questo, corse con la sua spada in mano
per ferire il re e per vendicare la crudele morte del suo amico, ma un
cavaliere, il quale si chiamava Favenzio, si parò davanti al colpo, al quale la
spada scesa sopra il chiaro cappello d'acciaio, tagliandolo, lui fendé quasi
infino a' denti; ma volendo ritrarre a sé la spada per ricoverare il secondo
colpo, non la poté riavere. Ond'egli, assalito di dietro, fu da' nimici
crudelmente ucciso. Nel campo non era più alcuno rimaso de' miseri compagni,
anzi sanza niuno combattimento più rimase il re Felice vittorioso nel misero
campo, faccendo cercare se la misera fortuna n'avesse alcuno riposto con cheto
nascondimento tra' suoi medesimi. Ma poi che alcuno non ve ne fu vivo trovato,
egli comandò che il suo campo fosse quivi fermato quella notte; poi, al nuovo
giorno, procederebbero.
[27]
Vedendo
il re che i fortunosi casi aveano conceduta la vittoria alle sue armi, in se
medesimo molto si rallegrò. Poi andando verso le tese trabacche guardando con
torto occhio i sanguinosi campi, vide grandissima quantità de' suoi cavalieri
giacer morti dintorno a pochi romani. E ben che l'allegrezza della dolente
vittoria gli fosse al principio molta, certo, vedendo questo, ella si cambiò in
amare lagrime, imaginando l'aspetto de' suoi cavalieri, i quali tutti
sanguinosi giaceano morti al campo, e udendo le dolenti voci e 'l triste pianto
che i suoi medesimi feriti faceano per lo campo. Egli diede a' suoi cavalieri
libero albitrio che le ricchezze rimase nel misero campo fossero da loro
rubate, e che ciò che ciascun si desse fosse suo; la qual cosa in brieve spazio
fu fatta. Elli disarmarono tutti i romani con presta mano, e non ne trovarono
alcuno che intorno a sé non avesse grandissima quantità di nimici morti né che
non fosse passato di cento punte. E i miseri cavalieri, i quali questo andavano
faccendo, aveano perduta la conoscenza de' loro padri e fratelli e compagni che
morti giacevano, per la polvere mescolata col sangue sopra i loro visi; ma poi
che essi, nettandoli co' propii panni per riconoscerli, ve n'ebbero ritrovati
molti, e tutti i più valorosi, il pianto e 'l romore cominciò sì grande, che il
re si credette da capo essere assalito, e con fatica racchetò i loro pianti,
ricogliendoli dentro ne' chiusi campi.
[28]
O
misera fortuna, quanto sono i tuoi movimenti varii e fallaci nelle mondane
cose! Ove è ora il grande onore che tu concedesti a Lelio quando prescritto fu
all'ordine militare? Ove sono i molti tesori che tu con ampia mano gli avevi
dati? Ove la gran famiglia? Ove i molti amici? Tu gli hai con subito giramento
tolte tutte queste cose, e il suo corpo sanza sepoltura giace morto negli
strani campi. Almeno gli avessi tu concedute le romane lagrime, e le tremanti
dita del vecchio padre gli avessero chiusi i morienti occhi, e l'ultimo onore
della sepoltura gli avesse potuto fare!
[29]
Avea
già, nel brieve giorno, Pean, che nell'ultima parte della guizzante coda
d'Almatea, nutrice dell'alto Giove, dimorava, trapassato il meridiano cerchio,
e con più studioso passo cercava l'onde di Speria, quando Giulia misera
dintorno a sé, ritornate le forze nel palido corpo, sentì piangere le dolenti
compagne, che già i loro danni aveano veduti; alle cui voci subitamente
levatasi, disse:
«Oimè
misera, qual è la cagione del vostro pianto?».
E
riguardandosi dintorno non vide il caro marito, nelle cui braccia avea perdute
le forze degli esteriori spiriti. Allora, non potendo tenere le triste lagrime,
disse:
«Oimè!
or dov'è fuggito, il mio Lelio? Ecco se la fortuna ha ancora concedute le
'nsegne al mio marito contra i non conosciuti nimici!».
E
dicendo queste parole, quasi uscita di sé si drizzò, e i miseri fati le volsero
gli occhi verso quella parte, la quale le dovea mostrare il suo dolore
manifestamente; e verso quella mirando, sentì lo spiacevole romore degli
spogliatori e vide il secco campo essere di caldo sangue tutto bagnato, e pieno
della nimica gente. Allora il dubitante cuore di quello che avvenuto era,
manifestamente conobbe i suoi gran danni. Ella non fu dalla feminile forza
delle sue compagne potuta ritenere, che ella non andasse tra' morti corpi sanza
alcuna paura; ma come persona uscita del natural sentimento, messesi le mani
ne' biondi capelli, gli cominciò con isconcio tirare a trarre dell'usato
ordine. E i vestimenti squarciati mostravano le colorite membra, che in prima
soleano nascondere. E bagnando le sue lagrime il bianco petto, sfrenatamente
sicura contra' nemici ferri, incominciò a cercare tra' morti corpi del suo caro
marito, dicendo alle sue compagne:
«Lasciatemi
andare: e' non è convenevole che così valoroso uomo rimanga ne' lontani campi
dalla sua città, sanza essere lagrimato e pianto. Poi che la fortuna gli ha
negate le lagrime del suo padre e de' suoi parenti e del romano popolo, non gli
vogliate anche torre quelle della misera moglie».
E
andando ella per lo campo piangendo e sprezzando le sue bellezze, molti corpi
morti con le propie mani rivolgea per ritrovare il suo misero marito, ma i
sanguinosi visi nascondeano la manifesta sembianza allo 'ntelletto. E poi che
ella molti n'ebbe rivolti, riconosciuto alle chiare armadure il suo Lelio, il
quale di molti morti nimici morto attorniato giacea, quivi sopr'esso semiviva
piangendo cadde; e dopo picciolo spazio drizzatasi, piangendo amaramente
s'incominciò a battere il chiaro viso con le sanguinose mani e a graffiarsi le
tenere gote. E aveasi già sì concia, che tra 'l vivo e 'l morto sangue che
sopra il viso le stava, non Giulia, ma più tosto uno de' brutti corpi morti nel
campo parea. Ella non si curava di bagnare il suo viso nell'ampie piaghe di
Lelio, anzi l'avea già quasi tutte piene d'amare lagrime. Ella spesse volte il
baciava e abbracciava strettamente, e nell'amaro pianto, riguardandolo, diceva
così:
«Oimè,
Lelio, ove m'hai tu abandonata? ove m'hai tu lasciata? Tra gente araba diversa
da' nostri costumi, de' quali niuno io non conosco! Almeno mi facesse Giove
tanta di grazia, che la loro crudeltà fosse con le loro mani operata in me,
come elli l'operarono in te; ma il feminile aspetto porta pietà in quelli petti
ov'ella non fu mai. Almeno sarei io più contenta che la mia anima seguisse la
tua ovunque ella fosse, che rimaner viva nella mortale vita dopo la tua morte.
Deh! per ché non fu licito al tuo virile animo di credere al feminile
consiglio? Certo tu saresti ancora in vita, e forse per lungo spazio saremmo
lieti insieme vivuti. Deh! ove fuggì la tua pietà, quando tu in dubbio di morte
nelle feminili braccia mi lasciasti di lungi alle tue schiere? Come non
aspettasti tu che io almeno t'avessi veduto inanzi che tu fossi entrato
nell'amara battaglia, e che io con le propie mani t'avessi allacciato l'elmo,
il quale mai per mia voglia non sarebbe stato legato, perché io conoscea sola
la fuga essere rimedio alla nostra salute? Oimè dolente, quanto è sconvenevole
cosa di volere adempiere l'uomo i suoi disideri contra 'l piacer di Giove! Noi
desiderammo miseramente i nostri danni quell'ora che noi domandammo d'aver
figliuoli, i quali se convenevole fosse suto che noi dovessimo avere, quella
allegrezza Giove sanza alcun boto ce l'avrebbe conceduto. O iniquo pensiero e
sconvenevole volontà, recate la morte in me, che non l'ho meno meritata che
costui; o almeno, o dolorosa fortuna, mi fosse stato licito di pararmi dinanzi
a' crudeli colpi, i quali costui innocente sostenne, sì com'io avea di grazia
adimandato! Omai non è al mio dolore niuno rimedio se non tu, morte! La quale
io sì come misera priego che tu non mi risparmi, ma vieni a me sanza niuno
indugio. Tu non dei omai potere più esser crudele, e massimamente a' prieghi
delle giovani donne, in tal luogo se' stata! Deh! piacciati inanzi di farmi
fare compagnia ne' miseri campi al mio marito, che lasciarmi nel mondo essemplo
di dolore a quelli che vivono. Uccidimi, non indugiar più! Oimè dolente! come
i' ho malamente seguito con effetto il perfetto amore della mia antica avola
Giulia, la quale, poi che vide i drappi del suo Pompeo tinti di bestial sangue,
temendo non fosse stato offeso, costrinse l'anima di partirsi dal misero corpo,
subitamente rendendola a' suoi iddii. Oh quanto le fu prosperevole il morire,
però che morendo poté dire: "Io non vedrò quella cosa la quale per dolore
mi conducerebbe a maggior pena, e poi a morte, ma morendo vincerò il
dolore". E io, misera!, davanti agli occhi miei veggio il mio dolore, e
non m'è licito di morire, né posso cacciar da me la misera anima, la quale per
paura sento che cerca l'ultime parti del cuore, fuggendosi dalla mia crudeltà.
Oimè, morte, io ti domando con graziosa voce, e non ti posso avere! Certo la
tua signoria è contraria del tutto agli atti umani, i quali i disprezzatori
delle loro potenze s'ingegnano di sottomettersi, risparmiando i fideli: e tu
coloro che più ti temono crudelmente assalisci, dispregiando gli schernitori
della tua potenza lungamente, e di questi sempre più tardi che degli altri ti
vendichi. Oh, quanto è misero colui che così comunal cosa, come tu se', gli
manca ad uno bisogno!».
Ella,
piangendo, più volte con aguti ferri caduti per lo campo si volle ferire il
tenero petto, ma, impedita dalle compagne, non potea. Poi si voltava agli aspri
rubatori e dicea:
«Deh!
crudeli cavalieri, i quali sanza alcuna pietà metteste l'agute lance per
l'innocente corpo, deh!, ammendate il vostro fallo tornando pietosi: uccidete
me, poi che voi avete morto colui che la maggior parte di me in sé portava!
Fate che io sia del numero degli uccisi! Questa pietà sola usando vi farà
meritar perdono di ciò che voi avete oggi non giustamente adoperato».
E
dette queste parole, ritornava a baciare il sanguinoso viso; e di questo non si
potea veder sazia, anzi l'avea già quasi tutto con le amare lagrime lavato, e
piangendo forte sopr'esso si dimorava dolente.
[30]
Ma
poi che il sole nascose i suoi raggi nelle oscure tenebre e le stelle
cominciarono a mostrare la loro luce, il campo si cominciò con taciturnità a
riposare, sì per l'affanno ricevuto il preterito giorno che richiedeva agli
affannati membri riposo, sì per l'allegrezza della vittoria che molte menti
avea nel vino sepellite. Solo l'angoscioso pianto di Giulia e delle sue
compagne facea risonare la trista valle, e questo risonava nelle orecchie al
vittorioso re. E egli, che ne' tesi padiglioni si riposava, udendo queste voci,
chiamò un nobile cavaliere, il quale s'appellava Ascalion, e disseli:
«Deh,
or di cui sono le misere voci che io odo, che non lasciano partire della nostra
mente in alcuno modo la crudele uccisione fatta nel passato giorno?».
«Sire
- disse Ascalion, - io imagino che sia alcuna donna, la quale forse era moglie
d'alcuno del morto popolo, e così mi pare avere inteso da' compagni, e
similmente la sua favella, la quale io intendo bene, il manifesta».***
Allora
gli comandò il re che elli andasse ad essa, e comandassele ch'ella tacesse,
acciò che 'l suo pianto non gli accrescesse più dolore che il preterito danno.
Mossesi Ascalion con alquanti compagni, e per l'oscura notte con picciol lume,
per lo sanguinoso campo scalpitando i morti visi, andarono in quella parte ove
essi sentirono le dolenti voci, e pervennero a Giulia; la quale, come Ascalion
la vide, imaginando le nascose bellezze sotto il morto sangue del suo viso,
mosso dentro a pietà, quasi lagrimando disse:
«O
giovane donna, il cui dolore invita gli occhi miei, veggendoti, a lagrimare, io
ti priego, per quella nobiltà che il tuo aspetto ne rapresenta, che tu ti
conforti e ponghi fine alle tue lagrime. Certo io non so qual sia la cagione
della tua doglia, ma credo che sia grande; e chente ch'ella sia, io non credo
che per lo tuo pianto si possa emendare, ma più tosto piangendo aumentare la
potresti. E noi medesimi, i quali, se al ricevuto danno volessimo ben pensare,
certo noi non faremmo mai altro che piagnere; e considerando quello che è
detto, ci ingegnamo di dimenticare quello che ancora non vuole fuggire delle
nostre memorie. E simigliantemente il re nostro signore te ne manda pregando; e
credo che molto gli sarebbe caro, secondo il suo parlare, che tu venissi
dinanzi al suo cospetto».
Giulia,
udendo la romana loquela, la quale Ascalion, lungamente dimorato a Roma, impresa
avea, alzò il viso verso lui, forse credendo che fosse alcun de' miseri
compagni di Lelio, e con torti occhi riguardando il cavaliere e vedendo ch'egli
era della iniqua gente, piangendo il richinò, e gittando un gran sospiro,
disse:
«Niun
conforto sentirà l'anima mia, se voi nol mi porgete. Voi m'avete con le vostre
spietate braccia ucciso colui il quale era mio conforto e mia ultima speranza.
Acciò che l'anima mia possa seguire per le dilettevoli ombre quella del mio
Lelio, questo graziosamente vi domando, questo fia l'ultimo bene che io spero,
e a voi non fia niente. Voi avete oggi bagnate le vostre mani in tanti sangui,
che io non accrescerò la somma del vostro peccato per la mia morte, ma la farò
più lieve per la pietà che voi userete uccidendomi. Deh! aggiungetemi al triste
numero, acciò che si possa dire: "Giulia amò tanto il suo Lelio, che ella
fu del numero de' corpi morti con lui insieme ne' sanguinosi campi". E se
voi non volete usar questa pietà, almeno prestate alle mie mani la tagliente
spada, e consentite che sanza briga di queste mie compagne io possa morire,
essendone le mie mani cagione».
Ascalion
e' suoi compagni, che vedeano il chiaro viso tutto rigare di vermiglio sangue,
lagrimavano tutti per pietà di costei; e piangendo le rispose e disse:
«Giovane,
gl'iddii facciano le mie mani di lungi da sì fatto peccato. Certo io fuggii
oggi per non bagnarmi nella dolente occisione: ma tu, perché piangendo e
sconfortandoti guasti il tuo bel viso? Perché desideri d'incrudelire contra te
medesima? Credi tu con la tua morte render vita al morto marito? Questo sarebbe
impossibile. Ma levati su, e non volere qui però nelle sopravegnenti tenebre
apparecchiare la tua bella persona alle selvatiche bestie, le quali alla tua
salute potrebbono essere contrarie, però che vivendo ancora potrai forse
riavere il perduto conforto. Levati su, e segui i nostri passi, e non dubitar
di venire a' reali padiglioni con le tue compagne, ch'io ti giuro, per quelli
iddii ch'ìo adoro, che, mentre che essi mi concederanno vita, il tuo onore e
delle tue compagne sarà sempre salvo a mio potere, solo che vostro piacer sia.
Ora ti leva, non dimorare più qui, vieni nella presenza del nostro signore, il
quale, ancora che dolente sia, veggendo il tuo grazioso aspetto, ti onorerà sì come
degna donna. Or se noi ti volessimo qui lasciare, non ti spaventano gl'infiniti
spiriti de' morti corpi, sparti per lo piagnevole aere? Non dubiti tu degli
scelerati uomini che sogliono essere ne' tumultuosi esserciti, i quali,
trovandoti qui, non si curerebbono di contaminare il tuo onore e delle tue
compagne? Deh! vieni adunque, ché vedi che io e' miei compagni per compassione
di te righiamo i nostri visi d'amare lagrime».
Giulia
non facea altro che piagnere; e ben ch'ella fosse molto dolorosa, non per tanto
dimenticò la sua anima i cari ammaestramenti della gentilezza, e non volle
nelle avversità parere villana a' divoti prieghi del nobile cavaliere; ma preso
con le sue mani un bianco velo, coperse il palido viso di Lelio e con un suo
mantello tutto il corpo, e poi si voltò ad Ascalion e disse:
«I
vostri prieghi hanno sì presa la mia dolorosa anima, che io non mi so mettere
al niego di quello che dimandato m'avete. E poi che Iddio e voi mi negate la
morte, quella cosa che io più disidero, io m'apparecchio di venire in quelle
parti ove piacer vi fia; ma caramente raccomando in prima me e le mie compagne
e 'l nostro onore nelle vostre braccia, pregandovi, per la gentile anima che
guida i vostri membri, che come di care sorelle il serviate e non consentiate
che di quello che le misere anime de' nostri mariti, rinchiuse ne' mortali
corpi, si contentarono, sciolte da essi si possano ramaricare».
E
volendosi levare, per debolezza fra le sue compagne supina ricadde. Allora
Ascalion teneramente per lo destro braccio la prese; e dall'altra parte un suo
compagno sostenendola e con dolci parole confortandola, e con lento passo
andando, pervennero alle reali tende, nelle quali entrati, il re vedendo
costei, vinto per lo pietoso aspetto, umilmente la riguardò; e avendo già udito
da Ascalion gran parte della condizione di lei, comandò ch'ella fosse onorata.
Giulia, veduto il re, ancor che per debolezza le fosse grave, pur gli
s'inginocchiò davanti e lagrimando disse:
«Alto
signore, a questi nobili cavalieri è piaciuto di menarmi nel vostro cospetto,
nel quale piacciavi che io trovi quella grazia che da loro non ho potuta avere.
Io non credo che la misera Ecuba né la dolente Cornelia ne' loro danni
sentissero maggiore doglia che io fo in quello che da voi ho ricevuto, né credo
che effettuosamente alcuna di loro disiderasse de' suoi nimici vendetta, com'io
disidero di voi, solo che prendere ne la potessi. Ma poi che la fortuna m'ha il
potere levato, e fattami vostra prigione, datemi, per guiderdone della fiera
volontà ch'io ho verso di voi, la morte».
Non
sofferse il re che Giulia stesse in terra davanti a lui, ma con la propia mano
levatala in piè, la fece sedere davanti a sé, e risposele così:
«Giovane
donna, il vostro lagrimoso aspetto m'ha fatto divenire pietoso e quasi m'invita
con voi insieme a lagrimare. E certo io non mi maraviglio del vostro parlare,
il quale dimostra bene il vostro gran dolore, ché usanza suole essere de'
miseri di volere quello che maggior miseria loro arrechi, infino a quell'ora
che la tristizia pena a dar luogo al natural senno. E però che io conosco che
voi ora più adirata che consigliata domandate la morte, e mostrate ver me
crudel volontà, né la morte vi fia per me conceduta, né ancora le adirate
parole credute. Ma quando voi avrete alquanto mitigate le giuste lagrime che
voi spandete, io vi farò conoscere come la fortuna non sia contro di voi del
tutto adirata, né ch'ella v'abbia fatta mia prigione; e ancora conoscerete che
sia suto il migliore rimanere in vita, sì per voi e sì per l'anima del vostro
marito. Ma ditemi, se vi piace, qual sia la cagione del vostro pianto, e chi
voi siete, e onde e ove voi andavate».
Giulia,
piangendo, con pietosa voce gli rispose:
«lo
sono romana, e fui misera sposa del morto Lelio, il quale voi oggi con le
propie mani uccideste, e quinci muove il mio tristo lagrimare; e andavamo al
santo Iddio, posto nell'ultime fini de' vostri regni, per lo ricevuto dono
della mia pregnezza».
Udendo
questo, il re, quasi stupefatto, tutto si cambiò, e disse:
«Oimè!
or dunque non foste voi con gli assalitori del mio regno, i quali all'entrare
in esso arsero la ricca Marmorina?».
«Signore
no - rispose Giulia, - ma passando per essa, la vedemmo bella e ornata di
nobile popolo».
Allora
dolfe al re molto di quello che era fatto; e sospirando le disse:
«Giovane
donna, i fortunosi casi sono quasi impossibili a fuggire; a noi fu porto tutto
il contrario di quello che voi ne porgete, e questo ne mosse a fare quello che
omai non può tornare adietro, e che ci duole. E non è dubbio che voi avete nel
preterito giorno gran danno ricevuto, e io non piccolo; ma però che il nostro
lagrimare niente il menomerebbe, convienci prender conforto. E a cui che il
lagrimare stia bene, a noi e' si disdice, i quali co' propii visi abbiamo a
confortare i nostri sudditi. Adunque confortatevi, e qui meco rimanete; e dopo
il preso conforto, se a voi piacerà altro marito, io ho nella mia corte assai
nobili cavalieri, de' quali quello che più vi piacerà, in guiderdone
dell'offesa che fatta v'ho, vi donerò volontieri; e se voi alle ceneri del
morto marito vorrete pure servar castità, continuamente in compagnia della mia
sposa come cara parente vi farò onorare. E se l'esser meco non vi piacerà, io
vi giuro per l'anima del mio padre che, dopo l'alleviamento del vostro peso,
infino in quella parte ove più vi piacerà d'andare, onorevolemente vi farò
accompagnare. A dire quanto mi dolga di quello ch'è fatto per lo mio subito
furore, sarebbe troppo lungo a narrare, però ch'io ci ho perduto un caro nipote
e molti buoni cavalieri, e voi ho sanza vostra colpa offesi».
Giulia
non rattemperava per tutte queste parole il dolente pianto, anzi, piangendo,
nel savio animo diliberò che molto valea meglio di rimanere al proferto onore,
fingendo il suo mal talento, infino che la fortuna la recasse nel pristino
stato, che miseramente cercare gli strani paesi; e con sospirevole voce, rotta
da dolenti singhiozzi, rispose:
«Signor
mio, nelle vostre mani è la mia vita e la mia morte: io non mi partirò mai dal
vostro piacere».
Comandò
allora il re che ella in alcuno padiglione, sotto la fidata guardia di
Ascalion, ella e le sue compagne fossero onorate.
[31]
Come
il nuovo sole uscì nel mondo, il re con la sua compagnia, insieme con Giulia,
verso Sibilia, antica città negli esperii regni, presero il cammino; ma avanti
che i loro passi si mutassero, Giulia di grazia domandò che 'l corpo del suo
Lelio non rimanesse esca de' volanti uccelli. Al quale il re comandò che
onorevole sepoltura fosse data, ad esso e a tutti gli altri che piacesse a lei,
e agli altri del campo. Fu allora Lelio, e molti altri, con molte lagrime
sepellito dopo i fatti fuochi, ben che molti ne rimanessero sopra la vermiglia
arena, che di varii ruscelletti di sangue era solcata.
[32]
Rimaso
solo di vivi il tristo campo, in pochi giorni col corrotto fiato convocò in sé
infinite fiere, delle quali tutto si riempié. E non solamente i lupi di Spagna
occuparono la sventurata valle, ma ancora quelli delle strane contrade vennero
a pascersi sopra' mortali pasti. E i leoni affricani corsero al tristo fiato,
tignendo gli aguti denti negli insensibili corpi. E gli orsi, che sentirono il
fiato della bruttura dello 'nsanguinato tagliamento, lasciarono l'antiche selve
e i segreti nascondimenti delle lor caverne. E i fedeli cani abandonaron le
case de' lor signori: e ciò che con sagace naso sente la non sana aria si mosse
a venir quivi. E gli uccelli, che per adietro avean seguitati i celestiali
pasti, si raunarono; e l'aria mai non si vestì di tanti avoltoi, e mai non
furono più uccelli veduti adunati insieme, se ciò non fosse stato nella misera
Farsaglia, quando i romani prencipi s'afrontarono.
Ogni
selva vi mandò uccelli: e i tristi corpi, a cui la fortuna non avea conceduto
né fuochi né sepoltura, erano miseramente dilacerati da loro, e le lor carni
pasceano gli affamati rostri. Ogni vicino albero parea che gocciolasse
sanguinose lagrime per li sanguinosi unghioni che premeano gli spogliati rami:
il passato autunno gli aveva spogliati di foglie, e' crudeli uccelli col morto
sangue premuto da' lor piedi gli aveano rivestiti di color rosso, e' membri
portati sopra essi ricadevano la seconda volta nel tristo campo, abandonati
dagli affaticati unghioni. Ma con tutto questo il gran numero de' morti non era
tutto mangiato infino all'ossa, ancor che squarciato tra le fiere si partisse;
gran parte ne giace rifiutato, ben che dilacerato sia tutto: il quale il sole e
la pioggia e 'l vento macera sopra la tinta terra, fastidiosamente mescolando
le romane ceneri con l'arabiche non conosciute.
[33]
Entrò
il re Felice vittorioso con gran festa in Sibilia; e poi che egli fu smontato
del possente cavallo e salito nel real palagio, e ricevuti i casti
abbracciamenti dell'aspettante sposa, egli prese l'onesta giovane Giulia per la
mano destra, e davanti alla reina sua sposa la menò dicendo:
«Donna,
te' questa giovane la quale è parte della nostra vittoria: io la ti raccomando,
e priegoti che ella ti sia come cara compagna e di stretta consanguinità
congiunta in ogni onore».
Teneramente
a' prieghi del re ricevette la reina Giulia e le sue compagne; ma non dopo
molti giorni, partendosi il re di Sibilia, con lui se n'andarono in Marmorina:
la quale quando il re vide non essere quello che falsamente Pluto in forma di
cavaliere gli aveva narrato, e trovò ancor vivo colui il quale morto credeva
aver lasciato ne' lontani boschi, forte in se medesimo si meravigliò, e dicea:
«O
gl'iddii hanno voluto tentare per adietro la mia costanza, o io sono ingannato.
A me pur con vera voce pervenne che la presente città era da romano fuoco arsa,
e ora con aperti occhi veggo il contrario. E il narratore di così fatte cose
pur morì nella mia presenza, e io gli feci dare sepoltura: e ora qui davanti
vivo mi si rapresenta».
In
questi pensieri lungamente stato, non potendo più la nuova ammirazione
sostenere, chiamò a sé quel cavaliere, il quale già credeva che nell'arene di
Spagna fosse dissoluto, e dissegli:
«Le
tue non vere parole t'hanno degna morte guadagnata, però che esse non è ancora
passato il secondo mese poi mossero il nostro costante animo a grandissima ira
e ad inique operazioni sanza ragione. Or non ci narrasti tu la distruzione
della presente città con piagnevole voce, la quale noi ora trovata abbiamo
sanza niuno difetto? Tu fosti cagione di farci commuovere tutto il ponente
contra la inestimabile potenza de' romani, del qual movimento ancora non
sappiamo che fine seguire ce ne debbia».
Maravigliossi
molto il cavaliere, udite le parole, dicendo umilemente:
«Signor
mio, in voi sta il farmi morire o il lasciarmi in vita, ma a me è nuovo ciò che
voi mi narrate; e poi che voi qui mi lasciaste, mai io non mi partii, e a ciò
chiamo testimonii gl'iddii e 'l vostro popolo della presente città, il quale
seco mi ha continuamente veduto; né mai dopo la vostra partita ci fu alcuna
novità».
Allora
si maravigliò il re molto più che mai, dicendo fra se medesimo: "Veramente
hanno gl'iddii voluto tentar le mie forze e aggiungere la presente vittoria
alle nostre magnificenzie". E allegro della salva città abandonò i
pensieri, contento di rimaner quivi per lungo spazio.
[34]
La
reina, gravida di prosperevole peso, affannata per lo lungo cammino, volontieri
si riposava, e con lei Giulia molto più affaticata, ma quasi continuamente o il
bel viso bagnato d'amare lagrime o la bocca piena di sospiri teneva; alla quale
un giorno la reina, vedendola dirottamente piangere, disse così:
«Giulia,
sanza dubbio io so che tu, sì come io, in te nascondi disiato frutto, e'
manifesti segnali mostrano te dovere essere vicina al partorire, onde col tuo
piangere gravemente te e lui offendi. Tu hai già quasi il bel viso tutto
consumato e guasto, e le tue lagrime l'hanno occupato d'oscura caligine e di
palidezza; onde io ti priego che tu non facci più questo: anzi ti conforta, e
spera che noi insieme avremo gioioso parto. Non sai tu che per lo tuo lagrimare
il ricevuto danno non menoma? Poi che i fati ti sono stati avversi, appara a sostenere
con forte animo le contrarie cose e' dolenti casi della fortuna. Deh! or tu
m'hai già detto, se io ho bene le tue parole a mente, che tu se' nata di
nobilissima prole romana; or se questo è il vero, come io credo, e' ti dovrebbe
tornare nella mente del forte animo che Orazio Pulvillo, appoggiato alla porta
del tempio di Giove Massimo, udendo la morte del figliuolo, ebbe; e come Quinto
Marzio, tornato da' fuochi dell'unico figliuolo, diede quel giorno sanza
lagrimare le leggi al popolo. Questi e molti altri vostri antichi avoli con
fermo animo nelle avversità mostrarono la loro virtù, per la quale il mondo
lungamente si contentò d'essere corretto da cotali reggitori. Adunque, poi che
di tal gente hai tratta origine, si disdicono a te, più che ad un'altra, le
lagrime. Non credi tu che essi nelle loro avversità sostenessero doglia, come
tu fai? Certo sì fecero; ma volsero anzi seguire la magnanimità de' loro nobili
animi, i quali conosceano la natura delle caduche e transitorie cose, che la
pusillanimità della misera carne, acciò che le loro operazioni fossero essemplo
a' loro successori in ciascuno atto».
Queste
e molte altre parole usava spesso la reina in conforto di Giulia.
[35]
Giulia
conoscea veramente che la reina l'amava molto, e da grande amore procedeano
queste parole, le quali vere la reina le diceva, ond'ella incominciò a
riprender conforto e a porre termine alle sue lagrime. E per fuggire ozio, il
quale di trista memorazione de' suoi danni l'era cagione, con le propie mani
lavorando, sovente faceva di seta nobilissime tele di diverse imagini figurate,
allato alle quali, o misera Aragne, le tue sarebbero parute offuscate da
nebulose macchie, come altra volta parvero, quando con Pallade avesti ardire di
lavorare a pruova. Queste opere aveano sanza fine multiplicato l'amore della
reina in lei, però che molto in simili cose si dilettava. Onde, come l'amore,
così l'onore a lei e alle sue compagne multiplicare fece.
[36]
Non
parve a Pluto avere ancora fornito il suo iniquo proponimento, posto ch'egli
avesse con le sue false parole commosse l'occidentali rabbie sopra gl'innocenti
romani; ma poi ch'egli ebbe nel cospetto del re Felice lasciato vilmente
disfatto il falso corpo, un'altra volta riprese vana forma d'una giovane
damigella di Giulia, chiamata Glorizia, la quale con lei ancora viva dimorava,
e con sollicito passo entrò nell'ampio circuito delle romane mura. E già
Calisto mostrando le sue luci, tacitamente, disciolti i capelli, entrò negli
alti palagi di Lelio, stracciandosi tutta; ne' quali poi che ella fu ricevuta
dal padre del morto Lelio e da' cari fratelli di Giulia, i quali, stupefatti
tutti di tale accidente, taciti si maravigliavano, forte piangendo così
cominciò loro a parlare:
[37]
«Poi
che gli avversari movimenti della fortuna, invidiosa della nostra felicità,
trassero della dolente città il vostro caro figliuolo e la sua moglie, a me
carissima donna, con quella compagnia con la quale voi medesimi ci vedeste, e
da cui voi, porgendo teneri baci e le vostre destre mani, piangendo vi
dipartiste, noi avventurosamente, fin che a' miseri fati piacque, camminammo.
Ma poi che a loro piacque di ritrarre la mano dalle nostre felicità, noi una
mattina quasi nelle prime ore cavalcando per una profonda valle, occupate le
nostre luci da noiosa nebbia, assaliti fummo da innumerabile quantità di
predoni, vaghi del copioso arnese, il quale a noi non molto lontano andava, e
del nostro sangue: e l'assalirci e 'l privarci dell'arnese non occupò più che
un medesimo spazio di tempo. E appresso rivolti a noi con li aguzzati dardi,
Lelio co' suoi compagni e la vostra Giulia di vita amaramente privarono. Io
pavida piangendo, non so come delle inique mani fuggii; e fuggendo, per tema
non ritornare nelle loro mani, per lo dolente cammino più volte ho sostenuto
mortal dolore».
E
co' pugni stretti, dette queste parole, cadde semiviva nelle loro braccia, la
quale essi piangendo portarono sopra un letto, richiamando con freddi liquori
le forze esteriori.
[38]
Incominciossi
nel gran palagio un amarissimo pianto, e quasi per tutta Roma, ovunque il
grazioso giovane e la piacente Giulia erano conosciuti, si piangea. L'aere
risonava tutto di dolenti voci, tali che per lo preterito tempo alcuno anziano
non si ricordava che tal doglia vi fosse stata per alcuno accidente. E certo
che tu appena, o Bruto, riformatore della libertà del romano popolo, vi fosti
tanto lagrimato dal rozzo popolo. E da quell'ora inanzi ciascun romano cominciò
ad essere pauroso d'andar cercando gli strani altari o di portare gl'incensi a'
lontani iddii fuori di Roma; e per lo gran dolore del morto Lelio lungamente
lasciarono i nobili adornamenti, vestendo lugubri veste, così gli altri romani
come i suoi distretti parenti.
[39]
Mentre
la fortuna con la sua sinistra voltava queste cose, s'appressò il termine del
partorire alla reina, e simigliantemente a Giulia; e nel giocondo giorno eletto
per festa de' cavalieri, essendo Febo nelle braccia di Castore e di Polluce
insieme, non essendo ancora la tenebrosa notte partita, sentirono in una
medesima ora quelle doglie che partorendo per l'altre femine si sogliono
sentire. Dopo molte grida, essendo già la terza ora del giorno trapassata, e la
reina del gravoso affanno, partorendo un bel garzonetto, si diliberò, contenta
molto in se medesima di tal grazia, sanza fine lodando i celestiali iddii; e
similmente il re, udita la novella, fece grandissima festa, però che sanza
alcun figliuolo era infino a quello giorno dimorato. Niuno altare fu in
Marmorina negli antichi templi sanza divoto fuoco. E i freschi giovani con
varii suoni, cantando, andavano faccendo smisurata festa. L'aere risonò
d'infiniti sonagli per li molti armeggiatori, continuando per molti giorni
grandissima gioia.
[40]
Avea
già il sole per lungo spazio trapassato il meridiano suo cerchio, avanti che
Giulia del disiderato affanno liberare si potesse: anzi, con grandissime voci
invocando il divino aiuto, sostenea grandissima doglia. Ma tra la erronea gente
si dubitava non Lucina sopra i suoi altari stesse con le mani comprese,
resistendo a' suoi parti, come fece alla dolente Iole, quando ingannata da
Galanta la convertì in mustella; e con divoti fuochi s'ingegnavano di mitigare
la colei ira, per liberare Giulia di tale pericolo. Ma poi che a Giove piacque
di dar fine a' suoi dolori, egli, ella partorendo, le concedette una figliuola
non variante di bellezza dalla sua madre; la quale come fu nata, Giulia,
sentendo la sua anima disiderosa di partirsi dal debile corpo, contenta del piacere
di Dio, domandò che la sua unica figliuola, avanti la morte sua, le fosse posta
nelle tremanti braccia. Glorizia, cameriera e compagna di Giulia, coperta la
picciola zitella con un ricco drappo, la pose in braccio alla madre, la quale,
poi che la vide, sospirando la baciò, e piangendo, voltata a Glorizia, gliele
rendé, dicendo:
«Cara
compagna, sanza dubbio di presente sento mi converrà rendere l'anima a Dio, e
nel presente giorno ringraziarlo di doppio dono, sì come della dimandata
progenie e della disiderata morte. Ond'io ti raccomando la cara figliuola, e,
per quello amore che tra te e me è stato, ti priego che in luogo di me le sii
sempre madre»; e dicendo queste parole alla dolente Glorizia, che nell'un
braccio tenea la picciola fanciulla e nell'altro il capo di lei parlante, rendé
l'anima al suo fattore umile e divota.
[41]
Cominciossi
nella camera un doloroso pianto, e massimamente da Glorizia, la quale, tenendo
in braccio la figliuola della morta Giulia, dicea:
«O
sventurata figliuola, inanzi alla tua natività cagione della morte del tuo
padre, e nascendo hai la tua madre morta! Oimè! quanta sarebbe l'allegrezza de'
miseri parenti, se in vita t'abbracciassero, come io fo! O figliuola di lagrime
e d'angoscia, quanto ha Giove mostrato che la tua natività non gli piacea!
Oimè, di che amaro peso sono io ancora sanza umano conoscimento divenuta
madre!».
E
poi si volgea sopra il freddo corpo di Giulia, il quale tanta pietà porgea a
chi morto il riguardava, che per vivere ciascuno ne torcea le luci; e dicea:
«O
cara donna, ove m'hai tu misera con la tua figliuola lasciata? Deh! perché non
m'è elli licito poterti seguire? Già era uscito della mia mente il gravoso
dolore della crudele morte di Lelio, ma tu ora morendo m'hai doppia doglia
rinnovata. Oimè misera! omai niuno conforto più per me s'aspetta».
Così
piangendo questa, e l'altre che con lei nella camera dimoravano, pervennero le
dolorose voci alle orecchie della reina, la quale, allegra del nato figliuolo,
prima si maravigliò, dicendo:
«Chi
piange invidioso de' nostri beni?», poi più efficacemente domandando, volle
sapere la cagione di cotal pianto. E fatta chiamare alcuna femina della camera
ove le misere piangeano, domandò qual fosse la cagione del loro pianto. Quella
rispose:
«Madonna,
quando Febo lasciò il nostro emisperio sanza luce, Giulia si diliberò,
partorendo una bellissima creatura, del noioso peso; e non dopo molto spazio,
rimasa debile, passò a miglior vita, e ha lasciato fra noi il grazioso corpo sì
pieno d'umiltà nell'aspetto, che alcuno che il guardi non può ritenere in sé
l'amaro pianto; e questo è quello che voi udito avete».
[42]
Quando
la reina udì queste parole, sospirando disse:
«Oimè!,
dunque ci ha la piacente Giulia abandonati?»; e comandò che 'l corpo di Giulia
fosse nel suo cospetto recato; sopra 'l quale, poi che ella il vide, sparse
amare lagrime e molte. E veramente il suo lieto animo non era il presente
giorno tanto rallegratosi della natività dell'unico figliuolo, quanto la morta
Giulia col suo pietoso aspetto l'attristò più. Ella comandò ch'ella fosse il
vegnente giorno onorevolemente sepellita; e presa nelle sue braccia la bella
figliuola, lagrimando molte volte la baciò, dicendo:
«Poi
che alla tua madre non è piaciuto d'esser più con noi, certo tu in luogo di lei
e di cara figliuola ne rimarrai. Tu sarai al mio figliuolo cara compagna e
parente del continuo».
Molte
fiate nel futuro pianse queste parole la reina, le quali nescientemente
profetico spirito l'avea fatta parlare.
[43]
Sparsesi
per la reale corte e per tutta Marmorina la morte della graziosa Giulia, la
quale con la sua piacevolezza aveva sì presi gli animi di coloro che sua
notizia aveano, che niuno fu che per pietà non spandesse molte lagrime. E il re
similemente piangendo mostrò che di lei molto gli dolesse. Ma poi che il
seguente giorno, lavato il corpo e rivestito di reali vestimenti, fu sepellito
tra' freddi marmi, con quello onore che a sì nobile giovane si richiedea, elli
scrissero sopra la sua sepoltura questi versi:
Qui
d'Antropòs il colpo ricevuto,
giace
di Roma Giulia Topazia,
dell'alto
sangue di Cesare arguto
discesa,
bella e piena d'ogni grazia,
che,
in parto, abandonati in non dovuto
modo
ci ha: onde non fia già mai sazia
l'anima
nostra il suo non conosciuto
Iddio
biasmar, che fé sì gran fallazia.
[44]
Assai
sturbò la gran festa incominciata della natività del giovane la compassione che
ogni uomo generalmente portava alla morte di Giulia. Ma poi che alquanti giorni
furono passati, piacque al re Felice di vedere il suo figliuolo e la bella
pulcella nata con lui in un medesimo giorno; e entrato con alcuno barone nella
camera della reina, prima dolcemente la confortò domandandola di suo stato, poi
comandò che le due creature gli fossero arrecate davanti. Furongli arrecati
amenduni i garzonetti involti in preziosi drappi: i quali, poi ch'egli gli ebbe
amenduni nelle sue braccia, per lungo spazio li riguardò, e vedendoli amenduni
pieni di maravigliosa bellezza, e simiglianti insieme, disse così:
«Certo
piacevole e giocondo giorno vi ci donò, nel quale ogni fiore manifesta la sua
bellezza: i cavalieri simigliantemente e le gaie donne si rallegrano faccendo
gioiosa festa. Adunque convenevole cosa è che voi in rimembranza della vostra
natività, e per aumentamento delle vostre bellezze, siate da così fatto giorno
nominati. E però tu, caro figliuolo, sì come primo nato, sarai da tutti
universalmente chiamato Florio, e tu, giovane pulcella, avrai nome
Biancifiore»; e così comandò che da quella ora in avanti fossero continuamente
chiamati. E voltatosi alla reina, principalmente Florio le raccomandò; dopo
questo la pregò molto che Biancifiore tenesse cara, però che aspetto avea di
dovere ogni altra donna passare di bellezza, e che egli in luogo di Giulia
sempre la volea tenere. E dopo queste parole, contento di sì bella erede, si
partì dalla reina.
[45]
Teneramente
raccomandò la reina alle balie le picciole creature, e con sollecita cura le
facea nudrire. Ma poi che, lasciato il nudrimento delle balie, vennero a più
ferma età, il re facea di loro grandissima festa, e sempre insieme realmente
vestir li facea; e quasi non gli era la pulcella, che in bellezza ciascun
giorno crescea, men cara che fosse il suo Florio. E vedendo che già Citerea,
donna del loro ascendente, s'era dintorno a loro ne' suoi cerchi voltata la
sesta volta, provide di volere che, se la natura in senno gli avesse in alcuno
atto fatti difettosi, elli, studiando, per la scienza potessero ricuperare
cotal difetto. E fatto chiamare un savio giovane, nominato Racheio, nell'arti
di Minerva peritissimo, gli commise che i due giovinetti effettuosamente
dovesse in saper leggere ammaestrare. E appresso chiamato Ascalion,
simigliantemente amendue glieli raccomandò, dicendo:
«Questi
sieno a te come figliuoli. Niuno costume né alcuna cosa, che a gentili uomini o
donne si convenga, sia che tu a costoro non insegni, però che in loro ogni mia
speranza è fissa: e essi sono l'ultimo termine del mio disio».
Ascalion
e Racheio presero i commessi uficii; e sanza alcuna dimoranza incominciò
Racheio a mettere il suo in essecuzione con intera sollecitudine. E loro in
brieve termine insegnate conoscer le lettere, fece loro leggere il santo libro
d'Ovidio, nel quale il sommo poeta mostra come i santi fuochi di Venere si deano
ne' freddi cuori con sollecitudine accendere.
LIBRO
SECONDO
[1]
Adunque
cominciarono con dilettevole studio i giovani, ancora ne' primi anni puerili,
ad imprendere gli amorosi versi: nelle quali voci sentendosi la santa dea,
madre del volante fanciullo, nominare con tanto effetto, non poco negli alti
regni con gli altri dei se ne gloriava. Ma non sofferse lungamente che invano
fossero da' giovani petti sapute così alte cose come i laudevoli versi
narravano, ma, involti i candidi membri in una violata porpore, circundata di
chiara nuvoletta, discese sopra l'alto monte Citerea, là ove ella il suo caro
figliuolo trovò temperante nuove saette nelle sante acque, a cui ella con
benigno aspetto cominciò così:
«O
dolce figliuolo, non molto distante agli aguti omeri d'Appennino, nell'antica
città Marmorina chiamata, secondo che io ho ne' nostri alti regni sentito, ha
due giovinetti, i quali effettuosamente studiando i versi che le tue forze
insegnano acquistare, invocano con casti cuori il nostro nome, disiderando
d'essere del numero de' nostri suggetti. E certo il loro aspetto, pieno della
nostra piacevolezza, molto più s'appresta a' nostri servigi che a cultivare i
freddi fuochi di Diana. Lascia dunque la presente opera, e intendi a maggiori
cose, e solo il rimanente di questo giorno in mio servigio ti spoglia le
leggieri ali. E come già nella non compiuta Cartagine prendesti forma del
giovane Ascanio, così ora ti vesti del senile aspetto del vecchio re, padre di
Florio; e quando se' là ove essi sono, sì come egli quando va a loro gli
abbraccia e bacia costretto da pura benivolenza, così tu, abbracciandoli e
baciandoli, metti in loro il tuo segreto fuoco, e infiamma sì l'un dell'altro,
che mai il tuo nome de' loro cuori per alcuno accidente non se ne spenga. E io
in alcuno atto occuperò sì il re, che la tua mentita forma per sua venuta non
si manifesterà».
[2]
Mossesi
Amore a' prieghi della santa madre, poi che spogliate s'ebbe le lievi penne; e
pervenuto al dimandato luogo, vestitosi la falsa forma, entrò sotto i reali
tetti, passando con lento passo nella segreta camera, ove egli Florio e
Biancifiore trovò soletti puerilmente giuocare insieme. Essi si levarono verso
lui come fare soleano, e egli primieramente preso Florio, il si recò nel santo
seno, e porgendoli amorosi baci, segretamente gli accese nel cuore un nuovo
disio: il quale Florio poi, guardando ne' lucenti occhi di Biancifiore con
diletto, il vi fermò. Ma poi Cupido, presa Biancifiore, e spirandole nel viso
con piccolo fiato, l'accese non meno che Florio avesse davanti acceso. E
dimorato alquanto con loro, rivolti i passi indietro, li lasciò stare; e
rivestendosi le lasciate penne, tornò al lasciato lavoro. E i giovani, rimasi
pieni di nuovo disio, riguardandosi, si cominciarono a maravigliare stando
muti. E da quell'ora in avanti la maggior parte del loro studio era solamente
in riguardar l'un l'altro con temorosi atti; né mai l'un dall'altro, per alcuno
accidente che avvenisse, partir si volea, tanto il segreto veleno adoperò in
loro subitamente.
[3]
Sì
tosto come Amore dalla sua madre fu partito, così ella nella lucida nuvoletta
fendendo l'aere pervenne a' medesimi tetti, e, tacitamente preso il vecchio re,
il portò in una camera sopra un ricco letto, dove d'un soave sonno l'occupò.
Nel qual sonno il re vide una mirabi le visione: che a lui pareva esser sopra
un alto monte, e quivi avere presa una cerbia bianchissima e bella, la quale a
lui molto parea avere cara; la quale tenendola nelle sue braccia, gli pareva
che del suo corpo uscisse un leoncello presto e visto, il quale egli insieme
con questa cerbia sanza alcuna rissa nutricava per alcuno spazio. Ma, stando
alquanto, vedeva discender giù dal cielo uno spirito di graziosa luce
risplendente, il quale apriva con le proprie mani il leoncello nel petto; e
quindi traeva una cosa ardente, la quale la cerbia disiderosamente mangiava. E
poi gli pareva che questo spirito facesse alla cerbia il simigliante; e fatto
questo si partiva.
Appresso
questo, egli temendo non il leoncello volesse mangiar la cerbia, la lontanava
da sé: e di ciò pareva che l'uno e l'altro si dolesse. Ma, poco stante, apparve
sopra la montagna un lupo, il quale con ardente fame correva sopra la cerbia
per distruggerla, e il re gliele parava davanti; ma il leoncello correndo
subitamente tornò alla difesa della cerbia, e co' propii unghioni quivi
dilacerò sì fattamente il lupo, che egli il privò di vita, lasciando la paurosa
cerbia a lui che dolente gliele pareva ripigliare, tornandosi all'usato luogo.
Ma non dopo molto spazio gli parea vedere uscir de' vicini mari due girfalchi,
i quali portavano a' piè sonagli lucentissimi sanza suono, i quali egli
allettava; e venuti ad esso, levava loro da' piedi i detti sonagli, e dava loro
la cerbia cacciandogli da sé. E questi, presa la cerbia, la legavano con una
catena d'oro, e tiravansela dietro su per le salate onde infino in Oriente: e
quivi ad un grandissimo veltro così legata la lasciavano. Ma poi, sappiendo
questo, il leoncello mugghiando la ricercava; e presi alquanti animali,
seguitando le pedate della cerbia, n'andavano là ove ella era; e quivi gli
parea che il leoncello, occultamente dal cane, si congiungesse con la cerbia
amorosamente. Ma poi avedendosi il veltro di questo, l'uno e l'altro parea che
divorar volesse co' propii denti. E subitamente cadutagli la rabbia, loro
rimandava là onde partiti s'erano. Ma inanzi che al monte tornassero, gli parea
che essi si tuffassero in una chiara fontana, della quale il leoncello
uscendone, pareva mutato in figura di nobilissimo e bel giovane, e la cerbia
simigliantemente d'una bella giovine: e poi a lui tornando, lietamente li
ricevea; e era tanta la letizia la quale egli con loro facea, che il cuore, da
troppa passione occupato, ruppe il soave sonno. E stupefatto delle vedute cose
si levò, molto maravigliandosi, e lungamente pensò sopra esse; ma poi non
curandosene, venne alla reale sala del suo palagio in quell'ora che Amore s'era
da' suoi nuovi suggetti partito.
[4]
Taciti
e soli lasciò Amore i due novelli amanti, i quali riguardando l'un l'altro
fiso, Florio primieramente chiuse il libro, e disse:
«Deh,
che nuova bellezza t'è egli cresciuta, o Biancifiore, da poco in qua, che tu mi
piaci tanto? Tu non mi solevi tanto piacere; ma ora gli occhi miei non possono
saziarsi di riguardarti!».
Biancifiore
rispose:
«Io
non so, se non che di te poss'io dire che in me sia avvenuto il simigliante.
Credo che la virtù de' santi versi, che noi divotamente leggiamo, abbia accese
le nostre menti di nuovo fuoco, e adoperato in noi quello già veggiamo che in
altrui adoperarono».
«Veramente
- disse Florio - io credo che come tu di' sia, però che tu sola sopra tutte le
cose del mondo mi piaci».
«Certo
tu non piaci meno a me, che io a te», rispose Biancifiore. E così stando in
questi ragionamenti co' libri serrati avanti, Racheio, che per dare a' cari
scolari dottrina andava, giunse nella camera e loro gravemente riprendendo,
cominciò a dire:
«Questa
che novità è, che io veggio i vostri libri davanti a voi chiusi? Ov'è fuggita
la sollecitudine del vostro studio?».
Florio
e Biancifiore, tornati i candidi visi come vermiglie rose per vergogna della
non usata riprensione, apersero i libri; ma gli occhi loro più disiderosi
dell'effetto che della cagione, torti, si volgeano verso le disiate bellezze, e
la loro lingua, che apertamente narrare solea i mostrati versi, balbuziendo
andava errando. Ma Racheio, pieno di sottile avvedimento, veggendo i loro atti,
incontanente conobbe il nuovo fuoco acceso ne' loro cuori, la qual cosa assai
gli dispiacque; ma più ferma esperienza della verità volle vedere, prima che
alcuna parola ne movesse ad alcuno altro, sovente sé celando in quelle parti
nelle quali egli potesse lor vedere sanza essere da essi veduto. E
manifestamente conoscea, come da loro partitosi, incontanente chiusi i libri,
abbracciandosi si porgeano semplici baci, ma più avanti non procedeano, però
che la novella età, in che erano, non conoscea i nascosi diletti. E già il
venereo fuoco gli avea sì accesi, che tardi la freddezza di Diana li avrebbe
potuti rattiepidare.
[5]
Poi
che più volte Racheio gli ebbe veduti nella soprascritta maniera, e alcuna
volta gravemente ripresigliene, egli tra se medesimo disse: "Certo questa
opera potrebbe tanto andare avanti, sotto questo tacere ch'io fo, che
pervenendo poi alle orecchi del mio signore, forse mi nocerebbe l'aver taciuto.
Io manifestamente conosco ne' sembianti e negli atti di costoro la fiamma di
che elli hanno acceso i cuori: dunque perché non gli lascio io ardere sotto
altrui protezione, che sotto la mia? Io pur ho infino a qui fatto l'uficio mio,
riprendendoli più volte, né m'è giovato: e però per mio scarico è il meglio
dirlo al re". E così ragionando Racheio, Ascalion sopravenne: il quale, in
molte cose peritissimo, quando lo studio rincrescea loro, mostrava loro diversi
giuochi, e tal volta cantando con essi si sollazzava, avendo già ciascuno da
lui medesimo appresa l'arte del sonare diversi strumenti; e trovò Racheio
pensando, a cui e' disse:
«Amico,
qual pensiero sì ti grava la fronte, che occupato in esso, altro che rimirare
la terra non fai?».
A
cui Racheio narrando il suo pensiero rispose. Quando Ascalion intese questo,
niente gli piacque, ma disse:
«Andiamo,
e sanza alcuno indugio il narriamo al re, acciò che se altro che bene
n'avvenisse, noi non possiamo essere ripresi».
E
dette queste parole, voltati i passi, amenduni n'andarono nella presenza del
re; al quale Ascalion parlò così:
[6]
«Nella
vostra presenza, o vittoriosissimo prencipe, ci presenta espressa necessità a
narrarvi cose le quali, se esser potesse suto, disiderato avremmo molto che
dicendole altri, agli orecchi vostri fossero pervenute. Ma però che noi,
disiderosi del vostro onore, non volendo anche il nostro contaminare,
conosciamo che da tenere occulte non sono, e massimamente a voi, onde acciò che
il futuro danno, che seguire ne potrebbe di ciò che vi diremo, non sia a noi
noia né mancamento de' vostri onori, vi facciamo manifesto che novello amore è
generato ne' semplici cuori del vostro caro figliuolo Florio e di Biancifiore.
E questo nelli loro atti più volte abbiamo conosciuto, sì come l'iddii sanno:
essi più volte effettuosamente abbracciarsi e darsi graziosi baci abbiamo veduti,
e appresso sovente, guardandosi nel viso, l'un l'altro gittare sospiri accesi
di gran disio. E ancora più manifesto segnale n'appare, il quale voi assai
tosto potete provare, che niuna cosa è che l'uno sanza l'altro voglia fare, né
li possiamo in alcuna maniera partire, e hanno del tutto il loro studio
abandonato: anzi, così tosto come noi della loro presenza siamo partiti, così
incontanente chiusi i libri intendono a riguardarsi; e di ciò, come dell'altre
cose, gravemente più volte ripresi gli abbiamo, credendo poterli da ciò
ritrarre, ma poco giova la nostra riprensione. E però, acciò che noi per ben
servire mal guiderdone non riceviamo, e acciò che subito rimedio ci sia da voi
preso, v'abbiamo voluto questo palesare. Voi, sì come savio, anzi che più s'accenda
il fuoco, providamente pensate di stutarlo, ché, quanto a noi, il nostro potere
ci abbiamo adoperato».
[7]
Niente
piacquero al re l'ascoltate parole; ma celando il suo dolore con falso riso,
rispose:
«Però
non cessi il vostro con riprensione gastigarli e con ispaventevoli minacce
impaurirli. Essi ancora per la loro giovane età sono da potere essere ritratti
da ciò che l'uomo vuole; e io, quando per voi dell'incominciata follia rimaner
non si volessono, prenderà in questo mezzo altro compenso, acciò che il vostro
onore per vile cagione non diventi minore».
E
detto questo, con l'animo turbato si partì da loro, e entrossene in una camera;
e quivi da sé cacciando ogni compagnia, solo a sedere si pose, e, con la mano
alla mascella, cominciò a pensare e a rivolversi per la mente quanti e quali
accidenti pericolosi poteano avvenire del nuovo innamoramento; e di tale
infortunio tra se medesimo cominciò a dolersi. E mentre in tal pensiero il re
dimorava occupato, la reina, passando per quella camera, sopravenendo il vide,
e con non poca maraviglia, fermata nel suo cospetto, gli disse:
«O
valoroso signore, quale accidente o qual pensiero occupa sì l'animo vostro, che
io, pensando, nell'aspetto vi veggo turbato? Non vi spiaccia che io il sappia,
però che niuna felicità né avversità ancora dovete sanza me sostenere: se voi
'l mi dite, forse o consiglio o conforto vi porgerò».
Rispo
se il re allora con voce mescolata di sospiri, e disse:
«E'
mi piace bene che a voi non sia la mia malinconia celata, la cagione della
quale è questa: con ciò sia cosa che la fortuna infino a questo tempo ci abbia
con la sua destra tirati nell'auge della sua volubile rota, accrescendo il
numero de' nostri vittoriosi triunfi, ampliando il nostro regno, multiplicando
le nostre ricchezze e concedendone, insieme con gli altri iddii, cara progenie,
a cui la nostra corona è riserbata, ora pensando dubito che ella, pentuta di
queste cose, non s'ingegni con la sua sinistra d'avvallarci. E gl'iddii credo
che ciò consentono; e la maniera è questa: niuna allegrezza fu mai maggiore a
noi, che quella quando il nostro unico figliuolo dagl'iddii lungamente pregati
ricevemmo; e sapete che ne' nostri regni nella sua natività niuno altare fu
sanza divoto fuoco e sanza incensi, né niuno iddio fu che con divota voce non
fosse per le nostre città ringraziato. Ora, conoscendo la fortuna quanto questo
figliuolo ne sia caro per le rendute grazie, per porre noi in maggior doglia e
tristizia, in vile modo s'ingegna di privarcene, minuendo i nostri onori, essendo
egli in vita, dandoci manifesto essemplo che, poi che alla più cara cosa
comincia, discenderà sanza fallo all'altre minori: e udite come ella s'è
ingegnata di levarci Florio. Essa ha tanto il giovane figliuolo di Citerea, non
meno mobile di lei, con lusinghe mosso, che egli, entrato nel giovane petto di
Florio, l'ha sì infiammato della bellezza di Biancifiore, che Paris di quella
di Elena non arse più; e non vede più avanti che Biancifiore, secondo che i
loro maestri m'hanno detto poco avanti. E certo io non mi dolgo che egli ami,
ma duolmi di colei cui egli ama, perché alla sua nobiltà è dispari. Se una
giovane di real sangue fosse da lui amata, certo tosto per matrimonio gliele
giugneremmo; ma che è a pensare che egli sia innamorato d'una romana popolaresca
femina, non conosciuta e nutricata nelle nostre case come una serva? Ora
adunque che cercherete voi più avanti della mia malinconia? Non è questa gran
cagione di dolersi, pensando che un sì fatto giovane, il quale ancora dee sotto
il suo imperio governare questi regni, sia per una feminella perduto? Certo io
non avria avuta alcuna malinconia se gl'iddii l'avessero al loro servigio
chiamato nella sua puerizia, come Ganimede fecero. E certo la morte di Gilo non
fu da Xenofonte suo padre sostenuta con sì forte animo, com'io avrei fatto o
farei, se gl'iddii avessero consentito ch'io avessi per simile caso perduto
Florio che Xenofonte perdé Gilo. Né Anassagora ancora ebbe cagione di piagnere,
però che saviamente aspettava cosa naturale del suo figliuolo, come io medesimo
quello accidente sanza lagrime aspetterei. Ma pensando che per vile
avvenimento, vivendo il mio figliuolo, io il posso più che morto chiamare, il
dolore che quinci mi nasce mi trasporta quasi infino agli ultimi termini della
vita. Né so che di questo io mi faccia, ché io dubito che, se io di tal fallo
il riprendo, o m'ingegno con asprezza di ritrarlo da questa cosa, che io non ve
lo accenda più suso, o forse egli del tutto non m'abandoni e vada vagabundo per
gli strani regni, fuggendo le mie riprensione: e così avremmo sanza alcuno
utile accresciuto il danno. E d'altra parte se io taccio questa cosa, il fuoco
ognora più s'accenderà, e così mai da lei partire nol potremo».
[8]
Molto
fu la reina di quelle parole dolente, e quasi lagrimando ne 'l dimostrò; ma,
dopo poco spazio, con pietoso aspetto disse:
«Caro
signore, non è per questo accidente da disperarsi, né degl'iddii né della
fortuna, però che non è mirabile cosa se Florio s'è della bellezza della vaga
giovane inamorato, con ciò sia cosa che egli sia giovanissimo e continuamente
con lei dimori, e ella sia bellissima giovane e piacevole. E non è dubbio che,
se questo amore s'avanzasse, come voi dite che egli è cominciato, che noi
potremmo dire che 'l nostro figliuolo fosse vivendo perduto, pensando alla
piccola condizione di Biancifiore. Ma quando le piaghe sono recenti e fresche,
allora si sanano con più agevolezza che le vecchie già putrefatte non fanno.
Secondo le vostre parole, questo amore è molto novello, e sanza dubbio egli non
può essere altramente, e simigliantemente gli amanti novelli sono, né mai altro
fuoco non li scaldò; e però questo fia lieve a spegnere seguendo il parer mio,
né niuna più legger via ci è che dividere l'uno dall'altro; la qual cosa in
questa maniera si può fare. Florio, già ne' santi studii dirozzato, è da
mettere a più sottili cose; e voi sapete che noi abbiamo qui vicino Ferramonte,
duca di Montoro, a noi per consaguinità congiuntissimo, e in niuna parte del
nostro regno più solenne studio si fa che a Montoro. Noi possiamo sotto spezie
di studio mandar Florio là a lui, e quivi faccendolo per alcuno spazio
dimorare, gli potrà agevolemente della memoria uscir questa giovane, non
vedendola egli. E come noi vedremo che egli alquanto dimenticata l'aggia,
allora noi gli potremo dare sposa di real sangue sanza alcuno indugio, e così
potremo essere agevolmente fuori di cotale dubbio. E già però esso non ci sarà
tanto lontano, che noi nol possiamo ben sovente vedere. Ond'io, caro signore,
vi priego che questa malinconia cacciate da voi prendendo sanza indugio questo
rimedio».
[9]
Piacque
al re il consiglio della reina, il quale giovare non dovea ma nuocere, però che
quanto più si strigne, il fuoco con più forza cuoce; e poi ch'egli sopra ciò
ebbe lungamente pensato, le rispose che ciò farebbe, però che altra via a tal
pericolo fuggire non vedea. Ma, oh quanto fu tale imaginazione vana, con ciò
sia cosa che durissimo sia resistere alle forze de' superiori corpi, avvegna
che possibile! Venus era nell'auge del suo epiciclo, e nella sommità del
differente nel celestiale Toro, non molto lontana al sole, quando ella fu
donna, sanza alcuna resistenza d'opposizione o d'aspetto o di congiunzione
corporale o per orbe d'altro pianeto, dello ascendente della loro natività; il
saturnino cielo, non che gli altri, pioveva amore il giorno che elli nacquero.
Oimè,
che mai acqua lontana non spense vicino fuoco! Ove credea il re potere mandar
Florio sanza la sua Biancifiore, con ciò fosse cosa che ella era continuamente
nel suo animo figurata con più bellezza che il vero viso non possedea, e quello
che prende e lascia amore era sempre con Biancifiore? I corpi si doveano
allontanare, ma le menti con più sollecitudine si doveano far vicine. Niuna
cosa è più disiderata che quella che è impossibile, o molto malagevole, ad
avere. Per quale altra cagione diventò il gelso vermiglio, se non per l'ardente
fiamma costretta, la quale prese più forza ne' due amanti costretti di non
vedersi? Chi fece Biblide divenir fontana se non il sentirsi esser negato il
suo disio? Ella fu femina mentre ella ne stette in forse con isperanza. O re,
tu credi apparecchiare fredde acque all'ardente fuoco, e tu v'aggiugni legne.
Tu t'apparecchi di dare non conosciuti pensieri a' due amanti sanza alcuna
utilità di te o di loro, e affrettiti di pervenire a quel punto il quale tu con
disio ti credi più fuggire. Oh quanto più saviamente adoperresti lasciandoli
semplicemente vivere nelle semplici fiamme, che voler loro a forza fare sentire
quanto sieno amari o dilettevoli i sospiri che da amoroso martiro procedono!
Elli amano ora tacitamente. Né niuno disidera più avanti che solo il viso, il
quale per forza conviene che per troppa copia, se stare gli lascia, rincresca,
però che delle cose di che l'uomo abondevole si truova, sfastidiano. Ma che si
può qui più dire, se non che il benigno aspetto, col quale la somma benivolenza
riguarda la necessità degli abandonati, non volle che il nobile sangue, del
quale Biancifiore era discesa, sotto nome d'amica divenisse vile, ma acciò che
con matrimoniale nodo il suo onore si servasse, consentì che le pensate cose
sanza indugio si mettessero in effetto?
[10]
Diede
il giorno luogo alla sopravegnente notte, e le stelle mostrarono la lor luce;
ma poi che Febo co' tiepidi raggi recò nuovo splendore, il re fece a sé
chiamare Florio, e con lieto viso ricevuto il suo saluto, a sé l'accolse, e
così gli disse:
«Bello
figliuolo, a me sopra tutte cose caro, ascoltino le tue orecchi pazientemente
le mie parole; e i miei comandamenti, i quali da te debitamente deono essere
osservati, per te sieno messi ad effetto. Con ciò sia cosa che niuna speranza
rimasa fosse alla mia lunga età di gloria, agl'iddii piacque di donarmi te, in
cui la mia speme, sanza fallo già secca, ritornò verde; e dissi: "Omai la
fama del nostro antico sangue non perirà, poi che gl'iddii ci hanno conceduto
degna erede"; e sopra te tutto il mio intendimento fermai, sì come sopra
unico bastone della mia vecchiezza. E volendo che l'alto uficio a che gl'iddii
t'hanno apparecchiato, sì come è a ornare la tua fronte di splendida corona
degli occidentali regni, non patisse difetto di savio duca, ancora che io nella
tua effigie conoscessi che valoroso uomo dovevi per natura pervenire, nondimeno
con essaminato animo imaginai che per le accidentali scienze molto
t'avanzeresti. E dalla imaginazione nel dovuto tempo venni all'effetto; e
infino a questo giorno, così come la tua età è stata per la gioventudine
deboletta a sostenere, così con picciole scienze t'ho fatto nutricare. Ora che
in più ferma età se' pervenuto, disidero che tu a più alti studii disponghi il
tuo intelletto, e massimamente a' santi principii di Pittagora, de' quali
venendo con l'aiuto de' nostri iddii a perfezione, sì come io estimo, ti
seguirà grandissimo onore, con ciò sia cosa che la scienza in niuna maniera di
gente tanto sia lucida e risplendente quanto ne' prencipi. E ciò puoi tu per te
medesimo considerare, ricordandoti quanta fosse eccellente la fama del gran re
Salamone, ancora che giudeo e lontano dalla nostra setta fosse. E per
imprendere questa scienza, certo a te non converrà andare cercando Elicona, né
i solleciti studii d'Attene, né alcuno altro lontano paese, però che qui a noi
molto vicina è una città chiamata Montoro, dotata di molti diletti, la quale
per noi il valoroso duca Ferramonte governa, a noi congiustissimo parente, non
molto men giovane di te, il quale continua compagnia ti sarà. Quivi con
ordinato stile si leggono le sante scienze; quivi, secondo che io estimo, tu
potrai in picciolo termine divenire valoroso giovane: per la qual cosa io
voglio che sanza indugio vi vada. Né ciò ti dee parer grave, considerando
principalmente che tu vai a divenire valoroso uomo, per la qual cosa acquistare
niuno affanno né sconcio se ne dee rifiutare: appresso, tu non sarai però da
noi diviso, però che ci se' per picciolo spazio vicino, e sovente potremo noi
venire a veder te e tu noi sanza sconcio dello studio: il quale noi non
intendiamo che tu prenda in maniera che niuno tuo diletto se ne sconci;
dall'altra parte, tu sarai con persona che sanza fine t'ama e che disidera
molto di vederti, cioè il duca. E però ora che il tempo è molto più atto allo
studio che al sollazzo, però che sì come già vedi signoreggiare le stelle
Pliade e la terra rivestire di bianco molto sovente, avendo perduto il verde
colore, prendi quella compagnia che più ti diletta, e vavvi».
[11]
Florio,
udendo queste parole, in se medesimo si turbò molto, però che nemiche le sentia
al suo disio, e, lasciando parlare il padre, lungamente guardando la terra,
mutolo sanza niente rispondere stette; e dimandatagli più volte dal padre
risposta, dopo il trarre d'un grandissimo sospiro, disse così:
«A
me, o reverendissimo padre, è occulta la cagione per che da voi sì giovane e
con tanta fretta dividere mi volete, essendo voi pieno d'età, com'io vi veggo.
Voi disiderate che io per studio divenga in scienza valoroso, la qual cosa non
è meno da me disiderata. Ma qual dovuto pensiero vi mostra che io debba meglio,
da voi lontano, studiare, che nella vostra presenza? Non imaginate voi che io
lontano da voi continuamente sarò pieno di varie sollecitudini? Io non ispesso,
ma quasi continuo crederò che sconcio accidente occupi con infermità la vostra
persona, o dubiterò che voi di me non dubitiate. E ancora mi si volgeranno
dubbii per la mente che la vostra vita, a me molto da tener cara, non sia con
insidie appostata dagli occulti nemici per la mia assenza. Queste cose non sono
impossibili ad essere ogni ora del giorno pensate da me, però che io non fui
generato dalle querce del monte Appennino, né dalle dure grotte di Peloro, né
dalle fiere tigre, ma da voi, cui io amo più che niuna altra cosa: e di quelle
cose che sono amate si dee dubitare. E andandomi queste sollecitudini per lo
petto, qual parte di scienza vi potrà mai entrare? E ancora manifestamente
veggiamo che a niuna persona i futuri casi sono palesi. Chi sa se gl'iddii, non
essendo io con voi, vi chiamassero subitamente a' loro regni? la qual cosa sia
lontana per molto tempo da noi; ma se pure avvenisse, chi vi chiuderebbe con
più pietosa mano gli occhi nell'ultima ora gravati, che farei io? La qual cosa,
se io vi sono lontano, come la farò? E se a me lontano da voi questo accidente
avvenisse, che 'l veggiamo sovente avvenire, ché più tosto si secca il giovane
rampollo che il vecchio ramo, chi porterebbe a' miei fuochi l'acceso tizzone?
Certo strana mano, e non la vostra. Adunque guardate a quello che voi avete
pensato, e vedete ancora s'è convenevole cosa che io, unico figliuolo di così
fatto re come voi siete, vada studiando per lo mondo attorno. E però più utile
e migliore consiglio mi pare il fare qui da Montoro o d'altra parte ove più
sofficienti fossero, venire maestri in quella scienza la quale più v'aggrada
che io appari, e qui in vostra presenza, di miglior cuore, cessando ogni
dubbio, apprenderò e con più diletto studierò, vedendovi continuamente in
prosperevole stato».
[12]
Quando
il re udì la risposta di Florio, ben conobbe il suo volere occulto, e che le
scuse da lui porte, non da pietà che di lui padre avesse, ma sola la forza
d'amore che a Biancifiore lo stringea li facea questo dire; onde egli così gli
disse:
«Figliuolo,
siano di lungi da noi gli avversi casi, i quali tu ora in forse mettevi futuri,
però che se pure avvenissero, tanto ne sarai vicino, che ben potrai al pietoso
uficio esser chiamato. Ma tu sanza dovere ti ramarichi, ponendolo, in non
convenevole cosa, che un figliuolo di tal re, quale tu se', vada per le strane
scuole studiando. Or ove ti mando io? Se tu riguardi bene, tu vai in casa tua e
nella tua città e nel tuo regno a dimorare. E se non fosse che 'l troppo amore
de' padri verso i figliuoli li fa le più volte pigri alle virtù, certo io
m'atterrei al tuo consiglio di farti appresso di me studiare; ma acciò che
niuno atto di pigrizia dal grande amore ch'io ti porto ti succedesse, mi fo io
alquanto contra me medesimo rigido, dilungandoti un poco da me. E certo tu il
dei aver caro, però che la tua età richiede più tosto affanno che agio: il sole,
poi che Lucina chiamata dalla tua madre mi ti donò, è quattordici volte ad un
medesimo punto ritornato nelle braccia di Castore e di Polluce, e è entrato nel
cammino usato per compiere la quintadecima, e è già al terzo della via, o più
avanti. Deh, se tu rifiuti, e dubiti d'andar così vicino a noi, come poss'io
presumere che tu, per divenire valoroso, se accidente avvenisse, prendessi
sopra te un grave affanno? Caro figliuolo, e' non si disdice a' giovani
disiderosi di pervenire valorosi prencipi l'andare veggendo i costumi delle
varie nazioni del mondo. Già sappiamo noi che Androgeo, giovane quasi nella tua
età, solo figliuolo maschio di Minòs, re della copiosa isola di Creti, andò
agli studii d'Attene, lasciando il padre pieno d'età forse più ch'io non sono,
perché in Creti non era studio sofficiente al suo valoroso intendimento. E
Giansone, più disposto all'armi che a' filosofichi studii, con nuova nave prima
tentò i pericoli del mare per andare all'isola de' Colchi a conquistare il
Montone con la cara lana, e con esso etterna fama, perché ne' suoi paesi non
potea mostrare la sua virtuosa forza, e giovanissimo abandonò i vecchi padre e
ziano sanza alcuna erede: l'onore del mondo né i celestiali regni non
s'acquistano sanza affanno. Io conosco manifestamente che effettuoso amore ti
strigne a essere sempre meco, e niuna altra cagione ti fa scusare l'andata; ma
l'andare a Montoro non sarà allontanarsi da me. Onde, caro figliuolo, va, e sì
sollecitamente con acconcio modo studia, che tu possi a me in brieve tempo
sanza più avere a studiare ricongiugnerti valoroso giovane».
[13]
Allora
Florio, non potendosi quasi più celare, però che ira e amore dentro l'ardeano,
rispose:
«Caro
padre, né Androgeo né Giansone non seguirono l'uno lo studio e l'altro l'armi,
se non per averne il glorioso fine disiderato da loro: e questo è manifesto. E
veramente a me non sarebbe grave il provare le tempestose onde del mare, né i
pericoli della terra, andando molto più lontano da voi, in qualunque parte del
mondo, che niuno di loro fece, credendovi io trovare la cosa da me disiata a
quietare la mia volontà. Ma che andrò io adunque cercando per lo mondo? Quel
ch'io amo e quel ch'io disidero è meco; voglio io andare perdendomi, e non
sapere in che? Voletemi voi fare usare il contrario degli altri uomini che
affannando vanno? Niuno è che affannando vada, se non a fine d'avere alcuna
volta riposo: e io, partendomi di qui, fuggirò il riposo per affannare! Io non
posso fare che io non mi vi scuopra: egli è qui nella nostra reale casa la
nobile Biancifiore, la quale io sopra tutte le cose del mondo amo; e certo non
sanza cagione: ella è l'ultimo fine de' miei disii, e solamente vedere il suo
bel viso, il quale più che matutina stella risplende, è quello che io disidero
di studiare. Onde io caramente vi priego che voi della mia vita aggiate pietà
sì come padre di figliuolo, la quale sanza fallo, dividendomi io da
Biancifiore, si dividerà da me. E acciò che 'l tempo in lungo sermone non si
occupi, vi dico che sanza lei io non sono disposto ad andare in alcuna parte
del mondo, né vicina né lontana di qui. Se lei volete mandar meco, mandatemi
ove volete, ché tutto mi parrà leggiero e grazioso l'andare. E dell'amore ch'io
porto a costei vi dovete voi molto contentare, pensando che Amore abbia tanto
bene per noi preveduto, che egli non ha consentito che io disiando donna
lontana da' nostri regni faccia come già fece Perseo, il quale tra li neri
indiani scelse Andromeda, e similemente Paris degli altrui regni ne portò Elena
insieme col fuoco che arse poi i suoi regni; e cercando lei abandoni voi
vecchio. Adunque da poi che Amore in un regno, in una città e in una medesima
casa m'ha conceduto dilettoso piacere, di sì grazioso dono gli siamo noi molto
tenuti. E poi che così è, io vi priego che vi piaccia che graziosamente e sanza
affanno voi mi lasciate questo singular bene possedere».
[14]
Sì
tosto come Florio tacque, il re, che non meno cruccioso era di lui, ben che nel
sembiante allegro si mostrasse, alquanto turbato così gli rispose:
«Ahi,
caro figliuolo, che è quello che tu di'? Io non avrei mai creduto che sì vile
cagione ti ritenesse da volere andare a pervenire a così alti effetti come lo
studiare nelle filosofiche scienze reca altrui. Sola pietà di me vecchio credea
ti ritenesse: ora hatti già tanto insegnato Amore, che sotto spezie di verità
porgi inganno a me, tuo padre? Hai tu questo appreso nel lungo studio che io
sotto la correzione di Racheio t'ho fatto fare? Oimè, che ora pur conosco io
manifestamente quello a che il tuo poco senno ti tira! e ben conosco che la
verità da' tuoi maestri mi fu porta, poi che così parli; e sanza fine di te mi
maraviglio, il quale mi vuoi dare a vedere che quello di che tu e io più ci
dovremmo dolere, ne dovremo far festa e ringraziare Amore; e non pensi quanta
sia la viltà, la quale ha il tuo animo occupato in disporti ad amare così fatta
femina, come tu ami; della qual cosa doppiamente se' da riprendere e
principalmente d'aver avuta sì poca costanza in te, che a sì vile passione,
com'è amare una femina oltre misura, hai lasciato vincere il tuo virile animo,
non ponendo mente quanti e quali sieno i pericoli che da questo amare sieno già
proceduti e procedano. Non udisti tu mai dire come miserabilmente Narcisso per
amore si consumò, e con quanta afflizione Biblide per amore divenne fontana? E
ancora gl'iddii sostennero noia di tal passione, e massimamente Apollo, il
quale, di tutte cose grandissimo medico, a sé medicina non poté porgere, poi
che ferire s'ebbe lasciato, forse non per viltà ma per provare; e in brieve,
niuno non è a cui questo amore non dissecchi le medolle dell'ossa. E tu con
disiderio il vai seguendo! Ma ancora di tutto questo, tenendo lo stile della
più gente, ti potresti scusare; ma non consideri tu di cui tu ti sei
innamorato, e per cui tu così faticosa passione sostieni? e ciò è d'una serva
nata nelle nostre case, la quale a comparazione di te non ti si confarebbe in
niuno atto. Deh! or ti fossi tu d'una valorosa e gran donna simile alla tua
nobiltà innamorato! assai mi dorrebbe, ma ancora mi sarebbe alcuna
consolazione. Io non ti potrei mai tanto sopra questo dire quanto io disidero;
ma però ch'io so che ancora in te medesimo, sanza riprensione alcuna, ti
riconoscerai del tuo errore, e rimarra'tene, mi taccio. E se io credessi che
ciò non avvenisse, certo legger cosa mi sarebbe ora io medesimo ucciderti. Ma
acciò che tu seguiti lo studio, io in questa parte, ancora che io conosca che
manifesto biasimo ti sia menarti dietro per le strane scuole quella che tu
sconciamente ami, ne seguirò il tuo volere; e sì tosto come tua madre, la quale
alquanto non sana è stata, come tu puoi vedere, avrà intera sanità ricuperata,
io la ti manderò a Montoro; e ora teco la ne manderei, se non fosse che sanza
lei tua madre in cotale atto non vuoi rimanere».
[15]
Turbossi
alquanto Florio veggendo il padre turbato, ma non pertanto quasi lagrimando
così li rispose:
«Padre
mio, sì come voi sapete, né il sommo Giove né il risplendente Apolto, da voi
ora davanti ricordato, né alcuno altro iddio ebbe all'amorevole passione
resistenza; né tra' nostri predecessori fu alcuno tanto di virile forza armato,
né sì crudo, che da simile passione non fosse oppresso. Adunque, se io
giovinetto contra così generale cosa non ho potuto resistere, certo non ne sono
io sì gravosamente da riprendere, come voi fate, ma emmi da rimettere, pensando
che il mio spirito è stato sì volgare, che per rigidezza non ha rifiutato
quello che ciascuno altro gentile ha sostenuto. E la mia forma, la quale mercé
degl'iddii è bellissima, richiede tale uficio, più tosto che alcuno altro. E
che si potrà giustamente dire a me s'io amo, poi che ad Ercule e ad Aiace
uomini robusti non si disdisse? Appresso dite che gravoso vi sembra pensando la
qualità della femina che io amo, però che popolaresca e serva la riputate; e
voi credo che in parte ignoriate di qual sangue questa giovane, cui io amo, sia
discesa, sì come quegli che ingiustamente il suo padre valoroso, resistente con
picciola schiera alla vostra moltitudine di gente, uccideste, il quale forse
non fu di minor qualità che voi siate, pensando alla grandezza di tanto animo
quanto nella sua fine mostrò. E ancora che certamente noi nol sappiamo, noi
pure avemo udito che la madre di costei, la quale voi non serva prendeste,
discese dell'alto sangue del vittorioso Cesare, già conquistatore de' nostri
regni per adietro. E posto che manifestamente la nazione di questa giovane
esser vile si conoscesse, sì conosciamo noi lei esser tanto gentile o più,
quanto se d'imperiale progenie nata fosse, se riguardiamo con debito stile che
cosa gentilezza sia, la quale troveremo ch'è sola virtù d'animo. E qualunque è
quelli che con animo virtuoso si truova, quelli debitamente si può e dee dire
gentile. E in cui si vide già mai tanta virtù, quanta in costei si truova e vede
manifestamente? Ella è di tutte generalmente vera fontana. In lei pare la
prudentissima evidenzia della cumana Sibilla ritornata; né fu la casta Penolope
più temperata di costei, né Catone, più forte negli avversarii casi, né con più
equalità d'animo: liberalissima la veggiamo. La grazia della sua lingua si
potrebbe adeguare alla dolcissima eloquenzia dell'antico Cicerone. A cui mai
tanta grazia concessero gl'iddii? Questa è sommamente virtuosa: adunque sanza
comparazione gentile. Non fanno le vili ricchezze, né gli antichi regni, forse
come voi, essendo in uno errore con molti, estimate, gli uomini gentili né
degni posseditori de' grandi uficii: ma solamente quelle virtù che costei tutte
in sé racchiude. Deh, or come mi potea o potrebbe già mai Amore di più nobil
cosa fare grazia? Questa ha in sé una singular bellezza, la quale passa quella
che Venus tenea, quando ignuda si mostrò nelle profonde valli dell'antica selva
chiamata Ida a Paris, la quale, ognora che io la veggio, m'accende nel cuore
uno ardore virtuoso sì fatto, che s'io d'un vile ribaldo nato fossi, mi faria
subitamente ritornare gentile. Né niuna volta è che io i suoi lucentissimi
occhi riguardi, che da me non fugga ogni vile intendimento, se alcuno n'avessi.
Adunque, poi che questa a virtuosa vita mi muove, non che ella è gentile, come
di sopra detto è, ma se ella fosse la più vil feminella del mondo, sì è ella da
dovere essere amata da me sopra ogni altra cosa. Ma poi che tanto v'aggrada che
io studii, acciò che riputato non mi possa essere in vizio il non ubidirvi,
farollo volentieri; ma se mia vergogna vi sembra che costei per le strane
scuole mi venga seguendo, levate la cagione acciò che non seguiti l'effetto:
non vi mandate me, il quale sono presto d'andarvi, poi che a voi piace, e
impromettetemi di mandarmi lei. Sieno del loro amore ripresi la trista Mirra e
lo scelerato Tireo e la lussuriosa Semiramis, i quali sconciamente e
disonestamente amarono, e me più non riprendete, se la mia vita v'aggrada».
[16]
Non
rispose più il re a Florio, però che sì gli vedeva gli argomenti presti, che
volendo parlare con lui avrebbe di gran lunga perduto, ma lasciandolo solo, si
partì da esso e comandò che s'acconciasse l'arnese, acciò che Florio la
seguente mattina n'andasse a Montoro.
[17]
Alle
parole state tra 'l re e Florio non era guari lontana la misera Biancifiore,
ma, celata in alcuno luogo, con intentivo animo tutte l'avea notate, ascoltando
quello ch'ella non avrebbe voluto udire né che per altrui le fosse stato
raportato. E bene avea con grave doglia intese le gravi riprensioni fatte a
Florio per l'amore che a lei portava, e similmente udito avea vilmente
dispregiarsi dal re, dicendo che serva era e di vile nazione discesa; ma di ciò
la vera e buona difensione di Florio, fatta in aiuto di lei, le rendé molto il
perduto conforto. Ma quando ella dire udì a Florio: «Poi che mandare mi dovete
Biancifiore a Montoro, io v'andrò», allora dolore intollerabile l'assalì, però
che manifestamente conobbe lo iniquo intendimento del re, il quale questo
impromettea per più leggiermente poter Florio allontanare da lei; e cominciò
con tacito pianto a lagrimare e a dire fra sé così: "Oimè, Florio, solo
conforto dell'anima mia, a cui io tutta mi donai per mia salute quel giorno che
tu prima mi piacesti, ora che credi tu? Alle cui parole t'hai tu lasciato
ingannare! Or non vedevi tu che mi ti prometteva di mandarmiti, perché tu
consentissi, come tu hai fatto, all'andata? Egli non mi manderà mai ove tu sii.
Deh, non conosci tu la falsità del tuo padre? Certo non che egli mandi me a te,
ma egli non lascerà mai te venire dove io sia. Tu ti sei lasciato ingannare con
meno arte che non lasciò Isifile: ella credette alle parole e agli atti, e alla
fede promessa, e alle lagrime dello ingannatore; ma tu per la menoma di queste
cose se' stato ingannato, e hai detto di sì di quella cosa che laida ti sarebbe
a tornare adietro; e non hai conosciuto che egli, non disideroso del tuo
studio, ma di trarre me della tua memoria, t'allontana da me, acciò che per
distanza tu mi dimentichi! Oimè, or dove abandoni tu, o Florio, la tua
Biancifiore? Ove n'andrai tu con la mia vita? Oimè, misera! E io come sanza
vita rimarrò? E se a me vita rimarrà, come sarà ella fatta trovandomi sanza
esser teco continuamente e sanza vederti? O luce degli occhi miei, perché ti
fuggi tu da me? Oimè, quale speranza mi potrà mai di te riconfortare, che con
la tua bocca hai consentita e impromessa la partita? O beata Adriana, che
ingannata dal sonno e da Teseo, dopo poche lagrime meritò miglior marito! E più
felice Fedra, che col suocero in nome d'amante finì il disiato cammino! Or mi
fosse stata licita l'una di queste felicità: o l'essere stata da te con ingegno
abandonata o d'averti potuto seguire. Oimè, se quello amore il quale tu m'hai
più volte con piacevole viso mostrato è vero, perché nel cospetto della
crudeltà del tuo padre non piangevi tu, veggendo che i prieghi non valeano? E'
non ti si disdicea, ché ciascuno sa che alcuno non può dar legge all'amorevole
atto, però che la forza d'amore tiene l'uomo, più che alcun altro vinco,
costretto. Io credo che se le tue lagrime fossero state con prieghi mescolate
egli avrebbe conceduto che tu fossi avanti qua rimaso che vedutoti più
lagrimare, però che la pietà, che sarebbe stata da avere di te, avrebbe vinto e
rimutato il suo nuovo proponimento: ché tutti i padri non hanno gli animi
feroci contra i figliuoli come ebbe Bruto, primo romano consolo, il quale
giustamente per la sua crudeltà fu da riprendere. Ma, oimè!, che se 'l tuo
amore non è falso, tu dovevi sofferire aspri tormenti anzi che consentire di
dovervi andare, o almeno, per consolazione di me misera, farviti quasi per
forza menare. Né in questo ti si disdicea l'essere al tuo padre disubidiente,
però che, quando cosa impossibile si dimanda, è lecito il disdirla. Come ti
sarà egli possibile il partirti sanza me, se le tue parole a me dette per
adietro non sono quali fu rono quelle del falso Demofonte a Filis, il quale la
promessa fede e le vele della sua nave diede ad un'ora a' volanti venti? O come
potrai tu in alcuna parte sanza cuore andare? Tu mi solevi dire ch'io l'avea
nelle mie mani e che io sola era l'anima e la vita tua: ora se tu sanza queste
cose ti parti, come potrai vivere? Oimè misera, quanto dolore è quello che mi
strigne, pensando che tu contra te medesimo sii incrudelito, né hai avuta
alcuna pietà alla tua vita! Or con che viso ti potrò io pregare che della mia
t'incresca, alla quale alcuna compassione dovresti avere avuta, pensando che io
per te la metterei ad ogni pericolo, credendoti da noia allontanare? Tu avrai,
partendoti, guadagnata la tua morte e la mia: e se non morte, vita più dolorosa
che morte non ci falla! Tu te n'andrai a Montoro col vero corpo, e io misera
rimarrò seguendoti sempre con la mente; né mai in alcuna parte sanza me sarai,
e niun diletto da te fia preso, che io con lamentevole disio non ti seguiti
addesso. Né fia per te fatto alcuno studio che io similemente imaginando non
studii, disiderando più tosto di convertirmi in libro per essere da te veduta,
che stare nella mia forma da te lontana. Ma certo la fortuna e gl'iddii hanno
ragione d'essere avversi a' nostri disii, i quali abbiamo sì lungamente avuto
spazio di potere toccare l'ultime possanze d'amore, e mai non le tentammo: la
qual cosa forse, se stata fosse fatta, o più forte vinco avrebbe te meco a me
teco legato, per lo quale partiti non potremmo essere stati di leggere, come
ora saremo, o quello che ci strigne si sarebbe o tutto o in maggior parte
soluto, né mi dorrebbe tanto la tua partenza. Certo per le dette ragioni me ne
duole, ma per la servata onestà sono contenta che la nostra età sia stata
casta, alla quale ancora ben bene sì fatta cosa non si convenia. E appresso
credo che forse gl'iddii ci serbano più lieti congiungimenti, e con migliore
cagione: ma, oimè dolente!, che questo non so io, né già per tale speranza il
mio dolor non scema! Or volessono gl'iddii che, poi che dividere mi debbo da
te, che se' solo mio bene, mia luce e mia speranza, mi fosse licito il morire!
Oimè, Aretusa, quanto miseramente, fuggendo il tuo amante, divenisti fontana! e
io più affannata di dolore che tu di paura, non sono da loro udita, né però si
muovono a pietà! Ahimè, Ecuba, quanto ti fu felice nel tuo ultimo dolore, poi
che morte t'era negata, il convertirti in cane! Io ti porto invidia; e
similmente alla tua morte, o Meleagro, la cui vita dimorava nel fatato bastone,
però ch'io disidererei che i tuoi fati si fossero rivolti sopra di me! O sommi
iddii, se i miseri meritano d'essere uditi, io vi priego che di me v'incresca,
e che voi al mio dolore o fine o conforto sanza indugio mandiate. E tu, o più
che crudele, te ne va', ché in verità mai nel tuo aspetto non conobbi che
crudeltà in te dovesse aver luogo. Ma poi che lontanandoti la dimostri, io ti
giuro per l'anima della mia madre che mai sanza continua sollecitudine non
sarò, sempre pensando com'io a vedere ti possa venire. E quale che modo io mi
elegga, se io non sarò mandata a te, io vi pur verrò".
[18]
Florio,
che malvolentieri a' piaceri del padre avea consentito, ricevuto il
comandamento del doversi partire la seguente mattina, e partitosi il re da lui,
solo pensando si pose a sedere, e fra se medesimo dicea: "Oimè, or che ho
io fatto? A che ho io consentito? Alla mia medesima distruzione, per ubidire il
crudel padre! Or come mi potrò io mai partire sanza Biancifiore? Deh, or non
poteva io almeno dicendo pur di no, aspettare quello ch'egli avesse fatto? Di
che aveva io paura? Ucciso non m'avrebbe egli, ché io non m'avrei lasciato. Né
niuna peggior cosa mi potea fare che da sé cacciarmi: la qual cosa egli non
avrebbe mai fatto; ma se pur fatto l'avesse, Biancifiore non ci sarebbe rimasa,
però che meco ove che io fossi andato l'avrei menata; la quale io più
volentieri, sanza impedimento d'alcuno, liberamente possederei, che io non
farei la grande eredità del reame che m'aspetta. Ma poi che promesso l'ho, io
v'andrò, acciò che non paia ch'io voglia tutto ogni cosa fare a mia maniera.
Egli m'ha impromesso di mandarlami; se elli non la mi manda, io avrò legittima
cagione di venirmene dicendo: "Voi non m'atteneste lo 'mpromesso dono: io
non posso più sostenere di stare lontano da lei per ubidire voi". E da
quella ora in avanti mai più un tal sì non mi trarrà della bocca, quale egli ha
oggi fatto. Se egli me la manda, molto sono più contento d'esser con lei
lontano da lui che in sua presenza stare, e più beata vita mi riputerò
d'avere". E con questo pensiero si levò e andonne in quella parte ove egli
ancora trovò Biancifiore, che tutta di lagrime bagnata ancora miseramente piangea;
a cui egli, quasi tutto smarrito guardandola, disse:
«O
dolce anima mia, qual è la cagione del tuo lagrimare?». La quale prestamente
dirizzata in piè, piangendo gli si fece incontro, e disse:
«Oimè,
signor mio, tu m'hai morta: le tue parole sono sola cagione del mio pianto. O
malvagio amante, non degno de' doni della santa dea, alla quale i nostri cuori
sono disposti, or come avesti tu cuore di dire tu medesimo sì di dovermi
abandonare? Deh, or non pensi tu ove tu m'abandoni? Io, tenera pulcella, sono
lasciata da te come la timida pecora tra la fierità de' bramosi lupi. Manifesta
cosa è che ogni onore, il quale io qui ricevea, m'era per lo tuo amore fatto,
non perché io degna ne fossi, sì come a colei che era tua sorella da molti
riputata per lo nostro egual nascimento. E molti, invidiosi della mia fortuna,
a me, per loro estimazione, prospera e benivola tenuta per la tua presenza,
ora, partendoti tu, non dubiteranno la loro nequizia dimostrare con aperto
viso, avendola infino a ora per tema di te celata. Ma ora volessero gl'iddii
che questo fosse il maggior male che della tua andata mi seguitasse! Ma tu mi
lasci l'animo infiammato del tuo amore, per la qual cosa io spero d'avere sanza
te angosciosa vita! la quale, ancora che io da te non abbia meritata, mi fia
bene investita, però che, quando prima ne' tuoi begli occhi vidi quel piacere,
che poi a' tuoi disii mi legò il cuore con amoroso nodo, sanza pensare alla mia
qualità vile e popolaresca, e ancora in servitudine coatta, in niuna maniera da
potere alla tua magnificenza adeguare, mi lasciai con isfrenata volontà
pigliare, aggiungendo al tuo viso piacevolezza col mio pensiero. Onde se tu,
ora, abandonandomi sì come cosa da te debitamente poco cara tenuta, e Amore,
costringendomi di te, da me stoltamente amato, con greve doglia mi punite,
faccendomi riconoscere la mia follia, questo non posso né io né alcuno altro
dire che si sconvenga. E se non fosse che io fermamente credo che alcuna parte
di quella fiamma amorosa, la qual pare che per me ti consumi, t'accenda il
cuore, se vero è che ogni amore acceso da virtù, com'è il mio verso di te,
sempre accese la cosa amata, sol che la sua fiamma si manifesti, io avrei
sconciamente nociuto alla mia vita, però che Cupido da piccolo spazio in qua
m'ha più volte posta in mano quella spada, con la quale la misera Dido nella
partita di Enea si passò il petto, acciò che io quello uficio essercitassi in
me: e certo io l'avrei per me volentieri fatto, ma dubitando d'offendere quella
piccola particella d'amore che tu mi porti, mi ritenni, tenendo solamente la
mia vita cara per piacere a te. Ma gl'iddii sanno quale ella sarà partendoti
tu, però che io non credo che mai giorno né notte sia, che io non sofferi molti
più aspri dolori che il morire non è. Ma forse tu ti vuogli scusare che altro
non puoi; ma non bisogna scusa al signore verso il vassallo: tanto pur udi' io
che tu con la tua bocca dicesti d'andare a Montoro! Oimè, or m'avessi tu detto
davanti: "Biancifiore, pensa di morire, però che io intendo d'abandonarti",
però che tu non dovevi dire sì a fidanza delle vane e false parole di tuo
padre, il quale ti promise di mandarmi a te. Certo egli nol farà già mai, però
che egli guarda di farti tanto da me star lontano, che io possa essere uscita
della tua mente».
Queste
e molte altre parole, piangendo e tal volta porgendogli molti amorosi baci, gli
diceva Biancifiore, quando Florio non potendo le lagrime ritenere, rompendole
il parlare, le disse così:
[19]
Oimè, dolce anima mia, or che è quello che tu
di'? Come potrei io mai consentire se non cosa che ti piacesse? Tu ti duoli
della menoma parte de' nostri danni. Principalmente già sai tu che mai per me
onorata non fosti, ma sola la tua virtù è stata sempre cagione debita agli
onoranti di tale onore farti: la qual virtù per la mia partita non credo che
manchi, né similemente l'onore. E chi sarebbe quelli che contra te potesse
incrudelire, o per invidia o per altra cagione? certo nullo; e se pure alcuno
ne fosse, io non sarò sì lontano che tu di leggieri non possi farlomi sentire,
acciò che io con subita tornata qui punisca la iniquità di quelli: e però di
questo vivi sicura e sanza pensiero. Ma, ohimè, che di quel fuoco, del qual tu
di' che io ti lascio l'anima accesa, io ardo tutto! E veramente mentre io starò
lontano da te, la mia vita non sarà meno angosciosa che la tua: e io il sento
già, però che nuova fiamma mi sento nel cuore aggiunta. Ma sanza fine mi
dolgono le parole le quali tu di', avvilendoti sanza alcuna ragione. E certo di
quello che io ora dirò, né me ne sforza amore né me n'inganna, ma è così la
verità come io estimo. In te niuna virtù pate difetto, né belli costumi fecero
mai più gentilesca creatura nell'aspetto, che i tuoi, sanza fallo buoni, fanno
te. La chiarità del tuo viso passa la luce d'Appollo né la bellezza di Venere
si può adeguare alla tua. E la dolcezza della tua lingua farebbe maggiori cose
che non fece la cetera del trazio poeta o del tebano Anfion. Per le quali cose
lo eccelso imperador di Roma, gastigatore del mondo, ti terrebbe cara compagnia,
e ancora più: ch'egli è mia oppinione che, se possibil fosse che Giunone
morisse, niuna più degna compagna di te si troverebbe al sommo Giove. E tu ti
reputi vile? Or che ha la mia madre più di valore di te, la quale nacque de'
ricchissimi re d'Oriente? Certo niuna cosa, né tanto, traendone il nome, che è
chiamata reina. Adunque per lo tuo valore se' tu da me degnamente amata, sì
com'io poco inanzi dissi al mio padre. E cessino gl'iddii che tu in niuno atto
o per nulla cagione t'avessi offesa o t'offendessi, però che niuna persona
m'avrebbe potuto ritenere, che io subitamente non mi fossi con le propie mani
ucciso. Vera cosa è, e ben lo conosco, che, consentendo io l'andata mia a
Montoro, io diedi a te gravoso dolore; ma certo e' non dolfe più a te che a me.
Ma che volevi tu che io facessi più avanti? Volevi tu che io con mio padre
avessi sconce parole per quello che ancora si può ammendare? Se a te tanto
dispiace la mia andata, comanda che io non vi vada: egli potrà assai urtare il
capo al muro, che io sanza te vi vada! E se tu consenti che io vi vada, egli
m'ha promesso di mandarmiti: la qual cosa se egli non fa, io volgerò tosto i
passi indietro, però che io so bene che sanza te vivere non potrei io
lungamente. E non pensare che mai, per lontanarmi da te, egli mi possa mai
trarre te della mente, che, quanto più ti sarò col corpo lontano, tanto più ti
sarò con l'anima vicino, ché certo impossibile sarebbe ch'io ti dimenticassi,
se tutto Letè mi passasse per la bocca. Però, anima mia, confortati, e lascia il
lagrimare; e fa ragione ch'io sia sempre teco, e non pensare che 'l mio amore
sia lascivo come fu quello di Giansone e di molti altri, i quali per nuovo
piacere sanza niuna costanza si piegavano. Veramente io non amerò mai al tra
che te, né mai altra donna signoreggerà l'anima mia se non Biancifiore».
E
dicendo queste parole, piangeano amenduni teneramente, spesso guardando l'uno
l'altro nel viso, e tal volta asciugando ora col dilicato dito, ora col lembo
del vestimento, le lagrime de' chiari visi.
[20]
Nel
tempo della seconda battaglia stata tra 'l magnifico giovane Scipione Africano
e Annibale cartaginese tiranno, essendo già la fama del valore di Scipione
grandissima, avvenne che uscito del campo d'Annibale un cavaliere in fatto
d'arme virtuosissimo, chiamato Alchimede, con molti compagni per prender preda
nel terreno de' romani, acciò che 'l campo d'Annibale copioso di vittuaglia
tenessero, Scipione, uscitogli incontro, dopo gran battaglia tra loro stata,
gli sconfisse, e lui ferì mortalmente abbattendolo al campo. Alchimede,
vedendosi abbattuto e sentendosi solo, da' suoi abandonato e ferito a morte,
alzò il capo e riguardò il giovane, il quale la sua lancia avea a sé ritratta,
forse per riferirlo, e videlo nel viso piacevole e bello, e niente parea robusto
né forte come i suoi colpi il facevano sentire, a cui egli gridò:
«O
cavaliere, non ferire, però che la mia vita non ha bisogno di più colpi a
essere cacciata che quelli che io ho, né credo che il sole tocchi le sperie
onde che l'anima mia fia a quelle d'Acheronta. Ma dimmi se tu se' quel valoroso
Scipione cui la gente tanto nomina virtuoso».
Il
quale Scipione, riguardandolo, e udita la voce, il riconobbe, però che in altra
parte aveva la sua forza sentita, e disse:
«O
Alchimede, io sono Scipione».
Allora
Alchimede gli porse la destra mano e con fievole voce gli disse:
«Disarma
il già morto braccio, e quello anello il quale nella mia mano troverai,
prendilo e guardalo, però che in lui mirabile virtù troverai: che a qualunque
perso na tu il donerai, elli, riguardando in esso, conoscerà incontanente se
noioso accidente avvenuto ti fia, però che il colore dell'anello vedrà mutato,
e sì tosto come egli l'avrà veduto, la pietra tornerà nel primo colore bella. E
a me per tale cagione il donò Asdrubal, fratello al mio signore Annibale, a cui
tu tanto se' avverso, quando di Spagna mi partii da lui, che più che sé
m'amava. Io sento al presente la mia vita fallire, e sola d'alcuno amico; onde,
se io qui muoio con esso, o perderassi, o troverallo alcuno il quale forse la
sua virtù non conoscerà, o che forse non sarà degno d'averlo: e però io amo
meglio che tu, posto che offeso m'abbi, il tenghi in guiderdone della tua
virtù, che alcuno altro il possegga per alcuno de' detti modi».
E
detto questo, la debole testa sopra il destro omero bassò; e dopo picciolo
spazio si morì. Scipione, prestamente disarmata la mano del rilucente ferro,
più disioso della virtù dell'anello che del valore, trovò il detto anello
bellissimo, e fino oro il suo gambo, la pietra del quale era vermiglia, molto
chiara e bella: il quale egli prese, e mentre che viveo con gran diligenza il
guardò. Ma poi, pervenendo d'uno discendente in altro della casa, pervenne al
valoroso Lelio, il quale, essendo consueto d'andare sovente per lo bene della
republica, come valoroso cavaliere non tralignante da' suoi antichi, fuori di
Roma contro a' resistenti, donò questo anello alla misera Giulia, dicendole la
virtù, acciò che ella sanza cagione di lui non dubitasse. E quando lo
infortunato caso da non ricordare l'avvenne, l'avea ella in mano, e per dolore
il si trasse e diedero a guardare a Glorizia, dicendo:
«Omai
non ho io di cui io viva più in dubbio, né per cui la virtù del presente anello
più mi bisogni».
Ma
dopo la morte di Giulia, Glorizia il donò a Biancifiore, dicendole come del
padre di lei era stato e appresso della madre, e la virtù di lui: il quale
Biancifiore lungo tempo caramente guardò. E ricordandosene allora, lo portò
dove Florio era, e così cominciò piangendo a parlare:
[21]
«Deh,
perché s'affannano le nostre mani a rasciugare le lagrime de' nostri visi nel
principio del nostro dolore? Sia di lungi da me che io mai di lagrimare ristea,
mentre che tu sarai lontano da me. Oimè, che tu mi dì: "Comanda che io non
vada a Montoro!". Deh, or perché bisognava egli che io il ti comandassi?
Non sai tu come io volentieri vi ti vedrò andare? Tu il dovevi ben pensare. Ma
volentieri i' 'l farei, se convenevole mi paresse; ma però che io non disidero
meno che 'l tuo dovere s'adempia che 'l mio volere, poi che tu promettesti
d'andarvi, fa che tu vi vada, acciò che vituperevole cosa non paia, volendosene
rimanere, il disdire quello che tu hai promesso. E acciò che le tue parole non
paiano vento, io concedo, così volentieri come Amore mi consente, che tu vi
vada, e ubidendo anzi adempi il piacere del tuo padre. Ma sopra tutte le cose
del mondo ti priego che tu per assenza non mi dimentichi per alcuna altra
giovane. Io so che Montoro è copioso di molti diletti: tutti ti priego che da
te siano presi. Solamente a' tuoi occhi poni freno quando le vaghe giovani
scalze vedrai andare per le chiare fontane, coronate delle frondi di Cerere,
cantando amorosi versi, però che a' loro canti già molti giovani furono presi:
però che se io sentissi che alcuna con la sua bellezza di nuovo t'infiammasse,
come furiosa m'ingegnerei di venire dove tu e ella fosse; e se io la trovassi,
con le propie mani tutta la squarcerei, né nel suo viso lascerei parte che
graffiata non fosse dalle mie unghie, né niuno ordine varrebbe a' composti
capelli che io, tutti tirandoglieli di capo, non gli rompessi; e dopo questo,
per vituperevole e etterna sua memoria, co' propii denti del naso la priverei:
e questo fatto, me medesima m'ucciderei. Questo non credo però che possibile
sia di dovere avvenire: ma sì come leale amante ne dubito, e però il dico. Tu
avrai molti altri diletti, e ciascuno s'ingegnerà di piacerti, acciò che io ti
dispiaccia: ma io mi fido nella tua lealtà. E però che io sono certa che come
tu in molti e varii diletti starai, così io in molte avversità, le quali forse
io non ti potrò far note così com'io vorrei, ti voglio pregare, poi che
gl'iddii adoperano verso noi tanta crudeltà, e la fortuna ne mostra le sue
forze in dipartirci, che ti piaccia per amore di me portar questo anello, il
quale, mentre che io sanza pericolo dimorerò, sempre nella sua bella chiarezza
il vedrai, ma, come io avessi alcuna cosa contraria, tu il vedrai turbare. Io
ti priego che allora sanza niuno indugio mi venghi a vedere: e priegoti che tu
sovente il riguardi, ogni ora ricordandoti di me che tu il vedi. Più non ti
dico, se non che sempre il tuo nome sarà nella mia bocca, sì come quello che
solo è nella memoria segnato, e nello innamorato cuore col tuo bel viso
figurato. Tu solo sarai i miei iddii, i quali io pregare debbo della mia
felicità: a te saranno tutte le mie orazioni diritte, sì come a quelli in cui i
miei pensieri tutti si fermano per aver pace. Veramente una cosa ti ricordo:
che s'egli avviene che il tuo padre non mi mandi a te come promesso t'ha, che
il tornare tosto facci a tuo potere, però che se troppo sanza vederti
dimorassi, lagrimando mi consumerei».
E
dette queste parole, piangendo gli si gittò al collo; né prima abbracciando si
giunsero, che i loro cuori, da greve doglia costretti per la futura partenza,
paurosi di morire, a sé rivocarono i tementi spiriti, e ogni vena vi mandò il
suo sangue a render caldo, e i membri abandonati rimasero freddi e vinti, e
essi caddero semivivi, avanti che Florio potesse alcuna parola rispondere. E così,
col natural colore perduto, stettero per lungo spazio, sì che chi veduti gli
avesse, più tosto morti che vivi giudicati gli avrebbe. Ma dopo certo spazio,
il cuore rendé le perdute forze a' sopiti membri di Florio, e tornò in sé tutto
debole e rotto, come se un gravissimo affanno avesse sostenuto, e tirando a sé
le braccia, gravate dal candido collo di Biancifiore, si dirizzò, e vide che
questa non si movea, né alcun segnale di vita dimostrava. Allora elli, ripieno
di smisurato dolore, appena che la seconda volta non ricadde, e disiderato
avrebbe d'esser subitamente morto; ma veggendo che 'l dolore nol consentiva,
piangendo forte si recò la semiviva Biancifiore in braccio, temendo forte che
la misera anima non avesse abandonato il corpo e mutato mondo, e con timida
mano cominciò a cercare se alcuna parte trovasse nel corpo calda, la quale di
vita gli rendesse speranza. Ma poi che egli dubbioso non consentiva alla
verità, ché forse caldo trovava e pareagli essere ingannato, cominciò piangendo
a baciarla, e dicea:
«Oimè,
Biancifiore, or se' tu morta? Deh, ove è ora la tua bella anima? In quali parti
va ella sanza il suo Florio errando? Oimè, or come poterono gl'iddii essere
tanto crudeli ch'elli abbiano la tua morte consentita? O Biancifiore, deh,
rispondimi! Oimè, ch'io sono il tuo Florio che ti chiamo! Deh, or tu mi parlavi
ora inanzi con tanto effetto, disiderando di mai da me non ti partire, e ora
solamente non mi rispondi! Or se' tu così tosto sazia dell'essere meco? Oimè,
che gl'iddii mi manifestano bene ora che di me sono invidiosi e hannomi in
odio. Ma di questo male m'ha più cagione il mio crudel padre, il quale sì
subitamente ha affrettata la mia partita. O crudele padre, tu l'avrai
interamente! Le parole da me dette stamattina ti saranno dolente agurio e oggi
ti faranno dolente portatore del fuoco, ove tu miseramente ardere mi vedrai: la
tua crudeltà è stata cagione della morte di costei, e ella e tu sarete cagione
della mia. Vivere possi tu sempre dolente dopo la mia morte, e gl'iddii
prolunghino gli anni tuoi in lunga miseria! Or ecco, o anima graziosa, ove che
tu sii, rallegrati che io m'apparecchio di seguitarti, e quali noi fummo di qua
congiunti, tali infra le non conosciute ombre in etterno amandoci staremo
insieme. Una medesima ora e uno medesimo giorno perderà due amanti, e alle loro
pene amare sarà principio e fine».
E
già avea posto mano sopra l'aguto coltello, quando egli si chinò per prima
baciare il tramortito viso di Biancifiore, e chinandosi il sentì riscaldato, e
vide muovere le palpebre degli occhi, che con bieco atto riguardavano verso di
lui. E già il tiepido caldo, che dal cuore rassicurato movea, entrando per li
freddi membri, recando le perdute forze, addusse uno angoscioso sospiro alla
bocca di Biancifiore, e disse:
«Oimè!».
Allora
Florio, udendo questo, quasi tutto riconfortato, la riprese in braccio e disse:
«O
anima mia dolce, or se' tu viva? Io m'apparecchiava di seguitarti nell'altro
mondo».
Allora
si dirizzò Biancifiore con Florio insieme, e ricominciarono a lagrimare. Ma
Florio, veggendola levata, disse:
«O
sola speranza della vita mia, ove se' tu infino a ora stata? Qual cagione t'ha
tanto occupata? Io estimava che tu fossi morta! Oimè, perché pigli tu tanto
sconforto per la mia partita? Tu me la concedi con le parole, e poi con gli
atti pieni di dolore il mi vieti. Io ti giuro per li sommi iddii che, s'io vi
vado, che o tu verrai tosto a me come promesso m'ha il mio padre, o io poco vi
dimorerò, che io tornerò a te; e mentre che io là dimorerò, o ancora, mentre
ch'io starò, in vita, mai altra giovane che te non amerò. E però confortati, e
lascia tanto dolore: ché s'io credessi che questa vita dovessi tenere, io in
niuno atto v'andrei; o s'io vi pure andassi, credo che pensando al tuo dolore
morrei. E promettoti per la leal fede che io ti porto, come a donna della mia
mente, che il presente anello, il quale ora donato m'hai, sempre guarderò,
tenendolo sopra tutte cose caro, e spesso riguardandolo, sempre imaginerò di
veder te. E se mai accidente avviene che egli si turbi, niuno accidente mi
potrà ritenere che io non sia a te sanza alcuno indugio: e però io ti priego
che tu ti conforti».
Queste
parole, e altre molte, con amorosi baci mescolati di lagrime e di sospiri
furono tra Florio e Biancifiore quanto quel giorno mostrò la sua luce; ma poi
che egli chiudendola tornò tenebroso, i due amanti pensosi teneramente dicendo
"A Dio!" si partirono, tornando ciascuno sospirando alla sua camera.
[22]
Quella
notte fu a' due amanti molto gravosa, e non fu sanza molti sospiri trapassata,
ancor che assai brieve la riputassero, però che più tosto avrebbero quelle pene
sostenute essendo così vicini, che doversi il vegnente giorno partire. Ma poi
che il sole sparse sopra la terra la sua luce, e i cavalli e la compagnia di
Florio furono nella gran corte del real palagio apparecchiati aspettando lui,
Florio si levò e con lento passo n'andò davanti al re suo padre e alla reina,
dove Biancifiore similmente pensosa già era venuta; e fatta la debita riverenza
al padre, e preso congedo dalla madre, la quale in vista non sana, giaceva
sopra un ricco letto, prima si voltò verso il re e poi verso la madre, e
caramente raccomandò loro Biancifiore, pregandoli che tosto gliele mandassero,
e poi abbracciata Biancifiore, in loro presenza la baciò dicendo:
«A
te sola rimane l'anima mia; chi onorerà te onorerà lei»; e appena così
parlando, costrinse con vergogna le lagrime, che il greve dolore che il cuor
sentiva si sforzava di mandar per gli occhi fuori, e appena con voce intera
poté dire:
«Rimanetevi
con Dio»; e discese le scale, salì a cavallo, e sanza più indugio si partì.
[23]
Molto
dolfe a tutti la partita di Florio, posto che il re e la regina contenti ne
fossero, credendo che il loro avviso dovesse per quella partita venir fatto; ma
sopra tutti dolse a Biancifiore. Ella l'accompagnò infino in piè delle scale,
sanza far motto l'uno all'altro; e poi che a cavallo il vide, riguardato lui
con torto occhio, tacita se ne tornò indietro, e salì sopra la più alta parte
della real casa, e quivi, guardando dietro a Florio, stette tanto, quanto
possibile le fu il vederlo. Ma poi che più veder nol poté, ella, accomandandolo
agl'iddii, si tornò alla sua camera, faccendo sì gran pianto, che ne sarebbe
presa pietà a chiunque udita l'avesse o veduta, e dicea:
«Oimè,
Florio, or pur te ne vai tu: or pure ho io veduto quello che io non credetti
che mai gli occhi miei sostenessero di potere vedere! Deh, or quando sarà che
io ti rivegga? Io non so com'io mi faccia; io non so come io sanza te possa
vivere. Oimè, perché non morii io ieri nelle tue braccia, quando io fui sì
presso alla morte, che tu credesti ch'io morta fossi? Io non sentirei ora
questa doglia per la tua partenza: l'anima mia ne sarebbe andata lieta, in
qualunque mondo fosse ita, essendo io morta in sì beato luogo».
Glorizia,
la quale allato le sedea, piangea forte per pietà di lei, e piangendo la
confortava quanto più potea, dicendo:
«O
Biancifiore, deh, pon fine alle tue lagrime: vuoi tu piangendo guastare il tuo
bel viso, e consumarti tutta? Tu ti dovresti ingegnare di rallegrarti, acciò
che la tua bellezza, conservata, multiplicasse sì che, quando tu andrai a
Montoro, tu potessi piacere a Florio, il quale, se consumata ti vede, ti rifiuterà:
e io so che tu vi sarai tosto mandata, sì come io ho udito dire al re.
Confortati, che se Florio sapesse che tu questa vita menassi, egli
s'ucciderebbe. Or che faresti tu s'egli fosse andato molto più lontano, dove a
te non fosse licito l'andare? E' non si vuol far così ! Usanza è che gli uomini
e le donne innamorate spesso abbiano per partenze o per altri accidenti alcune
pene: ma non tali chente tu le prendi; pensa che tu questa vita durare non
potresti lungamente, e, se tu morissi, tu faresti morire lui: adunque se per
amore di te non vuoi prendere conforto, prendilo per amor di lui, acciò ch'e'
viva».
E
con cotali parole e con molte altre appena la poté racconsolare.
[24]
Ma
Florio, partito, alquanto si turbò nel viso, mostrando il dolore che
l'angoscioso animo sentiva. Andavano i suoi compagni lasciando i volanti
uccelli alle gridanti grue, faccendo loro fare in aria diverse battaglie. E
altri con gran romore sollecitavano per terra i correnti cani dietro alle
paurose bestie. E così, chi in un modo e chi in un altro, andavano prendendo
diletto, mostrando a Florio alcuna volta queste cose, le quali molta più noia
gli davano che diletto: però che egli alcuna volta imaginando andava d'essere
stretto dalle dilicate braccia di Biancifiore, come già fu, e non gli parea
cavalcare; le quali imaginazioni sovente, col mostrarli le cacce, gli erano
rotte. Ma egli poco a quelle riguardando, pur verso la città, la quale egli mal
volontieri abandonava, si rivolgea; e così volgendo s'andò infino che licito
gli fu di poterla vedere. E così andando con lento passo, costoro s'erano molto
avvicinati a Montoro, quando il duca Ferramonte, che la sua venuta avea saputa,
contento molto di quella, con molti nobili uomini della terra s'apparecchiò di
riceverlo onorevolemente. E coverti sé e i loro cavalli di sottilissimi e belli
drappi di seta, rilucenti per molto oro, circundati tutti di risonanti sonagli,
con bigordi in mano, accompagnati da molti strumenti e varii, e coronati tutti di
diverse frondi, bigordando e con la festa grande gli vennero incontro, faccendo
risonare l'aere di molti suoni.
Quando
Florio vide questo, sforzatamente si cambiò nel viso, mostrando allegrezza e
festa, quella che del tutto era di lungi da lui; e con lieto aspetto il duca e
i suoi compagni ricevette, e fu da loro ricevuto. E con questa festa, la quale
quanto più alla terra s'appressavano tanto più crescea, n'andarono infino nella
città, della quale trovarono tutte le rughe ornate di ricchissimi drappi, e piena
di festante popolo. Né niuna casa v'era sanza canto e allegrezza: ogni uomo in
qualunque età facea festa, e similemente le donne cantando versi d'amore e di
gioia. Pervenne adunque Florio con costoro al gran palagio del duca, e quivi
con tutto quello onore che pensare o fare si potesse a qualunque iddio, se
alcuno in terra ne discendesse, fu Florio da' più nobili della terra ricevuto.
E, scavalcati, tutti salirono alla gran sala, e quivi per picciolo spazio
riposatisi presero l'acqua e andarono a mangiare. E poi per amore di Florio,
molti giorni solennemente per la città festeggiarono.
[25]
Biancifiore
così rimasa, alquanto da Glorizia riconfortata, ogni giorno andava molte fiate
sopra l'alta casa, in parte onde vedeva Montoro apertamente, e quello riguardando
dopo molti sospiri avea alcun diletto, imaginando e dicendo fra se medesima:
"Là è il mio disio e il mio bene". E tal volta avvenia che stando
ella sentiva alcun soave e picciolo venticello venire da quella parte e ferirla
per mezzo della fronte, il quale ella con aperte braccia ricevea nel suo petto,
dicendo: "Questo venticello toccò il mio Florio, com'egli fa ora me,
avanti che egli giungesse qui"; e poi, quindi partendosi, andava in tutti
quelli luoghi della casa ov'ella si ricordava d'avere già veduto Florio, e
tutti gli baciava, e alcuni ne bagnava alcune volte d'amare lagrime. Questi
erano i templi degl'iddii e gli altari, i quali ella più visitava. E niuna
persona venia da Montoro, che ella o tacitamente o in palese non domandasse del
suo Florio. Ella mai non mangiava che Florio da lei non fosse molte fiate
ricordato; e s'ella andava a dormire, non sanza ricordare più volte Florio vi
si ponea, e niuna cosa sanza il nome di Florio non faceva; e se ella dormendo
alcun sogno vedea, sì era di Florio; e per questo sempre avrebbe di dormire
disiderato, acciò che spesso in tale inganno dormendo si fosse trovata: ben che
poi, trovandosi dal sonno ingannata, le fosse gravosa noia. E sempre pregava
gl'iddii che 'l suo Florio da infortunoso caso guardassero e che le dessero
grazia che tosto potesse andare a lui, o egli tornare a essa. Ella non si
curava mai di mettere i suoi biondi capelli con sottile maestria in dilicato
ordine, ma quasi tutta rabuffata sotto misero velo gli lasciava stare. Né mai
curava di lavarsi lo splendido viso, o di vestire i preziosi e belli
vestimenti, però che non v'era a cui ella disiderasse di piacere. E il cantare
e l'allegrezza e la festa tutta avea lasciato per intendere a sospirare. Né
niuno strumento era che allora da lei molestato fosse, ma tacitamente sperando
di tosto riveder Florio prendea quel conforto che ella poteva, tenendo sempre
l'anima nelle mani di Florio.
[26]
E
Florio simigliantemente a niuna cosa, stando a Montoro, avea tanto lo
'ntendimento fisso quanto alla sua Biancifiore, né era da lei una volta
ricordato che egli non ricordasse lei infinite. E così come Montoro era da
Biancifiore vagheggiato e rimirato spesso, così egli riguardava sovente
Marmorina. Né niuno suo ragionamento era già mai se non d'amore o della
bellezza della sua Biancifiore, la quale sopra tutte le cose disiava di vedere.
Egli da quel dì che Amore occultamente gli accese del suo fuoco infino a
quell'ora non la baciò mai, né fece alcun altro amoroso atto, che cento volte
il dì fra sé nol ripetesse, dicendo: "Deh, ora mi fosse licito pur di
vederla solamente!"; e fra sé sovente piangea il tempo il quale indarno
gli parea avere perduto stando con Biancifiore sanza baciarla e abbracciarla,
dicendo che se mai più con lei per tal modo si ritrovasse, come già era
trovato, mai più per ozio o per vergogna non perderebbe che egli non spendesse
il tempo in amorosi baci. Egli si portava saviamente molto, prendendo col duca
e con Ascalion e con altri molti varii diletti, quali nel iemale tempo prendere
si possono, sperando sempre che il re di giorno in giorno gli dovesse mandar
Biancifiore. E con questi diletti mescolati di speranza, sempre aspettando,
assai leggiermente si passò tutto quel verno sanza troppa noia, però che
alquanto l'amoroso caldo per lo spiacevole tempo era nel cuore rattiepidato e
ristretto. Ma poi che Febo si venne appressando al Monton frisseo, e la terra
incominciò a spogliarsi le triste vestige del verno, e a rivestirsi di verdi e
fresche erbette e di varie maniere di fiori, incominciarono a ritornare l'usate
forze nell'amorose fiamme, e cominciarono a cuocere più che usate non erano per
adietro nella mente allo innamorato Florio. Egli per lo nuovo tempo trovandosi
lontano a Biancifiore, incominciò a provare nuovo dolore da lui ancora non
sentito in alcun tempo, che egli dicea così:
«Ora
pur festeggia tutta Marmorina, e la mia Biancifiore, stando all'alte finestre
della nostra casa, vede i freschi giovani sopra i correnti cavalli, adorni di
bellissimi vestimenti, passarsi davanti, e ciascuno per la bellezza di lei si
volge a riguardarla. Or chi sa se alcuno tra' molti ne le piacerà, per lo quale
non potendo ella veder me, e avendomi dimenticato, s'innamori di colui? Oimè,
che questo m'è forte a pensare che possa essere; ma tuttavia la poca stabilità
la qual nelle donne si trova, e massimamente nelle giovani, me ne fa molto
dubitare; e se questo pure avvenisse che fosse, niuna cosa altro che la morte
mi sarebbe beata. O sommi iddii, se mai per me o per li miei antichi si fece o
si dee far cosa che alla vostra deità aggradi, cessate che questo non sia».
E
questo pensiero più che altro gli stava nella mente. Egli non vedea alcuna
giovane che 'l riguardasse, che egli immantanente non dicesse:
«Oimè,
così fa la mia Biancifiore; i non conosciuti giovani ella li mira tutti, così
come costoro fanno me, cui esse forse mai più non videro. E qual cagione recò
Elena ad innamorarsi dello straniere Paris se non la follia del suo marito,
che, andandosene all'isola di Creti, lasciò lei assediata da' piacevoli occhi
dello innamorato giovane? Né mai Clitemestra si sarebbe innamorata di Egisto,
se Agamenon fosse con lei continuamente stato: il quale poi lei insieme con la
vita per tale innamoramento perdé. Ma di questo non m'ha colpa se non la empia
nequizia del mio padre, il quale gl'iddii consumino, così come egli fa me
consumare. Egli m'impromise più volte di mandarlami sanza fallo qua
brievemente, e mai mandata non me l'ha. Oimè, che ora conosco il manifesto suo
inganno e truovo che vere sono le parole che Biancifiore mi disse, dicendo che
mai non ce la manderebbe e che egli qua non mi mandava se non perch' ella
m'uscisse di mente. Oh, come male è il suo avviso venuto al pensato fine, con
ciò sia cosa che io mai del suo amore non arsi com'io ardo ora».
E
istando Florio in questi pensieri, in tanto gl'incominciò a crescere il disio
di volere vedere Biancifiore che egli non trovava luogo, né ad altro pensar
poteva né giorno né notte. Egli avea per questo ogni studio abandonato, né di
mangiare né di bere parea che gli calesse: e tanto dubitava di tornare a
Marmorina sanza licenza del re, acciò che egli a far peggio non si movesse, che
egli volea avanti sostenere quella vita così noiosa; e era già tale nel viso
ritornato, che di sé facea ogni uomo maravigliare. E non avendo ardire di
tornare in Marmorina, andava il giorno sanza alcun riposo cercando gli alti
luoghi, de' quali egli potesse meglio vedere la sua paternale casa, ove egli
sapeva che Biancifiore dimorava. E similmente la notte non dormiva, ma furtivamente
e solo se n'andava infino alle porti del palagio del suo padre, non dubitando
d'alcun fiero animale, o d'ombra stigia, o d'insidie di ladroni, né d'altra
cosa: e quivi giunto, si ponea a sedere e con sospiri e con pianto più volte le
baciava, dicendo:
«O
ingrate porti, perché mi tenete voi che io non posso appressarmi al mio disio,
il quale dentro da voi serrato tenete?».
E
certo egli più volte fu tentato o di picchiare acciò che aperto gli fosse, o di
romperle per passar dentro, ma per paura della fierità del padre, il cui
intendimento già apertamente conoscere gli parea, se ne rimanea, tornandosi a
Montoro per l'usata via. E sì lo stringea amore, che vita ordinata non potea
tenere, ma sì disordinatamente la tenea, che più volte il duca e Ascalion
avedendosene il ne ripresero; ma poco giovava. E pur da amore costretto, più
volte mandò a dire al re che omai il caldo era grande, e allo studio più
intendere non potea, e però egli se ne volea con suo congedo tornare a
Marmorina.
[27]
Il
re, il quale più volte avea inteso che Florio voleva a Marmorina tornare, e
similemente avea udito a molti recitare la dolorosa vita che Florio a Montoro
menava, da grieve dolor costretto, sospirando se n'andò in una camera dove la
reina era; il quale sì tosto come la reina il vide, il dimandò quello che egli
avea, che sì pieno d'ira e di malinconia nell'aspetto si dimostrava. Il re
rispose:
«Noi
ci allegrammo molto dell'andata di Florio a Montoro, credendo che egli
incontanente dimenticasse Biancifiore, ma egli m'è stato detto da più persone
che la sua vita è tanto angosciosa, perché egli non può venire a vederla, che
ciò è maraviglia. E diconmi più, che egli del tutto lo studiare ha lasciato: la
qual cosa fosse il maggior danno che mai seguire ce ne potesse! Ma egli ancora
da grande amore costretto non mangia né dorme, ma in pianto e in sospiri
consuma la sua vita: per la qual cosa egli è nel viso tornato tale che poco più
fu Erisitone quando in ira venne a Cerere: e non pare Florio, sì è impalidito, e
non vuole udire d'altrui parlare che di Biancifiore, né prendere vuole alcun
conforto che porto gli sia. Né a questo vale alcuna riprensione che fatta gli
sia; e ancora m'ha mandato più volte dicendo che venir se ne vuole; ond'io non
so che mi fare, se non che d'ira e di malinconia mi consumo e ardo».
[28]
Grave
parve molto alla reina udire quelle parole, e, accesa d'ira nel viso,
subitamente rispose:
«Ahi,
come gl'iddii giustamente ti pagano! Or che avevi tu a fare co' romani
pellegrinanti, quando tu tanti n'uccidesti? E poi che tanti n'avevi uccisi,
perché la vita ad una sola femina, che di grazia dimandava la morte, lasciasti?
Certo o la morte di coloro o la vita di quella spiacque loro: per la qual cosa
essi nel ventre di quella occulto fuoco ti mandarono in casa. Or chi dubita che
mentre che Biancifiore viverà, Florio mai non la dimenticherà? Certo no, e
questo è manifesto. E così per la vita di costei perderemo Florio; e così per
una vil femina potremo dire che perduto abbiamo il nostro figliuolo. Adunque
pensisi come costei muoia».
Rispose
il re:
«E
avanti oggi che domani, ché certo mi pare che, come voi dite, mai mentre ella
sarà in vita, non sarà dimenticata da Florio».
Allora
disse la reina:
«E
come faremola noi subitamente morire sanza avere cagione che legittima paia? Se
noi il facciamo, e' ce ne potrà gran biasimo seguitare. E certo se Florio il
risapesse, e' sarebbe un dargli materia di disperarsi e d'uccidersi se
medesimo, o di partirsi da noi, in maniera che mai nol rivedremmo. Ma, quando a
voi paresse, qui sarebbe da procedere con lento passo, e, quando luogo e tempo
fosse, trovarle alcuna cagione adosso, per la quale faccendola morire, ogni
uomo giudicasse che ella giustamente morisse; e così saremo di mala fama e
della vita di Biancifiore insieme disgravati».
E
sanza guari pensare, la reina più avanti disse:
«E
la cagione potrà essere questa. Voi sapete che il giorno, nel quale per tutto
il vostro regno si fa la gran festa della vostra natività, s'appressa; e dove
ch'ella si faccia grandissima, sì si fa ella qui in Marmorina. E niuno gran
barone è nel vostro regno che con voi non sia a questa festa: e però quando
essi saranno nella vostra gran sala assettati alle ricche tavole, ciascuno
secondo il grado suo, allora ordinate col siniscalco vostro che o pollo o altra
cosa in presenza di tutti vi sia da parte di Biancifiore presentato, o che
Biancifiore medesima da sua parte il vi rechi davanti, acciò che paia che ella
con la bellezza del suo viso venendovi davanti voglia rallegrar la festa; ma
veramente abbiate ordinato col siniscalco che qual che si sia quella cosa
ch'ella apporterà, celatamente di veleno sia piena. E come il presente davanti
a voi sarà posato, e ella partita del vostro cospetto, fate che in alcun modo o
cane o altra bestia faccia la credenza, acciò che altra persona non ne morisse:
della qual cosa chiunque sarà il primo mangiatore, o subitamente morrà, o
enfierà, per la potenza del veleno. E così a tutti fia manifesto che ella abbia
voluto avvelenare voi; e come voi avrete questo veduto, fate che voi vi
turbiate molto, e, faccendo il romore grande, la facciate prendere, e
subitamente giudicare per tale offesa al fuoco. Chi sarà colui che non dica che
tale morte sia ragionevole, o che, veggendovi turbato, vi prieghi per la sua
salute? E certo questo non vi sarà malagevole a fare, però che il siniscalco
vostro l'ha in odio molto; e la cagione è questa, che egli più volte ha voluto
il suo amore, e ella sempre l'ha rifiutato faccendosi di lui beffe».
«Certo
- disse il re - voi avete ben pensato, e così sanza indugio si farà, né già
pietà che la sua bellezza porga mi vincerà».
[29]
Partissi
il re dalla reina e fece chiamare a sé incontanente Massamutino, suo
siniscalco, uomo iniquo e feroce, al quale egli disse così:
«Tu
sai che mai a' tuoi orecchi niuno mio segreto fu celato, né mai alcuna cosa
sanza il tuo fedel consiglio feci: e questo solamente è avvenuto per la gran
leanza la quale io ho trovata in te. Ora, poi che gl'iddii hanno te eletto a
mio segretario, più che alcuno altro, io ti voglio manifestare alcuna cosa del
mio intendimento, del tutto necessaria di mettere ad effetto, la quale sanza
manifestare mai ad alcuno, fa che tenghi occulta; però che se per alcun tempo
fosse rivelata ad altrui, sanza fallo gran vergogna ce ne seguirebbe, e forse
danno. Ciascuno, il quale vuole sua vita saviamente menare seguendo le virtù,
dee i vizi abandonare, acciò che fine onorevole gli seguisca; ma quando
avvenisse che viziosa via per venire a porto di salute tenere gli convenisse,
non si disdice il saviamente passare per quella acciò che maggior pericolo si
fugga: e fra gli altri mondani prencipi che più nelle virtuose opere si sono
dilettati, sono stato io uno di quelli, e tu il sai. Ma ora nuovo accidente a
forza mi conduce a cessarmi alquanto da virtuosa via, temendo di più grave
pericolo che non sarà il fallo che fare intendo; e dicoti così, che a me ha la
fortuna mandato tra le mani due malvagi partiti, i quali sono questi: o voglio
io ingiustamente far morire Biancifiore, la quale in verità io ho amata molto e
amo ancora, o voglio che Florio, mio figliuolo, per lei vilmente si perda; e
sopra le due cose avendo lungamente pensato, ho preveduto che meno danno sarà
la morte di Biancifiore che la perdenza di Florio, e più mio onore e di coloro
che dopo la mia morte deono suoi sudditi rimanere: e ascolta il perché. Tu sai
manifestamente quanto Florio ama Biancifiore; e certo se egli, giovanissimo
d'età e di senno, è di lei innamorato, ciò non è maraviglia, ché mai natura non
adornò creatura di tanta bellezza, quanta è quella che nel viso a Biancifiore
risplende; ma però che di picciola e popolaresca condizione, sì come io estimo,
è discesa, in niuno atto è a lui, di reale progenie nato, convenevole per
isposa; e io dubitando che tanto amore non l'accendesse della sua bellezza, che
egli se la facesse sposa, per fargliele dimenticare il mandai a Montoro, sotto
spezie di volerlo fare studiare. Ma egli già per questo non l'ha dimenticata,
ma, secondo che a me è stato porto, egli per l'amore di costei si consuma, e,
rimossa ogni cagione, ne vuole qua venire: onde io dubito che, tornando egli,
dare non me gliele convenga per isposa, e s'io non gliele do, che egli niuna
altra ne voglia prendere. E se egli avvenisse che io gliele donassi, o che egli
da me occultamente la si prendesse, primieramente a me e a' miei sanza fallo
gran vergogna ne seguirebbe, pensando al nostro onore, tanto abassato per
isposa discesa di sì vile nazione, come estimiamo che costei sia. Appresso, voi
nol vi dovreste riputare in onore, considerando che, dopo costui, signore vi
rimarrebbe nato di sì picciola condizione, come sarebbe nascendo di lei. E s'io
non gliele dono per isposa, egli niun'altra ne vorrà, e non prendendone alcuna
altra, sanza alcuna erede seguirà l'ultimo giorno: e così la nostra signoria
mancherà, e converravvi andar cercando signore strano. Adunque, acciò che
queste cose dette si cessino, è il migliore a fare che Biancifiore muoia, come
detto ho, imaginando che com'ella sarà morta, egli per forza se la caccerà di
cuore, dandogli noi subitamente novella sposa tale, quale noi crederemo che a
lui si confaccia. Ma però che del fare subitamente morire Biancifiore ci
potrebbe anzi vergogna che onore seguire, ho pensato che con sottile inganno
possiamo aver cagione che parrà giusta e convenevole alla sua morte: e odi
come. E' non passeranno molti giorni che la gran festa della mia natività si
farà, alla quale tutti i gran baroni del mio reame saranno a onorarmi: in quel
giorno ti conviene ordinare che tu abbi fatto apparecchiare uno paone bello e
grasso, e pieno di velenosi sughi, il quale fa che Biancifiore il mi presenti
da sua parte, quando io e' miei baroni staremo alla tavola. E acciò che alcuno
non prendesse di questa opera men che buona presunzione, veggendolo più tosto
recare a Biancifiore che ad alcuno altro scudiere o damigella, sì le dirai che
a me e a tutti coloro i quali alla mia tavola meco sederanno, col paone in mano
vada domandando le ragioni del paone, le quali se non da gentile pulcella possono
essere adimandate. E sì tosto come questo fatto avrai, e ella avrà lasciato
davanti a me il paone, io, faccendone prendere alcuna stremità, e gittarla in
terra, so che alcuno cane la ricoglierà, la quale mangiando subitamente morrà.
E quinci sembrerà a tutti quelli che nella sala saranno, che Biancifiore
m'aggia voluto avvelenare, e imagineranno che Biancifiore abbia voluto far
questo, perché io la dovea mandare a Montoro, e non la vi ho mandata. E io
mostrandomi allora di questo forte turbato, so che, secondo il giudizio di
qualunque vi sarà, ella sarà giudicata a morte: la qual cosa io comanderò che
sanza indugio sia messa ad essecuzione, e così saremo fuori del dubbio nel
quale io al presente dimoro».
Poi
che il re ebbe così detto, e egli si tacque aspettando la risposta del
siniscalco; la quale fu in questo tenore:
[30]
«Signor
mio, sanza dubbio conosco la gran fede, la quale in me continuamente avuta
avete, la quale sempre con quella debita lealtà che buon servidore dee a
naturale signore servare, ho guardata e guarderò mentre in vita dimorerò. E
l'avviso, il quale fatto avete, a niuno, in cui conoscimento fosse, potrebbe
altro che piacere: onde io il lodo, e dicovi che saviamente proveduto avete,
con ciò sia cosa che non solamente il giudicare le preterite cose e le presenti
con diritto stile è da riputare sapienza, tanto quanto è le future con
perspicace intendimento riguardare. E sanza dubbio, se molto durasse la vita di
Biancifiore, quello che narrato m'avete, n'avverrebbe; ma mandando inanzi
cautamente le predette cose, credo sì fare che il vostro intendimento verrà
fornito sanza che alcuno mai niente ne senta».
E
questo detto, sanza più parlare, partirono il maladetto consiglio.
[31]
Oimè,
misera Biancifiore, or dove se' tu ora? Perché non ti fu e' lecito d'udire
queste parole, come quelle della partenza del tuo Florio? Tu forse stai a
riguardar que' luoghi ove tu continuamente con l'animo corri e dimori,
disiderando d'esservi corporalmente. O tu forse con isperanza o d'andare a
Montoro a veder Florio, o che Florio ritorni a veder te, nutrichi l'amorose
fiamme che ti consumano, e non pensi alle gravi cose che la fortuna
t'apparecchia a sostenere? A te pare ora stare nella infima parte della sua
rota, né puoi credere che maggior dolore ti potesse assalire, che quello che tu
hai per l'assenza di Florio, ma tu dimori nel più alto luogo, a rispetto che tu
starai. Oimè, che tu, lontana allo iniquo consiglio, spandi amare lagrime per
amore, le quali più tosto per pietà di te medesima spandere dovresti, avvegna
che a coloro che semplicemente vivono, gl'iddii provengono a' bisogni loro, e
molte volte è da sperare meglio quando la fortuna si mostra molto turbata, che
quando ella falsamente ride ad alcuno.
[32]
La
reale sala era di marmoree colonne di diversi colori ornata, le quali
sosteneano l'alte lammie che la coprivano, fatte con non picciolo artificio e
gravi per molto oro, e le finestre divise da colonnelli di cristallo, i cui
capitelli e d'oro e d'argento erano, per le quali la luce entrava dentro ad
essa. Nelle notturne tenebre non si chiudeano con legno, ma l'ossa degl'indiani
elefanti, commesse maestrevolemente e con sottili intagli lavorate, v'erano per
porte; e in quella sala si vedeano ne' rilucenti marmi intagliate l'antiche
storie da ottimo maestro. Quivi si potea vedere la dispietata ruina di Tebe, e
la fiamma dei due figliuoli di locasta, e l'altre crudeli battaglie fatte per
la loro divisione, insiememente con l'una e con l'altra distruzione della
superba Troia. Né vi mancava alcuna delle gran vittorie del grande Alessandro.
E con queste ancora vi si mostrava Farsalia tutta sanguinosa del romano sangue,
e' prencipi crucciati, l'uno in fuga e l'altro spogliare il ricco campo degli
orientali tesori. E sopra tutte queste cose v'era intagliata la imagine di
Giove, vestita di più ricca roba che quella che Dionisio fero già gli spogliò,
intorniato d'alberi d'oro, le cui frondi non temevano l'autunno, e i loro pomi
erano pietre lucentissime e di gran valore. In questa sala, quando il giorno della
gran festa venne, furono messe le tavole, sopra le quali risplendeano copiosa
quantità di vasella d'oro e d'argento; né fu alcuno strumento che là entro quel
giorno non risonasse, accompagnato da dolcissimi e diversi canti. Né in tutta
Marmorina fu alcun tempio che visitato non fosse, né alcuno altare di qualunque
iddio vi fu sanza divoto fuoco e debito sacrificio, da' quali il re e gli altri
gran baroni tornando si raunarono nella detta sala, tutti lodando la bellezza
d'essa. E appressandosi l'ora del mangiare, presa l'acqua alle mani, andarono a
sedere. Il re s'assettò ad una tavola, la quale per altezza sopragiudicava
tutte l'altre, e con seco chiamò sei de' più nobili e maggiori baroni che seco
avesse, faccendone dalla sua destra sedere tre e altrettanti dalla sinistra,
stando di reali vestimenti in mezzo di loro vestito. E quelli che dalla sua
dritta mano gli sedea allato, fu un giovane chiamato Parmenione, disceso
dell'antico Borea, re di Trazia; appresso del quale seguiva Ascalion,
nobilissimo cavaliere e antico per età e per senno, degno d'ogni onore; e poi
sedea un altro giovane chiamato Messaallino, figliuolo del gran re di Granata,
piacevolissimo giovane e valoroso. Ma dalla sua sinistra Ferramonte duca di
Montoro più presso gli sedea, il quale avea Florio quel giorno lasciato soletto
per venire a tanta festa; appresso il quale uno chiamato Sara, ferocissimo
nell'aspetto, e signore de' monti di Barca, sedea con un giovane grazioso
molto, chiamato Menedon, di Giarba re de' Getuli disceso. Appresso, nelle più
basse tavole, ciascuno secondo il grado suo fu onorato, serviti tutti da
nobilissimi giovani e di gran pregio.
[33]
Massamutino,
al quale non era già il comandamento del re uscito di mente, fece occultamente
e con molta sollecitudine apparecchiare un bel paone, il quale egli di sugo
d'una velenosa erba tutto bagnò, pensando che quello giorno per tale operazione
si vedrebbe vendico di Biancifiore, che per amadore l'avea rifiutato. E fatto
questo, avendo già la reale mensa e l'altre di più vivande servite, né quasi
altro v'era rimaso a fare che mandare il paone, accompagnato con più scudieri
andò per Biancifiore, la quale la reina, acciò che ella non potesse niente di
male pensare, avea fatta quel giorno vestire nobilmente d'un vermiglio sciamito
e mettere i biondi capelli in dovuto ordine con bella treccia avolti al capo,
sopra li quali una piccola coronetta ricca di preziose pietre risplendea, e 'l
chiaro viso, già lungamente di lagrime bagnato, lavato quel giorno per volere
della reina, dava piacevole luce a chi il vedea, posto che questo Biancifiore
avea mal volentieri fatto, pensando che 'l suo Florio non v'era. Ma perché
bisognava alla reina tanto ingegno ad ingannare la semplice giovane? Ella non
avrebbe mai saputo pensare quello che ella non avrebbe saputo né ardito di fare
ad alcuno. Ma venuto il siniscalco davanti alla reina, e salutata lei e la sua
compagna, disse così:
«Madonna,
oggi si celebra, sì come voi sapete, la gran festa della natività del nostro
re, per la qual cosa volendo noi la nostra festa fare maggiore e più bella,
provedemmo di fare apparecchiare un paone, il quale noi vogliamo fare davanti
al re presentare e a' suoi baroni, acciò che ciascuno, faccendo quello che a
tale uccello si richiede, si vanti di far cosa per la quale la festa divenga
maggiore e più bella; né sì fatto uccello è convenevole d'esser portato alla
reale tavola se non da gentilissima e bella pulcella; né io non ne conosco
alcuna, né qua entro né in tutta la nostra città, che a Biancifiore si possa
appareggiare in alcuno atto. E però caramente vi priego che a sì fatto servigio
vi piaccia di concederle licenza, che con noi venga incontanente, però che
l'ora del portarlo è venuta, né si può più avanti indugiare».
La
reina, che ben sapeva come l'opera dovea andare, sì come quella che ordinata
l'avea, stette alquanto sanza rispondere; ma poi che la crudele volontà vinse
la pietà che di Biancifiore le venne, udendo ch'ella era richiesta ad andare a
quella cosa per la quale a morte doveva essere giudicata, e ella disse:
«Certo
questo ci piace molto»; e voltata verso Biancifiore, le disse: «Vavvi »,
ammaestrandola che saviamente i debiti del paone adimandasse a tutti i baroni
che alla reale tavola dimoravano, sanza andare ad alcuno altro, e poi davanti
al re posasse il paone, e ritornassesene, tenendo bene a mente quello in che
ciascuno si vantava. Biancifiore, disiderosa di piacere e di servire a tutti,
sanza aspettare più comandamenti se n'andò col siniscalco. Il quale, poi che
presso furono all'entrare della sala, le pose in mano un grande piattello
d'argento, sopra 'l quale l'avvelenato paone dimorava, dicendo:
«Portalo
avanti, però che più non è da stare».
Biancifiore,
preso quello sanza farsene fare alcuna credenza, non avedendosi dello inganno,
e con esso passò nella sala, nella quale, sì tosto com'ella entrò, parve che
nuova e maravigliosa luce vi crescesse per la chiarezza che dal suo bel viso
movea; e fatta la debita reverenza al re, e con dolce saluto tutti gli altri
che mangiavano salutati, s'appressò alla reale mensa, e con vergognoso atto,
dipinta nel viso di quel colore che il gran pianeto, partendosi l'aurora, il
cielo in diverse parti dipinge, così disse:
[34]
«Poi
che gl'iddii si mostrano verso me graziosi e benigni, avendomi conceduto che io
a questo onore, più tosto che alcuna altra giovane, eletta fossi a portare
davanti alla vostra real presenza il santo uccello di Giunone, il quale per
quella dea, al cui servigio già fu disposto, merita che qualunque alla sua
mensa il dimanda si doni alcun vanto, il quale poi ad onore di lei con
sollecitudine adempia: onde io per questo prendo ardire a dimandarlovi, e
caramente vi priego che voi né i vostri compagni a ciò rendere mi siate
ingrati, ma con benigni aspetti continuiate la valorosa usanza. E voi,
altissimo signore, sì come più degno per la real dignità, e per senno e per
età, prima, se vi piace, comincerete, acciò che gli altri per essemplo di voi
debitamente procedano».
E
qui si tacque.
[35]
Al
nuovo e mirabile splendore si voltarono tutti i dimoranti della gran sala, non
meno che alla chiara voce di Biancifiore, piena di soavissima melodia; e a lei
graziosamente rendero il suo saluto. E il re, il quale allegro era nell'animo
però che già vedea per la pensata via appressarsi il disiderato fine, con lieto
viso, poi che tutta la sala tacque, le disse:
«Certo,
Biancifiore, la tua bellezza adorna di virtuosi costumi, e la degnità del santo
uccello insieme, meritano degnamente ricchissimi vanti; né a questi alcuno di
noi può debitamente disdirsi: ond'io, sì come principale capo del nostro regno,
comincerò, poi che la ragione e 'l tuo piacere l'adimanda».
E
voltato verso l'antica imagine di Giove, nella sua sala riccamente effigiata,
disse così:
«E
io giuro per la deità del sommo Giove, la cui figura dimora davanti da noi, e
per qualunque altro iddio insieme con lui possiede i celestiali regni, e per lo
mio antico avolo Atalante, sostenitore d'essi regni, e per l'anima del mio
padre, che avanti che 'l sole ritocchi un'altra volta quel grado ove egli ora
dimorando ci porge lieta luce, se essi mi concedono vita, d'averti donato per
marito uno de' maggiori baroni del mio reame: e questo per amore del presente paone
ti sia da ora promesso».
Assai
coperse il re con queste parole il suo malvagio volere, ignorando quello che i
fati gli apparecchiavano; e ella sospirando tacitamente al suono di queste
parole, notò in se medesima i detti del re pigliandoli in buono agurio, fra sé
dicendo: "Dunque avrò io per marito Florio, il quale io solo per marito e
per amico disidero, però che nullo barone è maggiore di lui in questo
regno"; poi, ringraziato il re onestamente e con sommessa voce, con
picciolo passo procedette avanti, fermandosi nel cospetto di Parmenione, il
quale incontanente così disse:
«Io
prometto al paone che, se gl'iddii mi concedono che io vi vegga per
matrimoniale patto donare ad alcuno, quel giorno che voi al palagio del novello
sposo andrete, io con alquanti compagni, nobilissimi e valorosi giovani,
vestiti di nobilissimi drappi e di molto oro rilucenti, adestreremo il vostro
cavallo e voi sempre con debita reverenza e onore, infino a tanto che voi ricevuta
nella nuova casa scavalcherete».
«Adunque
- disse Biancifiore - più che Giunone mi potrò io di conducitori gloriare»; e
passò avanti ad Ascalion, che in ordine seguiva alla reale mensa, dicendo:
«O
caro maestro, e voi che vantate al paone?».
Rispose
Ascalion:
«Bella
giovine, posto che io sia pieno d'età e che la mia destra mano già tremante
possa male balire la spada, sì mi vanto io per amor di voi al paone, che quel
giorno che voi novella sposa sarete, la qual cosa gl'iddii anzi la mia morte mi
facciano vedere, io con qualunque cavaliere sarà nella vostra corte disideroso
di combattere meco, con le taglienti spade sanza paura combatterò, obligandomi
di sì saviamente combattere, che sanza offendere io lui o egli me, o voglia
egli o no, io gli trarrò la spada di mano e davanti a voi la presenterò».
Ciascuno
che questo udì si maravigliò molto, dicendo che veramente sarebbe da riputare
valoroso chi tal vanto adempiesse. Ma Biancifiore andando avanti venne in
presenza di Messaallino, il quale vedendola, quasi della sua bellezza preso,
disse:
«Giovane
graziosa, per amore di voi io vanto al paone che quel giorno che voi prima
sederete alla mensa del novello sposo, io vi presenterò dieci piantoni di
dattero coperti di frondi e di frutti, non d'una natura con gli altri, però che
quelli, de' quali la mia terra è copiosa, a ciascuna radice hanno appiccato un
bisante d'oro».
Inchinandogli,
Biancifiore il ringraziò; e volto i passi suoi verso il duca Ferramonte, che
alla sinistra del re sedea, e davanti a lui posato il paone, gli richiese
quello che avanti agli altri avea richiesto. A cui il duca rispondendo, disse:
«E
io imprometto al paone che per la piacevolezza vostra, il giorno che novella
sposa sarete, e appresso tanto quanto la vostra festa durerà, di mia mano della
coppa vi servirò quanto vi piaccia».
«Certo
- disse Biancifiore - di tal servidore Giove non che io, si glorierebbe»; e
passò avanti a Sara, il quale come davanti se la vide, disse:
«Io
voto al paone che quel giorno che gl'iddii vi concederanno onore di
matrimoniale compagno, io vi donerò una corona ricchissima di molte preziose
pietre e di risplendente oro bellissima, e ove che io sia, se io saprò davanti
la vostra festa, verrò a presentarlavi con le mie mani».
Il
quale tacendo, subitamente Menedon soggiunse:
«E
io prometto al paone che se gl'iddii mi concedono che io maritata vi veggia,
tanto quanto la festa delle vostre nozze durerà, io con molti compagni, vestiti
ciascuno giorno di novelli vestimenti di seta, sopra i correnti cavalli, con
aste in mano e con bandiere bigordando e armeggiando, a mio potere essalterò la
vostra festa».
Ringraziollo
Biancifiore, e tornata indietro, davanti al re posò il paone, e così disse:
«Principalmente
voi, o caro signore e singulare mio benefattore, e appresso questi altri baroni
tutti, quanto io posso, degl'impromessi doni vi ringrazio, e priego
gl'immortali iddii che, là dove la mia possa al debito guiderdone mancasse, che
essi con la loro benigna mente di ciò vi meritino».
E
questo detto, onestamente fatta la debita reverenza, si partì, e con lieto viso
tornò alla reina, narrandole gl'impromessi doni. A cui la reina disse:
«Ben
ti puoi omai gloriare, pensando che uno sì fatto prencipe qual è il nostro re,
e sei cotali baroni quali sono coloro che con lui sedeano, si sono tutti in tuo
onore e piacere obligati».
[36]
Rimase
sopra la real mensa il velenoso uccello, il quale il re, come Biancifiore fu
partita, comandò che tagliato fosse; per la qual cosa un nobilissimo giovane
chiamato Salpadin, al re per consanguinità congiuntissimo, il quale quel giorno
davanti li serviva del coltello, prese con presta mano il paone, e, gittata in
terra alcuna estremità, incominciò a volere smembrare il paone; ma non prima
caddero le gittate membra, che un cane piccioletto, al re molto caro, le prese,
e, mangiandole, incontanente gl'incominciò a surgere una tumorosità del ventre,
e venirgli alla testa, la quale tanto gliele ingrossò subitamente, che quasi
era più la testa fatta grande che essere non solea tutto il corpo; e
similemente discorsa per gli altri membri, oltre a' loro termini grossi e
enfiati gli fece divenire; e i suoi occhi, infiammati di laida rossezza, parea
che della testa schizzare gli dovessero, e con doloroso mormorio, mutandosi di
più colori, disteso tal volta in terra e talora in cerchio volgendosi, in
piccolo spazio scoppiando quivi morì. La qual cosa da molti veduta, la gran
sala fu tutta a romore, e i soavissimi strumenti tacquero, mostrando questo al
re, il quale incontanente gridò:
«E
che può ciò essere?».
E
voltato a Salpadin, il quale già volea fare la credenza, disse:
«Non
tagliare; io dubito che noi siamo villanamente traditi: prendasi un altro
membro del presente paone e gittisi ad un altro cane, però che questo qui
presente morto per veleno mostra che morisse, onde che egli il prendesse, o
delle stremità da te gittate in terra, o d'altra parte».
Salpadin
sanza alcuno dimoro gittò la seconda volta un maggiore membro ad un altro cane,
il quale non prima mangiato l'ebbe, che, con simile modo voltandosi che 'l
primo, del mortale dolore affannato, cadde e quivi in presenza di tutti morì.
Onde il re con furioso atto gridando:
«Chi
ha la nostra vita con veleno voluta abreviare?», e gittata in terra la tavola
che davanti a lui era, si dirizzò, e comandò che subitamente Biancifiore e 'l
siniscalco e Salpadin fossero presi, però che di loro dubitava che alcuno
d'essi tre avvelenare l'avesse voluto co' suoi compagni. O sommo Giove, or non
potevi tu sostenere che quel cibo avesse ingannato lo 'ngannatore, avanti che
la innocente giovane tanta persecuzione ingiustamente sostenesse? Or tu
sofferesti che i tuoi compagni fossero co' membri umani tentati alla tavola di
Tantalo, quando a Pelopo, perduto l'omero, fu rifatto con uno d'avorio; e
similemente sostenesti che il misero Tireo fosse sepoltura dell'unico suo
figliuolo! Erati così grave per giusta vendetta abbagliare lo iniquo senso del
re Felice? Ma tu forse per fare con gli avversi casi conoscere le prosperità,
pruovi le forze degli umani animi, poi con maggior merito guiderdonandoli.
[37]
Furono
presi i tre sanza niuno dimoro con noiosa furia, e messi in diverse prigioni.
Ma poi che Biancifiore fu subitamente presa, niuno fu che mai parlare le
potesse, né ella ad altrui. Del siniscalco e di Salpadin furono le scuse
diligentemente intese, e per innocenti in brieve lasciati, mostrando il
siniscalco davanti a tutta gente con false menzogne Biancifiore e non altri
avere tal fallo commesso. Di questo ciascuno si maravigliò, non potendo alcuno
pensare né credere che Biancifiore avesse tal malvagità pensata; ma pure il
manifesto presentare del paone facea a molti non potere disdire quello che e'
medesimi non avrebbero voluto credere. Ma poi che il gran romore fu alquanto
racchetato, e il siniscalco e Salpadin per le loro scuse sprigionati, il re
fece chiamare a consiglio molta gente, e principalmente coloro che con lui
erano quella mattina stati alla tavola, e adunato con molti in una camera,
disse così:
«Sanza
dubbio credo che a voi sia manifesto che io oggi sono stato in vostra presenza
voluto avvelenare; e chi questo abbia voluto fare, ancora è apertissimo per
molte ragioni che Biancifiore è stata; la qual cosa molto mi pare iniqua a sostenere
che sanza debita punizione si trapassi, pensando al grande onore che io nella
mia corte l'ho fatto, sì come di recarla da serva a libertate, farla
ammaestrare in iscienza e continuamente vestirla di vestimenti reali col mio
figliuolo, datala in compagnia alla mia sposa, credendo di lei non nimica ma
cara figliuola avere. E sì come avete potuto questa mattina udire, non si
finiva questo anno che io intendea di maritarla altamente, però che vedea già
la sua età richiedere ciò. E di tutto questo m'è avvenuto come avviene a chi
riscalda la serpe nel suo seno, quando i freddi aquiloni soffiano, che egli è
il primo morso da lei. Vedete che similmente ella in guiderdone del ricevuto
onore m'ha voluto uccidere: e sì avrebbe ella fatto, se 'l vostro avedimento non
fosse stato. Laonde io intendo, come detto v'ho, di volerla di ciò gravemente
punire, acciò che mai alcuna altra a sì fatto inganno fare non si metta. Ma
però che di ciò dubito non mi seguisse più vergogna che onore, se subitamente
il facessi, però che parrà a molti impossibile a credere questo per la sua
falsa piacevolezza, la quale ha molto presi gli animi, n'ho voluto e voglio
primieramente il vostro consiglio, e ciò tutti fidelmente porgere mi dovete,
disiderando il mio onore e la mia vita, sì come membri e vero corpo di me,
vostro capo.
[38]
Lungamente
si tacque ciascuno, poi che il re ebbe parlato; e bene avrebbero volentieri
risposto il duca e Ascalion, però che a loro parea manifestamente conoscere chi
questo veleno avea mandato e ordinato; ma però che la volontà del re conobbero,
ciascuno si tacque, dubitando di non dispiacergli. E similmente fecero tutti
quelli che presente lui erano, fuori che Massamuti no, il quale dopo lungo
spazio, dimorando tutti gli altri taciti, si levò e disse:
«Caro
signore, io so che 'l mio consiglio sarà forse tenuto da questi gentili uomini
qui presenti sospetto per la presura che di me subita fare faceste sanza colpa,
e so che diranno che ciò che io consiglierò, io il faccia a fine di scaricare
me e di levare voi di sospezione; ma io non guarderò già a quello che alcuno
possa dire o dica, che io non vi dia quello consiglio in ciò che dimandato
avete, che a legittimo e vero signore donar si dee, in tutto ciò che per me
conosciuto sarà, sempre riservandomi allo ammendamento di voi, dov'io fallissi.
E così m'aiutino gl'immortali iddii, com'io se non quello che diritta coscienza
mi giudicherà non dirò; e dico così: "Il fallo, il quale Biancifiore ha
fatto, è tanto manifesto, che in alcuno atto ricoprire non si puote, né
simigliantemente si può occultare il grande onore da voi fatto a lei: per lo
quale avendo ella voluto sì fatto fallo fare, merita maggiore pena. E certo, se
quello che in effetto s'ingegnò di mettere, avesse solamente pensato, merita di
morire". Onde per mio consiglio dico e giudico che misurando giustamente
la pena col fallo, che ella muoia: e sì come ella volle che la vostra vita per
la focosa forza del veleno si consumasse, così la sua con ardente fuoco
consumata sia. E certo tale giudicio pare a me medesimo crudele; e non
volentieri il dono per consiglio che si dea, però che per la sua piacevole
bellezza assai l'amava; ma nella giustizia, né amore, né pietà, né parentado,
né amistà dee alcuno piegare dalla diritta via della verità. Non per tanto, voi
siete savio, e appresso di molti più savii uomini che io non sono avete, e sì
come signore potete ogni mio detto indietro rivocare e mettere ad essecuzione.
Però là ove nel mio consiglio, il quale giusto al mio albitrio v'ho donato, si
contenesse fallo, saviamente l'ammendate».
E
più non disse.
[39]
Non
fu alcuno degli altri nobili uomini, che nel consiglio del re sedeano, che si
levasse a parlare contro a Biancifiore, ma tacendo tutti, di questa opera
stupefatti, dierono segno di consentire al detto del siniscalco, posto che a
molti sanza comparazione dispiacesse, sentendo che Biancifiore era in prigione,
per maniera che sua ragione scusandosi non potea usare: e volentieri per
difender lei avrebbero parlato, ma quasi ciascuno s'era aveduto che al re
piaceano queste cose e che con sua volontà eran fatte, onde per non spiacerli
ciascuno taceva. Perché vedendo questo il re, che oltre al detto del siniscalco
niuno dicea, né a quello era alcuno che apponesse, disse:
«Adunque,
signori, per mio avviso pare che consigliate che Biancifiore di fuoco deggia
morire, e certo in tal parere n'era io medesimo; e però vengano immantanente i
giudici, i quali di presente la giudichino, che sanza giudiciale sentenza io
non intendo di farla di fatto morire, acciò che alcuno non potesse dire che io
i termini della ragione in ciò trapassassi, né similemente voglio a fare la
giustizia dare troppo indugio, però che le troppo indugiate giustizie molte
volte sono da pietà impedite, né hanno poi loro compimento».
Furono
di presente i giudici al cospetto del re, il quale loro comandò che sanza
dimoro la crudele sentenza dessero contro a Biancifiore. Al quale i giudici
risposero:
«Signore,
le leggi ne vietano di dover dare in dì solenne mortale sentenza contro ad
alcuna persona, e oggi è giorno di tanta solennità, quanta voi sapete; ma noi
scriveremo il processo ordinatamente, e al nuovo giorno la daremo sanza fallo,
e la faremo mettere in essecuzione».
A'
quali il re disse:
«Poi
che oggi le leggi il ne vietano, domattina per tempo sanza dimoro si faccia».
E
questo detto, si partì dallo iniquo consiglio. Ma il duca e Ascalion sanza
prendere alcun congedo si partirono, non volendo udire la iniqua sentenza; e
avanti che 'l sole le sue luci messe avesse sotto l'onde occidentali, giunsero
a Montoro, ove smontarono, faccendo a Florio gran festa, il quale solo e con
molti pensieri trovarono.
[40]
Era
Biancifiore con la reina ancora recitando i vanti de' gran baroni, quando i
furiosi sergenti vennero impetuosamente sanza niuno ordine a prenderla, e lei
piangendo, sanza dire per che presa l'avessero, la ne portarono. O misera
fortuna, subita rivolgitrice de' mondani onori e beni, poco davanti niuno
barone era nella real corte, che a Biancifiore avesse avuto ardire di porre la
mano adosso, o di farne sembiante, ma ciascuno s'ingegnava di piacerle, e ora a
vilissimi ribaldi sì disprezzare consentisti la sua grandezza, che, sanza
narrare il perché, presala oltraggiosamente, la menaron via. Certo con poco
senno si regge chi in te ferma alcuna speranza. Di questo mostrò la reina
grandissimo dolore, e molto ne pianse, ricoprendo con quelle lagrime il suo tradimento
davanti ordinato. E veramente e' ne le pur dolfe, posto che assai tosto di tal
doglia prendesse consolazione, imaginando che per la morte di lei, già messa in
ordine da non poter fallire al suo parere, l'ardente amore si partirebbe del
petto di Florio. Ma i fati non serbavano a sì leale amore, quale era quello
intra' due amanti, sì corta fine né sì turpissima, come costoro loro voleano
sanza cagione apparecchiare.
[41]
Quel
giorno nel quale la gran festa si facea in Marmorina, era Florio rimaso tutto
soletto di quella compagnia che più gli piacea, ciò era del duca e di Ascalion,
a Montoro; e molto pensoso e carico di malinconia, ricordandosi che in così
fatto giorno egli con la sua Biancifiore, vestiti d'una medesima roba, soleano
servire alla reale tavola, e avere insieme molta festa e allegrezza di canti e
d'altri sollazzi. Ond'egli sospirando, così cominciò a dire:
«O
anima mia, dolce Biancifiore, che fai tu ora? Deh, ora ricordati tu di me, sì
come io fo di te? Io dubito molto che altro piacere non ti pigli per la mia
assenza. Oimè, perché non è egli licito solamente di poterti vedere a me, il
quale mi ricordo che in sì fatto giorno più volte t'ho già abbracciata,
porgendoti puerili e onesti baci? Ove sono ora fuggiti i verdi prati, ne' quali
Priapo più volte ci coronò di diversi fiori, cogliendoli noi con le nostre
mani? E ove sono le ricche camere, le quali de' nostri dimoramenti si
rallegravano? Deh, perché non sono io con teco, così come io soleva,
continuamente, o almeno di tanti quanti giorni l'anno volge uno solo? O perché
non mi se' tu mandata come tu mi fosti promessa? Io credo che 'l mio padre
m'inganna, come tu mi dicesti. E tu ora credo che dimori nella gran sala, e dai
col tuo bel viso nuova luce a molti, di tal grazia indegni, e a me misero, che
più che altra cosa ti disidero, m'è tolto il vederti. Maladetta sia quella
deità che sì m'ha fatto vile, che io per paura di mio padre dubito di venirti a
vedere, e ora ch'io possa o vederti o esser veduto. Oimè, quanto m'offende
quella piccola quantità di via che ci divide! Deh, maladetto sia quel giorno
ch'io da te mi partii, che mai alcuno diletto non sentii, posto che tu alcuna
volta dormendo io, essendomi tu con benigno aspetto apparita, m'hai alquanto
consolato: la qual consolazione in gravoso tormento s'è voltata, sì tosto
com'io mi sveglio dallo ingannevole sonno, pensando che veder non ti possa con
gli occhi della fronte. O sola sollecitudine della mia mente, gl'iddii mi
concedano che io alcuna volta anzi la mia morte veder ti possa; la qual cosa
converrà che sia, se io dovessi muovere aspre battaglie contro al vecchio
padre, o furtivamente rapirti delle sue case. E a questo, se egli non mi ti
manda o non mi fa dove tu sia tornare, non porrà lungo indugio, però che più
sostenere non posso l'esserti lontano».
E
mentre che Florio queste parole e molte altre sospirando dicea, continuamente
al caro anello porgea amorosi baci, sempre riguardandolo per amor di quella che
donato glielo avea. E in tal maniera dimorando pensoso, soave sonno gli gravò
la testa, e, chiusi gli occhi, s'addormentò; e dormendo, nuova e mirabile
visione gli apparve.
[42]
A
Florio parve subitamente vedere l'aere piena di turbamento, e i popoli d'Eolo,
usciti del cavato sasso, sanza niuno ordine furiosi recare da ogni parte
nuvoli, e commuovere con sottili entramenti le lievi arene sopra la faccia
della terra, mandandole più alte che la loro ragione, e fare sconci e
spaventevoli soffiamenti, ingegnandosi ciascuno di possedere il luogo
dell'altro e cacciar quello; e appresso mirabili corruscazioni e diversi suoni
per isquarciate nuvole, le quali parea che accendere volessero la tenebrosa
terra; e le stelle gli parea che avessero mutata legge e luoghi, e pareali che
'l freddo Arturo si volesse tuffare nelle salate onde, e la corona della
abandonata Adriana fosse del suo luogo fuggita, e lo spaventevole Orione avesse
gittata la sua spada nelle parti di ponente; e dopo questo gli parve vedere i
regni di Giove pieni di sconforto, e gl'iddii piangendo visitare le sedie l'uno
dell'altro; e pareali che gli oscuri fiumi di Stige si fossero posti nella
figura del sole, però che più non porgea luce; e la luna impalidita avea
perduti i suoi raggi, e similmente tutti gli altari di Marmorina gli pareano
ripieni d'innocente sangue umano, e tutti i cittadini piangere con altissimi
guai sopr'essi. I paurosi animali e feroci insiememente per paura gli parevano
fuggir nelle caverne della terra, e gli uccelli ad ora ad ora cader morti, né
parea che albero ne potesse uno sostenere. E poi che queste cose a Florio, che
di paura piangea, si mostrarono, gli parea veder davanti a sé la santa dea
Venus, in abito sanza comparazione dolente e vestita di neri e vilissimi
vestimenti, tutta stracciata piangendo, alla quale Florio disse:
«O
santa dea, qual è la cagione della tua tristizia, la quale movendomi a pietà mi
costringe a piagnere, come tu fai? E dimmi, perché è il subito mutamento de'
cieli e della terra avvenuto? Intende Giove di fare l'universo tornare in caos
come già fu? Nol mi celare, io te ne priego, per la virtù del potente arco del
tuo figliuolo».
«Oimè
misera - rispose Venus, - or etti occulta la cagione del pianto degli uomini,
dell'aere e degl'iddii? Levati su, che io la ti mostrerò»; e preso Florio,
involtolo seco in una oscura nuvola, sopra Marmorina il portò, e quivi gli fece
vedere l'avvelenato paone posto in mano a Biancifiore dal siniscalco, e 'l
pensato inganno, e la subita presura, e 'l crudele rinchiudimento, e la
malvagia sentenza della morte ordinata di dare contro a Biancifiore: le quali
cose mostrategli, riposatolo piangendo di vere lagrime nella sua camera, gli
disse:
«Ora
t'è manifesta la cagione del nostro pianto».
«Oimè!
- rispose Florio, - quando io ti vidi, santa madre del mio signore, sanza la
risplendente luce degli occhi tuoi e sanza gli adorni vestimenti, privata della
bella corona delle amate frondi da Febo, incontanente mi corse all'animo la
cagione la quale tu hai ora fatta visibile agli occhi miei: ond'io ti priego
che mi dichi qual morte più crudele io posso eleggere, poi che Biancifiore
muore. Insegnalami, ché io non voglio vivere appresso la sua morte. Io sono
disposto a volere seguire la sua anima graziosa ovunque ella andrà, e essere
così congiunto a lei nella seconda vita come nella prima sono stato: o tu mi
mostra qual via c'è alla dimensione della sua vita, se alcuna ce n'è, però che
nullo sì alto né sì grande pericolo fia, al quale io non mi sottometta per
amore di lei, e che tutto non mi paia leggerissimo».
A
cui Citerea così rispose:
«Florio,
non credere che il pianto mio e degli altri dei sia perché noi crediamo che
Biancifiore deggia morire, ché noi abbiamo già la sua morte cacciata con
deliberato consiglio, e proveduto al suo scampo, come appresso udirai; ma noi
piangiamo però che la natura, vedendosi sopra sì bella creatura, come è
Biancifiore, offendere dalla crudeltà del tuo padre, quando a morte ordinò che
sentenziata fosse, ci si mostrò, sagliendo a' nostri scanni, sì mesta e
dolorosa, che a lagrimare ci mosse tutti, e fececi intenti alla sua diliberazione.
E similmente l'aria e la terra e le stelle a mostrar dolore con diversi atti
costrinse. E però che tu per lei verrai a maggiori fatti, che tu medesimo non
estimi, dopo molte avversità, vogliamo che in questa maniera al suo scampo
t'esserciti. Tu, sì tosto come il sole avrà i raggi suoi compiendo l'usato
cammino nascosi, occultamente di queste case ti partirai, e andranne a quelle
di Ascalion, a te fidelissimo amico e maestro, e fidandoti sicuramente a lui,
di tutto il tuo intendimento ti farai armare di fortissime armi e buone, e
fara'ti prestare un corrente cavallo e forte; e quando questo fatto avrai,
sanza alcuna compagnia fuori che della sua, se egli la ti profferrà,
celatamente prendi il cammino verso la Braa, però che in quel luogo sarà la tua
Biancifiore menata da coloro che d'ucciderla intendono. La sorella di colui che
mena i poderosi cavalli portanti l'etterna luce, la quale, ancora pochi dì
sono, vi si mostrò sanza alcuno corno tutta nella figura del celestiale
Ganimede, m'ha promesso di porgerti sicuro cammino con la sua fredda luce;
quivi con questa spada la quale io ti dono, fatta per le mani del mio marito
Vulcano, quando bisognò alla battaglia degl'ingrati figliuoli della terra, a me
prestata da Marte, mio carissimo amante, aspetterai chetamente insino a tanto
che la tua Biancifiore vedrai menare per esserle data l'ultima ora. E allora,
sanza alcuno indugio, cacciata da te ogni paura, con ardito cuore ti trai
avanti sanza farti a nullo conoscere, e contradì a tutto il presente popolo che
Biancifiore ragionevolemente non è stata condannata a morte, né dee morire, e
che ciò tu se' acconcio a provare contro a qualunque cavaliere o altra persona
di questo volesse dire altro; e non dubitare d'assalire tutto il piano pieno
del marmorino popolazzo, se bisogno ti pare che ti faccia, però che contro a
questa spada che io ti dono, niuna arme potrà durare, e il mio Marte m'ha
giurato e promesso per li fiumi di Stige di mai non abandonarti. Né v'è alcuno
iddio che al tuo aiuto non sia prontissimo e volonteroso, e io mai non ti
abandonerò: però sicuramente ti metti al suo scampo, ché la fortuna
graziosamente t'apparecchia onorevole vittoria. La quale quando avrai avuta, e
levata Biancifiore dal mortal pericolo, prendera'la per mano e rendera'la al
tuo padre, raccomandandogliele tutt'ora sanza farti conoscere; e ritornando a
Montoro, fa che sopra gli altari di Marte e sopra i miei accenda luminosi
fuochi con graziosi sacrificii; e quivi mi vedrai essere venuta del mio antico
monte, della mia natività glorioso, con gli usati vestimenti significanti
letizia, circundata di mortine e coronata delle liete frondi di Pennea, e stare
sopra li miei altari a te manifestamente visibile; e coronerotti della
acquistata vittoria; e di queste cose dette, fa che in alcuna non falli per
alcuno accidente; né per parole che Ascalion ti dicesse, da questa impresa ti
rimanghi».
E
dette queste parole, lasciata nella destra mano di Florio la sopradetta spada,
si partì subitamente tornando al cielo.
[43]
Tanto
fu a Florio più il dolore delle vedute cose che l'allegrezza della futura
vittoria a lui promessa da Venere, che piangendo elli forte, e veggendo partire
la santa dea, rompendosi il debile sonno, si destò, e subitamente si dirizzò in
piè, trovandosi il petto e 'l viso tutto d'amare lagrime bagnato, e nella
destra mano la celestiale spada: di che quasi tutto stupefatto, conobbe essere
vero ciò che veduto avea nella preterita visione. E tornandogli a mente la sua
Biancifiore, e della cagione per che da lei avea ricevuto il bello anello, e
della virtù d'esso, piangendo il riguardò dicendo:
«Questo
fia infallibile testimonio alla verità»; e riguardandolo, il vide turbatissimo
e sanza alcuna chiarezza. Allora cominciò Florio il più doloroso pianto che mai
veduto o udito fosse, mescolato con molte angosciose voci, dicendo:
«O
dolce speranza mia, per la quale io infino a qui in doglia e in tormenti mi
sono contentato di vivere, sperando di rivederti in quella allegrezza e festa
che io già molte volte ti vidi, quale avversità ti si volge al presente sopra?
Or non bastava alla invidiosa fortuna d'averci dati tanti affannosi sospiri
allontanandoci, se ella ancora con mortal sentenza non ci vuole dividere, e
porgerci maggiore angoscia? Oimè, or chi è colui che cerca falsamente di
volerti levare la vita, e a me insiememente? Chi è quegli che ingiustamente ti
fa nocente il mio vecchio padre? Oimè, or crede egli far morire te sanza me?
Vano pensiero lo 'nganna. Oimè, è questa la festa ch'io soglio in tal giorno
avere con teco? Ahi, dolorosa la vita mia, da quante tribulazioni è circundata!
Certo, cara giovane, niuno a mio potere ti torrà la vita: o questa spada la
racquisterà a te e a me come promesso m'è stato, tenendola io nella mia mano
combattendo, o ella si bagnerà nel mio cuore cacciandovela io, o io diverrò
cenere con teco in uno medesimo fuoco, come Campaneo con la sua amante donna
divenne a piè di Tebe».
E
dicendo Florio queste parole piangendo, il duca, che dalla dolente festa
tornava, venne; il quale come Florio sentì, celando il nuovo dolore, nel viso
allegrezza mostrando, e andatogli incontro lietamente nelle sue braccia il
ricevette, faccendosi festa insieme, però che di perfetto amore s'amavano; e
come essi insieme furono nella sala montati, Florio domandò il duca della
festa, se era stata bella e se egli avea veduta Biancifiore. Il duca rispose
che la festa era stata bella e grande, e che niuna cosa v'era fallita, fuori
solamente la sua presenza; e tutto per ordine gli narrò ciò che fatto vi s'era,
e de' vanti che dati s'aveano al paone che Biancifiore avea portato. Ma ben si
guardò di non dire l'ultima cosa che avvenuta v'era, cìoè dell'avvelenato
paone, per lo quale Biancifiore dovea morire, per tema che Florio non se ne
desse troppa malinconia; e di ciò s'avvide ben Florio, che 'l duca si guardava
di dirgli quello che egli non avrebbe voluto che avvenuto fosse: però, sanza
più adimandare, disse che ben gli piaceva che la festa era stata bella e
grande, e che volentieri vi sarebbe stato se agl'iddii fosse piaciuto.
[44]
Già
aveva Febo nascosi i suoi raggi nelle marine onde, quando, preso il cibo, il
duca insiememente con Florio cercarono i notturni riposi. Ma Florio porta
nell'animo maggiore sollecitudine che di dormire, e sanza adormentarsi aspetta
che gli altri s'addormentino della casa; i quali non così tosto come Florio
avrebbe voluto s'andarono a letto, ma ridendo e gabbando e con diversi
ragionamenti gran parte della notte passarono, la quale Florio tutta divise per
ore, con angosciosa cura dubitando non s'appressasse l'ora che andare di
necessità gli convenisse, e fosse veduto. Ma poi che ciascuno pose silenzio e
la casa fu d'ogni parte ripiena d'oscurità, Florio con cheto passo, aperte le
porti del gran palagio con sottile ingegno, sanza farsi sentire passò di fuori,
e tutto soletto pervenne all'ostiere di Ascalion, ove più voci chiamò acciò che
aperto gli fosse. E 'l primo che alla sua voce svegliato si levò fu Ascalion,
il quale sanza niuno indugio corse ad aprirgli, maravigliandosi forte della sua
venuta, e del modo e dell'ora non meno. E poi che essi furono dentro alla
fidata camera sanza altra compagnia, Ascalion disse:
«Dimmi,
quale è stata la cagione della tua venuta a sì fatta ora, e perché se' venuto
solo?».
E
mentre che queste parole dicea, dubitava molto non il duca gli avesse detto lo
'nfortunio di Biancifiore. Ma Florio rispose:
«La
cagione della mia venuta è questa. A me fa mestiere d'essere tutto armato e
d'avere un buon cavallo. Onde io non sappiendo ove di tale bisogna fossi più fedelmente
né meglio servito che qui, qui a venire mi dirizzai più tosto che in altra
parte: priegovi che vi piaccia di questo tacitamente servirmi incontanente».
E
mentre che diceva queste cose, con gran fatica riteneva le lagrime, le quali
dal premuto cuore, ricordandosi perché queste cose volea, si moveano. Disse
Ascalion:
«Niuna
cosa ho né potrei fare che al tuo piacere non sia; ma qual è la cagione di sì
subita volontà d'armarti? Perché non aspetti tu il nuovo giorno? Armandosi
l'uomo a questa ora, non veggendo alcuna necessità espressa, parrebbe un volere
matto e subito, sì come sogliono essere quelli degli uomini poco savi e che
hanno il natural senno perduto; ma se tu mi di' perché a questo se' mosso, la
cagione potrebbe essere tale che io loderei che la tua impresa si mettesse
avanti. Già sai tu bene che di me tu ti puoi interamente fidare, con ciò sia
cosa che io lungamente in diverse cose ti sia stato maestro fedelissimo, e
amatoti come se caro figliuolo mi fossi stato: dunque non ti guardar da me».
Florio
rispose:
«Caro
maestro, veramente se alcuna virtù è in me, dagl'iddii e da voi la riconosco; e
sanza dubbio, se io non avessi avuto in voi somma fede, niuno accidente per tal
cosa mi ci avrebbe potuto tirare; ma poi che vi piace di sapere il perché a
questa ora per l'armi io sia venuto, io il vi dico. A voi non è stato occulto
l'ardente amore che io ho a Biancifiore portato e porto, della quale, oggi,
dormendo io, mi furon mostrate dalla santa Venus di lei dolorose cose: però che
io stando con lei sopra a Marmorina in una oscura nuvola, vidi chiamare la mia
semplice giovane, e porle uno avvelenato paone in mano, e vidiglielo portare
per comandamento altrui alla reale mensa ove voi sedevate; e dopo questo vidi e
udii il gran romore che si fece, aveggendosi la gente dello avvelenato paone, e
lei vidi furiosamente mettere in uno cieco carcere; e ancora dopo lungo
consiglio vidi scrivere il processo della iniqua sentenza, che dare si dee
domattina contra di lei. E queste cose tutte vedeste voi, né me ne dicevate
niente. Ma io ne ringrazio gl'iddii che mostrate le m'hanno, e datomi vero
aiuto e buono argumento a resistere alla crudel sentenza e ad annullarla, sì
com'io credo fare con questa spada in mano, la quale Venere mi donò per la
difensione di Biancifiore. E se il potere mi fallisse, intendo di volere anzi con
esso lei in un medesimo fuoco morire, che dopo la sua morte dolorosamente
vivendo stentare».
«Oimè,
dolce figliuolo - disse Ascalion, - che è quello che tu vuoi fare? Per cui vuoi
tu mettere la tua vita in avventura? Deh, pensa che la tua giovane età ancora è
impossibile a queste cose, e massimamente a sostenere l'affanno delle gravanti
armi. Deh, riguarda la tua vita in servigio di noi, che per signore
t'aspettiamo, e lascia dare i popolareschi uomini a' fati. Tu vuoi combattere
per Biancifiore, la quale è femina di piccola condizione, figliuola d'una
romana giovane, alla quale essendo stato ucciso il suo marito, per serva fu
donata alla tua madre. Ma tu forse guardi al grande onore che tuo padre l'ha
fatto per adietro, e quinci credi forse ch'ella sia nobilissima giovane: tu se'
ingannato, però che questo non le fu fatto se non perché ella fu tua compagna
nel nascimento. Non è convenevole a te amare femina di sì piccola condizione; e
però lasciala andare e compiere i doveri della giustizia, e poi che ella ha
fatta l'offesa, lasciala punire. Non ti recare nella mente sì fatte cose, né
dare speranza a' sogni, i quali per poco o per soperchio mangiare, o per
imaginazione avuta davanti d'una cosa, sogliono le più volte avvenire, né mai
però se ne vide uno vero; e se pur fai quello che proposto hai, nullo fia che
non te ne tenga poco savio, e al tuo padre darai materia di crucciarsi e
d'infiammarsi più verso di lei: onde lascia stare questa impresa, io te ne
priego».
Allora
Florio, con turbato viso riguardandolo nella faccia, disse:
«Ahi,
villano cavaliere, e sconoscente e malvagio, qual cagione licita e ancora
verisimile vi muove a biasimare Biancifiore e chiamarla figliuola di serva? Non
v'ho io più volte udito raccontare che 'l padre di Biancifiore fu nobilissimo
uomo di Roma, e d'altissimo sangue disceso? Certo si ho. E quando questo non
fosse mai vero, natura mai non formò sì nobile creatura com'ella è, però che
non le ricchezze o il nascere de' possenti e valorosi uomini fanno l'uomo e la
femina gentile, ma l'animo virtuoso con le operazioni buone. Essa per la sua
virtù si confarebbe a molto maggior prencipe che io non sarò mai; e posto che
di quello che io intendo di fare, la vil gente ne parli men che bene, i
valorosi me ne loderanno, avvegna che io sì segretamente lo 'ntendo di fare,
che alcuno nol saprà già mai. E se si pur sapesse e parlassesene, il robusto
cerro cura poco i sottili zeffiri, e il giovane poppio non può resistere a'
veloci aquiloni. Faccia l'uomo suo dovere, parli chi vuole. E sanza dubbio del
cruccio del mio padre io mi curo poco, ch'è uomo di sì vile animo come io il
sento, che s'è posto a volere con falsità vendicare le sue ire sopra una
giovane donzella e innocente, sua benivolenza, o amistà si dee poco curare, e
in gran grazia mi terrei dagl'iddii che egli mi uscisse davanti a contradire la
salute di Biancifiore, acciò che io con quel braccio, col quale ancora, se
fosse quell'uomo quale esser dovrebbe, il dovrei aver sostenuto, gli levi la
vita mandandolo ai fiumi d'Acheronta, ove la sua crudeltà avrebbe luogo:
vecchio iniquissimo ch'egli è, che nell'ultima parte de' suoi giorni, alla
quale quando gli altri, che sono stati in giovinezza malvagi pervengono, si
sogliono col bene operare riconciliare agl'iddii, incomincia a divenire crudele
e a fare opere ingiuste. E di ciò che o piacere o dispiacere ch'io gliene
faccia, mai della mia mente non si partirà Biancifiore, né altra donna avrò già
mai; né mi parrà grave il peso dell'armi in servigio di lei. E certo Achille
non avea molto più tempo ch'io abbia ora, quando egli abandonando i veli
insieme con Deidamia, venne armato a sostenere i gravi colpi d'Ettore
fortissimo combattitore; né Niso era di tanto tempo quanto io sono, quando
sotto l'armi incominciò a seguire gi ammaestramenti d'Euriello. Io sono giovane
di buona età, volonteroso alle nuove cose, innamorato e difenditore della
ragione, e emmi stata promessa vittoria dagl'iddii, e veggo la fortuna disposta
a recarmi a grandi cose, la quale noi preghiamo tutto tempo che in più alto luogo
ci ponga della sua rota. Ora poi che ella con benigno viso mi porge i dimandati
doni, follia sarebbe a rifiutarli, ché l'uomo non sa quando più a tal punto
ritorni. Io m'abandonerò a prendere ora che mi par tempo, e salirò sopra la sua
rota; quivi, sanza insuperbire, quanto potrò in alto mantenermi, mi manterrò. E
se avviene che alcuna volta scendere mi convenga, con quella pazienza che io
potrò, sosterrò l'affanno. Né mi vogliate fare discredere quello che la vera
visione m'ha mostrato, dicendo che i sogni sieno fallaci e voti d'ogni verità:
poi che voi non me lo voleste dire, tacete del farmelo discredere, però che io
n'ho più testimoni a questa verità, ché principalmente il mio anello con la
perduta chiarezza mi mostrò l'affanno di Biancifiore: la celestiale spada,
ritrovandomela nella destra mano quando mi svegliai, m'affermò la credenza
delle vedute cose e la speranza della futura vittoria. Ma forse voi dubitate di
farmi il servigio, e però con tante contrarietà v'andate al mio intendimento
opponendo. Onde io vi priego, sanza più andarmi con cotali circustanze
faccendomi perder tempo, mi rispondiate se fare lo volete o no: ch'io vi
prometto che mai io non sarò lieto, né dalla mia impresa mi partirò, infino a
tanto che io con la destra mano non avrò liberata Biancifiore dal fuoco, e da
qualunque altro pericolo le soprastesse».
Quando
Ascalion udì così parlare Florio e videlo pur fermo in voler difendere
Biancifiore, assai se ne maravigliò del gran cuore che in lui sentiva, e più
della nuova visione e della spada a lui donata, la quale non gli parea opera
fatta per mano d'uomo, e fra sé disse: "Veramente la fortuna ti vuole
recare a grandissime cose, delle quali forse questa fia il principio, e
gl'iddii mostra che 'l consentano". E poi rispose a lui:
«Florio,
sanza ragione mi chiami villano e malvagio, però che quel ch'io ti dicea, io
nol ti dicea che io non conoscessi bene ch'io non dicea vero, ma io il dicea
acciò che da questa impresa ti ritraessi, se potuto avessi ritrartene. E se io
avessi dal principio conosciuto che così fermamente t'avessi posto in cuore di
far questo, certo sanza niuna altra parola io t'avrei detto:
"andiamo"; ma io volea provare altressì con che animo ci eri
disposto. E non dire ch'io dubiti di servirti, ch'io voglio che manifesto ti
sia che alcuno disio non è in me tanto quanto quello fervente. Ond'io caramente
ti priego, poi che del tutto alla dimensione di Biancifiore se' fermo, che, se
ti piace, lasci a me questo peso, perché tu non sai chi avanti ti dee uscire a
resistere al tuo intendimento. E nella corte del tuo padre sanza fallo ha molti
valorosi cavalieri, e espertissimi e usati in fatto d'arme lungamente, a' quali
tu ora, novello in questo mestiero, non sapresti forse così resistere come si
converrebbe. E non ti voler rifidare in sola la forza della tua giovanezza, ché
non solamente i forti bracci vincono le battaglie, ma i buoni e savi
provedimenti danno vittoria le più volte. Posto che io, già vecchio, non ho
forse i membri guari più poderosi di te, io pur so meglio di te quel colpo che
è da fuggire e quello che è da aspettare, e quando è da ferire e quando è da
sostenere, sì come colui che dalla mia puerizia in qua mai altra cosa non feci.
E d'altra parte, se io fossi soperchiato, a te non manca il potere allora
combattere, e combattendo provarti, e soccorrere me e Biancifiore».
A
cui Florio rispose brievemente:
«Maestro,
io ora novellamente porterò arme; io, come detto v'ho, sono giovane, e amore mi
sospinge, e la buona speranza: io voglio sanza niuno fallo essere il difenditore
di quella cosa che io più amo, ché non m'è avviso che alcuno cavaliere, non
tanto fosse valoroso e dotto in opera d'arme, potesse qui adoperare quanto
potrò io. E se io consentissi che voi v'andaste voi a combattere, e foste
vinto, a me non si converrebbe d'andare a volere racconciare quello che voi
aveste guasto, né potrei, né mi sarebbe sofferto. Io voglio incominciare a
provare quello affanno che l'armi porgono. Io ho tanto sofferto amore, che ben
credo poter sofferire l'armi a una picciola battaglia. E nella giovanezza si
deono i grandi affanni sostenere, acciò che famoso vecchio si possa divenire. E
se pure avvenisse che la speranza della vittoria mi fallisse, io farò sì che la
vita e la battaglia perderò a un'ora, la qual cosa mi fia molto più cara che se
io, dopo la morte di Biancifiore, rimanessi in vita; del vostro aiuto so che
poi Biancifiore non si curerebbe, sì che più ch'uno non bisognerà che
combatta».
Disse
Ascalion:
«Poi
ch'elli ti piace che così sia, e io ne son contento, ma veramente io non ti
abandonerò mai; e se io vedessi che il peggio della battaglia avessi mai,
chiunque ucciderà te, ucciderà me altressì, avanti che io la tua morte vedere
voglia. Ma io priego gl'iddii, se mai alcuna cosa appo loro meritai, che ti
donino la disiderata vittoria, come promesso t'hanno, acciò che io teco
insieme, riprovata la iniquità del tuo padre e scampata Biancifiore, mi possa
di sì prospero principio rallegrare».
[45]
Veduta
Ascalion la ferma volontà di Florio, sanza più parlare, egli lo 'ncominciò ad
armare di bella e buona arme; e poi ch'egli gli ebbe fatto vestire una grossa
giubba di zendado vermiglio, gli fece calzare due bellissime calze di maglia, e
appresso i pungenti speroni; e sopra le calze gli mise un paio di gambiere
lucenti come se fossero di bianco argento, e un paio di cosciali; e similemente
fattegli mettere le maniche e cignere le falde, gli mise la gorgiera; e
appresso gli vestì un paio di leggierissime piatte, coperte d'un vermiglio
sciamito, guarnite di quanto bisognava nobilmente e fini ad ogni pruova. E poi
che gli ebbe armate le braccia di be' bracciali e musacchini, gli fece cingere
la celestiale spada, dandogli poi un bacinetto a camaglio bello e forte, sopra
'l quale un fortissimo elmo rilucente e leggiero, ornato di ricchissime pietre
preziose, sopra 'l quale un'aquila con l'alie aperte di fino oro risplendeva,
gli mise, donandoli un paio di guanti quali a tanta e tale armadura si
richiedevano; e appresso il sinistro omero gli armò d'un bello scudetto e forte
e ben fatto, tutto risplendente di fino oro, nel quale sei rosette vermiglie
campeggiavano. E sì come il tenero padre i suoi figliuoli ammonisce e insegna,
così Ascalion dicea a Florio:
«Caro
figliuolo mio, non schifare gli ammaestramenti di me vecchio, ma sì come
nell'altre cose gli hai avuti cari e osservatigli, così fa che in questa
maggiormente gli abbia, però che è cosa, che, non osservandola, porta più
pericolo. Quando tu verrai sopra il campo contra 'l disiderato nimico, quanto
più puoi prendi la più alta parte del campo, acciò che andando verso lui, anzi
il sopragiudichi che tu sii da lui sopragiudicato; però che gran danno tornò a'
greci la poca altezza, ché i troiani aveano vantaggio allo 'ncominciare le
battaglie. E guarti non ti opporre a' solari raggi, però che essi dando altrui
negli occhi nocciono molto. Annibale in Puglia per tale ingegno ebbe sopra i
romani vittoria, volgendo le reni al sole, al quale costrinse i romani di
tenervi il viso. Né contro al polveroso vento ti metterai, però che dandoti negli
occhi t'occuperebbe la vista. Né moverai il corrente cavallo con veloce corso
lontano al tuo nimico, ma il principio del suo movimento sia a picciolo passo,
acciò che quando sarai presso al nimico, spronando forte, elli il suo corso
impetuosamente cominci: però che le forze del volonteroso cavallo sono molto
maggiori nel cominciare dello aringo che nel mezzo, quando col disteso capo
corre alla distesa. Né ancora gli darai tutto il freno, però che con meno forza
dilungando il collo andrebbe. Allora sono le cose disposte ad andar forte,
quand'elle truovano alcun ritegno e trapassanlo. E chi fece Protesilao più
volonteroso che 'l dovere, se non l'essere ritenuto contro alla calda volontà?
Se Aulide non avesse ritenute le sue navi, egli andava più temperatamente. Né
non basserai la lancia nel principio dello aringo, però che il savio nimico
prenderebbe riparo al tuo avvisato colpo, e il tuo braccio del peso sarebbe
stanco avanti che tu a lui giugnessi; ma ponendo mente prima a lui, t'ingegna,
se puoi, di prendere al suo colpo riparo, e appressandoti a lui prestamente con
forte braccio abassa la tua lancia, e fa che avanti nella gola che nella
sommità dell'elmo ti ponghi: i bassi colpi nuocciono, posto che gli alti sieno
belli. E s'egli avviene che con lui urtare ti convenga col petto del tuo
cavallo, guarda bene che col petto del suo non si scontri, se non fossi già
molto meglio a cavallo di lui, però che il danno potrebbe essere comune, ma
faccendo con maestrevole mano un poco di cerchio, fa che il petto del tuo
cavallo alla spalla sinistra del suo si dirizzi, e quivi fieri se puoi, ché tal
ferire sarà sanza danno di te. Ma poi che le lance più non adoperranno, non
esser lento a trar fuori la spada; ma non voglio però che tu meni molti colpi,
ma maestrevolemente, quando luogo e tempo ti pare di ferire a scoperto,
copertamente fieri, sempre intendendo a coprire bene te, più che al ferire
molto l'avversario, infino a tanto che tu vegga lui stanco e fievole, e al di
sotto di te, ché allora non si vogliono i colpi risparmiare. E guardera'ti bene
che per tutto questo niente di campo ti lasci torre, però che con vergogna
sarebbe danno. Né ti lasciare abbracciare, se forte non ti senti sopra le
gambe: la qual cosa s'avviene, non volere troppo tosto sforzarti d'abbatterlo
in terra, ma tenendoti ben forte lascia affannar lui, il quale quando alquanto
affannato vedrai, più leggiermente potrai allora mettere le tue forze e
abbattere lui. E sopra tutte cose ti guarda degli occulti inganni: i tuoi occhi
e il buono avviso continuamente te ne ammaestrino. Né niuno romore o di lui o
del circustante popolo ti sgomenti, ma sanza niuna paura ti mostra vigoroso;
incontanente la tua parte fia aiutata dal grido: e il nimico vedendoti ognora
più vigoroso, dubiterà della tua vittoria, però che bene ti seggono l'armi
indosso e bellissimo e ardito ti mostrano, più che altro cavaliere già è gran
tempo vedessi».
Florio
con disiderio ascoltava queste parole, notandole tutte, e volontieri vorrebbe
allora essere stato a' fatti, e molto gli noiava il picciolo spazio di tempo
che a volgere era, e in se medesimo molto si gloriava veggendosi armato; e
disse ad Ascalion:
«Caro
maestro, niuna vostra parola è caduta, ma da me debitamente ritenute, le credo,
ove il bisogno sarà, mettere in effetto; ma caramente vi priego che v'armiate e
vengano i cavalli, e andiamo, però che già mi pare che le stelle, che sopra
l'orizonte orientale salivano nel coricare del sole, abbiano passato il cerchio
della mezza notte».
[46]
Armossi
Ascalion; e mentre che egli s'armava, e Florio andava per l'ostiere ora
correndo, ora saltava d'una parte in altra, e tal volta con la celestiale spada
faceva diversi assalti. Alcuna volta prendeva la lancia per vedere com'egli la
potesse alzare e bassare al bisogno, lanciandola talora; e queste cose così
destramente faceva, come se alcuna arme impedito non l'avesse, avvegna che
Amore la maggior parte gli dava della sua forza. Di che Ascalion, lodando la
sua leggerezza, si maravigliò molto; e essendo già egli medesimo armato, tutto
solo se n'andò alla stalla, e messe le selle e' freni a due forti cavalli, li
menò nella sua corte; e quivi vestito Florio e sé di due sopraveste verdi, e
prese due grosse lance con due pennoncelli ad oro lavorati e seminati di vermiglie
rose, ciascuno la sua, montarono i cavalli e sanza più dimorare presero il
cammino verso la Braa.
[47]
Già
Febea con iscema ritondità tenea mezzo il cielo, quando Florio e Ascalion,
lasciata la città, cominciarono a cavalcare per li solinghi campi. Ella porgea
loro col freddo raggio grande aiuto, però ch'ella mitigava il caldo che le
gravi armi porgeano, e massimamente a Florio, il quale di tal peso non era
usato, poi facea loro la via aperta e manifesta: di che Florio molto si
rallegrava, però che già gli parea incominciato avere a ricevere lo 'mpromesso
aiuto degl'iddii. E più si rallegrava imaginando che egli s'appressava al luogo
ove egli vedrebbe la sua Biancifiore in pericolo, e scampata da quello per la
sua virtù. Ma non volendosi tanto alle sue forze rifidare, quanto all'aiuto
degl'iddii, volto verso la figlia di Latona, così cominciò a dire:
«O
graziosa dea, i cui beneficii io sento continuamente, lodata sii tu; tu
alleviando la mia madre di me, piegandoti a' suoi prieghi, le mi donasti, degna
allegrezza dopo il ricevuto affanno. Dunque, poi che per te nel tempestoso
mondo venni, aiutami nelle mie avversità, e priegoti per li tuoi casti fuochi,
i quali io già ne' miei teneri anni debitamente cultivai, che come tu hai nel
mio aiuto incominciato, così perseveri. E ricordati quanto tu, già ferita di
quello strale che io ora sono, ardesti, di quel fuoco che io ardo! e priegoti
per le oscure potenze de' tuoi regni, ne' quali mezzi i tempi dimori, che tu
domane, dopo la mia vittoria, prieghi il tuo fratello che col suo luminoso e
fervente raggio mi renda alle abandonate case, onde tu ora col tuo freddo mi
togli. Tu m'hai porta speranza del futuro soccorso degl'iddii col tuo
principio, onde io con più ardita fronte il dimanderò. E te, o sommo prencipe
delle celestiali armi, priego per quella vittoria che tu già sopra i figliuoli
della terra avesti, e per tutte l'altre, che tu sii a me favorevole aiutatore,
però che io non cerco, sì come tu vedi, di volere per la presente battaglia
possedere né acquistare le vostre celestiali case, né intendo di levare a Giove
la santa Giunone; né similemente è mio intendimento d'occupare la fama delle
tue grandi opere col tuo medesimo aiuto, ma d'accrescerla, e solamente cerco di
difendere la vita di Biancifiore ingiustamente condannata a morte. E tu, o
santa Venus, nel cui servigio io sono, aiutami. Io vo più ardito per la
promessa che con la tua santa bocca mi facesti. Non mi dimenticare: mostrisi
qui quanto la tua forza possa adoperare. E similmente tu, o santa Giunone,
donandomi il tuo aiuto, consenti che io vincendo faccia manifesto il malvagio
inganno, il quale questi iniqui, contra i quali io ora vo, copersero col tuo
santo uccello, non servandoti la debita reverenza. E voi, o qualunque deità
abitate le celestiali regioni, siate al mio soccorso intente; e massimamente
tu, Astrea, la cui giusta spada mio padre intende di sozzare con innocente
sangue, aiutami».
E
così dicendo e tutt'ora cavalcando, pervennero al dolente luogo per lungo
spazio avanti dì: e quivi il nuovo giorno aspettarono.
[48]
La
misera Biancifiore, non sappiendo perché con tanto furore né sì subitamente
presa fosse, quasi tutta stupefatta, sanza alcuna parola sostenne la grave
ingiuria, entrando nell'oscurissima e tenebrosa carcere; la quale serrata,
acciò che alcuna persona materia non avesse di poterle in alcuno atto parlare,
a cui ella scusandosi poi la sua scusa ad altri porgesse, il re prese a sé la
chiave. E dimorando là entro Biancifiore, niuno sì picciolo movimento v'era che
forte non la spaventasse, e varie imaginazioni, che la fantasia le recava
avanti, le porgeano molta paura, e 'l suo viso impalidito e smorto non dava
alcuna luce nella cieca prigione; onde ella per greve doglia incominciò a
piangere e a dire:
«Oimè
misera, quale può essere la cagione di tanta ingiuria? In che ho io offeso?
Certo in niuna cosa, ch'io sappia. Io mai né con parole né con operazioni non
lesi la reale maestà, e la reina mia cara donna sempre onorai, né mai rubando
né spogliando i santi templi e gli altari degl'iddii commisi sacrilegio, né mai
si tinsero le mie mani né l'altrui per me d'alcun sangue: dunque questo perché
m'è fatto? Oimè, iniqua fortuna, maladetta sii tu! Or non ti potevi tu chiamare
sazia delle mie avversità, pensando che divisa m'avevi da quella cosa nella
quale ogni mia prosperità e allegrezza dimorava, sanza volermi ancora fare ora
questa vergogna d'essere messa in prigione sanza averlo meritato? Deh, se tu
avevi volontà di nuocermi, perché avanti non mi uccidevi? Credo che conosci che
la morte mi sarebbe stata somma felicità, però che i miei sospiri avrebbe
terminati. Stiano adunque i miseri sicuri contra i tagli delle spade e contra
le punte delle agute lance, infino a tanto che il cielo avrà il loro tempo
volto, però che fortunoso caso di vita non li priverebbe. Oimè, or tu mi ti
mostrasti poco avanti così lieta, faccendomi più degna che alcuna altra giovane
della real casa di portare il santo paone alla mensa, dove il re sedea,
accompagnato da quelli baroni, i quali tutti in mio onore e servigio si
vantarono! È questa la fine che tu vuoi a' loro vanti porre? Oimè, com'è laida
e vituperevole! Tosto hai mutato viso a mio dannaggio! Maladetto sia il giorno
del mio nascimento! Io fui cagione di sforzata morte al mio padre e alla mia
madre, i quali io già mai non vidi, e ora, non so come, la mi pare avere a me
meritata. Oimè, che gl'iddii e 'l mondo m'hanno abandonata, e massimamente tu,
o Florio, in cui io solamente portava speranza! Deh, or dove se' tu ora, o che
fai tu? Forse pensi che il tuo padre m'acconci per mandare a te, però che
dimandata me gli hai, e io sto in prigione piena di varie solleccitudini, e non
so per che né a che fine, né se il tuo padre intende di farmi morire! Deh, or
non t'è egli la mia avversità palese? Non riguardi tu il caro anello da me
ricevuto, il quale apertamente la ti significherebbe? Oimè, che io dubito che
tu più nol riguardi, sì come cosa la quale credo che poco cara ti sia!
Immantanente io imagino che tu m'abbia dimenticata! E chi sarebbe quel giovane
sì costante e tanto innamorato, che vedendo tante belle giovani, quante io ho
inteso che costà ha, scalze dintorno alle fredde fontane sopra i verdi prati,
coronate di diverse frondi cantare e fare maravigliose feste, non lasciasse il
primo obietto pigliandone un secondo? E se tu non m'hai dimenticata, perché non
mi soccorri? Chi sa se io dopo questa prigione avrò peggio? E chi sa se io ci
sarò di fame lasciata morire entro, o se di me fia fatta altra cosa? Oimè, ora
se io morissi, come faresti tu? Io per me mi curerei poco di morire, se io
solamente una volta veder ti potessi avanti, e se io non credessi che a te
fosse il mio morire gravoso a sostenere. Oimè, che io credo che se tu sapessi
che io fossi qui, la mia liberazione sarebbe incontanente. E se io potessi questo
in alcun modo farloti sentire, ben lo farei; ma io non posso. Oimè! ora ove
sono tanti amici tuoi, a quanti di me solea per amor di te calere, quando tu
c'eri? Non ce ne ha egli alcuno il quale tel venisse a dire? Io credo di no,
però che gli amici della prosperità insieme con essa sono fuggiti. Ma l'anello
ch'io ti donai ha egli perduta la virtù? Io credo di sì, però che alle mie
avversità niuna speranza è lasciata. O santa Venus, al cui servigio l'animo mio
e tutto disposto, per la tua somma deità non mi abandonare, e per quello amore
che tu portasti al tuo dolce Adone, aiutami. Io sono giovane usata nelle reali
case, dove io nacqui, con molte compagne continuamente stata: ora non so perché
sia sì vilmente rinchiusa. Sola la paura mi confonde: a me pare che quante
ombre vanno per la nera città di Dite, tutte mi si parino davanti agli occhi
con terribili e spaventevoli atti. Mandami alcuno de' tuoi santi raggi in
compagnia; e in bene della mia vita adopera quello che tu meglio di me conosci
che bisogna, ché tu vedi bene che io aiutare non mi posso».
Non
avea Biancifiore ancora compiute di dire queste parole, che nella prigione
subitamente apparve una gran luce e maravigliosa, dentro alla quale Venere
ignuda, fuor solamente involta in uno porporino velo, coronata d'alloro, con un
ramo delle frondi di Pallade in mano dimorava. La quale, quivi giunta,
subitamente disse:
«Ahi,
bella giovane, non ti sconfortare. Noi già mai non ti abandoneremo: confortati.
Credi tu che la nostra deità abandoni così di leggiere i suoi suggetti? Le tue
voci ci percossero gli orecchi infino nel nostro cielo, al pietoso suono delle
quali io subitamente a te sono discesa, e mai non ti lascierò sola. E non
dubitare di cosa che stata ti sia infino a qui fatta, che da questa ora avanti
niuna cosa ti sarà fatta, per la quale altra offesa che sola un poco di paura
te ne seguisca».
Quando
Biancifiore vide questo lume e la bella donna dentro alla prigione, tutta
riconfortata, si gittò ginocchione in terra davanti ad essa, dicendo:
«O
misericordiosa dea, lodata sia la tua potenza. Niuno conforto era a me misera
rimaso, se tu venendo non m'avessi riconfortata. Ahi, quanto ti dobbiamo essere
tenuti pensando alla tua benignità, la quale non isdegnò di venire de' gloriosi
regni in questa oscurità e solitudine a darmi conforto, non avendo io tanta
grazia già mai meritata. Ma dimmi, pietosa dea, poi che con le tue parole m'hai
renduto alquanto del perduto conforto, se licito m'è a saperlo, quale è la
cagione per che fatta m'è questa ingiuria?».
A
cui la dea rispose:
«Niuna
altra cagione ci è, se non per che tu e Florio siete al mio servigio disposti;
ma non sotto questa spezie s'ingegna il re di nuocerti, ma il modo trovato da
lui, col quale egli si ricuopre, è falso e malvagio: ma egli è ben conosciuto
tanto avanti, che alla tua fama non può nuocere, e ancora sarà più manifesto. E
d'altra parte, io poco avanti discesa giù dal cielo, ordinai la tua
diliberazione, in maniera che, avanti che il sole venga domane al meridiano
cerchio, tu sarai renduta al re e tornata in quella grazia che solevi. Più
avanti non te ne dirò ora, però che tutto vedrai e saprai domane».
Con
questi ragionamenti e con molti altri si rimase Biancifiore con la santa dea
infino al seguente giorno, quasi rassicurata, sanza prendere alcuno cibo,
infino che tratta fu di prigione per menare alla morte.
[49]
Cominciossi
per la corte un gran mormorio, poi che il re fu partito dal gran consiglio che
tenuto avea del fallo che dovea aver fatto Biancifiore: e tutti i baroni e l'altra
gente, chi in una parte e chi in un'altra ne ragionavano; e a tutti parea
impossibile il credere che Biancifiore avesse già mai tanta malvagità pensata,
con ciò sia cosa che semplice e pura e di diritta fede la sentivano. E altri
diceano che veramente mai Biancifiore non avrebbe tal fallo commesso né
pensato, ma questo era fattura del re, il quale ordinato avea ciò per farla
morire, perciò che Florio più che altra femina l'amava, e 'l re temea che egli
non la prendesse per isposa, o a vita di lei non ne volesse prendere alcuna
altra. Alcuni diceano ciò non porria essere, ché, se il re l'avesse avuto animo
adosso, per altro modo l'avria fatta morire, né mai si sarebbe vantato di
maritarla, come la mattina avea fatto, affermando d'attenere il suo vanto con
tanti saramenti: aggiungendo a questo che essi credevano che ciò fosse fattura
del siniscalco, però che l'avea in odio, perché rifiutato l'avea per marito. E
altri ne ragionavano in altra maniera: chi difendea il re e chi Biancifiore, ma
a tutti generalmente ne dolea, e niuno potea credere che difetto di Biancifiore
fosse mai stato. E molti ve n'avea che, se non fosse stato per tema di
dispiacere al re, avrebbero parlato molto avanti in difesa di Biancifiore, e
ancora prese l'arme, se bisognato fosse, chi per amor di lei e chi per amor di
Florio. E così d'uno ragionamento in altro il giorno passò, e sopravennero le
stelle, mostrandosi tutto quel giorno, quanto durò, il re e la reina molto
turbati nel viso, avvegna che contenti e allegri fossero nell'animo, sperando
che il seguente giorno per la morte di Biancifiore terminerebbero il loro
disio.
[50]
Il
re dormì poco quella notte, tanto il costringea l'ardente disio che il nuovo
giorno venisse; e sollecitando le maladette cure il suo petto, più volte quella
notte eccitato, disse:
«O
notte, come sono lunghe le tue dimoranze più che essere non sogliono! O il sole
è contra 'l suo corso ritornato, poi che egli si celò in Capricorno, allora che
tu la maggior parte del tempo nel nostro emisperio possiedi, o Biancifiore
credo che con le sue orazioni priega gl'iddii che rallungare ti facciano, quasi
indovina al suo futuro danno. Ma folle è quello iddio che per lei di niente
s'inframette, ché a lui non fia mai per lei acceso fuoco sopra altare né
visitato tempio. Di se medesima gli può ben promettere sacrificio, però che
quando tu ti partirai del nostro emisperio, io la farò ardere nelle cocenti
fiamme, né di ciò alcuno pregato iddio la potrà aiutare, né trarla delle mie
mani: adunque partiti, e lasciami tosto vedere l'apparecchiato fine al mio
disire. E tu, o dolcissimo Apollo, il quale disideroso suoli sì prestamente
tornare nelle braccia della rosseggiante Aurora, che fai? Perché dimori tanto?
Vienne, non dubitar di venire sopra l'orizonte, per che io deggia fare per la
tua venuta ardere la non colpevole giovane. Questo non è l'acerbissimo peccato
del comune figliuolo de' due fratelli mangiato da essi, porto dalla crudel
madre, per lo quale tu tirasti i carri dello splendore indietro, e non volesti
dare quel giorno luce alla terra, perché sopra sé sì fatta crudeltà avea
sostenuta. Tu desti più volte luce a Licaon, operatore di maggior crudeltà che
questa non è; e sofferisti che Progne, dopo l'ucciso figliuolo, dandole tu
lume, si fuggisse dalla giusta crudeltà di Tireo; né si celò la tua luce nella
morte de' due tebani fratelli. Adunque, poi che a Licaon, a Progne e ad Etiocle
ne' loro falli il tuo splendore concedesti, è così mirabile cosa se tu a me ne
porgi? Questa non è la prima femina che muore ingiustamente, né sarà l'ultima,
né a te più che un'altra cara. Dunque vieni! Deh, non dimorare più! Fuggano
omai le stelle per la tua luce. Non mi fare più disiderare quello che tu
naturalmente suogli a tutti donare».
Così
parlava il re, ora vegghiando e ora non fermamente dormendo: e in tale maniera
passò tutta quella notte. Ma poi che il giorno apparì, subito si levò, e fece
chiamare i giudici, e loro comandò che sanza indugio fosse giudicata
Biancifiore.
[51]
Quella
mattina il sole coperto da oscure nuvole non mostrò il suo viso, e l'aria da
noiosa nebbia impedita parea che piangesse, quasi pietosa degli affanni di
Biancifiore. Ma poi che i chiamati giudici furono davanti al re e ebbero il
comandamento ricevuto, stettero quasi stupefatti davanti al re. E conoscendo quasi
il volere degl'iddii, e la ingiusta sentenza che dare doveano temendo, e mossi
a pietà, s'ingegnarono d'aiutare Biancifiore, e dissero:
«Altissimo
signore, niuna persona può da noi essere giudicata, se quella, cui giudicare
dobbiamo, prima a' nostri orecchi non confessa con la propia bocca il fallo per
lo quale al nostro giudicio è tratta. Noi non abbiamo udito ancora da
Biancifiore alcuna cosa, o s'è vero o non vero quello di che voi volete che a
morte la sentenziamo. E voi volendo fare quest'opera secondo il giudiciale
ordine, come dite, e non di fatto, conviene che ce la facciate udire sé aver
commesso questo fallo, però che noi dubitiamo che, sanza fare il debito modo,
la sentenza non torni sopra i nostri capi».
Assai
si turbò il re di queste parole, e temendo forte che Biancifiore ascoltata non
fosse, e per quello che il suo inganno si manifestasse, o che per indugiare non
pervenisse a orecchie a Florio, rispose:
«Questo
fallo fatto da costei non ha bisogno di confessagione alcuna, però che è sì
manifesto, che, se negare lo volesse, non potrebbe, e però sopra l'anima mia e
de' miei figliuoli la giudicate incontanente».
Comandarono
adunque i giudici che Biancifiore fosse incontanente tratta di prigione e
menata davanti da loro, vedendo essi la volontà del re essere disposta pur a
volere che sanza alcuno indugio giudicata fosse.
[52]
Fu
adunque Biancifiore tratta fuori di prigione quella mattina, e la chiara luce
che accompagnata l'avea da lei subito si partì, e questa vestita di neri
drappi, i quali la reina mandati le avea, acciò che come nobile femina andasse
a morire, venne tacitamente dinanzi a' giudici, quasi perdendo ogni speranza
che ricevuta avea dalla santa dea il preterito giorno; e quivi fermata, uno de'
giudici levato in piè con empia voce così disse:
«Sia
a tutti manifesto che la presente iniqua giovane Biancifiore per suo inganno e
tradimento volle, il giorno passato, il nostro e suo signore re Felice
avvelenare con un paone, sotto spezie d'onorarlo; e perciò, acciò che nullo
uomo o altra femina a sì fatto fallo mai s'ausi, noi condanniamo lei, ch'ella
sia arsa e fatta divenire cenere trita, e poi al vento gittata».
E
questo detto, comandò che al fuoco sanza indugio menata fosse.
[53]
Biancifiore
avea perduto il naturale colore per la paura e per lo digiuno; e il suo bel
viso era tornato palido e smorto come secca terra; ma ancora il nero vestimento
le dava alle non guaste bellezze gran vista. E udendo ella il miserabile
giudicio contra lei dato sanza ragione, forte incominciò a piangere e a dire
fra se medesima: "Oimè misera, or convienmi elli morire? Or che ho io
fatto?". E se non fosse che le sue dilicate mani erano con istretto legame
congiunte, ella s'avrebbe i biondi capelli dilaniati e guasti, e 'l bel viso
sanza niuna pietà lacerato con crudeli unghie, stracciando i nuovi drappi
significanti la futura morte, e avrebbe riempiuta l'aere di dolorose e alte
voci; ma vedendosi impedita e circundata da innumerabile popolo, costretta da
savio proponimento, raffrenò le sue voci, e sanza nullo romore fra sé
tacitamente ricominciò a dire: "Ahi, sfortunato giorno e noiosa ora del
mio nascimento, maladetti siate voi! Oimè, morte, quanto mi saresti tu stata
più graziosa nelle braccia di Florio, com'io credetti già che tu mi venissi!
Deh, ora mi fossi tu almeno venuta in quell'ora ch'io chiamata fui a portare il
male avventuroso uccello per me, però che io allora sarei morta onestamente e
sanza vergogna d'alcuna infamia. Ahi, anime del mio misero padre e de' suoi
compagni e della mia dolente madre, i quali per me acerba morte sosteneste,
rallegratevi, che io, stata di sì crudel cosa cagione, sono punita degnamente.
Niuna altra cosa credo che nuoccia a me misera, se non questa, insieme con
l'aver portata troppa lealtà e onore a colui che ora mi fa morire. O
crudelissimo re, perché mi rechi a sì vile fine? Che t'ho io fatto? Certo niuna
colpa ho commessa, se non che io ho troppo amore portato al tuo figliuolo. Deh,
or che mi faresti tu, o più crudele che Fisistrato, se io l'avessi odiato?
Quale tormento m'avresti tu trovato maggiore? Io, misera, mai nol ti dimandai,
né lui pregai ch'egli di me s'innamorasse. Se gl'iddii concedettero al mio viso
tanta di piacevolezza che il suo gentile cuore fosse per quella preso, ho io però
meritata la morte? Se io avessi creduto che la mia bellezza mi fosse stata
agurio di sì doloroso fine, io con le mie mani l'avrei deturpata, seguendo
l'essemplo di Spurima, romano giovane. Ma fuggano omai gli uomini i doni
degl'iddii, poi che essi sono cagione di vituperevole fine. Io, misera, avrei
già potuto con le mie parole tirare Florio in qualunque parte la volontà più
m'avesse giudicato, o congiugnerlo meco per matrimoniale nodo, se io avessi
voluto, se non fosse stata la pietà che 'l mio leale cuore ti portava. O
vecchio re, per l'onore che io da te ricevea non ti volli mai del tuo unico
figliuolo privare, e io del bene operare sono così meritata. A questo fine
possano venire i servidori de' crudeli, che io veggio venir me! O sommo Giove,
il quale io conosco per mio creatore, aiutami. Tu sai la verità di questo
fatto, e conosci che io non fallii mai: non consentire adunque che le pietose
opere abbiano tale guiderdone. La mia speranza chiede solo il tuo aiuto,
fermandosi nella tua misericordia. Non sostenere che oggi il nome degli effetti
del tuo cielo ricuopra la iniquità del re Felice contra di me, ma
manifestamente fa nota la verità. E tu, o santa Giunone, nel cui uccello tanta
falsità fu nascosa per conducermi a questo fine, vendica la tua onta, fa che
questa cosa non rimanga inulta, ma sia letta ancora tra l'altre vendette da te
fatte, acciò che la tebana Semelè o la misera Ecco non si possano di te
giustamente piangere. E tu, o sacratissima Venere, soccorri tosto col promesso
aiuto; non indugiar più, però che, non vedendolo, a me fugge la speranza delle
tue parole da tutte parti, però che io al fuoco mi sento condannare. Veggiomi i
feroci sergenti dintorno armati, come se io fierissima nimica delle leggi mi
dovessi torre loro per forza, e veggo il siniscalco, a me crudelissimo nimico,
sollecitare i miei danni con altissime voci e con furiosi andamenti, né più né
meno come se egli della mia salute dubitasse. Né veggio che per pietà di me
cambi aspetto. Tutte queste cose mi danno paura e tolgonmi speranza. Dunque
soccorri tosto, che io dubito che se troppo indugi, io non muoia di contraria
morte che quella che apparecchiata m'hanno costoro, però che la molta paura
m'ha già sì raffreddato il cuore, che egli gli è poco sentimento rimaso".
[54]
Mentre
che Biancifiore, ascoltando la crudele sentenza, sì tacitamente fra sé si
ramaricava piangendo, il re insieme con la reina e con molta altra compagnia
vennero a vederla, già volendola i sergenti menare via. Ma Biancifiore col viso
pieno di lagrime voltata al reale palagio, il quale ella mai rivedere non
credea, vide ad un'alta finestra il re e la reina riguardanti lei: allora più
la costrinse il dolore, e con più amare lagrime s'incominciò a bagnare il
petto. Ma non per tanto così, com'ella poté, si sforzò di parlare, e con debole
voce, rotta da molti singhiozzi di pianto, disse:
«O
carissimo padre, re Felice, da cui io conosco l'onore e 'l bene che io per
adietro ho ricevuto in casa tua e quello che ricevette la mia misera madre,
essendo noi stranieri, rimani con la grazia degli iddii, tu e la tua compagna,
i quali io priego che ti perdonino la ingiusta morte alla quale tu mi mandi
sanza ragione. E certo più onore vi tornava a tutti l'essere degnamente stati
pietosi, che ingiustamente crudeli verso me, che mai a' vostri onori non ruppi
fede; e ancora li priego che essi sieno a voi più prosperevoli che a me non
sono stati».
E
dicendo Biancifiore queste parole, il siniscalco su un alto cavallo, con un
bastone in mano, sopravenne, e dando su per le spalle a' sergenti che la
menavano, e a lei disse:
«Via
avanti, non bisognano al presente queste parole: priega per te, non per loro».
Onde
Biancifiore piangendo bassò la testa, andando oltre sanza più parlare. Il re e
la reina, che quelle parole aveano udite, alquanto più che l'usato modo
costretti da pietà, cominciarono a lagrimare: e in tanto ne dolfe alla reina,
che molto si pentì del malvagio consiglio che al re donato avea, e volentieri
avrebbe tutto tornato adietro, se con onore del re e di lei fare l'avesse
potuto. I sergenti tiravano forte e vituperosamente Biancifiore verso la Braa,
ove il fuoco apparecchiato già era; e ella che del cospetto dello iniquo re
s'era piangendo partita, andava col capo basso, pianamente dicendo: "Oimè,
Florio, ove se' tu ora? Deh, se tu m'amassi come tu già m'amasti e come io amo
te, e sapessi che la mia vituperevole morte mi fosse sì vicina, che faresti tu?
Certo io credo che tu porteresti grandissimo dolore: ma tu non m'ami più. Io
conosco veramente il tuo amore essere stato fallace e falso; che se perfetto e
buono fosse stato, come è stato il mio verso di te, niun legame t'avrebbe
potuto tenere a Montoro, che almeno non avessi al mio soccorso cercato alcuno
rimedio, volendo sapere la cagione della mia morte da me, se lecita è o no; o
solamente saresti venuto a vedermi inanzi ch'io morissi, mostrando che della
mia morte portassi gravissimo dolore. Oimè, che tu forse aspetti che io il ti
mandi a dire, ma tu non pensi com'io posso, che non che mandare a dirtelo mi
fosse lasciato, ma una picciola scusa non è voluta ascoltare da me, né
consentito che ascoltata sia; avvegna che tu il sai, né ti potresti scusare che
tu nol sapessi, però che, poi che io misera fui tratta di prigione, io ho
tacitamene udito ragionare a molti che il duca e Ascalione per non vedere la
mia morte se ne sono venuti costà, e so che essi t'hanno contato tutto il mio
disaventurato caso, come coloro che 'l sanno interamente. Dunque perché non mi
vieni ad aiutare? Chi aspetti tu che si lievi in mio aiuto, se tu non vi ti
lievi? Forse tu dubiti d'aiutarmi, dicendo: "Ella muore giustamente:
leverommi io a volere difendere la ingiustizia?". Certo tu se' ingannato,
che non che gli uomini ma i bruti animali pare che ne parlino che la morte
ch'io vo a prendere m'è ingiustamente data, e tu me ne se' principale cagione.
E se pur giustamente la ricevessi, pensando al grande amore che io t'ho sempre
portato, non mi dovresti tu ragionevolmente aiutare e difendere da sì sozza
morte, acciò che la gente non dicesse: "Colei, cui Florio amava cotanto,
fu arsa"? E ancora ho udito affermare ad alcuni che per niuna altra cosa
si partì Ascalion di qua, se non per venirloti a dire. Ma quando egli mai non
te l'avesse detto, il mio anello, il quale io ti donai quando da me ti
partisti, non te lo dee aver celato, ma manifestamente col suo turbare ti dee
aver mostrato le mie avversità; e credo che egli, del mio aiuto più sollecito
di te, già te l'abbia mostrato. Ma io dubito che tu negligente al mio soccorso
ti stai costà, forse contento d'abbracciare o di vedere alcun'altra giovane, e,
dimenticata me, hai de' miei impedimenti poca cura. Onde io, dolorosa, sanza
conforto per te mi morrò, avvegna che uno solo ne porterà l'anima mia agl'infernali
iddii, o altrove che ella vada, che io veggio manifestamente ad ogni persona
dolere della mia morte, e dire che io muoio per te, e per altra cosa no. Ma se
gl'iddii mi volessero tanta grazia concedere, ch'io ti potessi solamente un
poco vedere anzi la mia morte, molto mi sarebbe a grado, e il morire meno
noioso. Dunque, o dispietato, che fai? Deh, vieni solamente a porgermi questa
ultima consolazione, se l'aiutarmi in altro t'è noia". Queste e molte
altre parole andava fra sé dicendo Biancifiore, menata continuamente con
istudioso passo alla sua fine. Niuno era in Marmorina tanto crudele che di tale
accidente non piangesse, e l'aere era ripieno di dolenti voci. Ma ciascuno, non
potendola più oltre che 'l piangere mostrare che di lei gli dolesse, dicea:
«Gl'iddii
ti mandino utile e tostano soccorso, o dopo la tua morte alloghino la tua
graziosa anima nella pace de' loro regni».
E
giunti i sergenti al misero luogo dove era il fuoco acceso e ragunato infinito
popolo per vedere, il siniscalco fece fare grandissimo cerchio, acciò che sanza
impedimento i sergenti potessero il loro uficio fare. Ma a Biancifiore corse
agli occhi molto di lontano i due cavalieri, che già a lei s'avvicinavano per
la sua difesa: e sanza sapere più avanti di loro essere che gli altri che quivi
erano, imaginò che l'uno di costoro fosse Florio, il quale quivi alla
diliberazione di lei fosse venuto. Per la qual cosa, ricordandosi della
'mpromessa della santa dea, alquanto il naturale colore le ritornò nel viso, e
cacciando da sé alquanto di paura, s'incominciò a riconfortare e a prendere
speranza della sua salute.
[55]
Florio
e Ascalion, pervenuti al tristo luogo per grande spazio avanti che il giorno
apparisse, affannati per lo perduto sonno, vaghi di riposarsi, Florio perché
era giovane e non uso d'alcuna asprezza, e Ascalion per lunga età già tutto
bianco, smontati ciascuno del suo cavallo, e legatolo a uno albero, dissero:
«Qui
alquanto ci riposiamo, infino a tanto che il nuovo giorno appaia».
E
cavatisi gli elmi e messisi gli scudi sotto il capo, cominciarono soavemente a
dormire ciascuno di loro.
[56]
O
Florio, or che fai tu? Tu fai contro all'amorose leggi. Niuno sonno si conviene
al sollecito amadore. Deh, or non pensi tu che cosa è il sonno, e come egli
sottilmente sottentra ne' disiderosi occhi e negli affannati petti? Or ove sono
fuggite le sollecite cure, che stringevano il tuo animo poco avanti? Ora elli
ti soleva essere impossibile il dormire sopra i dilicati letti: ora come con
l'armi indosso sopra la dura terra ti se' addormentato? Credi tu forse
Biancifiore aver tratta di pericolo perché tu sii armato? Ella è ancora in quel
pericolo che ella si fu avanti che tu t'armassi. Ma forse tu credi il sonno a
tua posta cacciare da te: ma pensa che tu dormendo niuna signoria hai: adunque
porre non gli puoi termine, ma egli a sua posta si partirà. E se alquanto ti
tiene più che a Biancifiore non bisogna, a che sarà ella? Certo alla morte!
Forse tu ti fidi che gl'iddii ogni volta ti deggiano con nuovi sogni destare?
Forse non ti desteranno; e se ti destano, che grado alla tua sollecitudine, più
tosto da dire pigrizia? Venus ha infino a qui fatto il suo dovere: se tu a
quello ch'ella t'ha detto sarai pigro, ella si riderà di te, e terratti vile, e
scherniratti con dovute beffe. Deh, come tu male, se tu soperchio dormi, avrai
adoperata la ricevuta spada! Ora non ti stringe amore? Or non t'è a mente
Biancifiore? Ogni sollecitudine è testé da te lontana! Ma la misera
Biancifiore, forse già fuori della cieca prigione, ode la non giusta sentenza
data contro di lei, o forse è vilmente menata allo acceso fuoco; e ripetendo
tutte quelle parole che a lei si convengono verso di te dire, va piangendo. Or
s'ella muore, che varrà la tua vita? Ella si potrà più tosto dire ombra di
morte. Ora se Biancifiore sapesse che un poco di sonno, sopravenuto ne' tuoi
occhi, t'avesse fatto dimenticare li suoi affanni, or non avrebbe ella cagione
di non amarti già mai, ma degnamente odiarti? E s'ella morisse, potendola tu
aiutare, gran vergogna ti sarebbe, e veramente mai viver lieto non dovresti.
Dunque levati su, non vinca il sonno la debita sollecitudine, però che mai
nullo pigro guadagnerà i graziosi doni.
[57]
Nel
piccolo spazio che Florio quivi adormentato stette, gli fu la fortuna molto
graziosa, però che a lui parea, così dormendo, con le sue forze avere liberata
Biancifiore da ogni pericolo, e con lei essere in un piacevole giardino, pieno
d'erbe e di fiori, e di varii frutti copioso, allato a una chiara fontana
coperta e circuita da giovanetti albuscelli, in maniera che appena i chiari
raggi del sole vi potevano trapassare. E quivi gli parea con lei sedere con due
strumenti in mano sonando: e cantando amorosi versi, insieme si traevano
allegra festa, talora recitando i loro fortunosi casi, e tal volta
disiderosamente gli pareva abbracciar lei, e ch'ella abbracciasse lui, e
dessorsi amorosi baci. E già non lo allegrava tanto la gioiosa festa, quanto il
parergli averla tratta di tanto pericolo, in quanto ella medesima gli avea nel
sogno narrato ch'era stata. E così Florio, che dormendo disiderava di non
dormire, si stava, quando il giorno s'incominciò alquanto a rischiarare. Allora
l'altissimo prencipe delle battaglie, sollecitato dalla sua amica, discese del
suo cielo, e sopra un rosso cavallo, armato quanto alcun cavaliere fosse mai,
sopragiunse a costoro; e ismontato da cavallo prese per lo braccio Florio, che,
ancora dormiva, e disse:
«Ahi,
cavaliere, non dormire, leva su: vedi colui, il cui figliuolo seppe sì mal
guidare l'ardente carro della luce, che ancora si pare nelle nostre regioni,
che già co' suoi raggi ha cacciate le stelle!».
Allora
Florio, tutto stupefatto, subitamente si dirizzò in piè guardandosi dintorno, e
forte si maravigliò, quando vide il cavaliere, che chiamato l'avea, che della
rossa luce di che era coperto tutto parea che ardesse, e disse:
«Cavaliere,
chi siete voi che queste parole mi dite e che m'avete il dolce sonno rotto?».
«Io
sono guidatore e maestro delle celestiali armi - rispose Marte - e insieme sono
in cielo iddio con gli altri, e sono qui venuto al tuo soccorso, però che
novello cavaliere se' entrato sotto la mia guida. Non dubitare, fatti sicuro, e
te' questo arco con questa saetta: niuno tuo nimico ti sarà sì lontano, che con
questa non l'aggiunghi, solamente che tu il vegga: folle è chi l'aspetta,
ardito chi la saetta, e iddio è chi le fabrica; però tieni caro e l'uno e
l'altro, acciò che donandoli non te ne avvenisse come alla misera Pocris, la
quale molto più lunga vita aspettava, se guardata avesse la saetta che donò a
Cefalo. E quella spada, che la mia carissima amica ti recò, non dispregiare,
ché niuna arme, fuori che le nostre, è che a' suoi colpi possa resistere. L'ora
s'appressa che noi dobbiamo cavalcare; chiama il tuo compagno, e andiamo».
[58]
Di
questo cavaliere si maravigliò molto Florio, però che oltre alla misura degli
uomini grandissimo il vedea, ferocissimo nel viso, e tutto rosso, con una
grandissima barba, e sì lucente, che appena potea sostenere di mirarlo. Ma
udite le sue parole, rallegratosi molto di tale aiuto, quale era il suo,
bassatosi in terra gli s'inginocchiò davanti, dicendo:
«O
sommo iddio, sempre sia il tuo valore essaltato, com'è degno; quanto per me si
può, tanto più ti ringrazio del caro e buono arco che donato m'hai, e della tua
compagnia, la quale a me indegno t'è piaciuto di farmi in questa necessità. Per
che io ti priego che tu, come promesso hai, così al mio aiuto sii avvisato in
non abandonarmi, acciò che io, tornando a Montoro con l'acquistata vittoria, le
mie armi nel tuo santissimo tempio divotamente doni».
E
questo detto, si dirizzò in piè, e chiamato Ascalion, disse:
«Cavalchiamo,
che tempo è, e a me pare già vedere empiere il tristo luogo di molta gente, e
parmi vedere l'accese fiamme risplendere in mezzo di loro».
Ascalion
sanza indugio si levò, e vide ch'egli dicea vero. Allora messisi gli elmi e
presi gli scudi e le lance, montarono a cavallo seguendo Marte, che avanti loro
cavalcava, verso quella parte dove Biancifiore dovea essere menata. Ascalion,
che a Florio vedea portare il forte arco, disse:
«O
Florio, e chi t'ha donato questo arco, poi che noi venimmo qui?».
«Certo
- rispose Florio - l'alto duca delle battaglie, che qui davanti a noi cavalca,
poco fa, dormendo io, mi chiamò, e donommi questo arco e questa saetta, e
dissemi che noi cavalcassimo, allora che io ti chiamai».
Disse
Ascalion:
«Dove
è quel duca che tu di' che 'l ti donò? Io non veggio davanti a noi se non uno
splendore molto vermiglio, del quale io t'ho voluto più volte domandare se tu
il vedevi tu».
Disse
Florio:
«Quegli
è desso; io veggo lo splendore e lo iddio che dentro vi dimora».
Allora
disse Ascalion:
«Ben
ti dico che ora veggo che gl'iddii t'amano, e che tu dei pervenire a
grandissimi fatti. Quale vuo' tu della tua futura vittoria più manifesto
segnale? Certo quella fiamma che apparve a Lucio Marzio sopra la testa,
aringando elli a' disolati cavalieri in Ispagna per la morte di Publio Gneo
Scipione, non fu più manifesto segno del futuro triunfo. Né quella ancora che
apparve a Tulio, ancora picciolo fanciullo, dormendo, nel cospetto di
Tanaquila, fu più manifesto segnale del futuro imperio, che questo sia della
diliberazione di Biancifiore. Adunque confortati e prendi vigoroso ardire,
seguendo le vestige del forte iddio. E ora ciò che stanotte mi dicesti, sanza
dubbio ti credo, ben che infino a qui molto dubitato n'abbia che vere non
fossero le tue parole».
[59]
Così
parlando e seguendo il celestiale cavaliere, pervennero al luogo dove le calde
fiamme erano accese; e passati nel gran cerchio che il siniscalco avea già
fatto fare dintorno al fuoco, si fermarono per vedere se alcuno dicesse loro
alcuna cosa. Ciascuno che nel piano era, veduta questa rossezza nel piano
subitamente venuta, e non sappiendo che si fosse, dubitava, e niuno ardiva
d'appressarsi; ma chi nel piano entrava, non sappiendo di che, avea paura. Ma
il siniscalco, che con rivolta redina avea ripreso il secondo cerchio maggiore
per dare maggiore spazio a' sergenti, veduta la nuova luce, cominciò ad aver
paura, molto in sé maravigliandosi e dubitando non questo fosse alcun segnale
che gl'iddii avessero mandato in significanza della salute di Biancifiore. Ma
pure per non parere meno che ardito e per non isgomentare gli altri, passò
avanti con non più sicuro animo che Cassio in Macedonia contra Ottaviano,
veduta la figura di Cesare vestita di porpore venire contro a lui, tanto che
pervenne ad esso sanza far motto, e a' due cavalieri che appresso gli stavano,
i quali Biancifiore molto di lontano avea veduti, e' con rabbiosa voce disse:
«Signori,
traetevi adietro».
Allora
Marte, rivolto a Florio, disse:
«O
giovane coperto delle nuove armi, ecco colui il quale tu dei oggi recare a
villana fine; questi fia campione contra la verità: e veramente ha meritato ciò
che da te riceverà, però che egli è colui che mise in effetto l'ordinato male
da' tuoi parenti: rispondigli, né per lui di questo luogo ti muovere».
Allora
Florio si trasse avanti con tanta fierezza, quanta se quivi uccidere l'avesse
sanza indugio voluto, e disse:
«Cavalier
traditore, né tu né altri mi farà di qui mutare, più che mi piaccia».
Il
siniscalco, crucciato e impaurito per la compagnia che con lui vedea, si tirò
indietro con intendimento di tornargli adosso con più compagni; ma Florio,
alzata la testa, e rimirando il piano, vide Biancifiore assai presso del fuoco,
già da alcuno sergente presa per volerlavi gittare; e vedendola Florio vestita
di nero, colei che solea essere perfetta luce del suo cuore, e vedendo i begli
occhi pieni di lagrime, e i biondi capelli sanza alcuno maestrevole legamento
attorti e avviluppati al capo, e le dilicate mani legate con forte legame, e
lei in mezzo di vile e disutile gente, incominciò per pietà sotto il lucente
elmo il più dirotto pianto del mondo, dicendo:
«Oimè,
dolcissima Biancifiore, mai non fu mio intendimento che nel mio padre tanta di
crudeltà regnasse, che verso di te potesse men che bene adoperare, né mai
credetti vederti a tal partito. Ma unque gli iddii non m'aiutino, se tu non se'
da me aiutata, o io insieme teco prenderò la morte, o tu e io insieme
lietamente viveremo».
E
queste parole fra sé dette, ferì il cavallo degli sproni fieramente, rompendo
la calcata gente, la quale già per la partita del siniscalco aveano riempiuta
l'ampiezza del fatto cerchio da lui; e rifatto col poderoso cavallo nuovo e
maggiore spazio, comandò a' sergenti, che già Biancifiore voleano gittare nel
fuoco, che incontanente sciogliendole le mani la dovessero lasciare, né più
avanti toccarla, per quanto il vivere fosse loro a grado. Egli fu ubidito sanza
dimoro; e i sergenti per tema tutti indietro si tirarono. Allora Florio rivolto
a lei con alta voce disse:
«Giovane
damigella, fugga da te ogni paura, ché gl'iddii, pietosi di te, vogliono che io
ti difenda: dimmi qual sia la cagione per che il re t'ha fatta giudicare a sì
crudele morte, come è questa che apparecchiata ti veggio, ché io ti prometto,
che ragione o non ragione che il re abbia, infino che i miei compagni e io
avremo della vita, per amore di Florio, cui io amo quanto me medesimo, e per
amor della tua piacevolezza, ti difenderemo».
[60]
Vedendosi
Biancifiore confortare dal cavaliere, lasciata da' sergenti, alzò il viso con
gli occhi pieni di lagrime, e dopo uno amaro sospiro così disse:
«O
cavaliere, chi che tu sii, o mandato dagl'iddii in mio aiuto o no, come può
egli essere che occulto ti sia il torto che fatto m'è? Oh, e' pare che le
insensibili pietre, non che gli uomini, ne ragionino, per quello che io misera
n'ho potuto comprendere venendo qua; ma poi che a voi è occulto, e piacevi di
saperlo, io il vi dirò. Ieri si celebrò in Marmorina la gran festa della
natività del re Felice, al quale, con alquanti baroni sedendo a una tavola, io
fui mandata dal siniscalco con un paone, il quale era avvelenato; e io di ciò
non sappiendo niente, fatto quello d'esso che comandato mi fu, io il lasciai
davanti al re, e torna'mene alla camera della reina: ove essendo ancora poco
dimora ta, io fui presa e messa in prigione con grandissimo furore. E sanza
volere essere in alcuno atto ascoltata, fui poco inanzi sentenziata a questa
morte. Ma se a' miseri si dee alcuna fede, io vi giuro per la potenza de' sommi
iddii che questo peccato io non commisi, e sanza colpa mi conviene patire la
pena. Ma io vi priego, se voi siete amico di Florio, per amore del quale io
credo che io sono fatta morire, che voi m'aiutiate e difendiate, acciò che io
sì vilmente non muoia».
Florio,
il quale insieme riguardava e ascoltava intentivamente Biancifiore, piangendo
continuamente sotto l'elmo, e guardandosi bene che del suo pianto niuno
s'avvedesse, molto disiderava di farsi conoscere; poi per l'amaestramento della
santa dea ne dubitava; ma finalmente così le rispose:
«Bella
giovane, confortati, che io ti prometto che tu non morrai, mentre che gl'iddii
mi presteranno vita».
E
alzata la visiera dell'elmo, voltato verso il gran popolo che a vedere era
venuto, disse così:
[61]
«Signori,
i quali qui adunati siete per vedere il disonesto e ingiusto strazio che di
questa giovane alcuni vogliono fare, il quale, se spirito di pietà alcuno fosse
in voi rimaso, dovreste fuggire di ciò vedere, a me brievemente pare, per le
parole che io ho da lei intese, le quali io credo, e manifestamente appare
quelle essere vere, che la sentenza data contro a lei sia, nella presenza degli
uomini e degl'iddii, falsa e iniquamente data, però che ella semplicemente
portò quello che comandato le fu; ma il siniscalco, il quale gliel comandò, è
colui che del male è stato cagione; per la qual cagione sopra lui e non sopra
costei, cade questa sentenza. E chi altro che questo ne volesse dire, o il
siniscalco o altri per lui, io sono presto e apparecchiato di difendere che
quello ch'io ho detto sia la verità, e in ciò arrischierò la persona e la vita,
imperciò che la manifesta ragione mi stringe ad essere pietoso della ingiusta
ingiuria fatta a costei; e, d'altra parte, io sono distrettissimo e caro amico
di Florio, e ella per amore di lui mi priega ch'io l'aiuti e difenda nella
ragione: e io così son presto di fare, e in ragione e in torto, contro a
chiunque la vuol far morire, però che se altro ne facessi, molto alla cara
amistà mi parrebbe fallire, e ogni uomo mi potrebbe di ciò giustamente
riprendere».
[62]
Assai
nobili uomini erano ivi presenti, e massimamente v'erano la maggior parte di
quelli che vantati s'erano al paone, a' quali molto di Biancifiore dolea: i
quali queste parole udendo, tutti dissero che il cavaliere dicea bene, e che
ragionevole cosa era che 'l siniscalco, o altri per lui, sua ragione, contro a
quelli che la contradicea, difendesse. E di ciò mandarono al re sofficienti
messaggeri subitamente, contenti tutti sanza fine di tale accidente,
favoreggiando Biancifiore in quanto poteano. E alcuno di quelli giudici che
sentenziata l'aveano, trovandosi ivi presente, udite le parole di Florio,
comandò che più avanti non si procedesse, infino a tanto che 'l cavaliere non
avesse suo intendimento provato. Ma il siniscalco, che dentro di rabbiosa ira
tutto si rodea, veggendo che Biancifiore aveva aiuto e che di consentimento di
tutti all'opera si dava indugio, e che il cavaliere sì vituperose parole aveva
dette di lui, incominciò a bestemiare quella deità che avuto avea potere
d'indugiare tanto la morte di Biancifiore, e che per inanzi se ne inframettesse
in non lasciarla morire; e così bestemiando si trasse avanti, e disse:
«Il
cavaliere mente per la gola di tutto ciò che ha detto; ché Biancifiore dee
ragionevolemente morire, e sì morrà ella in dispetto di lui e di Florio, per
cui richiamata s'è, e di qualunque iddio la ne volesse aiutare».
E
comandò a' sergenti che incontanente la mettessero nel fuoco, e lasciassero
dire il cavaliere: che, se difendere la volea, fosse venuto avanti che la
sentenza fosse data, ché omai tornare non si può ella indietro per cosa che
alcuno dica. Florio si volse subito a' sergenti, dicendo:
«Nullo
di voi la tocchi per quanto la vita gli è cara: lasciate abbaiare questo cane
quanto egli vuole; se egli disidera di farla morire, venga avanti egli a
toccarla».
Allora
Massamutino, enfiato e pieno di mal talento, spronò il cavallo adosso a Florio,
e disse:
«Villan
cavaliere, chi se' tu che sì contrari la nostra potenza con sì oltraggiose
parole? Poco che tu parli più avanti, io ti farò prendere e ardere con lei
insieme. Via, levati di qui incontanente».
Florio,
non potendo più sostenere, alzò allora la mano, e diedegli sì gran pugno in su
la testa, che quasi cadere lo fece sopra l'arcione della sella tutto stordito;
e questo fatto, rizzatosi sopra le strieve, e accostatosi a lui, preso l'avea
sotto le braccia per gittarlo dentro all'acceso fuoco; ma molti furono gli
aiutatori, quasi più per iscusa di loro che per buona volontà, i quali se stati
non fossero, finita era quivi la rabbia del siniscalco. Ma trovandosi egli
dilibero da Florio, voltate le redini del corrente destriere, avacciandosi
n'andò al real palagio; e venuto nella presenza del re, vi trovò alcuni mandati
da' nobili uomini che udite aveano le parole di Florio, i quali da parte loro
gli recitavano l'accidente. A costoro ruppe il siniscalco il parlamento,
giungendo furioso, e così disse:
«Ahi,
signor mio, ascolta le mie parole. Là alla Braa è venuto il più villan cavaliere
che unque portasse arme, insieme con un compagno, tutti armati, e dice che
provare mi vuole per forza d'arme che la sentenza, da' vostri giudici data
contro a Biancifiore, sia falsa, e ch'ella non debbia morire intende, e a me,
che disarmato a' suoi intendimenti resistea, ha fatto villania e oltraggio; e
certo ivi era presente Parmenione, Sara, e al tri uomini a voi suggetti sì
com'io, i quali più tosto disaiuto che soccorso mi porsero, svergognando voi e
la vostra potenza, favoreggiando Biancifiore. E il cavaliere ha detto ch'è
fedelissimo e distretto amico di Florio; onde Biancifiore per parte di lui gli
s'è richiamata: per la qual cosa è del tutto fermo di mai sanza battaglia non
partirsi, e di scampar lei o di morire egli. Onde io vi priego carissimamente
che a me voi concediate questo dono della battaglia, rinnovandomi arme e
cavallo, acciò ch'io possa principalmente con la mia spada il vostro onore e
intendimento servare, e appresso vendicare la ricevuta onta. Io porto speranza
negl'iddii e nelle mie forze che sanza dubbio con vittoria vi menerò preso il
villan cavaliere, che tanto ha oggi vostra potenza dispregiata».
[63]
Niente
piaceano al re tali novelle, ma con dolente animo l'ascoltava, e fra sé dice:
"Deh! or chi ha sì tosto a Florio queste cose rivelate, che egli sì subito
soccorso mandato l' ha? E chi potrebbe essere stato amico di Florio tanto
stretto, che per lui a tal pericolo si mettesse? Non so. O iddii, maladetta sia
la vostra potenza, la quale non ha potuto sostenere ch'io rechi a perfezione un
mio intendimento!". E poi che egli ebbe per lungo spazio rivolte per la
mente le non piacevoli cose, sospirando rispose:
«Non
so chi si sia questi che il mio intendimento s'ingegna d'impedire; ma sia chi
vuole, che forse egli morrà e Biancifiore non camperà».
E
poi soggiunse:
«Siniscalco,
a me pare l'ora molto alta a volere combattere, e te sento oggi molto
affannato, e però rimangasi per questo giorno la battaglia. Va, e fa convitare
il cavaliere e onorarlo infino al mattino; poi, quando il sole con più tiepido
lume ritornerà, combatterete, poi che negare non gli possiamo la battaglia».
«Sire
- rispose il siniscalco, - in niuna maniera può oggi rimanere la battaglia,
però che il cavaliere che là dimora è di sì fiero coraggio e ardimento, che con
qualunque persona volesse Biancifiore toccare, converrebbe che con lui
combattesse, o lei lasciasse stare; né alcuno v'è a cui della morte di
Biancifiore non incresca, né che più tosto in aiuto di lei non mettesse la
persona, che in suo danno dicesse una sola parola, fuori solamente io, che da'
vostri piaceri e comandamenti mai non mi partii né partirò; e però se voi mi
concedete che io oggi combatta, io combatterò, e se non, se io ne vorrò far
venire Biancifiore alla prigione, io so che combattere mi converrà. Priegovi
che adunque voi la mi concediate ora, poi che io sopra lui sono animoso».
[64]
Rispose
allora il re:
«Poi
ch'egli è come tu mi di', e la battaglia non si può oggi cessare, va e prendi
l'arme e qualunque de' nostri cavalli più ti piace, e fa che onore acquisti con
vittoria: pensa che nelle tue mani dee stare oggi la perfezione del nostro
avviso, e la verità delle nostre bocche si dee con la forza del tuo braccio
osservare. Ma acciò che la fortuna con non pensato infortunio il nostro
intendimento non recida, se ti parrà di potere fare, comanderai a' tuoi
sergenti che mentre la gente attenta dimora a vedere la vostra battaglia, che
essi subitamente gittino Biancifiore nell'acceso fuoco; poi, questo fatto,
della tua vittoria non ti curare guari».
«Questo
sarà a mio potere fornito» rispose il siniscalco, e partissi da lui.
[65]
Prese
adunque il siniscalco quelle armi e quel cavallo che migliore si credette che
fosse per tornare al campo; ma la dolente Biancifiore, né campata né al tutto
dannata rimasa, quivi si stava intra' due continuamente piangendo; e poco
valeva che Florio, il quale dal suo lato mai non si partiva, la confortasse,
posto che se saputo avesse che colui che sì pietosamente la confortava fosse
stato Florio, ella avrebbe tosto mutato il doloroso pianto in amoroso riso, non
curandosi del pericolo nel quale esser le parea. Ella domandava sovente:
«O
cavaliere, che è di Florio? Quanto è che voi il vedeste?».
E
ogni volta al nominar Florio, più forte piangea. E Florio le rispondea:
«Giovane
donzella, in verità che la passata sera il vidi e con lui dimorai per grande
spazio a Montoro, là ove io poi il lasciai faccendo sì grandissimo pianto e
duolo di ciò che avvenuto t'è, che niuna persona il potea né può racconsolare.
Egli caramente mi pregò che io dovessi qui sanza dimoro venire a liberarti di
questo pericolo; e egli sanza fallo ci sarebbe venuto, se non che io nol
lasciai, però che io credo fermamente che se egli ti vedesse in tale maniera,
forte sarebbe che egli o per grieve doglia non morisse, o per quella il natural
senno perdesse. Ma molto ti manda pregando che tu ti conforti per amore di lui
e che tu il tenghi a mente, come egli fa te, che mai per bellezza d'alcuna
altra giovane non ti pote né crede poter dimenticare».
Assai
piacevano a Biancifiore queste parole, e molto in sé se ne confortava, e poi
fra sé dicea: "Deh, chi è questo sì caro amico di Florio, che qui al mio
soccorso è venuto? Or nol conosco io? Io soglio conoscere tutti coloro che
amano Florio". E mentre questo fra sé ragionava, sempre guardava l'armato
cavaliere nel viso, e quasi alcuna ricordanza le tornava d'averlo altre volte
veduto; ma l'angoscia e la paura che per lo petto e per la mente le si
volgeano, non lasciavano alla estimativa comprendere niuna vera fazione di
Florio: e, d'altra parte, Florio per l'armi e per le lagrime aveva nel turato
viso perduto il bel colore, il quale mai, avanti che a Montoro andasse, non
s'era nel cospetto di Biancifiore cambiato. E volendolo ella domandare del nome,
Massamutino apparve sopra il campo tutto armato con due compagni, ciascuno
sopra altissimo destriere a cavallo, l'uno de' quali li portava uno forte scudo
avanti, nel quale un leone rampante d'oro in uno azzurro campo risplendea, e
l'altro una corta lancia e grossa con un pennoncello a simigliante arme: per la
qual cosa la gente tutta cominciò a gridare e a dare luogo, dicendo:
«Ora
vedremo che fine avrà l'orgoglio del siniscalco»; e questo tolse a Biancifiore
con subito tremore il non potere più parlare col cavaliere. Ma Florio sì tosto
come questo udì, bassata la visiera dell'elmo, disse:
«O
giovane, fatti sicura che 'l tempo della tua liberazione è venuto»; e voltato
al forte iddio e ad Ascalion, disse:
«O
somma deità nascosa nella vermiglia luce, e tu, caro compagno, ecco il mio
avversario: alla battaglia non può essere più indugio. Io vi priego che questa
giovane vi sia raccomandata, sì che, mentre che io combatterò, alcuna ingiuria
fatta non le fosse».
E
dette queste parole, ripresa la sua lancia, si fermò, quivi aspettando
Massamutino con sicuro cuore.
[66]
Massamutino
non fu prima in sul campo, che egli si fece chiamare alquanti de' sergenti,
quelli in cui più si fidava, e così pianamente disse loro:
«Sì
tosto come voi vedrete che la gente starà tutta attenta a vedermi combattere
col cavaliere, che difender vuole questa falsa femina e voi allora prestamente
la prenderete e gitteretela nel fuoco, acciò che, se io ho vittoria, noi ce ne
siamo più tosto spediti, e se io non avessi vittoria, che per la mia poca forza
non perisca la giustizia».
I
sergenti risposero che ciò sanza alcuno fallo sarà fatto. Allora il siniscalco
prese lo scudo e la lancia, e cavalcò avanti tanto che davanti a Florio
pervenne, a cui egli disse così:
«O
villan cavaliere, ecco chi abasserà la tua superbia; e se tu contro alla vera
sentenza, data giustamente sopra la persona di questa iniqua e vil femina qui
presente, vuoi dire alcuna cosa, io sono venuto per farti con la mia spada
riconoscere il tuo errore».
A
cui Florio rispose:
«Iniquo
traditore, la mia spada non taglia peggio che la tua, e quella gola per la
quale tu menti oggi il proverà, sì come io credo; e a ciò gl'iddii m'aiutino,
sì come campione e difenditore della verità, e però tra'ti adietro, e, quanto
vuoi, del campo prendi, ché poi che armato se', l'offenderti non mi si
disdirà».
[67]
Sanza
più parole ciascuno si trasse adietro quanto a lui piacque, acconciandosi
ciascuno per offendere l'altro. Ma certo la paura del misero Icaro, volante più
alto che il mezzo termine posto dal maestro padre, non fu tale quando sentì la
scaldata cera lasciare le commesse penne, quale fu quella di Biancifiore,
quando il grande grido si levò:
«Ecco
il siniscalco!».
Ella
non morì, e non rimase viva: se alcuno colore l'era nel viso ritornato, o
rimaso, tutto si fuggì, e quasi ogni sentimento del corpo abandonò le sue
parti, e l'anima si ristrinse nell'ultime parti del cuore, e quasi la volle
abandonare; ma poi che la vita tornò igualmente per tutti i membri, ella,
inginocchiata in terra, incominciò a dire, alzato il viso verso il cielo:
«O
sommo Giove, il quale con le tue mani formasti i cieli insieme con tutte
l'altre creature, e in cui ogni potenza è fermamente, se tu ad alcuni prieghi
ti pieghi, riguarda in me misera, e se io alcuna pietà merito, porgimi il tuo
aiuto, sì come facesti al vecchio Anchise, quando sano sanza alcuno impedimento
de' crudeli fuochi dell'antica Troia il traesti. Deh, non volgere i tuoi
pietosi occhi in altra parte, riguarda a me: io sono tua creatura, e nella tua
misericordia spero. A te niuna cosa è nascosa: tu sai se io ho avuta colpa in
ciò che costoro ingiustamente m'appongono. O signor mio, aiutami e aiuta chi
per me s'affanna; non si tinga oggi la spada d'Astrea nello innocente sangue.
Dà vigore al mio cavaliere, il quale forse più per lei, che per amore di me o
d'altrui, s'ingegna di avere vittoria; e non abandonare me misera posta in
tanta tribulazione».
[68]
Quando
i due cavalieri si furono allungati ciascuno l'uno dall'altro quanto a loro
parve, e voltate le teste de' cavalli con presta mano l'uno verso l'altro,
allora s'accostò Marte a Florio, e disse:
«Giovane
cavaliere, qui si parrà quanto sia il valore del tuo ardito cuore: fa che tu
seguiti nelle tue battaglie gli amaestramenti del tuo compagno».
E
questo detto, con la sua mano gli alzò la visiera dell'elmo, e alitogli nel
viso, e poi gliele richiuse, e acconciandogli in mano la forte lancia, disse:
«Muovi,
che già il tuo nemico è mosso».
Florio
sospirando riguardò verso quella parte dove Biancifiore dimorava, e appresso
ferì il corrente destriere con i pungenti sproni, dirizzandosi verso
Massamutino, che inver di lui correndo veniva con la lancia bassata. Ma già non
parve alla circustante gente che un cavaliere si movesse, ma una celestiale
folgore. Egli nella sua mossa fece tutto il campo risonare e fremire, e
giugnendo sopra il siniscalco, sì forte con la sua lancia il ferì nella gola,
che quella ruppe, e lui miseramente abbatté nel campo sopra la nuova erbetta, passando
avanti. E appena avea ancora il colpo fornito, quando i sergenti, veggendo la
gente attenta più a riguardar loro che Biancifiore, s'accostarono per voler
prendere lei e farne come il siniscalco avea comandato. Ma Marte, che di ciò si
accorse, sfavillando corse in quella parte, e lei nella sua luce nascose,
faccendo loro impauriti tutti di quindi fuggire. Il romore fu sì grande nel
campo per la caduta del siniscalco, che lui stordito fece risentire: il quale
ritrovandosi in terra ancora con la sua lancia in mano sanza avere ferito, e
riguardandosi intorno, e vedendo il nimico suo a cavallo tornare verso di lui,
tutto isbigottì, dicendo:
«Oimè,
or con cui combatto io? Quelli non mi pare uomo: voglio io provare le forze mie
con gl'iddii? Già mi manifestò il cuore stamane, incontanente che io vidi la
vermiglia luce, che quello era segno di soccorso divino a Biancifiore. Io
veggio costui che d'iniquità o d'altro arde tutto nel primo aringo: or che farà
egli quando più sarà riscaldato nella battaglia? S'egli è iddio, io non gli
potrò resistere; s'egli è uomo, molto mi sarà duro alla sua fierezza
contrastare. Volontieri vorrei di tale impresa esser digiuno, ma più non
posso».
E
così dicendo, prestamente si dirizzò, e volentieri si saria partito se potuto avesse;
e, traendo fuori la spada, disse:
«Faccino
di me gl'iddii che loro piace: io pur proverò s'egli è così fiero con la spada
in mano come con la pungente lancia, avanti che io, sanza aver bagnata la terra
del mio sangue, mi voglia vituperosamente chiamare vinto».
In
questo Florio s'appressò verso di lui e disse:
«Cavaliere,
certo mala pruova ci fa il tuo orgoglio, e già del primo assalto stai male».
Disse
il siniscalco:
«Niente
sto peggio di te, se io fossi a cavallo; ma già questo vantaggio non avrai tu
da me».
E
questo dicendo, subitamente alzò la spada per ferire Florio sopra la testa, ma
il colpo fu corto e discese sopra il collo del buon cavallo, al quale niuna
resistenza valse che non partisse la testa dal busto, e cadde morto. Florio,
vedendo il colpo, saltò tantosto a terra del cavallo, e acceso d'ira, tratta
fuori la celestiale spada, andò verso di lui, e sì forte col petto l'urtò, che
fatto il credette avere cadere; ma egli forte si ritenne pettoreggiando lui,
non lasciandoselo da quella volta inanzi più accostare, ma ferendolo
continuamente di gravi e spessi colpi. Florio ricevea sopra il rilucente scudo
le molte percosse, quasi lui poco o niente ferendo; ma, stando sempre a
riguardo, intendea di volere tutti i suoi colpi in uno recare, acciò che per
molto ferire la celestiale spada non fosse avvilita. E quando luogo e tempo gli
parve, avvisandolo in quella parte nella gola là ove la lancia avea le armi
guastate, alzato il braccio, sì forte il ferì, che alcuna arme non gli giovò
che egli non gli ficcasse la spada assai nelle nude carni: e se il colpo fosse
stato traverso, come fu diritto, oppinione fu di tutti che tagliata gli avrebbe
la testa. Per questo colpo cadde il siniscalco, e tutti fermamente credettero
che egli fosse morto: per la qual cosa il romore si levò grande:
«Morto
è il siniscalco, e liberata è Biancifiore»; e di ciò tutti rendeano grazie
agl'iddii e faceano festa. Mentre il gran romore si facea, il siniscalco, che
per quel colpo morto no, ma istordito era, si dirizzò tacitamente, e salito
sopra un cavallo, il quale apparecchiato gli fu, incominciò a fuggire. Ma
Florio, che verso Biancifiore se n'era andato, voltato per lo romore che la
gente gli facea dietro, vedendolo fuggire, quasi niente gli parve avere fatto,
però che morto il credeva avere lasciato: allora mise mano al suo arco, un poco
in se medesimo turbato, e postavi la saetta, l'aperse, saettandogli appresso, e
disse:
«Sanza
nostro affanno questa ti giugnerà più tosto che tu non credi».
E
lui fuggente ferì di dietro nelle reni: niuna arme fece alcuna resistenza a
quel colpo, ma passando dentro, mortalmente il piagò. Onde il siniscalco,
sentendo il duolo, quivi si fermò, dove Florio tutto a piè venuto il prese per
la irsuta barba e tirandolo villanamente a terra del cavallo, infino all'acceso
fuoco, nel cospetto di Biancifiore, cui Marte avea già della sua luce tratta,
lo strascinò, insanguinando il piano con le sue piaghe; al quale, quivi giunto,
disse:
«Malvagio
e iniquo traditore, se tu vuoi a noi di te porgere alcuna pietà, narra davanti
a tutto questo popolo in che maniera il veleno, del quale questa innocente
giovane fu accagionata, fu mandato davanti al re».
A
cui il siniscalco così rispose:
«Poi
che gl'iddii v'hanno questa vittoria conceduta, e piace loro che la verità sia
manifesta, io, la cui vita è nelle vostre mani, avvegna che poca rimasa me ne
sia, il vi dirò come io potrò. Fatemi dirizzare in piè e sostenere ad alcuni,
acciò che io stando alquanto alto possa da tutti essere udito e veduto».
Fecelo
Florio sostenere a' suoi sergenti medesimi, e egli così incominciò a dire:
[69]
«Egli
è vero, o signori, che ancora non ha gran tempo, io amai sopra tutte le cose
del mondo Biancifiore, e amandola molto, pregai il re, mio naturale signore,
che gli piacesse di congiungerla meco per matrimonial legge, il quale
liberamente mi promise di farlo; ma poi dicendo ad essa che me per marito
donare le volea, ella rispose che sì vile uomo com'io era mai a suo potere non
l'avrebbe, e che da ciò la dilungassero gl'iddii; e poi piangendo,
gittandoglisi a' piedi il pregò che gli piacesse che egli non la mi desse: onde
egli mosso a pietà di lei, che come figliuola l'amava, disse: "Non
piangere, che io nol ti donerò". Io, risappiendo queste cose, molto mi
turbai, e quello amore ch'io le portava si convertì in odio, e sempre pensai
come io vituperosamente la potessi o far morire o far che cacciata fosse; onde
iermattina celebrandosi la gran festa della natività del re, io feci cuocere e
segretamente avvelenare quel paone, il quale io poi a lei feci portare alla
real mensa; e questo feci acciò che ella venisse a questa morte, dalla quale
questo cavaliere vincendo l'ha scampata».
[70]
Guardossi
assai il siniscalco di non dire alcuna cosa del re, però che campare credea,
ché non volea rimanere nella disgrazia sua; e di ciò fu ben contento Florio,
che la nequizia del suo padre non fosse sì manifestamente saputa. Ma sì tosto
come Massamutino tacque, ogni gente cominciò a gridare:
«Muoia,
muoia!».
E
Marte, che udite avea queste cose, con alta voce, non essendo da alcuno veduto
se non da Florio, disse:
«Sia
questa l'ultima ora della sua vita: gittalo in quel fuoco ove egli fatta avea
giudicare Biancifiore, acciò che la giustizia per noi non patisca difetto. Di
così fatti uomini niuna pietà si vuole avere».
Florio,
udita questa voce, ripresolo per la barba, il gittò nel presente fuoco. Quivi
con grandissime grida e con grieve doglia finì il siniscalco miseramente la sua
vita ardendo.
[71]
Fu
da molti la novella portata con lieto viso al re Felice della morte del
siniscalco e della liberazione di Biancifiore: e chi la vi portò credendolo
rallegrare, e chi per lo contrario. E narrandogli molti per ordine ciò che stato
era nel campo tra' due cavalieri, e ancora il miracolo della vermiglia luce, e
ciò che confessato avea il siniscalco avanti la sua morte, il re in atto fece
vista di maravigliarsene molto, ma gravosa e sanza comparazione noiosa gli era
all'animo tal novella; ma per non scoprire ciò che infino a quell'ora avea con
fermo viso tenuto celato, con atto lieto si mostrò contento di ciò che avvenuto
era, e così disse:
«In
verità che a me molto è a grado che Biancifiore sia da tal pericolo scampata,
poi che colpabile non era, però che io l'amo quanto cara figliuola, avvegna che
assai mi duole della morte del mio siniscalco, il quale io infino a qui per
leale uomo e valoroso avea tenuto. Ma poi che tanta malvagità occultamente in
lui regnava, alquanto mi contento che a tal fine sia pervenuto. E se io voglio
ben considerare tutto ciò che da voi m'è stato detto, io veggo manifestamente
me essere molto tenuto agl'iddii nostri; e similemente conosco me da loro molto
essere amato, veggendo che essi inver di me tanta benivolenza dimostrano, che
essi non sofferano che nella mia corte alcuna iniqua cosa sanza punizione si
faccia, per la quale la mia etterna fama potesse da alcuno ragionevolmente
essere contaminata».
[72]
Avendo
Florio gittato il siniscalco nelle ardenti fiamme, egli fece Biancifiore
montare sopra un bel palafreno. E accompagnando il grande iddio e egli e
Ascalion con molti altri compagni verso il reale palagio, ella ancora quasi
paurosa, che appena potea credere essere fuori del tristo pericolo, si voltò
tutta tremante a Florio, e disse:
«O
signor mio, or dove mi menate voi? Voi m'avete tratta d'un pericolo, e
riportatemi in luogo che è pieno di molti. Deh, perché volete voi avere perduta
la vostra fatica? Io non sarò prima là, che, come voi vi sarete partito, io mi
sarò a quel pericolo che io m'era quando io molto di lontano vi vidi, avvisando
che in mio aiuto foste venuto. Deh, se voi siete così amico di Florio come voi
dite, e come l'operazioni dimostrano, perché non me ne menate voi a lui a
Montoro? Io non dubiterò di venir con voi ovunque voi mi menerete, solo ch'io
creda trovar lui. Egli sarà più contento che voi mi rendiate a lui, che se voi
mi rendete al suo padre».
A
cui Florio rispose:
«Piacevole
donzella, non dubitare: gl'iddii e Florio vogliono che tu sii renduta ora al re
Felice, acciò che del suo fallo egli si riconosca; ma renditi sicura che più da
lui tu non avrai altro che onore. E io, quando tornerò a Montoro, farò sì che
Florio verrà tosto a vederti, o egli manderà per te».
E
mentre che così ragionando andavano, pervennero al reale palagio in Marmorina.
Quivi smontati nella gran corte, Florio prese Biancifiore per mano, e così la
menò nella sala davanti allo iniquissimo re, che ancora parlava con coloro che
raportate gli aveano le novelle della morte del siniscalco. Il quale,
vedendogli venire, si fece loro incontro, a cui Florio disse:
«Sire,
io vi raccomando questa giovane, la quale io, con la forza dell'iddii e con la
mia, della iniqua sentenza ho liberata; e per parte di Florio, per amore di cui
io a questo pericolo, aiutando la ragione, mi sono messo, ve la raccomando e vi
priego che più sopra di lei non troviate cagioni che faccino ingiustamente la
morte parere giusta, come ora faceste, però che la verità pur si conosce
infine, e degna infamia ve ne cresce: e appresso, quando la morte di colei, la
quale innocente e giusta da tutti è conosciuta, e da voi più che da alcuno
altro, cercate, insieme quella di Florio domandate: però tenetela omai più cara
che infino a qui fatto non avete»; e datagliele in sua mano si tirò adietro.
[73]
Con
lieto viso la prese il re, e abbracciatala come cara figliuola la baciò in
fronte, e ella, savissima, incontanente piangendo si gittò in terra, e baciogli
i piedi, e poi in ginocchie levata disse:
«Padre
e signore mio, io ti priego che se mai in alcuna cosa ti offesi, che tu mi
perdoni, ché semplicità e non malizia m'ha fatto in ciò peccare; e priegoti che
del tutto dell'animo ti fugga che io in questo fallo, per lo quale condannata
fui, avessi colpa: e avanti che mai tal pensiero mi venisse, mi mandino
gl'iddii subitana morte. Chi fu quelli che in ciò fallì, a tutto il tuo popolo
è manifesto, e però, caro padre e signore, rivestimi della tua grazia, della
quale ingiustamente fui spogliata».
Il
re la prese per la mano e fecela dirizzare in piè, e la seconda volta con segno
di molto amore l'abbracciò, dicendo:
«Mai
a me non fosti graziosa e cara quanto ora se', e però ti conforta».
E
rivolto a Florio, disse:
«Cavaliere
ignoto m'è chi tu sia, ma però che di' che amico se' di Florio, nostro
figliuolo, e ciò per le tue opere è ben manifesto, e per amore, ché n'hai con
la tua spada illuminato e fattaci conoscere la verità, la quale a' nostri occhi
sanza dubbio era occulta, e hai per questa chiarezza levata da tanto e tale
pericolo costei, la quale quanto figliuola amo, tu mi se' molto caro, e sanza
fine disidererei di conoscerti, quando noia non ti fosse; e dicoti che a me tu
hai troppo piaciuto, avendo chi il peccato avea commesso così debitamente
punito, dando acerba pena allo iniquo fallo, per la qual cosa sempre tenuto ti
sarò; e promettoti per quella fede che io debbo agl'iddii, che per amore di
Florio e di te la giovane sempre mi fia raccomandata. E non voglio che
nell'animo ti cappia che io della giudicata morte non fossi molto dolente; e
certo a tutti costoro poté essere manifesto il mio viso e 'l petto pieno di
lagrime, quando sentenziare la udii; e se la pietà si dovesse antiporre alla
giustizia, certo ella non sarebbe mai di qua entro per sì fatta cagione
uscita».
[74]
«A
me - rispose Florio - non è al presente licito di dirvi chi io sia, e però
perdonatemi; e quando vostro piacere fosse, io volentieri mi partirei co' miei
compagni».
«Poi
che sapere non posso chi tu se', va, che gl'iddii ognora in meglio ti
prosperino».
Allora
Florio piangendo guardò Biancifiore, che ancora piangea, e disse:
«Bella
giovane, io ti priego per amor di Florio che tu ti conforti, e rimanti con la
grazia degl'iddii».
E
detto questo, e preso commiato dal re, smontò le scale, e risaliti sopra i loro
cavalli, egli e Marte e Ascalion, de' quali nullo era stato conosciuto, si
misero al camino. E pervenuti che furono a quel luogo dove Marte destato avea
Florio, e Marte, voltato verso di lui, si fermò e disse:
«Omai
tu hai fatto quello per che io discesi ad aiutarti; però io intendo di tornare
ond'io discesi, e tu col tuo compagno ve n'andrete a Montoro».
Florio
e Ascalion, udite queste parole, incontanente smontati da cavallo gli si
gittarono a' piedi, ringraziandolo quanto a tanto servigio si convenia; e
porgendogli divote orazioni, egli subitamente loro sparve davanti. Rimontarono
adunque costoro a cavallo, e porgendo loro il sole chiara luce, in brieve
ritornarono a Montoro.
[75]
Poi
che pervenuti furono a Montoro, i due cavalieri, sanza alcuno romore o pompa,
quanto più poterono celatamente al tempio di Marte smontarono, e passati dentro
a quello fecero accendere fuochi sopra i suoi altari, ne' quali divotamente
misero graziosi incensi: e fattisi disarmare, le loro armi offersero a' santi
altari in riverenza e perpetuo onore del valoroso iddio. E appresso rivestiti
di bianchissimi vestimenti se n'andarono al tempio di Venere, ivi molto vicino,
tutti soletti; e quello fatto aprire, uccise con la sua mano un giovane
vitello, le cui interiora con divota mano ad onor di Venere mise negli accesi
fuochi. Le quali cose faccendo Florio, per tutto il tempio si sentì un tacito
mormorio, dopo il quale fu sopra i santi altari veduta la santa dea coronata
d'alloro, e tanto lieta nel suo aspetto, quanto mai per alcuno accidente fosse
veduta, e con sommessa voce così cominciò a dire:
«O
tu, giovane sollecito difenditore delle nostre ragioni, agl'iddii è piaciuto
che io ti debbia porgere la corona del tuo triunfo, acciò che tu per inanzi ne'
nostri servigii e nelle virtuose opere prenda migliore speranza, e più ferma
fede nelle nostre parole»; e detto questo, con le propie mani presa la corona
del suo capo, ne coronò Florio. Allora Florio, in sé di tanta grazia molto
allegro, cominciò così a dire:
«O
santa dea, per la cui pietà tutti coloro che a' loro cuori sentono i dardi del
tuo figliuolo, come io fo, sono mitigati, quanto il mio potere si stende, tanto
ti ringrazio di questo onore, il quale tu con la divina mano porto m'hai. Ma
però che più la tua potenza che 'l mio valore adoperò nella odierna battaglia,
io di questa corona al tuo onore ornerò i tuoi altari».
E
questo detto, trattasi la corona della testa, sopra i santi altari con
grandissima reverenza la pose, e dirizzossi; e uscito del santo tempio, niuno
altro in Montoro ne rimase che da lui visitato non fosse, e onorato con degni
sacrificii. La qual cosa fatta, egli e Ascalion, tornati al palagio del duca
così freschi come se mai arme portate non avessero, montarono nella sala, ove
trovarono il duca con molti altri, i quali tutti si maravigliavano e
ragionavano quello che di Florio potesse essere, che veduto non l'aveano quel
giorno. Il quale quando il duca il vide, lietamente andandogli incontro
l'accolse, dicendo:
«Dolce
amico, e dove è oggi vostra dimora stata, che veduto non v'abbiamo? Certo noi
eravamo tutti in pensiero di voi».
A
cui Florio faccendo grandissima festa disse:
«In
verità io sono stato, e Ascalion con meco, in un bellissimo giardino con donne
e con piacevoli damigelle in amorosa festa tutto questo giorno».
«Ciò
mi piace - disse il duca, - e questa è la vita che i valorosi giovani in
namorati deono menare, e non darsi in su gli accidiosi pensieri, consumandosi e
perdendo il tempo sanza utilità alcuna».
[76]
Il
re Felice, che con altro cuore avea Biancifiore da Florio ricevuta che il viso
non mostrava, la menò alla reina, e disse:
«Donna,
te', ecco la tua Biancifiore, la cui morte agl'iddii non è piaciuta. Guardala e
siati cara, poi che i fati l'aiutano: forse che essi serbano costei a maggior
fatti che noi non veggiamo».
La
reina con lieto viso e animo la prese, contenta molto che diliberata era da
quella morte; e fattole grandissimo onore e festa, e rivestitala di reali
vestimenti, con lei insieme visitò tutti i templi di Marmorina, rendendo debite
grazie e faccendo divoti sacrificii a ciascuno iddio o dea che da tal pericolo
campata l'aveano. E così, avanti che al real palagio tornassero, niuno iddio
sanza sacrificii rimase, se non Diana, la quale ignorantemente dimenticata
aveano. Ma ritornati a' palagi, Biancifiore in quella benivolenza e grazia
ritornò del re e della reina, e di tutti, che mai era stata, ognora in meglio
accrescendo, con loro non mostrando che di ciò che ricevuto avea ingiustamente
si curasse o ne portasse animo ad alcuno, ma ancora, sanza farne alcuna
menzione o ricordanza, pianamente e benignamente si passava con tutti.
LIBRO
TERZO
[1]
Ritornato
Florio a Montoro, lieto per la campata Biancifiore non meno che per l'avuta
vittoria, avendo ancora gli occhi alquanto della lunga sete sbramati, prendendo
riposo del ricevuto affanno, incominciò a menar lieta vita, contentandosi
dell'aiuto degl'iddii, il quale si vedea congiunto. E già gli parea che i fati
benivoli gli fossero rivolti, ond'egli sperava tosto i suoi disiri adempiere.
Adunque la sua festa era sanza comparazione in Montoro: e i cavalli che
lungamente per lo suo amoroso dolore aveano negligente riposo avuto, ora
inforcati da lui, e le redini tenute con maestrevole mano, correndo a diversi
officii, rimettono le trapassate ore. E egli, vestito di drappi di Siria,
tessuti dalle turchie mani, rilucenti dell'indiano oro, dimostra la sua bellezza
coronato di frondi. Altre volte co' cani e col forte arco nelle oscure selve
caccia i paurosi cervi, e nelle aperte pianure i volanti uccelli gli fanno
vedere dilettevoli cacce; e spesse fiate le fresche fontane di Montoro sono da
lui con diversi diletti ricercate. Niuna allegrezza gli mancava fuori solamente
la sua Biancifiore, la quale gli era troppo più lontana che la speranza non gli
porgea.
[2]
Menando
Florio, per la futura speranza che lo 'ngannava, lieta vita, la non pacificata
fortuna, invidiosa del fallace bene, non poté sostenere di tenergli alquanto
celato il nebuloso viso, ma affrettandosi d'abreviare il lieto tempo, con
questi pensieri un giorno subitamente l'assalì. Era entrato lo innamorato
giovane nell'ora che il sole cerca l'occaso in un piacevole giardino, d'erbe e
di fiori e frutti copioso, per lo quale andando con lento passo assai lontano a
suoi compagni, vide tra molti pruni un bianchissimo fiore e bello, il quale
infra le folte spine sua bellezza serbava. Al quale rimirare Florio ristette, e
pareagli che il fiore in niuna maniera potesse più crescere in su, sanza essere
dalle circunstanti spine pertugiato e guasto, né similemente dilatarsi, o
divenir maggiore. Ond'egli incominciò a pensare e a ragionare fra se medesimo
così tacitamente:
«Oimè,
chi o qual cosa mi potrebbe più apertamente manifestare la vita e lo stato
della mia Biancifiore che fa questo bianco fiore? Io veggio ciascuna punta
delle circunstanti spine rivolta al fresco fiore, e quasi ognuna è presta a
guastare la sua bellezza. Queste punte sono le insidie poste dal mio padre e
dalla mia madre alla innocente vita della mia Biancifiore, le quali lei
alquanto muovere non lasciano sanza amara puntura. Deh, misera la vita mia! Or
di che mi sono io nel passato tempo, sperando, rallegrato tanto, che le
infinite avversità apparecchiate a Biancifiore per me mi sieno di mente uscite?
Oimè, perché dopo la disiderata diliberazione ti lasciai io al mio padre?».
Con
queste e con altre parole malinconico molto si ritornò alla sua camera, nella
quale tutto solo si rinchiuse. E quivi gittatosi sopra il suo letto, cominciò a
piangere con queste voci:
«O
bellissima giovane, sono ancora cessate le malvage insidie poste alla tua vita
da' miei parenti? Morto è lo iniquo siniscalco, a te crudelissimo nimico: certo
cessate dovriano essere. Ma io non credo che per la morte di colui la malizia
del re sia menomata, e la mia fortuna rea credo che ti faccia spesso noia:
ond'io credo che più che mai alla tua vita ne sieno poste. Oimè misero, dove ti
lasciai io? Io lasciai la paurosa pecorella intra li rapaci lupi. Deh, dove
lasciai io la mia Biancifiore? Tra coloro che sono affamati della sua vita, e
disiderano con inestinguibile sete di bere il suo innocente sangue. Certo il
comandamento della santa dea ne fu cagione, il quale volesse il sommo Giove che
io non avessi osservato. Oimè, Biancifiore, in che mala ora fummo nati! Tu per
me se' con continua sollecitudine cercata d'offendere perché io t'amo, e io
sono costretto di stare lontano da te acciò che io ti dimentichi; ma, certo
questo è impossibile, ché amore non ci legò con legame da potere sciogliere.
Niuna cosa, altro che morte, non ci potrà partire, però che né noi il
consentiamo, né amore vuole: anzi con più forze continuamente mi cresce nello
sventurato petto, tanto che d'ogni cosa mi fa dubitare; e è cresciuto a tanta
quantità, che quasi dubito che tu non m'ami, o che tu per altro non mi abandoni.
O forse ancora per li conforti della mia madre, e per campare la vita, la quale
con le propie braccia campai, lasci di non amarmi? Oimè, che amaro dolore mi
sarebbe questo! O graziosa giovane, non dimenticar colui che mai non dimentica
te: gl'iddii concedano che com'io ti porto nell'animo, tu porti me».
In
simili ragionamenti e pensieri e pianti consumò lo innamorato giovane quel
giorno e la maggior parte della notte, né potea nel suo petto entrar sonno per
la continua battaglia de' pensieri e degli abondanti sospiri, i quali a' suoi
sonni contrastavano. Ma dopo lungo andare, la gravata testa prese temoroso
sonno; e infino alla mattina, forse con non minori battaglie nel suo dormire
che essendo desto, si riposò. Oimè, quanto è acerba vita quella dello amante,
il quale dubitando vive geloso! Infino a tanto che Pocris non dubitò di Celato,
fu la sua vita sanza noia, ma poi che ella udì al male raportante servidore
ricordare Aurora, cui ella non conoscea, fu ella piena d'angosciose
sollecitudini, infino che alla non pensata morte pervenne.
[3]
Venne
il chiaro giorno, levossi Florio; il quale per lo lieve sonno non avea
dimenticati gli angosciosi pensieri, e levato, non uscì della trista camera,
come era l'altre mattine usato; ma in quella stando, si tornò sopra i pensieri
del dì preterito; e in quelli dimorando, il duca, che per grande spazio atteso
l'avea, entrò nella camera dicendo:
«Florio,
leva su, non vedi tu il cielo che ride? Andiamo a pigliare gli usati diletti».
E
quasi ancora di parlare non era ristato, che, rimirandolo nel viso, il vide
palido e nell'aspetto malinconico e pieno di pensieri, e i suoi occhi, tornati
per le lagrime rossi, erano d'un purpureo colore intorniati: di che egli si
maravigliò molto, e mutata la sua voce in altro suono, così disse:
«O
Florio, e quale subita mutazione è questa? Quali pensieri t'occupano? Quale
accidente t'ha potuto sì costringere che tu mostri ne' sembianti malinconia?».
Florio
vergognandosi bassò il viso e non gli rispose; ma crescendogli la pietà di se
medesimo, perché da persona che di lui avea pietà era veduto, cominciò a
piangere e a bagnar la terra d'amare lagrime. La qual cosa come il duca vide,
tutto stupefatto, ricominciò a parlare e a dire:
«O
Florio, perché queste lagrime? Ove è fuggita l'allegrezza de' passati giorni?
Qual cosa nuova ti conduce a questo? Certo se i fati m'avessero conceduta sì
graziosa coronazione, quale fu quella della notabile vittoria che tu avesti, a
me da altrui che da te palesata, io non credo che mai niuno accidente mi
potesse turbare. Dunque lascia il piangere, il quale è atto feminile e di
pusillanimo cuore, e alza il viso verso il cielo, e dimmi qual cagione ti fa
dolere. Tu sai che io sono a te congiuntissimo parente, e quando questo non
fosse, sì sai tu che io di perfettissima amistà ti sono congiunto: e chi
soverrà gli uomini negli affanni e nelle avversità di consiglio e d'aiuto, se i
parenti e i cari amici non gli sovengono? E a cui similmente si fiderà nullo,
se all'amico non si fida? Di' sicuramente a me quale sia la cagione della tua
doglia, acciò che io prima ti possa porgere debito conforto, e poi operando
aiuto. Pensa che infino a tanto che la piaga si nasconde al medico, diviene
ella putrida e guasta il corpo, ma, palesata, le più volte lievemente si sana. E
però non celare a me quella cosa la quale questo dolore ti porge, però che io
disidero donarviti secondo il mio potere intero conforto, e liberartene».
[4]
Dopo
alquanto spazio Florio alzò il lagrimoso viso, e così allo aspettante duca
rispose:
«Il
dolce adimandar che voi mi fate e 'l dovere mi costringono a rispondervi e a
manifestare quello ch'io credea che manifesto vi fosse. E però ch'io spero che
non sanza conforto sarà il mio manifestarmivi, dal principio comincerò a dirvi
la cagione de' passati dolori e de' presenti, posto che alquanto le lagrime, le
quali io non posso ritenere, mi impediscano. Ne' teneri anni della mia
puerizia, sì come voi potete sapere, ebbi io continua usanza con la piacevole
Biancifiore, nata nella paternale casa meco in un medesimo giorno, la cui
bellezza, i nobili costumi e l'adorno parlare generarono un piacere, il quale
sì forte comprese il mio giovinetto cuore, che io niuna cosa vedea che tanto mi
piacesse. E di questo piacere era multiplicatore e ritenitore nella mia mente
un chiarissimo raggio, il quale, come strale, da arco mosso, corre con aguta
punta all'opposito segno, così da' suoi begli occhi movendo termina nel mio
cuore, entrando per gli occhi miei: e questo fu il principale posseditore in
luogo di lei. E con ciò sia cosa che questi ogni giorno più la fiamma di tal
disio aumentasse, in tanto la crebbe, che convenne che di fuor paresse, e
scopersemisi allora lei non meno di me che io d'essa essere innamorata. Né
questo fu lungamente occulto per li nostri sospiri, di ciò dimostratori al
nostro maestro, il quale più volte con gravi riprensioni s'ingegnò ritrarre
indietro quello che agl'iddii saria impossibile frastornare; ma fattolo alla
notizia del mio padre venire, egli imaginò che, lontanandomi da lei, della mia
memoria la caccerebbe: la quale, se per la mia bocca tutto Letè entrasse, non
la poria di quella spegnere. Ma non per tanto egli faccendomi lontanare da lei,
non fu sanza gran dolore dell'anima mia e di quella di Biancifiore. E in questo
luogo mi rilegò in essilio, sotto colore di volere ch'io studiassi. Ma qui
dimorando, e trovandomi lontano a quella bellezza in cui tutti i miei disiderii
si terminano e termineranno, incominciai a dolermi, né mi lasciava il doloroso
cuore mostrare allegro viso: e di questo vi poteste voi molte fiate avedere.
Ora, come la mia doglia fosse manifesta al re m'è ignoto, ma egli, o per questa
cagione o per altra iniquità compresa ingiustamente sopra la innocente
Biancifiore, cercò d'uccider lei e nella sua morte l'anima mia: e voi foste
presente al nascoso tradimento, né non vi fu occulto lei essere a vilissima
morte condannata, né di ciò niente mi palesaste. Ma li pietosi iddii e il
presente anello non soffersero che questo fosse; ma questi mostrandomi con
turbato colore lo stato di lei, e gl'iddii ne' miei sonni manifestandolmi, mi
fecero pronto alla salute d'essa, e porgendomi le loro forze, con vittoria la
vita di colei e mia insiememente scampai, e poi ricevetti debita coronazione di
tale battaglia, avendo già rimessa la semplicetta colomba intra gli usati
artigli de' dispietati nibbi: di che io ora ricordandomi, parendomi aver mal
fatto, mi doglio. E più doglie mi recano le vere imaginazioni che per lo capo
mi vanno, che mi par vedere un'altra volta avvelenare il prezioso uccello, e
condannare la mia Biancifiore a torto, e essere il fuoco maggiore che mai
acceso. E quasi mi pare intorno al cuore avere uno amarissimo fiume delle sue
lagrime, le quali tutte mi gridano mercé. Io non so che mi fare: io amo, e
amore di varie sollecitudini riempie il mio petto, le quali continuamente ogni
riposo, ogni diletto e ogni festa mi levano, e leveranno sempre infino a
quell'ora che io nelle mie braccia riceverò Biancifiore per mia, in modo che
mai della sua vita io non possa dubitare. Io non vi posso con intera favella
esprimere più del mio dolore, il quale credo che più vi si manifesti nel mio
viso, che nel mio parlare non è fatto. Gl'iddii mi concedano tosto quel
conforto che io disidero, però che se troppo penasse a venire, così sento la
mia vita consumarsi nell'amorosa fiamma come quella di Meleagro nel fatato
stizzo si consumò».
E
questo detto, perdendo ogni potere, sopra il ricco letto ricadde supino,
tornato nel viso quale è la secca terra o la scolorita cenere.
[5]
Non
poté il duca, che con dolente animo ascoltava quello che non gli era mica
occulto, vedendo Florio supino ricadere sopra il suo letto, ritenere le lagrime
con fortezza d'animo; ma pietosamente piangendo, si recò lo 'nnamorato giovane,
a cui in vista niuno sentimento era rimaso, nelle sue braccia; e rivocati con
preziosi liquori gli smarriti spiriti ne' loro luoghi, così gl'incominciò a
dire:
«Valoroso
giovane, assai compassione porto alla tua miserabile vita, tanta che più non
posso, e forte mi pare a credere che vero sia che tu da amore così compreso sii
come tu narri, con ciò sia cosa che amore sia sì nobile accidente, che sì vile
vita non consentiria menare a chi lui tiene per signore, come tu meni; e io
l'ho già provato: e massimamente avendo tu vera cagione di doverti rallegrare,
come tu hai, se io ho bene le tue parole ascoltate. Tu, secondo il tuo dire,
ami più ch'altra cosa Biancifiore, e similemente di' che più che altra cosa
ella te ama. Adunque se tu ben riguarderai a quel che io intendo di dirti,
niuno uomo maggiore festa fare dee di te, né essere, secondo la mia oppinione,
più allegro, però che quello che più amando si disidera si è d'essere amato;
però che, se tutte l'altre cose, che ad amore s'appartengono, sanza questa
s'avessono, niuno intero bene né diletto porgere porieno, però che gli animi
sarieno disiguali. Dunque questo più che gli altri amorosi beni è da tener
caro. A questo acquistare suole essere agli amanti molto affanno e noia, il
quale se procacciando l'acquistano, tutta la loro fatica pare loro essere
terminata, o la maggior parte: e di questo è l'antica età tutta piena
d'essempli. Già hai tu inteso quello che Mimaleone sostenne da Ileo per
acquistare la benivolenza d'Atalanta: quante volte portò egli sopra i suoi
omeri le pesanti reti, e l'altre necessarie cose alle cacce, per acquistare
quella, in servigio della cruda giovane, e quanto contentamento giunse
nell'animo d'Aconzio, sentendosi con inganno avere acquistato l'amore di
Cidipe? Questo amore tu l'hai dirittamente. Per questo niuno affanno ti
conviene durare. Niuna turbazione né malinconia dovresti avere nell'animo. E
avendo questo, come tu hai, gelosia e ogni spiacevole sollecitudine dovria
essere lontana da te: e là ove tu ti contristi, ti dovresti dell'acquistato
bene rallegrare. Ancora ho compreso nel tuo parlare te avere gl'iddii e la
virtù del tuo anello in aiuto. Or qual cosa pensi tu che contraria ti possa
essere, se sì fatto aiuto hai con teco, come è quello degl'iddii, alla cui
potenza niuna cosa può resistere? Lascia piangere a' miseri, alle cui
sollecitudini solo il loro ingegno è rimaso aiutatore. Tu dei pensare che
avendo gl'iddii cura de' tuoi bisogni, se essi non concedono che tu al presente
sii con la tua Biancifiore, non è sanza gran cagione. L'uomo non sa delle future
cose la verità: a loro niuna cosa si nasconde. Tu dei credere ch'essi pensano
alla tua salute, e io credo sanza dubbio che questa dimora non sia sanza gran
bene di te. Il loro piacere si dee pazientemente sostenere. Se elli volessero,
tu saresti ora con lei; e il volere contra 'l piacer loro andare fece alla
molta gente di Pompeo perdere il campo di Tesaglia, assaliti dal picciolo
popolo di Cesare. Mostra ancora che molto ti dolga l'essere stata Biancifiore
voluta dal tuo padre fare morire, la cagione della qual morte dubiti non sia
stata il re avere saputo te dolorosa vita menare per lei, e temi forse non a
simile caso ritorni: la qual cosa se ritornasse non saria maraviglia, ma
ragione, con ciò sia cosa che tu conosca il tuo padre muoversi ad ira contra Biancifiore
per te, che tristo per lei vivi; e tu, non come disideroso della vita di
Biancifiore, ti rallegri per che ella viva, ma in pianti e in dolori consumi la
tua vita per abreviare la sua. Certo non è questo atto d'amarla, ma di mortale
odio è sembiante. E posto che mai nulla novità seguire le dovesse dal tuo padre
per lo tuo attristarti, sì dei tu volere il bene e il conforto e l'allegrezza
di lei, se così l'ami, e se ella così t'ama come tu di': le quali cose tu
cerchi di torle, menando la vita che tu fai, però che tu dei credere che se
questo le sarà raportato di te, ella di dolore si consumerà sentendo che tu ti
dolghi. Adunque niuna cagione né ragione vuole che tu questa vita meni. Tu ami
e se' amato, de' quali il numero è molto piccolo a cui questo avvegna, tu se'
con l'aiuto degl'iddii, i quali hanno sempre sollecitudine della tua salute, e
questo hai tu per opera veduto. Dunque confortati; e se per te non ti vuoi
confortare, confortati per amor di lei e di noi, acciò che ella e noi abbiamo
ragione di rallegrarci. Ben se' lontano a lei, che credo che sanza comparazione
ti sia noioso; ma non si può sì dolce frutto, come è quello d'amore, gustare
sanza alcuna amaritudine; e le cose disiderate lungamente giungono poi più
graziose. A Penolope parea dolce appressarsi alla morte, sperando che ogni
domane dovesse tornare Ulisse prima da Troia, e poi non sappiendo da che luogo.
Pensa che tu non sarai tutto tempo qui, né sanza lei. Se io fossi in tuo luogo,
io userei per più sano consiglio il simulare. Io mostrerei, faccendo festa, che
più di Biancifiore né mi calesse né me ne ricordassi, e ristrignerei l'amorose
fiamme dentro con potente freno. Forse, così faccendo, il tuo padre si
crederebbe che dimenticata l'avessi, e concederebbeti più tosto il tornare a rivederla.
Quello che detto t'ho tu hai udito, e io te l'ho detto sì come colui che in
simil caso il vorrei da altrui udire; ma non per tanto se altro consiglio più
savio vedessi arditamente lo scuopri a me, ché io non intendo di contradirti né
partirmi mai dal tuo piacere. Priegoti quanto più posso, come congiunto parente
e vero amico, che da te ogni paura e pensiero cacci, perciò che delle tue
dubitazioni di lieve accertare ci possiamo. E i pensieri, come di sopra t'ho
detto, non dei avere: e però levati su, e vinca il tuo valore i non dovuti
pensieri i quali t'occupano per lo solingo ozio. Piglia alcuni diletti, come
per adietro abbiamo già fatto, acciò che in quello né i pensieri t'assaliscano,
né la tua vita sì vilmente si consumi. In questo mezzo spero che gl'iddii per
la loro benignità provederanno graziosamente a porre debito fine a' tuoi
disiderii, forse ora da te né da alcuno già mai pensato».
[6]
Piacque
a Florio assai il fedele consiglio del duca, e così, levata la testa,
sospirando rispose:
«Carissimo
parente, questa gentil passione d'amore non può essere che alcuna volta i più
savi, non che me, quando le sono suggetti come io sono, non faccia tenere
simile vita: e però di me non vi maravigliate, ma crediate che io sia tanto
innamorato quanto mai giovane niuno fosse o potesse essere. E ciò che voi
m'avete narrato, conosco apertamente esser vero; e però, disposto a seguire il
vostro consiglio in quanto io potrò, mi dirizzo: andiamo, e facciamo ciò che
voi credete che vostra e mia consolazione sia».
E
detto questo, dirizzati amenduni uscirono della camera; e saliti sopra i
portanti cavalli, andarono con gran compagnia ad una ordinata caccia, ove quel
giorno assai festa ebbero e allegrezza.
[7]
Dico
che molti giorni in sì fatta maniera faccendo festa, Florio ricoperse il suo
dolore, avvegna che sovente a suo potere s'ingegnava di star solo, acciò che
egli potesse sanza impedimento pensare alla sua Biancifiore. E quando avveniva
che egli solo fosse in alcuna parte, incontanente incominciava ad imaginare
d'essere col corpo colà ov'egli con l'animo continuamente dimorava. Egli
imaginava alcuna volta avere Biancifiore nelle sue braccia, e porgerle amorosi
baci, e altretanti riceverne da lei, e parlare con essa amorose parole, e
essere con lei come altre volte era stato ne' puerili anni. E mentre che in
questo pensiero stava, sentiva gioia sanza fine; ma come egli di questo usciva,
e ritornava in sé e trovavasi lontano ad essa, allora si mutava la falsa gioia
in vero dolore, e piangea per lungo spazio ramaricandosi de' suoi infortunii.
Poi ritornando al pensiero, tal fiata si ricordava del tristo pianto che veduto
l'avea fare nella bruna vesta temendo l'acceso fuoco, quando egli sconosciuto
si mise in avventura per campare lei, e poi si dolea d'averla renduta al padre
e di non aversi almeno fatto conoscere a lei, acciò che egli l'avesse alquanto
consolata e fattala più certa dell'amore che egli le portava. E molte fiate fra
sé si chiamava misero e di vil cuore, dicendo:
«Come
è la mia vita da biasimare, pensando che io amo questa giovane sopra tutte le
cose del mondo, e per questo amore vivo in tanta tribulazione lontano da lei, e
non sono tanto ardito che io abbia cuore d'andarla a vedere, e lascio per paura
d'un uomo, il quale più tosto a sé che a me offenderebbe. Perché non vo io, e
entro nelle mie case, e rapiscola, e menonela qua su meco? E avendola, ogni
dolore, ogni gelosia, ogni sospetto fuggirà da me. Chi sarà colui che ardito
sia di biasimare la mia impresa o di contrariarla? nullo: anzi ne sarò tenuto
più coraggioso, là dove io debbo ora esser vilissimo riputato. Sono io più vile
di Paris, il quale non a casa del padre, ma de' suoi nimici andò per la
disiderata donna, e non dubitò d'aspettare a mano a mano Menelao, sollicito
richieditore di quella? Io non debbo aver paura che questa da alcuno
radomandata mi sia, né con ferro né con altra maniera. Il peggio, che di questo
mi possa seguire, sarà che al mio padre ne dorrà: e se ne gli duole, e' ne gli
dolga! Io amo meglio che egli si dolga, che io di dolore muoia. E pur
quand'egli vedrà che io abbia fatto quello di che egli si guarda, la doglia gli
passerà, se passare gli vorrà, se non, sì l'ucciderà: che già l'avesse ella
ucciso! e poi non ne sarà più. Io il voglio fare: cosa fatta capo ha. E posto che
egli per questo si volesse opporre alla vita di Biancifiore, egli s'opporrà
ancora alla mia: niuna cosa opererà verso di lei, che io come lei nol senta. Se
egli per forza la mi vorrà torre, e io con forza la difenderò. Io non sarò meno
debole d'amici e di potenza di lui: e quando egli pur fosse più forte di me,
puommi egli più che cacciare del suo regno? Se egli me ne caccia, io starò in
un altro. Il mondo è grande assai: l'andare pellegrinando mi fia cagione
d'essercizio. Elli fu a Cadmo cagione d'etterna fama l'andar cercando Europa e
non trovarla; a Dardano e a Siculo similemente il convenirli partire del loro
regno fu cagione di grandissime cose. Io il pur voglio fare. Peggio ch'io
m'abbia non me ne può seguire».
E
poi ritornava al piangere: e in questi pensieri teneva la maggior parte della
sua vita. E eravisi già tanto disposto che con opera il volea mettere in
effetto, e avria messo, se il raffrenamento del duca e d'Ascalion non fosse
stato, li quali il confortavano con migliore speranza, e il suo volere gli
biasimavano.
[8]
Per
questi pensieri, e per molti altri, era tanto l'animo di Florio tribolato, che
in niuna maniera potea il suo dolore coprire, né per alcun diletto rallegrarsi:
e già gli era sì la malinconia abituata adosso, che appena avrebbe potuto
mostrare sembiante lieto se voluto avesse. Egli avea sì per questo i suoi
spiriti impediti, che quasi poco o niente era il cibo che egli poteva pigliare,
e nel suo petto non poteva entrar sonno: per le quali cose il viso era tornato
palido e sfatto, e' suoi membri erano per magrezza assottigliati, e egli era
divenuto debole e stracco. E la maggior parte del giorno si giaceva, e stava
come coloro i quali, da una lunga infermità gravati, vanno nuove cose cercando,
e niuna ne piace, e s'egli piace, non ne possono prendere. Della qual cosa al
duca molto dolea e ad Ascalion similemente, né sapeano che via tenere sopra
questa cosa. Essi dubitavano di farlo sentire al re, temendo non egli facesse
novità per questo a Biancifiore, e di questo a Florio ne seguisse peggio. E
similemente dubitavano di tenerlo in quella maniera sanza farglielo sentire,
dicendo:
«Se
egli per altrui il sente, noi n'avremo mal grado, e cruccerassi verso di noi, e
avrà ragione».
E
in questa maniera, sanza pigliar partito, stettero più giorni, pur confortando
Florio e dandogli buona speranza. A' quali Florio rispondea sé non avere questo
per amore, ma che il caldo, che allora facea, il consumava. Ma questa scusa non
aveva luogo a coloro che i suoi sospiri conoscevano; ma essi, quasi a ciò
costretti, la sosteneano.
[9]
Standosi
un giorno il duca e Ascalion insieme ragionando molto efficacemente de' fatti
di Florio, disiderosi della sua salute, Ascalion cominciò così a dire:
«Sanza
dubbio niuna cosa è tanto da Florio amata quanto Biancifiore; e questo il re,
col farlo stare lontano ad essa, e noi con parole più volte ci siamo ingegnati
di tirarlo indietro, né mai abbiamo potuto: fermamente credo che piacer
degl'iddii sia, al quale volersi opporre è mattezza. Ma non per tanto a tentare
alcuna altra via forse non sarebbe reo, e per avventura ci verrebbe forse il
nostro intendimento compiuto».
«E
che via vi parrebbe da tenere?», disse il duca. Ascalion rispose:
«Io
il vi dirò. I giovani, come voi sapete, sono vaghi molto de' carnali
congiungimenti, però che la pronta natura gl'induce a quello e per questi
sogliono ogni altra cosa dimenticare. Florio mai con Biancifiore carnale
diletto non ebbe; e se noi potessimo fare che con alcuna altra bella giovane
l'avesse, leggiere saria dimenticare quello ch'egli non ha per quello che
possedesse; e posto che in tutto non la dimenticasse, almeno tanto in lei non
penserebbe; e in questo mezzo il re o gl'iddii provederebbono sopra questo, in
modo che noi sanza vergogna o danno ne riusciremo; e se questa via non ci è
utile, niuna altra utile ne conosco».
Gran
pezza pensò il duca sopra questo, e poi disse:
«Ascalion,
io mi maraviglio molto di voi. Ecco che quello che divisate venisse interamente
fatto, che avremmo noi operato? Niente: che scioglierlo d'un luogo e legarlo in
un altro, non so che si rilevi. Ma tanto potrebbe avvenire, che di leggiere
peggioreremmo nostra condizione: e il trargli Biancifiore di cuore non è sì
leggier cosa che per questo io creda che fatto dovesse venire, ben che leggieri
ci sia a provarlo, se buono vi pare». Ascalion disse:
«Certo
io l'avea per buono, però che, se egli avvenisse che per alcuna altra egli
dimenticasse Biancifiore, più lieve sarebbe a trargli di cuore poi quell'altra che
a volergli levare ora Biancifiore sanza alcun mezzo: con ciò sia cosa che le
nuove piaghe con meno pericolo e meglio che l'antiche si curino e più tosto».
«Certo - disse il duca - questo è vero; e poi che vi pare, il provarlo niente
ci costa; e però sopra questo pensiamo e veggiamo se niuna cosa ci giova, e se
giovare la veggiamo, procederemo avanti con l'aiuto de, gl'iddii».
[10]
Accordatisi
costoro a questo, segretamente si misero a cercare di trovare alcuna giovane,
la quale, il più che trovare si potesse, simigliasse Biancifiore, imaginando
che quella più graziosa che alcuna altra gli sarebbe, e più tosto il potrebbe
recare al disiderato fine. E cercando questo, da alcuno, il quale sempre in
compagnia di Florio soleva andare, fu loro mostrate due giovanette di
maravigliosa bellezza e di leggiadro parlare ornate, e discese di nobili
parenti, le quali, secondo il detto di colui che le mostrò, assai delle
bellezze di Florio si dilettavano, non come innamorate, però che non si
sentiano eguali a lui, onde con la ragione raffrenavano la volontà. Le quali
come costoro conobbero, assai si contentarono, dicendo:
«Prendiamle
amendune, poi che Florio piace loro: elle s'ingegneranno bene di recarlo al
loro piacere, e là dove l'una fallisse l'altra supplirà».
E
questo diliberato, sotto spezie d'invitarle ad una festa, le si fecero chiamare
all'ostiere. Le quali venute davanti al duca e ad Ascalion, il duca così disse
loro:
«Giovani
donzelle, nostro intendimento è di voler Florio di bella mogliere accompagnare;
e cercando in questa città di donna che degnamente a lui si confacesse, nulla
n'abbiamo trovata di tanta bellezza, né di sì belli e laudevoli costumi, come
voi due ci siete state laudate: e però per voi abbiamo mandato, acciò che voi
proviate se lui da uno intendimento che egli ha possiate ritrarlo e recarlo al
vostro piacere, per donargli poi per mogliere quale di voi due più gli
piacerà».
A
cui l'una di queste, chiamata Edea, così rispose:
«Signor
nostro, noi ci maravigliamo non poco delle vostre parole, con ciò sia cosa che
noi manifestamente conosciamo noi non essere giovani di tanta nobiltà dotate,
quanta alla grandezza di Florio si richiede: e, d'altra parte, l'altissime
ricchezze ci mancano, le quali leggiermente i difetti della gentilezza
ricuoprono. E però caramente vi preghiamo che di noi voi non facciate scherno,
e ancora vi ricordiamo che, sì come voi dovete del nostro onore essere
guardatore, sì come buono e legittimo signore, che voi non vogliate esser
cagione di cotal vergogna, però che pensar dovete che se a voi e a' vostri noi
siamo picciole, noi siamo a' nostri grandissime e care».
Allorà
il duca rispose:
«Giovani
donzelle, non crediate che io mi recassi a tanta viltà, quanta questa sarebbe,
se questo fosse che voi dite, per farvi perdere il vostro onore; ma io vi giuro
per l'anima del mio padre e per li nostri iddii che io quello che detto v'ho,
lealmente v'atterrò, se alcuna di voi gli piacerà».
Disse
Edea:
«Poi
che con giuramento l'affermate, noi faremo il vostro piacere. Ditene come elli
vi piace che noi facciamo, e così sarà fatto: poi gl'iddii concedano questa
grazia a chi più n'è degna di noi due».
Rispose
il duca:
«Il
modo è questo. Voi sì v'adornerete in quella maniera che voi più crediate
piacere, e andretevene sanza alcuna compagnia nel nostro giardino, nel quale
egli è costumato di venire ogni giorno, sì tosto come i raggi del sole
incominciano a essere manco caldi; usciretegli incontro, faccendogli quella
festa e mettendolo in quel ragionamento che più crederete che piacevole gli
sia: poi quale egli eleggerà di voi due, quella dico che sarà sua».
[11]
Era
quel giardino bellissimo, copioso d'arbori e di frutti e di fresche erbette, le
quali da più fontane per diversi rivi erano bagnate. Nel quale, come il sole
ebbe il meridiano cerchio, le due giovani, vestite di sottilissimi vestimenti
sopra le tenere carni, e acconci i capelli con maestrevole mano, con isperanza
di più piacere ad acquistare cotal marito, se ne entrarono solette, e quivi
cercarono le fresche ombre, le quali allato ad una chiara fontana trovate, a
seder si posero attendendo Florio. Venuta l'ora che già il caldo mancava,
Florio malinconico, uscito della sua camera e con lento passo, di queste cose
niente sappiendo, vestito d'una ricca giubba di zendado, soletto se n'entrò nel
giardino, sì come egli era per adietro usato, e verso quella parte dove già
avea il bianco fiore altra volta tra le spine veduto, dirizzò i suoi passi; e
quivi venuto si fermò dimorando per lungo spazio pensoso. Le due giovinette
s'avean ciascuna fatta una ghirlanda delle frondi di Bacco, e aspettando Florio
si stavano alla fontana insieme di lui parlando; e non avendolo veduto entrare
nel giardino, per più leggermente passare il rincrescimento dell'attendere,
incominciarono a cantare una amorosa canzonetta con voce tanto dolce e chiara,
che più tosto d'angioli che d'umane creature pareva: e di queste voci pareva
che tutto il bel giardino risonasse allegro. Le quali udendo, Florio si
maravigliò molto, dicendo:
«Che
novità è questa? Chi canta qua entro ora sì dolcemente?».
E
con gli orecchi intenti al suono, incominciò ad andare in quella parte ove il
sentiva; e giunto presso alla fontana, vide le due giovinette. Elle erano nel
viso bianchissime, la qual bianchezza quanto si convenia di rosso colore era
mescolata. I loro occhi pareano matutine stelle; e le piccole bocche di colore
di vermiglia rosa, più piacevoli diveniano nel muovere alle note della loro
canzone. E i loro capelli come fila d'oro erano biondissimi, i quali alquanto
crespi s'avolgeano infra le verdi frondi delle loro ghirlande. Vestite per lo
gran caldo, come è detto sopra, le tenere e dilicate carni di sottilissimi
vestimenti, i quali dalla cintura in su strettissimi mostravano la forma delle
belle menne, le quali come due ritondi pomi pingevano in fuori il resistente
vestimento, e ancora in più luoghi per leggiadre apriture si manifestavano le
candide carni. La loro statura era di convenevole grandezza, e in ciascun
membro bene proporzionate. Florio, vedendo questo, tutto smarrito fermò il
passo, e esse, come videro lui, posero silenzio alla dolce canzone, e liete
verso lui si levarono, e con vergognoso atto umilmente il salutarono. «Gl'iddii
vi concedino il vostro disio», rispose Florio. A cui esse risposero:
«Gl'iddii
ne l'hanno conceduto, se tu nel vorrai concedere».
«Deh!
- disse Florio - perché avete voi per la mia venuta il vostro diletto
lasciato?».
«Niuno
diletto possiamo avere maggiore che essere teco e parlarti», risposero quelle.
«Certo
e' mi piace bene»,disse Florio. E postosi a sedere con loro sopra la chiara
onda della fontana, incominciò a riguardare queste, ora l'una e ora l'altra, e
a rallegrarsi nel viso, e a disiderare di potere loro piacere. E dopo alquanto
le dimandò:
«Giovani
donzelle, ditemi, che attendevate voi qui così solette?».
«Certo
- rispose Edea - noi fummo qui maggior compagnia, ma l'altre disiose d'andar
vedendo altre cose, noi qui, quasi stanche, solette lasciarono, e debbono per
noi tornare avanti che 'l sole si celi: e noi ancora volentieri rimanemmo,
pensando che per avventura potremmo vedere voi, sì come la fortuna ci ha
conceduto».
Assai
era graziosa a Florio la compagnia di costoro, e molto gli dilettava di mirarle,
notando nell'animo ciascuna loro bellezza, fra sé tal volta dicendo:
«Beato
colui a cui gl'iddii tanta bellezza daranno a possedere!». Egli le metteva in
diversi ragionamenti d'amore, e esse lui. Egli aveva la testa dell'una in
grembo, e dell'altra il dilicato braccio sopra il candido collo; e sovente con
sottile sguardo metteva l'occhio tra 'l bianco vestimento e le colorite carni,
per vedere più apertamente quello che i sottili drappi non perfettamente
copriano. Egli toccava loro alcuna volta la candida gola con la debole mano, e
altra volta s'ingegnava di mettere le dita tra la scollatura del vestimento e
le mammelle; e ciascuna parte del corpo con festevole atto andava tentando, né
niuna gliene era negata, di che egli spesse fiate in se medesimo di tanta
dimestichezza e di tale avvenimento si maravigliava. Ma non per tanto egli era
in se stesso tanto contento che di niente gli pareva star male, e la misera
Biancifiore del tutto gli era della memoria uscita. E in questa maniera stando
non piccolo spazio, questi loro e esse lui s'erano a tanto recato, che altro
che vergogna non li ritenea di pervenire a quello effetto dal quale più inanzi
di femina non si può disiderare. Ma il leale amore, il quale queste cose tutte
sentia, sentendosi offendere, non sofferse che Biancifiore ricevesse questa
ingiuria, la quale mai verso Florio non l'avea simigliante pensata; ma tosto
con le sue agute saette soccorse al cuore, che per oblio già in altra parte
stoltamente si piegava. E dico che stando Florio con queste così intimamente
ristretto, e già quasi aveano le due giovani il loro intendimento presso che a
fine recato sanza troppo affanno di parole, l'altra delle due donzelle chiamata
Calmena, levata alta la bionda testa, e rimirandolo nel viso, gli disse:
«Deh!
Florio, dimmi, qual è la cagione della tua palidezza? Tu ne pari da poco tempo
in qua tutto cambiato. Hai tu sentito alcuna cosa noiosa?».
Allora
Florio, volendo rispondere a costei, si ricordò della sua Biancifiore, la quale
della dimandata palidezza era cagione, e sanza rispondere a quella, gittò un
grandissimo sospiro, dicendo:
«Oimè,
che ho io fatto?».
E
quasi ripentuto di ciò che fatto avea, alquanto da queste si tirò indietro
cominciando forte a pensare con gli occhi in terra a quello che fatto avea, e a
dire fra se medesimo:
«Ahi!
villano uomo, non nato di reale progenie, ma di vilissima, che tradimento è
quello che tu hai pensato infino a ora? Come avevi tu potuto per costoro o per
alcuna altra donna mettere in oblio Biancifiore, tanto che tu disiderassi
quello che tu disideravi di costoro, o che tu potessi mostrare amore ad alcuna,
come tu a costoro, toccandole, già mostravi? Ahi! perfidissimo, ogni dolore t'è
bene investito, ma certo cara l'accatterai la tua nequizia. Ora come ti
dichinavi tu ad amare queste, la cui beltà è piccolissima parte di quella di
Biancifiore? E quando ella fosse pur molta più, come potresti tu mai trovare
chi perfettamente t'amasse come ella t'ama? Deh! se questo le fosse manifesto,
non avrebbe ella ragionevole cagione di non volerti mai vedere? Certo sì ».
Con
molte altre parole si dolfe Florio per lunga stagione; e così dolendosi
tacitamente, Calmena, che la cagione ignorava, gli si rappressò, domandando
perché a lei non rispondeva, dicendogli:
«Deh,
anima mia, rispondimi; dimmi perché ora sospirasti così amaramente, e dimmi la
cagione della tua nuova turbazione, né ti dilungare da colei che più che sé
t'ama».
Allora
Florio con dolente voce disse:
«Donne,
io vi priego per Dio che elli non vi sia grave il lasciarmi stare, però che
altro pensiero che di voi m'occupa la dolorosa mente».
E
detto questo, levato si sarebbe di quel luogo, se non fosse che egli non le
volea fare vergognare. Disse allora Edea:
«E
qual cosa t'ha sì subitamente occupato? Tu ora inanzi eri così con noi
dimestico, e parlando ne dimandavi e rispondevi cianciando, e ora malinconico
non ci riguardi, né ci vuoi parlare: certo tu ci fai sanza fine maravigliare».
A
niuna cosa rispondea Florio, anzi a suo potere, col viso in altra parte
voltato, si scostava da loro, le quali quanto più Florio da loro si scostava,
tanto più a lui amorosamente s'accostavano. E in tal maniera stando, Calmena,
che già s'era dell'amore di Florio accesa oltre al convenevole, più pronta che
Edea, s'appressò a Florio, e quasi appena si ritenne che ella nol baciò, ma pur
così gli disse:
«O
grazioso giovane, perché non ne di' tu la cagione della tua subita malinconia?
Perché, dilungandoti da noi, mostri di rifiutarci, che ora inanzi eravamo da te
sì benignamente accompagnate? Non è la nostra bellezza graziosa agli occhi
tuoi? Certo gl'iddii si terrebbono appagati di noi, né non crediamo che Io,
tanto perseguitata da Giunone, fosse più bella di noi quando ella piacque a
Giove, né ancora Europa che sì lungamente caricò le spalle del grande iddio, né
alcune altre giovani crediamo essere state più belle di noi: e sì ne veggiamo
il cielo adorno di molte! Adunque tu, perché ne rifiuti?».
E
con queste parole e molte altre, con atti diversi e inonesti sospirando
guardavano di ritornare Florio al partito nel quale poco davanti era stato.
Alle quali Florio disse così:
«Ditemi,
giovani, se gl'iddii ogni vostro piacere v'adempiano, foste voi mai
innamorate?».
A
cui esse subitamente risposero:
«Sì,
di voi solamente; né mai per alcuna altra persona sospirammo, né tale ardore
sentimmo se non per voi».
«Certo
- disse Florio - di me non siete voi già innamorate; e che voi non siate state
né siate d'altrui si pare manifestamente, però che amore mai ne' primi
conoscimenti degli amanti non sofferse tanta disonestà, quanta voi verso me,
con cui mai voi non parlaste, avete dimostrata: anzi fa gli animi temorosi e
adorni di casta vergogna, infino che la lunga consuetudine fa gli animi essere
eguali conoscere. E che questo sia vero assai si manifestò nella scelerata
Pasife, la quale bestialmente innamorata, con dubitosa mano ingegnandosi di
piacere, e temendo di non spiacere, porgeva le tenere erbe al giovane toro. Ora
quanto più avria costei temuto d'un uomo, in cui ragionevole conoscimento fosse
stato, poi che d'un bruto animale dubitava? Certo molto più, però che era
innamorata. E chi volesse ancora nelle antiche cose cercare, infiniti essempli
troverebbe d'uomini e di don ne; a cui le forze sono tutte fuggite ne' primi
avvenimenti de' loro amanti. E però che di me innamorate siate non mi vogliate
far credere, che io conosco i vostri animi disposti più ad ingannare che ad
amare. E appresso, che voi non siate d'altrui innamorate, come voi dite, m'è
manifesto, però che non m'è avviso che verso me, dimenticando il principale
amadore, potreste dimostrare quello che dimostrate, ché il leale amore non lo
consentirebbe. Onde io vi priego, belle giovani, che mi lasciate stare, però
che voi con le vostre parole credete i miei sospiri menomare, e voi in
grandissima quantità gli accrescete: e di me in ogni atto, fuori che d'amore,
fate quello che d'amico o di servidore fareste».
Udendo
questo, Edea, la quale le infinite lagrime non avea guari lontane, bagnando il
candido viso, con lagrimevole voce, messesi le mani nel sottile vestimento,
tutta davanti si squarciò, dicendo:
«Oimè
misera, maladetta sia l'ora ch'io nacqui! E in cui avrò io oramai speranza, poi
che voi, in cui io ora sperava e per cui io credeva sentir pace, mi rifiutate,
né credete che 'l mio cuore per lo vostro amore si consumi, però che forse
troppo pronta a volere adempiere i miei disiderii vi sono paruta? Crediate che
niuna cosa a questo m'ha mossa altro che soperchio amore, il quale del mio
petto ha la debita vergogna cacciata, e me quasi furiosa ha fatto nella vostra
presenza tornare. Ahimè misera, sarà omai disperata la mia vita! O misera
bellezza, partiti del mio viso, poi che colui per cui io cara ti tenea, e ti
guardava diligentemente ti rifiuta. Deh, Florio, poi che a grado non v'è
consentirmi quello che lunga speranza m'ha promesso, piacciavi che io nelle vostre
braccia l'ultimo giorno segni. Io sento al misero cuore mancare le naturali
potenze per le vostre parole. Oimè, uccidetemi con le propie mani, acciò che io
più miseramente non viva. Mandatene la trista anima alle dolenti ombre di
Stige, là dove ella minor doglia aspetta che quella che ora sostiene. Ahimè,
quanto degnamente da biasimare sarete, quando si saprà la dolente Edea essere
per la vostra crudeltà partita di questa vita!».
Florio,
che le lagrime di costei non potea sostenere, per pietà la confortava, dicendo:
«O
bella giovane, non guastare con l'amaritudine del tuo pianto la tua bellezza;
spera che più grazioso giovane ti concederà quello ch'io non ti posso donare.
Ritruova le tue compagne, e con loro l'usata festa ti prendi, né non impedire i
miei sospiri con la pietà del tuo pianto: ché io ti giuro per li miei iddii,
che se io fossi mio e potessimi a mia posta donare, niuna m'avrebbe se l'una di
voi due non m'avesse. Ma lo non posso quello che non è mio sanza congedo,
donare».
Cominciò
allora Calmena a dire:
«O
crudelissimo più che alcuna fiera, e come puoi tu consentire di negare a noi
quel che ti domandiamo? Certo se tu hai il tuo amore ad altra donato, niuno
amore è tanto leale, che a' nostri prieghi non dovesse essere rotto. E pensi tu
che s'egli avviene che per la tua crudeltà alcuna di noi sofferisca noiosa
morte, che quella giovane di cui tu se', se tu se' per avventura d'alcuna, te
ne ami più? Certo no, anzi biasimerà la tua crudeltà! E i nostri prieghi son
tanti, che certo il casto Ipolito già si saria piegato. Or come ci puoi tu
almeno negare alcuno bacio, de' quali poco avanti ci saresti stato cortese, se
sì ardite, come tu ci fai, fossimo state? Certo se alcuno ce ne porgessi con
quel volere che noi il riceveremmo, egli sarebbe non poco refrigerio de' nostri
affanni. Deh, adunque, concedicene alcuno, acciò che gl'iddii più benivoli
s'inchinino a concedere a te quello che tu disii, se alcuna cosa da te in
questo atto è disiata».
A
cui Florio rispose:
«Giovani
donzelle, ponete fine a questi ragionamenti, però che quella parte che di me
dimandate, più cara che altra è tenuta da me, con ciò sia cosa che niun'altra
ancora ne sia stata conceduta a quella di cui io sono interamente; e più avanti
non mi dimandate, ché da me altro che dolore avere non potreste. E priegovi che
me, che più di sospirare che di parlare con voi ora mi diletto, qui solo
lasciate, e andatevene, però che ciò che mi dite è tutto perduto».
Questo
udendo le due giovani, col viso dipinto di vergogna, della sua presenza si
levarono sanza più parlare; e però che già il sole cercava l'occaso, tornate
nel gran palagio si rivestirono, dicendo l'una all'altra:
«Ahi,
come giusta cosa sarebbe se mai d'alcuno giovane la grazia non avessimo,
pensando al nostro ardire, le quali avemo tentato di volere questo giovane
levare alla sua donna sanza ragione, avegna che gl'iddii e egli ce n'hanno ben
fatto quello onore che di ciò meritavamo!».
E
rivestite, raccontarono al duca la bisogna come era, con non poca vergogna; e
da lui, con grandissimi doni, sconsolate si partirono, tornando alle loro case.
[12]
Aveano
il duca e Ascalion veduto apertamente ciò che Edea e Calmena aveano operato, e
ora fu che essi credettero che il loro avviso riuscisse al pensato fine; ma poi
che videro quello esser fallito, dolenti della amara vita di Florio, si
partirono del luogo dove stavano e se ne vennero al giardino, dove Florio con
dolore, pieno di pensieri soletto era rimaso, e lui trovarono pensando avere la
bionda testa posata sopra la sinistra mano. I quali poi che pietosamente
alquanto riguardato l'ebbero, così cominciarono a dire:
«Florio,
Amore tosto nella disiata pace ti ponga».
Era
Florio tanto nello imaginare la sua Biancifiore, che per la venuta di costoro,
né per lo loro saluto né si mutò né cambiò aspetto, ma così stette come colui
che né veduti né uditi ancora gli avea. Allora Ascalion, distesa la mano, il
prese per lo braccio, e lui tirando, disse:
«O
innamorato giovane, ove se' tu ora? Dormi tu, o se', pensando, fuori di te
uscito, che tu al nostro saluto niente rispondi?».
Riscossesi
allora tutto Florio, e quasi stordito, sanza niente rispondere, si mirava
dintorno. Ma dopo molti sospiri, alquanto da' pensieri sviluppato, alzata la
testa, disse:
«Oimè,
or chi vi mena a vedere la miseria della mia vita, alla quale voi forse credete
levar pena con confortevoli parole, e voi più ne giungete? Se può essere,
caramente vi priego che me qui solo lasciate, acciò che io possa quel pensiero
ritrovare, nel quale io fui, quando scotendomi me ne cacciaste».
A
cui Ascalion così rispose:
«Amore
e maraviglia ci fanno qui venire, né già da te intendiamo di partirci, se prima
a' nostri prieghi non ne dirai quale nuova cagione ti fa tanto pensoso».
Disse
Florio:
«Niuna
nuova cagione ci è del mio dolore: Amore solamente in questa vita mi tiene».
«E
come? - disse allora il duca, - io mi credea che tu t'ingegnassi di seguire il
mio consiglio, il quale io l'altrieri, quando così pensoso ti trovai, t'avea
donato, e già mi parea che, quello piacendoti, cominciato avessi: e tu pure
sopra l'usato modo se' ritornato! Questa tua vita in niuno atto d'innamorato mi
pare, onde forte dubitare mi fai che tu forse non sii del senno uscito, però
che gli altri innamorati con varii diletti cercano di mitigare i loro sospiri,
ma tu con pene mi pare che vadi cercando d'accrescergli. Se volessi dire che
come alcuni altri non li potessi usare, sai che non diresti vero, però che
niuna resistenza ci è: dunque perché pure in sul dolore ti dai? Deh, com'io
altra volta ti pregai, ancora ti priego che alcuni ne prenda, i quali usando
valicherai il tempo con meno tristizia, e gl'iddii in questo mezzo provederanno
a' tuoi disii».
[13]
Udite
queste cose, Florio sospirando disse:
«Amici,
ben conosco voi prontissimi alla mia salute, e veggo apertamente che la mia
vita vi duole, né similemente occulti mi sono i diletti che prendere potrei, a'
quali con tanta efficacia v'ingegnate di trarmi, pensando che io forse del
senno sia uscito, perché pure in dolore pensando dimoro: ora, acciò che voi
conosciate come io sia a quelli prendere disposto, e ancora come voi del mio
dolore non vi dovete maravigliare, io vi voglio dire qual sia la mia vita, Dico
che diverse imaginazioni e pensieri m'occupano continuamente, delle quali
alcuna ve ne dirò. Primieramente io sopra tutte le cose disidero di vedere
Biancifiore, sì come quella che più che niuna altra cosa è da me amata. E
dicovi che tante volte, quante ella nella memoria mi viene, tanto questo disio
più focoso in me s'accende e togliemi sì da ogni altro intendimento, che se
allora io la vedessi, crederei più che alcuno iddio essere beato; e sentendomi
questo essere levato, solamente perché io l'amo, e non per altro accidente,
niuno dolore è al mio simigliante. Appresso questo, io vivo in continua
sollecitudine della sua vita, temendo non ella, la quale so che m'ama come io
lei, sostenga simili dolori a quelli che io sostengo, li quali, però che di più
debole natura è che io non sono, dubito non la offendano o di gravosa infermità
o di morte. E troppo più mi fa della sua vita dubitare l'acerbità del mio padre
e della mia madre, li quali io sento prontissimi, e vederli mi pare,
insidiatori della vita di lei. E niuna cagione falsa è che a lei inducere possa
morte, che non me la paia vedere andare cercando al mio padre per fornire il
suo falso volere, il quale altra volta gli venne fallito: e non pensa il misero
che quella ora ch'ella morrà io non viverò più avanti. E in gravosissimo
affanno mi tiene gelosia, e la cagione è questa: le giovani donzelle sono di
poca stabilità e per la loro bellezza da molti amanti sogliono essere
stimolate: e gl'iddii, non che le femine, si muovono per li pietosi prieghi a
far la volontà de' pregatori. Io sono lontano da lei, né vedere la posso, né
ella me; molti giovani credo che la stimolano per la sua bellezza, la quale
ogni altra passa: or che so io, se ella non potendo aver me, se ne prenderà
alcuno altro, posto ch'ella non possa migliorare? Elli si suol dire che le
femine generalmente hanno questa natura, ch'elle pigliano sempre il peggio. Con
questi pensieri n'ho molti altri, li quali troppo penerei a volerli
particolarmente spiegare; ma di loro vi dico che essi impediscono tanto la mia
vita, che essi me l'hanno recata a noia; e per minor pena disidererei la morte,
la quale ancora non pena riputerei, se gl'iddii donare la mi volessero, ma
graziosa gioia. Veder potete come io mi posso a prendere alcuno diletto trarre:
solo mio bene e sola mia gioia è il pensare a Bianciflore, e questo è quello
che la poca vita che rimasa m'è, mi tiene nel corpo. Onde io vi priego che se
la mia vita amate, non mi vogliate torre il poter pensare».
[14]
Cominciò
allora il duca così a parlare:
«Ben
ci è manifesto te essere da tanti e tali pensieri stimolato, quanti ne conti, e
da molti più. Ma tu non dei però volere con morte dar luogo al pensare più
tosto che con diletto prolungare la tua vita, acciò che più tempo pensar possi.
Onde, se nullo priego dee valere, noi ti preghiamo che tu prenda conforto, e da
cotesti pensieri con continui diletti ti levi; e se t'è forse occulto, come tu
nel tuo parlar dimostri, la cagione per che dei pigliar diletto, noi non ce ne
maravigliamo, però che in così fatti affanni le più volte il vero conoscimento
si suole smarrire. Ma noi, che di fuori da tale tempesta dimoriamo, conosciamo
quali sieno le vie da uscire di quella: e però non ti siano gravi alquante
parole, le quali se, ascoltate, metterai in effetto, ti vedrai sanza periglio
venire a grazioso porto. Tu ti duoli del focoso disio che ti stimola dì vedere
Biancifiore, però che vedere non la puoi. Certo ben credo che ti dolga; ma
credi tu per questo dolore, che tu te ne dai, più tosto vederla? Certo no.
Dunque sperando confortare ti dei, e dare alquanto sosta al presente disio,
conoscendo, come tu fai, che al presente fornire non lo puoi con tuo onore.
Pensa che la fortuna non terrà sempre ferma la rota: così come ella volvendo
dal cospetto di Biancifiore ti tolse, così in quello ancora lieto ti riporrà.
Similemente ti dico del pensiero che porti, non Biancifiore, per l'amore che ti
porta, sostenga o gravosa infermità o morte, ciò è vano pensamento: e per
niente il tieni, però che amore mai non porse morte ove le parti fossero in un
volere. "Che ella infermasse io il disidererei, solo che per amore fosse,
pensando che per quella infermità potrei conoscere me da lei tanto amato, che
sì fatto accidente ne le seguisse per lo non potermi avere": oimè, quanto
più è da pensare della sanità, la quale i sonni interi e le malinconie lontane
essere dimostra: e però questo del tutto dei lasciare andare. Se dubiti non il
tuo padre forse, come già fece, la voglia offendere, ciò non è da maravigliare,
ché noi di niuna cosa abbiamo tanta ammirazione, quanto che egli ha tanto
sofferta la sua vita, sappiendo come sia fatta quella che tu per lei meni. Onde
ti dico che tenendo la maniera che fai, ragione hai di dubitare; ma volendo
prendere conforto e seguire la via che io altra volta ti mostrai, niuna
dubitazione te ne bisogna avere, ché io ti giuro per l'anima del mio padre che
il re ama Biancifiore quanto figlia, e niuna cosa ad ira il potrebbe muovere
contro ad essa, se non la tua sconcia vita. Se vuoi dire che gelosia ti
stimoli, questo è contro a quello che davanti dicesti, cioè che Biancifiore più
che sé t'ami, però che gelosia non suol capere se non in luoghi sospetti, e tu
prima affermi niuna sospezione esserci, e appresso di' te esser geloso. Ma
certo, come che tu parli, a me pare che niuna cosa sia tanto amata da
Biancifiore quanto tu se': onde per questo niuno pensiero di lei avere ti
conviene. Appresso, chi sarebbe quella sì folle, che avendo l'amore d'un così
fatto giovane come tu se', bello, gentile, ricco e figliuolo di re, lasciasse
quello per niuno altro? Se vuoi dire: "le femine pigliano sempre il
peggio", questo non s'intende per tutte, ma solamente per le poco savie,
la qual cosa ancora negli uomini si truova. E veramente Biancifiore è
savissima, e ciò nel suo portamento e nelle sue operazioni è manifesto. Or
dunque, pensando bene queste cose, chi dovrebbe più confortarsi di te? Tu
bello, tu ricco, tu gentile, tu amato da colei che tu ami, per amore della
quale dovresti sempre pensare di vivere in modo che grazioso e sano le ti
potessi presentare. Se simile caso fosse in me, io mi terrei oltre misura caro
per più piacerle, né per niuna cosa disidererei tanto la vita lunga, quanto per
lungamente poterla servire. E tu, più vinto da ira e da malinconia che
consigliato dalla ragione, cerchi la morte per conforto, e sempre in pensieri e
in dolore dimori, e vai imaginando quelle cose le quali né vedesti né vedrai
già mai, se agl'iddii piace. Folle è colui che per li futuri danni sanza
certezza spande lagrime, e in quelle più d'impigrire si diletta, che
argomentarsi di resistere a' danni. Deh, se tu se' uomo come sono gli altri,
giovino tanti conforti, quanti noi ti diamo: vaglia il mostrarti la verità,
come noi mostriamo! E non indurare pure sopra il tuo non vero parere:
rallegrati che tanto manca il senno, quanto il conforto ne' savi».
[15]
Florio,
il quale sentiva in sé graziose parole all'animo innamorato, che di quelle avea
bisogno, con men dolente viso così rispose:
«Amici,
a' subiti accidenti male si puote argomentare. Ma che che 'l mio padre si
deggia fare, io pur m'ingegnerò di prendere il vostro consiglio, cacciando da
me il dolore delle non presenti cose».
E
questo detto, si dirizzarono tutti; e uscendo del giardino, per le stelle che
già il cielo aveano de' loro lumi dipinto, tornarono quasi contenti alle loro
camere.
[16]
Mentre
li fati trattavano così Florio, Biancifiore lasciata da lui al perfido padre
tornò nell'usata grazia, dimorando ne' reali palagi con non minore quantità di
sospiri che Florio, avvegna che più saviamente quelli guardasse nell'ardente
petto. Ma le trascorrenti avversità che il loro corso verso Florio aveano
volto, con non usato stimolo ancora lui miserabilmente assalirono in questa
maniera.
Era
nella corte del re Felice in questi tempi un giovane cavaliere chiamato Fileno,
gentile e bello, e di virtuosi costumi ornato, a cui l'ardente amore di Florio
e di Biancifiore era occulto, però che di lontane parti era, pochi giorni poi
la crudel sentenza di Biancifiore, venuto. Il quale, sì tosto come la chiara
bellezza vide del suo viso, incontanente s'accese del piacere di lei, e sanza
misura la incominciò ad amare, e in diversi atti s'ingegnava di piacerle,
avvegna che Biancifiore di ciò niente si curava, ma, saviamente portandosi,
mostrava che di queste cose ella non conoscesse quanto facea.
L'amore
che Fileno portava a Biancifiore non era al re né alla reina occulto; i quali,
acciò che il cuore di Biancifiore di nuovo piacere s'accendesse e Florio fosse
da lei dimenticato, contenti di tale innamoramento, più volte nella loro
presenza chiamavano Fileno, a cui faceano venire davanti Biancifiore e con lei
tal volta sollazzevoli parole parlare; ma ciò era niente, ché Biancifiore di
lui si curava poco, anzi sospirando vergognosa bassava la testa come davanti le
venia, sanza già mai alzarla per mirare lui, se ciò non fosse stato alcuna
fiata in piacere del re o della reina, li quali ella conoscea essere di tale
amore allegri, avvegna che Fileno pensasse che que' sospiri, i quali dal cuore
di Biancifiore moveano, uscissero fuori essendone egli cagione. Mostrando
Biancifiore per conforto della reina d'amare il giovane cavaliere, avvenne che
dovendosi ne' presenti giorni celebrare una grandissima solennità ad onore di
Marte, iddio delle battaglie, e nella detta solennità si costumasse un giuoco
nel quale la forza e lo 'ngegno de' giovani cavalieri del paese tutta si
conoscea, Fileno propose di volere in quel giuoco per amore di Biancifiore
mostrare la sua virtù; ma ciò, se alcuna gioia da Biancifiore non avesse la
quale in quel luogo per soprasegnale portasse, non volea fare. Onde egli un
giorno si mosse, vedendo Biancifiore stare con la reina, e con dubbioso viso,
davanti alla reina così a Biancifiore cominciò a parlare:
«O
graziosa giovane, la cui bellezza Giove credo nel suo seno formasse, e a cui io
per volere di quel signore, alla forza del cui arco non poterono resistere
gl'iddii, sono umilissimo e fedel servidore, se i miei prieghi meritano essere
dalla tua benignità uditi, con quello effetto che più graziosamente gli ti
presenti gli mando fuori, e priegoti che, con ciò sia cosa che la festa del
nostro iddio Marte, le cui vestige io sì come giovane cavaliere seguito, si
deggia di qui a pochi giorni celebrare, e in quella il giuoco de' potenti
giovani, sì come tu sai, si deggia fare, e io intendo in quello per amore di te
mostrare le mie forze, che tu alcuna delle tue gioie mi doni, la quale portando
in quello per sopransegna, mi doni tanto più ardire, che io non ho, ch'io possa
acquistare vittoria».
Biancifiore,
udendo queste parole, di vergognosa rossezza dipinse il candido viso, sì tosto
come il cavaliere si tacque, e non sappiendo che si fare, si voltò verso la
reina riguardandola nel viso con dubitosa luce. A cui la reina disse:
«Giovane
damigella, alza la testa: e perché hai tu presa vergogna? Dubiti tu che ciò che
ha detto il cavaliere non sia vero? Certo nella nostra gran città niuna donna
dimora, la cui bellezza si possa adequare al tuo viso; e perché egli ti domandi
grazia, sì come quelli che per amore disidera di servirti, ciò non gli dee da
te esser negata, ma benignamente alcuna delle tue cose, quella che tu credi che
più gli aggradi, gli dona: ché usanza è degli amanti insieme donarsi tal fiata
delle loro gioie».
Disse
Biancifiore allora:
«Altissima
reina, e che donerò io al cavaliere che 'l mio onore e la dovuta fede non si
contamini?».
La
reina rispose:
«Biancifiore,
non dubitare di questo, ché a quelle giovani a cui i fati ancora non hanno
marito conceduto, possono liberamente donare ciò che loro piace, sanza
vergogna. E che sai tu se essi ancora costui ti serbano per marito? E però
donagli: e acciò che più grazioso gli sia, prendi il velo col quale tu ora la
tua testa cuopri. Egli è tal cosa, che se pur te ne vergognasse, potresti negare
d'avergliele donato, affermando che da altra l'avesse avuto, però che molti se
ne trovano simiglianti».
Biancifiore,
costretta dal parlare della reina, con la dilicata mano si sviluppò il velo
della bionda testa, e sospirando il porse a Fileno, il quale in tanta grazia
l'ebbe che mai maggiore ricevere non la credeva. E rendute del dono debite
grazie, con esso da loro allegro si partì. E venuto il tempo del giuoco,
legatosi questo velo alla testa, niuno fu nel giuoco che la sua forza passasse:
per la qual cosa sopra quello, in presenza di Biancifiore, meritò essere
coronato d'alloro.
[17]
La
fortuna, non contenta delle tribulazioni di Florio, condusse Fileno a Montoro
pochi giorni poi la ricevuta vittoria. Il quale là onorevolemente ricevuto da
molti, nella gran sala del duca, incominciò a narrare a' giovani cavalieri suoi
amici quanto fosse stato l'acquistato onore, disegnando con parole e con atti
quanta forza e ingegno adoperasse per ricevere in sé tutta la vittoria, come
fece. Poi, entrati in altri diversi ragionamenti, venuti a parlare d'amore,
similemente sé propose esser assai più che altro innamorato, e di più bella
donna, e come da lei niuna grazia era che conceduta non gli fosse se domandata
l'avesse; e dopo molte parole disavedutamente gli venne ricordata Biancifiore.
E Florio, che non era troppo lontano, e avea udite tutte queste cose, e
piagneasi in se medesimo d'amore, che lui peggio che alcuno altro innamorato
trattava, come udì ricordare Biancifiore, e per le precedenti parole conobbe
lei essere quella donna di cui Fileno tanto si lodava, incontanente cambiato
nel viso si partì da' compagni tacitamente, e stato per picciolo spazio,
ritornò nella sala con l'usato viso, e amichevolemente verso Fileno se n'andò.
Il quale come Fileno il vide, levatosi in piè con quella reverenza che si
convenia, incontro gli si fece. Allora Florio, per più accertarsi di ciò che
sapere non avria voluto, mostrando di volere d'altre cose parlare con lui,
presolo per lo braccio, sanza altra compagnia nella sua camera il menò. E quivi
amenduni postisi a sedere sopra il suo letto, Florio con infinto viso de' suoi
accidenti e delle maniere de' lontani paesi dov'egli era stato, lo incominciò a
domandare; e poi quando tempo gli parve, gli disse:
«Se
il colore del vostro viso non m'inganna, voi mi parete innamorato».
A
cui Fileno rispose:
«Signor
mio, sopra tutti gli altri giovani io amo».
«Ciò
mi piace assai - rispose Florio, - però che nulla cosa m'è tanto a grado,
quanto avere compagni ne' miei sospiri; ma ditemi, se vi piace, da quella
donna, cui voi amate, siete voi amato?».
Disse
Fileno:
«Niuna
cosa m'accende tanto amore nel cuore, quanto il sentire me essere amato da
quella cui io più che me amo».
«Certo
voi state bene - disse Florio; - ma ditemi, come conoscete voi che voi siate da
quella, che voi tanto amate, amato?».
«Dirollovi»,
rispose Fileno «che io sia amato da quella cui io amo, tre cose me ne fanno
certo. La prima si è il timido sguardare con focosi sospiri, nelle quali cose
io apertamente conosco intero amore; appresso, me ne accertano le ricevute
gioie, le quali sanza amore da gentile donna mai donate non sarieno. La terza
cosa che questo mi mostra si è l'allegrezza della quale io veggo il bel viso
ripieno d'ogni felice caso che m'avvenga».
«Ben
sogliono essere le predette cose veri testimonii d'amore; ma ditemi, se vi
piace, che gioia riceveste voi già mai dalla vostra donna: però che alcune
sogliono donare gioie, le quali non sarieno degne di mettere in conto».
«Certo
- disse Fileno - non è di quelle la mia, ma è da tenere carissima; e acciò che
voi sappiate quanto io ne deggio tenere cara una che io n'ho qui meco, io vi
dirò come io la ricevetti».
«Ciò
mi piace» rispose Florio. Allora Fileno cominciò così a dire:
«Dovendo
noi giucare nel giuoco che si fa nella solennità di Marte, pochi giorni ha
passati celebrata, giucare, io nella sua presenza me n'andai, e umilmente la
pregai che le piacesse a me, suo fedelissimo servidore, donare una delle sue
gioie, la quale io per lo suo amore portassi nel giuoco. Essa, al mio priego
mossa, benignamente in mia presenza con le dilicate mani questo velo si levò
d'in su la sua bionda testa»; e traendo fuori il velo, il mostrò a Florio; e
poi seguendo il suo parlare, disse:
«E
appresso aggiunse che io per amore di lei mi dovessi portar bene. Onde se
questo è assai manifesto segnale di vero amore, voi, come me, il potete
conoscere».
«Ma
è più che manifesto - rispose Florio, - e certo ogni altra cosa maggiore è da
esserne da voi sperata».
Disse
allora Fileno:
«Sicuramente
che io molto più avanti ne spero, né credo con l'aiuto de' nostri iddii la mia
speranza vegna fallita».
Florio,
ancora di tutto questo non contento, gli disse:
«Fileno,
se gl'iddii ve ne facciano tosto venire a quel che disiderate, ditemi, se
licito v'è, se questa vostra donna è bella, e chi ella è».
Rispose
Fileno:
«Signor
mio, mai ella non mi comandò ch'io do vessi il suo nome celare, né la sua
bellezza richiede d'essere tenuta, a chi disidera di saperla, occulta, né a voi
niuna cosa sarebbe da nascondere; e appresso mi fido tanto nel buono amore che
io conosco ch'ella mi porta, che posto che alcuni il sapessero e volesserlami,
amandola, torre, non poriano. Onde, poi che vi piace di saperlo, io vi dirò il
nome, il quale udendo conoscerete quanta sia la bellezza. La donna di cui io
tutto sono, e per cui io amorosamente sospiro, si chiama Biancifiore, e dimora
ne' reali palagi del vostro padre in compagnia della reina. Voi la conoscete
meglio che io non fo, e sapete bene quanta sia la sua bellezza, e quinci potete
vedere se per graziosa donna io sono da amore costretto». Riguardollo Florio
allora nel viso sanza mutare aspetto, e disse:
«Veramente
vi tiene amore per bella donna, e ora mi piace più ciò che detto m'avete, che
prima non facea. Ma una cosa vi priego che facciate, che saviamente amiate e
guardatevi di non lasciarvi tanto prendere ad Amore, che a vostra posta partire
non vi possiate da lui, però che io, il quale vivo pieno di sospiri, per niuna
altra cosa mi dolgo, se non per che io vorrei da lui partirmi, e non posso; e
la cagione è però che io amai già una donna, e ancora più che me l'amo, e per
quello che vedere me ne parve, ella amò me sopra tutte le cose, e in luogo di
vero amore ella mi donò questo anello, il quale io porto in dito e porterò
sempre per amore di lei; e poco tempo appresso lasciò me e donossi ad un altro
di molto minor condizione che io non sono: per la qual cosa io ora mi vorrei
partire da amare e non posso, e lei ho quasi del tutto perduta. Se a voi il simigliante
avvenisse, certo elli sarebbe da dolerne a ciascuna persona che v'amasse».
Disse
allora Fileno:
«Florio,
buono è il consiglio che mi donate, e se io credessi che mi bisognasse, io il
prenderei; ma sanza dubbio io la conosco tanto costante giovane, che mai del
suo proposito, cioè d'amare me, non credo ch'ella si muti».
«Dunque
avete voi vantaggio da tutti gli altri - disse Florio, - e se così sarà, piu
che nullo iddio vi potrete chiamare beato».
L'ora
del mangiare gli levò da questo ragionamento, il quale non dilettava tanto
all'una delle parti, quanto all'altra era gravissimo e noioso; e usciti della
camera, lavate le mani, alle apparecchiate tavole s'asettarono.
[18]
Stette
Florio alla tavola sanza prendere alcun cibo, rivolgendo in sé l'udite parole
da Fileno, sostenendo con forte animo la noiosa pena che lo sbigottito cuore
sentiva per quelle. Ma poi che le tavole furono levate, e a ciascuno fu licito
d'andare ove gli piacea, Florio soletto se n'entrò nella sua camera, e
serratosi in quella, sopra il suo letto si gittò disteso, e sopra quello
incominciò il più dirotto pianto che mai a giovane innamorato si vedesse fare;
e nel suo pianto incominciò a chiamare la sua Biancifiore e a dire così:
«O
dolce Biancifiore, speranza della misera anima, quanto è stato l'amore ch'io
t'ho portato e porto da quell'ora in qua che prima ne' nostri giovani anni
c'innamorammo! Certo mai alcuno donna sì perfettamente non amò, come io ho te
amata: tu sola se' stata sempre donna del misero cuore. Niuna cosa fu che per
amore di te io non avessi fatto, niuna gravezza è che lieve non mi fosse
paruta. E certo, quando il noioso caso della misera morte, alla quale
condannata fosti, fu, niuno dolore fu simile al mio, infino a tanto che con la
mia destra mano liberata non t'ebbi. Deh, misera la vita mia, quanti sono stati
i miei sospiri, poi che licito non mi fu di poterti vedere! Quante lagrime
hanno bagnato il dolente petto, nel quale io continuamente effigiata ti porto
così bella, come tu se'! Né mai niuno conforto poté entrare in me sanza il tuo
nome. Niuno ragionamento m'era caro sanza esservi ricordata tu, di cui ora la
speranza così spogliato mi lascia, pensando che me per Fileno abbi abandonato,
e la cagione per che vedere non posso. Certo tu non puoi dire che io mai altra
donna che te amassi: da assai sono stato tentato, mai niuna poté vantarsi che
alquanto al loro piacere io mi voltassi. Né in altra cosa conosco me averti già
mai fallito: dunque perché Fileno più di me t'è piaciuto? Deh, or non sono io
figliuolo del re Felice, nipote dell'antico Atalante sostenitore de' cieli?
Certo sì sono: e Fileno è un semplice cavaliere. Luce il viso suo di più
bellezza che 'l mio? Mai no! È la sua virtù più che la mia? Or fosse essa pur
tanta! Se forse valoroso giovane ti pare sotto l'armi, quanto il mio valore sia
non ti dee essere occulto, a tal punto in tuo servigio s'adoperò. Doni so bene
che a questo non t'hanno tratta; ma io dubito che l'animo tuo, il quale solea
essere grandissimo, sia impicciolito, e dubiti d'amare persona che maggior
titolo porti di te, dubitando d'essere da me sdegnata. Certo questa dubitazione
non dovea in te capere, però ch'io so te essere degli altissimi imperadori
romani discesa; la qual cosa se ancora vera non fosse, non potrebbe tra te e me
capere sdegno. Dunque, perché m'hai lasciato? Ahimè, misera la vita mia! Quando
troverai tu un altro Florio, che sì lealmente t'ami com'io t'ho amata? Tu nol
troverai già mai! Tu m'hai data materia di sempre piagnere, però che mai del mio
cuore tu non uscirai, né potresti uscire; e sempre ch'io mi ricorderò me essere
del tuo cuore uscito, tante fiate sosterrò pene sanza comparazione. E quello
che più in questo mi tormenta, si è che io conosco te non poter negare l'essere
di Fileno innamorata, però che egli m'ha mostrato quel velo col quale tu
coprivi la bionda testa, quando con pietose parole ti domandò una delle tue
gioie, e tu gli donasti quello. Oimè misero, ove si vogliono oramai voltare i
miei sospiri a domandare conforto, poi che tu m'hai lasciato, ch'eri sola mia
speranza? Oimè dolente, erati così noioso l'attendere di potermi vedere, che
per così poco di tempo me per un altro, cui più sovente veder puoi, hai
dimenticato? Io non so che mi fare: io disidero di morire e non posso».
E
lagrimando per lungo spazio, ricominciava a dire:
«O
Amore, valoroso figliuolo di Citerea, aiutami. Tu fosti del mio male
cominciatore: non mi abandonare in sì gran pericolo! Tu sai che io ho sempre i
tuoi piaceri seguiti. Vagliami la vera fede che io ho portata alla tua
signoria, la quale me a sé sottomettere non dovea sanza intendimento d'aiutarmi
infino alla fine de' miei disii. Volessero gl'iddii che mai la tua saetta non
si fosse distesa verso il mio cuore, né che mai veduta fosse stata da me la
luce de' begli occhi di Biancifiore, da' quali ora per la tua potenza medesima
tradito e ingannato mi trovo! Oimè misero, quante fiate già per la tua potenza
mi giurò ella che mai me per altrui non lascerebbe, e io a lei simile
promissione feci! Io l'ho osservata, ma ella m'ha abandonato. Ove è fuggita la
promessa fede? E tu dove se', o Amore, il cui potere è stato schernito da
questa giovane? Come non ti vendichi, e me similmente? Se tu così notabile
fallo lasci impunito, chi avrà in te già mai fidanza? Tu perseguitasti il
misero Ipolito infino alla morte perché egli sdegnava tua signoria: come
costei, che l'ha ingannata, non punisci? Io non ne cerco però grave punizione,
ma solamente che tu la ritorni nel pristino stato; e se questo conceder non mi
vuoi, consenti di chiudere con le tue mani i miei occhi, acciò che più la mia
vita in sì fatta maniera non si dolga. Deh, ascolta i prieghi del misero, o
caro signore; rivolgiti verso lui con pietoso viso, acciò ch'egli possa avere
alcuna consolazione anzi la morte, la quale tosto, in dispiacere del mio padre,
prendere mi possa, il quale di questo male è cagione, però che se egli non
fosse, io non sarei stato lontano, e essendo stato presente, la mia Biancifiore
non avrebbe me per Fileno dimenticato: avvegna che ancora io credo che per
paura di lui ella si sia ingegnata d'avere altro amadore. Oimè, che nulla
cagione è che a me non sia contraria! A me avviene sì come alla nave, alla
quale, già mezza inghiottita dalle tempestose onde, ogni vento è contrario. O
misera fortuna, i tuoi ingegni s'aguzzano a nuocere a me, apparecchiato di
ruinare! Oimè, perché questo sia io non so. Tu fosti già a me benignissima
madre, e ora mi se' acerba matrigna. Io mi ricordo già sedere nella sommità
della tua rota, e veder te con lieto viso onorarmi: e questo era quando il
lieto viso di Biancifiore m'era presente, mostrandomi quello amore che
parimente insieme ci portavamo; ma tu, credo, invidiosa di sì graziosa gioia
com'io sentiva, non sostenesti tener ferma la tua volubile rota, ma voltando
non sanza mio gran dolore, allontanandomi dal bel viso, mi pingesti a Montoro.
Qui con grandissimi tormenti stando, imaginava me essere nella più infima parte
della tua rota, né credea più potere discendere; ma tosto con maggiore
infortunio mi facesti conoscere quella avere più basso luogo: e questo fu
quando non bastandoti me avere allontanato da lei, t'ingegnasti d'opporre alle
forze degl'iddii, volendola far morire, alla cui salute, non tua mercé, io fui
arditissimo difenditore. E in tale stato, con più sospiri, che per lo passato
tempo avuti non avea, mi tenesti grande stagione, sperando io di dovere
risalire, se si voltasse: però che tanto m'era paruto scendere, che 'l centro
dell'universo mi parea toccare. Ma tutto ciò non bastandoti, ancora volesti che
niuno luogo fosse nella tua rota, che da me non fosse cercato; e ha'mi ora in
sì basso luogo tirato, che con la tua potenza, ancora che benigna mi ritornassi
come già fosti, trarre non me ne potresti. Io sono nel profondo de' dolori e
delle miserie, pensando che la mia Biancifiore abbia me per altrui abandonato.
O dolore sanza comparazione! O miseria mai non sentita da alcuno amante che è
la mia! Avvegna che io non sia il primo abandonato, io son solo colui che sanza
legittima cagione sono lasciato. La misera Isifile fu da Giansone abandonata
per giovane non meno bella e gentile di lei, e per la salute propia della sua
vita, la quale sanza Medea avere non potea. Medea poi per la sua crudeltà fu
giustamente da lui lasciata, trovando egli Creusa più pietosa di lei. Oenone fu
abandonata da Paris per la più bella donna del mondo. E chi sarebbe colui che
avanti non volesse una reina discesa del sangue degl'immortali iddii, che una
rozza femina usata ne' boschi? Oh quanti essempli a questi simili si troverebbero!
Ma al mio dolore niuno simile se ne troverebbe, che un figliuolo d'un re per un
semplice cavaliere sia lasciato, dove la virtù avanza nell'abandonato. Deh,
misera fortuna, se io avessi ad inganno avuto l'amore di Biancifiore, come
Aconzio ebbe quello di Cidipe, certo alquanto parrebbe giusto che io fossi per
più piacevole giovane dimenticato; ma io non con inganno, non con forza, non
con lusinghe ricevetti il grazioso amore, anzi benignamente e con propia
volontà di lei, cercando co' propii occhi se io era disposto a prenderlo, e
trovando di sì, mel donò: il qual ricevuto, a lei del mio feci subitamente
dono. Adunque perché questa noia? Perché consentire me per altro essere
dimenticato? Oimè, che le mie voci non vengono alle tue orecchi. Or volessero
gl'iddii che mai lieta non mi ti fossi mostrata! Certo io credo che 'l mio
dolore sarebbe minore, però che io reputo felicissimo colui che non è uso
d'avere alcuna prosperità, però che da quella sola, perdendola, procede il
dolore. E di che si può dolere chi dimora sempre con quello ch'egli ebbe? Tu
ora m'hai posto sì abasso, che più non credo potere scendere: nel quale luogo,
sì come più doloroso che alcuno altro, mai sanza lagrime non dimorerò. Piaccia
agl'iddii che sopravegnente morte tosto me ne cavi».
E
poi che queste cose piangendo avea dette, rimirava all'anello che in dito
portava, e diceva:
«O
bellissimo anello, fine delle mie prosperità e principio delle miserie,
gl'iddii facciano più contenta colei che mi ti donò, che essi non fanno me.
Deh, come non muti tu ora il chiaro colore, poi che ha la tua donna mutato il
cuore? Oimè, che perduta è la reverenza che io ho a te e all'altre cose da lei
ricevute portata! Ogni mio affanno in picciola ora è perduto: ma poi che ella
mi s'è tolta, tu non ti partirai da me. Tu sarai etterno testimonio del
preterito amore, e così come io sempre nel cuore la porterò, tu così sempre
nella usata mano starai».
E
poi bagnandolo di lagrime, infinite volte il baciava chiamando la morte che da
tale affanno col suo colpo il levasse, e più forte piangendo diceva:
«Oimè,
perché più si prolunga la mia vita? Maladetta sia l'ora ch'io nacqui e che io
prima Biancifiore amai. Or fosse ancora quel giorno a venire, né già mai
venisse. Ora fossi io in quell'ora stato morto, acciò che io essemplo di tanta
miseria non fossi nel mondo rimaso. Ma certo la mia vita non si prolungherà
più!».
E
postasi mano allato, tirò fuori un coltello, il quale da Biancifiore ricevuto
avea, dicendo:
«Oggi
verrà quello che la dolorosa mente s'imaginò quando donato mi fosti, cioè che
tu dovevi essere quello che la mia vita terminerebbe: tu ti bagnerai nel misero
sangue, tenuto vile dalla tua donna, la quale, sappiendolo, forse avrà più caro
avermiti donato, per quello che avvenuto ne sarà, che per altro».
Mentre
che Florio piangendo dolorosamente queste parole diceva, disteso sopra 'l suo
letto, Venere, che il suo pianto avea udito, avendo di lui pietà, discese del
suo cielo nella trista camera, e in Florio mise un soavissimo sonno, nel quale
una mirabile visione gli fu manifesta.
[19]
Poi
che Florio, da dolce sonno preso, ebbe lasciato il lagrimare, nuova visione gli
apparve. A lui parea vedere in un bellissimo piano un gran signore coronato di
corona d'oro, ricca per molte preziose pietre, le quali in essa risplendeano
maravigliosamente, e i suoi vestimenti erano reali. E parevagli che questi
tenesse nella sinistra mano uno arco bellissimo e forte, e nella destra due
saette, l'una d'oro, e quella era agutissima e pungente, l'altra gli parea di
piombo, sanza alcuna punta. E questo signore, il quale di mezza età, né giovane
né vecchio, giudicava, gli parea che sedesse sopra due grandissime aquile, e i
piedi tenesse sopra due leoni, e nell'aspetto di grandissima autorità. E quanto
Florio più costui guardava, più mirabile gli parea, ventilando due grandissime
ali d'oro, le quali dietro alle spalle avea. Ma poi che a Florio parve per
lungo spazio avere lui riguardato, elli gli parve vedere dalla destra mano del
signore una bellissima donna, la quale ginocchioni davanti al signore
umilemente pregava; ma egli non poteva intendere di che, se non che, fiso
riguardando la donna, gli parve che fosse la sua Biancifiore. Poi alla sinistra
mano del signore rimirando, vide un tempestoso mare, nel quale una nave con
l'albero rotto, e con le vele le quali piene d'occhi gli pareano tutte
spezzate, e con li timoni perduti e sanza niuno governo. E in quella nave gli
parea essere, a lui, tutto ignudo, con una fascia davanti agli occhi, e non
sapere che si fare; e dopo lungo affannare in questa nave, gli parea vedere
uscire di mare uno spirito nero e terribile a riguardare, il quale prendeva la
proda di questa nave, e tanto forte la tirava in giuso che già mezza l'aveva
nelle tempestose onde tuffata. Allora Florio, forte spaventato sì per lo fiero
aspetto dello spirito sì che si vedea la morte vicina per la tempestante nave,
con grandissimo pianto verso la poppa gli parea fuggire e gridare verso quel
signore "Aiuto". Ma egli non parea che alle sue parole né a' suoi
prieghi colui si movesse; onde Florio più temea, sentendo ciascuna ora più la
nave affondare. Poi dopo alquanto spazio gli parea che questo signore gli
dicesse: "Io sono colui cui tu hai già tanto chiamato ne' tuoi sospiri:
non credere che io ti lasci perire". Ma per tutto questo niente si muove.
Ma poi che a Florio piangendo con grandissima paura parve avere un grandissimo
pezzo aspettato, a lui parve che la fascia, che davanti agli occhi avea,
alquanto s'aprisse, e fossegli conceduto di vedere dove stava: e com'egli
aperse gli occhi a riguardare, vide essere già quella nave tanto tirata sotto
l'onde, che poco o niente se ne parla. Allora, forte piangendo, gli parea
domandare mercé e aiuto, e alzando gli occhi al cielo per invocare quello di
Giove, parendogli che quello di quel signore li fallisse, e egli vide una
bellissima giovane tutta nuda, fuori che in uno sottile velo involta, e
dicevagli: "O luce degli occhi miei, confortati". A cui Florio rispondea:
"E che conforto poss'io prendere, che già mi veggo tutto sotto
l'onde?". La giovane gli rispondea: "Caccia dalla tua nave quello
iniquo spirito, il quale con la sua forza s'ingegna d'affondarla". A cui
Florio parea che rispondesse: "E con che il caccerò io, che niuna arma m'è
rimasa?". Allora parea a Florio che costei traesse del bianco velo una
spada, che parea che tutta ardesse, e dessegliela; la quale Florio poi che
presa l'avea, gli pareva rimirare costei e dire: "O graziosa giovane, che
ne' miei affanni tanto aiuto vi insegnate di porgermi, se vi piace, siami
manifesto chi voi siete, però che a me conoscere mi vi pare, ma la lunga fatica
m'ha sì stordito, che il vero conoscimento non è con meco". Questa parea
che così gli rispondesse: "Io sono la tua Biancifiore, di cui tu oggi,
ignorante la verità, ti se' tanto sanza ragione doluto"; e questo detto,
parea a Florio che essa gli porgesse un ramo di verde uliva e disparisse. Poi
parea a Florio con l'ardente spada leggerissimo andare sopra l'onde e ferire lo
iniquo spirito più volte, ma dopo molti colpi gli parea che lo spirito
lasciasse il legno, tornandosi per quella via onde era venuto. E partito lui, a
Florio parea che il mare ritornasse alquanto più tranquillo, e il legno nel suo
stato, di che in se medesimo si rallegrava molto. E volendo intendere a
racconciare i guasti arnesi della sua nave, il lieve sonno subitamente si
ruppe. E Florio dirizzato in piè, sospirando e quasi stordito per la veduta
visione, si trovò in mano un verde ramo d'uliva: per la qual cosa vie più
d'ammirazione prese, e incominciò a pensare sopra le vedute cose e sopra il
verde ramo. E poi che egli ebbe lungamente pensato, e egli incominciò così fra
se medesimo a dire: "Veramente avrà Amore le mie preghiere udite, e forse
in soccorso della mia vita, vorrà tornare Biancifiore in quello amore verso di
me che ella fu mai, però che la voce di lei mi riconfortò nella affannosa
tempesta ove io mi vidi, e diemmi argomento da campare da quella, e in segno di
futura pace mi donò questo ramo delle frondi di Pallade: onde poi che così è,
io voglio avanti piangendo alquanto aspettare che Biancifiore mi mostrerà di
voler fare, che subitamente, sanza farle sentire ciò che Fileno m'ha detto,
uccidermi con le propie mani". E questo detto, riprese il coltello che
sopra il letto ignudo stava, e quello rimise nel suo luogo; e sanza più
indugio, come propose, così fece una pistola, la quale egli mandò a
Biancifiore, in questo tenore:
[20]
«Se
gli avversarii fati, o graziosa giovane, t'hanno a me con l'altre prosperità
levata, come io credo, non con isperanza di poterti con i miei prieghi muovere
dal novello amore, ma pensando che lieve mi fia perdere queste parole con teco
insieme, ti scrivo. La qual cosa se non è com'io estimo, se parte alcuna di
salute m'è rimasa, io la ti mando per la presente lettera, della quale
volessero gl'iddii che io fossi avanti aportatore; e per quello amore che tu
già mi portasti, ti priego che questa sanza gravezza infino alla fine legghi. E
però che pare che sia alcuno sfogamento di dolore a' miseri ricordare con
lamentevoli voci le preterite prosperità, a me misero Florio, da te abandonato,
con teco, sì come con persona di tutte consapevole, piace di raccontarle; e
forse udendole tu, che pare che messe l'abbi in oblio, conoscerai te non dovere
mai me per alcuno altro lasciare. Adunque, sì come tu sai, o giovane donzella,
tu, in un giorno nata ne' reali palagi con meco di pellegrino ventre, compagna
a' miei onori divenisti, che sono unico figliuolo del vecchio re: ne' quali onori
tu e io parimente dimorando, Amore l'uno così come l'altro, ne' nostri puerili
anni, con la cara saetta ferì. Né più fu in sì tenera età perfetto l'amore
d'Ifis e di lante che fu il nostro. E quello studio che a noi, costretti da
aspro maestro, ne' libri si richiedeva, cessante Racheio, in rimirarci
mettevamo, mostrando lo inestimabile diletto che ciascuno di ciò avea. Oimè,
che ancora niuno ricordo era nella nostra corte di Fileno, il quale di lontana
parte dovea venire a donarti simile gioia. Ma poi la fortuna, mala sostenitrice
delle altrui prosperità, invidiosa de' nostri diletti, i quali con dolci
sguardi e semplici baci solamente si contentavano per la età che semplice era,
verso di noi innocenti volle la sua potenza mostrare, e, abassando con la sinistra
mano la non riposante rota, il nostro occulto amore a sospette persone fece
manifesto. Il quale dal mio padre, dopo gravi riprensioni maestrali, saputo,
fui costretto di partirmi da te: nella quale partita, tu mia e io sempre tuo,
per la somma potenza di Citerea, giurammo di stare, mentre Lachesis, fatale
dea, la vita ne nutricasse. E nel mio partire mi vedesti piangere, e tu
piangesti; e ciascuno di noi egualmente dolente, mescolammo le nostre lagrime.
E sì come l'abbracciante ellera avviticchia il robusto olmo, così le tue
braccia il mio collo avvinsero, e le mie il tuo simigliantemente; e appena ci
era licito ad alcuno di lasciare l'uno l'altro, infino a tanto che tu per
troppo dolore costretta nelle mie braccia semiviva cadesti, riprendendo poi vita
quando io cercava teco morire, te riputando morta. Ora fosse agl'iddii piaciuto
che allora il termine della mia vita fosse compiuto! Ma tu poi levata, e
donatomi quello anello il quale ancora te mi tiene legata nel cuore e terrà
sempre, mi pregasti che mai io non ti dovessi dimenticare per alcuna altra.
Alle quali parole s'aggiunsero sì tosto le lagrime che appena ne fu possibile
dire addio. E dopo la mia partita mi ricorda avere udito che tu con gli occhi
pieni di lagrime mi seguitasti infino a tanto che possibile ti fu vedermi, sì
come io similemente stetti sempre con gli occhi all'alta torre, ove te
imaginava essere salita per vedere me. Tu rimanesti nelle nostre case visitando
i luoghi dove più fiate stati eravamo insieme, e in quelli con sì fatta ricordanza
prendevi alcuno diletto imaginando. Ma io misero, poi che i tristi fati da te
m'ebbero allontanato, come gl'iddii sanno, niuno diletto si poté al mio animo
accostare sanza ricordarmi di te; e ciascun giorno i miei sospiri cresceano
trovandomi lontano alla tua presenza; e quelle fiamme le quali il mio padre
credeva, lontanandomi da te, spegnere, con più potenza sempre si sono raccese e
divenute maggiori. Oimè, ora quante fiate ho io già pianto amaramente per
troppo disio di veder te, e quante fiate già nel tenebroso tempo, quando
amenduni i figliuoli di Latona nascosi ci celano la loro luce, venni io alle
tue porti dubitando di non essere sentito da' miei minori servidori, e non
temendo la morte che nelle mani degli insidianti uomini ne' notturni tempi
dimora, né de' fieri leoni, né de' rapaci lupi per lo cammino usanti in sì
fatte ore! E quante volte già giovani donne per rattiepidare i miei tormenti,
le cui bellezze sarieno agl'iddii bene investite, m'hanno del loro amore
tentato, né mai alcuna poté vincere il forte cuore, a te tutto disposto di
servire! E poi, oltre a tutte l'altre tribulazioni, gl'iddii sanno quanto grave
mi fosse ciò che di te intesi, quando ingiustamente condannata fosti alla
crudele morte: alla quale io con tutte le mie forze, mercé degl'iddii che
m'aiutarono, conoscendo la ingiustizia a te fatta, m'opposi in maniera che me
con teco trassi da tale pericolo. E poscia ognora in maggiore tribulazione
crescendo, dubitando della tua vita, mai non divenni vile a sostenere tormenti
per te, né mai per tutte le contate cose una fiata mi pentii d'averti amata, né
proposi di non volerti amare, ma ciascuna ora più t'amai e amo, avvegna che te
io aggia tutto il contrario trovata, però che tu non hai potuto la minor parte
delle mie miserie sostenere in mio servigio. Tu, mobile giovane, ti se' piegata
come fanno le frondi al vento, quando l'autunno l'ha d'umore private. Tu
agl'ingannevoli sguardi di Fileno, il quale non lunga stagione t'ha tentata,
se' dal mio al suo amore voltata. Oimè, or che hai tu fatto? E se questo forse
negare volessi tu, non puoi, con ciò sia cosa che la sua bocca a me abbia tutte
queste cose manifestate. E oltre a ciò, volendomi mostrare quanto il tuo amore
sia fervente verso di lui, mi mostrò il velo che tu della tua testa levasti e
donastilo a lui: il quale quand'io il vidi, un subito freddo mi corse per le
dolenti ossa, e quasi smarrito rimasi nella sua presenza. Oimè, come io
volontieri gli avrei con le pronte mani levato il caro velo, e lui, che
s'ingegnava di te levarmi, tutto squarciato, cacciandolo da me con grandissima
vergogna; ma per non scoprire quello che nel mio cuore dimorava e per udire più
cose, sostenni con forte viso di riguardare quello per amore di te, imaginando
che per adietro la tua testa, a me graziosissima a ricordare, avea coperta.
Oimè, ora è questa la costanza che io ho avuta verso di te? Deh, or non sai tu
quante e quali donne m'hanno per maritale legge al mio padre adimandato, e
quante e quali egli me ne ha già volute dare per volermi levare a te? Or non
consideri tu quanti e quali dolori io ho già per te sostenuti per l'esserti
lontano, e sostengo continuamente? Queste cose non si dovrieno mai del tuo
animo partire, le quali mostra che assai da esso lontane sieno, veggendomi io
essere per Fileno abandonato. Deh, ora qual cagione t'ha potuto a questo
muovere? Certo io non so. Forse mi rifiuti per basso lignaggio, sentendo te
essere degli altissimi prencipi romani discesa, le cui opere hanno tanta di
chiarezza, che ogni reale stirpe obumbrano, e me del re di Spagna figliuolo,
onde riputando te più gentile di me, m'hai per altro dimenticato? Ma tu,
stoltissima giovane, non hai riguardato per cui, però che se bene avessi
cercato, tu avresti trovato Fileno non essere di reale progenie, né di romano
prencipe disceso, ma essere un semplice cavaliere. E se forse più bellezza in
lui che in me ti muove, certo questo è vano movimento, con ciò sia cosa che
egli non sia bellissimo né io sì laido, che per quello dovessi essere lasciato
da te. Se forse in lui più virtù che in me senti, questo non so io, ma certo da
alcuno amico m'è stato raportato segretamente me essere nel nostro regno tra
gli altri giovani virtuoso assai. Oimè, che io non so perché in queste cose
menome io scrivendo dimoro, con ciò sia cosa che il piacere faccia parere il
laido bellissimo, e colui ch'è sanza virtù copioso di tutte, e il villano
gentilissimo riputare. Io mi piango con più doloroso stile pensando che quando
tutte le ragioni di sopra dette aiutassero Fileno, come elle debitamente me difendono,
perché dovrei io essere da te lasciato già mai? Ove credi tu mai trovare un
altro Florio il quale t'ami com'io fo? Quando credi tu avere recato Fileno a
tal partito ch'egli per te si disponga alla morte com'io feci? Oimè, ove è ora
la fede promessa a me? Deh, se io fossi molto allontanato da te con questa
speranza con la quale io t'era vicino, alcuna scusa ci avrebbe: o dire:
"Io mai più vedere non ti credea", o porre scusa di rapportata morte:
delle quali qui niuna porre ne puoi, però che di me continue novelle sentivi e
ognora potevi udire me essere a te subietto che mai. Oimè, ch'io non so quale
iddio abbia la sua deità qui adoperata in fare che tu non sii mia come tu
suoli, né so qual peccato a questo mi nuoccia. Fallito verso te non ho, salvo io
non avessi peccato in troppo amarti dirittamente: al quale fallo male si confà
la dolente pena che m'apparecchi, cioè d'amare altrui e me per altro
abandonare. Ma tanto infino ad ora ti manifesto che, con ciò sia cosa che mai
io non possa sanza te stare né giorno né notte che tu sempre ne' miei sospiri
non sia, se questo esser vero sentirò, con altra certezza che quella che io ti
scrivo, per gli etterni iddii la mia vita in più lungo spazio on si distenderà,
ma contento che nella mia sepoltura si possa scrivere: "Qui giace Florio
morto per amore di Biancifiore", mi ucciderò, sempre poi perseguendo la
tua anima, se alla mia non sarà mutata altra legge che quella alla quale ora è
costretta. Io avea ancora a scriverti molte cose, ma le dolenti lagrime, le quali,
ognora che queste cose che scritte t'ho mi tornano nella mente, avvegna che
dire potrei che mai non escono, mi costringono tanto, che più avanti scrivere
non posso. E quasi quello che io ho scritto non ho potuto interamente dalle
loro macchie guardare; e la tremante mano, che similemente sente l'angoscia del
cuore che mi richiama all'usato sospirare, non sostiene di potere più avanti
muovere la volonterosa penna: onde io nella fine di questa mia lettera, se più
merito d'essere da te udito come già fui, ti priego che alle prescritte cose
provegghi con intero animo. Nelle quali se forse alcuna cosa scritta fosse la
quale a te non piacesse, non malizia, ma fervente amore m'ha a quella scrivere
mosso, e però mi perdona. E se quello che il tristo cuore pensa è vero,
caramente ti priego che, se possibile è, indietro si torni. E se forse l'amore
che tu m'avesti già né i miei prieghi a questo non ti strignesse, stringati la
pietà del mio vecchio padre e della misera madre, a' quali tu sarai cagione
d'avermi perduto. E se così non è, non tardi una tua lettera a certificarmene,
però che infino a tanto che questo dubbio sarà in me, infino a quell'ora il tuo
coltello non si partirà della mia mano, presto ad uccidere e a perdonare
secondo ch'io ti sentirò disposta. Avanti non ti scrivo, se non che tuo son
vivuto e tuo morrò: gl'iddii ti concedano quello che onore e grandezza tua sia,
e me per la loro pietà non dimentichino».
[21]
Fatta
la pistola, Florio piangendo la chiuse e suggellò; e chiamato a sé un suo
fedelissimo servidore, il quale era consapevole del suo angoscioso amore, così
gli disse:
«O
a me carissimo sopra tutti gli altri servidori, te' la presente lettera, la
quale è segretissima guardia delle mie doglie, e con studioso passo celatamente
a Biancifiore la presenta, e priegala che alla risposta niuno indugio ponga,
però che per te l'attendo. Se avviene che la ti doni, niuna cagione ti ritenga,
ma sollecitamente a me quanto più cheto puoi, fa che la presenti, acciò che
degnamente possi nella mia grazia dimorare. Va, che 'l molto disio mi cuoce
d'udire quello che a questa si risponderà; e guarda che niuno altro che quella
propia cui io ti mando la vedesse».
Prese
il servo la suggellata pistola, e quella, con istudioso passo, pervenuto in
Marmorina nelle reali case, presentò a Biancifiore occultamente. La quale come
Biancifiore la vide, primieramente con dolci parole domandò come il suo Florio
stesse. A cui il servo rispose:
«Graziosa
giovane, niuno sospiro è sanza lui. Egli si consuma in isconvenevole amaritudine,
la cagione della quale è a me nascosa».
Udito
questo, Biancifiore cominciò a sospirare, dicendo:
«Oimè,
e per quale cagione potrebbe questo essere?».
«Per
niuna credo - rispose il servo, - se per amore di voi non è. Egli vi manda
caramente pregando che sanza alcuno indugio alla presente pistola rispondiate;
e io, se vi piacerà, attenderò la risposta».
Allora
Biancifiore la presa pistola si pose sopra la testa, e, avanti che l'aprisse,
la baciò forse mille fiate, e, partita dal messaggiere, gli disse che di
presente la risposta gli recherebbe, e sola nella sua camera se n'entrò,
dubitando che dir dovesse la presente lettera. E, rotto il tenero legame, aprì
quella, né più tosto la prima parte ne lesse, che i begli occhi
s'incominciarono a bagnare d'amare lagrime; e così, ognora più forte piangendo
come più avanti leggeva, la finì di leggere. Ma poi che con pianti e con
sospiri più fiate l'ebbe reiterata leggendo, angosciosa molto nella mente della
falsa imaginazione, di Florio, la quale avea di verità viso per lo mal donato
velo, sopra 'l suo letto si pose, e a quella così al suo Florio rispose:
[22]
«Non
furono sanza molte lagrime gli occhi miei, quando primieramente videro la tua
pistola, o nobilissimo giovane, sola speranza della dolente anima, la quale con
gravissima angoscia molte fiate rilessi. E certo ella non fu dal tuo pianto
macchiata quasi in alcuna parte, a rispetto che le mie lagrime la macchiarono.
E più volte leggendo quella, fra me pensai aver difetto d'intendimento, alcuna
volta dicendo fra me medesima: "Io non la intendo bene, però che non
potrebbe essere che intendimento di Florio fosse di scrivermi le parole che
semplicemente guardando pare che questa pistola porga". Altra volta dicea:
"Forse Florio mi tenta, e vuole vedere se io mi muto per asprezza di
parole". Ma poi che ogni intendimento si cessò da me, e lasciommisi
credere che tu credevi quello che scrivevi, appena credetti potere a tanto
sforzare la deboletta mano che la penna in quella sostenere si potesse per
volerti rispondere; ma poi che pure sforzandomi gl'iddii mi concedono potere a
te rispondere, per questa, quella salute che per me disidero, ti mando. E se
alcuna fede merita il leale amore ch'io ti porto, ti giuro per gl'immortali
iddii che e' non t'era bisogno distenderti in tanto scrivere per mostrarmi
quanto sia stato o sia l'amore che mi porti, però che molto maggiore credo che
sia che la tua lettera non mostra, né tu per parole potresti mostrare. E similmente
i lunghi affanni e i gran meriti, a' quali io mai aggiunger non potrei a
remunerare il più picciolo, per quella conobbi. Ma il sentirti piagnere della
intera fede la quale mai né ti ruppi, né disiderai di romperti, m'ha mossa a
lagrimare e istrinta a scriverti, disiderosa di farti certo te mai da me non
essere dimenticato, né potere possibile mai divenire che io ti dimentichi. Io,
o grazioso giovane, non credo me essere nata de' ferocissimi leoni barbarici,
né delle robuste querce d'Ida, né delle fredde marmore di Persia, dalle quali
cose risomigliando passi di rigidezza i libiani serpenti; ma di pietoso padre e
di benigna madre, sì come più fiate m'è stato detto, discesi, e per quella
legge che sono gli umani corpi dalla natura tratti, e io similemente, ma non
dalla fortuna. Né appresi mai, né so essere, né disidero di saperlo, crudele e
sanza umano conoscimento come tu imagini. Tu mi scrivi che Amore me, come te,
ne' nostri puerili anni, insiememente ferì: della qual cosa io non meno di te
mi ricordo. E certo egli mi trovò atta e disposta ad amare come te similemente,
né più durezza credo che trovasse nel mio che nel tuo cuore, o abbia mai
trovata. Per la qual cosa, se tu con affanni infiniti se' lontano a me
dimorato, io non dimorai mai né dimoro con diletto a te lontana, anzi mi sento
da diverse punture molestare per simile cagione che senti tu, né mai infinta
lagrima né falsa parola per più accenderti udisti da me: ma volessero gl'iddii
che possibile fosse te aver potuto vedere e udire le vere, le quali se vedute
avessi, forse più temperatamente avresti scritto, quando dicesti me non essere
costante a sostenere per te uno affanno, né in amarti. Ma però che tutto questo
spero con l'aiuto degl'iddii ancora doversi mani festare a te con apertissimo
segno, più non mi stendo a scrivertene, essendo non meno da più grave dolore
costretta, sentendo te credere essere da me per Fileno abandonato, sì come la
tua lettera mostra, la quale quando vidi, assalita da non picciola doglia, per
poco non morii. Oimè, quanto m'è la fortuna avversa! Tu vai cercando di
mostrarmi cagioni per le quali io debbia aver te per Fileno lasciato, e quelle
tu medesimo l'annulli: e veramente da annullare sono! E se di te quel senno non
è partito che aver suoli, dovresti pensare che io non sono del senno uscita,
che io non conosca manifestamente te di nobiltà avanzare Fileno, semplice
cavaliere della tua corte, e me picciolissima serva di te e del tuo padre, a
cui tu rimproveri, faccendoti beffe di me, me esser discesa degli antichi imperadori
romani, i quali gl'iddii guardino che sì poco torni la loro potenza, che ad
essere servi, com'io sono, torni la loro sementa. Né ancora mi si occulta la
tua virtù, né la tua bellezza piena di graziosa piacevolezza, a me cagione
d'intollerabile tormento: per le quali cose saresti più degno amante dell'alta
Citerea che di me. E certo, ben che io ti conosca nobilissimo, virtuoso e pieno
di bellezza più che alcuno altro, e me sanza alcuna di queste cose, non sono io
però invilita ch'io non abbia ardire di perfettamente amarti, come che mi si
convenga o no. Ora dunque, se tutte queste cose sono da me conosciute, come è
credibile che io per Fileno te potessi dimenticare? E non ti ritenesti di dire
che io, femina di fragilissima natura, niuna avversità per amor di te sostenere
non avea potuto, volendo quasi dire che per alleggiare i sospiri, che per te, a
me lontano, sento insieme con molte pene, cercai di volere prossimano amadore,
il quale più spesso veggendo, mi rallegrassi. Oimè, che falsa oppinione porti,
se questo credi! Ma certo più per tentarmi, che per altro il fai, però che io
so che tu conosci che io mai dal mio nascimento, risomigliando da' miei
parenti, sanza avversità non fui, per la qual cosa a forza m'è convenuto
divenire maestra di sostenere quelle: e se io l'ho sostenute grandissime tu il
sai, che gran parte con meco insieme n'hai sentite. Pensa certamente che alcuni
sospiri mai non furono cocenti come sono quelli i quali io per troppo disio di
te mando fuori della mia bocca, né lagrime mai con tanta copia bagnarono petto,
quanto hanno le mie il mio bagnato, solo per lo tuo essere lontano. Ma
veramente non molto tempo passerà che tu potrai dire che io sia fragile a
sostenere l'avversità nelle quali io sono circuita, però ch'io sento la mia
vita fuggire da me con istudioso passo, e l'anima, che il dolore del dolente
cuore non puote sostenere, l'ha già più volte voluto abandonare, e solo alcuno
conforto, che io allora ho preso sperando di rivederti, l'ha ritenuta. Ma se
così fatti dolori aggiugni a quelli che io ho infino a qui sentiti, come fatto
hai al presente per la tua pistola, io non aspetterò che l'anima cerchi
congedo, anzi gliele darò costringendola del partire, se ella forse volesse
dimorare. Io sono entrata in nuova dubitazione, la quale m'è a pensare molto
grave, e appena mi si lascia credere. Ma Amore, che ammollisce i duri cuori,
mel fa tal volta credere e alcuna altra discredere, che tu, o signor mio,
scritto non m'abbia che io abbia te per Fileno dimenticato, acciò che io
ragionevolemente di te piangere non mi possa, se per alcuna altra me hai costà
dimenticata; ma tutta fiata non sono di tanta falsa oppinione che io il possa
credere, anzi dico, qualora quel pensiero m'assale, niuna ragione farà mai che
Biancifiore sia se non di Florio, o Florio se non di Biancifiore. Ma sanza fine
mi s'attrista il cuore, qualora in quella parte della tua pistola leggo, ove
scrivi me dovere avere donato a Fileno in segno di perfetto amore il velo della
mia testa, il quale di' che quando il ti mostrò, volentieri avresti
levatogliene, squarciando lui tutto. La qual cosa volessero gl'iddii che tu
fatto avessi, però che a me sarebbe stata non picciola consolazione nell'animo,
e la cagione è questa: io non niego che quel velo, vilissima cosa, non fosse a
lui donato dalle mie mani, ma certo il cuore nol consentì mai, ma così
costretta dalla tua madre mi convenne fare. Per lo quale egli, forse pigliando
intera speranza di pervenire al suo intendimento per tale segnale, più volte
con gli occhi e con parole mi tentò di trarmi ad amarlo, la qual cosa credo
impossibile sarebbe agl'iddii; né mai da me più avanti poté avere. Né è però da
credere che in un velo o in altro gioiello si richiuda perfetto amore:
solamente il cuore serva quello, e io, che più che altra giovane il sento per
te, posso con vere parole parlarne. E che io niuna persona amai, se non
solamente te, ne chiamo testimonii gl'iddii, a' quali niuna cosa si nasconde: e
però io ti priego che il velo, non volonterosamente donato, non ti porga nel
cuore quella credenza che da prendere non è. Niuna persona è nel mondo amata da
me se non Florio. Lascia ogni malinconia presa per questo, se la mia vita t'è
cara, e spera che ancora fermamente conoscerai ciò che io ora ti prometto, e la
tua vita con la mia insieme caramente riguarda: a luogo e a tempo gl'iddii
rimuteranno consiglio, forse concedendoci migliore vita che noi da noi non
eleggeremmo. Rifiuta i non dovuti ozii e seguita i leali diletti; e se tu mi
porterai tanto nell'animo quanto io fo te, tu conoscerai me non essere meno
affannata da' pensieri che tu sii. E caramente ti priego che con sì fatte
lettere tu non solleciti più l'anima mia, disposta a cercare nuovo secolo: che
posto che tu con forte animo il mio coltello tenghi nella mano, a me corto
laccio non farebbe sostenere di leggiere la seconda, solo che in quella così
come in questa mi parlassi. Biancifiore non fu mai se non tua, e tua sarà
sempre. Adoperino i fati secondo che ella ama, e sanza fallo contento viverai».
[23]
Biancifiore
piegò la scritta pistola, piena di non poco dolore, e posta in sul legame la
distesa cera, avendo la bocca per troppi sospiri asciutta, con le amare lagrime
bagnò la cara gemma, e, suggellata quella, con turbato aspetto uscì della
camera, a sé chiamando il servo, che già per troppa lunga dimoranza che fare
gli parea s'incominciava a turbare. Al quale ella disse:
«Porterai
questa al tuo signore, a cui gl'iddii concedano miglior conforto che egli non
s'ingegna di donare a me».
E
detto questo, piangendo baciò la lettera, e posela in mano al fedele servo, il
quale sanza niuno indugio volto li passi verso Montoro, e là in picciolo spazio
pervenuto, trovò Florio nella sua camera, ove lasciato l'avea, con grandissima
copia di lagrime e di sospiri, a cui egli porse la portata pistola, dicendogli
ciò che da Biancifiore compreso avea e le sue parole. E partito da lui, Florio
aperse la ricevuta lettera, e quella infinite volte rilesse pensando alle
parole di Biancifiore, sopra le quali faccendo diverse imaginazioni, sopra il
suo letto con essa lungamente dimorò.
[24]
Diana,
alla quale niuno sacrificio era stato porto come agli altri iddii fu, quando
Biancifiore dal grandissimo pericolo fu campata, avea infino a questa ora la
concreata ira tenuta nel santo petto celata, la quale non potendosi più avanti
tenere, discesa degli alti regni, cercò le case della fredda Gelosia, le quali
nascose in una delle altissime rocce d'Appennino, entro a una oscurissima
grotta, trovò intorniate tutte di neve; né v'era presso albero o pianta viva
fuori che o pruni o ortiche o simili erbe; né vi si sentia voce alcuna di gaio
uccello: il cuculo e 'l gufo aveano nidi sopra la dolente casa. Alla quale
venuta la santa dea, quella trovò serrata con fortissima porta, né alcuna
finestra vi vide aperta. Fu dalla immortale mano con soave toccamento toccata
l'antica porta, la quale non prima fu tocca, che dentro cominciarono a latrare
due grandissimi cani, secondo che le voci li facea manifesti; dopo il quale
latrare una vecchia con superbissima voce, ponendo l'occhio a uno picciolo
spiraglio, mirò di fuori, dicendo:
«Chi
tocca le nostre porti?».
A
cui la santa dea disse:
«Apri
a me sicuramente: io sono colei sanza il cui aiuto ogni tua fatica si
perderebbe».
Conobbe
l'antica vecchia la voce della divina donna, e a quella con tento passo
andando, con non poca fatica per gli inruginiti serramenti aperse la porta, la
quale nel suo aprire fece un sì grandissimo strido, che di leggiero poria
essere stato sentito infino all'ultime pendici del monte. E fatta la dea passar
dentro, con non minore romore riserrò quelle, difendendo appena i bianchi
vestimenti della dea dalle agute sanne de' bramosi cani, a' quali per magrezza
ogni osso si saria potuto contare: caccia quelli con roca voce e con un gran
bastone col quale sostenea i vecchi membri. Era quella casa vecchissima e
affumicata, né era in quella alcuna parte ove Aragne non avesse copiosamente le
sue tele composte; e in essa s'udiva una ruina tempestosa, come se i vicini
monti, urtandosi insieme, giugnessero le loro sommità, le quali per l'urtare
pestilenzioso diroccati cadessero giuso al piano. Niuna cosa atta ad alcuno
diletto vi si vedea: le mura erano grommose di fastidiosa muffa, e quasi parea
che sudando lagrimassero; né in quella casa mai altro che verno non si sentiva,
sanza alcuna fiamma da riconfortare il forte tempo: ben v'era in uno de' canti
un poco di cenere, nella quale riluceano due stizzi già spenti, de' quali la
maggior parte una gattuccia magra covando quella occupava. E la vecchia
abitatrice di cotal luogo era magrissima e vizza, nel viso scolorita; i suoi
occhi erano biechi e rossi, continuamente lagrimando; di molti drappi vestita,
e tutti neri, ne' quali raviluppata, in terra sedea, vicina al tristo fuoco,
tutta tremando, e al suo lato avea una spada, la quale rade volte, se non per
ispaventare, la traeva fuori. Il suo petto batteva sì forte, che sopra i molti
panni apertamente si discernea, nel quale quasi mai non si crede che entrasse
sonno; e il luogo acconcio per lo suo riposo era il limitare della porta, in
mezzo de' due cani. La quale la dea veggendo, molto si maravigliò, e così
disse:
«O
antica madre, sollecitissima fugatrice degli scelerati assalti di Cupido, e
guardìa de' miei fuochi, a te conviene mettere nel petto d'un giovane a me
carissimo le tue sollecitudini, il quale per troppa liberalità si lascia a
feminile ingegno ingannare, amando oltra dovere una mia nimica: e però niuno
indugio ci sia, muoviti! Egli è assai vicino di qui, e è figliuolo
dell'altissimo re di Spagna, chiamato Florio, e sanza fine ama Biancifiore, né
mai sentì quel che tu suoli agli amanti far sentire. Va e privalo della pura
fede, la quale egli tiene indegnamente, e, aprendogli gli occhi, gli fa
conoscere com'egli è ingannato, amaestrandolo come gl'inganni si debbono
fuggire».
La
vecchia che in terra sedea, con la mano alla vizza gota, alzò il capo mirando
con torto occhio la dea, e con picciola voce tremando rispose:
«Partiti,
dea, da' tristi luoghi, che niuno indugio darò al tuo comandamento».
Partita
la dea, la vecchia si vestì di nuova forma, abandonando i molti vestimenti,
aggiunse alle sue spalle ali, e lasciando le serrate case, sanza alcuno dimoro
pervenne ove ella trovò Florio stante ancora sopra il suo letto leggendo la
ricevuta lettera da Biancifiore. A cui ella occultamente con la tremante mano
toccò il sollecito petto, e ritornossi alle triste case, onde s'era per
comandamento di Diana partita.
[25]
Avea
Florio più fiate riletta la ricevuta pistola, e già quasi nell'animo le parole di
Biancifiore accettava, credendo fermamente da lei niuna cosa essere amata se
non egli, sì come essa gli scriveva. Ma non prima gli fu dalla misera vecchia
tocco il petto, che egli incominciò a cambiare i pensieri e a dire fra sé:
"Fermamente ella m'inganna, e quello ch'ella mi scrive non per amore, ma
per paura lo scrive. Briseida lusingava il grande imperadore de' Greci, e
disiderava Achille. Chi è colui che dalle false lagrime e dalle infinte parole
delle femine si sa guardare? Se Agamenone l' avesse conosciute, la sua vita
sarebbe stata più lunga, né Egisto avrebbe avuto il non dovuto piacere. Sanza
dubbio Fileno piace più a Biancifiore che io non faccio: e chi sarà quella che
si levi un velo di testa, e donilo ad un suo amante, che possa far poi credere
quelli non essere amato da lei? Certo niuna il potrebbe far credere, se non
fosse già semplicissimo l'ascoltatore. E in verità e' non è da maravigliare se
ella ama Fileno: egli continuamente le è davanti, e ingegnasi di piacerle, e io
le sono lontano, né la pote', già è lungo tempo, vedere. Il fuoco s'avviva e
vive per li soavi venti, e amore si nutrica con li dolci riguardamenti: e sì
come le fiamme perdono forza non essendo da' venti aiutate, così amore diviene
tiepidissimo come gli sguardi cessano. Ma costei, se ella non mi ama, perché
con lusinghe accendermi il cuore?". Poi ad altro ragionamento si volgea, e
dicea: "Fermamente Biancifiore m'ama sopra tutte le cose, e questo, se io
voglio il vero riguardare, non mi si può celare; ma se ella non mi amasse,
Fileno me ne saria cagione, del quale io prenderò sanza dubbio vendetta".
[26]
In
cotali pensieri stando, Florio fra sé ripeteva tutti i preteriti atti e fatti
stati tra lui e Biancifiore, poi che Fileno tornò de' lontani paesi nella sua
corte, e quelli una volta pensava essere stati da Biancifiore fatti
maliziosamente, e altra volta fra sé gli difendeva. Egli stette più giorni
sanza alcuno riposo, pieno di sollecite cure. Egli alcuna volta imaginava:
"Ora è Fileno davanti alla mia Biancifiore e lusingala: ma perché la
lusingherebbe egli, ch'ella l'ama oltra misura?". Poi fra sé altrimenti
imaginava. Egli andava vedendo con l'animo tutte quelle vie le quali possibili
sono ad uomo di fare per pervenire a un suo intendimento, e niuna credea che non
ne fosse stata fatta da Fileno, se bisogno gli fu. Egli pensava che niuna
persona mai parlasse a Biancifiore che da parte di Fileno non le parlasse, e
da' suoi servidori medesimi dubita d'essere stato ingannato: e così dimora in
istimolosa sollecitudine, e non sa che si fare; e pensa che Fileno ordini di
portarla via e che ella il consenta. Egli pensa che Fileno la domandi al re, e
siagli donata per isposa. Egli pensa che i messaggi da Fileno a Biancifiore e
da Biancifiore a Fileno siano spessissimi. Ma poi che egli ha diverse cose in
sé rivolte, così cominciò a dire: "Non è del tutto da credere ciò che io
imagino, ché forte mi pare che, se stato fosse, io non avessi alcuna cosa
sentita: e però la scusa delle passate cose fatta da Biancifiore è da ricevere.
Ma chi sa di quelle che deono avvenire? Da un'ora a un'altra si volgono gli
animi, da diversi intendimenti essendo tentati! Niuno rimedio è qui se non
levare ogni cagione per la quale Biancifiore dal mio amore si potesse mutare,
acciò che niuno effetto segua. Io tornerò, a dispetto del mio padre, in
Marmorina, e solliciterò con i miei propii occhi il cuore di Biancifiore, e
quindi la fuggirò in parte ov'io sanza paura d'alcuno potrò dimorare con lei.
Se il mio padre della mia tornata si mostrasse dolente, e a Fileno farò levare
la vita, o egli abandonerà i nostri paesi. Niuna cosa ci lascerò a fare, acciò
che colei sia sola mia, di cui io solo sono e sarò sempre". E con questi
pensieri, lasciati gli amorosi, il più del tempo dimorava, cercando, con amara sollecitudine,
parte di quelli fuggire e parte metterne in effetto sanza alcuno indugio.
[27]
O
amore, dolcissima passione a chi felicemente i tuoi beni possiede, cosa paurosa
e piena di sollecitudine, chi potrebbe o credere o pensare che la tua dolce
radice producesse sì amaro frutto come è gelosia? Certo niuno, se egli nol
provasse. Ma essa ferocissima, così come l'ellera gli olmi cinge, così ogni tua
potenza ha circundata, e intorno a quella è sì radicata che impossibile sarebbe
oramai a sentire te sanza lei. O nobilissimo signore, questa è a' tuoi atti
tutta contraria. Tu le tue fiamme mostri nell'altissimo e chiaro monte Citerea,
costei sopra i freddi colli d'Appennino impigrisce nelle oscure grotte. Tu levi
gli animi alle altissime cose, e costei gli declina e affonda alle più vili. Tu
i cuori che prendi tieni in continua festa e gioia, costei di quelli ogni
allegrezza caccia e con subito furore vi mette malinconia. Essa fa cercare i
solinghi luoghi, e con aguto intelletto mai non sa che si sia altro che pensare.
Ad essa pare che le spedite vie dell'aere sieno piene d'agguati per prendere
ciò che essa disidera di ben guardare. Niuno atto è che ella non dubiti che con
falso intendimento sia fatto; niuna fede è in lei, niuna credenza: sempre crede
essere tentata. E sì come tu di pace se' veracissimo ordinatore, così questa
con armata mano sempre apparecchia inimicizie e guerre. Ella, magrissima,
scolorita nel viso, d'oscuri vestimenti vestita, igualmente ogni persona con
bieco occhio riguarda: e tu, piacevolissimo nell'aspetto, con lieto viso visiti
i tuoi suggetti. Ella non sente mai né primavera, né state, né autunno: tutto
l'anno igualmente dimora per lei il sole in Capricorno, e quanto più di
scaldarsi cerca più ne' sembianti trema. Ora, quanto è contraria la vostra
natura! Ella si diletta d'essere sanza alcuna luce, e tu ne' luminosi luoghi
adoperi i santi dardi. Ella con teco quasi d'un principio nata, di tutti i tuoi
beni è guastatrice. E le più fiate avviene che di quella infermità onde ella ha
maggior paura, di quella è più spesso assalita e oppressa infino alla morte.
Oltre a' miseri miserissimo si può dire colui che seco l'accoglie in compagnia.
[28]
Florio
s'apparecchia con diliberato animo di nuocere a Fileno: la qual cosa la santa
dea conosce degli alti regni. E mossa a compassione di Fileno, così nel segreto
petto cominciò a dire: "Che colpa ha Fileno commessa per la quale egli
meriti morte o oltraggio da Florio? Niuna: non merita morte alcuno, perché egli
ami quello che piace agli occhi suoi. Cessi questo, che per cagione di noi il
giovane cavaliere sia offeso". E detto questo, la seconda volta discese
del cielo e cercò le case del Sonno riposatore, nascose sotto gli oscuri
nuvoli, le quali in lontanissime parti stanno rimote, in una spelonca d'un
cavato monte, nella quale Febo con i suoi raggi in niuna maniera può passare.
Quel luogo non conosce quand'egli sopra l'orizonte venendo ne reca chiaro
giorno, né quand'egli, avendo mezzo il suo corso fatto, ci riguarda con più
diritto occhio, né similemente quand'egli cerca l'occaso: quivi solamente la
notte puote, e il terreno da sé vi produce nebbie piene d'oscurità o di
dubbiosa luce. E davanti alle porti della casa fioriscono gli umidi papaveri
copiosamente, e erbe sanza numero, i sughi delle quali aiutano la potenza del
signore di quel luogo. Dintorno alle oscure case corre un picciolo fiumicello
chiamato Letè, il quale esce d'una dura pietra, che col suo corso faccendo
commuovere le picciole pietre, fa un dolce mormorio, il quale invita i sonni.
In quel luogo non s'odono i dolci canti della dolente Filomena, i quali forse
potessero mettere ne' petti acconci al riposo alcuna sollecitudine con la sua
dolcezza. Quivi non fiere, non pecore, né altri animali. Quivi Eolo nulla
potenza ha: ogni fronda si riposa. Mutola quiete possiede il luogo, al quale
niuna porta si truova, non forse serrando e disserrando potesse fare alcuno
romore. Alcuno guardiano non v'è posto, né cane alcuno v'è, il quale latrando
potesse turbare i quieti riposi. Quivi non è alcun gallo il quale cantando
annunzi l'aurora; né alcuna oca vi si truova che i cheti andamenti possa con
alta voce far manifesti. E nel mezzo della gran casa dimora un bellissimo letto
di piuma, tutto coperto di neri drappi, sopra 'l quale si riposa il grazioso re
co' dissoluti membri oppressi dalla soavità del sonno. Appresso del quale un
poco, giacciono i vani sogni di tante maniere e sì diversi, quante sono l'arene
del mare o le stelle di che il nido di Leda s'adorna. Nella qual casa la dea
entrò, continuo le mani menandosi davanti al viso e cacciando i sonni da' santi
occhi: e il candido vestimento della vergine diede luce nella santa casa. Nella
venuta della quale, appena il re levò i pesanti occhi, e più volte la grave
testa inchinando col mento si percosse il petto, e, rivolto più volte sopra il
ricco letto, con ramarichevoli mormorii alquanto si pur destò. E appena
levatosi sopra il gomito, domandò quello che la dea cercava. A cui ella così
disse:
«O
Sonno, piacevolissimo riposo di tutte le cose, pace dell'animo, fuggitore di
sollecitudine, mitigatore delle fatiche e sovenitore degli affanni, igualissimo
donatore de' tuoi beni, se a te è caro che Cinzia si possa con gli altri dei, a
te e a me igualmente consorti, di te laudare, comanda che Fileno, innocente giovane,
ne' suoi sonni conosca l'apparecchiate insidie contro di lui, acciò che,
conosciutole, da quelle guardare si possa».
E
questo detto, per quella via onde era venuta, appena da sé potendo il sonno
cacciare, se ne tornò.
[29]
Svegliò
l'antico iddio gl'infiniti figliuoli, de' quali alcuni in uomini, altri in
fiere, e quali in serpenti, e chi in terra, e tali in acqua, e alcuni in trave
e in sassi, e in tutte quelle forme le quali negli umani animi possono
vaneggiare, v'avea di quelli che si trasformavano: tra' quali poi che egli ebbe
eletti quelli che a tali bisogni gli pareano sofficienti, appena destati, gli
ammaestrò che essi dovessero i comandamenti della santa dea adempiere sanza
alcuno indugio. A' quali essi disposti, sanza più stare, del luogo si partirono
per adempierlo.
[30]
Mentre
che i fati le cose sinistre così per Fileno trattavano, Fileno di tutte
ignorante si stava pensando alla bellezza di Biancifiore, con sommo disio
disiderando quella, quando subito sonno l'assalì, e, gli occhi gravati, sopra
il suo letto riposandosi s'adormentò. Al quale sanza alcuno dimoro furono
presenti i ministri del pregato iddio adoperando ciascuno i suoi ufici: e
parvegli nel sonno subitamente essere in un bellissimo prato tutto soletto, e rimirare
il cielo, lodando le sue bellezze, e adequando quelle di Biancifiore alla
chiarità delle stelle che in quello vedea. E così stando, subitamente uno di
quelli uficiali in forma d'un caro suo amico gli parve che gli apparisse
piangendo e correndo verso lui, e dicessegli:
«O
Fileno, che fai tu qui? Fuggiti, ch'io ti so dire che l'amore che tu hai
portato a Biancifiore t'ha acquistata morte. Tu non potrai essere fuori di
questo prato, che Florio armato con molti compagni ci saranno suso, cercando di
levarti la vita. Fuggi di qui, o caro amico, sanza niuno indugio. Non volere
che io di tal compagno, quale io ti tengo, rimanga orbato».
E
ancora non parea che questi avesse compiuto di parlare, che già dall'una delle
parti del prato si sentiva il romore delle sonanti armi degli armati, i quali a
Fileno pareva, come detto gli era stato, che venissero. Allora pareva a Fileno
levarsi tutto smarrito, e non sapere qual via per la sua salute si dovesse
tenere; anzi gli pareva che le gambe gli fossero fallite, né di quel luogo
potesse partire. Dove stando, in picciolo spazio gli pareva vedersi dintorno
Florio con molti altri armati, e con grandissimo romore gridare:
«Muoia
il traditore!», dirizzando verso lui gli aguti ferri sanza alcuna pietà
ingegnandosi di ferirlo. A' quali elli dicea:
«O
giovani, se niuna pietà è in voi rimasa, piacciavi che Fileno possa fuggendo la
vita campare. Voi sapete che per amore io non meritai morte».
Non
erano le sue parole udite, ma più aspramente e con maggiore romore gli parea
ognora essere assalito, e parevagli essere in tante parti del corpo forato che
potere campare non gli parea. Ma quelli ancora di ciò non contenti, uscendo uno
di loro gli parea che la testa gli volesse levare dal busto e presentarla a
Florio. Allora sì gran dolore e paura gli strinse il cuore, che per forza
convenne che il sonno si rompesse, e quasi tutto spaventato si rizzò in piè,
rimirando dov'egli era, e con le mani cercando de' colpi che gli parea avere
ricevuti; e rimirando il suo letto, il quale imaginava dovere essere tutto
tinto del suo sangue, e quello vide bagnato di vere lagrime. Ma poi ch'egli si
vide essere stato ingannato dal sonno, partita la paura, pieno di maraviglia
rimase, non sappiendo che ciò si volesse dire, e dubitando forte si mise a cercare
del caro amico che nel sonno avea veduto. Il quale trovato, a lui brievemente
ciò che dormendo avea veduto, gli narrò; di che l'amico maravigliandosi così
gli disse:
[31]
«Caro
amico e compagno, ora non dubito io che gl'iddii con molta sollecitudine
intendano a' beni della umana gente. Certo tu mi fai sanza fine maravigliare di
ciò che tu mi racconti, però che poco avanti io tornai da Montoro, e ivi da
cara persona e degna di fede udii essere da Florio la tua morte disiderata e
ordinata in qualunque maniera più brievemente potesse. E domandando io della
cagione, mi rispose che ciò avviene per lo velo il quale da Biancifiore
ricevesti, la quale Biancifiore egli più che alcuna cosa del mondo ama; e per
questo è di te in tanta gelosia entrato, che se egli vedesse che Biancifiore
con le propie mani ti traesse il cuore, forte gli sarebbe a credere che ella ti
potesse se non amare. E adunque, acciò che questo amore cessi, egli cerca
d'ucciderti: però per lo mio consiglio tu al presente lascerai il paese, e pellegrinando
per le strane parti, te della tua salute farai guardiano. Tu puoi
manifestamente conoscere te non essere possente a resistere al suo furore:
dunque anzi tempo non volere perire, ma la tua giovane età ti conforti di poter
pervenire a miglior fine che il principio non ti mostra. La fortuna ha subiti
mutamenti, e avviene alcuna volta che quando l'uomo crede bene essere nella
profondità delle miserie, allora subito si ritrova nelle maggiori prosperità».
A
cui Fileno piangendo così rispose:
«Oimè,
or che farà Florio ad uno che l'abbia in odio, se a me che l'amo ha pensata la
morte?». A cui quelli rispose:
«Amerallo!
Le leggi d'amore sono variate da quelle della natura in molte cose: in tale
atto niuno volentieri vuole compagno. Né per te fa di cercare gli altrui
pensieri, ma pensare del tuo bene. Posto che Florio similmente volesse uccidere
uno che odiasse Biancifiore, se' tu però fuori del pericolo? Certo no: dunque
pensa alla tua salute».
«Oimè!
- disse Fileno - dunque lascerò io Marmorina e la vista di Biancifiore?». «Sì -
gli rispose quelli, - per lo tuo migliore».
Disse
Fileno:
«Certo
io non conosco che vantaggio qui eleggere si possa se solo una volta si muore.
Buono è il vivere, ma meglio è tosto morire che vivendo languire, e cercare la morte,
e non poterla avere».
«Non
è - disse l'amico - a chi vive sperando nella potenza degl'iddii, come avanti
ti dissi, però che le future cose ci sono occulte. E in qualunque modo si vive
è migliore che il morire. Ogni cosa perduta, volendo l'uomo valorosamente
operare, si può ricuperare, ma la vita no: però ciascuno dee essere di quella
buono guardiano».
«Certo
- disse Fileno - a chi può prendere speranza, e sperando aspettare, non dubito
che di guardare la sua vita egli non faccia il migliore, che volere per un
subito dolore morire. Ma come posso io così fare, che non tanto partendomi, ma
solamente pensando ch'io mi deggia partire dalla vista del bel viso di
Biancifiore, mi sento ogni spirito combattere nel cuore e domandare la morte, e
l'anima, che sente questa doglia e questa tempesta, si vuol partire?».
A
cui colui rispose:
«Non
sono cotesti i pensieri necessarii a te, però che a coloro che in simile caso
sono che se' tu, conviene che facciano della necessità diletto. Tu vedi che tu
se' costretto di partire: non imaginare di prendere etterno essilio, ma imagina
che per comandamento di Biancifiore, per cui non ti sarebbe grave il morire, se
avvenisse ch'ella tel comandasse, tu sii mandato in parte onde tu tosto
tornerai. Questa imaginazione t'aiuterà e faratti più possente a sostenere gli
affanni della partita, infino a tanto che tu poi, ausato, li sappia sostenere
sanza tanta noia».
A
cui Fileno disse:
«Questo
che tu mi di' m'è impossibile, però che il sollecito amore non mi lascia durare
tale pensiero nel cuore, ma qualora più mi vi dispongo, allora più con i suoi
m'assalisce: e chi è colui che possa la sua coscienza ingannare?».
Disse
quelli:
«I
pensieri d'amore non ti assaliranno, quando alcuna volta resistendo cacciati
gli avrai da te, e la coscienza, posto che interamente ingannare non si possa,
almeno l'uomo la può fare agevole sostenitrice di quello ch'e' vuole, con un
lungo e continuo perseverare sopra un pensiero».
«Certo
questo vorrei io bene», disse Fileno.
«Dunque
potrai tu», gli fu risposto. Allora disse Fileno:
«Ecco
ch'io mi dispongo al pellegrinare per lo tuo consiglio».
«Sì
- disse quelli, - e io in tua compagnia, se a te piace».
A
cui Fileno disse:
«No,
io amo meglio dolermi solo, che menare te sanza consolazione».
A
cui quelli rispose:
«Caro
amico, ove che tu vadi, le tue lagrime mi bagneranno sempre il cuore, il quale
mai sanza compassione di te non sarà: però lasciami avanti venire, acciò che
tu, avendo la mia compagnia, abbi cagione di meno dolerti».
Disse
Fileno:
«Amico,
a me piace che tu rimanghi, acciò che almeno, veggendoti, Biancifiore si
ricordi di me e dello essilio ch'io ho per lei. E se accidente avvenisse per lo
quale mi fosse licito il tornare, voglio che tu sollecito rimanghi a mandare
per me, dove che i fortunosi casi m'abbiano mandato».
A
cui quelli disse:
«Così,
come a te piace, sarà fatto».
Fileno
allora si partì da lui, e, ritornato alla sua casa, così cominciò piangendo a
dolersi fra se medesimo:
[32]
"O
misero Fileno, piangi, però che la fortuna t'è più avversa che ad alcuno.
Sogliono gli altri, per odiare o per male operare, lasciare li loro paesi, o
tal volta morire; ma a te per amore conviene che tu vada in essilio. Or che
vita sarà la tua? Sarà dolente; ma certo io non la voglio lieta. Io conosco
Biancifiore turbata, e scoprirmi il falso amore, mostrando nel viso d'avermi
per adietro ingannato. Io mi fuggirò del suo cospetto, e fuggendomi piacerò a
Florio e a lei, l'amore de' quali m'era occulto quando m'innamorai. Il velo da
lei ricevuto sarà sola mia consolazione e della mia miseria". E, questo in
se medesimo diliberato, volontario essilio, seguendo il consiglio del suo
amico, prese occultamente.
[33]
Quando
Apollo ebbe i suoi raggi nascosi, e l'ottava spera fu d'infiniti lumi ripiena,
Fileno con sollecito passo piglia la sconsolata fuga. Egli nella dubbiosa
mente, uscito di Marmorina, non sa essaminare qual cammino sia più sicuro alla
sua salute; ma del tutto abandonato a' fati, piangendo pone le redine sopra il
portante cavallo, e piangendo abandona le mura di Marmorina, con gli occhi
rimirando quelle infino che licito gli è. Ma poi che l'andante cavallo lui
carico di pensieri ebbe tanto avanti trasportato, che più non gli fu licito di
vedere la sua città, egli con più lagrime incominciò ad intendere al suo
cammino. E primieramente veduto l'uno e l'altro lito di Bacchiglione, pervenne
alle mura costrutte per adietro dall'antico Antenore, e in quelle vide il luogo
ove il vecchio corpo con giusto epitafio si riposava. Ma di quindi passando
avanti, in poche ore pervenne alle sedie del già detto Antenore, poste nelle
salate onde, nell'ultimo seno del mare Adriano: e in quel luogo non sicuro,
salito in picciolo legno ricercò la terra. E pervenuto all'antichissima città
di Ravenna, su per lo Po con le dorate arene se ne venne alla città posta per
adietro da Manto ne' solinghi paduli. Ma quivi sentendosi più vicino a quello
che egli più fuggiva, dimorò poco, e salito su per li colli del monte
Appennino, e di quelli declinando, scese al piano, pigliando il cammino verso
le montagne, fra le quali il Mugnone rubesto discende. E quivi pervenuto, vide
l'antico monte onde Dardano e Siculo primieramente da Italo, loro fratello, si
dipartirono pellegrinando; e poco avanti da sé vide le ceneri rimase d'Attila
flagello dopo lo scelerato scempio fatto de' pochi nobili cittadini della città
edificata sopra le reliquie del valoroso consolo Fiorino, quivi dagli agguati
di Catellino miserabilmente ucciso. Alle quali avuta compassione, si partì, e
sanza tenere diritto cammino errando pervenne a Chiusi, ove già Porsenna,
secondo che gli fu detto, avea il suo regno con forze costretto ad ubidirsi. Né
troppo lungamente andò avanti ch'egli vide il cavato monte d'Aventino, nel
quale Cacco nascose le 'mbolate vacche ad Ercule, strascinate nelle cave di
quello per la coda. Ma dopo lungo affanno pervenne nella eccellentissima città
di Roma, ove egli d'ammirazione più volte ripieno fu, veggendo le magnifiche
cose, inestimabili ad ogni alto intelletto sanza vederle: e in quella vide il
Tevero, a cui gl'iddii concederono innumerabili grazie. Egli vide l'antiche
mura d'Alba, e ciò che era notabile nel paese. Ma quivi non fermandosi,
volgendo i suoi passi al mezzo giorno, si lasciò dietro le grandissime Alpi e i
monti i quali aspettavano l'oscurissima distruzione del nobile sangue
d'Aquilone, e pervenne a Gaieta, etterna memoria della cara balia di Enea. E di
quella pervenne per le salate onde a Pozzuolo, avendo prima vedute l'antiche
Baie e le sue tiepide onde, quivi per sovenimento degli umani corpi poste
dagl'iddii. E in quel luogo vedute l'abitazioni della cumana Sibilla, se ne
venne in Partenope; né quivi ancora fermato, cercò i campi de' Sanniti, e vide
la loro città. Donde partitosi, volgendo i passi suoi, vide l'antica terra Capo
di Campagna posta da Capis, e, quindi partendosi, pervenne fra li salvatichi e
freddi monti d'Abruzzi, fra' quali trovò Sulmona, riposta patria del
nobilissimo poeta Ovidio. Nella quale entrando, così cominciò a dire:
«O
città graziosa a ciascuna nazione per lo tuo cittadino, come poté in te nascere
o nutricarsi uomo, in cui tanta amorosa fiamma vivesse quanta visse in Ovidio,
con ciò sia cosa che tu freddissima e circundata da fredde montagne sii?»; e
questo detto, reverente per lo mezzo di quella trapassò. E continuando i
lamentevoli passi, si trovò a Perugia, dalla quale partitosi, de' cammini
ignorante, pervenne alle vene ad Onci, onde le chiarissime onde dell'Elsa vide
uscire e cominciare nuovo fiume. Dopo le quali discendendo, venne infino a quel
luogo ove l'Agliene, nata nelle grotte di Semifonti, in quella mescola le sue
acque e perde nome. Quindi mirandosi dintorno, vide un bellissimo piano, per lo
quale volto a man destra, faccendo dell'onde dell'Agliene sua guida, non molto
lontano al fiume andò, ch'egli vide un picciolo monticello levato sopra il
piano, nel quale uno altissimo e vecchio cerreto era. E in quello mai alcuna
scure non era stata adoperata, né da' circustanti per alcun tempo cercato,
fuori che da' loro antichi nell'antico errore delli non conosciuti iddii, i
quali in sì fatti luoghi soleano adorare. In quello entrò Fileno, e non
trovandovi via né sentiero, ma tutto da vecchie radici o da grandissimi roghi
occupato, con grandissimo affanno infino alla sommità del picciolo monticello
salì. Quivi trovò un tempio antichissimo, nel quale selvatiche piante erano
cresciute, e le mura tutte rivestite di verde ellera. Né già per antichità
erano guaste le imagini de' bugiardi iddii, rimase in quello quando il
figliuolo di Giove recò di cielo in terra le novelle armi, con le quali il
vivere etterno s'acquista. E era davanti a quello un picciolo prato di
giovanetta erba coperto, assai piacevole a rispetto dell'altro luogo. Quivi
fermato Fileno stette per lungo spazio; e rimiratosi dintorno e pensato
lungamente, s'imaginò di volere quivi finire la sua fuga, e in quello luogo
sanza tema d'essere udito piangere i suoi infortunii; e se altro accidente non
gli avvenisse, quivi propose di volere l'ultimo dì segnare. E dopo lunga
essaminazione, vedendo il luogo molto solitario, si pose a sedere davanti al
tempio, e quivi nutricandosi di radici d'erbe, e bevendo de' liquori di quelle,
stette tanto che agl'iddii prese pietà della sua miseria, sempre piangendo, e
ne' suoi pianti con lamentosa voce le più volte così dicendo:
[34]
«O
impiissima acerbità dell'umane menti, che commisi io ch'io etterno essilio
meritassi della piacevole Marmorina? Niuno fallo commisi: amai e amo. Se questo
merita essilio o morte, torca il cielo il suo corso in contrario moto, acciò
che gli odii meritino guiderdone. Se io forse amando ad alcuno dispiacea, non
con morte mi dovea seguitare, ma con riprensione ammaestrare. Ora che riceverà
da Florio chi odierà Biancifiore? Non so ch'elli gli si possa fare, se a quello
che a me ha fatto vorrà con iguale animo pensare. Ahi, Fisistrato, degno
d'etterna memoria per la tua benignità, il quale, udendo con pianti narrare la
tua figliuola essere baciata, e di ciò dimandarti vendetta, non dubitasti
rispondere: "Che farem noi a' nostri nimici, se colui che ci ama è per noi
tormentato?": tu il picciolo fallo con grandissima temperanza mitigasti,
conoscendo il movimento del fallitore. Dimorar possi tu con pietosa fama sempre
ne' cuori umani! Ma certo egli non è men giusta cosa che io pianga i miei
amori, che fosse il pianto del crudele artefice, che a Falaris presentò il bue
di rame, al quale prima convenne mostrare del suo artificio esperienza. Io
medesimo accesi il fuoco in che io ardo. Io, misero, fui il tenditore de' lacci
ne' quali io son caduto. Chi mi costringea di narrare a Florio i miei
accidenti, e di mostrargli il caro velo? Niuna persona. Ignoranza mi fece
fallire: e però niuno savio piagne, perché il senno leva le cagioni. Ma posto
che io pur per ignoranza fallissi, eragli così gravoso a vietarmi che io più
avanti non amassi? Certo io non mi sarei però potuto poi tenere di non amare,
ma nondimeno per la disubidienza a lui, cui io singulare signore tenea, avrei
meritato essilio o greve tormento; ma egli mai non mi comandò che io non
amassi, anzi là ov'io non mi guardava cercava la mia morte. O ragionevole
giustizia partita delli umani animi, perché del ciclo non provedi tu alle
iniquità? Deh, misero a me!, non ho io per la sfrenata crudeltà di Florio
perduta la debita pietà del vecchio padre e della benigna madre? Certo sì ho.
Io gli ho lasciati per lo mio essilio pieni d'etterne lagrime. Non ho io
perduta la graziosa fama del mio valore? Sì ho. Quanti uomini, ignoranti qual
sia la cagione del mio essilio, penseranno me dovere avere commesso alcuna cosa
iniqua, e, per paura di non ricevere merito di ciò, mi sia partito? I nimici
creano le sconce novelle dove elle non sono, e le male lingue non le sanno tacere.
La iniquità da se medesima si spande più che la gramigna per li grassi prati.
Non sono io per lo mio tristo essilio divenuto povero pellegrino? Non ho io
perduta gioia e festa? Non è per quello la mia cavalleria perduta? Certo sì.
Oimè, quante altre cose sinistre con queste insieme mi sono avvenute per lo mio
sbandeggiamento! Ma certo, per tutto questo, alcuna cosa del vero amore che io
porto a Biancifiore, non è mancato. Più che mai l'amo: niuna pena, niuno
affanno, né alcuno accidente me la potrà mai trarre del cuore. E certo se egli
mi fosse conceduto di poterla solamente vedere, come io vidi già, tutte queste
cose mi parrebbero leggieri a sostenere. Il non poterla vedere m'è sola
gravezza, questo mi fa sopra ogni altra cosa tormentare. Ella co' suoi begli
occhi, avvegna che falsi siano, mi potrebbe rendere la perduta consolazione. Io
vo fuggendo per lei. Se l'amore di lei avessi, non che il fuggire ma il morire
mi sarebbe soave! Ma poi che l'amore non puoi di lei avere, e il poterla vedere
t'è tolto, piangi, misero Fileno, e dà pena agli occhi tuoi, i quali
stoltamente nella forza di tanto amore, quanto tu senti, ti legarono. Oimè
misero, io non so da che parte io mi cominci più a dolere, tante e tali cose
m'offendono! Ma tra l'altre, tu, o crudelissimo signore, non figliuolo di
Citerea, ma più tosto nimico, mi dai infinite cagioni di dolermi di te e di
biasimarti. Tu, giovanissimo fanciullo, con piacevole dolcezza pigli gli stolti
animi degli ignoranti, e in quelli poi con solingo ozio rechi disiderati
pensieri, fabrichi le tue catene, con le quali gli animi de' miseri, che tua
signoria seguitano, sono legati. Ahi, quanto è cieca la mente di coloro che ti
credono e che del loro folle disio ti fanno e chiamano iddio, con ciò sia cosa
che niuna tua operazione si vegga con discrezione fatta! Tu gli altissimi animi
de' valorosi signori declini a sottomettersi alla volontà d'una picciola
feminella. Tu la bellezza d'un giovane, maestrevole ornamento della natura, con
fallace disiderio leghi al volere d'un turpissimo viso, con diverse macule
adornato oltre al dovere, d'una meretrice. E, brievemente, niuna tua operazione
è con iguale animo fatta, anzi sogliono i miseri, ne' tuoi lacci aviluppati,
prendere per te questa scusa: che la tua natura è tale che né i doni di
Pallade, né quelli di Giunone, né gentilezza d'animo riguarda, ma solamente il
libidinoso piacere; e in questo credono alle tue opere aggiungere grandissime
laude, ma con degno vituperio te e sé vituperano. Ma che giova tanto parlare?
Tu se' d'età giovane: come possono le tue operazioni essere mature? Tu, ignudo,
non dei poter porgere speranza di rivestire. Le tue ali mostrano la tua
mobilità, né m'è della memoria uscito averti in alcune parti veduto privato
della vista: dunque, come di dietro alla guida d'un cieco si può fare diritto
cammino? Ahi, tristi coloro che in te sperano! Tu levi loro il pensiero de'
necessarii beni, e empili di sollecitudine di vana speranza. Tu gli fai
divenire cagione delle schernevoli risa del popolo che li vede, e essi, miseri
e di questo ignoranti, assai volte di se stessi con gli altri insieme fanno
beffe, né sanno quello che fanno. Tardi conosco i tuoi effetti, ma certo,
mentre ignorante di quelli fui, niuno suggetto avesti che più fede di me ti
portasse, né che più la tua potenza essaltasse: e ancora in quella semplicità
ritornerei, se benigno mi volessi essere, come già fosti a molti. Oimè misero,
che io non so che io mai contra te adoperassi, per la qual cosa così
incrudelire in me dovessi, come fai! Io mai non ti rimproverai la tua
giovanezza, né biasimai la forza del tuo arco, come fece Febo, né alla tua
madre levai il caro Adone, né scopersi i suoi diletti i quali con Marte
prendea, come tutto il cielo vide. Io mai non adoperai contro a te, perché tu
mi dovessi nuocere; ma tu di mobile natura, e nescio di quel che fai, mi
tormenti oltre al dovere. Solo in uno atto si conosce te avere alcun
sentimento, in quanto mai non cerchi d'essere se non in luogo a te simigliante,
avvegna che questa discrezione più tosto alla natura che a te si dovrebbe
attribuire. Il tuo diletto è di dimorare ne' vani occhi delle scimunite femine,
le quali a te costrigni con meno dolore che i miseri che in tale laccio
incappano; e poi con esse di quelli ti diletti di ridere, consentendo loro il
potersi far beffe de' tristi sanza niuno affanno d'esse: delle quali, schiera
di perfidissima iniquità piene, non posso tenermi ch'io non ne dica ciò che
dentro ne sento.
[35]
Voi,
o sfrenata moltitudine di femine, siete dell'umana generazione naturale fatica,
e dell'uomo inespugnabile sollecitudine e molestia. Niuna cosa vi può
contentare, destatrici de' pericoli, commettitrici de' mali. In voi niuna
fermezza si truova: e, brievemente, voi e 'l diavolo credo che siate una cosa!
E che ciò sia vero, davanti a noi infiniti essempli a fortificare il mio
parlare se ne truovano. E volendo dalla origine del mondo incominciare, si
troverà la prima madre per lo suo ardito gusto essere stata cagione a sé e a'
discendenti d'etterno essilio de' superiori reami. E questo malvagio principio
in tanto male crebbe, che la prima età nello allagato mondo tutta perì, fuori
che Deucalion e Pirra, a cui rimase la fatica di restaurare le perdute
creature. Ma posto che la quantità delle femine mancasse, la vostra malvagità
nella poca quantità non mancò. E non era ancora reintegrato il numero degli
annegati, quando colei che l'antica Bambilonia cinse di fortissime e alte mura,
presa da libidinosa volontà, col figliuolo si giacque, faccendo poi per ammenda
del suo fallo la scelerata legge che il bene placito fosse licito a ciascuno. O
cuore di ferro che fu quello di costei! Quale altra creatura, fuori che femina,
avrebbe potuta sì scelerata cosa ordinare, che, conoscendo il suo male, non
s'ingegnasse di pentere, ma s'argomentasse d'inducervi i suggetti? Ma ancora
che questo fosse grandissimo fallo, quanto fu più vituperevole quello che
Pasife commise, la quale il vittorioso marito, re di cento città, non sostenne
d'aspettare, ma con furiosa libidine essere da un toro ingravidata sostenne? Fu
ciascuno de' detti falli sceleratissimo, ma nullo fu sì crudelmente fatto
quanto quello che Clitemestra miseramente commise: la quale, non guardando alla
debita pietà del marito, il quale in terra era stato vincitore di Marte, per
mare di Nettunno, ma presa del piacere d'un sacerdote, rimaso ozioso ne' suoi
paesi, consentì che, porto ad Agamenone il non perfetto vestimento, e in quello
vedendolo avviluppato, Egisto miserabilemente l'uccidesse, acciò che poi sanza
alcuna molestia i loro piaceri potessero mettere in effetto. Quanta fu ancora
la lascivia di Elena, la quale, abandonando il propio marito, e conoscendo ciò
che dovea della sua fuga seguire, anzi volle che il mondo perisse sotto l'armi
che ella non fosse nelle braccia di Paris, contenta che per lei si possa
etternalmente dire Troia essere strutta e i Greci morti crudelmente! Quanta
acerbità e quanta ira si puote ancora discernere essere stata in Progne,
ucciditrice del propio figliuolo per far dispetto al marito! E Medea
simigliantemente! E in cui si trovò mai tanto tracutato amore quanto in Mirra,
la quale con sottili ingegni adoperò tanto che col propio padre più fiate si
giacque? E la dolente Biblis non si vergognò di richiedere il fratello a tanto
fallo, e la lussuriosa Cleopatra d'adoperarlo. E ancora la madre d'Almeon per
picciolo dono non consentì il mortale pericolo d'Anfirao suo marito? E qual
diabolico spirito avrebbe potuto pensare quello che fece Fedra, la quale non
potendo avere recato Ipolito suo figliastro a giacere con lei, con altissima
voce gridando e stracciandosi i vestimenti e' capelli e 'l viso, disse sé
essere voluta isforzare da lui e, lui preso, consentì che dal propio padre
fosse fatto squartare? Quanto ardire e quanta crudeltà fu quella delle femine
di Lenno, che, essendo degnamente suggette degli uomini, per divenire donne,
quelli nella tacita notte con armata mano tutti diedero alla morte? E simile
crudeltà nelle figliuole di Belo si trovò, le quali tutte i novelli sposi la
prima notte uccisero fuori che Ipermestra. Oimè, ch'io non sono possente a dire
ciò che io sento di voi! Ma sanza dire più avanti, quanti e quali essempli son
questi della vostra malvagità? O femine, innumerabile popolo di pessime
creature, in voi non virtù, in voi ogni vizio: voi principio e mezzo e fine
d'ogni male. Mirabil cosa si vede di voi, fra tanta moltitudine una sola buona
non trovarsene. Niuna fede, niuna verità è in voi. Le vostre parole sono piene
di false lusinghe. Voi ornate i vostri visi con diversi atti ad inretire i
miseri, acciò che poi, liete d'avere ingannato, cioè fatto quello a che la
vostra natura è pronta, ve ne ridiate. Voi siete armadura dello etterno nimico
dell'umana generazione: là ov'egli non può vincere co' suoi assalti, e egli
inconta nente a' pensati mali pone una di voi, acciò che 'l suo intendimento
non gli venga fallito. Guai etterni puote dire colui, che nelle vostre mani
incappa, non gli fallino. Misera la vita mia, che incappato ci sono! Niuna
consolazione sarà mai a me di tal fallo, pensando che una giovane, la quale io
più tosto angelica figura che umana creatura riputava, con falso riguardamento
m'abbia legato il cuore con indissolubile catena, e ora di me si ride, contenta
de' miei mali. Ma certo la miserabile fortuna che abassato per li vostri
inganni mi vede, assai mi nuoce, e niuno aiuto mi porge, anzi s'ingegna con
continua sollecitudine di mandarmi più giù che la più infima parte della sua
rota, se far lo potesse, e quivi col calcio sopra la gola mi tiene; né
possibile m'è lasciare il doloroso luogo».
[36]
Era
il pianto e la voce di Fileno sì grande, però che in luogo molto rimoto gli
parea essere da non dovere potere essere udito, che un giovane il quale a piè
del salvatico monticello passava, sentì quello, e avendovi grandissima
compassione, per grande spazio stette ad ascoltare, notando le vere parole di
Fileno; ma poi volonteroso di vedere chi sì dolorosamente piangesse, seguendo
la dolente voce, si mise per lo inviluppato bosco, e con grandissimo affanno
pervenne al luogo ove Fileno piangendo dimorava. Il quale egli nel primo
avvento rimirando, appena credette uomo, ma poi che egli l'ebbe raffigurato, il
vide nel viso divenuto bruno, e gli occhi, rientrati in dentro, appena si
vedeano. Ciascuno osso pingeva in fuori la ragrinzata pelle, e i capelli con
disordinato rabuffamento occupavano parte del dolente viso, e similmente la
barba grande era divenuta rigida e attorta, i vestimenti suoi sordidi e brutti:
egli era divenuto quale divenne il misero Erisitone, quando sé, per sé
nutricare, cominciò a mangiare. Nullo che veduto l'avesse ne' tempi della sua
prosperità, l'avrebbe per Fileno riconosciuto. Ma poi che il giovane l'ebbe
assai riguardato, così gli disse:
«O
dolente uomo, gl'iddii ti rendano il perduto conforto. Certo il tuo abito e le
tue lagrime con le tue voci m'hanno mosso ad avere compassione di te; ma se
gl'iddii i tuoi disiderii adempiano, dimmi la cagione del tuo dolore: forse non
sanza tuo bene la mi dirai; e ancora mi dì, se ti piace, perché sì solingo
luogo hai per poterti dolere eletto».
Maravigliossi
Fileno del giovane quando parlare l'udì, e voltatosi verso lui, non dimenticata
la preterita cortesia, così gli rispose:
«Io
non spero già che gl'iddii mi rendano quello che essi m'hanno tolto, perché io
i tuoi prieghi adempia: ma però che la dolcezza delle tue parole mi spronano,
mi moverò a contentarti del tuo disio. E primieramente ti sia manifesto che per
amore io sono concio come tu vedi»; e, appresso questo, tutto ciò che avvenuto
gli era particularmente gli narrò. Dopo le quali parole, ancora gli disse:
«La
cagione per che in sì fatto luogo io sono venuto, è che io voglio sanza
impedimento potere piangere. E, appresso, io non voglio essere a' viventi
essemplo d'infinito dolore, ma voglio che infra questi alberi la mia doglia
meco si rimanga».
Udito
questo, il giovane non poté ritenere le lagrime, ma con lui incominciò
dirottamente a piangere, e disse:
«Certo
la tua effigie e le tue voci mostrano bene che così ti dolga, come tu parli;
ma, al mio parere, questa doglia non dovria essere sanza conforto, con ciò sia
cosa che persone, che molto l'hanno avuto maggiore che tu non hai, si sono
confortate e confortansi».
Disse
allora Fileno:
«Questo
non potrebbe essere: chi è colui che maggior dolore abbia sentito di me?».
«Certo
- disse il giovane, - io sono».
«E
come?», disse Fileno. A cui il giovane disse:
«Io
il ti dirò. Non molto lontano di qui, avvegna che vicina sia più assai quella
parte alla città di colui i cui ammaestramenti io seguii, e dove tu non molto
tempo ci fosti sì come tu di', era una gentil donna, la quale io sopra tutte le
cose del mondo amai e amo: e di lei mi concedette Amore, per lo mio buon
servire, ciò che l'amoroso disio cercava. E in questo diletto stetti non lungo
tempo, ché la fortuna mi volse in veleno la passata dolcezza, che quando io mi
credea più avere la sua benivolenza, e avere acquistato con diverse maniere il
suo amore, e io con li miei occhi vidi questa me per un altro avere abandonato,
e conobbi manifestamente che ella lungamente con false parole m'avea ingannato,
faccendomi vedere che io era solo colui che il suo amore avea. La qual cosa
come mi si manifestò, niuno credo che mai simile doglia sentisse com'io sentii:
e veramente per quella credetti morire; ma l'utile consiglio della ragione mi
rendé alcun conforto, per lo quale io ancora vivo in quello essere che tu mi
vedi, ricoprendo il mio dolore con infinta allegrezza. Le cose sono da amare
ciascuna secondo la sua natura: quale sarà colui sì poco savio che ami la
velenosa cicuta per trarne dolce sugo? Molto meno fia savio colui che una
femina amerà con isperanza d'essere solo amato da lei lunga stagione: la loro
natura è mobile. Qual uomo sarà che possa ammendare ciò che gl'iddii o li
superiori corpi hanno fatto? E però sì come cosa mobile sono da amare, acciò
che de' loro movimenti gli amanti, sì come esse, si possano ridere: e se elle
mutano uno per un altro, quelli possa un'altra in luogo di quella mutare. Niuno
si dorrà seguendo questo consiglio. Tu, non avendolo seguito, ora per niente
piangi: con ciò sia cosa che tu niente abbia perduto, di che ti duoli tu? Sì
come tu di', niente possedesti: e chi non possiede non può perdere; e chi non
perde, di che si lamenta? Credesti alcuna volta, per alcuno sguardo fatto a te
da quella giovane cui tu ami, che ella t'amasse: hai conosciuto che quello era
bugiardo, e che ella non t'ama. Certo di questo ti dovresti tu rallegrare e
rendere infinite grazie agl'iddii, che t'hanno aperti gli occhi avanti che tu
in maggiore inganno cadessi. Se forse dello essilio che hai piangi, non fai il
migliore: ché, pensando al vero, niuno essilio si può avere, con ciò sia cosa
che il mondo sia una sola città a tutti. Ove che la fortuna ponga altrui, ella
nol può cacciare di quello. In ciascun luogo giunge altrui la morte con finale
morso. A' virtuosi ogni paese è il loro. Lascia questi pianti e leva su, vienne
con meco, e virtuosamente pensa di vivere, e metti in oblio la malvagità di
quella giovane che a questo partito t'ha condotto: che de' cieli possa fuoco
discendere che ígualmente tutte le levi di terra!».
A
cui Fileno disse:
«Giovane,
ben credo che il tuo dolore fu grande, e similmente il tuo animo, poi che con
pazienza il poté sostenere; ma io mi sento troppo minore l'animo che la doglia,
e però invano ci si balestrano confortevoli parole. Io sono disposto a piangere
mentre io vivrò: gl'iddii per me del tuo buon volere ti meritino. Io ti priego
per quello amore che tu già più fervente portasti alla tua donna, che non ti
sia noia il partirti e 'l lasciarmi con continue lagrime sfogare il mio
dolore».
«Gl'iddii
te ne traggano tosto di cotale vita» disse il giovane. E partitosi da lui, se
ne tornò per quella via onde venuto era.
[37]
Partito
il giovane, Fileno ricominciò il doloroso pianto; e increscendogli della sua
vita, con dolenti voci incominciò a chiamare la morte così:
«O
ultimo termine de' dolori, infallibile avvenimento di ciascuna creatura,
tristizia de' felici e disiderio de' miseri, angosciosa morte, vieni a me!
Vieni a colui a cui il vivere è più noioso che il tuo colpo, vieni a colui che
graziosa ti riputerà! Deh, vieni, ché il tristo cuore ti chiede! Oimè, ch'io
non posso con la debole voce esprimere quanto io ti disidero. Poi che un solo
colpo dei tuoi debbo ricevere, piacciati di concederlo sanza più indugio. Non
sia l'arco tuo più cortese a me che al valoroso Ettore o ad Achille. Io tengo
in villania il lungo perdono che da lui ho ricevuto. I doni disiderati, tosto
donati, doppiamente sono graditi: concedi questo a me che tanto disiderata
t'ho, e che con così dolente voce ti chiamo. Oimè, come sono radi coloro che
con volonteroso animo ti ricevono, come ti riceverò io! Dunque, perché non
vieni? Non consentire che disiderandoti, come io fo, io languisca più. Io non
ricuserò in niuna maniera la tua venuta. Vieni come tu vuoi, solo ch'io muoia.
Io non fuggirei ora gli aguti ferri, né le taglienti spade com'io feci già;
l'agute sanne de' fieri leoni non mi dorrebbeno, né di qualunque altra fiera
dilacerante il mio corpo: dunque vieni. O rapaci lupi, o ferocissimi orsi, se
alcuni nel dolente bosco, bramosi di preda, dimorate, venite a me, facciasi il
mio corpo vostro pasto: adempiete quel disio che altri adempiere non mi vuole.
Oimè, perisca il tristo corpo, poi che perita è la speranza, cerchi la dolente
anima i regni atti al suo dolore e vada con la sua pena alle misere ombre di
Dite, ove forte sarà che maggior pena che ella al presente sostiene, vi truovi.
O iddii abitatori de' celestiali regni, se alcuno mai in questo luogo ricevette
onore di sacrificio, dolgavi di me, O driade, abitatrice di questi luoghi, fate
che la misera vita mi fugga. O infernali iddii, rapite del mio misero corpo la
vostra anima. Cessi che io più me e voi stimoli con le mie voci».
E
così piangendo e gridando, tutto delle propie lagrime si bagnava, baciando
sovente il candido velo, sopra il quale per debolezza sovente cader si
lasciava. Ma Florio, rimaso a Montoro, presto a mettere in essecuzione le
triste insidie sopra Fifeno, udito che il misero per paura di quelle avea preso
volontario essilio, lasciò stare le cominciate cose, e incominciassi alquanto a
riconfortare, imaginando che poi che questo era cessato di che egli più
dubitava, niuna altra cosa, fuori che prolungamente di tempo, al suo disio gli
poteva noiare.
[38]
La
santa dea, che due volte era discesa de' suoi regni per impedire il
ferventissimo amore tra Florio e Biancifiore cresciuto per lungo tempo,
sentendo Florio rallegrarsi e il misero Fileno avere per le operazioni di lei
preso dolente essilio, parendole niente aver fatto, propose del tutto di volere
la sua imaginazione compiere. E discesa del cielo la terza volta, sopra un'alta
montagna in forma di cacciatrice si pose ad aspettare il re Felice, che quivi
cacciando su per quella doveva quel giorno venire. Ella avea i biondi capelli
ravolti alla sua testa con leggiadro svolgimento, e il turcasso cinto con molte
saette, e nella sinistra il forte arco portava. E quivi per picciolo spazio
dimorando, di lontano vide il re Felice soletto correre dietro ad un grandissimo
cervio, il quale verso quella parte ov'ella era fuggiva: al quale ella si parò
davanti e con soavissima voce salutatolo, abandonato il cervio, il ritenne a
parlar seco. A cui il re, non conoscendola, disse:
«Giovane
donna, come in questo luogo sì sola dimorate?».
«Di
qui non sono guari lontane le compagne - rispose Diana; - ma tu come a questi
diletti itendi, con ciò sia cosa che il tuo figliuolo, per amor di colei cui tu
tieni in casa, guadagnata ne' sanguinosi campi, si muore? Io conosco il sopravegnente
pericolo, e dicoti che se tosto rimedio a questa cosa non prendi, ella il ti
torrà».
E
questo detto, subitamente sparve. Rimase il re tutto stupefatto e pieno di
pensieri, quando, volendo consiglio domandare, vide la dea sparita, e così tra
sé, voltando i suoi passi, disse:
«Veramente
divina voce m'ha i miei danni annunziati».
E
di grieve dolore oppresso, lasciata la caccia, si tornò in Marmorina.
[39]
Ritornato
il re in Marmorina dentro al suo palagio, in una camera, soletto, con bassa
fronte, si pose pensando a sedere ripetendo in sé l'udite parole dalla santa
dea, e in sé rivolgendo che rimedio alle cose udite potesse pigliare. E in tali
pensieri dimorando, la reina sopravenne; e vedendo il re turbato, si
maravigliò, e timidamente così gli disse:
«O
caro signore, se licito è ch'io possa sapere la cagione della vostra
turbazione, io vi priego che ella non mi si celi».
A
cui il re rispose:
«Ella
non ti si può né dee celare, e però io la ti dirò: oggi nel più forte cacciare
che io facea, correndo dietro a un cervio, non so che si fosse, o dea o altra
creatura, ma in abito d'una cacciatrice, m'apparve una bella donna, la quale,
dopo alquante parole, mi disse che se con subito provedimento noi non
soccorressimo, che Florio per Biancifiore perderemmo: e questo detto, sparve
subitamente, né più la potei vedere. Onde io da quella ora in qua con grieve
doglia sono dimorato e dimoro. Io conosco manifestamente che la fortuna, dei
nostri beni invidiosa, si oppone a quelli, e vuolcene in miserabile modo privare.
Io non so che consiglio pigliare. Io mi consumo pensando che per una serva io
debba perdere il caro figliuolo acquistato con tanti prieghi. O maladetto
giorno, o perfidissima ora della sua natività, perché mai venisti? Egli non per
nostra consolazione, ma per dolorosa distruzione di noi nacque: ma certo la
cagione di tanta e di tale tristizia converrà che prima di me perisca. Questi
mali e queste angosciose fatiche solo per la vilissima serva procedono. Io le
leverò con le propie mani la vita: la mia spada trapasserà il suo sollecito
petto: e di questo segua che puote! E certo se i fati altre volte la trassero
delle cocenti fiamme, essi non la trarranno ora del mio colpo. Oimè, che mi
parea incredibile per adietro, quand'io udiva che sola Biancifiore era ancora
da lui dimandata, e diceva: "Se ciò fosse vero, già il duca e Ascalion me
l'avrebbero fatto sentire!". Ma io credo fermamente che la puttana l'abbia
con virtuose erbe, o con parole, o con alcuna magica arte costretto, però che
mai non si udì che femina con tanto amore durasse in memoria d'uomo, quanto
costei è durata a lui. Ma certo a mio potere l'erbe e le incantazioni le
varranno altressì poco: come a Medea valessero!».
[40]
Poi
che il re, narrate queste cose, si tacque, la reina, dopo alcuno sospiro, così
disse:
«Oimè,
ora ha egli ancora nella memoria Biancifiore? Certo, se questo è, negare non
possiamo che in contrario non ci si volga la prosperevole fortuna passata. Io
imaginava che egli più non se ne ricordasse; ma poi che ancora gli è a mente
soccorriamo con pronto argomento».
«Niuno
rimedio è sì presto come ucciderla - disse il re, - e acciò che infallibile sia
il colpo, io l'ucciderò con la propia mano». A cui la reina disse:
«Cessino
questo gl'iddii, che un re si possa dire che colpevole nella morte d'una
semplice giovinetta sia, o che le mani vostre di sì vile sangue siano
contaminate. Se noi la sua morte disideriamo, noi abbiamo mille servi presti a
maggiori cose, non che a questa; ma noi, sanza esser nocenti contro lo
innocente sangue di lei, possiamo in buona maniera riparare: e ciò v'aveva io
già più volte voluto dire, ma ora, venuto il caso, vel dirò. Io intesi, pochi
dì sono passati, che venuta era ne' nostri porti, là dove il Po le sue dolci
acque mescola con le salse, una ricchissima nave, di che parte si venga non so,
la quale, secondo che m'è stato porto, spacciato il loro carico, si vogliono
partire: mandate per li padroni, e a loro sia Biancifiore venduta. Essi la
porteranno in alcuna parte strana o molto lontana di qui, e di essa mai niuna
novella si saprà: e a Florio date ad intendere che morta sia, faccendole fare
nobilissima sepoltura e bella, acciò che più la nostra bugia somigli il vero. E
egli, credendo questo, poi s'auserà a disamarla».
[41]
Niente
rispose il re a' detti della reina, ma in se medesimo alquanto rattemperato
pensò di volere tal consiglio seguire, e seguendolo imaginò che sanza fallo gli
verrebbe il suo avviso fornito. E uscito della sua camera, a sé chiamò Asmenio
e Proteo, giovani cavalieri e valorosi, e disse così loro:
«Sanza
alcuno indugio cercate i nostri porti là dove il Po s'insala: quivi n'è detto
che una ricchissima nave è venuta; fate che voi la veggiate, e conosciate di quella
i signori, e sappiate di qual paese viene, e di che è carica, e quando si dee
partire, e ordinatamente tutto mi raccontate nella vostra tornata, la quale
sanza niuno indugio fate che sia».
[42]
Mossersi
i due giovani con quella compagnia che piacque loro, e, pervenuti a' dimandati
porti, montarono sopra la bella nave, ove essi onorevolemente ricevuti furono
da Antonio e da Menone, signori e padroni di quella. E poi che Asmenio dimorato
con loro alquanto fu, egli disse:
«Belli
signori, noi siamo cavalieri e messaggi dell'alto re di Spagna, ne' cui porti
voi dimorate; e siamo qui venuti a voi per essere di vostra condizione certi, e
per sapere qual sia il vostro carico, e da quali liti vi siate con esso
partiti, e che intendiate di fare. Piacciavi che di tutte queste cose noi al
nostro signore possiamo rendere vera risposta».
A
cui Antonio, per età e per senno più da onorare, così rispose:
«Amici,
voi siate i ben venuti. Noi, brievemente, siamo ad ogni vostro piacere
disposti, e però alla vostra dimanda così vi rispondiamo, e così a chi vi manda
risponderete: il presente legno è di questo mio compagno e mio, i quali, egli
Menone e io Antonio siamo chiamati, e nascemmo quasi nelle ultime parti
dell'ausonico corno, vicini alla gran Pompeia, vera testimonia delle vittorie
ricevute da Ercule ne' vostri paesi, e da lui edificata; e vegnamo dalli
lontani liti d'Alessandria in questi luoghi, non volonterosi venuti, ma da
fortunale tempo portati, nel quale gl'iddii, la mercé loro, ci hanno tanta di
grazia fatta, che quasi tutto il carico della nostra nave avemo spacciato, il
quale fu in maggior parte spezieria, perle e oro, e drappi dalle indiane mani
tessuti; e intendiamo, ove piacere de' nostri iddii sia, di cercare le sedie
d'Antenore, poste nell'ultimo seno di questo mare, quando avremo tempo; e quivi
di quelle cose che per noi saranno, intendiamo di ricaricare la nostra nave e
di tornare agli abandonati liti. Se per noi si può far cosa che al vostro
signore e a voi piaccia, come umilissimi servidori a' vostri piaceri ci
disponiamo».
Assai
gli ringraziarono i due cavalieri e ultimamente gli pregarono che non fosse
loro noia alquanti giorni attendergli, però che con loro credevano dovere avere
a fare. A cui essi risposero che uno anno, se tanto loro piacesse, gli
attenderebbono.
[43]
Tornarono
i due cavalieri al re, e chiaramente ogni cosa udita da' padroni gli narrarono.
A' quali il re disse:
«Tornate
ad essi e domandateli se essi volessero una bellissima giovane comperare, la
quale innumerabile tesoro ho cara, e con la risposta tacitamente tornate».
Ripresero
i cavalieri il cammino, e, ricevuti con amorosi accoglimenti, a' mercatanti la
loro ambasciata contarono, aggiungendo che dalla bella giovane inverso la reale
maestà grandissimo fallo era stato commesso, per lo quale morte meritava «ma il
signore, pietoso della sua bellezza, non ha voluto privarla di vita: ma, acciò
che il fallo non rimanga impunito, la vuole vendere, come contato v'abbiamo».
A
cui i mercatanti risposero ciò molto piacere loro: e se bella era quanto
contavano, nullo migliore comperatore d'essi se ne troverebbe. «Adunque - disse
Asmenio - arrecate i vostri tesori e venite con noi, acciò che voi veggiate che
quello che vi diciamo è vero».
[44]
Caricati
i mercatanti i loro tesori, e presi molti loro cari gioielli, con li due
cavalieri se ne vennero a Marmorina, ove dal re onorevolmente ricevuti furono.
E quando tempo parve al re di volere che essi vedessero Biancifiore, egli disse
alla reina:
«Va
e fa venire la giovane». Al cui comandamento la reina andata in una camera ove
Biancifiore era, disse:
«O
bella giovane, rallegrati, che picciolo spazio di tempo è a passare che il tuo
Florio sarà qui; e pero adornati, acciò che tu gli possi andare davanti e
fargli festa, e che egli non gli paia che le tue bellezze sieno mancate».
Corse
al cuore di Biancifiore una subita letizia, udendo le false parole, e per poco
non il cuore, abandonato dalle interiori forze, corse di fuori a mostrare
festa, per debolezza perì. Ma poi, quelle tornate ciascuna nel suo luogo
furono, Biancifiore s'andò ad ornare. Ella i dorati capelli con sottile
artificio mise nel dovuto stile, e, sé di nobilissimi vestimenti vestita, sopra
la testa si puose una bella e leggiadra coronetta, e con lieti sembianti
cominciò ad attendere, disiderosa d'udire dire: "Ecco Florio!".
[45]
Il
re fece chiamare i due mercatanti, e con loro sanza altra compagnia, se ne
entrò in una camera, e disse loro:
«Voi
vedrete di presente venire una creatura di paradiso in questo luogo, la quale
sarà al vostro piacere, se assai tesori avete recati».
E
detto questo, comandò che Biancifiore venisse. Allora la reina disse a
Biancifiore:
«Andiamo
nella gran sala, non dimoriamo qui, acciò che di lontano possiamo vedere il
caro figliuolo».
Mossesi
Biancifiore soletta di dietro alla reina e venne nel luogo ove i due mercatanti
dimoravano. E come l'aria, di nuvoli piena, porge alla terra alcuna oscurità,
la quale poi, partendosi i nuvoli, da' solari raggi con lieta luce è cacciata,
così parea che dove Biancifiore giungeva, nuovo splendore vi crescesse. Videro
i mercatanti la bella giovane, e, ripieni d'ammirazione, appena credettero che
cosa mondana fosse, dicendo fra loro che mai sì mirabile cosa non era stata
veduta. Elli comandarono che di presente i loro tesori fossero tutti aportati
davanti al re; i quali venuti in grandissima quantità, così dissero:
«Signore,
sanza altro mercatare, de' nostri tesori prendete quella quantità che a voi
piace, ché noi non sapremmo a così nobile e preziosa cosa porre pregio alcuno».
«Assai
mi piace», rispose il re. E di quelli prese quella quantità che a lui parve e
l'altra rendé loro. E essi, contenti di ciò che fatto avea il re, sopra tutto
ciò che preso avea, gli donarono una ricchissima coppa d'oro, nel gambo e nel
piè della quale con sottilissimo artificio tutta la troiana ruina era smaltata,
cara per maesterio e per bellezza molto. Dopo i ricevuti tesori, il re con
sommessa voce così parlò a' mercatanti:
«A
voi conviene, poi che comperata avete costei, sanza niuno indugio dare le vele
a' venti, né più in questi paesi dimorare, non forse nuovo accidente avvenisse
per lo quale il vostro e mio intendimento si sturbasse».
Dissero
i mercatanti:
«Signore,
co mandate alla giovane, poi che nostra è, che con noi ne venga, che noi non
l'avremo prima sopra la nostra nave, che essendo il tempo ben disposto, come
elli ci pare che sia, che noi prenderemo nostro cammino e sgombreremo i vostri
porti, però che per noi non fa il dimorare».
[46]
Voltossi
allora il re a Biancifiore, e disse:
«Bella
giovane, a me ricorda che quando davanti mi recasti nella festa della mia
natività il velenato paone, io giurai per lo sommo Iddio e per l'anima del mio
padre, e promisi al paone che in brieve tempo io ti mariterei a uno de' grandi
baroni del mio regno: però, volendo osservare il mio voto, t'ho maritata, e il
tuo marito si chiama Sardano, signore dell'antica Cartagine, a noi carissimo
amico e parente. Egli con grandissima festa t'aspetta, sì come i presenti
gentili uomini da sua parte a noi per te venuti ne dicono. Però rallegrati: e
poi che piacere è di lui, a cui oramai sarai cara sposa, con costoro n'andrai,
e noi sempre per padre terrai, là ove bisogno ti fosse tale paternità».
Le
cui parole come Biancifiore udì, tutta si cambiò nel viso e disse:
«Oimè,
dolce signore, e come m'avete voi maritata, che io nel gran pericolo che fui,
quando ingiustamente al fuoco fui condannata, per paura della morte, a Diana
votai etterna virginità, se dallo ingiusto pericolo mi campasse?».
«Come
- disse il re - richiede la tua bellezza etterna virginità, la quale a' venerei
atti è tutta disposta? Giunone, dea de' santi matrimonii, ti rimetterà questo
voto, poi che il suo numero accresci».
«Oimè!
- disse Biancifiore - io dubito che la vendicatrice dea giustamente meco non si
crucci».
«Non
farà - disse il re, - e posto che ciò avvenisse, questo è fatto omai, non può
indietro tornare. Tu dovevi dirloci avanti se così avevi promesso. Imineo lieto
e inghirlandato tenga nella vostra camera le sante facelline».
E
questo detto, comandò che Glorizia sua maestra le fosse per servigiale donata,
sì come della misera Giulia era stata, e che ella fosse da' mercatanti
tacitamente menata via, e i tesori riposti.
[47]
Biancifiore,
che i segreti ragionamenti e l'abito de' mercatanti e i ricevuti tesori tutti
avea veduti, e il tacito stile che il re nella sua partenza teneva, e similmente
l'unica servitrice a lei donata, e le ingannevoli parole della reina che detto
l'avea: "Vieni, che il tuo Florio viene" nella mente notava, fra sé
dolendosi incominciò a dire:
«Oimè,
che è questo? In sì fatta maniera non sogliono le giovani andare a' loro sposi,
anzi si sogliono fare grandissime feste, e io con taciturnità sono cercata di
menar via. Né ancora si sogliono per le mie pari da' mariti mandare tesori,
anzi ne sogliono ricevere. Né ancora costoro paiono uomini atti a portare
ambascerie di sì fatte bisogne, ma mi sembrano mercatanti; e i segreti mormorii
mi danno cagione di dubitare. E ove s'usa ancora una giovane andare a sì fatto
sposo, quale egli dice che m'ha donato, con una sola servitrice? Oimè, che
tutte queste cose mi manifestano che io sono ingannata! Io misera, nata per
aver male, non maritata ma venduta credo ch'io sono, come schiava da pirrata in
corso presa. Oimè, che farò? Come che io mi sia o venduta o maritata, come
potrà io abandonare il bel paese ove il mio Florio dimora?».
E
questo dicendo, incominciò sì forte a piangere, che a forza mise pietà ne'
crudeli cuori del re e della reina. Ma il re ciò non sofferse di stare a
vedere, anzi si partì per paura di non pentersi, e la seconda volta comandò che
portata ne fosse.
[48]
Già
lasciava Febo vedere la sua cornuta sorella disiosa di tornare alquanto con la
sua madre, quando i mercatanti, apparecchiati i cavalli, levarono Biancifiore
di braccio alla reina semiviva, e con Glorizia insieme, di quindi partendosi,
la ne portarono. E pervenuti alla loro nave, contenti di tale mercatantia, lei
sopra quella posero, apparecchiando la più onorevole parte d'essa, e pregando
gl'iddii che prospero viaggio loro concedessero. E date le vele a' venti, si
partirono con Biancifiore da' vietati porti, comandando che ricercati fossero i
lasciati liti di Soria.
[49]
Zeffiro
ancora non era stato da Eolo richiuso nella cavata pietra, anzi soffiando
correa sopra le salate onde con le sue forze, per la qual cosa i mercatanti
prosperamente con la loro nave andavano a' disiderati liti. Ma Biancifiore, che
ora conosceva manifestamente il tradimento dello iniquo re, quivi venuta con
continuo pianto, con più grave doglia veggendosi dalli occidentali liti
allontanare, incomincio a piangere, e a dire così:
«Oimè,
dolorosa la vita mia, ove sono io portata? Chi mi toglie da' dolci paesi ov'io
lascio l'anima mia? O Amore, solo signore della dolorosa mente, quanti e quali
sono i mali che io, per essere fedelissima suggetta alla tua signoria,
sostegno! Ma tra gli altri notabili, come tu sai, io per te ebbi a morire di
vituperevole morte, avvegna che per te simigliantemente da quella campassi, e
ora, come vilissima serva venduta, per te, non so ove io mi sia portata. Se
queste cose fossero manifeste, chi s'arrischierebbe mai a seguire tua signoria?
Deh, perché non mi uccidevi tu avanti, quando ne' begli occhi di Florio
m'apparisti, che ferirmi, acciò che io per la tua ferita tanto male dovessi
sostenere? Oimè, ch'io non so quali liti saranno da me cercati, né alle cui
mani io misera debbo venire. Ma a niune verrò che iguale tristizia non sia la
mia, poi ch'io lascio il mio Florio. Dove, o misera fortuna, ricorrerò per
conforto, con ciò sia cosa che ogni speranza fuggita mi sia di potere mai lui
rivedere? Io sono portata lontana da lui, e egli nol sa, né sa dove: dunque
dove sarò io da lui ricercata? E io come potrò lui ricercare, ché la mia
libertà è stata venduta a costoro infiniti tesori? Ahi misera vita, maladetta
sii tu, che sì lungamente in tante tribulazioni mi se' durata! O dolcissimo
Florio, cagione del mio dolore, gl'iddii volessero che io mai veduto non ti
avessi, poi che per amarti tante tribulazioni e tante avversità sostenere mi
conviene. Ma certo se io mai rivederti credessi, ancora mi sarebbe lieve il
sostenerle. Oimè, or che colpa ho io se tu m'ami? Io mi riputai già grandissimo
dono dagl'iddii l'avere avuto da te soccorso, quando per te credetti morire
nelle cocenti fiamme: ma certo io ora avrei molto più caro l'essere stata
morta. Io non so che mi fare. Io disidero di morire e intanto mi conosco
miserissima, in quanto io veggio alla morte rifiutarmi. Ora faccino di me
gl'iddii ciò che piace loro: niuno uomo fu mai amato da me se non Florio, e
Florio amo e lui amerò sempre. Nulla cosa mi duole tanto, quanto il perduto
tempo, nel quale già potemmo i disiderati diletti prendere e non li prendemmo,
ma quello ozioso lasciammo trascorrere, pensando che mai fallire non ci
dovesse: ora conosco che chi tempo ha e quello attende, quello si perde. O
misero Fileno, in qualunque parte tu vagabundo dimori, rallegrati che io,
cagione del tuo essilio, ti sono fatta compagna con più misera sorte. A te è
licito di tornare, ma a me è negato. Tu ancora la tua libertà possiedi, ma la
mia è venduta. Gl'iddii e la fortuna ora mi puniscono de' mali che tu per me
sostieni: ma certo a torto ricevo per quelli ingiuria, ché, come essi sanno,
mai io non ti mostrai lieto sembiante se non costretta dalla iniquissima madre
di colui di cui io sono. Oimè, quanto m'è la fortuna contraria! Ma certo ciò
non è maraviglia, con ciò sia cosa che i figliuoli debbano succedere a' parenti
nelli loro atti: chi più infortunato fu che il mio padre e la mia misera madre,
avvegna che di tutto io fossi cagione? E se io di ciò fui cagione, dunque maggiormente
conviene che io infortunata sia, anzi posso dire che io sia esso infortunio.
Rallegrinsi le loro anime ove che esse sieno: io porto pena del commesso male.
O iddii, provedete alla mia miseria, poneteci fine. O Nettunno, inghiottisci la
presente nave, acciò che la misera perisca. Racchiudi sotto le tue onde in un
corpo tutte le miserie, acciò che il mondo riposi: elle sono tutte adunate in
me; se tu me nelle tue acque raccogli, tutte l'avrai in tua balia, e potrai poi
di quelle dare a chi ti piacerà. E tu, o Eolo, leva co' tuoi venti le tese
vele, che al mio disio mi fanno lontana. Ove è ora la rabbia de' tuoi suggetti,
che a' troiani levò gli alberi e' timoni, e parte de' loro uomini e delle navi?
Risurga, acciò che io più non sia portata avanti. Io disidero di morire ne'
vicini mari al mio Florio, acciò che il misero corpo, portato dalle salate
acque sopra i nostri liti, muova a pietà colui di cui egli è, e da capo con le
propie lagrime il bagni. O almeno abassa la potenza del fresco vento che ci pinge
alla disiderata parte da costoro. Apri la via agli orientali e agli austri,
acciò che negli abandonati porti un'altra volta sieno gittate le tegnenti
ancore, e quivi forse da Florio, che già dee la mia partita aver sentita, sarò
radomandata con maggior quantità di tesori a costoro. Niuna altra speranza m'è
rimasa, in niuna altra maniera mai rivedere non credo colui che è solo mio
bene. Oimè, i miei prieghi non sono uditi! E chi ascoltò mai priego di misero?
Io m'allungo ciascuna ora più da te, o Florio, in cui l'anima mia rimane. E
però rimanti con la grazia degl'iddii, i quali io priego che da sì fatta doglia
come io sento, ti levino. Pensa d'un'altra Biancifiore, e me abbi per perduta:
li fati e gl'iddii mi ti tolgono. Io non credo mai più rivederti, però che
veggendomiti ciascuna ora più far lontana, disperata mi dispongo alla morte, la
quale gl'iddii non lascino impunita in coloro che colpa me n'hanno».
E
piangendo, con travolti occhi e con le pugna chiuse, palida come busso,
risupina cadde in grembo a Glorizia, che con lei miseramente piangeva.
[50]
Li
due mercatanti vedendo questo, dolenti oltre misura, lasciando ogni altro
affare, corsero in quella parte, e di grembo a Glorizia la levarono, e lei non
come comperata serva, ma come cara sorella si recarono nelle braccia, e con
preziose acque rivocarono gli spaventati spiriti a' loro luoghi, e così
cominciarono a parlare a Biancifiore:
«O
bellissima giovane, perché sì ti sconforti? Perché piangendo e con ismisurato
dolore vuoi te e noi insieme consumare? Deh, qual cagione ti conduce a questo?
Piangi tu l'avere abandonato il vecchio re, il quale, pieno d'iniquità e di mal
talento, più la tua morte che la tua vita disiderava? Tu di questo ti dovresti
rallegrare. E forse che ti pare che la fortuna miseramente ti tratti, però che
tu a noi costi la maggior parte de' nostri tesori, parendoti dovere avere preso
nome di comperata serva, sotto la qual voce non pare che lieta vita si deggia
poter menare; ma certo da tale pensiero ti puoi levare, però che noi non
guarderemo mai a' donati tesori per te, ma, conoscendo la tua magnificenza, in
ogni atto come donna ti onoreremo. E se forse ti duole il dover cercare nuovi
liti, imaginando quelli dovere essere strani e voti di' varii diletti, de'
quali forse ti pareva la tua Marmorina piena, certo tu se' ingannata, però che
colà ove noi ti portiamo è luogo abondevole di graziosi beni, pieno di valorosa
gente, nel quale forse la fortuna ti concederà più tosto il tuo disio che fatto
non ti avrebbe onde ti parti: però che noi spesso veggiamo che quelli luoghi
che paiono più atti a uno intendimento d'un uomo o d'una donna, quelli sono
quelli ne' quali mai tale intendimento fornire non si può; e così ne' non
pensati luoghi avviene che l'uomo ha quello che ne' pensati disiderava. I
futuri avvenimenti ci sono nascosi. Il primo aspetto delle cose doni speranza
di quello che dee seguire: tu ricca, tu graziosa, tu bellissima! Le quali cose
pensando, manifestamente si dee credere che gl'iddii a grandissime cose
t'apparecchiano e che in te non dee potere lunga miseria durare. Piangano
coloro a' quali niuna speranza è rimasa. Noi ti preghiamo che tu ti conforti,
con ciò sia cosa che noi manifestamente conosciamo che con aperte braccia
felicità non pensata t'aspetta, alla quale gl'iddii tosto te e noi con
prosperevole tempo, come cominciato hanno, ci portino».
[51]
Con
pietose lagrime ascoltava Biancifiore le parole de' confortanti, e avvegna che
niuno conforto di quelle prendesse, nondimento con rotte voci prometteva di
confortarsi. Ma poi che i due mercatanti, parendola loro quasi avere
riconfortata, la lasciarono con Glorizia, essa soletta in una camera della
nave, donata a lei da' signori, si rinchiuse, e in quella con tacite lagrime
sopra il suo letto così cominciò a dire:
«O
graziosissima Citerea, ove è la tua pietà fuggita? Oimè, come tante lagrime di
me, tua fedelissima suggetta, non ti muovono ad aiutarmi? Chi spererà in te, se
io, che più fede t'ho portata, per te perisco? E quando verrà il tuo soccorso,
se nelle miserie non viene? Io non posso peggio stare che io sto. O misera a
me, che feci io che io meritassi d'essere venduta? Or m'avesse avanti il re
uccisa con le propie mani: almeno il termine de' miei dolori sarebbe finito!
Deh, pietosa dea, quand'io altra volta temetti di morire, tu da quel pericolo
mi campasti: perché ora più grave t'è in questo bisogno aiutarmi? Io mi diparto
dal mio Florio, né so quali paesi fieno cercati da me: e se io credessi
propiamente i tuoi regni venire ad abitare, e' mi sarebbero noiosi sanza
Florio. Dunque comanda che come la saetta del tuo figliuolo con dolcezza mi
passò il cuore per la piacevolezza di Florio, a me tornata in grave amaritudine,
che ella mi si converta in mortal piaga, e tosto. Non consentire che io più
viva languendo. Muovanti tante lagrime, quante io mando nel tuo cospetto, a
questa sola grazia concedermi: e se a te forse la mia morte non piace,
riconfortimi la seconda volta il tuo santo raggio, il quale nella oscura
prigione, ov'io per adietro a torto fui messa, mi consolò faccendomi sicura
compagnia. Io vo sanza alcuna speranza, se da te, non m'è porta. Deh, non mi
lasciare in tanta avversità disperata, ma sì come il tuo pietoso Enea negli
africani liti, a' quali io, più ch'io non disidero, già m'appresso,
riconfortasti con trasformata imagine, così di me ti dolga, e fammi degna del
tuo soccorso. A te niuna cosa s'occulta, il mio bisogno tu il sai: provedivi
sanza indugio, acciò che il numero delle mie miserie non multiplichi. E tu, o
vendicatrice Diana, nel cui coro io per difetto di virginità non avrei minor
luogo, aiutami: io sono ancora del tuo numero, e disidero d'essere infino a
quel tempo che l'inghirlandato Imineo mi penerà a concedere liete nozze.
Concedi che io possa i tuoi beneficii interi servare al mio Florio, al quale se
i fati non concedono che essi pervengano, prima la morte m'uccida, che quelli
tolti mi sieno».
E
mentre che Biancifiore queste parole fra sé tacita pregando dicea, soave sonno
sopravenutole, le parole e le lagrime insieme finio.
[52]
Diana,
che delli alti regni conoscea la miseria in che Biancifiore era venuta per le
operazioni di lei, in se medesima si riputò essere vendica del non ricevuto sacrificio,
e temperò le sue ire con giusto freno, e i santi orecchi piegò a' divoti
prieghi di Biancifiore; e li suoi scanni lasciati, a quelli di Venere se
n'andò, e così le disse:
«O
dea, sono alle tue orecchie pervenuti i pietosi prieghi della tua Biancifiore,
come alle mie?».
«Certo
sì - rispose Citerea, - e già di qui mi volea muovere per andare a porgerle il
dimandato conforto; ma tu, che niuna tua ira vuoi sanza vendetta da te
cacciare, lascia omai le soperchievoli offese e perdona il disaveduto fallo
alla innocente giovane, acciò che io non abbia cagione di contaminare i tuoi
cori con più asprezza. Tu non meno di me se' tenuta d'aiutare costei, però che
ben che essa aggia me col core servita e serve, nondimeno ha ella te sempre con
le operazioni servita, e ora a te, come a me, soccorso nella presente avversità
domanda».
«Adunque
- disse Diana - andiamo: le mie ire sono passate, e vera compassione de' suoi
mali porto nel petto; porgiamole il dimandato conforto».
A
cui Venere disse:
«Io
la veggo sopra le salate onde vinta da angosciosi pianti soavemente dormire, e
esserne portata verso il mio monte, al quale luogo io spero che 'l suo disio
ancora farò con letizia terminare, avvegna che sanza indugio essere non può per
quello che per adietro hai operato».
[53]
Sanza
più parlare si partì il divino consiglio, e amendue le dee, lasciati i luoghi,
con lieto aspetto nel sonno si mostrarono alla dormente giovane. E Diana, che
in quello abito propio che portare solea alle cacce, inghirlandata delle frondi
di Pallade, l'apparve, e così le disse:
«O
sconsolata giovane, l'avermi ne' sacrificii, renduti agli altri iddii per lo
tuo scampo, dimenticata, giustamente verso di te mi fece turbare: per la quale
turbazione, essendone io stata cagione, hai sostenute gravose avversità. Ma ora
i tuoi prieghi hanno addolcita la mia ira, e divenuta sono verso di te pietosa:
per la qual cosa ti prometto che la dimandata grazia infino alla disiderata ora
ti sarà da me conceduta, né niuno sarà ardito di levarti ciò che tu nel cuore
hai proposto di guardare».
Ma
Venere, che tutta nel cospetto di Biancifiore di focosa luce sfavillava,
involte le nude carni in uno sottilissimo drappo porporino, e coronata
dell'amate frondi di Febo, così le disse:
«Giovane,
a me divota e fedelissima suggetta, lascia il lagrimare, e nelle presenti
avversità e nelle future con iguale animo ti conforta. Tu hai co' tuoi prieghi
mosse a pietà le nostre menti, e spera che tu sarai da Florio ricercata: e in
quella parte nella quale più ti parrà impossibile di doverlo potere avere o
vedere, tel troverai nelle tue braccia ignudo».
E
queste cose dette, sparvero, e Biancifiore si svegliò: e lungamente pensando
alle vedute cose, molto conforto riprese, e con lieto viso a Glorizia queste
cose tutte raccontò; di che insieme prendendo buona speranza di futura salute,
fecero maravigliosa festa.
[54]
Nettunno
tenea i suoi regni in pace e Eolo prosperosamente pingeva l'ausonica nave a'
disiati liti, sì che avanti che Febea, nel loro partimento cornuta, avesse i
suoi corni rifatti eguali, essi pervennero all'isola che preme l'orgogliosa
testa di Tifeo. E quivi, di rinfrescarsi bisognosi, là ove Anchise la lunga età
finì, presero porto, e, onorevolemente ricevuti in casa d'una nobilissima donna
chiamata Sisife, a' mercatanti di stretto parentado congiunta, più giorni quivi
si riposarono. Con la quale Sisife dimorando Biancifiore, e nella mente
tornandole alcuna volta Florio e la dolente vita, la quale egli dovea sentire
poi che saputo avesse la partita di lei, pietosamente piangea, e con tutto che
la sua speranza fosse buona e ferma, non cessava però di dubitare, né per
quella potea in alcun modo porre freno alle sue lagrime. La qual cosa Sisife
vedendo un giorno così le disse:
«Dimmi,
Biancifiore, se gl'iddii ogni tuo disio t'adempiano, qual è la cagione del tuo
pianto? Io ti priego, s'elli è licito ch'io la sappia, che tu non la mi celi,
però che grandissima pietà, che di te sento nel cuore, mi muove a questo voler
sapere: la qual cosa, se tu mi dirai, tale potrà essere che o conforto o utile
consiglio vi ti porgerò». A cui Biancifiore disse:
«Nobile
donna, niuna cosa vi celerei che domandata mi fosse da voi, solo ch'io la
sapessi: e però ciò che dimandato avete, volentieri la vostra volontà ne
sodisfarò, avvegna che invano consiglio o conforto mi porgerete. Io, dal mio
nascimento isfortunata, non saprei da qual capo incominciare a narrare i miei
infortunii, tanti sono e tali. Ma posto che sieno stati e sieno al presente
molti, solamente amore mi fa ora lagrimare, con ciò sia cosa che io, più che
alcuna giovane fosse mai, mi truovo nella sua potenza costretta per la bellezza
d'un valoroso giovane chiamato Florio, figliuolo dell'alto re di Spagna, il
quale è rimaso là onde io misera mi partii con questi signori della nave, i
quali me comperata schiava portano, e non so dove. E ben che l'essere io di
costoro mi sia grave, leggerissima riputerei questa e ogni altra maggiore
avversità, se meco fosse il signore dell'anima mia, o in parte che io solamente
alcuna volta il giorno vedere lo potessi. Ma non che alcuna di queste cose
m'abbia la fortuna voluto concedere, ma ella solamente non sofferse che io
vedere il potessi nella mia partita, o udire di lui alcuna cosa: anzi ingannata
e semiviva, e tutta delle mie lagrime bagnata, fui di Marmorina tratta, ove io
l'anima e ogni intendimento ho lasciata con colui di cui io sono tutta. E sanza
fine mi maraviglio come dopo la mia partenza, considerando allo intollerabile
dolore ch'io ho sostenuto, m'è tanto la vita durata: ma la morte perdona a'
miseri le più volte!».
E
qui lagrimando, bassò la testa e tacquesi. E Sisife così le cominciò a parlare:
«Bella
giovane, non ti sconfortare: sanza dubbio conosco il tuo infortunio essere
grande e il dolore non minore che quello; ma per tutto questo, posto ch'è
perduto il luogo ove meno dolore che qui sentivi, non dee però essere da te la
speranza fuggita. E, appresso, nella presente vita si conviene le impossibili
cose rifiutare, e l'avverse con forte animo sostenere. Niuno mai fu in tanta
miseria che possibile non gli fosse l'essere in brieve più che altro felice. I
movimenti della fortuna sono varii, e disusati i modi ne' quali ella i miseri
rileva a maggiori cose. Se a te pare impossibile di dover mai ritornare là ove
Florio di' che lasciasti, né mai speri di rivederlo, fa che tu ti sforzi
d'imaginare di mai non averlo veduto, e ogni pensiero di lui caccia da te. E
quando tu riposata sarai là ove costoro ti portano, tu ne vedrai molti de'
quali non potrà essere che alcuno non te ne piaccia, e niuno sarà a cui tu non
piaccia: colui che ti piacerà, colui sia il tuo Florio. Or conviensi che la tua
bellezza perisca per amore d'un giovane, il quale avere non si può oramai?».
Quando Biancifiore ebbe per lungo spazio ascoltato ciò che Sisife le parlava,
ella alzò la testa e disse:
«Oimè,
quanto male conoscete le leggi d'amore! Certo elle non sono così dissolubili
come voi nel parlare le mostrate. Chi è colui che possa sciogliersi e legarsi a
sua volontà in sì fatto atto? Certo chi è colui che 'l fa, e far lo può, non
ama, ma imponsi a se medesimo falso nome d'amante, però che chi bene ama, mai
non può obliare. E come per niuno altro potrò io dimenticare il mio Florio, il
quale di bellezza, di virtù e di gentilezza ciascuno altro giovane avanza? E
quando alcuna di queste cose in sé non avesse, sì n'è in lui una sola, per la
quale mai per alcuno altro cambiare nol dovrei: che esso ama me sopra tutte le
cose del mondo».
«Fermamente
conosco - disse Sisife - che tu ami e che le tue lagrime da giusta pietà
procedono; ma piacciati confortarti, ché impossibile mi pare che sì leale amore
gl'iddii rechino ad altro fine, che a quello che tu e esso disiderate».
[55]
Poi
che i mercatanti furono alcuni giorni riposati, e il tempo parve al loro
cammino salutevole, risaliti con Biancifiore sopra l'usato legno, a' venti
renderono le vele, e con tranquillo mare infino all'isola di Rodi se
n'andarono. Quivi il tempo mostrando di turbarsi, scesero in terra, e con
Bellisano, nobilissimo uomo del luogo, per più giorni dimorarono. E
Biancifiore, ricevuta dalle paesane non come serva, ma come nobilissima donna,
da tutte fu onorata, e, mentre quivi dimorarono, da tutte confortata fu,
dandole speranza di futuro bene. Ma ritornato la terza volta il tempo da'
padroni dimandato, in su la nave risalirono. E già la nuova luna cornuta di sé
gran parte mostrava, quando essi allegri pervennero a' dimandati porti, ove il
cammino e la fatica insieme finirono.
[56]
Quivi
pervenuti, dico che al vento tolsero le vele e dierono gli aguti ferri a'
tegnenti scogli, e con fido legame fermarono la loro nave. E di quella con
grandissima festa discesi, ringraziando i loro iddii, cercarono la città, e in
quella con la bella giovane entrati, da Dario alessandrino furono graziosamente
non sanza molto onore ricevuti, e massimamente Biancifiore. E in questo luogo
per alquanti giorni dimorati, vi venne un signore nobilissimo e grande, il
quale era amiraglio del possente re di Bambillonia, e per lui quel paese tutto
sotto pacifico stato possedea. Il quale, come la bella nave vide, fece a sé di
quella venire i padroni, e li dimandò qual fosse la loro mercantantia, e onde
venissero. A cui i mercatanti risposero:
«Signore,
noi lasciammo i liti quasi all'ultimo Occidente vicini, e quindi abbiamo, sanza
altra cosa più, recata una nobilissima giovane, in cui più di bellezza che mai
in alcuna si vedesse, si vede, la quale un grandissimo re, in quelle parti
signoreggiante, ci donò per una grandissima quantità de' nostri tesori che noi
a lui donammo».
Disse
allora l'amiraglio:
«Venga
adunque la giovane, la cui bellezza voi fate cotanta, e se bella è come la
vantate, e di nobili parenti discesa, e ancora casta virginità tiene, de'
nostri tesori quelli che vorrete prenderete e donereteci lei».
Piacque
a' mercatanti, e per lei incontanente mandarono, la quale, di nobilissimi
vestimenti vestita e ornata, insieme con Glorizia davanti all'amiraglio si
presentò. Il quale graziosamente, la ricevette, e non sì tosto la vide, come a
lui parve la più mirabile bellezza vedere che mai per alcuno veduta fosse, e
comandò che a' mercatanti fosse donato a loro piacere dei suoi tesori. E poi
ch'egli ebbe di lei da loro ogni condizione udita, pietoso de' suoi affanni
così disse:
«Io
giuro per i miei iddii che omai più la fortuna non le potrà essere avversa:
alle sue tribulazioni io con grandissima felicità mi voglio opporre, e voglio
provare se la fortuna la potrà fare più misera che io felice. E' non passerà
lungo tempo che il mio signore dee qui venire, al quale io intendo, in luogo di
riconoscenza di ciò ch'io tengo da lui, donare questa bellissima cosa, né
conosco che gioia più cara donare gli potessi. E sì prometto per l'anima del
mio padre che tra le sue moglieri io farò che questa sarà la principale, e sì
farò la sua testa ornare della corona di Semiramis; e infino a quel tempo che
questo sarà, tra molte altre giovani, le quali a simil fine si tengono, la farò
sì come donna di tutte onorare, e sotto diligente guardia servare, con tutti
quelli diletti e beni che niuna giovane dee potere disiderare».
E
questo detto, comandò che onorevolemente alla gran Torre dello Arabo insieme
con Glorizia fosse menata Biancifiore, e quivi con l'altre giovani donzelle
dimorasse faccendo festa. Di questo furono assai contenti i mercatanti, sì per
lo loro avere, il quale aveano forse nel doppio multiplicato, e sì per la
giovane a cui prosperevole stato vedeano promesso da signore che bene lo poteva
attenere. E a lei rivolti, con pietose parole la confortarono, e da essa
piangendo si partirono, e pensarono d'altro viaggio fare con la loro nave. E
quella, posta con l'altre pulcelle molte nella gran torre, non sanza molto
dolore, infino a quel tempo che agl'iddii piacque la 'mpromessa di Venere
fornire, dimorò.
[57]
Già
allo iniquo re di Spagna, partita Biancifiore, pareva avere il suo disio
fornito; ma ancora pensando che necessità gli era la sua malvagità con falso
colore coprire, imaginò di far credere che Biancifiore fosse morta, acciò che
Florio, sentendo quella morta essere, dopo alcuna lagrima la dimenticasse. E
preso questo consiglio, per molti maestri mandò segretamente, a' quali sanza
niuno indugio comandò che fosse fatta una bellissima sepoltura d'intagliati
marmi, allato a quella di Giulia. La quale compiuta, preso un corpo morto d'una
giovane quella notte sepellita, la mattina co' vestimenti di Biancifiore e con
molte lagrime la fece sepellire, dicendo che Biancifiore era: e questo con
tanto ingegno fece, che niuno era nella città che fermamente non credesse che
Biancifiore fosse morta, da coloro in fuori a cui di tale inganno il re fidato
s'era. E questo fatto, mandò a Montoro a Florio un messaggiere, il quale così
gli disse:
«Giovane,
il tuo padre ti manda che se a te piace di vedere Biancifiore avanti ch'ella di
questa vita passi, che tu sii incontanente a Marmorina, però che subitamente
una asprissima infirmità l'ha presa, per la qual cosa appena credo che ora viva
sia».
Non
udì sì tosto Florio questo, com'egli tutto si cambiò nel viso, e sanza
rispondere parola, ristretto tutto in sé, quivi semivivo cadde, e dimorò tanto
spazio di tempo in tale stato, che alcuno non era che morto nol riputasse. Il
vermiglio colore s'era fuggito del bel viso, e la vita appena in alcun polso si
ritrovava; ma poi che egli pure fu per alcuni in vita essere ancora conosciuto,
con preziosi unguenti e acque, dopo molto spazio, con molta sollecitudine
furono i suoi spiriti rivocati: e tornato in sé aperse gli occhi, e intorno a
sé vide il duca e Ascalion piangendo, i quali con pietose parole il
riconfortavano, e altri molti con loro. A' quali egli dopo un gran sospiro
disse:
«Oimè,
perché m'avete voi, credendo piacere, disservito? L'anima mia già contenta
andava per li non conosciuti secoli vagando sanza alcuna pena, ma voi a dolersi
ora l'avete richiamata. Oimè, ora sento che la lunga paura, che io ho avuta
della vita di Biancifiore, m'è nell'avvisato modo con pericoloso accidente
venuta adosso. Quale infermità potrebbe sì subita sopravenire a una fresca
giovane, che a morte in un momento la inducesse? Fermamente che a forza è da'
miei parenti stata la mia Biancifiore recata a questa morte, se morta è, o se
ora morrà».
E
levatosi, comandò che i cavalli venissero, e preso il cammino con molta
compagnia, cercando già il sole l'occaso, sempre piangendo se n'andò verso
Marmorina, così nel suo pianto dicendo:
[58]
«O
gloriosi iddii, della cui pietà l'universo è ripieno, porgete i santi orecchi
alquanto a' miei prieghi, e non mi sia da voi negata l'usata benignità tornando
crudeli; discenda de' cieli il vostro aiuto in questo espressissimo bisogno.
Venga la vostra grazia, d'ogni noioso accidente cacciatrice, sopra la innocente
Biancifiore, la quale ora per noiosa infermità pare che si disponga a rendervi
la graziosa anima. Sostengasi per vostra pietà la sua vita, e siale renduta la
perduta sanità, e la giovane età, nella quale essa dimora, prima di lei si
consumi. Non muoiano in una morte due amanti. O buono Apollo, o luminoso Febo
per cui ogni cosa ha vita, ascolta i miei prieghi! Non consentire che tanta
bellezza alla tua simigliante per mortal colpo al presente perisca. O Citerea,
o Diana, aiutate la vostra giovane. O qualunque iddio dimora nel celestiale
coro, sturbate la costei morte, acciò che io, a voi fedelissimo servidore,
viva. O Lachesis, tieni ferma l'ordita conocchia, composta da Cloto, tua fatale
sorella, non lasciare ancora il dilettevole uficio, dove sì corto affanno hai
infino a qui sostenuto. E tu, o morte, generale e infallibile fine di tutte le
cose, in cui la maggior parte della mia speranza dimora, quasi imaginando che
in te stia quella salute la quale io cerco, non mi consumare ferendo la mia
Biancifiore: dilungati da lei per li miei prieghi. In te sta il donarlami e il
torlami. Deh, non essere tuttavia crudele! Vincasi questa volta per prieghi la
tua fierezza, e pietosa ti volgi a riguardare con quanta umiltà i miei prieghi
ti sono porti, e riguarda quanta sia la noia che ricevo, se verso la bella
giovane incrudelisci. Oimè, che io nol posso dire, ma il mio aspetto tel dee
manifestare. Oimè, perdona, risparmiando un solo colpo, allo infinito valore
che dal mondo si partirebbe morendo questa. Perdona a tanta bellezza quanta
ella possiede: non si fugga per te tanta leggiadria quanta in costei si vede,
né si diparta per lo tuo operare il fedele amore che insieme lungamente ci ha
tenuti legati con pura fede, il quale a mano a mano se la ferissi, per lo tuo
medesimo colpo si ricongiugnerebbe. Ahimè, raffrena per Dio il tuo volere: leva
la pungente saetta che già in sul tuo arco mi pare vedere posta, per uccidere
colei in cui gl'iddii più di grazia che in alcuna altra posero. Sostieni che
nel mondo si vegga costei per mirabile essemplo delle celestiali bellezze. Se
alcuni prieghi ti deono fare pietosa, faccianti i miei, e questo sia sanza
alcuno indugio: io non temo niuna cosa se non te. Riguarda le mie lagrime e il
palido aspetto già dipinto della tua sembianza: sola questa grazia mi concedi, la
quale se dura t'è a concederlami, concedi che quella saetta che il tuo arco dee
nel dilicato petto di lei gittare, prima il mio trapassi, acciò che dopo il
trapassare della mia Biancifiore io non rimanga per doverti biasimare, e più la
tua crudeltà far manifesta nella poca vita che mi lascerai».
[59]
Mostravasi
già il cielo d'infiniti lumi acceso, quando così piangendo e parlando Florio
entrò in Marmorina: per la quale tacito e sanza niuna festa, maravigliandosi e
dubitando, passò infino che alle reali case pervenne. Nelle quali entrato con
la sua compagnia, e da cavallo smontati, e salendo su per le scale, la perfida
madre gli si fé incontro con dolente aspetto. A cui Florio, come la vide,
dimandò che di Biancifiore fosse, se migliorata era o come stava, ché egli
avanti venire non la si vedea. Alla cui domanda la madre niente rispose, ma
abbracciatolo, cominciò a lagrimare, e lui menò davanti al padre che nella gran
sala sedea, vestito di vestimenti significanti tristizia, tenendo crucciato
aspetto, con molta compagnia.
[60]
Levossi
lo iniquo re alla venuta del figliuolo, e fattoglisi incontro, lui teneramente
abbracciò e baciò, dicendo:
«Caro
figliuolo, assai mi sarebbe stato caro che ad altra festa la tua tornata fosse
stata, o almeno più sollicita, acciò che licito ti fosse stato di avere veduta
la vita in colei, la cui morte ora con pazienza ti conviene sostenere; e però
sì come savio, con forte animo ascolta le mie parole. E siati manifesto che la
bellissima Biancifiore è stata chiamata al glorioso regno, là ove le sante
opere sono guiderdonate. E in quello Giove e gli altri beati della sua andata
si rallegrano, i quali, invidiosi forse di tanto bene quanto noi per la sua
presenza sentivamo, l'hanno a loro fatta salire. E ben che ella lietamente viva
ne' nuovi secoli, a noi gravissima noia ne' cuori di tale partita è rimasa,
però che infinito amore le portavamo, sì per la virtù e per la piacevolezza di
lei, e sì per l'amore che sentivamo che tu le portavi. Ma però che nuova cosa
né inusitata è stata la sua partita, ma cosa la quale ogni giorno avvenire
veggiamo, e a noi similmente con forte animo aspettare la conviene sanza
speranza di poterla fuggire, ci conviene con pazienza tale accidente sostenere,
e prendere conforto: però che sapere dobbiamo che per greve doglia da noi
sostenuta non sarebbe a noi renduta la cara giovane. Adunque, caro figliuolo,
confortati, ché se gl'iddii ci hanno costei tolta, elli non ci hanno levato il
poterne una più bella cercare e averla. Noi te ne troveremo una la quale più
bella e di reale prosapia discesa sarà, e a te in luogo di Biancifiore per cara
sposa la congiungeremo. Certo ella nella sua vita, affannata da mortale
infermità e già presso al suo passare, ebbe tanta memoria di te, che, chiamati
me e la tua madre, con lagrime sopra le nostre anime puose che noi con ogni
sollecitudine ti dovessimo del suo trapassare rendere conforto, e pregarti che
per quello amore che tra te e lei era nella presente vita stato, che tu ti
dovessi confortare, e niente ti dolessi, però che ella si vedea grazioso luogo
apparecchiato ne' beati regni, ne' quali essendo, se le tue lagrime sentisse,
molto la sua beatitudine mancheresti. E questo detto, con pietoso viso, e col
tuo nome in bocca, rendé l'anima agl'immortali iddii: e però noi così te ne
preghiamo, e per parte di lei e per la nostra. Ella ha lasciati i mondani
affanni; non le volere porgere nuova pena, ché doppiamente offende chi contra
coloro opera, che dopo la loro morte sono beatificati. Confortati, e della sua
morte inanzi gioia che tristizia prendi, imaginando che ella in cielo, ove ora
dimora, di te e dell'amore, che mentre fu di qua ti portò, si ricorderà, per
merito del quale ragionando con gl'iddii delle tue virtù, li farà verso te
benivoli: la qual cosa sanza grandissimo bene di te non potrà essere».
[61]
Con
grandissima pena sostenne Florio le parole dello iniquo re, ma poi ch'egli si
tacque, Florio, gittata una grandissima voce, disse:
«Ahi,
malvagio re, di me non padre ma perfidissimo ucciditore, tu m'hai ingannato e
tradito!». E messesi le mani nel petto, dal capo al piè tutta si squarciò la
bella roba, e cadde in terra con le pugna serrate, e con gli occhi torti nel
viso sanza alcun colore rimaso, risomigliando più uomo morto che vivo. Ma dopo
picciolo spazio ritornato in sé, e alzata la testa di grembo alla madre,
incominciò a dire:
«O
iniquo re, perché l'hai uccisa? Che aveva la giovane commesso ch'ella meritasse
morte? Tu se' stato cagione della morte di lei, e ora credi con lusinghevoli
parole sanare la piaga che il tuo coltello m'ha fatta, la quale altro che morte
mai non sanerà. Ora se' contento, iniquo re! Omai hai quello che lungamente hai
disiderato: ma io ti farò tosto di tal festa tornare dolente!».
E
poi ricadde in grembo alla madre tramortito. E così piangendo e battendosi,
sanza volere udire alcun conforto da nullo che vi fosse, tutta la notte stette,
faccendo piangere chiunque il vedea, tanto era pietoso il suo parlare, che col
doloroso pianto mescolato faceva.
[62]
Era
la misera madre insieme con Florio piangendo, quando il nuovo giorno apparve, e
con alcune parole lui confortare non potea. A cui egli disse:
«Siami
mostrato il luogo ove la mia Biancifiore giace sanza anima».
A
cui la madre rispose:
«Come
vuoi tu andare in tale maniera a visitare la sepoltura di Biancifiore? Vuoi tu
far fare beffe di te? Rattempera il tuo dolore in prima, poi temperato quello,
v'andremo, ché certo niuna persona è che ora ti vedesse, che non credesse che
tu fossi del senno uscito: e io similemente sanza fine di te mi maraviglio, non
sappiendo onde questo si muova. Oimè misera, ora hai tu perduto ogni sentimento
a Montoro, che tu vuogli per una giovane di sì picciola condizione come fu Biancifiore,
consumarti e privarmi di te, così nobile figliuolo? Hai paura che un'altra
giovane non si truovi più bella di Biancifiore? Si farà! A' nostri regni non è
guari lontano il nobilissimo re di Granata, il quale si può gloriare della più
bella figliuola che mai niuno uomo del mondo avesse: ella sarà tua sposa, se tu
ti vuoi confortare».
A
cui Florio disse:
«Reina,
non volere porgere ora con lusinghevoli parole conforto colà dove con inganno
hai messa tristizia: folle è colui che per medico prende il nimico da cui
davanti è stato ferito a morte. Fammi mostrare dove giace colei cui uccisa
avete, e a cui l'anima mia si dee oggi accompagnare».
Piangendo
allora la reina, con lui, al quale niuno colore era nel viso rimaso, e i cui
occhi aveano per lo molto piangere intorno a sé un purpureo giro, e essi rossi
erano rientrati nella testa, e molti altri si mossero con loro, lui menando al
tempio. Al quale andando Florio, ovunque egli giungeva vedea genti piene di
dolore, e nuovo pianto facea cominciare, tanta era la pietà che 'l suo aspetto
porgeva a chi 'l vedeva. E dopo alquanto pervennero al tempio dove Giulia
sepulta stava, e dove le non vere scritte lettere significavano che quivi
Biancifiore morta giacesse.
[63]
Nel
qual tempio entrati, la reina mostrò a Florio la sepoltura nuova, e disse:
«Qui
giace la tua Biancifiore». La quale come Florio la vide, e le non vere lettere
ebbe lette, incontanente perduto ogni sentimento, quivi tra le braccia della
madre cadde, e in quelle semivivo per lungo spazio dimorò. Quivi corsa quasi
tutta la città, di doppio dolore compunti, faceano sì gran pianto e sì gran
romore, che se Giove allora gli spaventatori de' Giganti avesse mandati, non si
sariano uditi. Ciascuno era tutto stracciato e di lugubri veste vestito, e gli
uomini e le donne, e alcuni, ma quasi tutti, credeano Florio morto giacere
nelle braccia della reina: per la qual cosa il piangere Biancifiore aveano
lasciato, e tutti Florio miseramente piangeano. Ma poi che Florio fu per lungo
spazio così dimorato, il cuore rallargò le sue forze, e ritornate tutte per gli
smarriti membri, Florio si dirizzò in piè, e cominciò a piagnere
fortissimamente, e a gridare e a dire:
«Oimè,
anima trista, ove se' tu tornata? Tu ti cominciavi già a rallegrare, parendoti
essere da me disciolta e cercare nuovi regni. Oimè, perché hai tu tornato il
diletto che tu sentivi, parendoti che io fossi morto, in grieve noia,
rendendomi la vita? Ora di nuovo sento i dolori che la trista memoria aveva
messi in oblio, mentre che tu in forse fuori di me dimorasti».
E
appresso questo gittatosi sopra la nuova sepoltura, incominciò a dire:
«O
bellissima Biancifiore, ove se' tu? Quali parti cerca ora la tua bella anima?
Deh, tu solevi già con lo splendore del tuo bel viso tutto il nostro palagio di
dilettevole luce fare chiaro: come ora in picciolo luogo, tra freddi marmi, se'
costretta di patire noiosa oscurità! Misera la mia vita, che tanto sanza te
dura! O dilicati marmi, cui mi celate voi? Perché colei che più che altro
piacque agli occhi miei mi nascondete? Voi forse insieme col mio nimico padre,
invidiosi de' miei beni, mi celate quello che io più mi dilettai di vedere,
servando la natura d'Agliauro, con voi insieme d'una qualità tornata. Ma se
gl'iddii ancora vi concedano d'esser lieti ornamenti de' loro altari, apritevi,
e concedete che io vegga quel viso che già assai fiate, vedendolo, mi consolò;
il quale io vedutolo, possa contento prendere spontanea morte. Sostenete che
gli occhi miei nel picciolo termine della vita loro serbata abbiano questa sola
consolazione, poi che licito non fu loro, anzi ch'ella mutasse vita, rivederla.
O inanimato corpo, come non t'è egli possibile una sola volta richiamare la
partita anima, e levarti a rivedermi? Io l'ho dalla passata sera in qua
richiamata in me tante volte: richiamala tu una sola, e solamente la tieni
tanto che tu mi possi morendo vedere seguirti. Oimè, Biancifiore, quale
doloroso caso mi t'ha tolta? Deh, rispondimi, non ti odi tu nominare al tuo
Florio? Deh, qual nuova durezza è ora in te, che 'l mìo nome che ti solea
cotanto piacere non è da te ascoltato, né alle mie voci risposto? Come ha
potuto la morte tanto adoperare che il vero e lungo amore tra noi stato si sia
in poco di tempo partito? Oimè, giorno maledetto sii tu! Tu perderai insieme
due amanti. O Biancifiore, io, misero, fui della tua morte cagione! Io, o
misera Biancifiore, t'ho uccisa per la mia non dovuta partenza! Per ubidire al
mio nemico ho io perduta te, dolcissima amica! Oimè, che troppo amore t'è stato
cagione di morte! Io ti lasciai paurosa pecora intra li rapaci lupi. Ma, certo,
amore mi conducerà a simigliante effetto, e come io ti sono stato cagione di
morte, così mi credo ti sarò compagno. Io solo ti potea dare salute, la quale
omai da te avere non posso. Gl'iddii e la fortuna e 'l mio padre e la morte
hanno avuta invidia a' nostri amori. Io, o morte perfidissima, s'io credessi
che mi giovasse, il tuo aiuto dimanderei con benigna voce. Certo tu se' stata
in parte che essere dovresti pietosa e ascoltare i miseri; ma però che i miseri
e quelli che più ti chiamano sono più da te rifiutati, io con aspra mano ti
costrignerò di farti venire a me».
E
posta la destra mano sopra l'aguto coltello, incominciò a dire:
«O
Biancifiore, leva su, guatami: apri gli occhi avanti ch'io muoia, e prendi di
me quella consolazione che io di te avere non potei. Io ti farò fida compagnia.
Io per seguirti userò l'uficio della dolente Tisbe, avvegna che ella più
felicemente l'usasse ch'io non farò, in quanto ella fu dal suo amante veduta.
Ma io non farò così. Io vengo: riceva la tua anima la mia graziosamente, e
quello amore che tra noi nel mortale mondo è stato, sia nell'etterno».
Questo
detto, si levò di sopra la sepoltura, la quale delle sue lagrime tutta era
bagnata, e tratto fuori l'aguto ferro, dicendo:
«Il
misero titolo della tua sepoltura, o Biancifiore, sarà accompagnato di quello
del tuo Florio», si volle ferire con esso nello angoscioso petto. Ma la dolente
madre con fortissimo grido, preso il giovane braccio, disse:
«Non
fare Florio, non fare, tempera la tua ira, né non voler morire per colei che
ancora vive».
Il
romore si levò grandissimo nel tempio, e 'l pianto e le grida non lasciavano
udire niuna cosa. Ma poi che Florio da molti fu preso, e trattogli della
crudele mano l'aguto coltello, egli piangendo disse:
«Perché
non mi lasciate morire, poi che la cagione m'avete porta? Questa morte potrà indugiarsi
alquanto ma non fallire. Consentite innanzi ch'io muoia ora, ch'io viva con più
dolore infino a quel termine che, sanza essere tenuto, mi fia licito
d'uccidermi».
«O
caro figliuolo, perché il tuo padre e me e tutto il nostro regno tanto vuoi far
miseri? Confortati, che la tua Biancifiore vive».
A
cui Florio rivolto disse:
«Le
vostre parole non mi inganneranno più; con niuna falsità più potrete la mia
vita prolungare».
«Certo
- disse la reina - ciò che della sua morte abbiamo parlato, sanza dubbio è
stato falsamente detto: ma al presente noi non ti mentiamo».
«E
come poss'io credere - disse Florio - che voi ora diciate il vero, se per
adietro siete usati di mentire?».
Disse
la reina:
«Di
ciò veramente ci puoi al presente credere; e se ciò forse credere non volessi,
i tuoi occhi te ne possono rendere testimonianza, che questa che qui giace è
un'altra giovane, e non Biancifiore».
«E
come può questo - essere disse Florio - che tutta Marmorina piange la morte
sua, e ciascheduno rende testimonio d'averla veduta mettere in questo luogo?».
«Di
ciò non mi maraviglio io - disse la reina - che certo quelli che qui la misero
credono che ella sia. Ma noi per darti questo a credere, acciò che tu la
dimenticassi, demmo la voce che morta era Biancifiore, e una giovane morta in
quell'ora che tal voce demmo, tratta della sua sepoltura occultamente, ornata
de' vestimenti di Biancifiore, qui a sepellire la mandammo: e che questa sia
un'altra, com'io ti dico, tu il puoi vedere».
E
fatta aprire la sepoltura, a tutti si manifestò che questa non era Biancifiore,
ma un'altra giovane. «Adunque - disse Florio - Biancifiore dove è?».
«Ella
non è qui al presente - disse la reina; - ov'ella sia, andianne al nostro
palagio: io tel dirò».
«Certo,
io dubito ancora de' vostri inganni - disse Florio; - voi avete in alcuno altro
luogo sotterrata la giovane, e ora col darmi ad intendere che viva sia, e che
in altra parte mandata l'avete, volete la mia vita prolungare: ma ciò niente è
a pensare».
«Fermamente
- disse la reina - Biancifiore è viva. Partiamci di qui, che tutto ti dirà nel
nostro palagio come la cosa è andata sanza parola mentirti».
[64]
Allora
si levò in piè Florio con la reina e altra compagnia assai, e tornarono nel
loro palagio, dove il re doloroso a morte di queste cose, le quali tutte avea
sapute, trovarono. E quivi pervenuti, e trattisi tacitamente in una camera, la
reina così cominciò a dire a Florio:
«Noi,
il tuo padre e io, sentendo che in niuna maniera Biancifiore di cuore ti potea
uscire, ben che lontano le dimorassi, proponemmo di pur volere che ella di
mente t'uscisse, e fra noi dicemmo: "Già mai questa giovane del cuore non
uscirà a Florio mentre viverà, ma se ella morisse, a forza dimenticare gliele
converrà, vedendo che impossibile sia ad averla". E quasi deliberammo
d'ucciderla: poi per non volere essere nocenti sopra il giusto sangue di lei,
mutammo consiglio, e a ricchissimi mercatanti, venuti ne' nostri mari per
fortuna, fattigli qua venire, infinito tesoro la vendemmo loro, e essi ci promisero
di portarla in parte sì di qui lontana, che mai alcuna novella per noi se ne
sentirebbe. E come essi l'ebbero portata via, noi comandammo che la nuova
sepoltura fosse fatta, nella quale dando voce che Biancifiore era morta, con
occulto ingegno quella giovane che dentro vi vedesti vi facemmo mettere,
credendo fermamente che dopo alquante lagrime il tuo dolore insieme con lei
dimenticassi. E però a te, come a savio, sanza fare queste pazzie, le quali hai
da questa sera in qua fatte, ti conviene confortare, e fare ragione che mai
veduta non l'avessi, e lasciarla andare. Noi ti doneremo la più bella giovane
del mondo e la più gentile per compagna: quella t'imagina che sia la tua
Biancifiore».
[65]
Quando
Florio ebbe queste cose dalla madre udite, teneramente cominciò a piagnere, e
così alla madre disse:
«O
dispietata madre, ove è fuggito quello amore che a me, tuo unico figliuolo,
portar solevi? Quali tigre, quali leoni, quale altro animale inrazionale ebbe
mai tanta di crudeltà, che più benigno verso li suoi nati non fosse che tu non
se' verso di me? Come, poi che tu conoscevi l'amore che io portava a
Biancifiore, potesti mai tu consentire o pensare che sì vile cosa di lei si
facesse come fu venderla? Deh, ora ella t'era come figliuola, e tu come figliuola
la solevi trattare quando io c'era: or che ti fece ella che tu sì subitamente
incrudelire verso di lei dovessi? L'altre madri sogliono francare le serve
amate da' figliuoli, ma tu la libera hai fatta serva perché io l'amo. Oimè, che
il tuo cuore con quello del mio padre è tornato di ferro! Di voi ogni pietà è
fuggita. In voi niuna umanità si trova. A voi che facea se io amava
Biancifiore, o se ella amava me? Perché ne dovevate voi entrare in tanta
sollecitudine? Io credo che in te è entrato lo spirito di Progne o di Medea. Ma
la fortuna mi farà ancora vedere che il crudele vecchio e tu, vinti da focosa
ira di voi medesimi, con dolente laccio caricherete le triste travi del nostro
palagio, con peggiore agurio che Aragne non fece quelle del suo. E io ne farò
mio potere, rallegrandomi se la fortuna mi concede di vederlo e dirò allora che
mai gl'iddii niuna ingiusta cosa lasciano sanza vendetta trapassare. Voi prima
con ardente fuoco la morte della innocente giovane cercaste, la quale io con
l'aiuto degli iddii col mio braccio campai, punendo degnamente colui che di
tale torto, in servigio di mio padre, si facca difenditore: così avessi io con
la mia spada voi due puniti, quando in questo palagio lei paurosa vi rendei! Ma
certo, se allora ella fosse morta, io con lei moria. Ora l'avete venduta e
mandata in lontane parti, acciò che io pellegrinando vada per lo mondo. Ma
volessero i fati che ella fosse ora qui, che io giuro, per quelli iddii che mi
sostengono, che io più miseramente di qui partire vi farei che Saturno, da
Giove cacciato, non si partì di Creti! E allo ra provereste qual fosse l'andare
tapini per lo mondo, come a me converrà provare, infino a tanto ch'io ritruovi
colei la quale con tanti ingegni vi siete di tormi ingegnati. E certo se non
fosse che io non ho il cuore di pietra, come voi avete, io non vi lascerei di
dietro a me con la vita; ma non voglio che di tale infamia, pellegrinando, la
coscienza mi rimorda. Voi avete disiderata la mia morte, della quale poi che
gl'iddii non ve n'hanno voluti fare lieti, né io altressì ve ne credo
rallegrare, ma inanzi voglio lontano a voi vivere che presenzialmente della
morte rallegrarvi».
[66]
Faceva
la reina grandissimo pianto, mentre Florio diceva queste parole, dicendo:
«Oimè,
caro figliuolo, che parole son queste che tu di'? Cessino gi'iddii che tu possi
vedere di noi ciò che tu di' che ne disideri di vedere, avvegna che niuna
maraviglia sia del tuo parlare, imperciò che, sì come adirato, parli sanza
consiglio. Niuna creatura t'amò mai, o potrebbeti amare, quanto tuo padre e io
t'abbiamo amato e amiamo: e ciò che noi abbiamo fatto, solamente perché la tua
vita più gloriosa si consumi, che oramai non farà, l'abbiamo adoperato. Perché
dunque ci chiami crudeli e disideri la nostra morte? Maladetta sia l'ora che il
tuo padre assalì gl'innocenti pellegrini. Ora avesse egli almeno tra tanta
gente uccisa colei che nel suo ventre la nostra distruzione in casa ci recò!
Oh, ella niuna cosa disiderava tanto quanto la morte, e intra mille lance
stette, e niuna l'offese. I suoi iddii, più giusti che i nostri, non vollero
che tale ingiuria rimanesse impunita. Ora mi veggo venire adosso quello che
detto mi venne ignorantemente, quando la maladetta giovane per noi nacque, la
quale recandolami in braccio, dissi lei dovere essere sempre compagna e parente
di te. Ora il veggo venire ad essecuzione».
[67]
Il
re in un'altra camera dimorava dolente, in sé tutti i casi ripetendo dall'ora
che il misero Lelio avea ucciso infino a questa ora, maladicendo sé e la sua
fortuna; e ricordandosi di ciò che di Marmorina gli era stato contato, e del
morto cavaliere nel suo cospetto, le cui parole ritrovò mendaci, si pensò tutto
questo essere piacere degl'iddii, al volere de' quali niuno è possente a
resistere. E però in sé propose di volere per inanzi con più fero mezza d'animo
lasciare a' fati muovere queste cose, che per adietro non avea fatto. Ma
Florio, cambiato viso e mostrandolo meno dolente, lasciò la madre piangendo
nella camera, e, rivestito d'altre robe, venne nella gran sala, là ove egli
molti di tale accidente trovò che parlavano. Egli si fece quivi chiamare il
vecchio Ascalion e Parmenione e Menedon e Messaallino, a' quali elli disse
così:
«Cari
amici e compagni, quanta forza sia quella d'amore a niuno di voi credo occulta
sia, però che ciascuno, sì com'io penso, le sue forze ha provate. E là dove
questo non fosse, manifestare vi si puote, se mai di Elena, o della dolente
Dido, o dello sventurato Leandro e d'altri molti avete udito parlare: i quali
chi l'etterno onore con vituperevole infamia non curava d'occupare, chi di
perdere la propia vita si metteva in avventura per ervenire a' disiati effetti,
e chi una cosa e chi un'altra facea per venire al disiato fine. E ultimamente,
ove a tutti i detti essempli di sopra mancasse per lungo trapassamento di tempo
degna fede, in me misero si puote la sua inestimabile potenza conoscere, il
quale dagli anni della mia puerizia in qua ho tanto amato e amo Biancifiore,
che ogni essemplo ci sarebbe scarso. E certo in alcuno amore i fati non furono
mai tanto traversi quanto nel mio sono stati, però che sanza alcuno diletto
infinite avversità me ne sono seguite, e ora in quelle più che mai sono. E che
l'amore di Biancifiore abbia sopra me grandissima forza e muovami a grandi
cose, potrete appresso per le mie parole comprendere. Come io v'ho detto, dalla
mia puerizia fu Biancifiore amata da me: del quale amore non prima il mio padre
s'avvide, che sotto scusa di mandarmi a studiare, mandandomi a Montoro, da lei
mi dilungò, pensando che per lontanarmi ella si partisse del cuore, dove con
catena da non potere mai sciogliere la legò amore in quell'ora ch'ella prima mi
piacque. E questo non bastandogli, acciò che più intero il suo iniquo volere
fornisse, lei a morte falsamente fece condannare: ma gl'iddii che le mal fatte
cose non sostengono, prestandomi il loro aiuto, fecero sì che io di tal
pericolo la liberai. Della qual cosa il mio padre dolente, dopo lungo indugio
vedete quello che egli ha fatto: che egli lei, sì come vilissima serva, ha a'
mercatanti venduta, e mandatala non so in che parti. E perché questo non
pervenisse a' miei orecchi, falsamente mostrò che Biancifiore di subita
infermità morta fosse, un'altra giovane morta in forma di lei sotterrando:
della qual cosa io sono sanza fine turbato. E certo, se licito fosse di
mostrare la mia ira contro al mio padre e alla mia madre, io non credo che mai
di tale accidente tale vendetta fosse presa quale io prenderei! Ma non m'è
licito, e dubito che gl'iddii ver me non se ne crucciassero. Ora è mio intendimento
di già mai non riposare, infino a tanto che colei cui io più che altra cosa
amo, ritrovata avrò. Ciascun clima sarà da me cercato, e niuna nazione rimarrà
sotto le stelle la quale io non cerchi. Io sono certo che in quale che parte
ella sia, se non vi perverremo, la fama della sua gran bellezza cel
manifesterà, né ci si potrà occultare. Quivi, o per amore o per ingegno o per
denari o per forza intendo di rivoleria. E perciò ho io fatti chiamare voi, sì
come a me più cari, per caramente pregarvi che della vostra compagnia mi
sovegnate, e meco insieme volontario essilio prendiate: e massimamente te, o
Ascalion, le cui tempie già per molti anni bianchissime, più riposo che affanno
domandano, acciò che sì come padre e duca e maestro ci sii, però che tutti
siamo giovani, e niuno mai fuori de' nostri paesi uscì, e il cercare i non
conosciuti luoghi sanza guida ci saria duro. Né ti spiaccia la nostra giovane
compagnia, però che come figliuolo i tuoi passi divotamente seguirò. E in
verità questo, di che io e te e gli altri priego, il mio partire di qui, credo
che degl'iddii sia piacere, acciò che i miei giovani anni non si perdano in
accidiose dimoranze: con ciò sia cosa che noi non ci nascessimo per vivere come
bruti, ma per seguire virtù, la quale ha potenza di fare con volante fama le
memorie degli uomini etterne, così come le nostre anime sono. Adunque voi
ancora come me giovani, non vi sia grave, ma al mio priego vi piegate, e
qualunque di voi in ciò come fedele amico mi vuole servire liberamente di sì risponda,
sanza volermi mostrare che la mia impresa sia meno che ben fatta: ché quello
ch'io fo, io il conosco, e invano ci balestrerebbe parole chi s'ingegnasse di
farmene rimanere».
[68]
Tacque
Florio, e Ascalion così gli rispose:
«O
caro a me più che figliuolo, tu mostri nel fine delle tue parole di me avere
poca fidanza, e simile nel pregare che fai; di che io mi maraviglio. Certo non
che a' tuoi prieghi ma a' tuoi comandamenti, se la mia vecchiezza fosse tanta
che il bastone per terzo piede mi bisognasse, mai dalla tua signorevole
compagnia né da' tuoi piaceri mi partirei infino alla morte. Ben conosco come
amore stringe: e però muovati qual cagione vuole, che me per duca e per
vassallo mi t'offero a seguirti infino alle dorate arene dello indiano Ganges e
infino alle ruvide acque di Tanai, e per li bianchi regni del possente Borrea,
e nelle velenose regioni di Libia, e, se necessario fia, ancora nell'altro
emisperio verrò con teco. Le quali parti tutte cercate, dietro a te negli
oscuri regni di Dite discenderò, e se via ci sarà ad andare alle case de'
celestiali iddii, insieme con teco le cercherò, né mai da me sarai lasciato
mentre lo spirito starà con meco».
Così
appresso ciascuno degli altri giovani rispose, e si profersero lieti sempre al
suo servigio, dicendo di mai da lui non partirsi per alcuno accidente, e che
più piaceva loro per l'universo con lui affannare, che nel suo regno, sanza
lui, in riposo vivere. Allora li ringraziò Florio tutti, e pregolli che sanza
indugio ciascuno s'apprestasse di ciò che a fare avesse, ch'egli intendea con
loro insieme di partirsi al nuovo giorno vegnente appresso quello.
[69]
E
queste cose dette, se n'andò davanti al re, che dolente dimorava pensoso, e
così gli disse:
«Poi
che voi avete avuti gl'infiniti tesori, presi dalla venduta Biancifiore, più
cari che la mia vita o che la mia presenza, assai mi spiace, però che da voi
partire mi conviene, e andare pellegrinando infino a tanto che io truovi colei
cui voi con inganno m'avete levata, né mai nella vostra presenza spero di
ritornare se lei non ritruovo, la quale ritrovata, forse a voi con essa
ritornerò: priegovi che vi piaccia ch'io vada con la vostra volontà».
Udendo
il re queste cose, il suo dolore radoppiò, e non potendo le lagrime ritenere,
alzò il viso verso il cielo, dicendo:
«O
iddii, levimi per la vostra pietà la morte da tante tribulazioni! Non si
distendano più i giorni miei: troppo son vivuto! Chi avrebbe creduto ch'io
fossi venuto nell'ultima età ad affannare?».
Poi
rivolto a Florio così gli disse:
«O
caro figliuolo, che mi domandi tu? Tu sai che io non ho, né mai ebbi altro
figliuolo che te, e in te ogni mia speranza è fermata. Tu dei il mio grande
regno possedere, e la tua testa si dee coronare della mia corona. Tu vedi che
la mia vita è poca oramai, e i miei vecchi membri ciascuno cerca di riposarsi
sopra la madre terra: la quale vita se forse troppo ti pare che duri, prendi al
presente la corona. Oimè, or che cerchi tu, poi che a tanto onore se' apparecchiato?
Dove ne vuo' tu ire? Che vuo' tu cercare? E chi sarà colui, mentre che tu vivi,
che nell'ultimo mio dì degnamente mi chiuda gli occhi? Oimè, caro figliuolo,
dalla natività del quale in qua io ho sempre per te tribulazioni intollerabili
sostenute, concedi questa sola grazia a me vecchio. Fammi questa sola
consolazione, che io sopra la mia morte ti possa vedere. Statti meco quelli
pochi giorni che rimasi mi sono della presente vita. A te non si conviene
d'andare cercando quello che cercare vuoi: e se pur cercare vuoi colei, falla
cercare ad altri, o indugiati dopo la mia morte a ricercarla, però che male
sarebbe se io in quel termine che tu fuori del reame stessi, passassi ad altra
vita, e convenisse che tu fossi cercato».
[70]
Florio
allora così rispose:
«Padre,
impossibile è che io rimanga, e veramente io non rimarrò: io in persona sarà
colui che la cercherò; se voi mi concedete ch'io vada, io andrò, e se voi noi
mi concedete, ancora andrò. Dunque piacciavi ch'io vada con la vostra licenza,
acciò che io, della vostra grazia avendo buona speranza, se mai avviene che io
colei cui io vo cercando ritruovi, io possa con più sollecitudine e con
maggiore sicurtà tornare a voi. Né crediate che niuna grande impromessa che mi
facciate qui ritenere mi potesse, ché certo tutti i reami del mondo alla mia
volontà sommessi mi sarebbero nulla sanza Biancifiore. Se forse la mia partita
quanto dite vi grava, ciò, inanzi che voi la vendeste, dovavate pensare, acciò
che, vendendola, cagione non mi donaste di pellegrinare: però che conoscere
potevate me tanto amarla, che ove che voi la mandaste, io la seguirei. Gli
avvenimenti di dietro poco vagliono o niente».
[71]
Vedendo
il re Florio disposto pure ad andare, né potendolo con parole rivolgere da tale
intendimento, così gli disse:
«Caro
figliuolo, assai mi duole il non poterti da questa andata levare, e però ella
ti sarà conceduta, e con la mia grazia andrai; ma concedi a me e alla tua
madre, co' quali tu già è cotanto tempo non se' stato, che alquanti giorni
della tua dimoranza ci possiamo consolare, e poi con l'aiuto degl'iddii prendi
il cammino».
A
cui Florio rispose a ciò non essere disposto, però che troppo gli parea aver
perduto tempo, e però sanza indugio avea proposto di partirsi. A cui il re
disse:
«Figliuolo,
adunque oramai a te stia il partire; fermato ho nell'animo d'abandonarti a'
fati e di sostenere questo accidente, e ogni altro che di te per inanzi
m'avvenisse, con forte animo, però che quanto io per adietro a quelli ho voluto
con diversi modi resistere, tanto mi sono trovato più adietro del mio
intendimento, e vedute ho le cose pur di male in peggio seguire. Ma poi che
disposto se' all'andare, fa prendere tutti i tesori che della tua Biancifiore
ricevemmo, e degli altri nostri assai, e quelli porta con teco, e in ogni parte
ove la fortuna ti conduce fa che cortesemente e con virtù la tua magnificenza
dimostri: e appresso prendi de' cavalieri della nostra corte quelli che a te
piacciono, sì che bene sii accompagnato. E poi che rimanere non vuoi, va in
quell'ora che li nostri iddii in bene prosperino i passi tuoi, a' quali acciò
che più brieve affanno s'apparecchi, primieramente cercherai le calde regioni
d'Alessandria, però che a quelli liti i mercatanti che Biancifiore ne
portarono, quivi mi dissero di dovere andare. La quale se mai avviene che tu
ritruovi e che il tuo disio di lei s'adempia, o caro figliuolo, sanza rimanere
in alcuna parte ti priego che tosto a me ritorni, però che mai lieto non sarò
se te non riveggo. E se prima che tu torni si dividerà l'anima mia dal vecchio
corpo, dolente se n'andrà agl'infernali fiumi: la qual cosa gl'iddii priego che
nol consentano».
[72]
Fece
allora Florio prendere i molti tesori e fare l'apprestamento grande per montare
sopra una nave, posta nel corrente Adice, vicino alle sue case. Le quali cose
vedendo la reina uscì della sua camera, e bagnata tutta di lagrime venne a
Florio nella sala dove con li compagni dimorava, e disse:
«O
caro figliuolo, che è quello ch'io veggo? Hai tu proposto d'abandonarci così
tosto? Ove ne vuoi tu ire? Che vuoi tu andare cercando? Oimè, come così
subitamente ti parti tu da me? Non pensi tu quanto tempo egli è passato che io
non ti vidi, se non ora? E ora con tanta tristizia t'ho veduto, che se veduto
non t'avessi, mi sarebbe più caro! Deh, per amor di me, non ti partire al
presente. Non vedi tu le stelle Pliade, le quali pur ora cominciano a
signoreggiare? Aspetta il dolce tempo nel quale Aldebaran col gran pianeto
insieme surge sopra l'orizonte: allora Zeffiro levandosi fresco aiuterà il tuo
cammino, e il mare, lasciato il suo orgoglio, pacifico si lascerà navicare.
Deh, non vedi tu tempo ch'egli è? Tu puoi vedere ad ora ad ora il cielo
chiudersi con oscuro nuvolato, e, levandoci la vi sta de' luminosi raggi di
Febo, di mezzo giorno ne minaccia notte: e poi di quelli puoi udire solversi
terribilissimi tuoni e spaventevoli corruscazioni e infinite acque. E tu ora
vuoi i non conosciuti regni cercare, ne' quali se tu fossi, non saria tempo di
partirtene per tornare qui? Deh, or non ti muove a rimanere la pietà del tuo
vecchio padre, il quale vedi che del dolore che sente di questa partita si
consuma tutto? Non ti muove la pietà di me, tua misera madre, la quale ho de'
miei occhi per te fatte due fontane d'amare lagrime? Oimè, caro figliuolo,
rimani. Ove vuoi tu ire? Tu vuoi cercare quello che tu non hai, per lasciare
quello che tu possiedi, né forse avrai già mai! Tu vuoi cercare Biancifiore, la
quale non sai ove si sia: e se pure avvenisse che tu la trovassi, chi credi tu
che sia colui che a te forestiero e strano la rendesse? Non credi tu che le
belle cose piacciano altrui come a te? Chiunque l'avrà, la terrà forse non meno
cara che faresti tu. Lasciala andare, e diventa pietoso a stanza de' miei
prieghi. E se tu non vuoi di noi aver pietà, increscati di te medesimo e de'
tuoi compagni, e non vogliate in questo tempo abandonarvi alle marine onde, le
quali niuna fede servano, avvegna che esse con li loro bianchi rompimenti
mostrano le tempeste ch'elle nascondono; e i venti similemente sanza niuno
ordine trascorrono, ora l'uno ora l'altro, e fanno strani e pericolosi
ravolgimenti di loro in mare, e sogliono in questi tempi con tanta furia
assalire i legni opposti alle loro vie, che essi rapiscono loro le vele e gli
alberi con dannoso rompimento, e talora loro o li percuotono a' duri scogli, o
li tuffano sotto le pericolose onde. Temperati e rimanti di questa andata al
presente: la qual cosa se tu non farai, più tosto delle dure pietre e delle
selvatiche querce sarai da dire figliuolo, che di noi. E se a te e a' tuoi
compagni, i quali paurosi ti seguitano conoscendo questi pericoli, farai questo
servigio di rimanere, io m'auserò a sostenere la futura noia, pensando
continuamente che da me ti debbi partire, né mi sarà poi la tua andata sì
noiosa come al presente sarà, se subitamente m'abandoni. A cui Florio rispose:
«Cara
madre, per niente prieghi, e dell'audacia che hai di pregarmi mi maraviglio.
Fermamente, se io già col capo in quelli pericoli che tu m'annunzi mi vedessi,
io più tosto consentirei d'andare giuso e di morire in quelli, che di tornare
suso per dovere con voi rimanere, però che sì fattamente avete l'anima mia
offesa, che mai perdonato da me non vi sarà, infino a tanto che colei cui tolta
m'avete, io non riavrò. E però voi rimarrete, e io co' miei compagni, come la
rosseggiante aurora mostrerà domattina le sue vermiglie guance, ci partiremo
sopra la nostra nave, la quale forse ancora qui carica tornerà del mio disio».
[73]
Piangendo
allora la reina, che pur Florio fermo a tale andata vedea, così disse:
«Figliuolo,
poi che né priego né pietà ti può ritenere, prendi questo anello, e teco il
porta, e ognora che 'l vedi della tua misera madre ti ricordi. Egli fu dello
antichissimo Giarba re de' Getuli, mio antico avolo: e acciò che tu più caro il
tenghi, siati manifesto ch'egli ha in sé mirabili virtù. Egli ha potenza di
fare grazioso a tutte genti colui che seco il porta, e le cocenti fiamme di
Vulcano fuggono e non cuocono nella sua presenza, né è ricevuto negli ondosi
regni di Nettunno chi seco il porta. Il mio padre, pacificato col tuo, quando a
lui per isposa mi congiunse, il mi donò acciò che graziosa fossi nel suo
cospetto. Egli ti potrà forse assai valere se 'l guardi bene. Priegoti che, se
vai, il tornare sia tosto: e priego quelli iddii, i quali, vinti da' molti
prieghi, graziosamente ti ci donarono, che essi ti guardino e conservino
sempre, e a noi tosto con alle grezza ti rendino».
Prese
Florio l'anello, e quello per caro dono ritenne; e lei lasciata, a' suoi
compagni si ritornò.
[74]
Sentì
Ferramonte, duca di Montoro, di presente lo 'nganno fatto a Florio, e la
partenza che fare dovea de' suoi regni; onde egli chiamato Fineo, valoroso
giovane e suo nipote, la signoria di Montoro infino alla sua tornata gli
assegnò, e sanza niuno dimoro a Marmorina se ne venne a Florio. Il quale, lui
e' compagni trovati, narrata la cagione della sua venuta, pregò Florio che in
compagnia gli piacesse di riceverlo in tale affare. Il quale Florio ringraziò
assai, e lui per compagno benignamente ricolse, pregandolo ch'egli
s'apprestasse per venire il seguente giorno.
[75]
Acconci
i molti arnesi e' gran tesori nella bella nave, e Florio e' suoi compagni e'
servidori tutti di violate veste vestiti, e i corredi della ricca nave e i
marinari similemente, la notte sopravenne. E i sei compagni per riposarsi in
una camera insieme se n'andarono, nella quale del loro futuro cammino entrati
in diversi ragionamenti, Florio così comincio a parlare:
«Cari
amici, quanto la potenza del mio padre sia grande è a tutto il mondo manifesto,
e similemente che io gli sia figliuolo, e il grande amore che io ho portato e
porto a Biancifiore è da molti saputo: per la qual cosa nuovo dubbio m'è
nell'animo nuovamente nato. Noi non sappiamo certamente in che parte
Biancifiore sia stata portata, né alle cui mani ella sia venuta, onde io dico
così: s'egli avvenisse che noi forse portati dalla fortuna pervenissimo là ove
Biancifiore fosse, tale persona la potrebbe avere, che sentendo il mio nome, di
noi dubiterebbe e lei occultamente terrebbe infino che nel luogo dimorassimo, e
massimamente i mercatanti, che di qui la portarono. E se forse lei possente
persona tenesse, sentendomi nel suo paese, ragionevolemente m'avrebbe sospetto,
e di quello o mi caccerebbe, o in quello forse occultamente m'offenderebbe, o
lei guardando da' nostri agguati, con maggiore guardia servirebbe: per la quale
cosa, acciò che 'l mio nome non possa porgere ad alcuni temenza, o insidie a
noi, mi pare che piu non si deggia ricordare, ma che in altra maniera mi
deggiate chiamare; e il nome il quale io ho a me eletto è questo: Filocolo. E
certo tal nome assai meglio che alcuno altro mi si confà, e la ragione per che,
io la vi dirò. Filocolo è da due greci nomi composto, da "philos"
e da "colon"; e "philos" in greco tanto viene
a dire in nostra lingua quanto "amore" e "colon" in
greco similemente tanto in nostra lingua risulta quanto "fatica":
onde congiunti insieme, si può dire, trasponendo le parti, fatica d'amore. E in
cui più fatiche d'amore sieno state o sieno al presente non so: voi l'avete
potuto e potete conoscere quante e quali esse siano state. Sì che, chiamandomi
questo nome, l'effetto suo s'adempierà bene nella cosa chiamata, e la fama del
mio nome così s'occulterà, né alcuno per quello spaventeremo: e se necessario
forse in alcuna parte ci fia, il nominare dirittamente non ci è però tolto».
Piacque
a tutti l'avviso di Florio e il mutato nome, e così dissero da quell'ora in
avanti chiamarlo, infino a tanto che la loro fatica terminata fosse con
grazioso adempimento del loro disio.
[76]
Mentre
la notte con le sue tenebre occupò la terra, i giovani si riposarono, e la
mattina levati, accesero sopra gli altari di Marmorina accettevoli sacrificii
al sommo Giove, a Venere, a Giunone, a Nettunno e ad Eolo e a ciascuno altro
iddio, pregandoli divotamente che per la loro pietà porgessero ad essi grazioso
aiuto nel futuro cammino. E fatti con divozione i detti sacrificii,
s'apparecchiarono per montare sopra l'adorno legno con la loro compagnia nobile
e grande. Ma venuti alla riva del fiume, videro quello con torbide onde più
corrente che la passata sera non era: per la qual cosa mutato consiglio,
comandarono a' marinari che la nave menassero nel porto d'Alfea, e quivi li
attendessero. E essi, fatti venire i cavalli, e montati, con molte lagrime dal
re e dalla reina, e dagli amici, e da' parenti, dando le destre mani, dicendo
addio, si partirono; e lasciata Marmorina, al loro viaggio presero il meno
dubbioso cammino.
LIBRO
QUARTO
[1]
Il
volonteroso giovane, abandonate le sue case con poco dolore, sollecita i passi
de' compagni, seguendo quelli d'Ascalion, ammaestratissimo duca del loro
cammino: ma i fati da non poter fuggire volsero in arco la diritta via. E
primieramente venuti alla guazzosa terra ove Manto crudissima giovane lasciò le
sue ossa con etterno nome, passarono oltre per lo piacevole piano. Ma, poi che
dietro alle spalle s'ebbero le chiare onde di Secchia lasciate, e saliti sopra
i fronzuti omeri d'Appennino, e discesi di quelli, essi si trovarono nel
piacevole piano del fratello dello imperiale Tevero, vicini al monte donde gli
antichi edificatori del superbo Ilion si dipartirono. Quivi s'apersero gli occhi
d'Ascalion, e forte si maravigliò della travolta via, ignorando ove i fortunosi
casi li portassero; ma sanza parlarne a' compagni, passando allato alle
disabitate mura di Iulio Cesare e da' compagni costrutte negli antichi anni,
per uno antico ponte passarono l'acqua. Né però verso Alfea diritto cammino
presero, avvegna che picciolo spazio la loro via forse per più sicurtà elessero
più lunga, o che gl'iddii, a cui niuna cosa si cela, volonterosi a tal cammino
li dirizzassero; e pervennero nella solinga pianura, vicina al robusto cerreto
nel quale fuggito s'era il misero Fileno. E quivi trovandosi, l'acque venute
per subita piova dalle vicine montagne, ruvinosa avanzò i termini del picciolo
fiume che a piè dell'alto cerreto correa, e di quelli abondevolmente uscì
allagando il piano: onde costretti furono a tirarsi sopra il cerruto colle,
forse di maggiore pericolo dubitando. E quivi tirandosi, di lontano videro tra
gli spogliati rami antichissime mura, alle quali, forse imaginando che
abitazione fosse, s'accostarono, e entrarono in quelle; né più tosto vi furono,
che il luogo essere stato tempio degli antichi iddii conobbero. Quivi piacque a
Filocolo di fare sacrificii a' non conosciuti e strani iddii, poi che i fati
nel tempio recati li aveano: e fatte levare l'erbe e le fronde e' pruni,
cresciute per lungo abuso sopra il vecchio altare, e similemente le figure
degl'iddii con pietosa mano ripulire e adornare di nuovi ornamenti, domandò che
un toro gli fosse menato. E vestito di vestimenti convenevole a tale uficio,
fece sopra l'umido altare accendere odorosi fuochi; e con le propie mani ucciso
il toro, le interiora di quello per sacrificio nell'acceso fuoco divotamente
offerse; e poi inginocchiato davanti all'altare, con divoto animo incominciò
queste parole:
«O
sommi iddii, se in questo luogo diserto n'abita alcuno, ascoltate i prieghi
miei, e non ischifi la vostra deità il modo del mio sacrificare, il quale non
forse con quella solennità che altre volte ricevere solavate, è stato fatto;
ma, riguardando alla mia purità e alla buona fede, il ricevete, e a' miei
prieghi porgete le sante orecchi. Io giovane d'anni e di senno, oltre al dovere
innamorato, pellegrinando cerco d'adempiere il mio disio, al quale sanza il
vostro aiuto conosco impossibile di pervenire, onde meriti la divozione avuta
nel vecchio tempio, e l'adornato altare, e gli accesi fuochi con gli offerti
doni, che io da voi consiglio riceva del mio futuro cammino, e, con quello,
aiuto alla mia fatica».
Egli
non aveva ancora la sua orazione finita, ch'egli sentì un mormorio grandissimo
per lo tempio, soave come pietre mosse da corrente rivo, il quale dopo picciolo
spazio si risolveo in soave voce, né vide onde venisse, e così disse:
«Non
è per lo insalvatichito luogo mancata la deità di noi padre di Citerea
abitatore di questo tempio, a cui tu divotamente servi, e dalla quale costretti
siamo di darti risponso; e però che con divoto fuoco hai i nostri altari
riscaldati, lungamente dimorati freddi, molto maggiormente meriti d'avere a'
tuoi divoti prieghi vera risponsione de' futuri tempi, e però ascolta. Tu,
partito domane di questo luogo, perverrai ad Alfea: quivi la mandata nave
t'aspetta, nella quale dopo gravi impedimenti perverrai nell'isola del fuoco, e
quivi novelle troverai di quello che vai cercando. Poi, quindi partitoti,
perverrai dopo molti accidenti nel luogo ove colei cui tu cerchi dimora, e là
non sanza gran paura di pericolo, ma sanza alcun danno, la disiderata cosa
possederai. Onora questo luogo, però che quinci ancora si partirà colui che i
tuoi accidenti con memorevoli versi farà manifesti agli ignoranti, e 'l suo
nome sarà pieno di grazia».
Tacque
la santa voce; e Filocolo, d'ammirazione e di letizia pieno, tornò a' compagni,
e loro il consiglio degl'iddii ordinatamente recitò; e di questo contenti tutti
a prendere il cibo nel salvatico luogo si disposero.
[2]
Era
nel non conosciuto luogo davanti al vecchio tempio un pratello vestito di
palida erba per la fredda stagione, nel quale una fontana bellissima si vedea,
alle cui onde la piovuta acqua niente aveva offeso, ma chiarissime dimoravano,
e nel mezzo di quella a modo di due bollori si vedea l'acqua rilevare. Alla
quale Filocolo, uscito del tempio, e appressandosili, gli piacque, così chiara
vedendola, e divenne disideroso di bere di quella, e fecesi un nappo d'argento
apportare; e con quello dall'una delle parti si bassò sopra la fontana per
prenderne, e, bassato, col nappo alquanto le chiare onde dibatté. E questo
faccendo, vide quelle gonfiare, e fra esse sentì non so che gorgogliare, e dopo
picciolo spazio il gorgogliare volgersi in voce e dire:
«Bastiti,
chi che tu sii che le mie parti molesti con non necessario ravolgimento, che io
sanza essere molestato, o molestarti, mitigo la tua sete, né perisca il
fraternale amore per che io, che già fui uomo, sia ora fonte».
A
questa voce Filocolo tutto stupefatto tirò indietro la mano, e quasi che non
cadde, né i suoi compagni ebbero minore maraviglia; ma dopo alquanto spazio,
Filocolo rassicuratosi così sopra la chiara fonte parlò:
«O
chi che tu sii, che nelle presenti onde dimori, perdonami se io t'offesi, ché
non fu mio intendimento, quando per le tue parti sollazzandomi menava il mio
nappo, d'offendere ad alcuno. Ma se gl'iddii da tal molestia ti partano e le
tue onde lungamente chiare conservino, non ti sia noia la cagione per che qui
relegato dimori narrarci, e chi tu se', e come qui venisti e onde, acciò che
per noi la tua fama risusciti, e, i tuoi casi narrando, di te facciamo ancora
molte anime pietose, se pietà meritano i tuoi avvenimenti».
[3]
Tacque
Filocolo, e l'onde tutte s'incominciarono a dimenare, e dopo alquanto spazio,
una voce così parlando uscì del vicino luogo a' due bollori:
«Io
non so chi tu sii, che con così dolci parole mi costringi a rispondere alla tua
domanda; ma però che maravigliare mi fai della tua venuta, non sarà sanza
contentazione del tuo disio, solo che ad ascoltarmi ti disponghi. E però che
più mia condizione ti sia manifesta, dal principio de' miei danni ti narrerò i
miei casi. E sappi ch'io fui di Marmorina, terra ricchissima e bella e piena di
nobilissimo popolo, posseduta da Felice, altissimo re di Spagna, e il mio nome
fu Fileno, e giovane cavaliere fui nella corte del detto re. Nella quale corte
una giovane di mirabilissima bellezza, il cui nome era Biancifiore, con la luce
de' suoi begli occhi mi prese in tanto il cuore del suo piacere, che mai uomo
di piacere di donna non fu sì preso. Niuna cosa era che io per piacerle non
avessi fatto, e già molte cose feci laudevoli per amor di lei. Io ricevetti da
lei, un giorno che la festività di Marte si celebrava in Marmorina, un velo col
quale ella la sua bionda testa copriva, e quello per sopransegna portato nella
palestra, sopra tutti i compagni per forza ricevetti l'onore del giuoco. E da
Marmorina partitomi andai a Montoro, dove un figliuolo del detto re chiamato
Florio dimorava; e quivi in sua presenza i miei amorosi casi narrai, ignorando
che esso Biancifiore più che altra cosa amasse, come poi detto mi fu che esso
facea: per le quali cose narrate meritai a torto d'essere da lui odiato. Queste
furono principali cagioni de' miei mali, però che, se io fossi taciuto, ancora
in Marmorina dimorerei, contentandomi di poter vedere quella bellezza per la
quale ora lontano in altra forma dimoro. Ma non essendo io ancora di Marmorina
partito, poco tempo appresso della fatta narrazione, Diana, pietosa del crudele
male che mi si apparecchiava, in sonno mi fece vedere infinite insidie poste da
Florio alla mia vita, e similemente mi fece sentire i colpi che la sua spada e
quelle de' suoi compagni s'apparecchiavano di dovermi dare. Le quali cose
vedute, narrandole poi io ad un mio amico, il quale de' segreti di Florio
alcuna cosa sentiva, m'avverò quello che veduto aveva essermi sanza alcun fallo
apparecchiato, se io di Marmorina non mi partissi. Seguitai adunque il
consiglio del mio amico, e abandonata Marmorina, e cercati molti luoghi, e
pervenuto qui, mi piacque qui di finire la mia fuga e di pigliare questo luogo
per etterno essilio: e ancora mi parve solingo e rimoto molto, onde io imaginai
di poterci sanza impedimento d'alcuni nascosamente piangere l'abandonato bene;
e così lungamente il piansi. Ma per le mie lagrime, non per l'essere lontano,
mancava però il verace amore ch'io portava e porto in colei che più bella che
altra mi parea, anzi più ciascun giorno mi costringeva e molestava molto.
Laonde io un giorno incominciai con dolenti voci a pregare gl'iddii del cielo e
della terra e qualunque altri che i miei dolori terminassero, e infinite volte
domandai e chiamai la morte, la quale impossibile mi fu di potere avere. Ma
pure pietà del mio dolore vinse gl'iddii, li quali chiamando, come io ho detto
che faceva, sedendo in questo luogo, mi sentii sopra subitamente venire un
sudore e tutto occuparmi, e, dopo questo, ciò che quello toccava in quello
medesimo convertiva, e già volendomi con le mani toccare e asciugare quello, né
la cosa disiderata toccava, né la mano sentiva l'usato uficio adoperare, ma mi
sentiva nel muovere de' membri e nel toccarsi insieme né più né meno come
l'onde cacciate l'una dal vento e l'altra dalla terra insieme urtarsi: per che
io incontanente me conobbi in questi liquori trasmutato, e mi sentii occupare
questo luogo, il quale io poi con la gravezza di me medesimo ho più profondo
occupato. E così trasmutato, solo il conoscimento antico e il parlare
dagl'iddii mi fu lasciato. Né mai mancarono lagrime a' dolenti occhi, i quali
nel mezzo di questa posti, da essi, come da due naturali vene, surge ciò che
questa fontana tiene fresca, come voi vedete. E quella verdura sottile, che in
alcuna parte cuopre le chiare onde, fu il velo della bella giovane col quale io
coperto m'era quel giorno che con tanto effetto la morte disiderava, acciò che
sotto la sua ombra, pensando di cui era stato, mi fosse più dolce il morire: e,
come vedete, ancora mi cuopre, e emmi caro. Ora hai per le mie parole potuto
tutto il mio stato comprendere, il quale io quanto più brievemente ho potuto
t'ho dichiarato: non ti sia dunque grave manifestarmi a cui io mi sia
manifestato».
[4]
Ascoltando
Filocolo le parole di Fileno, si ricordò lui di tutto dire la verità, e
cominciò quasi per pietà a lagrimare, e così gli rispose:
«Fileno,
pietà m'ha mosso de' tuoi casi a lagrimare; e certo io soverrò al tuo domando,
poi che al mio se' stato cortese, e non sanza consolazione delle tue lagrime
ascolterai le mie parole. E primieramente ti sia manifesto che io mi chiamo
Filocolo, e sono di paese assai vicino alla tua terra, nato di nobili parenti,
e per quello signore per lo quale tu in lagrime abondi e in dolore, io
similemente pellegrinando d'acerbissima doglia pieno vo per lo mondo. Quel
Florio, il quale tu mi nomini, io il conosco troppo bene, e non ha guari che io
il vidi, e con lui parlai, e tanto dolente per le parole sue essere il
compresi, che mai sì doloroso uomo non vidi. Ma certo egli, per quello ch'io intendessi,
ha ben ragione di vivere dolente, però che il re suo padre quella bella giovane
Biancifiore, la quale tu già amasti, vendé a' mercatanti sì come vilissima
serva. I quali mercatanti lei sopra una loro nave trasportarono via, e dove non
si sa: per la qual cosa egli, non sappiendo che si fare, muore a dolore. Onde
se egli a te nuocere voleva, di tale ingiuria gl'iddii l'hanno ben pagato,
avvegna che la tua fuga gli spiacque e fugli noia. E però non pur crescere in
angoscia, ma, con ciò sia cosa che a te siano molti compagni e in simiglianti
affanni, e io sia uno di quelli, confortati, sperando che quella dea che dalle
insidie di Florio ti levò, così come agevole le fu a rendere lo sbranato
Ipolito vivo con intera forma, così te nel pristino stato potrà a' suoi servigi
recandoti, rintegrare».
[5]
La
chiara fonte, finite le parole di Filocolo, tutta enfiò, e con le sue onde
passò gli usati termini, producendo un nuovo soffiare, ma più a Filocolo non
parlò, il quale lungamente alcuna parola attese. Ma poi che per lungo spazio fu
dimorato, e quella riposata vide sì come quando prima col nappo mossa l'avea,
egli si dirizzò, e con li compagni suoi, di questa cosa tutti maravigliando si,
incominciarono a ragionare, dolendo a ciascuno del misero avvenimento di
Fileno, dicendo:
«O
quanto è dubbiosa cosa nella palestra d'Amore entrare, nella quale il
sottomesso arbitrio è impossibile da tal nodo slegare, se non quando a lui
piace. Beati coloro che sanza lui vita virtuosa conducono, se bene guardiamo i
fini a' quali egli i suoi suggetti conduce. Chi avrebbe ora creduto nel
salvatico paese trovare Fileno convertito in fontana di lagrime, il quale fu il
più gaio cavaliere e il più leggiadro che la nostra corte avesse? Chi potrebbe
pensare Filocolo, figliuolo unico dell'alto re di Spagna, essere per amore
divenuto pellegrino, e andare cercando le strane nazioni poste sotto il cielo,
e ora in questo luogo trovarsi in questo tempo?».
A
questo rispose Filocolo dicendo:
«L'essere
venuto qui m'è assai caro; né per alcuna cosa vorrei non esserci stato, però
che mirabile cosa e da notare abbiamo veduta nel diserto luogo, il quale n'è
stato dagl'iddii comandato d'onorare, e detto il perché. E certo io non so in
che atto io il possa avanti di più onore accrescere che io m'abbia fatto,
rinnovando il santo tempio e il suo altare».
A
cui Ascalion disse:
«Noi
andremo secondo il santo consiglio, e fornito il nostro cammino e ricevuta la
cercata cosa, nel voltare de' nostri passi il tornar qui non ci falla, e allora
quello onore che in questo mezzo avremo ne' nostri animi diliberato di fare,
faremo agl'iddii e al luogo, però che gl'iddii, solleciti a' beni dell'umana
gente niuna utilità per i nostri doni ci concedono; ma poi ch'elli hanno le
dimandate cose a' dimandanti concedute, dilettansi e è loro a grado che i
ricevitori in luogo di riconoscenza offerino graziosi doni e rendano debiti
onori alle loro deità, mostrandosi grati del ricevuto beneficio. E però, come
dissi, nel nostro tornare, ricevute le disiate cose, ci mostreremo conoscenti
del ricevuto consiglio, onorandolo come si converrà».
[6]
Questo
consiglio a tutti piacque, e tutto quel giorno e la notte quivi dimorarono
sanza più molestare la misera fontana; e la vegnente mattina, secondo
l'ammaestramento dello strano iddio, mancate l'abondanti acque che il solingo
piano aveano il preterito giorno allagato, presero il cammino, per lo quale
sollecitamente pervennero ad Alfea e a' suoi porti, avanti che l'occidentale
orizonte fosse dal sole toccato. Quivi la mandata nave quasi in un'ora con loro
insieme trovarono essere venuta: di che contenti, sperando per quello le cose
più prospere nel futuro, su vi montarono sanza alcuno indugio, e a'
prosperevoli venti renderono le sanguigne vele, comandando che all'isola del fuoco
il cammino della nave si dirizzasse. Eolo aiutava con le sue forze il nuovo
legno, e lui con Zeffiro a' disiati luoghi pingeva, e Nettunno pacificamente i
suoi regni servava: onde Filocolo e' suoi compagni contenti al loro cammino
sanza affanno procedeano. Ma la misera fortuna, che niuno mondano bene lascia
gustare sanza il suo fele, non consentì che lungamente questa fede fosse a'
disiosi giovani servata; ma, avendo già costoro dopo il terzo giorno assai
vicini al luogo ove, quando nella nave entrarono, aveano diliberato di
riposarsi, riposti, le bocche di Zeffiro richiuse e diede a Noto ampissima via
sopra le salate acque: e Nettunno in se medesimo tutto si commosse con
ispiacevol mutamento. Onde dopo poco spazio i giovani, non usi di queste cose, quasi
morti in tale affanno, sanza ascoltare alcun conforto, nella nave si
riputavano.
[7]
Erasi
Noto con focoso soffiamento d'Etiopia levato, volendo già il giorno dare luogo
alla notte, e avea l'emi sperio tutto chiuso d'oscurissimi nuvoli, minacciando noiosissimo
tempo: e i marinari di lontana parte vedeano il mare aver mutato colore. Ma poi
che il giorno fu partito, i marinari, da doppia notte occupati, non vedeano che
si fare. Elli s'argomentavano quanto potevano di prendere alto mare e di
resistere alla sopravegnente tempesta per li veduti segni; ma mentre che gli
argomenti utili alla loro salute si prendeano, subitamente incominciò da'
nuvoli a scendere un'acqua grandissima, e 'l vento a multiplicare in tanta
quantità, che levate loro le vele e spezzato l'albero, non come essi voleano,
ma come a lui piaceva, li guidava. E li mari erano alti a cielo e da ogni parte
percoteano la resistente nave, coprendo quella alcuna volta dall'un capo
all'altro: e già tolto avea loro l'uno de' timoni, e dell'altro stavano in
grandissimo affanno di guardare. E il cielo s'apriva sovente mostrando
terribilissimi e focosi baleni con pestilenziosi tuoni, i quali, in alcuna
parte colti della nave, n'aveano tutte le bande mandate in mare: laonde tutti i
marinari dopo lunga fatica, e combattuti dal vento e dalla sopravegnente acqua
e da' tuoni, il potersi aiutare, o loro o la nave, aveano perduto, e chi qua e
chi là quasi morti sopra la coperta della nave prostrati giaceano vinti; e
quasi ogni speranza di salute, per lo dire de' padroni e per le manifeste cose,
era perduta. Né ancora la notte mezze le sue dimoranze avea compiute, né il
tempo facea sembianti di riposarsi, ma ciascuna ora più minaccevole proffereva
maggiori danni con le sue opere: onde niuno conforto né a Filocolo né ad alcuno
che vi fosse era rimaso, se non aspettare la misericordia degl'iddii.
[8]
Multiplicava
ciascuna ora alla sconsolata nave più pericolo, e ancora che il romore e del
mare e de' venti e de' tuoni e dell'acque fosse grandissimo, ancora il faceano
molto maggiore le dolenti voci de' marinari, le quali alcune in ramarichii,
altre in prieghi agl'iddii che gli dovessero atare dolorosissime delle loro
bocche procedeano, conoscendo il pericolo in che erano. Le quali cose Filocolo
per lungo spazio avendo vedute, e a quelle e conforto e aiuto co' suoi compagni
avea porto quanto potuto avea, vedendo la loro salute ognora più fuggire, con
gli altri insieme quasi disperato piangendo s'incominciò a dolere, dicendo
così:
«O
fortuna, sazia di me omai la tua iniqua volontà. Assai ti sono stato trastullo,
assai hai di me riso, ora in alto e ora in basso stato. Non penare più di
recarmi a quell'ultimo male che continuamente hai disiderato: fallo tosto. Non
m'indugiare più la morte, poi che tu la mi disideri: ma se esser puote, io solo
la morte riceva, acciò che costoro, i quali per me ingiustamente i tuoi assalti
ricevono, non sofferiscano sanza peccato pena. I tuoi innumerabili pericoli
tutti, fuori che questo, m'hai fatti provare, e in questo, il quale ancora non
avea provato, ogni tua noia si contiene: sia adunque questo, sì come maggiore,
a me per fine riserbato nelle mie miserie. A questa niuna cosa peggiore mi può
seguire se non morte. Io la disidero: mandalami, acciò che gli altri campino, e
la tua voglia s'adempia e i miei dolori si terminino. Sazisi ora ogni tua
voglia, e in questo finiscano le tue fatiche e i miei danni. O miseri parenti
rimasi sanza figliuolo, confortatevi, ché più aspro fine gli seguita che voi
non gli dimandavate: egli è ora nelle reti tese da voi miseramente incappato.
Le vostre operazioni questa notte avranno fine e la vostra letizia non vedrà il
morto viso, il quale vivo invidiosi lagrimato avete. Solo in questo m'è benigna
la fortuna, e in questo la ringrazio, che sì incerta sepoltura mi donerà, che
né vivo né morto mai a' vostri occhi mi ripresenterò: per che se mi odiate,
come le vostre operazioni hanno mostrato, sanza consolazione in dubbio viverete
della mia vita; se mi amate, come figliuolo da' parenti dee essere amato, la
fortuna, rapportatrice de' mali, morto mi vi paleserà sanza indugio, e allora
potrete conoscere voi debita pena portare del commesso male. Ma la mia
oppinione sola questa consolazione ne porterà con l'anima al leggero legnetto
d'Acheronte, pensando che la vostra vecchiezza in dolore si consumerà, la quale
non consentì che io lieti usassi i miei giovani anni. O Nettunno, perché tanto
t'affanni per avere la mia anima? Cuopri la trista nave se possibile è, e me
solo in te ne porta. Finisci il tuo disio e le mie pene a un'ora: non nuoccia
il mio infortunio agl'innocenti compagni».
E
poi ch'egli aveva per lungo spazio così detto, e egli con più pietosa voce
alzava il viso mirando il turbato cielo, e diceva:
«O
sommo Giove, venga la tua luce alla sconsolata gente, per la quale i non
conosciuti cammini del tuo fratello ci si manifestino, e aiuta il tuo popolo
che solo in te spera, e, sanza guardare a' nostri meriti, con pietoso aspetto
alla nostra necessità ti rivolgi, e se licito non ci è di potere la dimandata
isola prendere con le nostre ancore, prenda la già non nave, sanza pericolo di
noi, qualunque altro porto. Umilia il tuo fratello a cui niuna ingiuria facemmo
mai, muovasi la tua pietà a' nostri prieghi, né resistano i commessi difetti, i
quali sì come uomini continui adoperiamo. E tu, o santo iddio, a cui non ha tre
dì passati, o forse quattro, feci debiti sacrificii, aiutaci, e la 'mpromessa
fatta dalla santa bocca non la mettere in oblio. Non si conviene agl'iddii
essere fallaci, né possibile è che siano; ma cessi che così la tua promessa mi
sia attenuta, come quella di Giove fu a Palinuro. Io non men tosto disidero di
prendere altri liti, se possibile non è d'avere questi, che per tal maniera la
promessione ricevere. O santa Venus, aiutami nel tuo natale luogo. Non mi far
perire là ove tu nascesti e dove tu più forza che in altra parte dei avere.
Ricordati della mia diritta fede. Cessino per lo tuo aiuto questi venti, e
manifestisici la bellezza del bel nido di Leda e la figliuola di Latona, e i
mari, che di sé fanno spumose montagne, nelle sue usate pianezze riduci. Vedi
che niuno di noi non può più; solo il vostro soccorso sostiene le nostre
speranze: quello solo attendiamo. Non si 'ndugi: l'albero, le vele, i timoni e
le sarte da' venti e dall'onde ci sono state tolte. E i tuoni e le spaventevoli
corruscazioni e le gravi acque cadenti da cielo e mosse da' venti ci hanno i
nocchieri e i marinari e noi vinti, e renduti impossibili a più aiutarci: in
tempestoso mare, sanza guida e in isconosciuto luogo, abandonato da ogni
speranza, per li tuoi servigi così mi ritruovo».
[9]
Gli
altri compagni di Filocolo tutti piangeano, e nulla salute speravano, ma del
fiero colpo d'Antropos, il quale vicino si vedeano, impauriti, mezzi morti
giaceano tutti bagnati, e quasi ogni potenza corporale perduta, si conduceano
secondo i disordinati movimenti della nave. Ma il vecchio Ascalion, il quale
altre volte di simiglianti avversitadi provate avea, ancora che pauroso fosse,
non gli parea cosa nuova, e con migliore speranza viveva che alcuno degli
altri, e tutti li giva riconfortando con buone parole come cari figliuoli. E
mentre queste cose così andavano, la nave portata da' poderosi venti sanza
niuno governamento, avanti che il giorno apparisse da nulla parte, ne' porti
dell'antica Partenope fu gittata da' fieri venti, quasi vicina agli ultimi suoi
danni: e quivi da' marinari, che vedendosi in porto ripresero conforto, così
spezzata dalle bande e fracassata, in sicuro luogo dall'ancore fu fermata, e
aspettarono il nuovo giorno ringraziando gl'iddii, non sappiendo in che parte
la fortuna gli avesse balestrati.
[10]
Poi
che il giorno apparve e il luogo fu conosciuto da' marinari, contenti d'essere
in sicuro e grazioso luogo, discesero in terra. E Filocolo co' suoi compagni,
a' quali più tosto della sepoltura risuscitati parea uscire che della nave,
scesi in terra, e rimirando verso le crucciate acque, ripetendo in se medesimi
i passati pericoli della presente notte, appena parea loro potere essere
sicuri, e ringraziando gl'iddii che da tal caso recati gli avea a salute,
offersero loro pietosi sacrificii e incominciaronsi a confortare. E da un amico
d'Ascalion onorevolemente ricevuti furono nella città, e quivi la loro nave
fecero racconciare tutta, e di vele e d'albero e di timoni migliori che i
perduti la rifornirono; e incominciarono ad aspettar tempo al loro viaggio, il
quale molto più si prolungò che 'l loro avviso non estimava. Per la qual cosa
Filocolo più volte volle per terra pigliare il cammino, ma, sconfortato da
Ascalion, se ne rimase, aspettando il buon tempo in quel luogo.
[11]
Videro
Filocolo e' suoi compagni Febeia cinque volte tonda e altretante cornuta,
avanti che Noto le sue impetuose forze abandonasse: né quasi mai in questo
tempo videro rallegrare il tempo. Per la qual cosa gravissima malinconia e ira
la desiderosa anima di Filocolo stimolava, dolendosi della ingiuria che da Eolo
ricevere gli pareva. E più volte la sua ira con voti e con pietosi sacrificii e
con umili prieghi s'ingegnò di piegare, ma venire non ne poté al disiderato
fine, anzi parea che quelli più nocessero; onde egli spesso di ciò si doleva
dicendo:
«Oimè,
che ho io verso gl'iddii commesso, che i miei sacrificii puramente fatti non
sono accettati? Io non sacri lego, io non invido de' loro onori, io non
assalitore de' loro regni, né tentatore della loro potenza, ma fedelissimo e
divoto servidore di tutti: adunque che mi nuoce?».
Egli
dopo le lunghe malinconie andava alcuna volta a' marini liti, e in quella
parte, verso la quale egli imaginava di dovere andare, si volgeva e rimirava,
dicendo:
«Sotto
quella parte del cielo dimora la mia Biancifiore. Quella parte è testé da lei
veduta, e io la voglio rimirare. Io sento la dolcezza ch'ella adduce seco,
presa dalla luce de' begli occhi di Biancifiore. E poi bassati gli occhi sopra
le salate onde, e vedendole verdi e spumanti biancheggiare nelle sue rotture
con tumultuoso romore, e similmente il vento con sottili sottentramenti
stimolare quelle, turbato in se medesimo dicea:
«O
dispietata forza di Nettunno, perché commovendo le tue acque impedisci il mio
andare? Forse tu pensi ch'io un'altra volta porti il greco fuoco alla tua
fortezza, come fecero coloro a' quali se tu così crudele, come a me se', fossi
stato, ancora le sue mura vedresti intere e piene di popolo sanza essere mai
state ofese. Io non porto insidie, ma come umile amante, col cuore acceso di
fiamma inestinguibile, per lo piacere d'una bellissima giovane, sì come tu già
avesti, cerco mediante la tua pace di ritrovare lei, allontanata per inganni
d'alcuni dalla mia presenza. Di che meritarono più coloro nel tuo cospetto, che
portandonela da me la divisero, che meriti io? Che ho io verso di te offeso,
che commesso più che li ausonici mercatanti? Niuna cosa: con continui
sacrificii ho la tua deità essaltata cercandola di pacificare verso me. Alla
quale s'io forse mai offesi, ignorantemente il male commisi: e che che io
m'avessi commesso, ben ti dovrebbe bastare, pensando quello che mi facesti, non
è lungo tempo passato, quando me e' miei compagni per morti quasi in questo
luogo ci gittasti sopra lo spezzato legno. Adunque perché sanza utilità pìù
avanti mi nuoci? Certo, se i tuoi regni fossero da essere cercati brieve
quantità come da Leandro erano, con la virtù dell'anello ricevuto dalla pietosa
madre, mi metterei a cercare il disiato luogo oltre al tuo piacere e crederei
poter fornire quello che a lui fornire non lasciasti; ma sì lungo cammino per
quelli ho ad andare, che più tosto la forza mi mancherebbe che il tuo potere
m'offendesse: e per questo la tua pace cerco, e quella disidero; non la mi
negare, io te ne priego per quello amore che già per Esmenia sentisti. E tu, o
sommo Eolo, spietato padre di Cannace, tempera le tue ire, ingiustamente verso
me levate. Apri gli occhi, e conosci ch'io non sono Enea, il gran nemico della
santa Giunone: io sono un giovane che amo, sì come tu già amasti. Pensi tu
forse per nuocermi avere da Giunone la seconda impromessa? Raffrena le tue ire,
racchiudi lo spiacevole vento sotto la cavata pietra: io non sono Macareo, né
mai in alcuna cosa t'offesi. Sostieni ch'io compia lo incominciato viaggio, e
quello compiuto, quando nel disiato luogo sarò con la mia donna, quanto ti
piace soffia: graziosa cosa mi sarà di quel luogo mai non partirmi. Allora
mostrerai le tue forze, quando noioso non mi sarà il dimorare. Ma ora che con
angoscia perdo tempo, mitiga la tua furia, e sostieni che 'l mio disio io il
possa fornire, ché se tu non fossi, ben conosco che Nettunno priega di starsi
in pace».
Poi
diceva:
«Oimè,
ove mi costrigne amore di perdere i prieghi? Alle sorde onde e a' dissoluti
soffiamenti, ne' quali niuna fede, sì come in cosa sanza niuna stabilità, si
truova!».
[12]
Con
tali parole più volte si dolea lo innamorato giovane sopra i salati liti, e da
malinconia gravato tornava al suo ostiere. Ma essendo già Titan ricevuto nelle
braccia di Castore e di Polluce, e la terra rivestita d'ornatissimi vestimenti,
e ogni ramo nascoso dalle sue frondi, e gli uccelli, stati taciti nel noioso
tempo, con dolci note riverberavano l'aere, e il cielo, che già ridendo a
Filocolo il disiderato cammino promettea con ferma fede, avvenne che Filocolo
una mattina, pieno di malinconia e tutto turbato nel viso, si levò dal notturno
riposo. Il quale vedendolo, i compagni si maravigliarono molto per che più che
l'altre fiate turbato stesse. Al quale Ascalion disse:
«Giovane,
caccia da te ogni malinconia, ché il tempo si racconcia, per lo quale, sanza
dubbio di più ricevere sì noioso accidente come già sostenemmo, ci sarà licito
il camminare».
A
cui Filocolo rispose:
«Maestro,
certamente quello che dite, conosco, ma ciò alla presente malinconia non
m'induce».
«E
come - disse Ascalion - è nuovo accidente venuto, per lo quale tu debbi
dimorare turbato?».
«Certo
- disse Filocolo - l'accidente della mia turbazione è questo, che nella passata
notte io ho veduta la più nuova visione che mai alcuno vedesse, e in quella ho
avuta gravissima noia nell'animo, veggendo le cose ch'io vedeva: per la qual
cosa la turbazione, poi ch'io mi svegliai, ancora da me non è partita, ma sanza
dubbio credo che meco non lungamente dimorerà». Pregaronlo Ascalion e' compagni
che, cacciando da sé ogni malinconia, gli piacesse la veduta visione narrare
loro, nella quale tanta afflizione sostenuta avea. A' quali Filocolo con non
mutato aspetto rispose che volentieri, e così cominciò a parlare:
[13]
«A
me parea essere da tutti voi lasciato e dimorare sopra lo falernese monte, qui
a questa città sopraposto, e sopra quello mi parea che un bellissimo prato
fosse, rivestito d'erbe e di fiori dilettevoli assai a riguardare, e pareami di
quello potere vedere tutto l'universo; né mi parea che alli miei occhi alcuna
nazione s'occultasse. E mentre che io così rimirando intorno le molte regioni
dimorava, vidi di quello cerreto ove noi la misera fontana trovammo, uno
smeriglione levarsi e cercare il cielo; e poi che egli era assai alzato,
pigliando larghissimi giri il vidi incominciare a calare, e dietro a una
fagiana bellissima e volante molto, che levata s'era d'una pianura fra
selvatiche montagne posta, non guari lontana al natale sito del nostro poeta
Naso: e nel già detto prato a me assai appresso mi parea ch'egli la sopragiungesse,
e ficcatasela in piedi sopra la schiena, forte ghermita la tenea. Poi appresso,
assai vicino di quel luogo onde levata s'era la fagiana, mi parve vedere levare
quello uccello che a guardia dell'armata Minerva si pone, e con lui uno
nerissimo merlo, e volando quella seguire, e nel suo cospetto e dello
smeriglione posarsi. Poi, volti gli occhi in altra parte di quella isola la
quale noi cerchiamo, il semplice uccello, in compagnia di Citerea posto, vidi
di quindi levare e insieme con un cuculo in quel luogo ancora porsi. E mentre
che io in giro gli occhi volgeva, vidi tra l'ultimo ponente e i regni di Trazia
di sopra a Senna levarsi uno sparviere bellissimo e uno gheppo, e seguitare un
girfalco e un moscardo e un rigogolo e una grua, che di sopra alla riviera del
Rodano levati s'erano, e dintorno alla fagiana posarsi. Poi, in più prossimana
parte tirati gli occhi, vidi delle guaste mura, lasciate da noi nel piano del
fratello del Tevero, uscire un terzuolo, e con forte volo aggiungersi agli
altri sopradetti, di dietro al quale la misera reina, ancora de' suoi popoli
nimica, levata di presso al luogo onde lo smeriglione levare vidi, volando
seguiva: e di non molto lontano alla nostra Marmorina surse il padre d'Elena, e
quivi venne, e d'una costa d'una di queste montagne vicine venne uno avoltoio e
con gli altri nel bel prato si pose. E mentre che io della adunazione di questi
uccelli in me medesimo mi maravigliava, e io guardai e vidi di questa piaggia
molti e diversi altri levarsi, e con gli sopradetti giugnersi: e' mi parea, se
bene estimai, un nibbio e un falcone e un gufo vedere agli altri precedere, e,
a loro dietro, una delle figliuole di Piero conobbi, e una ghiandaia che
pigolando forte volava; e, dopo loro, quelli da cui Apollo è accompagnato, e il
mirifico tiratore de' carri di Giunone, e una calandra, e un picchio e poi un
grande aghirone con la misera Filomena e con Tireo, a' quali dietro volava un
indiano pappagallo e un frisone, e con gli altri accolti, fatto di loro un
cerchio dintorno alla fagiana, da' piè di Niso sopr'essa. Io maravigliandomi
incominciai ad attendere che questi volessero fare. E come ciò rimirava, tutti
incominciarono a dare gravissimi assalti alla fagiana, e alcuni allo smerlo,
gridando e stridendo, quale tirandosi adietro e quale mettendosi avanti; e chi
penne e chi la viva carne di quella ne portava; ma lo smeriglione gridando,
sanza ghermirla punto, quanto potea da tutti la difendea; e in questa battaglia
per lungo spazio dimorò, e quasi io più volte fui mosso per andare ad aiutarlo,
poi ritenendomi fra me dicea: "Veggiamo la fine di costui, se egli avrà
tanto vigore che da tutti la difenda". E così attendendo, delle montagne
vicine a Pompeana vidi un gran mastino levarsi e correre in questo luogo, e tra
tutti gli uccelli ficcatosi, con rabbiosa fame il capo della fagiana prese, e
quello divorato, per forza l'altro busto trasse degli artigli di Niso: il quale
poi che voti della presa preda si trovò gli artigli, gridando il vidi non so
come in tortola essere trasmutato, e sopra un vicino albero, nel quale fronda
verde il nuovo tempo non avea rimessa, posarsi, e sopra quello a modo di pianto
umano quasi la sentiva dolere. E così stando, mi parve vedere il cielo
chiudersi d'oscuri nuvoli, molto peggio che quella notte, che noi di morire
dubitammo, non fece. E picciolo spazio stette ch'egli ne cominciò a scendere
un'acqua pistolenziosa con una grandine grossa, con venti e con tempesta simile
mai non veduta: e i tuoni e' lampi erano innumerabili e grandissimi. E certo io
dubitava non il mondo un'altra volta in caos dovesse tornare! E tutta questa
pistolenzia parea che sopra il dolente uccello cadesse: la quale dolendosi con
l'alie chiuse tutta la sostenea. La terra e 'l mare e 'l cielo crucciati e
minacciando peggio, pareano contra a quella commossi, né parea che luogo fosse
alcuno ove essa per sua salute ricorso avere potesse. E così di questa visione
in altre, le quali alla memoria non mi tornano, mi trasportò la non stante
fantasia, infino a quell'ora che io poco inanzi mi svegliai, trovandomi ancora
nella mente turbato della compassione avuta al povero uccello».
[14]
«Strane
cose ne conta il tuo parlare -disse Ascalion, - né che ciò si voglia
significare credo che mai alcuno conoscerebbe: e però niuna malinconia te ne
dee succedere. Manifesta cosa è che ciascuno uomo ne' suoi sonni vede mirabili
cose e impossibili e strane, dalle quali poi isviluppato si maraviglia, ma
conoscendo i principii onde muovono, quelle sanza alcun pensiero lascia andare:
e però quelle cose che ne conti che vedute hai, sì come vane, nella loro vanità
le lascia passare. E poi che il tempo si rallegra, e de' nostri disiderii lieto
indizio ci dimostra, e noi similmente ci rallegriamo; andiamo e la piacevole
aere su per li salati liti prendiamo: e ragionando, del nostro futuro viaggio
ci proveggiamo passando tempo». Così Filocolo col duca e con Parmenione e con
gli altri compagni si mosse, e con lento passo, di diverse cose parlando, verso
quella parte ove le reverende ceneri dell'altissimo poeta Maro si posano,
dirizzano il loro andare. I quali non furono così parlando guari dalla città
dilungati, che essi pervenuti allato ad un giardino, udirono in esso graziosa
festa di giovani e di donne. E l'aere di varii strumenti e di quasi angeliche
voci ripercossarisonava tutta, entrando con dolce diletto a' cuori di coloro a'
cui orecchi così riverberata venia: i quali canti a Filocolo piacque di stare
alquanto a udire, acciò che la preterita malinconia, mitigandosi per la
dolcezza del canto, andasse via. Ristette adunque ad ascoltare: e mentre che la
fortuna così lui e i compagni fuori del giardino tenea ad ascoltare sospesi, un
giovane uscì di quello, e videli, e nell'aspetto nobilissimi e uomini da
riverire gli conobbe. Per che egli sanza indugio tornato a' compagni, disse:
«Venite,
onoriamo alquanti giovani, ne' sembianti gentili e di grande essere, i quali,
forse vergognandosi di passare qua entro sanza essere chiamati, dimorano di
fuori ascoltando i nostri canti».
Lasciarono
adunque i compagni di costui le donne alla loro festa, e usciti del giardino se
ne vennero a Filocolo, il quale nel viso conobbero di tutti il maggiore, e a
lui, con quella reverenza che essi avevano già negli animi compresa che si
convenisse, parlarono, pregandolo che in onore e accrescimento della loro festa
gli piacesse co' suoi compagni passare con loro nel giardino, con più prieghi
sopra questo strignendolo che esso loro questa grazia non negasse. Legarono i
dolci prieghi l'animo gentile di Filocolo, e non meno quello de' compagni; e
così a' preganti fu da Filocolo risposto:
«Amici,
in verità tal festa da noi cercata non era, né similemente fuggita, ma sì come
naufragi gittati ne' vostri porti, per fuggire gli accidiosi pensieri che
l'ozio induce, andavamo per questi liti le nostre avversità recitando; e come
che la fortuna ad ascoltare voi c'inducesse non so, ma disiderosa, pare, di
cacciare da noi ogni noia, pensando che voi, in cui cortesia infinita conosco,
ci ha parati davanti: e però a' vostri prieghi satisfaremo, ancora che forse
parte della cortesia, che da noi procedere dovrebbe, guastiamo».
E
così parlando insieme nel bel giardino se n'entrarono, ove molte belle donne
trovarono; dalle quali graziosamente ricevuti furono, e con loro insieme
accolti alla loro festa.
[15]
Ma
poi che Filocolo per grande spazio ebbe la festa di costoro veduta, e
festeggiato con essi, a lui parve di partirsi. E volendo prendere congedo da'
giovani e ringraziarli del ricevuto onore, una donna più che altra da riverire,
piena di maravigliosa bellezza e di virtù, venne dov'egli stava, e così disse:
«Nobilissimo
giovane, voi per la vostra cortesia questa mattina a questi giovani avete fatta
una grazia, per la quale essi sempre vi sono tenuti, cioè di venire ad onorare
la loro festa: piacciavi, adunque, all'altre donne e a me la seconda grazia non
negare».
A
cui Filocolo con soave voce rispose:
«Gentil
donna, a voi niuna cosa giustamente si poria negare; comandate: io e' miei
compagni a' vostri piaceri tutti siamo presti».
A
cui la donna così disse:
«Con
ciò sia cosa che voi, venendo, in grandissima quantità la nostra festa
multiplicaste, io vi voglio pregare che partendovi non la manchiate, ma qui con
noi questo giorno, in quello che cominciato avemo, infino alla sua ultima ora
consumate».
Filocolo
rimirava costei parlante nel viso, e vedea i suoi occhi pieni di focosi raggi
sintillare come matutina stella, e la sua faccia piacevolissima e bella; né poi
che la sua Biancifiore non vide, gli parea sì bella donna avere veduta. Alla
cui domanda così rispose:
«Madonna,
disposto sono a più tosto il vostro piacere che 'l mio dovere adempiere: però
quanto a voi piacerà, tanto con voi dimorerò, e' miei compagni con meco».
Ringraziollo
la donna, e ritornando all'altre, con esse insieme s'incominciò a rallegrare.
[16]
In
tal maniera dimorando Filocolo con costoro, prese intima dimestichezza con un
giovane chiamato Caleon, di costumi ornatissimo e facundo di leggiadra
eloquenza, a cui egli parlando così disse:
«Oh,
quanto voi agl'iddii immortali siete tenuti più che alcuni altri, i quali in
una volontà pacifici vi conservano di far festa!».
«Assai
loro ci conosciamo obligati - rispose Caleon; - ma quale cagione vi muove a
parlare questo?».
Filocolo
rispose:
«Certo
niuna altra cosa se non il vedervi qui così assembrati tutti in un volere».
«Certo
- disse Caleon - non vi maravigliate di ciò, ché quella donna, in cui tutta
leggiadria si riposa, a questo ci mosse e tiene».
Disse
Filocolo:
«E
chi è questa donna?».
Caleon
rispose:
«Quella
che vi pregò che voi qui rimaneste, quando partire poco inanzi vi volevate».
«Bellissima
e di gran valore mi pare nel suo aspetto - disse Filocolo, - ma se ingiusta non
è la mia domanda, manifestimisi per voi il suo nome, e donde ella sia e di che
parenti discesa».
A
cui Caleon rispose:
«Niuna
vostra domanda potrebbe essere ingiusta; e però che di così valorosa donna
niuno è che apertamente parlando non deggia palesare la sua fama, al vostro
dimando interamente sodisfarò. Il suo nome è da noi qui chiamato Fiammetta,
posto che la più parte delle genti il nome di Colei la chiamino, per cui quella
piaga, che il prevaricamento della prima madre aperse, richiuse. Ella è
figliuola dell'altissimo prencipe sotto il cui scettro questi paesi in quiete
si reggono, e a noi tutti è donna: e, brievemente, niuna virtù è che in
valoroso cuore debbia capere, che nel suo non sia; e voi, sì come io estimo,
oggi dimorando con noi, il conoscerete».
«Ciò
che voi dite - disse Filocolo - non si può ne' suoi sembianti celare: gl'iddii
a quel fine, che sì singulare donna merita, la conducano; e certo quello e più
che voi non dite, credo di lei. Ma queste altre donne chi sono?».
Disse
Caleon:
«Queste
donne sono alcune di Partenope, e altre altronde in sua compagnia, sì come noi
medesimi, qui venute».
E
poi che essi ebbero per lungo spazio così ragionato, disse Caleon:
«Deh,
dolce amico, se a voi non fosse noia, a me molto sarebbe a grado di vostra
condizione conoscere più avanti che quello che il vostro aspetto ripresenti,
acciò che forse, conoscendovi, più degnamente vi possiamo onorare: però che tal
fiata il non conoscere fa negli onoranti il debito dell'onorare mancare».
A
cui Filocolo rispose:
«Niuno
mancamento dalla vostra parte potrebbe venire in onorarmi, ma tanto n'avete
fatto avanti, che soprabondando avete i termini trapassati. Ma poi che della
mia condizione disiderate sapere, ingiusto saria di ciò non sodisfarvi, e però,
quanto licito m'è di scoprirne, ve ne dirò. Io sì sono un povero pellegrino
d'amore, il quale vo cercando una mia donna a me con sottile inganno levata da'
miei parenti: e questi gentili uomini i quali con meco vedete, per loro
cortesia nel mio pellegrinaggio mi fanno compagnia: e il mio nome è Filocolo,
di nazione spagnuolo, gittato da tempestoso mare ne' vostri porti, cercando io
l'isola de' siculi».
Ma
tanto coperto parlare non gli seppe, che il giovine di sua condizione non
comprendesse più avanti che Filocolo disiderato non avrebbe: e de' suoi
accidenti compassione avendo, il riconfortò alquanto con parole che nel futuro
vita migliore gli promettevano. E da quell'ora inanzi multiplicando l'onore,
non come pellegrino e come uomo accettato a quella festa, ma come maggiore e
principale di quella, a tutti il fece onorare, e la donna massimamente comandò
che così fosse, poi che da Caleon la sua condizione intese, in sé molto caro
avendo tale accidente.
[17]
Era
già Appollo col carro della luce salito al meridiano cerchio e quasi con
diritto occhio riguardava la rivestita terra, quando le donne e' giovani in
quel luogo adunati, lasciato il festeggiare, per diverse parti del giar dino
cercando, dilettevoli ombre e diversi diletti per diverse schiere prendevano,
fuggendo il caldo aere che li dilicati corpi offendeva. Ma la gentil donna, con
quattro compagne appresso, prese Filocolo per la mano dicendoli:
«Giovane,
il caldo ci costringe di cercare i freschi luoghi: però in questo prato, il
quale qui davanti a noi vedi, andiamo, e quivi con varii parlamenti la calda
parte di questo giorno passiamo».
Andò
adunque Filocolo, lodando il consiglio della donna, dietro a' passi di lei, e
con lui i suoi compagni, e Caleon e due altri giovani con loro: e vennero nel
mostrato prato, bellissimo molto d'erbe e di fiori, e pieno di dolce soavità
d'odori, dintorno al quale belli e giovani albuscelli erano assai, le cui
frondi verdi e folte, dalle quali il luogo era difeso da' raggi del gran
pianeto. E nel mezzo d'esso pratello una picciola fontana chiara e bella era,
dintorno alla quale tutti si posero a sedere; e quivi di diverse cose, chi
mirando l'acqua chi cogliendo fiori, incominciarono a parlare. Ma però che tal
volta disavvedutamente l'uno le novelle dell'altro trarompeva, la bella donna
disse così:
«Acciò
che i nostri ragionamenti possano con più ordine procedere e infino alle più
fresche ore continuarsi, le quali noi per festeggiare aspettiamo, ordiniamo uno
di noi qui in luogo di nostro re, al quale ciascuno una quistione d'amore
proponga, e da esso a quella debita risposta prenda. E certo, secondo il mio
avviso, noi non avremo le nostre quistioni poste, che il caldo sarà, sanza che
noi il sentiamo, passato, e il tempo utilmente con diletto sarà adoperato».
Piacque
a tutti, e fra loro dissero:
«Facciasi
re».
E
con unica voce tutti Ascalion, per che più che alcuno era attempato, in re
eleggevano. A' quali Ascalion rispose sé a tanto uficio essere insofficiente,
però che più ne' servigi di Marte che in quelli di Venere avea i suoi anni
spesi; ma, se a tutti piacesse di rimettere in lui la elezione di tal re, egli
si credea bene tanto conoscere avanti delle qualità di tutti, che egli il
costituirebbe tale che vere risposte a tali dimande renderebbe. Consentirono
allora tutti che in Ascalion fosse liberamente la elezione rimessa, poi che
assumere in lui tale dignità non volea.
[18]
Levossi
allora Ascalion, e colti alcuni rami d'un verde alloro, il quale quasi sopra la
fontana gittava la sua ombra, di quelli una bella coronetta fece, e quella
recata in presenza di tutti costoro, così disse:
«Da
poi che io ne' miei più giovani anni cominciai ad avere conoscimento, giuro per
quelli iddii che io adoro, che non mi torna nella memoria di avere veduta o
udita nomare donna di tanto valore, quanto questa Fiammetta, nella cui presenza
Amore di sé tutti infiammati ci tiene, e da cui noi questo giorno siamo stati
onorati in maniera da mai non doverlo dimenticare. E però che ella, sì come io
sanza fallo conosco, è d'ogni grazia piena e di bellezza, e di costumi
ornatissima e di leggiadra eloquenza dotata, io in nostra reina la eleggo; e
molto meglio, per la sua magnificenza, la imperiale corona le si converrebbe! A
costei di reale stirpe ancora discesa, e a cui le occulte vie d'amore sono
tutte aperte, sarà lieve cosa nelle nostre quistioni contentarci».
E
appresso questo, alla valorosa donna davanti umilemente le si inchinò, dicendo:
«Gentile
donna, ornate la vostra testa di questa corona, la quale non meno che d'oro è
da tener cara a coloro che degni sono per le loro opere di tali coprirsi la
testa».
Alquanto
il candido viso della bella donna si dipinse di nuova rossezza, dicendo:
«Certo
non debitamente avete di reina proveduto all'amoroso popolo, che di
sofficientissimo re avea bisogno, però che di tutti voi, che qui dimorate, la
più semplice e con meno virtù sono, né alcuno di voi è a cui meglio che a me
investita non fosse. Ma poi che a voi piace, né alla vostra elezione posso
opporre, e acciò che io alla fatta promessa non sia contraria, io la prenderò,
e spero che dagl'iddii e da essa l'ardire dovuto a tanto uficio prenderò: e con
l'aiuto di colui a cui queste frondi furono già care, a tutti risponderò
secondo il mio poco sapere. Nondimeno io divotamente il priego che egli nel mio
petto entri, e muova la mia voce con quel suono, col quale egli già l'ardito
uomo vinto fece meritare d'uscire della guaina de' suoi membri. Io, per via di
festa, lievi risposte vi donerò, sanza cercare le profondità delle proposte
questioni, le quali andare cercando più tosto affanno che diletto recherebbe
alle nostre menti».
E
questo detto, con le dilicate mani prese l'offerta ghirlanda, e la sua testa ne
coronò, e comandò che, sotto pena d'essere dall'amorosa festa privato, ciascuno
s'apparecchiasse di proporre alcuna quistione, la quale fosse bella e
convenevole a quello di che ragionare intendeano, e tale, che più tosto della
loro gioia fosse accrescitrice, che per troppa sottigliezza o per altro
guastatrice di quella.
[19]
Dalla
destra mano di lei sedea Filocolo, a cui ella disse:
«Giovane,
cominciate a proporre, acciò che gli altri ordinatamente come noi qui seggiamo,
più sicuramente dopo voi proponga».
A
cui Filocolo rispose:
«Nobilissima
donna, sanza alcuno indugio al vostro comandamento ubidirò»; e così disse:
«Io
mi ricordo che in quella città dov'io nacqui si faceva un giorno una
grandissima festa, alla quale cavalieri e donne erano molti ad onorarla. Io che
similemente v'era, andando con gli occhi intorno mirando quelli che nel luogo
stavano, vidi due giovani graziosi assai nel loro aspetto, i quali amenduni una
bellissima giovane rimiravano, né si saria per alcuno potuto conoscere chi più
stato fosse di loro acceso della bellezza di costei. E quando essi lungamente
costei ebbero riguardata, non faccendo essa all'uno migliori sembianti che
all'altro, elli incominciarono fra loro a ragionare di lei: e fra l'altre
parole che io del loro ragionamento intesi, si fu che ciascuno diceva sé essere
più amato da lei, e in ciò ciascuno diversi atti dalla giovane per adietro
fatti allegava in aiuto di sé. E essendo per lungo spazio in tale quistione
dimorati, e già quasi per le molte parole venuti a volersi oltraggiare, si
riconobbero che male faceano, però che in tale atto danno e vergogna di loro e
dispiacere della giovane adoperavano; ma mossi con iguale concordia, amenduni
davanti alla madre della giovane se n'andarono, la quale similemente a quella
festa stava, e così in presenza di lei proposero che, con ciò fosse cosa che
sopra tutte l'altre giovani del mondo a ciascuno di loro la figlia di lei
piaceva e essi fossero in quistione quale d'essi due piacesse più a lei, che le
piacesse di concedere loro questa grazia, acciò che maggiore scandolo tra loro
non nascesse, cioè che alla figlia comandasse che o con parole o con atti loro
dimostrasse qual di loro da lei più fosse amato. La pregata donna ridendo rispose
che volentieri; e chiamata la figliuola a sé, le disse: "Bella figlia,
ciascuno di questi due più che sé t'ama, e in quistione sono quale da te più
sia amato, e cercano, di grazia, che tu o con segno o con parola ne li facci
certi; e però, acciò che d'amore, di cui pace e bene sempre dee nascere, non
nasca il contrario, falli di ciò contenti, e con cortesi sembianti mostra
inverso del quale più il tuo animo si piega". Disse la giovane: "Ciò
mi piace". E rimiratili amenduni alquanto, vide che l'uno avea in testa
una bella ghirlanda di fresche erbette e di fiori, e l'altro sanza alcuna
ghirlanda dimorava. Allora la giovane, che similmente in capo una ghirlanda di
verdi frondi avea, levò quella di capo a sé, e a colui che sanza ghirlanda
davanti le stava la mise in ca po; appresso, quella che l'altro giovane in capo
avea ella la prese e a sé la pose, e, loro lasciati stare, si ritornò alla
festa, dicendo che il comandamento della madre e il piacere di loro avea fatto.
I giovani rimasi così, nel primo quistionare ritornarono, ciascuno dicendo che
più da lei era amato; e quelli la cui ghirlanda la giovane prese e posela sopra
la sua testa, diceva: "Fermamente ella ama più me, però che a niuno altro
fine ha ella la mia ghirlanda presa, se non perché le mie cose le piacciono, e
per avere cagione d'essermi tenuta; ma a te ha ella la sua donata quasi in
luogo d'ultimo congedo, non volendo, come villana, che l'amore che tu l'hai
portato sia sanza alcuno merito; ma quella ghirlanda donandolati, ultimamente
t'ha meritato". L'altro dicendo il contrario, così rispondeva:
"Veramente la giovane le tue cose ama più che te, ciò si può vedere, ché
ella ne prese; ma ella ama più me che le mie cose, in quanto ella delle sue mi
donò: e non è segno d'ultimo merito il donare, come tu di', ma è principio
d'amistà e d'amore. E fa il dono colui che 'l riceve suggetto al donatore: però
costei, forse di me incerta, acciò che più certa di me avere per suggetto
fosse, con dono mi volle alla sua signoria legare, se io legato forse non vi
fossi. Ma tu, come puoi comprendere che se ella dal principio ti leva, ch'ella
mai ti debbia donare?". E così quistionando dimorarono per grande spazio,
e sanza alcuna diffinizione si partirono. Ora, dico io, grandissima reina, se a
voi fosse l'ultima sentenza in tale questione domandata, che giudichereste
voi?».
[20]
Con
occhi d'amorosa luce sfavillanti, alquanto sorridendo si rivolse la bella donna
a Filocolo, e dopo un lieve sospiro così rispose:
«Nobilissimo
giovane, bella è la vostra quistione, e certo saviamente si portò la donna, e
ciascun de' giovani assai bene la sua parte difendea; ma acciò che ne
richiedete quello che ultimamente di ciò giudicheremo, così vi rispondiamo. A
noi pare, e così dee parere a ciascuno che sottilmente riguarda, che la giovane
ami l'uno, e l'altro non abbia in odio; ma, per più il suo intendimento tener
coperto, fece due atti contrarii, come appare, e ciò non sanza cagione fece, ma
acciò che l'amore di colui cui ella amava più fermo acquistasse è quello
dell'altro non perdesse: e ciò fu saviamente fatto. E però venendo alla nostra
quistione, la quale è a quale de' due sia più amore stato mostrato, diciamo che
colui a cui ella donò la sua ghirlanda è più da lei amato. E questa ne pare la
ragione: qualunque uomo o donna ama alcuna persona, per la forza di questo
amore portato è ciascuno sì forte obligato alla cosa amata, che sopra tutte le
cose a quella disidera di piacere, né a più legarla bisognano o doni o servigi;
e questo è manifesto. Ma veggiamo che chi ama, la cosa amata, in qualunque
maniera puote, di farsela benigna e suggetta s'ingegna in diversi modi, acciò
che quella possa a' suoi piaceri recare, o con più ardita fronte il suo disio
dimandare. E che questo sia come noi parliamo, assai la infiammata Dido con le
sue opere cel palesa, la quale, già dell'amore d'Enea ardendo, infino a tanto
che essa con onori e con doni non gliele parve aver preso, non ebbe ardire di
tentare la dubbiosa via del dimandare. Dunque la giovane colui cui essa più amò,
quello di più obligarsi cercò: e così diremo che quelli che 'l dono della
ghirlanda ricevette, colui sia più dalla giovane amato».
[21]
Rispose
Filocolo poi che la reina tacque:
«Discreta
donna, assai è da lodare la vostra risposta, ma non per tanto molta
d'ammirazione mi porge, però che di ciò che diffinito avete della proposta
quistione, io terrei che il contrario fosse da giudicare, con ciò sia cosa che
generalmente tra gli amanti soglia essere questa consuetudine, cioè disiderare
di portare sopra sé alcuna delle gioie della cosa amata, però che di quelle le
più volte più che di tutto il rimanente si sogliono gloriare, e, quella
sentendo sopra sé, nell'animo si rallegrano. E come voi potete avere udito,
Paris rade volte o nulla entrava nell'aspre battaglie contra i Greci sanza
soprasegnale donatogli dalla sua Elena, credendosi per quello molto meglio, che
sanza quello, valere: e certo, secondo il mio giudicio, il suo pensiero non era
vano. Per la qual cosa io così direi che, sì come voi diceste, saviamente fece
la giovane, non diffinendo però come voi faceste, ma in questa maniera:
conoscendo la giovane che da' due giovani era molto amata e ella più che l'uno
amare non potesse, però che amore indivisibile cosa si truova, ella l'uno
dell'amore che le portava volle guiderdonare, acciò che tale benivolenza non
rimanesse da lei inguiderdonata, e donogli la sua ghirlanda in merito di ciò.
All'altro, cui ella amava, volle porgere ardire e ferma speranza del suo amore,
levandogli la sua ghirlanda e ponendola a sé: nel quale levare gli mostrò sé
essergli obligata per la presa ghirlanda; e però, a mio giudicio, più costui a
cui tolse, che quello a cui donò amava».
[22]
Al
quale la gentil donna rispose:
«Assai
il tuo argomentare ci piacerebbe, se tu te stesso nel tuo parlare non dannassi.
Guarda come perfetto amore insieme col rubare può concorrere: come mi potrai tu
mai mostrarne che io ami quella persona la quale io rubo più che quella a cui
io dono, con ciò sia cosa che tra più manifesti segni d'amare alcuna persona è
il donare? E secondo la quistione proposta, ella all'uno donò la ghirlanda,
all'altro la tolse, non le fu dall'altro donata: e quello che noi tutto giorno
per essemplo veggiamo può qui per essemplo bastare, che si dice volgarmente
coloro essere da' signori più amati i quali le grazie e' doni ricevono, che
quelli che di quelli privati sono. E però noi ultimamente tegnamo,
conchiudendo, che quegli sia più amato a cui è donato, che a cui è tolto. Ben
conosciamo che alla presente questione molto contro alla nostra diffinizione si
potrebbe opporre e alle opposte ragioni rispondere; ma ultimamente tale
determinazione rimarrà vera. Ma però che il tempo non è da porre in una cosa
sola, sanza più sopra questa parlare, gli altri ascolteremo, se vi piace».
A
cui Filocolo disse che assai gli piacea, e che bene bastava tale soluzione alla
sua domanda; e qui si tacque.
[23]
Sedea
appresso Filocolo un giovane cortese e grazioso nello aspetto, il cui nome era
Longanio, il quale, sì tosto come Filocolo tacque, così cominciò a dire:
«Eccellentissima
reina, tanto è stata bella la prima questione, che la mia appena piacerà, ma
non per tanto, per non essere fuori di sì nobile compagnia cacciato, io dirò la
mia».
E
così parlando seguì:
«E'
non sono molti giorni passati, che io soletto in una camera dimorando, involto
negli affannosi pensieri porti dagli amorosi disii, i quali con aspra battaglia
il cuore assalito m'aveano, sentii un pietoso pianto, al quale, perché vicino a
me la stimativa il giudicava, porsi intentivamente gli orecchi e conobbi che
donne erano. Laond'io, per vedere chi fossero e dove, subito mi levai, e,
rimirando per una finestra, vidi a fronte alla mia camera in un'altra dimorare
due donne sanza più, le quali erano carnali sorelle, di bellezza ine stimabile
ornate, le quali vidi che questo pianto solette facevano. Onde io in segreta
parte dimorando, sanza essere da loro veduto, lungamente le riguardai; né però
potei comprendere tutte le parole che per dolore con le lagrime fuori
mandavano, se non che l'effetto di tale pianto, secondo quello che compresi,
per amore mi parve. Per che io sì per la pietà di loro, sì per la pietà di sì
dolce cagione, a piangere incominciai così nascoso. Ma dopo lungo spazio,
perseverando queste pure nel loro dolore, con ciò fosse cosa che io fossi assai
dimestico e parente di loro, proposi di volere più certa la cagione del loro
pianto sapere, e ad esse andai. Le quali non prima mi videro, che vergognandosi
ristrinsero le lagrime ingegnandosi d'onorarmi. A cui io dissi: "Giovani
donne, per niente v'affannate di ristringere dentro il vostro dolore per la mia
venuta, con ciò sia cosa che tutte le vostre lagrime mi sieno state, già è gran
pezza, manifeste. Non vi bisogna di guardarvi da me né di celarmi per vergogna
la cagione del vostro pianto, la quale io sono venuto qui per sapere, però che
da me mal merito in niuno atto ne riceverete, ma aiuto e conforto quant'io
potrò". Molto si scusarono le donne dicendo sé di niuna cosa dolersi; ma
poi che pure scongiurandole mi videro disideroso di sapere quello, la maggiore
di tempo così cominciò a parlare: "Piacere è degl'iddii che a te li nostri
segreti si manifestino: e però sappi che noi, più che altre donne mai, fummo
crude e aspre resistenti agli aguti dardi di Cupido, il quale, lunga stagione
saettandoci, mai ne' nostri cuori alcuno ne poté ficcare. Ma egli ultimamente
più infiammato, avendo proposto di vincere la sua puerile gara, aperse il
giovane braccio, e con la più cara saetta, nel macerato per li molti colpi
avanti ricevuti, ci ferì con sì gran forza, che i ferri passarono dentro e
maggiore piaga fecero, che, se agli altri colpi fatta non avessimo resistenza,
non avriano fatta: e per lo piacere di due nobilissimi giovani alla sua
signoria divenimmo suggette, seguendo i suoi piaceri con più intera fede e con
più fervente volere che mai altre donne facessero. Ora ci ha la fortuna e amore
di quelli, come io ti dirò, sconsolate. Io, che prima che costei, amai, con
ingegno maestrevolemente credendo il mio disio terminare, feci sì che io ebbi
al mio piacere l'amato giovane, il quale io trovai altrettanto di me quanto io
di lui essere innamorato. Ma certo già per tale effetto l'amorosa fiamma non
mancò, né menomò il disio, ma ciascuno crebbe, e più che mai arsi e ardo: il
quale fuoco, tenendo lui nelle braccia e tal volta vedendolo, come io poteva il
meglio mitigava tenendolo dentro nascoso. Avvenne, non si rivide poi la luna
tonda, che costui commise disavedutamente cosa, per la quale etterno essilio della
presente città gli fu donato: ond'egli, dubitando la morte, di qui s'è partito,
sanza speranza di ritornare. E io, sopra ogni altra femina, ardendo più che
mai, sanza lui sono rimasa disperata, onde io mi dolgo; e quella cosa che più
la mia doglia aumenta è che io da tutte parti mi veggo chiusa la via di poterlo
seguire: pensa oramai se io ho di dolermi cagione". Dissi io allora:
"E quest'altra perché si duole?". Quella rispose: "Questa
similmente com'io innamorata d'un altro, e da lui similmente sanza fine amata,
acciò che i suoi disii non passassero sanza parte d'alcun diletto, per gli
amorosi sentieri più volte s'è ingegnata di volergli recare ad effetto, a' cui
intendimenti gelosia ha sempre rotte le vie e occupate: per che mai a quelli
non poté pervenire, né vede di potere, onde ella si consuma stretta da
ferventissimo amore, come tu puoi pensare se mai amasti. Trovandoci noi,
adunque, qui solette, de' nostri infortunii cominciammo a ragionare, e
conoscendoli più che d'alcuna altra donna maggiori, non potemmo ritenere le
lagrime, ma piangendo ci dolavamo, sì come tu potesti vedere". Assai mi
dolfe di loro udendo questo, e con quelle parole che al loro conforto mi
parvero utili le sovenni, e da loro mi partii. Ora mi s'è più volte per la
mente rivolto il loro dolore, e alcuna volta ho fra me pensato qual doveva
essere maggiore, e l'una volta consento quello dell'una, l'altra quello
dell'altra: e le molte ragioni per le quali ciascuna mi pare che abbia da
dolersi non mi lasciano fermare ad alcuna, onde io ne dimoro in dubbio.
Piacciavi che per voi io di questa erranza esca, dicendomi quale maggiore
doglia vi pare che sostenga».
[24]
«Greve
dolore era quello di ciascuna - disse la reina, - ma considerando che a colui è
gravissima l'avversità che nelle prosperità è usato, noi terremo che quella che
'l suo amante ha perduto senta maggior dolore e sia più dalla fortuna offesa.
Fabrizio mai i casi della fortuna non pianse, ma Pompeo sì. E manifesta cosa è
che se dolci cose mai non si fossero gustate, ancora sarebbero a conoscere
l'amare. Medea non seppe mai, secondo il suo dire, che prosperità si fosse
mentre essa amò, ma, abandonata da Giansone, si dolfe della avversità. Chi
piangerà quello ch'egli mai non ebbe? Non alcuno, ma più tosto il disidererà.
Seguasi dunque che l'una per dolore, l'altra per disio piangeva delle due
donne».
[25]
«Molto
m'è duro a pensare, graziosa donna, ciò che voi dite - disse il giovane, - con
ciò sia cosa che chi il suo disio ha d'una cosa disiderata avuto, molto si
debbia più nell'animo contentare, che chi disidera e non può il suo disio
adempiere. Appresso, niuna cosa è più leggiere a perdere che quella la quale
speranza avanti più non promette di rendere. Ivi dee essere lo smisurato
dolore, ove iguale volere e 'l non potere quello recare ad effetto impedisce.
Quivi hanno luogo i ramaricamenti, quivi i pensieri e l'affanno, però che se le
volontà non fossero iguali, per forza mancherebbero i disii: ma quando gli
animi si veggono davanti le disiderate cose, e a quelle pervenire non possono,
allora s'accendono e dolgonsi più che se da loro i loro voleri stessero
lontani. E chi tormenta Tantalo in inferno se non le pome e l'acque, che quanto
più alla bocca gli si avvicinano tanto più fuggendosi poi multiplicano la sua
fame? Veramente io credo che più dolore sente chi spera cosa possibile ad
avere, né a quella per avversarii impedimenti resistenti pervenire puote, che
chi piange cosa perduta e inrecuperabile».
[26]
Disse
allora la donna:
«Assai
seguita bene la vostra risposta, là ove di lungo dolore fosse vostra dimanda
stata; ben che a cotesto ancora si potrebbe dire, così esser possibile per
dimenticanza il dolore breviarsi nelle cose disiderate, ove continuo
impedimento si vede da non poterle adempiere, come nelle perdute, ove speranza
non mostra di doverle mai riavere. Ma noi ragioniamo quale più si dolea, quando
dolendo le vedeste: però, seguendo il proposto caso, giudicheremo che maggior
dolore sentiva quella che il suo amante avea perduto sanza speranza di
riaverlo, ché, posto che agevole sia perdere cosa impossibile da riavere,
nondimeno e' si suol dire: "Chi bene ama mai non oblia"; ché l'altra,
se ben riguardiamo, poteva sperare d'adempiere per inanzi quello che per
adietro non avea potuto fornire. E gran mancamento di duoli è la speranza: ella
ebbe forza di tenere casta e meno trista lungamente in vita Penolope».
[27]
Alla
destra mano di Longanio sedea una bellissima donna piacevole assai, la quale,
come quella questione sentì per la loro reina essere terminata, così con dolce
favella cominciò a parlare:
«Inclita
reina, diano le vostre orecchie alquanto audienzia alle mie parole, e poi per
quelli iddii che voi adorate, e per la potenza del nostro giuoco, vi priego che
utile consiglio diate a' miei dimandi. Io di nobili parenti discesa, sì come
voi sapete, nacqui in questa città, e fui di nome pieno di grazia nominata,
avegna che il mio sopranome Cara mi rapresenti agli uditori. E sì come nel mio
viso si vede, io ricevetti dagl'iddii e dalla natura di bellezza singulare dono,
la quale, il mio nome seguendo più che il mio sopranome, l'ho adornata
d'infinita piacevolezza, benigna mostrandomi a chi quella s'è dilettato di
rimirare: per la qual cosa molti si sono ingegnati d'occupare gli occhi miei
del loro piacere, a' quali tutti ho con forte resistenza riparato, tenendo il
cuore fermo a tutti i loro assalti. Ma però che ingiusta cosa mi pare che io
sola la legge, da tutte l'altre servata, trapassassi, cioè di non amare,
essendo da molti amata, ho proposto d'innamorarmi. E posponendo dall'una delle
parti molti cercatori di tale amore, de' quali alcuno di ricchezze avanza Mida,
altri di bellezza trapassa Ansalon, e tali di gentilezza, secondo il corrotto
volgare, più che altri sono splendenti, ho scelti tre, che igualmente ciascuno
per sé mi piace: de' quali tre, l'uno di corporale fortezza credo che
avanzerebbe il buono Ettore, tanto è ad ogni pruova vigoroso e forte; la
cortesia e la liberalità del secondo è tanta, che la sua fama per ciascun polo
credo che suoni: il terzo è di sapienza pieno tanto, che gli altri savi avanza
oltra misura. Ma però che, come avete udito, le loro qualità sono diverse, io
dubito di pigliare, trovando nell'antica età ciascuna di queste cose avere
diversamente i coraggi delle donne e degli uomini piegati, sì come Deianira
d'Ercule, Clitemestra d'Egisto, e di Lucrezia Sesto. Consigliatemi, adunque, a
quale io più tosto, per meno biasimo e per più sicurtà, io mi deggia di costoro
donare».
[28]
La
piacevole donna avendo di costei la proposta udita, così rispose:
«Nullo
de' tre è che degnamente non meriti di bella e graziosa donna l'amore; ma però
che in questo caso non sono a combattere castella, o a donare i regni del
grande Alessandro, overo i tesori di Tolomeo, ma solamente con discrezione è da
servare lungamente l'amore e l'onore, li quali né forza né cortesia serveranno,
ma solo il sapere, diciamo che da voi e da ciascuna altra donna è più tosto da
donare il suo amore al savio che ad alcuno degli altri».
[29]
«Oh,
quanto è il mio parere dal vostro diverso!», rispose appresso la proponente
donna.
A
me parea che qualunque l'uno degli altri fosse più tosto da prendere che il
savio: e la ragione mi par questa. Amore, sì come noi veggiamo, ha sì fatta
natura, che, multiplicando in un cuore la sua forza, ogni altra cosa ne caccia
fuori, quello per suo luogo ritenendo, movendolo poi secondo i suoi pareri: né
niuno avvenimento può a quelli resistere, che pur non si convengano quelli
seguitare da chi è, com'io ho detto, signoreggiato. E chi dubita che Blibide
conoscea essere male ad amare il fratello? Chi disdirà che a Leandro non fosse
manifesto il potere annegare in Elesponto ne' fortunosi tempi, se vi si mettea?
E niuno non negherà che Pasife non conoscesse più bello essere l'uomo che 'l
toro: e pur costoro, ciascuno vinto da amoroso piacere, ogni conoscimento
abandonato, seguivano quello. Dunque, se egli ha potenza di levare il
conoscimento a' conoscenti, levando al savio il senno, niuna cosa gli rimarrà;
ma se al forte o al cortese il loro poco senno leverà, egli li aumenterà nelle
loro virtù, e così costoro varranno più che il savio, innamorati. Appresso, ha
amore questa propietà: egli è cosa che non si può lungamente celare, e nel suo
palesarsi suole spesso recare gravosi pericoli: a' quali che rimedio darà il
savio che avrà già il senno perduto? Niuno ne darà! Ma il forte con la sua
forza sé e altrui potrà in un pericolo atare; il cortese potrà per la sua
cortesia avere l'animo di molti preso con cara benivolenza, per la quale atato
e riguardato potrà essere, e egli e altri per amore di lui. V'edete omai come
il vostro giudicio è da servare».
[30]
Fu
a costei così dalla reina risposto:
«Se
cotesto che tu di' fosse, chi sarebbe savio? Niuno! Ma già colui che tu proponi
savio, e innamorato di te, sarebbe pazzo, e da non prendere: gl'iddii cessino
che ciò che tu parli avvenisse. Ma noi non negheremo però che i savi non
conoscano il male, e pur lo fanno; ma diremo che essi per quello non perdono il
senno, con ciò sia cosa che, qualora essi vorranno, con la ragione ch'elli
hanno, la volontà raffrenare, elli nell'usato senno si rimarranno, guidando i
loro movimenti con debito e diritto stile. E in questa maniera o sempre o
lungamente fieno i loro amori celati, e così sanza alcuna dubbiosa
sollecitudine quello che d'uno poco savio, non tanto sia forte o cortese, non
avverrà: e se forse avviene che pure tale amore si palesi, con cento
avvedimenti o riturerà il savio gli occhi e gl'intendimenti de' parlanti, o
provederà al salvamento dell'onore della donna amata e del suo. E se mestieri
fia alla salute, l'aiuto del savio non può fallire. Quello del forte viene meno
con l'aiutante, e gli amici per liberalità acquistati sogliono nelle avversità
ritornare nulli. E chi sarà quella con sì poca discrezione che a tal partito si
rechi, che sì manifesto aiuto le bisogni, o che se il suo amore si scuopre,
domandi fama d'avere amato un uomo forte overo liberale? Niuna credo ne fosse.
Amisi adunque il più savio, sperando lui dovere essere in ciascuno caso più
utile che alcuno degli altri».
[31]
Era
nella vista contenta la gentil donna, quando Menedon, che appresso di lei
sedea, disse:
«Altissima
reina, ora viene a me la volta del proporre nel vostro cospetto, ond'io con la
vostra licenza dirò. E da ora, se io troppo nel mio parlare mi stendessi, a voi
e appresso agli altri circunstanti dimando perdono, però che quello ch'io
intendo di proporre interamente dare non si potrebbe a intendere, se a quello
una novella, che non fia forse brieve, non precedesse».
E
dopo queste parole così cominciò a parlare:
«Nella
terra là dov'io nacqui, mi ricorda essere un ricchissimo e nobile cavaliere, il
quale di perfettissimo amore amando una donna nobile della terra, per isposa la
prese. Della quale donna, essendo bellissima, un altro cavaliere chiamato
Tarolfo s'innamorò; e di tanto amore l'amava, che oltre a lei non vedeva, né
niuna cosa più disiava, e in molte maniere, forse con sovente passare davanti
alle sue case, o giostrando, o armeggiando, o con altri atti, s'ingegnava
d'avere l'amore di lei, e spesso mandandole messaggieri, forse promettendole
grandissimi doni, e per sapere il suo intendimento. Le quali cose la donna
tutte celatamente sostenea, sanza dare o segno o risposta buona al cavalie re,
fra sé dicendo: "Poi che questi s'avedrà che da me né buona risposta né
buono atto puote avere, forse elli si rimarrà d'amarmi e di darmi questi
stimoli". Ma già per tutto questo Tarolfo di ciò non si rimanea, seguendo
d'Ovidio gli amaestramenti, il quale dice l'uomo non lasciare per durezza della
donna di non perseverare, però che per continuanza la molle acqua fora la dura
pietra. Ma la donna, dubitando non queste cose venissero a orecchie del marito,
e esso pensasse poi che con volontà di lei questo avvenisse, propose di
dirgliele; ma poi mossa da miglior consiglio disse: "Io potrei, s'io il
dicessi, commettere tra costoro cosa che io mai non viverei lieta: per altro
modo si vuole levare via"; e imaginò una sottile malizia. Ella mandò così
dicendo a Tarolfo, che se egli tanto l'amava quanto mostrava, ella volea da lui
un dono, il quale come l'avesse ricevuto, giurava per li suoi iddii, e per
quella leanza che in gentile donna dee essere, che essa farebbe ogni suo
piacere; e se quello che domandava, donare non le volesse, ponessesi in cuore
di non stimolarla più avanti, se non per quanto egli non volesse che essa
questo manifestasse al marito. E 'l dono il quale ella dimandò fu questo. Ella
disse che volea del mese di gennaio, in quella terra, un bel giardino e grande,
d'erbe e di fiori e d'alberi e di frutti copioso, come se del mese di maggio
fosse, fra sé dicendo: "Questa è cosa impossibile: io mi leverò costui da
dosso per questa maniera". Tarolfo, udendo questo, ancora che impossibile
gli paresse e che egli conoscesse bene perché la donna questo gli domandava,
rispose che già mai non riposerebbe né in presenza di lei tornerebbe, infino a
tanto che il dimandato dono le donerebbe. E partitosi della terra con quella
compagnia che a lui piacque di prendere, tutto il ponente cercò per avere
consiglio di potere pervenire al suo disio; ma non trovato lui, cercò le più
calde regioni, e pervenne in Tesaglia, dove per sì fatta bisogna fu mandato da
discreto uomo. E quivi dimorato più giorni, non avendo ancora trovato quello
che cercando andava, avvenne che essendosi egli quasi del suo avviso disperato,
levatosi una mattina avanti che 'l sole s'apparecchiasse d'entrare nell'aurora,
incominciò tutto soletto ad andare per lo misero piano che già tinto fu del
romano sangue. E essendo per grande spazio andato, egli si vide davanti a' piè
d'un monte un uomo, non giovane né di troppa lunga età, barbuto, e i suoi
vestimenti giudicavano lui dovere essere povero, picciolo di persona e sparuto
molto, il quale andava cogliendo erbe e cavando con un picciolo coltello
diverse radici, delle quali un lembo della sua gonnella avea pieno. Il quale
quando Tarolfo il vide, si maravigliò e dubitò molto non altro fosse; ma poi
che la stimativa certamente gli rendé lui essere uomo, egli s'appressò a lui e
salutollo, domandandolo appresso chi egli fosse e donde, e quello che per
quello luogo a così fatta ora andava faccendo. A cui il vecchierello rispose.
"Io sono di Tebe, e Tebano è il mio nome, e per questo piano vo cogliendo
queste erbe, acciò che de' liquori d'esse faccendo alcune cose necessarie e
utili a diverse infermità, io abbia onde vivere, e a questa ora necessità e non
diletto mi ci costringe di venire; ma tu chi se' che nell'aspetto risembri
nobile, e quinci sì soletto vai?". A cui Tarolfo rispose: "Io sono
dell'ultimo ponente assai ricco cavaliere, e da' pensieri d'una mia impresa
vinto e stimolato, non potendola fornire, di qua, per meglio potermi sanza
impedimento dolere, mi vo così soletto andando". A cui Tebano disse:
"Non sai tu la qualità del luogo come ella è? Perché inanzi d'altra parte
non pigliavi la via? Tu potresti di leggieri qui da furiosi spiriti essere
vituperato". Rispose Tarolfo: "In ogni parte puote Iddio igualmente:
così qui come altrove gli è la mia vita e 'l mio onore in mano; faccia di me
secondo che a lui piace: veramente a me sarebbe la morte un ricchissimo
tesoro". Disse allora Tebano: "Quale è la tua impresa, per la quale,
non potendola for nire, sì dolente dimori?". A cui Tarolfo rispose: "È
tale che impossibile mi pare omai a fornire, poi che qui non ho trovato
consiglio". Disse Tebano: "Osasi dire?". Rispose Tarolfo:
"Sì, ma a che utile?". "Forse niuno" disse Tebano, "ma
che danno?". Allora Tarolfo disse: "Io cerco di potere aver consiglio
come del più freddo mese si potesse avere un giardino pieno di fiori e di
frutti e d'erbe, bello sì come del mese di maggio fosse, né trovo chi a ciò
aiuto o consiglio mi doni che vero sia". Stette Tebano un pezzo tutto
sospeso sanza rispondere, e poi disse: "Tu e molti altri il sapere e le
virtù degli uomini giudicate secondo i vestimenti. Se la mia roba fosse stata
qual è la tua, tu non m'avresti tanto penato a dire la tua bisogna, o se forse
appresso de' ricchi prencipi m'avessi trovato, come tu hai a cogliere erbe; ma
molte volte sotto vilissimi drappi grandissimo tesoro di scienza si nasconde: e
però a chi proffera consiglio o aiuto niuno celi la sua bisogna, se, manifesta,
non gli può pregiudicare. Ma che doneresti tu a chi quello che tu vai cercando
ti recasse ad effetto?". Tarolfo rimirava costui nel viso, dicendo egli
queste parole, e in sé dubitava non questi si facesse beffe di lui, parendogli
incredibile che, se colui fosse stato Iddio, ch'egli avesse potuto fare virtù.
Non per tanto egli li rispose così: "Io signoreggio ne' miei paesi più
castella, e con esse molti tesori, i quali tutti per mezzo partirei con chi tal
piacere mi facesse". "Certo" disse Tebano "se questo
facessi, a me non bisognerebbe d'andare più cogliendo l'erbe".
"Fermamente" disse Tarolfo "se tu se' quelli che in ciò mi
prometti di dare vero effetto, e davelo, mai non ti bisognerà più affannare per
divenire ricco; ma come o quando mi potrai tu questo fornire?". Disse
Tebano: "Il quando fia a tua posta, del come non ti travagliare. Io me ne
verrò teco fidandomi nella tua parola della promessa che mi fai, e quando là
dove ti piacerà saremo, comanderai quello che tu vorrai: io fornirò tutto sanza
fallo". Fu di questo accidente tan to contento in se medesimo Tarolfo, che
poca più letizia avria avuta se nelle sue braccia la sua donna allora tenuta
avesse, e disse: "Amico, a me si fa tardi che quello che imprometti si
fornisca: però sanza indugio partiamo e andiamo là ove questo si dee
fornire". Tebano, gittate via l'erbe, e presi i suoi libri e altre cose al
suo maesterio necessarie, con Tarolfo si mise al cammino, e in brieve tempo
pervennero alla disiderata città, assai vicini al mese del quale era stato
dimandato il giardino. Quivi tacitamente e occulti infino al termine disiderato
si riposarono; ma entrato già il mese, Tarolfo comandò che 'l giardino
s'apprestasse, acciò che donare lo potesse alla sua donna. Come Tebano ebbe il
comandamento, egli aspettò la notte, e, venuta, vide i corni della luna tornati
in compiuta ritondità, e videla sopra l'usate terre tutta risplendere. Allora
egli uscì della città, lasciati i vestimenti, scalzo, e con i capelli sparti
sopra li nudi omeri, tutto solo. I vaghi gradi della notte passavano, gli
uccelli, le fiere e gli uomini riposavano sanza niuno mormorio, e sopra i monti
le non cadute frondi stavano sanza alcuno movimento, e l'umido aere in pace si
riposava: solamente le stelle luceano, quando egli, più volte circuita la
terra, pervenne al luogo, il quale gli piacque d'eleggere per lo giardino, allato
ad un fiume. Quivi stese verso le stelle le braccia, tre volte rivoltandosi ad
esse, e tante i bianchi capelli nella corrente acqua bagnò, domandando
altretante volte con altissima voce il loro aiuto; poi poste le ginocchie sopra
la dura terra, cominciò così a dire: "O notte, fidatissima segreta
dell'alte cose, e voi, o stelle, le quali al risplendente giorno con la luna
insieme succedete, e tu, o somma Ecate, la quale aiutatrice vieni alle cose
incominciate da noi, e tu, o santa Cerere, rinnovatrice dell'ampia faccia della
terra, e voi qualunque versi, o arti, o erbe, e tu qualunque terra producente
virtuose piante, e voi aure, e venti, e monti, e fiumi, e laghi, e ciascuno
iddio de' boschi o della se greta notte, per li cui aiuti io già rivolsi i correnti
fiumi faccendogli tornare nelle loro fonti, e già feci le correnti cose stare
ferme, e le ferme divenire correnti, e che già deste a' miei versi potenza di
cacciare i mari e di cercare sanza dubbio i loro fondi, e di rischiarare il
nuvoloso tempo, e il chiaro ciclo riempiere a mia posta d'oscuri nuvoli,
faccendo i venti cessare e venire come mi pareva, e con quelli rompendo le dure
mascelle degli spaventevoli dragoni, faccendo ancora muovere le stanti selve e
tremare gli eccelsi monti, e ne' morti corpi tornare da' paduli di Stige le
loro ombre e vivi uscire de' sepolcri, e tal volta tirare te, o luna, alla tua
ritondità, alla quale per adietro i sonanti bacini ti soleano aiutare venire,
faccendo ancora tal volta la chiara faccia del sole impalidire: siate presenti,
e 'l vostro aiuto mi porgete. Io ho al presente mestiere di sughi e d'erbe, per
li quali l'arida terra, prima d'autunno, ora dal freddissimo verno, de' suoi
fiori, frutti e erbe spogliata, faccia in parte ritornare fiorita, mostrando,
avanti il dovuto termine, primavera". Questo detto, molte altre cose
tacitamente aggiunse a' suoi prieghi. Poi tacendo, le stelle non dieron luce
invano, ma più veloce che volo d'alcuno uccello un carro da due dragoni tirato
gli venne avanti, sopra il quale egli montò, e, recatesi le redine de' posti
freni a' due dragoni in mano, suso in aria si tirò. E pigliando per l'alte
regioni il cammino, lasciò Spagna e cercò l'isola di Creti: di quindi Pelion, e
Ocris e Ossa, e 'l monte Nero, Pacchino, Peloro e Appennino in brieve corso
cercò tutti, di tutti svellendo e segando con aguta falce quelle radici e erbe
che a lui piacevano, né dimenticò quelle che divelte avea quando da Tarolfo fu
trovato in Tesaglia. Egli prese pietre d'in sul monte Caocaso, e dell'arene di
Gange e di Libia recò lingue di velenosi serpenti. Egli vide le bagnate rive
del Rodano, di Senna, d'Amprisi e di Ninfeo, e del gran Po, e dello imperial
Tevero, e d'Arno, e di Tanai, e del Danubio, di sopra da quelle ancora
prendendo quelle erbe che a lui pareano necessarie, e queste aggiunse all'altre
colte nelle sommità de' salvatichi monti. Egli cercò l'isola di Lesbos e quella
de' Colchi e Delfos e Patimos, e qualunque altra nella quale sentito avesse
cosa utile al suo intendimento. Con le quali cose, non essendo ancora passato
il terzo giorno, venne in quel luogo onde partito s'era: e i dragoni, che
solamente l'odore delle prese erbe aveano sentito, gittando lo scoglio vecchio
per molti anni, erano rinnovellati e giovani ritornati. Quivi smontato, d'erbosa
terra due altari compose, dalla destra mano quello d'Ecate, dalla sinistra
quello della rinnovellante dea. I quali fatti, e sopr'essi accesi divoti
fuochi, co' crini sparti sopra le vecchie spalle, con inquieto mormorio
cominciò a circuire quelli: e in raccolto sangue più volte intinse le ardenti
legne. Poi riponendole sopra gli altari e tal volta con esse inaffiando quel
terreno il quale egli avea al giardino disposto, dopo questo, quello medesimo
tre volte di fuoco e d'acqua e di solfo rinnaffiò. Poi, posto un grandissimo
vaso sopra l'ardenti fiamme, pieno di sangue, di latte e d'acqua, quello fece
per lungo spazio bollire, aggiungendovi l'erbe e le radici colte negli strani
luoghi, mettendovi ancora con esse diversi semi e fiori di non conosciute erbe,
e aggiunsevi pietre cercate nello estremo oriente, e brina raccolta le passate
notti; insieme con carni e ali d'infamate streghe, e de' testicoli del lupo
l'ultima parte, con isquama di cinifo e con pelle del chelidro, e ultimamente
un fegato con tutto il polmone d'un vecchissimo cervio: e, con queste, mille
altre cose, o sanza nomi o sì strane che la memoria nol mi ridice. Poi prese un
ramo d'un secco ulivo e con esso tutte queste cose cominciò a mescolare
insieme. La qual cosa faccendo, il secco ramo cominciò a divenire verde e in
brieve a mettere le frondi, e, non dopo molto, rivestito di quelle, si poté
vedere carico di nere ulive. Come Tebano vide questo, egli prese i boglienti
liquori, e sopra lo eletto terreno, nel quale di tan ti legni avea fatti bastoni
quanti alberi e di quante maniere voleva, e quivi quelli liquori incominciò a
spandere e ad inaffiare per tutto: la qual cosa la terra non sentì prima,
ch'ella cominciò tutta a fiorire, producendo nuove e belle erbette, e i secchi
legni verdi piantoni e fruttiferi divennero tutti. La qual cosa fatta, Tebano
rientrò nella terra tornando a Tarolfo, il quale quasi pauroso d'essere stato
da lui beffato per la lunga dimoranza dimorava, e trovollo tutto pensoso. A cui
egli disse: "Tarolfo, fatto è quello che hai dimandato, e è al piacere
tuo". Assai piacque questo a Tarolfo, e dovendo essere il seguente giorno
nella città una grandissima solennità, egli se n'andò davanti alla sua donna,
la quale già era gran tempo che veduta non l'avea, e così le disse: "Madonna,
dopo lunga fatica io ho fornito quello che voi comandaste: quando vi piacerà di
vederlo e di prenderlo, egli è al vostro piacere". La donna, vedendo
costui, si maravigliò molto, e più udendo ciò che egli diceva; e non
credendolo, rispose: "Assai mi piace; faretecelo vedere domane".
Venuto il seguente giorno, Tarolfo andò alla donna, e disse: "Madonna,
piacciavi di passare nel giardino, il quale voi mi dimandaste nel freddo
mese". Mossesi adunque la donna da molti accompagnata, e pervenuti al
giardino, v'entrarono dentro per una bella porta, e in quello non freddo come
di fuori, ma uno aere temperato e dolce si sentiva. Andò la donna per tutto
rimirando e cogliendo erbe e fiori, de' quali molto il vide copioso: e tanto
più ancora avea operato la virtù degli sparti liquori, che i frutti, i quali
l'agosto suole producere, quivi nel selvatico tempo tutti i loro alberi
facevano belli: de' quali più persone, andate con la donna, mangiarono. Questo
parve alla donna bellissima cosa e mirabile, né mai un sì bello ne le pareva
avere veduto. E poi che essa in molte maniere conobbe quello essere vero
giardino, e 'l cavaliere avere adempiuto ciò che ella avea domandato, ella si
voltò a Tarolfo e disse: "Sanza fallo, cavaliere, guadagnato avete l'amore
mio, e io sono presta d'attenervi ciò che io vi promisi; veramente voglio una
grazia, che vi piaccia tanto indugiarvi a richiedermi del vostro disio, che 'l
signore mio vada a caccia o in altra parte fuori della città, acciò che più
salvamente e sanza dubitanza alcuna possiate prendere vostro diletto".
Piacque a Tarolfo, e lasciandole il giardino, quasi contento da lei si partì.
Questo giardino fu a tutti i paesani manifesto, avvegna che niuno non sapesse,
se non dopo molto tempo, come venuto si fosse. Ma la gentil donna, che ricevuto
l'avea, dolente di quello si partì, tornando nella sua camera piena di noiosa
malinconia. E pensando in qual maniera tornare potesse adietro ciò che promesso
avea, e non trovando licita scusa, in più dolore cresceva. La quale vedendo il
marito più volte, si cominciò molto a maravigliare e a domandarla che cosa ella
avesse: la donna dicea che niente avea, vergognandosi di scoprire al marito la
fatta promissione per lo dimandato dono, dubitando non il marito malvagia la
tenesse. Ultimamente non potendosi ella a' continui stimoli del marito, che pur
la cagione della sua malinconia disiderava di sapere, tenersi, dal principio
infino alla fine gli narrò perché dolente dimorava. La qual cosa udendo il
cavaliere lungamente pensò, e conoscendo nel pensiero la purità della donna,
così le disse: "Va, e copertamente serva il tuo giuramento, e a Tarolfo
ciò che tu promettesti liberamente attieni: egli l'ha ragionevolmente e con
grande affanno guadagnato". Cominciò la donna a piangere e a dire: "Facciano
gl'iddii da me lontano cotal fallo; in niuna maniera io farò questo: avanti
m'ucciderei ch'io facessi cosa che disonore o dispiacere vi fosse". A cui
il cavaliere disse: "Donna, già per questo io non voglio che tu te
n'uccida, né ancora che una sola malinconia tu te ne dia: niuno dispiacere m'è,
va e fa quello che tu impromettesti, ch'io non te ne avrò di meno cara; ma
questo fornito, un'altra volta ti guarderai di sì fatte impromesse, non tanto
ti paia il domandato dono impossibile ad avere". Vedendo la donna la
volontà del marito, ornatasi e fattasi bella, e presa compagnia, andò
all'ostiere di Tarolfo, e di vergogna dipinta gli si presentò davanti. Tarolfo
come la vide, levatosi da lato a Tebano con cui sedea, pieno di maraviglia e di
letizia le si fece incontro, e lei onorevolmente ricevette, domandando della
cagione della sua venuta. A cui la donna rispose: "Per essere a tutti i
tuoi voleri sono venuta; fa di me quello che ti piace". Allora disse
Tarolfo: "Sanza fine mi fate maravigliare, pensando all'ora e alla
compagnia con cui venuta siete: sanza novità stata tra voi e 'l vostro marito
non può essere; ditemelo, io ve ne priego". Narrò allora la donna
interamente a Tarolfo come la cosa era tutta per ordine. La qual cosa udendo,
Tarolfo più che prima s'incominciò a maravigliare e a pensare forte, e a
conoscere cominciò la gran liberalità del marito di lei che mandata a lui
l'avea, e fra sé cominciò a dire che degno di gravissima riprensione sarebbe
chi a così liberale uomo pensasse villania; e parlando alla donna così disse:
"Gentil donna, lealmente e come valorosa donna avete il vostro dovere
servato, per la qual cosa io ho per ricevuto ciò che io di voi disiderava; e
però quando piacerà a voi, voi ve ne potrete tornare al vostro marito, e di
tanta grazia da mia parte ringraziarlo, e scusarglimi della follia che per
adietro ho usata, accertandolo che mai per inanzi più per me tali cose non
fiano trattate". Ringraziò la donna Tarolfo molto di tanta cortesia, e
lieta si partì tornando al suo marito, a cui tutto per ordine disse quello che
avvenuto l'era. Ma Tebano ritornato a lui, Tarolfo domandò come avvenuto gli
fosse; Tarolfo gliele contò; a cui Tebano disse: "Dunque per questo avrò
io perduto ciò che da te mi fu promesso?". Rispose Tarolfo: "No,
anzi, qualora ti piace, va, e le mie castella e i miei tesori prendi per metà,
come io ti promisi, però che da te interamente servito mi tengo". Al quale
Tebano rispose: "Unque agl'iddii non piaccia che io, là dove il cavaliere
ti fu della sua donna liberale, e tu a lui non fosti villano, che io sia meno
che cortese. Oltre a tutte le cose del mondo mi piace averti servito, e voglio
che ciò che in guiderdone del servigio prendere dovea, tuo si rimanga sì come
mai fu": né di quello di Tarolfo volle alcuna cosa prendere. Dubitasi ora
quale di costoro fosse maggiore liberalità, o quella del cavaliere che
concedette alla donna l'andare a Tarolfo, o quella di Tarolfo, il quale quella
donna cui egli avea sempre disiata, e per cui egli avea tanto fatto per venire
a quel punto che venuto era, quando la donna venne a lui, se gli fosse
piaciuto, rimandò la sopradetta donna intatta al suo marito; o quella di
Tebano, il quale, abandonate le sue contrade, oramai vecchio, e venuto quivi
per guadagnare i promessi doni, e affannatosi per recare a fine ciò che
promesso avea, avendoli guadagnati, ogni cosa rimise, rimanendosi povero come
prima».
[32]
«Bellissima
è la novella e la dimanda - disse la reina, - e in verità che ciascuno fu assai
liberale, e, ben considerando, il primo del suo onore, il secondo del
libidinoso volere, il terzo dell'acquistato avere fu cortese: e però volendo
conoscere chi maggiore liberalità overo cortesia facesse, conviene considerare
quale di queste tre cose sia più cara. La qual cosa veduta, manifestamente conosceremo
il più liberale, però che chi più dona più liberale è da tenere. Delle quali
tre cose l'una è cara, cioè l'onore, il quale Paulo, vinto Persio re, più tosto
volle che i guadagnati tesori. Il secondo è da fuggire, cioè il libidinoso
congiugnimento, secondo la sentenza di Sofoldeo e di Senocrate, dicenti che
così è la lussuria da fuggire come furioso signore. La terza non è da
disiderare, ciò sono le ricchezze, con ciò sia cosa che esse sieno le più volte
a virtuosa vita noiose, e possasi con moderata povertà vivere virtuosamente, sì
come Marco Curzio e Attilio Regolo e Valerio Publicola nelle loro opere
manifestarono. Adunque, se solo l'onore è in queste tre caro, e l'altre no,
dunque quelli maggiore liberalità fece che quello donava, avvegna che meno
saviamente facesse. Egli ancora fu nelle liberalità principale, per la cui
l'altre seguirono: però, secondo il nostro parere, chi diè la donna, in cui il
suo onore consisteva, più che gli altri fu liberale».
[33]
«Io
- disse Menedon - consento che sia come voi dite, in quanto da voi è detto, ma
a me pare che ciascuno degli altri fosse più liberale, e udite come. Egli è ben
vero che 'l primo concedette la donna, ma in ciò egli non fece tanta liberalità
quanto voi dite; però che se egli l'avesse voluta negare, giustamente egli non
poteva, per lo giuramento fatto dalla donna, che osservare si convenia: e chi
dona ciò che non può negare ben fa, in quanto se ne fa liberale, ma poco dà. E
però, sì com'io dissi, ciascuno degli altri più fu cortese, però che, come io
già dissi, Tarolfo avea già lungo tempo la donna disiderata e amata sopra tutte
le cose, e per questa avere avea lungamente tribolato, e mettendosi per
satisfazione della dimanda di lei a cercare cose quasi impossibili ad avere, le
quali pure avute, lei meritò di tenere per la promessa fede: la quale, sì come
noi dicemmo, tenendo, non è dubbio che nelle sue mani l'onore del marito, e il
rimetterle ciò che promesso gli avea, stava. La qual cosa egli fece: dunque
dell'onore del marito, del saramento di lei, del suo lungo disio fu liberale.
Gran cosa è l'avere una lunga sete sostenuta, e poi pervenire alla fontana e
non bere per lasciare bere altrui. Il terzo ancora fu molto liberale, però che,
pensando che la povertà sia una delle moleste cose del mondo a sostenere, con
ciò sia cosa ch'ella sia cacciatrice d'allegrezza e di riposo, fugatrice
d'onori, occupatrice di virtù, adducitrice d'amare sollecitudini, ciascuno
naturalmente quella s'ingegna di fuggire con ardente disio. Il quale disio in
molti per vivere splendidamente in riposo s'accende tanto, che essi a disonesti
guadagni e a sconce imprese si mettono, forse non sappiendo o non potendo in
altra maniera il lor disio adempiere: per la qual cosa tal volta meritano
morire, o avere delle loro terre etterno essilio. Dunque, quanto deono elle
piacere e essere care a chi in modo debito le guadagna e possiede! E chi
dubiterà che Tebano fosse poverissimo, se si riguarda ch'egli, abandonati i
notturni riposi, per sostentare la sua vita, ne' dubbiosi luoghi andava
cogliendo l'erbe e scavando le radici? E che questa povertà occupasse la sua
virtù ancora si può credere, udendo che Tarolfo credeva da lui essere gabbato,
quando di vili vestimenti il riguardava vestito; che egli fosse vago di quella
miseria uscire e divenire ricco, sappiendo ch'egli di Tesaglia infino in
Ispagna venne, mettendosi per li dubbiosi cammini e incerti dell'aere alle
pericolose cose per fornire la 'mpromessa fatta da lui e per ricevere quella
d'altrui, in sé si può vedere: chi a tante e tali cose si mette per povertà
fuggire, sanza dubbio si dee credere che egli quella piena d'ogni dolore e
d'ogni affanno essere conosce. E quanto di maggiore povertà è uscito e entrato
in ricca vita, tanto quella gli è più graziosa. Adunque, chi di povertà è in
ricchezza venuto, e con quella il vivere gli diletta, quanta e quale liberalità
è quella di chi quella dona, e nello stato, ch'egli ha con tanti affanni
fuggito, consente di ritornare? Assai grandissime e liberali cose si fanno, ma
questa maggiore di tutte mi pare: considerando ancora alla età del donatore che
era vecchio, con ciò sia cosa che ne' vecchi soglia continuamente avarizia
molto più che ne' giovani avere potere. Però terrò che ciascuno de' due
seguenti aggia maggiore liberalità fatta che 'l primo, e 'l terzo maggiore che
niuno».
[34]
«Quanto
meglio per alcuno si potesse la vostra ragione difendere, tanto la difendete
ben voi - disse la reina; - ma noi brievemente intendiamo dimostrarvi come il
nostro parere deggiate più tosto che il vostro tenere. Voi volete dire che
colui niuna liberalità facesse concedendo la mogliere, però che di ragione fare
gliele convenia per lo saramento fatto dalla donna: la qual cosa saria così, se
il saramento tenesse; ma la donna, con ciò sia cosa ch'ella sia membro del
marito, o più tosto un corpo con lui, non potea fare quel saramento santa
volontà del marito, e se 'l fece, fu nullo, però che al primo saramento
licitamente fatto niuno subsequente puote derogare, e massimamente quelli che
per non dovuta cagione non debitamente si fanno; e ne' matrimoniali
congiungimenti è usanza di giurare d'essere sempre contento l'uomo della donna,
e la donna dell'uomo, né di mai l'uno l'altro per altra cambiare; dunque la
donna non poté giurare, e se giurò, come già detto avemo, per non dovuta cosa
giurò; e contraria al primo giuramento, non dee valere, e non valendo, oltre al
suo piacere non si dovea commettere a Tarolfo, e se vi si commise, fu egli del
suo onore liberale, e non Tarolfo, come voi tenete. Né del saramento non poté liberale
essere rimettendolo, con ciò sia cosa che il saramento niente fosse: adunque
solamente rimase liberale Tarolfo del suo libidinoso disio. La qual cosa di
propio dovere si conviene a ciascuno di fare, però che tutti per ogni ragione
siamo tenuti d'abandonare i vizi e di seguire le virtù. E chi fa quello a che
egli è di ragione tenuto, sì come voi diceste, in niuna cosa è liberale, ma
quello che oltre a ciò si fa di bene, quello è da chiamare liberalità
dirittamente. Ma però che voi forse nella vostra mente tacito ragionate:
"che onore può essere quello della casta donna al marito che tanto debbia
esser caro?", noi prolungheremo alquanto il nostro parlare, mostrandolvi,
acciò che più chiaramente veggiate Tarolfo né Tebano, di cui appresso intendiamo
di parlare, niuna liberalità facessero a rispetto del cavaliere. Da sapere è
che castità insieme con l'altre virtù niuno altro premio rendono a' posseditori
d'esse se non onore, il quale onore, tra gli altri uomini meno virtuosi, li fa
più eccellenti. Questo onore, se con umiltà il sostengono, gli fa amici di Dio,
e per consequente felicemente vivere e morire, e poi possedere gli etterni
beni. La quale se la donna al suo marito la serva, egli vive lieto e certo
della sua prole, e con aperto viso usa infra la gente, contento di vedere lei
per tale virtù dalle più alte donne onorata, e nell'animo gli è manifesto
segnale costei essere buona, e temere Iddio, e amare lui, che non poco gli dee
piacere, sentendo che per etterna compagnia indivisibile, fuor che da morte,
gli è donata. Egli per questa grazia ne' mondani beni e negli spirituali si
vede continuo multiplicare. E così, per contrario, colui la cui donna di tale
virtù ha difetto, niuna ora può con consolazione passare, niuna cosa gli è a
grado, l'uno la morte dell'altro disidera. Elli si sentono per lo sconcio vizio
nelle bocche de' più miseri esser portati, né gli pare che sì fatta cosa non si
debbia credere a chiunque la dice. E se tutte l'altre virtù fossero in lui,
questo vizìo pare ch'abbia forza di contaminarle e di guastarle. Dunque
grandissimo onore è quello che la castità della donna rende all'uomo, e molto
da tener caro. Beato si può chiamare colui a cui per grazia cotal dono è
conceduto, avvegna che noi crediamo che pochi sieno quelli a' quali di tal bene
sia portato invidia. Ma ritornando al nostro proposito, vedete quanto il
cavaliere dava: ma egli non ci è della mente uscito quanto diceste, Tebano
essere stato più che gli altri liberale, il quale con affanno arricchito, non
dubitò di tornare nella miseria della povertà, per donare ciò che acquistato
avea. Apertamente si pare che da voi è mal conosciuta la povertà, la quale ogni
ricchezza trapassa se lieta viene. Tebano già forse per l'acquistate ricchezze
gli pareva esser pieno d'amare e di varie sollecitudini. Egli già imaginava che
a Tarolfo paresse avere mal fatto, e trattasse di ucciderlo per riavere le sue
castella. Egli dimorava in paura non forse da' suoi sudditi fosse tradito. Egli
era entrato in sollecitudine del governamento delle sue terre. Egli già
conoscea tutti gl'inganni apparecchiati da' suoi parzionali di farli. Egli si
vedea da molti invidiato per le sue ricchezze, egli dubitava non i ladroni
occultamente quelle gli levassero. Egli era ripieno di tanti e tali e sì varii
pensieri e sollecitudini, che ogni riposo era da lui fuggito. Per la qual cosa
ricordandosi della preterita vita, e come sanza tante sollecitudini la menava
lieta, fra sé disse: "Io disiderava d'arricchire per riposo, ma io veggo
ch'elli è accrescimento di tribulazioni e di pensieri, e fuggimento di
quiete". E tornando disideroso d'essere nella prima vita, quelle rendé a
chi gliele avea donate. La povertà è rifiutata ricchezza, bene non conosciuto,
fugatrice di stimoli, la quale fu da Diogene interamente conosciuta. Tanto
basta alla povertà quanto natura richiede. Sicuro da ogni insidia vive chi con
quella pazientemente s'accosta, né gli è tolto il potere a grandi onori
pervenire, se virtuosamente vive come già dicemmo; e però se Tebano si levò
questo stimolo da dosso, non fu liberale, ma savio. In tanto fu grazioso a
Tarolfo in quanto più tosto a lui che ad un altro gli piacque di donarlo,
potendolo a molti altri donare. Fu adunque più liberale il cavaliere, che il
suo onore concedea, che nullo degli altri. E pensate una cosa: che l'onore che
colui donava è inrecuperabile, la qual cosa non avviene di molti altri, sì come
di battaglie, di pruove e d'altre co se, le quali se una volta si perdono,
un'altra si racquistano, e è possibile. E questo basti sopra la vostra dimanda
aver detto».
[35]
Poi
che la reina tacque, e Menedon fu rimaso contento, un valoroso giovane chiamato
Clonico, il quale appresso Menedon sedeva, così cominciò a parlare:
«Grandissima
reina, tanto è stata bella e lunga la novella di questo nobile giovane, che io,
acciò che gli altri nel brieve tempo possano ad agio dire, quanto potrò, il mio
intendimento brievemente vi narrerò: e dico che, con ciò fosse cosa che io
ancora molto giovane conoscesse la vita de' suggetti del nostro signore Amore
piena di molte sollecitudini e d'angosciosi stimoli con poco diletto,
lungamente a mio potere la fuggii, schernendo più tosto coloro che lui
seguivano, che commendandoli; e ben che io molte volte già fossi tentato, con
forte animo resistetti, cessando i tesi lacciuoli. Ma però che io a quella
forza, alla quale Febo non poté resistere, non era forte a contrastare,
avendosi Cupido pur posto in cuore di recarmi nel numero de' suoi suggetti, fui
preso, né quasi m'accorsi come, però che un giorno già per lo rinnovellato tempo
lieto andando io su per li salati liti, conche marine con diletto prendendo,
avvenne che voltando io gli occhi verso le nitide onde, per quelle vidi subita
venire una barchetta, nella quale quattro giovani con un solo marinaio veniano,
tanto belle, che mirabile cosa il vederle sì belle mi parve. E essendosi esse
già verso di me appropinquate assai, né io però avessi i miei occhi da' loro
visi levati, vidi in mezzo di loro un lustrore grandissimo, nel quale, secondo
che la stimativa mi porse, mi parve vedere una figura d'uno angelo
giovanissimo, e tanto bella quanto alcuna cosa mai da me veduta. Il quale
rimirando io, mi parve ch'egli dicesse così verso di me con voce assai dalla
nostra diversa: "O giovane, stolto perseguitore della nostra potenza, ora
se' giunto! Io sono qui con quattro belle giovinette venuto: piglia per donna
quella che più piace agli occhi tuoi!". Io, questa voce udendo, tutto
rimasi stupefatto, e col cuore e con gli occhi cercava di fuggire quello che io
molte volte già fuggito avea; ma ciò era niente, però che alle mie gambe era
tolta la possa, e egli avea arco e ali da giugnermi assai tosto. Onde io tra
quelle mirando, vidi l'una di loro tanto bella e graziosa nell'aspetto e ne'
sembianti pietosa, ch'io imaginai di volere lei per singulare donna, fra me
dicendo: "Costei agli occhi miei sì umile si presenta, che fermamente ella
non sarà a' miei disii nimica, come molte altre sono a quelli i quali io,
vedendoli pieni d'affanni, ho già scherniti, ma sarà delle mie noie cacciatrice".
E questo pensato, subito risposi: "La graziosa bellezza di quella giovane
che alla vostra destra siede, o signor mio, mi fa disiderare d'essere a voi e a
lei fedelissimo servidore; e però io sono qui a' vostri voleri presto: fate di
me quello che a voi piace". Io non avea ancora compiuto di parlare, ch'io
mi sentii il sinistro lato piagare d'una lucente saetta venuta dall'arco che
egli portava, la quale io estimai che d'oro fosse. E certo io non vidi quando
egli, voltato a lei, essa ferì d'una di piombo: e in questa maniera preso
rimasi ne' lacci da me lungamente fuggiti. Questa giovane piacque e piace tanto
agli occhi miei, che ogni altro piacere fora per comparazione a questo scarso.
Della qual cosa ella avedendosene, lungamente si mostrò contenta; ma poi ch'ella
conobbe me sì preso del suo piacere, che impossibile mi sarebbe il non amarla,
ella incontanente il suo inganno con non dovuto sdegno verso me scoperse,
mostrandosi ne' sembianti a me crudelissima nimica, sempre gli occhi torcendo
in altra parte a quella contraria dove me veduto avesse, e con non dovute
parole continuo dispregiandomi. Per la qual cosa, avendo io in molte maniere
con prieghi e con umiltà ingegnatomi di raumiliare la sua acerbità, né pote'
mai, io sovente piango e dolgomi d tanto infortunio, né in maniera niuna posso
d'amarla tirarmi indietro: anzi quanto più crudele verso di me la sento, tanto
più pare che la fiamma del suo piacere m'accenda il tristo cuore. Delle quali
cose dolendomi io un giorno tutto soletto in un giardino con infiniti sospiri
accompagnati da molte lagrime, sopravenne un mio singulare amico, al quale
parte de' miei danni era palese, e quivi con pietose parole m'incomincìò a
volere riconfortare; i cui conforti non ascoltando io niente, ma rispondendogli
che la mia miseria ogni altra passava, egli così mi disse: "Tanto è l'uomo
misero quanto egli medesimo si fa o si riputa; ma certo io ho molto maggiore
cagione di dolermi che tu non hai". Io allora quasi turbato mi rivolsi a
lui, dicendo: "Come? Chi la può maggiore di me avere? Non ricevo io mal
guiderdone per ben servire? Non sono io odiato per lealmente amare? Così come
me può alcuno essere dolente, ma più no". "Certo" rispose
l'amico "io ho maggiore cagione di dolermi che tu non hai, e odi come. A te
non è occulto che io lungo tempo abbia una gentil donna amata e amo sì come tu
fai, né mai niuna cosa fu che io credessi che a lei piacesse, che io con tutto
il mio ingegno e potere non mi sia messo a farla. E certo essa di questo
conoscente, di ciò che io più disiderava mi fece grazioso dono, il quale avendo
io ricevuto, e ricevendo qualora mi piacea, per lunga stagione non mi parea
alla mia vita avere in allegrezza pari. Solo uno stimolo avea, che io non le
potea far credere quanto io perfettamente l'amava: ma di questo, sentendomi
amarla com'io dicea, leggermente mi passava. Ma gl'iddii, che niuno bene
mondano vogliono sanza alcuna amaritudine concedere, acciò che i celestiali
siano più conosciuti, e per consequente più disiderati, a questo m'aggiunsero
un altro a me sanza comparazione noioso; ch'elli avvenne che dimorando io un
giorno soletto con lei in segreta parte, veggendo chi davanti a noi passava
sanza essere veduti, un giovane grazioso e di piacevole aspetto passò per
quella parte, il quale io vidi ch'ella riguardò e poi un pietoso sospiro gittò.
La qual cosa vedendo, io dissi: "Oimè, sonvi io sì tosto rincresciuto, che
per la bellezza d'altro giovane sospiriate?". Ella tornata nel viso di
nuova rossezza dipinta, con molte scuse, giurando per la potenza de' sommi
iddii, s'incominciò ad ingegnare di farmi scredere ciò che io per lo sospirare
avea pensato: ma ciò fu niente, però che nel cuore mi s'accese una ira sì
ferocissima, che quasi con lei non mi fece allora crucciare, ma pur mi ritenni.
E certamente mai dell'animo partire non mi si poté che costei colui o altrui
non amasse più di me: e tutti quelli pensieri, i quali altra volta in mio aiuto
recava, cioè ch'ella più ch'altro me amasse, ora tutti in contrario li estimo,
imaginando che fittiziamente abbia detto e fatto ciò che per adietro ha
operato; di che dolore intollerabile sostengo. Né a ciò alcuno conforto vale;
ma però che vergogna sovente raffrena il volere ch'io ho di dolermi più che di
rallegrarmi, non continuo il mio dolore sì ch'io ne faccia alcuni avedere, ma,
brievemente, io mai sanza sollecitudine e pensieri non sono, i quali molta più
noia mi danno ch'io non vorrei. Adunque appara a sostenere le minori cose, poi
che a me le maggiori vedi con forte animo portare nascose". Al quale io
risposi che non mi parea che in niuno modo il suo dolore, ben che fosse grande,
si potesse al mio agguagliare. E egli mi rispondea il contrario: e così in
lunga quistione dimorammo, partendoci poi sanza niuna diffinizione. Priegovi ne
diciate quello che di questo voi terreste».
[36]
«Giovane
- disse la reina, - gran pena è la vostra, e torto ha la donna di non amarvi;
ma tutta fiata il vostro dolore può essere da speranza aiutato: quello che del
vo stro compagno non avviene, però che, poi ch'egli è una volta entrato in
sospetto, niuna cosa nel può cacciare. Dunque continuamente sanza conforto si
dorrà mentre l'amore durerà: e però, secondo il nostro giudicio, ne pare
maggiore doglia quella del geloso che quella di chi ama e non è amato».
[37]
Disse
Clonico allora:
«O
nobile reina, che è ciò che voi dite? Aperto pare che sempre siete stata amata
da cui amato avete, per la qual cosa la mia pena male conoscete. Come si
potrebbe mostrare che gelosia porgesse maggiore pena che quella ch'io sento,
con ciò sia cosa che colui la disiderata cosa possiede, e puote, quella
tenendo, prendere in una ora più diletto di lei che in un lungo tempo sentirne
pena, e nientemeno da sé per esperienzia può cacciare tal gelosia, se avviene
che truovi falso il suo parere? Ma io, di focoso disio acceso, quanto più mi
truovo lontano ad adempierlo, tanto più ardo, e assalito da mille stimoli mi
consumo; né a ciò mi può aiutare alcuna speranza, però che per le molte volte
ch'io ho riprovata costei, e trovatala ognora più acerba, io vivo disperato.
Per che la vostra risposta mi pare che alla verità sia contraria: che io non
dubito che non sia molto meglio dubitando tenere, che piangendo disiare».
[38]
«Quella
amorosa fiamma che negli occhi ne luce e il nostro viso ognora adorna di più
bellezza, come voi dite, mai non consentì che invano amassimo, ma non per tanto
non ci si occulta quanta e quale sia la pena dell'uno, e quella dell'altro»,
rispose la reina; seguendo: «e però, come la nostra risposta sia con la verità
una cosa, vi mostreremo. Egli è manifesto che quella cosa che più la quiete
dell'animo impedisce è la sollecitudine, delle quali alcune a lieto fine vanno,
alcune a dolente fuggire intendono. Delle quali quanto più n'ha l'animo, tanto
più ha affanno, e massimamente quando noiose sono: e che il geloso più di voi
n'abbia è manifesto, però che voi a niuna cosa intendete se non solamente ad
acquistare l'amore di quella donna cui voi amate, il quale non potendolo avere
v'è gravissima noia. Ma certo e' potrebbe di leggiere avvenire, con ciò sia
cosa che i cuori delle femine sieno mobili, che subitamente voi, non
pensandoci, vi trovereste averlo acquistato: o forse che v'ama, ma, per provare
se voi lei amate, dimostra il contrario, e mostrerà forse infino a quel tempo
ch'ella fia bene del vostro amore accertata. Con questi pensieri può molto
speranza mitigare la vostra doglia: ma il geloso ha l'animo pieno d'infinite
sollecitudini, alle quali né speranza né altro diletto può porgere conforto, o
alleviare la sua pena. Egli sta intento di dare legge a' vaghi occhi, a' quali
il suo posseditore non la può donare. Egli vuole e s'ingegna di porre legge a'
piedi e alle mani, e a ogni altro atto della sua donna. Egli vuole essere
provido conoscitore e de' pensieri della donna e della allegrezza, ogni cosa
interpretando in male di lui, e crede che ciascuno disideri e ami quello che
egli ama. Similemente s'imagina che ogni parola sia doppia e piena d'inganno; e
se egli mai alcuna detrazione commise, questo gli è mortal pensiero imaginando
che per simile o modo esso debba essere ingannato. Egli vuol chiudere con
avvisi le vie dell'aere e della terra, e, brievemente, ne' suoi pensieri gli
nocciono il cielo e la terra, gli uccelli e gli animali, e qualunque altra
creatura: e a questo levarli non ha luogo esperienza, però che se la fa e trovi
che lealmente la donna si porti, egli pensa che aveduta si sia di ciò ch'egli
ha fatto, e però guardatasene. S'e' trova quello che cerca e trovare non
vorria, chi è più doloroso di lui? Se forse estimate che il tenerla in braccio
gli sia tanto diletto che queste cose debbia mitigare, il parere vostro è
falso, però che quello tenere gli porge noia pensando che altri così l'abbi
tenuta. E se la donna forse amorevolemente l'accoglie, credesi che per torlo da
tal pensiero il faccia, e non per buono amore ch'ella gli porti. Se malinconica
la trova, pensa che altrui ami e di lui non si contenti: e infiniti altri
stimoli potremmo de' gelosi narrare. Dunque che diremo della costui vita, se
non ch'ella sia la più dolente che alcun vivente possa avere? Egli vive
credendo e non credendo, e sé e la donna stimolando: e le più volte suole
avvenire che di quella malattia di che i gelosi vivono paurosi, elli ne
muoiono, e non sanza ragione, però che con le loro riprensioni molte fiate
mostrano a' loro danni la via. Considerando adunque le predette cose, più ha il
vostro amico, che è geloso, cagione di dolersi che voi non avete, però che voi
potete sperare d'acquistare, colui con paura vive di perdere quella cosa che
egli appena tiene sua. E però s'egli ha più materia da dolersi di voi, e
confortasi il meglio che elli puote, molto maggiormente voi vi dovete
confortare e lasciare stare il piagnere, che è atto di pusillanima feminella, e
sperare del buono amore, che voi alla vostra donna portate, non perdere merito:
ché, ben che ella si mostri verso voi acerba al presente, e' non può essere
ch'ella non vi ami, però che amore mai non perdonò l'amare a niuno amato, e a'
robusti venti si rompono più tosto le dure querce che le consenzienti canne».
[39]
Vestita
di bruni vestimenti sotto onesto velo sedea appresso costui una bella donna, la
quale, come sentì la reina alle sue parole aver posto fine, così cominciò a di
re:
«Graziosa
reina, e' mi ricorda che, essendo io ancora picciola fanciulla, un giorno io
dimorava con un mio fratello, bellissimo giovane e di compiuta età, in un
giardino, sanza alcuna altra compagnia. Dove dimorando, avvenne che due giovani
donzelle, di sangue nobili e di ricchezze copiose, e della nostra città natie,
amando questo mio fratello e sentendolo essere in quel giardino, amendue là se
ne vennero, e lui, che di queste cose niente sapeva, di lontano cominciarono a
riguardare. Dopo alquanto spazio, vedendolo solo, fuori che di me, di cui elle
poco curavano però che era picciola, così fra loro cominciarono a dire:
"Noi amiamo questo giovane sopra tutte le cose, né sappiamo s'egli ama
noi, né convenevoli è che amendune ci ami; ma qui n'è al presente licito di
prendere di lui parte del nostro disio, e di conoscere se di noi egli ama
alcuna, o quale egli ama più; e quella che egli più ama, poi sua si rimanga
sanza esserle dall'altra impedito: però ora ch'egli dimora solo e che noi
abbiamo tempo, corriamo, e ciascuna l'abbracci e baci: egli quale più gli
piacerà, poi prenderà". Determinatosi a questo, le due giovani
cominciarono a correre sopra la verde erba verso il mio fratello: di che egli
si maravigliò vedendole, e vedendo come veniano. Ma l'una di loro ancora assai
lontana, vergognosa quasi piangendo ristette, l'altra infino a lui corse e
l'abbracciò e baciollo e poseglisi a sedere allato raccomandandoglisi. Ma poi
che l'ammirazione che costui ebbe dell'ardire di colei fu alquanto cessata,
egli la pregò che per quello amore ch'ella gli portava, ella gli dovesse di
questa cosa dire intera la verità. Essa niente ne gli celò: la qual cosa questi
udendo, e dentro nella mente essaminando ciò che l'una e l'altra avea fatto,
fra sé conoscere non sapea qual più l'amasse, né qual più egli dovesse amare.
Ma venuto accidente che di queste parole il convenne partire, di questo a più
amici domandò consiglio, né mai alcuno il sodisfece al suo piacere di tal
dimanda: per la qual cosa io priego voi, da cui veramente credo la vera
diffinizione avere, che mi diciate quale di queste due dee essere più dal
giovane amata».
[40]
A
questa donna così la reina rispose:
«Certo
delle due giovani quella ne pare che più il vostro fratello ami, e più da lui
deggia essere amata, che dubitando vergognosa rimase sanza abbracciarlo: e per
che questo ne paia, questa è la ragione. Amore, sì come noi sappiamo, sempre fa
timidi coloro in cui dimora, e dove maggior parte è d'esso, similmente maggiore
temenza. E questo avviene per che lo 'ntendimento della cosa amata non si può
intero sapere; che se si potesse sapere, molte cose, temendo di non spiacere,
non si fanno che si farebbono, però che ciascuno sa che spiacendo si toglie
cagione d'essere amato: e con questa temenza e con amore sempre dimora
vergogna, e non sanza ragione. Adunque, tornando alla nostra quistione, diciamo
che atto di veramente innamorata fu quello di quella che timida si mostrò e
vergognosa. Quello dell'altra, più tosto di scelerata libidinosa che
d'innamorata fu sembiante: e però essendo egli più da colei amato, più dee lei,
secondo il nostro giudicio, amare».
[41]
Rispose
allora la donna:
«Gentil
reina, vera cosa è che amore, ov'egli moderatamente dimora, temenza e vergogna
conviene che ci sia, ma là ove egli in tanta quantità abonda, che agli occhi
dei più savi leva la vista, come già qui per adietro si disse, dico che temenza
non ci ha luogo, ma i movimenti di chi ciò sente sono secon do che egli
sospigne: e però quella giovane, vedendosi inanzi il suo disio, tanto s'accese,
che, abandonata ogni vergogna, corse a quello di che era sì forte stimolata,
che avanti sostenere non potea. L'altra, non tanto infiammata, servò più gli
amorosi termini, vergognandosi, e rimanendo come voi dite. Dunque quella più
ama e più dovrà essere amata».
[42]
«Savia
donna - disse la reina, - veramente a' più savi leva amore soperchio la veduta
e ogni altro debito sentimento, quanto alle cose che sono fuori di sua natura;
ma in quelle che a sé appartengono, come egli cresce così crescono. Adunque,
quanta maggior quantità d'esso in alcuno si truova, e così del timore, come
davanti dicemmo. Che questo sia vero, lo scelerato ardore di Blibide il ci
manifesta, la quale quanto amasse si dimostrò nella sua fine, vedendosi
abandonata e rifiutata: né già per questo ebbe ella ardire di scoprirsi con le
propie parole, ma scrivendo il suo sconvenevole disio palesò. Similemente Fedra
più volte tentò di volere ad Ipolito, al quale, come a domestico figliuolo,
poteva arditamente parlare, di dirli quanto ella l'amava, né era prima la sua
volontà pervenuta alla bocca per proffererla, che, temendo, su la punta della
lingua le moria. O quanto è temoroso chi ama! Chi fu più possente che Alcide,
al quale non bastò la vittoria delle umane cose, ma ancora a sostenere il cielo
si mise! E ultimamente non di donna, ma d'una guadagnata giovane s'innamorò
tanto, che come umile suggetto, temendo, a' comandamenti di lei facea le minime
cose! E ancora Paris, quello che né con gli occhi né con la lingua ardiva di
tentare, col dito avanti alla sua donna del caduto vino scrivendo prima il nome
di lei, appresso scriveva: "io t'amo"! Quanto ancora so pra tutti
questi ci porge debito essemplo di temenza Pasife, la quale ad una bestia sanza
razionale intelletto non ardiva d'esprimere il suo volere, ma con le propie
mani cogliendo le tenere erbe s'ingegnava di farlo a sé benigno, ingannando se
medesima sovente allo specchio per piacergli e per accenderlo in tal disio
quale era ella, acciò ch'egli si movesse a cercare ciò che ella non ardiva di
domandare a lui! Non è atto di donna innamorata, né d'alcun'altra, l'essere
pronta, con ciò sia cosa che sola la molta vergogna, la quale in noi dee
essere, è rimasa del nostro onore guardatrice. Noi abbiamo voce tra gli uomini,
e è così la verità, di sapere meglio l'amorose fiamme nascondere che gli
uomini: e questo non genera altro che la molta temenza, la quale le nostre
forze, non tante quante quelle degli uomini, più tosto occupa. Quante ne sono
già state, e forse noi d'alcune abbiamo saputo, le quali s'hanno molte volte
fatto invitare di pervenire agli amorosi effetti, che volentieri n'avrebbero lo
invitatore invitato prima che egli loro, se debita vergogna o temenza ritenute
non l'avesse! E non per tanto, ogni ora che il no è della loro bocca uscito,
hanno avuto nell'animo mille pentute, dicendo col cuore cento volte sì. Rimanga
questo scelerato ardire nelle pari di Semiramis e di Cleopatra, le quali non
amano, ma cercano d'acquetare il loro libidinoso volere, il quale chetato, non
avanti d'alcuno più che d'un altro non si ricordano. I savi mercatanti mal volentieri
arrischiano tutti i loro tesori ad un'ora a' fortunosi casi: e non per tanto
una picciola parte non si curano di concedere loro, non sentendo di quella
nell'animo alcuno dolore, se avviene che la perdano. Amava dunque la giovane,
che abbracciò il vostro fratello, poco, e quel poco concedette alla fortuna,
dicendo: "Se costui per questo acquisto, bene sta; se mi rifiuta, non ci
sarà più che prendersene un altro". L'altra, che vergognandosi rimase, con
ciò fosse cosa che ella lui amasse sopra tutte le cose, dubitò di mettere tanto
amo re in avventura, imaginandosi: "Se questo forse gli spiacesse e
rifiutassemi, il mio dolore sarebbe tanto e tale ch'io ne morrei". Sia
adunque più la seconda che la prima amata».
[43]
Feriva
del sole un chiaro raggio passando fra le verdi frondi sopra il nitido fonte,
il quale la sua luce rifletteva nel bel viso della adorna reina, la quale di
quel colore era vestita che il cielo ne dimostra, quando, amenduni i figliuoli
di Latona a noi nascosi, lucido solo con le sue stelle ne porge luce. E oltre
allo splendore del bel viso, quello tanto lucente facea, che mirabile lustro a'
dimoranti in quel luogo porgeva fra le fresche ombre: e tal volta il riflesso
raggio si distendea infino al luogo dove la laurea corona d'una parte con la
candida testa, dall'altra con gli aurei capelli terminava, tra quelli mescolata
con non maestrevole ravolgimento: e quando quivi pervenia, nel primo sguardo si
saria detto che fra le verdi frondi uscisse una chiara fiammetta d'ardente
fuoco, e tanto si dilatasse, quanto i biondi capelli si dimostravano a'
circunstanti. Questa mirabile cosa, forse più tosto o meglio avvedutosene che
alcuno degli altri, mirava Caleon intentivamente quasi come d'altro non gli
calesse, il quale per opposito a fronte alla reina sedeva in cerchio,
dividendoli l'acqua sola: né movea bocca alla quistione che a lui veniva,
perché taciuto avesse la reina già per alquanto spazio, avendo contentata la
savia donna. A cui la reina così disse:
«O
solo disio forse della cosa che tu miri, dinne, qual è la cagione che così
sospeso ti tiene, che, seguendo l'ordine degli altri, non parli, solamente,
come noi crediamo, mirando la nostra testa, come se da te mai vista non fosse
avanti? Dilloci, e appresso, come gli altri hanno proposto, e tu proponi».
A
questa voce, Caleon, levata l'anima da' dolci pensieri, in sé la tornò alquanto
riscotendosi, come tal volta colui, che per paura rompe il dolce sonno, suole
fare, e così disse:
«Alta
reina, il cui valore impossibile saria a narrare, graziosi pensieri in loro
teneano la mia mente involta, quando io sì fiso mirava la vostra fronte, che mi
parve, allora che il chiaro raggio giunse nella bella acqua, riflettendo nel
vostro viso, che dell'acqua uscisse uno spiritello tanto gentile e grazioso a
vedere, ch'egli si tirò dietro l'anima mia a riguardare ciò che facesse, forse
sentendo i miei occhi insofficienti a tanta gioia mirare, e salì per lo chiaro
lume negli occhi vostri, e quivi per lungo spazio fece mirabile festa
adornandoli di nuova chiarezza. Poi salendo più su questa luce, lasciando ne'
begli occhi i suoi vestigii, il vidi salire sopra la vostra corona, sopra la
quale, come egli vi fu, insieme con i raggi parve che nuova fiamma vi
s'accendesse, forse qual fu già quella che fu da Tanaquila veduta a Tulio
piccolo garzone dormendo: e dintorno a questa saltando di fronda in fronda,
come uccelletto che amoroso cantando visita molte foglie, s'andava, e i vostri
capelli con diversi atti movendo, e intorniando a quelle, tal volta in essi
nascondendosi e poi più lieto ogni fiata uscendo fuori; e pareami ch'egli fosse
tanto allegro in se medesimo, quanto alcuna cosa mai esser potesse, e gisse
cantando, overo con dolci voci queste parole dicendolo: "Io son del terzo
ciel cosa gentile, sì vago de' begli occhi di costei, che s'io fossi mortal me
ne morrei. E vo di fronda in fronda a mio diletto, intorniando gli aurei crini,
me di me accendendo: e 'n questa mia fiammetta con effetto mostro la forza de'
dardi divini, andando ogn'uom ferendo che lei negli occhi mira, ov'io discendo
ciascuna ora ch'è piacer di lei, vera reina delli regni miei". E con
queste, molte altre ne dicea, andando com'io v'ho detto, quando mi chiamaste;
ma non prima la voce moveste, che egli subito si tornò ne' vostri occhi, i quali
come matutine stelle sintillano di nuova luce, questo luogo lustrando: udito
avete da che gioia con nuovo pensiero m'avete alquanto separato».
Di
questo si maravigliò assai Filocolo e gli altri, e rivolti gli occhi verso la
loro reina, videro quello che a udire loro parea impossibile. E ella, vestita
d'umiltà, ascoltando le vere parole di lei dette, stette con fermo viso sanza
alcuna risposta. E però Caleon così parlando seguì:
«Graziosa
reina, io disidero di sapere se a ciascuno uomo, a bene essere di se medesimo,
si dee innamorare o no. E questo a dimandare mi muovono diverse cose vedute e
udite e tenute dalle varie oppinioni degli uomini».
[44]
Lungamente
riguardò la reina Caleon nel viso, e poi dopo alcun sospiro così rispose:
«Parlare
ci conviene contra quello che noi con disiderio seguiamo. E certo a te dovria
bene essere manifesto ciò che tu in dubbio domandando proponi. Serverassi,
rispondendo a te, lo 'ncominciato ordine, e colui a cui suggetta siamo, le
parole, le quali, costretta dalla forza del giuoco, diciamo contra la sua
deità, più tosto che volontarie, le ci perdoni: né però la sua indegnazione
caggia sopra di noi. E voi, che similemente come noi suggetti gli siete, con
forte animo l'ascoltate, non mutandovi per quelle dal vostro proponimento. E
acciò che meglio e con più aperto intendimento le nostre parole si prendano,
alquanto fuori della materia ci stenderemo, a quella quanto più brievemente
potremo tornando, e così diciamo: amore è di tre maniere, per le quali tre,
tutte le cose sono amate; alcuna per la virtù dell'uno, alcuna per la potenza
dell'altro, secondo che la cosa amata è, e similmente l'amante. La prima delle
quali tre si chiama amore onesto: questo è il buono e il diritto e il leale
amore, il quale da tutti abitualmente dee esser preso. Questo il sommo e primo
creatore tiene lui alle sue creature congiunto, e loro a lui congiunge. Per
questo i cieli, il mondo, i reami, le province e le città permangono in istato.
Per questo meritiamo noi di divenire etterni posseditori de' celestiali regni.
Sanza questo è perduto ciò che noi abbiamo in potenza di ben fare. Il secondo è
chiamato amore per diletto, e questo è quello al quale noi siamo suggetti.
Questo è il nostro iddio: costui adoriamo, costui preghiamo, in costui speriamo
che sia il nostro contentamento, e che egli interamente possa i nostri disii
fornire. Di costui è posta la quistione se bene è a sommetterlisi: a che
debitamente risponderemo. Il terzo è amore per utilità: di questo è il mondo
più che d'altro ripieno. Questo insieme con la fortuna è congiunto: mentre ella
dimora, e egli similmente dimora; quando si parte, e elli. Elli è guastatore di
molti beni: e più tosto, ragionevolmente parlando, si dovria chiamare odio che
amore. Ma però che alla proposta quistione né del primo né dell'ultimo è
bisogno di parlare, del secondo diremo, cioè amore per diletto: al quale,
veramente, niuno, che virtuosa vita disideri di seguire, si dovria sommettere,
però che egli è d'onore privatore, adducitore d'affanni, destatore di vizii,
copioso donatore di vane sollecitudini, indegno occupatore dell'altrui libertà,
più ch'altra cosa da tenere cara. Chi, dunque, per bene di sé, se sarà savio,
non fuggirà tale signore? Viva chi può libero, seguendo quelle cose che in ogni
atto aumentano libertà, e lascinsi i viziosi signori a' viziosi vassalli
seguire».
[45]
«Io
non pensava - disse allora Caleon - con le mie parole dar materia di mancamento
alla nostra festa, né la potenza del nostro signore Amore, né le menti d'alcuno
perturbare; anzi imaginai che, diffinendolo voi, secondo la intenzione mia e di
molti altri, dovesse quelli che gli sono suggetti con forte animo a ciò
confermarli, e quelli che non gli sono con disideroso appetito chiamarlivi. Ma
veggio che la vostra intenzione alla mia è tutta contraria, però che voi tre
maniere d'amore nelle vostre parole essere mostrate. Delle quali tre, la prima
e l'ultima come voi dite consento che sia, ma la seconda, la quale rispondendo
alla mia dimanda dite che è tanto da fuggire, tengo che da seguire sia da chi
glorioso fine disidera, sì come aumentatrice di virtù, com'io credo appresso
mostrare. Questo amore di cui noi ragioniamo, sì come a tutti può essere
manifesto, però che il proviamo, adopera questo ne' cuori umani, poi ch'egli ha
l'anima alla piaciuta cosa disposta: egli d'ogni superbia spoglia il cuore e
d'ogni ferocità, faccendolo umile in ciascun atto, sì come manifestamente ci
appare in Marte, il quale troviamo che, amando Venere, di fiero e aspro duca di
battaglie, tornò umile e piacevole amante. Egli fa i cupidi e gli avari,
liberali e cortesi: Medea, carissima guardatrice delle sue arti, poi che le
costui fiamme sentì, liberamente sé e 'l suo onore e le sue arti concedette a
Giansone. Chi fa più solliciti gli uomini all'alte cose, di lui? Quanto egli li
faccia, rimirisi a Paris e a Menelao. Chi spegne più gl'iracundi fuochi, che fa
costui? Quante volte fu l'ira d'Achille quetata da' dolci prieghi di Pulisena
cel mostra. Questi, più ch'altri, fa gli uomini audaci e forti, né so qual
maggiore essemplo ci si potesse dare che quello di Perseo, il quale per
Andromaca mirabile pruova di virtuosa fortezza. Questi adorna di belli costumi,
d'ornato parlare, di magnificenza, di graziosa pia cevolezza tutti coloro che
di lui si vestono. Questi di leggiadria e di gentilezza a tutti i suoi suggetti
fa dono. Oh quanti sono i beni che da costui procedono! Chi mosse Vergilio, chi
Ovidio, chi gli altri poeti a lasciare di loro etterna fama ne' santi versi, i
quali mai a' nostri orecchi pervenuti non sarieno se costui non fosse, se non
costui? Che direm noi più della costui virtù, se non ch'egli ebbe forza di
mettere tanta dolcezza nella cetera d'Orfeo, che, poi ch'egli a quel suono ebbe
chiamate tutte le circunstanti selve, e fatti riposare i correnti fiumi, e
venire in sua presenza i fieri leoni insieme co' timidi cervi con mansueta
pace, e tutti gli altri animali similemente, egli fece quetare le infernali
furie e diede riposo e dolcezza alle tribulate anime: e dopo tutto questo, fu
di tanta virtù il suono, ch'egli meritò di riavere la perduta mogliere. Dunque
costui non è cacciatore d'onore, come voi dite, né donatore di sconvenevoli
affanni, né citatore di vizii, né largitore di vane sollecitudini, né indegno
occupatore dell'altrui libertà: però con ogni ingegno, con ogni sollecitudine
dovrebbe ciascuno, che di lui non è conto e servidore, procacciare e affannare
d'avere la grazia di tanto signore e essergli suggetto, poi che per lui si
diviene virtuoso. Quello che piacque agl'iddii e alli più robusti uomini,
similemente a noi dee piacere: seguasi, amisi, servasi, e viva sempre nelle
nostre menti cotal signore!».
[46]
«Molto
t'inganna il parer tuo - rispose la reina - e di ciò non è maraviglia, però che
tu se', secondo il nostro conoscimento, più ch'altro innamorato, e sanza dubbio
il giudizio degli innamorati è falso, però che il lume degli occhi della mente
hanno perduto, e da loro la ragione come nimica hanno cacciata. Adunque, a noi
converrà alquanto, oltre al nostro volere, d'amore parlare: di che ci duole,
sentendoci a lui suggetta, ma per trarti d'errore il licito tacere in vere
parole rivolgeremo. Noi voglianio che tu sappi che questo amore niun'altra cosa
è che una inrazionabile volontà, nata da una passione venuta nel cuore per libidinoso
piacere che agli occhi è apparito, nutricato per ozio da memoria e da pensieri
nelle folli menti: e molte fiate in tanta quantità ca, che egli leva la
'ntenzione di colui in cui dimora dalle necessarie cose, e disponlo alle non
utili. Ma però che tu essemplificando ti 'ngegni di dimostrarne da costui ogni
bene e ogni virtù procedere, a riprovare i tuoi essempli procederemo. Non è
atto d'umiltà l'altrui cose ingiustamente a sé recare, ma è arroganza e
sconvenevole presunzione: e certo queste cose usò Marte, cui tu sai per amore
divenuto umile, a levare a Vulcano Venere sua legittima sposa. E sanza dubbio
quella umiltà che nel viso appare agli amanti, non procede da benigno cuore, ma
da inganno prende principio. Né fa questo amore i cupidi liberali, ma quando in
tanta copia, quanta poni che in Medea fu, abonda ne' cuori, quelli del mentale
vedere priva, e delle cose, per adietro debitamente avute care, stoltamente
diventa prodigo, non quelle con misura donando, ma disutilmente gittando: crede
piacere, e dispiace a' savi. Medea, non savia, della sua prodigalità assai in
brieve tempo sanza suo utile si penté, e conobbe che se moderatamente i suoi
cari doni avesse usati non saria a sì vile fine venuta. E quella sollecitudine,
la quale in danno de' sollecitanti s'acquista o s'adopera, non ci pare per
alcuno dovere essere cercata: molto vale meglio ozioso stare che male
adoperare, ancora che né l'uno né l'altro sia da lodare. Paris fu sollecito
alla sua distruzione, se 'l fine di tale sollecitudine si riguarda. Menelao non
per amore, ma per racquistare il perduto onore, con ragione divenne sollecito,
come ciascuna persona discreta dee fare. Né è ancora questo amore cagione di
mitigata ira; ma benignità d'animo, passato l'impeto che induce quella, la fa
tornare nulla, e rimettesi l'offesa a chi contro s'adira: ben che gli amanti, e
ancora i discreti uomini, sogliono usare di rimettere l'offese a preghiera di
cosa amata o d'alcuno amico, per mostrarsi di ciò che niente loro costa,
cortesi, e obligarsi i pregatori: e per questa maniera Achille più volte già
mostrò di cacciare da sé la concreata ira. Similemente ne mostri che costui fa
gli uomini arditi e valorosi; ma di ciò il contrario si può mostrare. Chi fu
più valoroso uomo d'Ercule, il quale innamorato mise le sue forze in oblio, e
ritornò vile, filando l'accia con le femine di Iole? Veramente, alle cose ove
dubbio non corre, gente arditissima sono gl'innamorati; e se dove dubbio corre
si mostrano arditi, e mettonvisi, non amore, ma poco senno a ciò li tira, per avere
poi vanagloria nel cospetto delle sue donne, avvegna che questo rade volte
avviene, che dubitano tanto di perdere il diletto della cosa amata, che essi
consentono avanti d'essere tenuti vili. E non ancora dubitiamo che questi mise
ogni dolcezza nella cetara d'Orfeo: questo consentiamo che sia come tu porgi,
ché veramente, al generale, amore empie le lingue de' suoi suggetti di tanta
dolcezza e di tante lusinghe, che essi molte fiate farieno con le loro lusinghe
volgere le pietre, non che i cuori mobili e incostanti; ma di vile uomo è atto
il lusingare! Come adunque diremo che tal signore si deggia seguire per bene
propio del seguitore? Certo questi coloro in cui dimora fa dispregiare i savi e
utili consigli: e male per li troiani non furono da Paris uditi quelli di
Cassandra. Non fa costui similmente a' suoi sudditi dimenticare e dispregiare
la loro fama buona, la quale dee da tutti, come etterna erede della nostra
memoria, rimanere in terra dopo le nostre morti? Quanto la contaminasse Egisto
basti per essemplo, avvegna che Silla non meglio operasse che Pasife. Non è
costui cagione di rompere i santi patti e la pura fede promessa? Certo sì. Che
aveva fatto Adriana a Teseo, per la quale cosa rompendo i matrimoniali patti,
dando a' venti sé con la donata fede, misera la dovesse ne' diserti scogli
abandonare? Un poco di piacere, veduto negli occhi di Fedra dallo scelerato, fu
cagione di tanto male, e di cotal merito del ricevuto onore. In costui ancora
niuna legge si truova: e che ciò sia vero, mirisi all'opere di Tireo, il quale,
ricevuta Filomena dal pietoso padre, a lui carnale cognata, non dubitò di
contaminare le sacratissime leggi tra lui e Progne, di Filomena sorella,
matrimonialmente contratte. Questi ancora, chiamandosi e faccendosi chiamare
iddio, le ragioni degli iddii occupa. Chi porria mai con parole le iniquità di
costui narrare appieno? Egli, brievemente, ad ogni male mena chi 'l segue: e se
forse alcune virtuose opere fanno i suoi seguaci, che avviene rado, con vizioso
principio le incominciano, disiderando per quelle più tosto venire al
disiderato fine del laido lor volere. Le quali non virtù ma vizio più tosto si
possono dire, con ciò sia cosa che non sia da riguardare ciò che l'uomo fa, ma
con che animo, e quello vizio o virtù riputare, secondo la volontà
dell'operante: però che già mai cattiva radice non fece buono arbore, né
cattivo arbore buon frutto. Adunque questo amore è reo, e se egli è reo, è da
fuggire: e chi le malvage cose fugge, per consequente segue le buone, e così è
buono e virtuoso. Il principio di costui niuna altra cosa è che paura, il suo
mezzo peccato e il suo fine dolore e noia: deesi adunque fuggire e per
riprovarlo e temere d'averlo in sé, però che egli è impetuosa cosa, né in niuno
suo atto sa aver modo, e è sanza ragione. Egli è sanza dubbio guastatore degli
animi, e vergogna e angoscia e passione e dolore e pianto di quelli; e mai
sanza amaritudine non consente che stia il cuore di chi il tiene. Dunque chi
loderà che questi sia da seguire, se non gli stolti? Certo, se licito ne fosse,
volentieri sanza lui viveremmo, ma tardi di tal danno ci accorgiamo; convienci,
poi nelle sue reti siamo incappati, seguire la sua vita, in fino a tanto che
quella luce, la quale trasse Enea de' tenebrosi passi, fuggendo i pericolosi
incendii, apparisca a noi, e tirici a' suoi piaceri».
[47]
Alla
destra mano di Caleon una bella donna sedea, il cui nome era Pola, piacevole
sotto onesto velo, la quale così cominciò a parlare, poi che la reina tacque:
«O
nobile reina, voi avete al presente determinato che alcuna persona questo
nostro amore seguire non dee, e io 'l consento; ma impossibile mi pare che la
giovane età degli uomini e delle donne, sanza questo amore sentire, trapassare
possa. Però al presente lasciando con vostro piacere la vostra sentenza, terrò
che licito sia l'innamorarsi, prendendo il mal fare per debito adoperare. E
questo seguendo, voglio da voi sapere quale di due donne deggia più tosto da un
giovane essere amata, piacendo igualmente a lui amendune, o quella di loro che
è di nobile sangue, e di parenti possente, e copiosa d'avere molto più che il
giovane, o l'altra la quale né è nobile né ricca né di parenti abondevole
quanto il giovane».
[48]
Così
rispose la reina a costei:
«Bella
donna, ponendo che l'uomo e la donna deggia amore seguire, come avanti diceste,
noi giudicheremmo che quantunque la donna sia ricca, grande e nobile più che il
giovane, in qualunque grado o dignità si sia, ch'ella deggia più tosto dal
giovane essere amata che quella che alcuna cosa è meno di lui, però che l'animo
dell'uomo a seguire l'alte cose fu creato, dunque avanzarsi e non avvilirsi
dee. Appresso ne dice un volgare proverbio: "Egli è meglio ben desiare che
mal tenere". Però amisi la più nobile donna, e la meno nobile con giusta ragione
si rifiuti per nostro giudicio».
[49]
Disse
allora la piacevole Pola:
«Reina,
altro giudicio sarebbe per me di tal quistione donato come udirete. Noi
naturalmente tutti più i brievi che i lunghi affanni disideriamo: e che minore
e più brieve affanno sia ad acquistare l'amore della meno nobile che quello
della più, è manifesto: dunque si dee seguire, con ciò sia cosa che già si
possa della minore dire acquistato quello che della maggiore è ad acquistare.
Appresso, amando un uomo una donna di maggiore condizione che egli non è, molti
pericoli ne gli possono seguire: né però ultimamente n'ha maggior diletto che
d'una minore. Noi veggiamo ad una gran donna avere molti parenti, molta
famiglia, e tutti riguardare ad essa sì come solleciti guardatori del suo
onore, de' quali se alcuno di questo amore s'avvedesse, com'io già dissi,
all'amante grave pericolo ne può seguire: quello che della meno nobile non
potrebbe così di leggiere avvenire. I quali pericoli ciascuno a suo potere dee
fuggire, con ciò sia cosa che chi riceve s'ha il danno, e chi 'l sa se ne ride,
dicendo: "Ben gli sta; dove si metteva egli ad amare?". Né ancora si
muore più che una volta, per che ciascuno dee ben guardare come quella una
viene a morire, e dove, e per che cagione. E ancora è credibile cosa che la
gentil donna poco il prezzerà, però che essa medesima disidererà d'amare sì
alto uomo o maggiore com'ella è donna, e non minore di sé: e così costui tardi
o non mai al suo disio perverrà. E della minore gli avverrà il contrario, però
ch'ella si glorierà d'essere amata da tanto amante, e ingegnerassi di piacergli
per nutricare l'amore. E dove questo non fosse, la potenza dell'amante potrà
sanza paura fare il suo disio adempiere: però io terrei che amare si dovesse la
minore più tosto che l'altra».
[50]
«E'
v'inganna il parere - disse la reina alla bella donna, - però che amore ha
questa natura, che quanto più si ama, più si disidera d'amare: e questo per
quelli che per lui maggiore doglia sentono si può comprendere, i quali, avvegna
che quella molto gli molesti, ognora più amano, né alcuno col cuore tosto la
sua fine disidera, ben che 'l mostri con le parole. Dunque, ben che i piccoli
affanni si cerchino da' pigri, da' savi sono le cose, che con più affanno
s'acquistano, più graziose e dilettevoli tenute: però la minore donna amare ad
acquistarla saria, come voi dite, poco affanno, e però poco cara, e brieve
l'amore, e seguiriasi che amando si disiderasse di meno amare, che è contro
alla natura d'amore, come di sopra dicemmo. Ma della grande, che con affanno
s'acquista, avviene il contrario, però che, sì come in cara cosa e con fatica
acquistata, ogni sollecitudine si pone a ben guardare il guadagnato amore, e
così ognora più si ama, e più il diletto e 'l piacere dura. Ma se volete dire
che il dubbio, de' parenti ci sia, noi nol neghiamo, e questa è una delle
cagioni perch'elli è affanno ad avere l'amore d'una gran donna: ma i discreti
con occulta via procedono in tali bisogne, ché non è dubbio che delle grandi e
delle piccole donne, ciascuna secondo il suo potere, è amato e guardato l'onore
da' parenti, e così poria il folle nella mala ventura incappare amando basso
come in alto luogo. Ma chi sarà colui che Fisistrato di crudeltà trapassi,
offendendo chi le cose sue ama, sanza pensare avanti quello che poi farà a chi
l'avrà in odio? Dite ancora mai costui di maggior donna di sé potere venire a
fine del suo disio amandola: dicendo che la donna maggiore di sé disidererà
d'amare e lui niente pregerà, mostra che ignoto vi sia che il più picciolo
uomo, quanto alla naturale virtù, sia di maggiore condizione e di migliore che
la maggiore donna del mondo. Dunque, qualunque uomo ella disidererà, di
maggiore condizione di sé il disidererà. Fa bene però il virtuoso vivere e 'l
vizioso i piccioli grandi, e' grandi piccioli molte volte: non per tanto
qualunque donna sarà da qualunque uomo con debito stile sollecitata, sanza
dubbio a disiderato fine se ne perviene, ben che con più affanno d'una grande
che d'una piccola. E noi veggiamo che per continua caduta la molle acqua rompe
e fora le dure pietre: però nullo d'amare alcuna si disperi. Tanto di bene
seguirà a chi maggiore donna di sé amerà, che egli s'ingegnerà, per piacerle,
belli costumi avere, di nobili uomini compagnia, ornato e dolce parlare, ardito
alle 'mprese e splendido di vestire. E se l'acquisterà, più gloria nell'animo
n'avrà e più diletto: e similemente nel parlare della gente sarà essaltato, se
non ne gli misviene. Seguasi adunque la più nobile, come avanti dicemmo».
[51]
Ferramonte,
duca di Montoro, appresso la piacevole Pola sedea, e così, poi che la loro
reina ebbe parlato, a lei cominciò a dire:
«Consentendo
a questa donna che amare si convenga, risposto le avete alla sua quistione che
più tosto nobile donna, più di sé che meno, si dee amare. La qual cosa assai
bene si può consentire per quelle ragioni che mostrate n'avete. Ma con ciò sia
cosa che ancora delle gentili donne siano alcune diverse maniere, cioè in
diversi abiti dimoranti, le quali, per quello che si crede, diversamente amano,
qual più qual meno, qual più fervente qual più tiepidamente, disidero di sapere
da voi, di cui più tosto un giovane, per più felicemente il suo di sio ad
effetto conducere, si dee innamorare di queste tre, o di pulcella o di maritata
o di vedova».
[52]
Al
quale la reina rispose così:
«Delle
tre l'una, cioè la maritata, in niun modo è da disiderare, però ch'ella non è
sua, né sta in sua libertà il potersi donare o concedersi ad alcuno: e il
volerla o prenderla è commettere contra le divine leggi, e eziandio contra le
naturali e positive. Alle quali offendere è un commuovere sopra di sé la divina
ira, e per consequente grave giudicio: avvegna che sovente a chi tanto adentro
non mira con la coscienza fa migliore amarle che alcuna dell'altre due, cioè o
pulcella o vedova, quanto è per dovere avere de' suoi disii l'effetto, avvegna
che alcuna volta tale amore con molto pericolo sia. E il perché tale amore a'
suoi disii sovente rechi l'amante più tosto che gli altri, è questa la cagione.
Manifesto è che quanto più nel fuoco si soffia più s'accende, e sanza sonarvi
s'amorta; e quasi tutte l'altre cose usandole mancano: la libidine quanto più
s'usa più cresce. La vedova per essere lungamente stata sanza tale effetto,
quasi come se non fosse il sente, e più con la memoria che con la concupiscenza
si riscalda. La zita che ciò si sia ancora non conosce, se non con
imaginazione: però tiepidamente disia. E però la maritata, sovente in tali cose
raccesa più ch'altra, tali effetti disidera; e tal volta le maritate sogliono
da' mariti oltraggiose parole e fatti ricevere, delle quali volentieri
prenderieno vendetta se potessero, e niuna via più presta è loro rimasa che
donare il suo amore a chi le stimola di volerlo, in dispetto del marito. E
avvegna che in tale maniera la vendetta sia e convenga essere molto occulta per
non crescere l'onta, nondimeno elle sono nell'animo contente. Poi il sempre
usare un cibo è tedioso, e sovente abbiamo veduto i dili cati per li grossi
cibi lasciare, tornando poi a quelli quando l'appetito degli altri è
contentato. Ma però che, come dicemmo, licito non è l'altrui cose con ingiusta
cagione disiderare, le maritate lasceremo a' loro mariti, e prenderemo
dell'altre, delle quali copiosa quantità ci para davanti agli occhi la nostra
città, e più tosto le vedove seguiremo amando che le pulcelle, però che le
pulcelle, rozze e grosse a tale mestiere, non sanza molto affanno si recano
abili a' disiderii dell'uomo: quello che nelle vedove non bisogna. Appresso, se
le pulcelle amano, esse non sanno che si disiderare, e però con intero animo
non seguono i vestigii dell'amante come le vedove, in cui già l'antico fuoco
riprende forze, e falle disiderare quello che per lungo abuso aveano obliato, e
è loro tardi di venire a tale effetto, piangendo il perduto tempo, e le
solinghe e lunghe notti che hanno trapassate ne' vedovi letti: però queste
siano amate più tosto, secondo il nostro parere, da coloro in cui libertà il
sommettersi dimora».
[53]
Rispose
allora Ferramonte:
«Reina,
ciò che della maritata diceste, aveva io nell'animo diliberato che così dovesse
essere, e più ora da voi udendolo ne sono certo; ma delle pulcelle e delle
vedove tengo contraria oppinione, lasciando le maritate andare per le ragioni
da voi poste: però che mi pare che più tosto le pulcelle che le vedove si
dovriano seguire, con ciò sia cosa che l'amore della pulcella più che quello
della vedova paia fermo. La vedova sanza dubbio ha già altra volta amato, e ha
vedute e sentite molte cose d'amore, e i suoi dubbii, e quanta vergogna e onore
seguiti di quello; e però, queste cose meglio che la pulcella conoscendo, o ama
lentamente e dubitando, o, non amando fermo, disidera ora questo ora quello, e
non sappiendo a quale per più diletto e onore di lei s'aggiunga, talora né
l'uno né l'altro vuole, e così per la mente di lei la deliberazione vacilla, né
vi può amorosa passione prendere fermezza. Ma queste cose alla pulcella sono
ignote, e però, come a lei è avviso che ella molto piaccia a uno de' molti
giovani, così sanza più essaminazione quello per amante elegge, e a lui solo il
suo amore dispone sanza saper mostrare alcuno atto contrario al suo piacere per
più fermo l'amante legare: niuna altra deliberazione è da lei al suo innamorare
cercata. Dunque tutta è pura a' piaceri di colui che le piace semplicemente, e
tosto si dispone, lui per signore solo servando nel ferito cuore; quello che,
come già dissi, della vedova non avviene: però più da seguire. Appresso, di
quelle cose che mai alcuno non ha vedute, udite o provate, con più efficacia
l'aspetta, e le disidera di vedere, udire o provate, che chi molte fiate
vedute, udite o provate l'ha. E questo è manifetto, tra l'altre cagioni per le
quali il vivere molto ci diletta, e è disiato lungo da noi, è per vedere cose
nuove, cioè ancora da noi non state vedute: e ancora, più che per nuove cose
vedere, ci è diletto di correre con sollicito passo a quello che noi più che
altro ci ingegnamo e disideriamo di fuggire, cioè la morte, ultimo fine de'
nostri corpi. La pulcella mai quel dilettoso congiungimento per lo quale noi
vegnamo nel mondo non conobbe, e naturale cosa è d'ogni creatura a quello
essere dal disio tirato. Appresso, ella molte fiate, da quelle che sanno quello
che è, ha udito quanta dolcezza in quello consista, le quali parole hanno
aggiunto fuoco al disio, e però, tiratavi dalla natura e dal disio di provare
cosa da lei non provata dalle parole udite, ardentemente e con acceso cuore
questo congiungimento disidera: e d'averlo, con cui è da presumere, se non con
colui il quale ella ha già fatto signore della sua mente? Questo ardore non
sarà nella vedova, però che provandolo la prima volta e sentendo quello che
era, si spense: dunque la pulcella amerà più e più sollecita sarà, per le
ragioni dette, a' piaceri dell'amante che la vedova. Che andremo dunque più
inanzi cercando che amare non si debbia più tosto la pulcella che la vedova?».
[54]
«Voi
- disse la reina - argomentate bene al vostro parere difendere; ma noi vi
mostreremo con aperta ragione come voi dovete quello che noi di questa
quistione tegnamo similemente tenere, se alla natura d'amore con diritto occhio
si mira, così nella pulcella come nella vedova. E così nella vedova come nella
pulcella il vedremo potere essere fermo e forte e costante: e in ciò Dido e Adriana
ci porgono con le loro opere questo essere vero. E dove questo amore e nell'una
e nell'altra non sia, niuna delle predette operazioni ne seguirà: dunque
conviene che ciascuna ami, se quello che voi e noi già dicemmo vogliamo che ne
segua. E però amando e la pulcella e la vedova, sanza andar cercando chi più
distrattamente s'innamora, ché siamo certa della vedova, vi mostreremo che la
vedova più sollecita è a' piaceri dell'amante che la pulcella. E' non è dubbio
che tra l'altre cose che la femina ha sopra tutte cara è la sua virginità: e
ciò è ragione, però che in quella tutto l'onore della seguente sua vita vi
consiste, e sanza dubbio ella non sarà mai tanto da amore stimolata che ella
volentieri ne sia cortese, se non a cui ella per matrimoniale legge si crederà
per isposo congiungere. E questo noi non l'andiamo cercando, ché non è dubbio
che chi vuole amare per isposa avere, che egli più tosto pulcella che vedova
dee amare: dunque tarda e negligente sarà a donarsi a chi per tale effetto non
l'amerà, e ella il sappia. Appresso, le pulcelle al generale sono timide, né
sono astute a trovare le vie e' modi per le quali i furtivi diletti si possono
prendere: di queste cose la vedova non dubita, però che ella già donò
onorevolemente quello che costei aspetta di donare, e è sanza, e però non
dubita che, se se medesima dona ad altrui, quel segnale l'accusi. Poi ella,
come più arrischiante, perché, come è detto, la maggiore cagione che porge
dubbio non è con lei, conosce meglio le occulte vie, e così le mette in
effetto. Vero è che voi dite che la pulcella, sì come disiderosa di cosa che
mai non provò, a questo più fia sollicita che la vedova, che quello che è
conosce: ma egli è di ciò che voi dite il contrario. Le pulcelle a tale effetto
per diletto non corrono le prime volte, però che egli è loro più noia che
piacere, avvegna che a quella cosa che diletta quante più fiate si vede o ode o
sente, più piace, e più è sollicito ciascuno a seguirla: questa cosa di che noi
ragioniamo non segue l'ordine e la maniera di molte altre, che, vedute una
volta o due, più non si cercano di vedere, anzi quante più volte in effetto si
mette, tante e con più affezione è cercato di ritornarvi, e più disidera colui
la cosa a cui ella piace, che colui a cui ella dee piacere, né ancora n'ha
gustato. Però la vedova, con ciò sia cosa che ella doni meno, e più le sia il
donare agevole, più sarà liberale e più tosto che la pulcella, che donare dee
la più cara cosa ch'essa ha. E ancora sarà più la vedova tirata, come mostrato
avemo, a tale effetto che la pulcella: per le quali cagioni amisi più tosto la
vedova che la pulcella.
[55]
Convenne,
appresso a Ferramonte, ad Ascalion proporre, il quale in cerchio dopo lui
sedea, e così disse:
«Altissima
reina, io mi ricordo che già fu nella nostra città una bella e nobile donna
rimasa di valoroso marito vedova, la quale per le sue mirabili bellezze era da
molti nobili giovani amata, e, oltre a molti, due gentili e valo rosi
cavalieri, ciascuno quanto potea l'amava. Ma per accidente avvenne che ingiusta
accusa di costei fu posta da' suoi parenti nel cospetto del nostro signore, e,
appresso, per iniqui testimoni provata: per le quali inique prove ella meritò
d'essere al fuoco dannata. Ma però che la coscienza del dannatore era
perplessa, però che le inique prove quasi conoscere gli parea, volendo
agl'iddii e a' fortunosi casi la vita di quella commettere, cotale condizione
aggiunse alla data sentenza: che poi che la donna fosse al fuoco menata, se
alcuno cavaliere si trovasse il quale per la salute di lei combattere volesse
contro al primo che a quella dopo lui s'opponesse, quello a cui vittoria ne
seguisse, ciò che egli difendea se ne facesse. Udita la condizione da' due
amanti, e per ventura dall'uno prima che dall'altro, quelli che prima l'udì prese
l'armi subitamente, e salito a cavallo venne al campo, contradicendo a chi
contravenire gli volesse la morte della donna. L'altro che più tardi sentito
avea questo, udendo che già era al campo colui per la difesa di lei, né altri
più v'avea luogo ad andare per tale impresa, non sappiendo che si fare, si
doleva imaginando che l'amore della donna per sua tardezza avea perduto, e
l'altro giustamente l'avea guadagnato. E così dolendosi, gli venne pensato che
se prima che alcuno altro al campo andasse armato, dicendo che la donna dovea
morire, egli, lasciandosi vincere, la potea scampare: e così il pensiero mise
in effetto, e fu campata la donna. Liberata adunque la donna, dopo alquanti
giorni, il primo cavaliere andò a lei, e sé umilemente le raccomandò, ricordandole
come egli per lei campare da morte a mortale pericolo pochi giorni davanti
s'era posto, e, mercé degl'iddii e della sua forza, lei e sé da tale accidente
avea campato: onde per questo le piacesse, in luogo di merito, il suo amore, il
quale sopra tutte sempre disiderato avea, donare. E appresso con simile
preghiera venne il secondo cavaliere, dicendo che a rischio di morire per lei
s'era messo: "e ultimamente perché voi non moriste, sostenni di lasciarmi
vincere, onde etterna infamia me ne seguirà, dov'io avrei vittorioso onore
potuto acquistare, volendo incontro la vostra salute avere le mie forze
operate". La donna ciascuno ringraziò benignamente, promettendo debito
guiderdone ad amenduni del ricevuto servigio. Rimase adunque la donna, costoro
partiti, in dubbio a cui il suo amore donare dovesse, o al primo o al secondo,
e di ciò dimanda consiglio: a quale direste voi ch'ella il dovesse più tosto
donare?».
[56]
«Noi
terremo - disse la reina - che il primo sia da amare, e l'ultimo da lasciare,
però che il primo operò forza e dimostrò il buono amore con sollecito modo,
dando se medesimo a ogni pericolo infino alla morte, il quale per la futura
battaglia potesse adivenire. La quale assai bene gliene potea seguire, con ciò
sia cosa che se sollicito fosse stato a tale battaglia fare contra di lui
alcuno de' nemici della donna come fu l'amante, egli era a pericolo di morire
per difendere lei; né manifesto gli fu che contro lui dovesse uscire uno che
vincere si lasciasse, come avvenne. L'ultimo, veramente, andò avvisato né di
morire né di lasciar morire la donna: dunque, con ciò sia cosa che egli meno
mettesse in avventura, meno merita di guadagnare. Aggia, adunque, il primo
l'amore della donna bella sì come giusto guadagnatore di quello».
[57]
Disse
Ascalion:
«O
sapientissima reina, che è ciò che voi dite? Non basta una volta essere
meritato del bene, sanza più meriti domandare? Certo sì. Il primo è merita to,
però che da tutti per la ricevuta vittoria è onorato: e che più merito gli
bisogna se amore è merito della virtù? A maggior cosa ch'egli non fece basteria
il ricevuto onore. Ma colui che con senno venne avisato, dee essere sanza
guiderdone e, poi, da tutti vituperato, avendo sì bene come il primo scampata
la donna? Non è il senno da anteporre ad ogni corporale forza? Come costui, se
con la salute della donna venne, dee per merito essere abandonato? Cessi che
questo sia. Se egli nol seppe tosto come l'altro, questa non fu negligenza,
ché, se saputo l'avesse, forse prima che l'altro corso sarebbe a quello che
l'altro corse. Quello che prese per ultimo rimedio il prese discretamente, di
che merito giustamente gli dee seguire, il quale merito dee essere l'amore
della donna, se dirittamente si guarda; e voi dite il contrario».
[58]
«Passi
della mente vostra che il vizio, a fine di bene operato, meriti il guiderdone
che la virtù, a simile fine operata, merita; anzi in quanto vizio merita
correzione: alla virtù niuno mondano merito può giustamente satisfare. Chi ci
vieterà ancora che noi non possiamo con aperta ragione credere che l'ultimo
cavaliere, non per amore che alla donna portasse, ma, invidioso del bene che
all'altro vedea apparecchiato, per isturbare quello, si mosse a tale impresa, e
misvennegli? Folle è chi sotto colore di nemico s'ingegna di giovare per
ricever merito. Infinite sono le vie per le quali possibile ci è con aperta
amicizia poter mostrare l'amore che alcuno porta ad alcuno altro, sanza
mostrarsi nemico, e poi con colorate parole voler mostrare d'aver giovato. Basti
oramai per risponsione ciò che detto avemo a voi, il quale la lunga età dee più
che gli altri fare discreto. Crediamo che quando queste poche parole per la
mente debitamente avrete digeste, troverete il nostro giudicio non fallace, ma
vero e da dovere essere seguito».
E
qui si tacque.
[59]
Seguiva
poi una donna onesta nell'aspetto molto, il cui nome Graziosa è interpetrato: e
veramente in lei è il nome consonante all'effetto; la quale con umile e modesta
voce cominciò queste parole:
«A
me, o bella reina, viene il proporre la mia questione, la quale, acciò che il
tempo che oramai alla lasciata festa s'apresta, e fassi dolce a ricominciarla,
non si metta solo in sermone, assai brievemente porrò; e se licito mi fosse,
volontieri sanza porla mi passerei, ma per non trapassare la vostra obedienza e
degli altri l'ordine, porrò questa: qual sia maggiore diletto all'amante, o
vedere presenzialmente la sua donna, o, non vedendola, di lei amorosamente
pensare».
[60]
«Bella
donna - disse la reina, - noi crediamo che molto più diletto pensando si prenda
che riguardando, però che, pensando alla cosa amata graziosamente, gli spiriti
sensitivi tutti allora sentono mirabile festa, e quasi i loro accesi disii in
quel pensiero con diletto contentano; ma nel riguardare, ciò non avviene, però
che solo il visuale spirito sente bene, e gli altri accende di tanto disio che
sostenere nol possono, e rimangono vinti: e esso talora tanta parte prende del
suo piacere, che a forza gli conviene indietro tirarsi, rimanendo vile e vinto.
Dunque più diletto terremo il pensare».
[61]
«Quella
cosa ch'è amata - rispose la donna - quanto più si vede più diletta: e però io
credo che molto maggior diletto porga il riguardare che non fa il pensare, però
che ogni bellezza prima per lo vederla piace, poi per lo continuato vedere
nell'animo tale piacere si conferma, e generasene amore e quelli disii che da
lui nascono. E niuna bellezza è tanto amata per alcuna altra cagione, quanto
per piacere agli occhi, e contentare quelli; dunque, vedendola, si contentano,
pensandone, loro di vederla s'accresce disio: e più diletto sente chi si
contenta che chi di contentarsi disidera. Noi possiamo per Laudomia vedere e
conoscere quanto più il presenzialmente vedere che il pensare diletti, però che
credere dobbiamo che mai il suo pensiero dal suo Protesilao non si partiva, né
già per questo mai altro che malinconica si vide, rifiutando d'ornarsi e di
vestirsi i cari vestimenti; quello che, vedendolo, mai non le avvenia, ma lieta
e graziosa e adorna sempre e festeggiando stava, quando nella sua presenza
dimorava. Che dunque più manifesto testimonio vogliamo che questo, d'allegrezza
più nel vedere che nel pensare, con ciò sia cosa che per gli atti esteriori si
possa quello che nel cuore si nasconde comprendere?».
[62]
La
reina allora così rispose:
«Quelle
cose, e dilettevoli e noiose, che più all'anima s'appressano, più noia e gioia
porgono che le lontane. E chi dubita che il pensiero non dimori nell'anima
medesima e l'occhio a quella si truovi assai lontano, ben che elli per
particolare virtù di lei abbia la vista, e convengagli per molti mezzi le sue
percezioni allo 'ntelletto animale rendere? Dunque, avendo nell'anima un dolce
pensiero della cosa amata, in quell'atto che il pensiero gli porge, in quello con
la cosa amata essere gli pare. Egli allora la vede con quelli occhi a cui niuna
cosa per lunga distanza si può celare. Egli allora parla con lei e forse narra
con pietoso stile le passate noie per l'amore di lei ricevute. Allora gli è
lecito sanza alcuna paura di abbracciarla. Allora mirabilmente, secondo il suo
disio, festeggia con essa. Allora ad ogni suo piacere la tiene. Quello che del
mirare non avviene, però che quello solo aspetto primo n'ha sanza più. E come
noi davanti dicemmo, amore, paurosa e timida cosa, tanto nel cuore gli trema
riguardando, che né pensiero né spirito lascia in suo luogo. Molti già, le loro
donne guardando, perderono le naturali forze e rimasero vinti, e molti non
potendo muoversi si fissero; e alcuni incespicando e avolgendo le gambe
caddero, altri ne perderono la parola, e per la vista molte cose simili ne
sappiamo essere avvenute: e queste cose assai saria suto caro, a coloro a cui
avemo detto, che avvenute non fossero. Dunque, come porge diletto quella cosa
che volontieri si fuggiria? Noi confessiamo bene che, se possibile fosse sanza
terna il riguardare, che gran diletto saria, ma nulla sanza il pensiero varria:
ma il pensiero sanza la corporale veduta piace assai. E che del pensiero possa
avvenire ciò che dicemmo, è manifesto che sì, e molto più ancora: che noi
troviamo già uomini col pensiero avere trapassati i cieli e gustata della
etterna pace. Dunque, più il pensare che il vedere diletta. Se di Laudomia dite
che malinconica si vedea pensando, non lo neghiamo: ma amoroso pensiero non la
turbava, anzi doloroso. Ella quasi indovina a' suoi danni, sempre della morte
di Protesilao dubitava, e a questa pensava: né questo è de' pensieri de' quali
ragioniamo, i quali in lei entrare non poteano per quella dubitazione; anzi
dolendosi con ragione mostrava il viso turbato».
[63]
Parmenione
sedeva appresso a questa donna, e sanza altro attendere, come la reina tacque,
così cominciò dire:
«Gentile
reina, io fui lungamente compagno d'un giovane, al quale ciò che io intendo di
narrarvi avvenne. Egli tanto quanto mai alcun giovane amasse donna, amava una
giovane della nostra città bellissima e graziosa, gentile e ricca d'avere e di
parenti molto, e essa molto amava lui, per quello che io conoscessi, a cui questo
amore solamente era scoperto. Amando adunque questi questa con segretissimo
stile, temendo non si palesasse, in niuna maniera a costei potea parlare, acciò
che il suo intendimento le discoprisse e di quello di lei s'accertasse; né a
persona se ne fidava che questo di parlare tentasse. Ma pure stringendolo il
disio propose, poi che egli a lei dire nol poteva, di farle per altrui sentire
ciò che per amore di lei sostenea. E riguardato più giorni per cui più
cautamente tale bisogna significare le potesse, vide un dì una vecchia povera,
vizza, ranca e dispettosa tanto, quanto alcuna trovare se ne potesse, la quale,
entrata nella casa della giovane, e cercata limosina, con essa se ne uscì; e
più volte poi in simile atto e per simile cagione ritornare la vide. In costei
si pose costui in cuore di fidarsi, imaginando che mai sospetta non saria
tenuta e compiutamente le poria il suo intendimento fornire: e chiamatala a sé,
grandissimi doni le promise, se aiutare il volesse in quello ch'egli le
domanderebbe. Ella giurò di fare tutto suo potere: a cui questi allora disse il
suo volere. Partissi la vecchia dopo picciolo spazio di tempo, accertata la
giovane dell'amore che il mio compagno le portava, e lui similemente come ella
sopra tutte le cose del mondo lui amava, e occultamente ordinò questo giovane
essere una sera con la disiata donna. E messalisi inanzi, come ordinato avea,
alla casa di costei il menò. Dove egli non fu prima venuto, che, per suo
infortunio, la giovane, la vecchia e esso furono da' fratelli della giovane
insieme tutti e tre trovati e presi: e costretti di dire la verità che quivi
facessero, confessarono quello che era. Erano costoro amici del giovane, e
conoscendo che a niuna loro vergogna costui era ancora pervenuto, non lo
vollero offendere, che poteano, ma ridendo, gli posero questo partito, dicendo
così: "Tu se' nelle nostre mani, e hai cercato di vituperarci, e di ciò
noi ti possiamo punire se noi vogliamo; ma di queste due cose l'una ti conviene
prendere, o vuoi che noi t'uccidiamo o vuoi con questa vecchia e con la nostra
sorella, con ciascuna, dormire un anno, giurando lealmente che, se tu prenderai
di dormire con costoro due anni e il primo con la giovane, che tante volte
quante tu la bacerai o ciò che tu le farai, altretante il secondo anno bacerai
o farai alla vecchia; o se la vecchia il primo anno prenderai, tante volte
quante la bacerai o toccherai, tante simigliantemente e non più né meno la
giovane nel secondo anno farai". Il giovane ascoltato il partito, vago di
vivere, disse di volere con le due due anni dormire. Fugli consentito: rimase
in dubbio da quale dovesse inanzi cominciare, o dalla giovane o dalla vecchia.
Di quale il consigliereste voi per più sua consolazione che egli dovesse avanti
pigliare?».
[64]
Alquanto
sorrise la reina di questa novella, e similmente i circunstanti, e poi così
rispose:
«Secondo
il nostro parere il giovane dovria più tosto la bella donna giovane che la
vecchia pigliare, però che niun bene presente si dee per lo futuro lasciare, né
pigliare male per futuro bene è senno, però che delle cose future incerti
siamo; e di questo faccendo il contrario, molti già si dolfero; e se alcuno se
ne lodò, non dovere, ma fortuna in ciò gli aiutò. Prendasi adunque la bella
inanzi».
[65]
«Molto
mi fate maravigliare - disse Parmenione, - dicendo che presente per futuro bene
lasciare non si dee: a che fine, dunque, con forte animo ci conviene seguire e
sostenere i mondani affanni, dove fuggire li potremo, se non per gli etterni
regni promessi a noi dalla speranza futuri? Mirabile cosa è che tanta gente,
quanta nel mondo dimora, tutti affannando a fine di riposo sentire alcuna volta
vanno, come in tale errore fossero tanto dimorano, potendosi riposare avanti,
se l'affanno, dopo il riposo, fosse migliore che davanti. Giusta cosa mi pare
dopo l'affanno riposo cercare; ma sanza affanno voler posare, secondo il mio
giudicio, non dee né può essere diletto. Chi dunque consiglierà alcuno che
prima sia da dormire un anno con una bella donna, la quale sia solo riposo e
gioia di colui che con lei si dee giacere, mostrandogli appresso dovergli
seguire tanta noiosa e spiacevole vita, quanto con una laida vecchia dovere
altretanto in tutti atti usare che con la giovane è dimorato? Niuna cosa è
tanto noiosa al dilettoso vivere quanto il ricordarsi che al termine dalla
morte segnato ci conviene venire. Questa, tornandoci nella memoria sì come
nemica e contraria del nostro essere, ogni bene ci turba: né mentre questo si
ricorda, si può sentire gioia nelle mondane cose. Così similmente niuno diletto
con la giovane si potrà avere che turbato e guasto non sia, ricordandosi che
altretanto fare si convenga con una vilissima vecchia, la quale sempre davanti
agli occhi della mente gli dimorerà. Il tempo, che vola con infallibili penne,
gli parrà che trasvoli, scemando a ciascun giorno delle dovute ore grandissima
quantità; e così la letizia, essendo dove futura tristizia infallibile
s'aspetta, non si sente: però io terrei che il contrario fosse migliore
consiglio, ché ogni affanno, di cui grazioso riposo s'aspetta, è più
dilettevole che il diletto per cui noia è sperata. Le fredde acque pareano
calde, e il tenebroso e pauroso tempo della notte parea chiaro e sicuro giorno,
e l'affanno riposo a Leandro andando ad Ero, con la forza delle sue braccia notando
per le salate onde tra Sesto e Abido, per lo diletto che da lei aspettante
attendea d'avere. Cessi, adunque, che l'uomo voglia prima il riposo che la
fatica, o prima il guiderdone che fare il servigio, o il diletto che la
tribulazione, con ciò sia cosa che, come già è detto, se a quel modo si
prendesse, la futura noia impediria tanto la presente gioia, che non gioia, ma
presso che noia dire si potrebbe. Che diletto poteano dare i dilicati cibi e
gli strumenti sonati da maestre mani e l'altre mirabili feste fatte davanti al
fratello di Dionisio, poi ch'egli sopra il capo si vide con sottile filo
pendere uno aguto coltello? Fuggansi adunque prima le dolenti cagioni, poi si
seguano con piacevolezza e sanza sospetto i graziosi diletti».
[66]
Rispose
a costui la reina:
«Voi
ne rispondete in parte come se degli etterni beni ragionassimo, per li quali
acquistare non è dubbio che ogni affanno se ne dee prendere, e ogni mondano
bene e diletto lasciare: ma noi al presente non parliamo di quelli, ma de'
mondani diletti e delle mondane noie quistioniamo; a che noi rispondiamo, come
prima dicemmo, che ogni mondano diletto si dee più tosto prendere che mondana
noia ne segua, anzi che mondana noia per mondano diletto aspettare, però che
chi tempo ha e tempo aspetta, tempo perde. Concede la fortuna con varii
mutamenti i suoi beni, i quali più tosto sono da pigliare quando li dona, che
volere affannare per dopo l'affanno averli. Ma se la sua ruota stesse ferma,
infino che l'uomo avesse affannato, per non dovere più affannare, diciamo che
si poria consentire di pi gliare prima l'affanno: ma chi è certo che dopo il
male non possa così seguire peggio, come il bene che s'aspetta? I tempi insieme
con le mondane cose sono transitorii. Prendendo la vecchia, prima che l'anno compia,
il quale non parrà che mai venga meno, potrà la giovane morire, o i fratelli di
lei pentersi, o essere donata altrui, o forse rapita, e così dopo male, peggio
seguirà al prenditore; ma se la giovane fia presa, avranne il prenditore
primieramente il suo disio tanto tempo da lui disiderato, né ne gli seguirà
però quella noia che voi dite che nel pensiero ne gli dee seguire: però che il
dovere morire è infallibile, ma il giacere con una vecchia fia accidente da
potere con molti rimedii da uomo savio cessare. E le mondane cose sono da
essere prese da' discreti con questa legge, che alcuno mentre le tiene le goda,
disponendosi con liberale animo a renderle overo lasciarle, quando richieste
saranno. Chi affanna per riposare, manifesto essemplo ne porge che riposo sanza
quello avere non puote, e poi che egli prende l'affanno per avere il riposo,
quanto più è da presumere che se il riposo gli fosse presto come l'affanno,
ch'egli più tosto quello che questo prenderebbe? E non è da credere che se
Leandro avesse potuto avere Ero sanza passare il tempestoso braccio di mare
dov'egli poi perì, ch'egli non l'avesse più tosto presa che notato? Convengonsi
le cose della fortuna pigliare quando sono donate. Niuno sì picciolo dono è che
migliore non sia che una grande impromessa: prendansi alle future cose rimedii,
e le presenti secondo la loro qualità si governino. Naturale cosa è di dovere
più tosto il bene che il male pigliare, quando igualmente concorrono: e chi fa
il contrario, non naturale ragione ma sua follia segue. Ben confessiamo però
che dopo l'affanno è più grazioso il riposo che prima, e meglio conosciuto, ma
non che sia più tosto da pigliare. Possibile è agli uomini folli e a' savi
usare i consigli e de' folli e de' savi, secondo il loro parere, ma però la infalli
bile verità non si muta, la quale ci lascia vedere che più tosto la bella e
giovane donna, che la vecchia e laida, sia da prendere da colui a cui tale
partito donato fosse».
[67]
Messaallino,
il quale tra la destra mano della reina e di Parmenione sedeva compiendo il
cerchio, disse così appresso:
«Ultimamente
a me conviene proporre, e, acciò ch'io le belle novelle dette e le quistioni
proposte avanti faccia più belle, una novelletta assai graziosa a udire, nella
quale una quistione assai leggiera a terminare cade, dirò. Io udii già dire che
nella nostra città un gentile uomo ricco molto avea per sua sposa una
bellissima e giovane donna, la quale egli sopra tutte le cose del mondo amava.
Era questa donna da un cavaliere della detta città per amore intimamente amata,
ma ella né lui amava né di suo amore si curava: per la qual cosa il cavaliere
mai da lei né parola né buon sembiante avea potuto avere. E così sconsolato di
tale amore vivendo, avvenne che al reggimento d'una città, assai alla nostra
vicina, fu chiamato ove egli andò, e quivi onorevolemente avendo retto gran
parte del tempo che dimorare vi dovea, per accidente gli venne un messaggere,
il quale dopo altre novelle così gli disse: "Signor mio, siavi manifesto
che quella donna la quale voi sopra tutte l'altre amavate nella nostra città,
questa mattina, volendo partorire, per greve doglia non partorendo morì, e
onorevolemente co' suoi padri in mia presenza fu sepellita". Con greve
doglia ascoltò il cavaliere la novella e con forte animo la sostenne, non
mostrando nel viso per quella alcun mutamento; e così fra se medesimo disse:
"Ahi, villana morte, maladetta sia la tua potenza! Tu m'hai privato di
colei cui io più ch'altra cosa amava, e cui io più disiderava di servire, ben
che verso di me la conoscessi crudele. Ma poi che così è avvenuto, quello che
amore nella vita di lei non mi volle concedere, ora ch'ella è morta nol mi
potrà negare: ché certo, s'io dovessi morire, la faccia, che io tanto viva
amai, ora morta converrà che io baci". Aspettò dunque il cavaliere la
notte, e, preso uno de' più fidi famigliari che avea, con lui per le oscure
tenebre si mise a gire alla città, nella quale pervenuto, sopra la sepoltura
dove sepellita era la donna se n'andò, e quella aperse, e confortando il
compagno che 'l dovesse sanza alcuna paura attendere, entrò in quella e con
pietoso pianto dolendosi cominciò a baciare la donna e a recarlasi in braccio.
E dopo alquanto, non potendosi di baciare costei saziare, la cominciò a toccare
e a mettere le mani nel gelato seno fra le fredde menne, e poi le segrete parti
del corpo con quelle, divenuto ardito oltre al dovere, cominciò a cercare sotto
i ricchi vestimenti: le quali andando tutte con timida mano tentando sopra lo
stomaco la distese, e quivi con debole movimento sentì li deboli polsi muoversi
alquanto. Divenne allora questi non poco pauroso, ma amore il facea ardito: e
ricercando con più fidato sentimento, costei conobbe che morta non era; e di
quel luogo la trasse con soave mutamento; e appresso involtala in un gran
mantello, lasciando la sepoltura aperta, egli e 'l compagno a casa la madre del
cavaliere tacitamente la ne portarono, scongiurando il cavaliere la madre per
la potenza degl'iddii, che né questo né altro che ella vedesse a niuna persona
manifestare dovesse. E quivi fatti accendere grandissimi fuochi, i freddi
membri venne riconfortando, i quali però non debitamente tornavano alle perdute
forze; per la qual cosa, egli, forse in ciò discreto, fece un solenne bagno
apparecchiare, nel quale molte virtuose erbe fece mettere, e appresso lei vi
mise, faccendola in quella maniera che si convenia servire teneramente e
governare. Nel qual bagno poi che la donna fu per alquanto spazio dimorata, il
sangue, dintorno al cuore congelato per lo ricevuto fred do, caldo per le
fredde vene si cominciò a spandere, e gli spiriti tramortiti cominciarono a
ritornare nelli loro luoghi: onde la donna risentendosi cominciò a chiamare la
madre di lei, domandando dove ella fosse. A cui il cavaliere in luogo della
madre rispose che in buon luogo dimorava e ch'ella si confortasse. E in questa
maniera stando, come fu piacere degl'iddii, invocato l'aiuto di Lucina, la
donna, faccendo un bellissimo figliuolo maschio, da tale affanno e pericolo si
liberò, rimanendo chiara e fuori d'ogni alterazione, e lieta del nato
figliuolo: a cui prestamente balie alla guardia di lei e del garzone trovate
furono. Ritornata adunque la donna dopo il grave affanno alla vera conoscenza,
essendo già nato nel mondo il nuovo sole, davanti si vide il cavaliere che
l'amava e la madre di lui, a' suoi servigii ciascuno di loro presto; e de' suoi
parenti, miratosi assai dintorno, niuno vide. Per che venuta in cogitabile
ammirazione, quasi tutta stupefatta disse: "Dove sono io? Qual maraviglia
è questa? Chi m'ha qui, dov'io mai più non fui, recata?". A cui il
cavaliere rispose: "Donna, non ti maravigliare, confortati, ché quello che
tu vedi, piacere degl'iddii è stato, e io ti dirò come". E cominciandosi
dal principio, infino alla fine come avvenuto gli era le dichiarò, conchiudendo
che per lui ella e 'l figliuolo erano vivi: per la qual cosa sempre a' suoi
piaceri erano tenuti. Questo sentendo la donna e conoscendo veramente che per
altro modo alle mani del cavaliere non poria essere pervenuta, se non per
quello che egli le narrava, prima gl'iddii con divote voci ringraziò e appresso
il cavaliere, sempre a' suoi servigii e piaceri offerendosi. Disse adunque il
cavaliere: "Donna, poi che a' miei voleri conoscete essere tenuta, io
voglio che in giuderdone di ciò che io ho adoperato voi vi confortiate infino
alla tornata mia dell'uficio al quale io fui eletto già è tanto tempo, che
presso alla fine sono, e mi promettiate di mai né al vostro marito né ad altra
persona sanza mia licenza pale sarvi". A cui la donna rispose sé non
potergli né questo né altro negare, e che veramente ella si conforterebbe, e
con giuramento gli affermò di mai non si far conoscere sanza piacere di lui. Il
cavaliere, veduta la donna riconfortata e fuori d'ogni pericolo, dimorato due
giorni a' servigi di lei, raccomandata alla madre lei e 'l figliuolo, si partì
e tornò all'uficio della rettoria sua, il quale dopo picciolo tempo
onorevolemente finì, e tornò alla sua terra e alla casa, dove dalla donna fu
graziosamente ricevuto. Dimorato adunque alcun giorno dopo la sua tornata, egli
fece apparecchiare un grandissimo convito, al quale egli invitò il marito della
donna amata da lui, e i fratelli di lei e molti altri. E essendo gl'invitati
per sedere alla tavola, la donna, come piacere fu del cavaliere, venne vestita
di quelli vestimenti i quali alla sepoltura avea portati, e ornata di quella
corona, e anella e altri preziosi paramenti; e, per comandamento del cavaliere,
sanza parlare a lato al suo marito mangiò quella mattina, e il cavaliere a lato
al marito. Era questa donna dal marito sovente riguardata, e i drappi e gli
ornamenti, e fra sé gli parea questa conoscere essere sua donna, e quelli
essere i vestimenti co' quali sepellita l'avea, ma però che morta gliele parea
avere messa nella sepoltura, né credea che risuscitata fosse, non ardiva a far
molto, dubitando ancora non forse fosse un'altra alla sua donna simigliante,
estimando che più agevole fosse a trovare e persona e drappi e ornamenti
simiglianti ad altri, che risuscitare un corpo morto; ma non per tanto sovente
rivolto al cavaliere domandava chi questa donna fosse. A cui il cavaliere
rispondea: "Domandatene lei chi ella è, che io non lo so dire, di sì piacevole
luogo l'ho menata". Allora il marito dimandava la donna chi ella fosse. A
cui ella rispondea: "Io sono stata menata da codesto cavaliere, da quella
vita graziosa che da tutti è disiata, per non conosciuta via in questo
luogo". Non mancava l'ammirazione del marito per queste parole, ma
cresceva: e così infino ch'ebbero mangiato dimorarono. Allora il cavaliere menò
il marito della donna nella camera, e la donna e gli altri similmente che con
lui aveano mangiato, dove in braccio ad una balia trovarono il figliuolo della
donna, bellissimo e grazioso, il quale il cavaliere pose in braccio al padre,
dicendo: "Questi è tuo figliuolo"; e dandogli la destra mano della
donna, disse: "Questa è tua mogliere, e madre di costui", narrando a
lui e agli altri come quivi era pervenuta. Fecero costoro tutti dopo la
maraviglia gran festa, e massimamente il marito con la sua donna e la donna con
lui, rallegrandosi del loro figliuolo. E ringraziando il cavaliere, lieti
tornarono alle loro case, faccendo per più giorni maravigliosa festa. Servò
questo cavaliere la donna con quella tenerezza e pura fede che se sorella gli
fosse stata. Per che si dubita qual fosse maggiore, o la lealtà del cavaliere o
l'allegrezza del marito, che la donna e 'l figliuolo, i quali perduti riputava
sì come morti, si trovò racquistati, priegovi che quello che di ciò
giudicherete ne diciate».
[68]
«Grandissima
crediamo che fosse la letizia della racquistata donna e del figliuolo, e
similemente la lealtà fu notabile e grande del cavaliere, ma però che naturale
cosa è delle perdute cose, racquistandole, rallegrarsi, né potrebbe essere
sanza perché altri volesse, e massimamente racquistando una molto amata cosa
davanti, e uno figliuolo, di che non si poria tanta allegrezza fare quanta si
converria, non riputiamo che sì gran cosa sia quanta una farne, a che l'uomo
sia da propia virtù costretto a farla; e dell'essere leale questo adiviene,
però che possibile è l'essere e 'l non essere leale. Diremo, adunque, che da
cui l'essere leale in cosa tanto amata procede, ch'egli faccia grandissima e
notabile cosa lealtà servando, e in molta quantità avanzi in sé la lealtà, che
l'allegrezza in sé: e così terremo».
[69]
«Certo
- disse Messaallino, - altissima reina, come voi dite credo che sia; ma gran
cosa mi pare a pensare che a tanta letizia, quanta in colui che la donna riebbe
fu, si potesse porre comparazione di grandezza in niuna altra cosa, con ciò sia
cosa che maggior dolore non si sostenga che quello quando per morte amata cosa
si perde. Appresso, se 'l cavaliere fu leale, come qui già si disse, egli fece
suo dovere, però che tutti siamo tenuti a virtù operare: e chi fa quello a che
è tenuto, bene è fatto, ma non è da riputare gran cosa. Però io imagino che
giudicare maggiore l'allegrezza che la lealtà si poria consentire.
[70]
«Voi
a voi medesimo contradite nelle vostre parole - disse la reina - però che così
si dee l'uomo rallegrare per dovere del bene che Iddio gli fa, come operare
virtù; ma se essere si potesse nell'uno caso essere dolente, come nell'altro si
poria disleale, poriasi al vostro parere consentire: le naturali leggi seguire,
che non si possono fuggire, non è gran cosa, ma le positive ubidire è virtù
dell'animo; e le virtù dell'animo e per grandezza e per ogni altra cosa sono da
preporre alle corporali, e però esse opere virtuose, faccendo degna
compensazione, avanzano in grandezza ogni altra operazione. Ancora si può dire
che l'essere stato leale dura in essere sempre: la letizia si può in subita
tristizia voltare, o diventa nulla o modica dopo poco spazio di tempo,
possedendo la cosa per che lieto si diventa. E però dicasi il cavaliere essere
stato più leale che colui lieto, da chi diritto vuole giudicare».
[71]
Non
seguitava appresso Messaallino alcuno più che a proporre avesse, però che tutti
aveano proposto, e il sole già bassando, lasciava più temperato aere ne'
luoghi. Per la qual cosa Fiammetta, reverendissima reina dell'amoroso popolo,
si dirizzò in piè e così disse:
«Signori
e donne, compiute sono le nostre quistioni, alle quali, mercé degl'iddii, noi
secondo la nostra modica conoscenza avemo risposto, seguendo più tosto
festeggevole ragionare che atto di quistionare. E similmente conosciamo molte
cose più potersi intorno a quelle rispondere e migliori che noi non abbiamo
dette: ma quelle che dette sono assai bastano alla nostra festa, l'altre
rimangano a' filosofanti in Attene. Noi vedemo già Febo guardarci con non
diritto aspetto, e sentiamo l'aere rinfrescato, e i nostri compagni avere
rincominciata la festa, che qui vegnendo per troppo caldo lasciammo; e però ci
pare di noi tornare similmente a quella».
E
questo detto, presa con le dilicate mani la laurea corona della sua testa, nel
luogo dove seduta era la pose, dicendo:
«Io
lascio qui la corona del mio e vostro onore, infino a tanto che noi qui a
simile ragionamento torniamo».
E
preso Filocolo per la mano, che già s'era con gli altri levato, tornarono a
festeggiare.
[72]
Sonarono
i lieti strumenti e l'aere pieno d'amorosi canti da tutte parti si sentiva, e
niuna parte del giardino era sanza festa: nella quale quel giorno infino alla
sua fi ne tutti lietamente dimorarono. Ma sopravenuta la notte, mostrando già
la loro luce le stelle, alla donna e a tutti parve di partire tornando alla
città. Alla quale pervenuti, Filocolo, partendosi da lei, così le disse:
«Nobile
Fiammetta, se gl'iddii mai mi concedessero ch'io fossi mio com'io sono
d'altrui, sanza dubbio vostro incontanente sarei; ma per che mio non sono, ad
altrui donare non mi posso: non per tanto quanto il misero cuore puote ricevere
fuoco strano, di tanto per lo vostro valore si sente acceso, e sentirà sempre,
ognora con più effetto disiderando di mai non mettere in oblio il vostro
valore».
Assai
fu Filocolo da lei ringraziato nel suo partire, aggiungendo che gl'iddii tosto
in graziosa pace ponessero i suoi disii.
[73]
Tornato
così Filocolo al suo ostiere, quella notte con molti pensieri passò, fra sé
l'udite quistioni ripetendo, delle quali assai a' suoi dolori facevano, e tutto
per la bellezza della piacevole Fiammetta racceso, con più pena sostenea
l'essere a Biancifiore lontano. Egli poi si ricordava delle passate feste avute
con lei in quelli tempi, e in molti altri, e fra sé molte fiate annoverava i
giorni, i mesi e gli anni, dicendo:
«Tanto
tempo è passato che io con lei non fui o non la vidi»; e con gravissimi sospiri
notava quelle ore nelle quali più graziosamente con lei li ricordava essere
stato. Ma perché il tempo che si perdea, che più che mai gli gravava, passasse
con meno malinconia, egli andando per li vicini paesi di Partenope si dilettava
di vedere l'antichità di Baia, e il Mirteo mare, e 'l monte Mesano, e
massimamente quel luogo donde Enea, menato dalla Sibilla, andò a vedere le
infernali ombre. Egli cercò Piscina Mirabile, e lo 'mperial bagno di Tritoli, e
quanti altri le vicine parti ne tengono. Egli volle ancora parte vedere
dell'inescrutabile monte Barbaro, e le ripe di Pozzuolo, e il tempio d'Apollino,
e l'oratorio della Sibilla, cercando intorno intorno il lago d'Averno, e
similmente i monti pieni di solfo vicini a questi luoghi: e in questa maniera
andando più giorni, con minore malinconia trapassò che fatto non avria
dimorando.
[74]
Ma
ritornato in Partenope, e con malinconia aspettando tempo, avvenne che con
grandissima malinconia un giorno in un suo giardino si racchiuse solo, e quivi
con varii pensieri s'incominciò in se medesimo a dolere, e dolendosi, in nuove
cose di pensiero in pensiero il portò la fantasia, portandogli davanti agli
occhi, che il loro potere aveano nella mente raccolto, nuove e inusitate cose.
E' gli parea vedere davanti da sé il mare essere tranquillo e bello tanto
quanto mai l'avesse veduto, e in quello una navicella di bella grandezza, sopra
la quale vide sette donne di maravigliosa bellezza piene, in diversi abiti
adornate, delle quali sette, le quattro alquanto verso la proda della bella
nave vide spaziarsi: e già d'averle altra fiata vedute e loro contezza avuta si
ricordava. Ma l'altre tre, che molto più belle gli pareano, dal mezzo del legno
quasi infino di tutta la poppa d'esso gli parea che possedessero, né quelle per
rimirarle in niuno modo conoscere potea; ma tra loro gli parea vedere un albero
che infino al cielo si distendesse, né per alcun movimento che la nave avesse
parea che si mutasse. E queste cose con ammirazione riguardando, si sentì
chiamare, per che a lui parea prestamente sopra la navicella montare e essere
intra le quattro donne raccolto. E porgendo gli occhi inver la proda della
nave, gli parve fuori di quella vedere una femina d'iniquissimo aspetto con gli
occhi velati e di maravigliosa forza nel suo operare: e con le mani appiccata
al legno, quello con tanta forza moveva, che parea che sotto l'acque il dovesse
sommergere, e per consequente parea che dintorno ad esso tutto il mare movesse
e tempestasse; di che egli dubitando, gli parve udire:
«Non
dubitare».
Parevali,
adunque, a Filocolo, rassicurato da quella voce, rimirare le quattro donne che
dintorno gli stavano, delle quali l'una vedea vestita di drappi simiglianti a
finissimo oro, nel viso bellissima e onesta, col capo coperto di nero velo, e
nella destra mano portava uno specchio nel quale sovente si riguardava, nella
sinistra tenea un libro. Assai piacque questa a Filocolo, e, volti gli occhi
alla seconda, d'ardente colore la vide vestita e umile nell'aspetto, sotto
candido velo, tenendo nella destra mano un'aguta spada, nella sinistra una
retta linea, sopra la quale parea che si poggiasse. Ma la terza Filocolo non
sapea divisare che colore il suo vestimento si fosse, ma adamante
l'assimigliava; e questa sotto il sinistro piede volta uno ritondo pomo
grossissimo, nel quale la terra, il mare e i regni sotto diversi climati erano
disegnati, ogni cosa riguardando con igual viso, tenendo nella destra mano uno
scettro reale. Molto riguardò Filocolo costei: poi rivolto alla quarta, la vide
sotto onesto velo di violato vestita, tacita dimorare tenendosi al petto
distesa la destra mano, e alla bocca lo 'ndicativo dito della sinistra, e
tutte, secondo il piacere della donna del caro vestimento, parea che si
guidassero. Dilettava a Filocolo in sì grazioso luogo dimorare: e mentre che
egli con più diletto vi dimorava, volto gli occhi ancora verso la proda, vide
in quella un giovane di piacevole aspetto riguardare, vestito di nobilissimi
vestimenti, al quale nelle braccia vedea una giovane nuda, bellissima tanto
quanto mai alcuna veduta n'avesse, la quale sì stimolava e angosciava tanto,
che ogni riposo le parea nimico, e con le sue lagrime quasi tutti i vestimenti
del giovane avea bagnati. Questa parea a Filocolo molto riguardarla; e dopo
lungo mirare gli parea che fosse la sua Biancifiore, e pareagli che quel
giovane per lo propio nome il chiamasse e gli dicesse:
«Vedi
come tu fai sanza riposo stare la tua Biancifiore?». Da questa voce parea che
tanto disio gli crescesse nel cuore di correre ad abbracciare quella, che quasi
non gli pareva potere stare. Per che egli rivolto a quelle donne gli parea
dire:
«Per
che cosa mi faceste voi qui chiamare? Ditemelo, però ch'io mi voglio partire».
A
cui risposto fu:
«Noi
tel diremo».
E
con lui cominciarono le quattro donne a parlare e a dire molte cose, delle
quali niuna gli parea intendere, tanto avea lo 'ntelletto rivolto pure a
Biancifiore: e non potendo più il ragionamento di quelle ascoltare, lasciandole
parlando, corse ove il giovane ignuda tenea Biancifiore, e quivi gli parea con
quella festeggevolemente essere ricevuto. Ma dimorando quivi, gli parea che 'l
mare mutasse legge, che, dimorato alquanto quieto, in tanta tempesta si
rivolgea, che non che la nave, ma eziandio tutto l'universo gli parea che
dovesse sommergere: e rimirando quella femina che la proda della nave movea,
vide dalla sua bocca una voce come un tuono grandissima procedere, e con quella
un vento impetuosissimo, il quale lui e Biancifiore e quel giovane parea che d'in
su la nave levasse, e gittasseli in un luogo di voracità pieno, che davanti a
lui parve oscurissimo e tenebroso. Quivi gli parea essere pieno di mortale
paura, e piangere, e 'l simigliante faceano Biancifiore e 'l giovane: ma quindi
per non pensato modo tutti e tre sanza offesa si partiano, ritornando in su la
nave onde partiti s'erano, dove la turbata femina vide ritornata lieta, e con
riposo tenere la nave e il mare. E di sua volontà gli parea con Biancifiore
entrare in mezzo delle quattro donne, le quali prima non avea ascoltate, ove
vide aggiunto un uomo di grandissima eccellenza e autorità nel sembiante con
corona d'oro sopra la testa. Questi gli parea che molte parole gli dicesse, e
col suo dire molto l'essere, delle tre donne, le quali egli non conoscea, gli
discoprisse: per che tanto gli parea essere nel cuore acceso d'avere di loro
notizia intera, che appena il potea sostenere. E in questa volontà dimorando, e
rimirando verso il cielo, gli parea quello vedere aprire e uscirne una luce
mirabilissima, risplendente e grande, la quale parea che tutto il mondo dovesse
accendere, e quella parte del mondo, che tal luce sentiva, più bella che alcuna
altra gli parea che fosse. Questa luce venne sopra di lui, nella quale egli
rimirando, vide una donna bella e graziosa nell'aspetto, di quella medesima
luce vestita, e nelle mani portava una ampolla d'oro, d'una preziosissima acqua
piena, della quale acqua tutto il viso e per consequente tutta la persona
pareva che gli lavasse, e poi subito sparisse: e come questo era fatto, così
gli parea aver cata la vista, e meglio conoscere e le mondane cose e le divine
che prima, e quelle amare ciascuna secondo il suo dovere. E così ammirandosi di
ciò, si trovò tra le tre donne, le quali prima non conoscea, e con loro la sua
Biancifiore parea che fosse, e prendesse maravigliosa contezza: delle quali tre
vedea l'una tanto vermiglia e nel viso e ne' vestimenti quanto se tutta
ardesse, e l'altra tanto verde che avanzato avria ogni smeraldo, la terza
bianchissima passava la neve nella sua bianchezza. E dimorando questi con loro
per certo spazio, avendo bene di loro nel cuore ogni certezza, seguendo i loro
vestigii, subitamente si vide da loro con tutta la navicella su per l'albero
levarsi al cielo, quelle tre essendoli duce, e le quattro di sotto a lui
rimanere sopra le salate onde, e ad alto sospingerlo. E così sagliendo, gli
parea passare infino nelle sante regioni degl'iddii, e in quelle conoscere i
virtuosi corpi e i loro moti e la loro grandezza e ogni loro potenza: quivi con
ammirazione, inestimabile gloria gli parea vedere dalla faccia di Giove
procedere a' riguardanti, della quale egli sanza fine sentiva. E volendo dire:
«Oh felice colui che a tanta gloria è eletto!», avvenne che Ascalion e
Parmenione vennero dov'egli era. E ignorando il bene che a sé sì il teneva
sospeso, più volte il chiamarono, né egli a loro rispose. Per che poi il
presero per lo braccio, e tirandolo, dalla celestiale gloria alle mondane cose
il tirarono. E imaginando che profonda malinconia l'avesse occupato,
cominciarono a dire:
«Filocolo,
che pensiero è il tuo? Rallegrati, ché i marinari ne chiamano che noi andiamo
al legno per andare al nostro cammino, e dicono che poi che qui fummo più non
videro prosperevole tempo a nostra via se non ora: leva su, andiamo».
Levossi
dunque Filocolo dicendo:
«Oimè,
da che bene tolto m'avete!».
E
narrato loro ciò che veduto avea, con loro insieme, pieni d'ammirazione per lo
suo detto, n'andarono alla nave. E rendute prima degne grazie agl'iddii del
buon tempo, e pregatigli divotamente che in meglio il dovessero prosperare, in
su quella montarono. E su dimorativi le due parti della notte, sentendo il
vento rinfrescato parve loro di dargli le vele. Le quali dategli, gli antichi
porti di Partenope abandonarono, disiderosi di pervenire dove dagl'iddii fu
loro promesso di trovare di Biancifiore vere novelle.
[75]
Lenti
e scarsi venti pinsero la violata nave in più giorni quasi che alla esteriore
punta della dimandata isola, e, quivi mancati, discesero in terra, dubitando
non gl'iddii quivi per lungo spazio gli ritenessero come in Partenope fatto
aveano. Ma ignorando Filocolo in qual parte dell'isola dovesse di Biancifiore
novelle sapere secondo il risponso degl'iddii, la fortuna che già con lieto
viso gli si cominciava a rivolgere, vicino albergo gli apparecchiò a Sisife.
Dove egli più giorni dimorando e cercando di sapere novelle di Biancifiore né
trovandone alcuna, non sapea che farsi; e già il tempo vedea acconciare presto
al suo proponimento. Per che egli quasi disperato, dispregiando il detto
degl'iddii, non sapea che si fare, ma dimorando malinconico fra sé dicea:
"Come io qui di Biancifiore non trovo novelle, così, in tutto, il mio
viaggio sarà perduto, e, ingannato dagl'iddii, per soperchio dolore dolente renderò
l'anima alle dolorose sedie di Dite". Poi fra sé ripensava le parole
degl'iddii non potere essere false, ma dicea: "Forse non in questo luogo
dell'isola debb'io di Biancifiore trovar novelle, ma in alcuno altro"; per
che si imaginava di tutta l'isola voler cercare.
[76]
In
questi pensieri dimorando Filocolo sedendosi sopra uno antico marmo posto a
fronte alle grandi case di Sisife, avvenne che Sisife dimorando ad una finestra
verso il mare riguardando, il vide, e molto il rimirò, volendosi pure alla memoria
riducere d'averlo altra volta veduto. E dopo molto riguardarlo, si ricordò di
Biancifiore, a cui, secondo il giudicio di Sisife, Filocolo molto risomigliava.
Per che ella vedendolo così malinconico dimorare, fra sé cominciò a pensare che
costui per Biancifiore malinconico dimorasse, e volendosi della vera
imaginazione accertare, discesa del luogo dove dimorava, a sé chiamare fece lo
innamorato giovane e così gli disse:
«Giovane,
se gl'iddii ad effetto produchino ogni tuo disio, non ti sieno gravi le mie
parole, né noioso il contentarmi di ciò ch'io ti domanderò, se licito t'è il
dirmelo. Dimmi qual cagione è in te che sì occupato di malinconia tiene il tuo
viso, che ha potenza di porgere pietà nel cuore a chi ti mira».
Riguardò
Filocolo costei nel viso, e vedendola gentilesca e bella e di costumi ornata,
pietosa di sé, dopo un sospiro così le rispose:
«Gentil
donna, appena che io speri che mai gl'iddii alcuna cosa che mi contenti mi
concedano, per che io per questo già poco mi curerei la cagione della mia
malinconia narrarvi; ma il gentilesco aspetto di voi ad ogni vostro piacere
adempiere mi costringe, per che io la vi dirò, ben che mai io non trovassi a
cui pietà di me venisse se non a voi. Il pensiero che sì malinconico il mio
aspetto vi rapresenta è che dagl'iddii, dal mondo e dagli uomini abandonato mi
trovo in questo modo. Io povero giovane e pellegrino, statomi dato dal mio
padre etterno essilio dalla sua casa, vo ricercando una giovane a noi per
sottile ingegno levata, la quale s'io ritrovo, licito mi fia alla paternale
casa tornare. Ma di ciò male mi pare essere nel cammino, però che da alcuno
iddio dopo divoto sacrificio ebbi risponso di dovere qui di lei udire vere
novelle; ma ciò truovo falso, però ch'io sono qui più giorni dimorato, né alcuno
ci ha che novelle di lei mi sappia contare: per che trovandomi dagl'iddii
ingannato, quasi come disperato vivo di ritrovarla».
[77]
Riguardollo
più fiso allora la donna, e domandollo come la giovane la quale egli cercava si
chiamasse, e chi egli fosse, e come avesse nome, e donde veniva, e quanto tempo
era che perduta avea quella che giva cercando. A cui Filocolo rispose:
«Biancifiore
è il nome della giovane, e io, suo misero fratello, mi chiamo Filocolo, dalle
terre che l'Adice riga partitomi: ben sette mesi o più l'ho cercata, e tanto ha
che ella ne fu levata».
Pensossi
Sisife fra se medesima: "Veramente questi cerca quella Biancifiore che qui
fu co' parenti miei menata dagli occidentali regni". Per che così gli
cominciò a parlare:
«Giovane,
delle 'mpromesse degl'iddii non si dee alcuno sconfortare già mai, però che
infallibili sono. Adunque confortati e prendi ferma speranza di futuro bene,
però che vere novelle di Biancifiore ti dirò, sì come quella con cui più giorni
in questa casa dimorò».
Disse
allora Filocolo:
«O
nobilissima donna, se alcuna pietà nel cuore il mio aspetto vi porse, per
quella vi priego che ciò che di lei sapete interamente mi narriate. Pensate
quanto merito nel cospetto degl'iddii acquisterete, se per lo vostro consiglio
io racquistando la mia sorella, lei e me insieme renderò al mio padre».
Sisife
disse allora:
«Per
me niuno tuo piacere fia sanza effetto; quanto della giovane che tu vai
cercando so, io il ti dico: e' sono omai sei mesi passati che qui due miei
parenti vennero con una bella e grandissima nave, i quali, secondo il loro
parlare, di quelle parti, donde tu vieni, si partirono, e con loro aveano
questa Biancifiore che tu cerchi, bella e graziosa assai. E certo io non ti
vidi prima, che io nell'aspetto di lei ti conobbi suo fratello o parente, e
però di lei ricordandomi, di te mi venne pietà. Ella dimorò qui meco più
giorni, e io, secondo il mio potere, in tutte cose la onorai come figliuola:
veramente mai rallegrare non la potei, anzi continuamente pensosa e piangendo
la vedea. E domandandola io alcuna volta quale fosse la cagione del suo pianto,
ella mi rispondea che mai niuna femina di piangere ebbe cagione quanto ella
avea, però ch'ella avea lasciato il più grazioso amadore che mai da donna amato
fosse, il quale ella nel suo pianto chiamava Florio: a costui si dolea quasi
come davanti il si vedesse, a costui si raccomandava, costui chiamava, e mai
nella sua bocca altro nome non era. E certo, per quello ch'ella mi dicesse,
ella avea doppia ragione d'amarlo sopra tutti gli altri uomini del mondo, però
che egli amava lei più che altra donna, e appresso, secondo il suo dire, egli
era il più bello uomo che mai fosse veduto: chi costui si fosse non so se tu
tel sai».
A
cui Filocolo disse:
«Assai
ben lo conosco, e gran ragione la movea ad amarlo e a dolersi d'essere da lui
allontanata, però che quelle due cose che vi dicea, amendune v'erano: ch'io so
manifestamen te che esso da picciolo garzone l'amò, e ella lui, e ancora sopra
tutte le cose l'ama, e novellamente sposare la dovea, se tanto la fortuna non
l'avesse offeso. E tanto di lui vi so dire, che egli pieno di dolore, sì come
io, in simile affanno va pellegrinando per ritrovarla. Onde io vi priego che se
voi sapete in che parte i mercatanti la portarono, che voi il mi diciate. Io
porto con meco molti tesori, de' quali io renderei doppiamente a' mercatanti
quello che loro costò, se rendere la mi volessero».
Disse
allora Sisife:
«Gran
pietà ebbi di lei, e maggiore me la ne fai venire, e, se gl'iddii m'aiutino!,
se io fossi uomo com'io femina sono, con teco la verrei cercando; ma poi che
aiuto donare non ti posso, prendi il mio consiglio. I mercatanti, che seco la
portarono, mi dissero di dovere andare a Rodi, e di quindi in Alessandria, e
così credo che abbiano fatto: e però tu similemente questi luoghi cercherai, e
se gli truovi, da mia parte della tua bisogna gli priega; credo che assai ti
varrà, e se gl'iddii ti fanno tanta grazia che la ritruovi, piacciati che con
teco io la rivegga».
Piacque
a Filocolo il consiglio e l'ascoltata novella, e benignamente le 'mpromise di
rivederla, se conceduta gli fosse la grazia. E dopo molte parole, da lei molto
onorato, donatole graziosi doni a tanta donna convenevole, con sua licenza da
lei si partì. E venuto il tempo al loro cammino utile, co' suoi compagni saliti
sopra la nave si partirono cercando Rodi.
[78]
Navica
adunque Filocolo: e ciascun giorno più i venti rinfrescano e pigliano forza in
aiuto di Filocolo, sì che in brieve, lasciandosi dietro Gozo e Moata, piglia
l'alto mare fuggendo la terra. Ma per mancamento di vento e per venire in Rodi,
torse il cammino d'Alessandria, e passando Crava, Venedigo, Cetri, Sechilo e
Pondico, trovò l'antica terra di Minòs, della quale Saturno fu dal figliuolo
cacciato. Quivi alcun giorno dimorò in Candia, e quindi partito, Caposermon e
Casso e Scarpanto trapassò in brieve e venne a Trachilo, e di quindi a Lendego.
Quivi entrato con la sua nave nel golfo diede l'ancore a' profondi scogli, e
scese in terra e cercò la città: per la quale andando e Ascalion con lui e'
suoi compagni, avvenne per accidente che Ascalion fu conosciuto da un
grandissimo e nobile uomo della città, col quale a Roma erano già insieme
militanti dimorati, e chiamavasi Bellisano, il quale con grandissima festa
corse ad abbracciare Ascalion dicendo:
«O
gloria della militare virtù, qual grazia in questi paesi mi ti mostra? Gl'iddii
in lunga prosperità ti conservino».
Costui
conobbe bene Ascalion, e, effettuosamente abbracciatolo, con lieto viso gli
rendé quella risposta che a tali parole si convenia, pregandolo che Filocolo,
cui egli avea per maggiore e in cui servigio egli era, onorasse. Bellisano
allora, fatta a Filocolo debita riverenza, il pregò che gli piacesse al suo
ostiere esso e' compagni venire: dove Filocolo, piacendo ad Ascalion, andò. E
quivi mirabilmente onorati furono da Bellisano, il quale, amando di perfetto
amore Ascalion, in ogni atto s'ingegnava di piacergli.
[79]
Essendosi
questi riposati alcun giorno, Bellisano domandò Ascalion se licito era ch'egli
sapesse la cagione della loro venuta, ché a lui molto saria il saperlo a grado.
A cui Ascalion, con piacere di Filocolo, interamente narrò la verità della loro
venuta. Le quali cose udendo, Bellisano tutto nell'aspetto divenne stupefatto,
dicendo:
«Sanza
fallo e' non sono passati sei mesi che Biancifiore fu con gli ausonici
mercatanti in questa casa, avvegna che poco ci dimorasse. E essi ne la
portarono in Alessan dria, per intendimento di venderla all'amiraglio, il quale
di giorno in giorno vi si attendeva, secondo che essi mi dissero: che essi
facessero, niuna novella poi ne seppi. Ma se gl'iddii di lei ogni vostro
piacere certamente adempiano, ditemi chi fu quella giovane e come avvenne che
per danari alle mani de' mercatanti venisse».
Disseli
allora Ascalion come ucciso Lelio e presa pregna Giulia era stata, e come
Biancifiore e Florio in un giorno nati erano, e come innamorati e separati, per
paura di quello che ad effetto si dovea recare, erano dal padre stati, e i
pericoli corsi a Biancifiore, e ciò che per adietro era avenuto. Maravigliossi
assai Bellisano, e domandò quale Lelio fosse stato il padre di Biancifiore. A
cui Ascalion disse:
«Egli
fu il nobile Lelio Africano, il quale a noi e agli altri stranieri soleva essere
tanto grazioso mentre in Roma dimorammo».
Questo
udendo, Bellisano appena le lagrime ritenne, dicendo:
«Oimè,
or fu in casa mia la figliuola di colui a cui io fui più tenuto che ad altro
uomo, e non la sovenni d'aiuto? Ahi, maladetta sia la mia ignoranza, ch'io vi
giuro, per l'anima del mio padre, che, se ciò che voi mi dite io avessi saputo,
io ci avrei tutti i miei tesori donati, e ogni mia forza adoperata per poterla
in libertà riducere, portandola poi, per merito de' servigii ricevuti dal
padre, in qualunque parte le fosse piaciuto. Ma non me lo reputino gl'iddii in
peccato, ché altro che per ignoranza non manco: e ella misera tutti i suoi
infortunii mi disse, de' quali io piansi con lei come gl'iddii sanno, né di cui
figliuola stata fosse mai mi disse».
Allora
disse Ascalion:
«Certi
siamo di ciò che ne conti, e siamotene tenuti; ma consigliane, per quel
singulare grado che tra te e me è già stato e è di vera amistà, che via noi
dobbiamo tenere a ritrovare e a riavere ciò che cercando andiamo».
Bellisano
gli rispose:
«Il
consiglio e l'aiuto che per me si potrà, voi l'avrete. Io con esso voi verrò in
Alessandria, dove io ho alcuni amici, i quali per amore di me vero aiuto e
consiglio ci porgeranno, ché di qui, sanza vedere altro, male vi saprei consigliare».
A
queste parole rispose Filocolo dicendo:
«Carissimo
Bellisano, assai ci basterà se ad alcuno de' tuoi amici per consiglio ci mandi
sanza affannarti. Tu oramai pieno d'anni, più il riposo che l'affanno
disiderare dei, e però ti ringrazio del buon volere».
Disse
allora Bellisano:
«Fermamente
da voi non fia sanza me tale cammino fatto, ché ancora che io sia anziano, son
io a gravissime fatiche possente più che tali giovani. Io sono tenuto di
metterrni alla morte per amore della giovane cui voi cercate, se io penso a'
ricevuti servigi dal più nobile padre che mai figliuola avesse. Ond'io vi
priego che la mia compagnia, la quale assai vi potrà essere utile, non vi sia
grave».
Vedendo
Filocolo Bellisano in questo volere, disse:
«A
vostro piacere sia: però quando vi pare ne partiremo».
[80]
Bellisano
vide il tempo disposto al loro cammino, per che a lui parve il partire
convenevole. E montati sopra la nave, renderono le vele a' prosperevoli venti,
i quali in brieve termine infino nel porto di Alessandria salvamente li
portarono. Quivi discesi in terra, date l'ancore a' fondi, a casa d'un gentile
uomo d'Alessandria, a Bellisano amico intimissimo, chiamato Dario, se
n'andarono. Egli con lieto viso principalmente Bellisano e appresso Filocolo e gli
altri graziosamente ricevette, quanto il suo potere si stendea onorandogli,
offerendosi a Filocolo e ad Ascalion e a tutti, per amore di Bellisano, ad ogni
loro piacere e servigio apparecchiato: di che da tutti con debite parole fu
ringraziato.
[81]
Dimorati
costoro alquanti giorni con Dario, e veduta la nobile città, e presi diversi
diletti, Filocolo, il cui cuore da amorose sollecitudini era stimolato, ogni
ora un anno gli si faceva di sapere quello per che quivi venuto era. E però a
sé Bellisano e Ascalion chiamò e disse loro:
«Che
facciamo noi? Che perdimento di tempo è il nostro? Venimmo noi qui per vedere
le mura d'Alessandria? Quando vi piacesse, a me molto saria caro d'intendere a
quello per che qui siamo venuti. La nimica fortuna ci ha assai tolto di tempo:
ora che contro alla forza di lei qui siamo pervenuti, non ce ne togliamo noi
medesimi, però che il perderlo a chi più sa più spiace». A cui Bellisano
rispose:
«Ciò
che dite assai mi piace, e però facciasi».
Chiamato
adunque Dario, in una camera tutti e quattro tacitamente si misero, e postisi
sopra un ricco letto a sedere, Bellisano cominciò a Dario così a parlare:
[82]
«Amico,
però che io credo che ignoto ti sia cui tu aggi onorato e onori, e similemente la
venuta di costoro da te riveriti, io il ti dirò, acciò che il loro essere e la
cagione del loro pellegrinare a niuno palesandola, quel consiglio e aiuto che
per te si puote ne sia porto».
E
mostrandogli Filocolo, disse:
«Costui
è figliuolo dell'alto re di Spagna, nipote dell'antico Atalante sostenitore de'
cieli; e quelli che tu in sua compagnia vedi, sono nobilissimi giovani e di
grandissima condizione, e qui sono venuti, e io con loro, acciò che novelle
sappiamo di Biancifiore bellissima giovane, la quale qui fu da Antonio ausonico
mercatante e da un suo compagno recata, sì come essi in Rodi, albergati nel mio
ostiere, mi dissero. Ella fu da loro comperata da non so quale re nelle parti
d'Occidente, e a costui furtivamente levata. Egli sopra tutte le cose del mondo
l'ama: e che ciò sia vero ti può, veggendolo qui, esser manifesto, là dove egli
per niuna altra cagione è venuto se non per lei racquistare; e ha proposto di
mai alla paternale casa non ritornare, né egli, né i suoi compagni, né io, se
lei primieramente non riabbiamo. Vedi oramai quanto servire ne puoi, dicendoci
se alcuna cosa di lei sai, mettendoci dopo questo in via di ciò che adoperare
dovemo secondo il tuo giudicio per racquistarla».
[83]
Con
ammirazione ascoltò Dario le parole di Bellisano udendo che di sì alto re
Filocolo fosse figliuolo, e per tale cagione pellegrino divenuto. E alzato il
viso ver lo cielo, fra sé cominciò a dire:
«O
più che altro potente pianeto, per la cui luce il terzo cielo si mostra bello,
quanta è la tua forza negli umani cuori efficace! Quando saria mai per me stato
pensato che sì nobile uomo una venduta schiava per amore dall'un canto della
terra all'altro seguisse? Certo non mai: ma veduto l'ho! Tempera i fuochi tuoi
nelle umane menti, acciò che per soverchio del tuo valore non si mettano alle
strabocchevole cose!».
E
poi che così ebbe detto, bassò la testa e così rispose:
«Amico,
a me quanto me medesimo caro, nuove cose mi fai udire, cioè che io sia oste di
tanto uomo quanto Filocolo ne di' che è: la qual cosa molto m'è cara, e più
sarebbe se lui secondo la sua nobile qualità onorato avessi; ma quello che per
ignoranza è mancato, con debita operazione adempiremo. Ma molta più
d'ammirazione mi porge la cagione della sua venuta, che altra cosa che tu mi potessi
aver detta. Né mi fia omai impossibile a credere ciò che di Medea, di Dido, di
Deianira, di Filis, di Leandro e d'altri molti ho già udito, veggendo quello
che io ora di Filocolo veggio: ma però che amore è passione che sempre cresce
quanti più argumenti a minuirla s'adoperano, sanza alcuna debita riprensione
farne, che grande a questo si converria, procederò a risponderti a ciò che
dimandato m'hai. Molto mi saria caro il potervi di Biancifiore migliori novelle
dire che io non potrò; ma come colui che interamente di lei ciò che n'è sa,
come ella sia e dove e come qui venisse vi conterò: poi quel consiglio e aiuto
che per me a tal bisogna donare si potrà, com'io per me l'adoperassi, così il
vi profero e donerò.
[84]
"Qui
venne, già sono passati sei mesi, Antonio, ausonico mercatante, e 'l compagno
suo, e a me, come a loro caro amico, richiedendo aiuto e consiglio, davanti mi
presentarono la bella giovane la quale voi cercando andate, e dissermi:
"Dario, noi vegnamo delli occidentali paesi, quivi per avventura chiamati
da Felice re di Spagna. Di suo patto e nostro per questa giovane tutti i nostri
tesori gli donammo, e qui menata l'abbiamo acciò che al signore la vendiamo, e
di lei oltre a' nostri tesori gran quantità guadagnare intendiamo: però ponici in
via come questo possiamo ad effetto recare". Le quali cose udendo, io
incontanente all'amiraglio nostro signore li menai, e, narratogli la bisogna di
costoro, e fattagli venire Biancifiore davanti, tanto gli piacque, che sanza
niuno patteggiare comandò che i tesori che costata era a' mercatanti fossero
loro radoppiati, e la giovane rimanesse a lui; e così fu fatto. I mercatanti si
partirono, e Biancifiore, rimasa, dall'amiraglio fu fatta mettere in una torre
grandissima e bella, qui assai vicina, con altre molte donzelle in simile
maniere comperate; e quivi, al fine ch'io vi dirò, essa e l'altre sotto
grandissima guardia so no guardate. Sì com'io credo che voi sapete, l'amiraglio
di cui davanti parlammo, è suggetto del potentissimo correggitore di Bambillonia,
e a lui ogni dieci anni una volta per tributo conviene che gli mandi infinita
quantità di tesori, e cento pulcelle bellissime. E egli, acciò che nella grazia
del signore interamente permanga, quanto più può s'ingegna d'averle belle e
nobili, né alcuna n'è nel mondo che bella sia, la quale per tesoro avere si
potesse, che egli a quantità guardasse, ma, che che volesse costasse, e'
converrebbe che sua fosse: e ciò può egli ben fare, però che il suo tesoro è
infinito. E com'io v'ho detto, a fine di donarle al signore il fa; e come egli
l'ha, in quella torre le guarda, dove alcuna che pulcella non sia, non può aver
luogo. Ma prima che io a porgervi alcun consiglio proceda, vi voglio divisare
come queste pulcelle in questa torre dimorano, e sotto che guardia: le quali
cose udite, forse voi così com'io vi saprete consigliare.
[85]
"La
torre dove le donzelle dimorano, come voi nel nostro porto entrando poteste
vedere, è altissima tanto che quasi pare che i nuvoli tocchi, e si è molto
ampia per ogni parte, e credo che il sole, che tutto vede, mai si bella torre
non vide, però ch'ella è di fuori di bianchi marmi e rossi e neri e d'altri
diversi colori tutta infino alla sua sommità, maestrevolemente lavorati,
murata. Ella, appresso, ha dentro a sé per molte finestre luce, le quali
finestre divise da colonnelli, non di marmo, ma d'oro tutti, si possono vedere,
le porte delle quali non sono legno, anzi pulito e lucente cristallo. Questo
tutto di fuori a' riguardanti si può palesare, ma dentro ha più mirabili cose,
le quali, chi non le vede, impossibile gli pare a crederle, udendole narrare.
Elli vi sono cento camere bellissime, e chiare tutte di graziosa luce, e molte
sale; ma tra l'altre sale una ve ne dimora, credo la più nobile cosa che mai
fosse veduta. Ella tiene della larghezza della torre grandissima parte, volta
sopra ventiquattro colonne di porfido di diversi colori, delle quali alcune ve
n'ha sì chiare, che, rimirandovi dentro, vedi ciò che per la gran sala si fa: e
fermansi le lammie di questa sala sopra capitelli d'oro posti sopra le ricche
colonne, le quali sopra basole d'oro similemente sopra 'l pavimento si posano.
Queste lammie sono gravanti per molto oro, nelle quali riguardando niuna cosa
vi puoi vedere altro, salvo se pietre nobilissime non vedessi. In questa sala
ne' pareti dintorno, quante antiche storie possono alle presenti memorie
ricordare, tutte con sottilissimi intagli adorne d'oro e di pietre vi vedresti,
e sopra tutte scritto di sopra quello che le figure di sotto vogliono
significare. Quivi ancora si veggono tutti i nostri iddii onorevolissimamente
sopra ogni altra figura posti, co' quali gli avoli e antichi padri del nostro
amiraglio tutti vedere potresti. In questa sala non si mangia se non sopra
tavole d'oro, né niuno vasellamento se non d'oro v'osa entrare. Io non vi
potrei narrare interamente di questa quanto n'è: che vi poss'io più di questa
dire se non che infino al pavimento, e il pavimento medesimo, d'oro e preziose
pietre è? In questa mangia sovente il nostro amiraglio con la tua Biancifiore e
con l'altre donzelle. Ancora è in questa torre, tra le cento camere, una che di
bellezza tutte l'altre avanza: e certo appena che quella dove Giove con Giunone
ne' celestiali regni si posa, si possa a questa agguagliare! Essa è di
convenevole grandezza, e ha questa propietà, che alcuno non vi può dentro
passare sì malinconico, che mirando al cielo della camera, dove in maestrevoli
compassi d'oro, zaffiri, smeraldi, rubini e altre pietre si veggono sanza
novero, egli non ritorni gioioso e allegre. A fronte alla porta di questa,
sopra una colonna, la quale ogni uomo che la vedesse la giudicherebbe di fuoco
nel primo aspetto, tanto è vermiglia e lucente, dimora il figliuolo di Venere
ignudo con due grandissime alie d'oro, graziosissimo molto a riguardare; e
tiene nella sinistra mano uno arco e nella destra saette, e pare a chiunque in
quella passa che questi il voglia saettare; ma egli non ha gli occhi fasciati
come molti il figurano, anzi gli ha quivi belli e piacevoli, e per pupilla di
ciascuno è un carbuncolo, che in quella camera tenebre essere non lasciano per
alcun tempo, ma luminosa e chiara come se il sole vi ferisse la tengono.
Dintorno ad esso ne' cari muri tutte le cose che mai per lui si fecero sono
dipinte. Ne' quattro canti di questa camera sono quattro grandissimi arbori
d'oro, i cui frutti sono smeraldi, perle e altre pietre, e sì artificialmente
sono composti, che come l'uomo con una verghetta percuote il gambo d'alcuno di
quelli, niuno uccello è che dolcemente canti, che al cantare non sia udito, e
ripercotendo o tacciono. In mezzo di questa camera sopra quattro leoni d'oro,
una lettiera d'osso d'indiani elefanti dimora, guarnita con letto chente a sì
fatta lettiera si richiede, chiuso intorno da cortine, le quali io non crederei
mai poter divisare quanto siano belle e ricche. Né alcuno piacevole odore è, o
confortativo, che in quella entrando l'uomo non senta soavemente odorando. In
questa camera, in questo così nobile letto dorme sola Biancifiore: e questa
grazia singulare più che l'altre riceve, perché di bellezza e di costumi avanza
ciascuna altra, ben che l'altre molto onorevolemente dimorano ciascuna nella
sua camera. Ma nella sommità di questa torre è uno dilettevole giardino molto,
nel quale ogni albero o erba che sopra la terra si truova, quivi credo che si
troverebbe: e in mezzo del giardino è una fontana chiarissima e bella, la quale
per parecchi rivi tutto il giardino bagna. Sopra questa fontana è un albero il
cui simile ancora non è alcuno che mai vedesse, per quello che dicono coloro
che quello veduto hanno. Questo non perde mai né fiore né fronda, e è di molti
oppinione che Diana e Cerere, a petizione di Giove, antico avolo del nostro
amiraglio, pregato da lui, vel piantassero. E di questo albero e di questa
fontana vi dirò mirabile cosa: che qualora l'amiraglio vuole far pruova della
virginità d'alcuna giovane, egli nell'ora che le guance cominciano all'Aurora a
divenire vermiglie, prende la giovane, la quale elli vuol vedere se è pulcella
o no, e menala sotto questo albero. E quivi per picciolo spazio dimorando, se
questa è pulcella le cade un fiore sopra la testa, e l'acqua più chiara e più
bella esce de' suoi canali; ma se questa forse congiugnimento d'uorno ha
conosciuto, l'acqua si turba e 'l fiore non cade. E in questo modo n'ha già
molte conosciute, le quali con vituperio da sé ha cacciate. In questo giardino
si prendono diversi diletti le donzelle e in questa maniera che detto v'ho
dimorano libere di poter cercare tutta la torre infino al primo solaio; da indi
in giù scendere non possono né uscire mai sanza piacere dell'amiraglio. Potete
avere udito come dimorano: ora sotto quale guardia vi narrerò.
[86]
"Nella
più infima parte della torre, copiosa di graziosi luoghi ad abitare, non può
alcuna persona che di sopra sia discendere, né alcuna che di sotto sia salire
di sopra sanza piacere dell'amiraglio, com'io vi dissi. Quivi abita uno arabo,
da cui la torre è chiamata la Torre dell'Arabo, e egli è chiamato castellano di
quella, e per propio nome Sadoc, e ha a pensare di tutte quelle cose che alle
pulcelle sieno necessarie, e quelle dare loro. Appresso ha molti sergenti, co'
quali il giorno questa torre d'ogni parte guarda: né alcuno uomo, non che a
quella, ma ancora in un grandissimo prato ch'è davanti ad essa, sostiene che
s'appropinqui, e quale presumesse d'appressarvisi sanza il piacer di lui, o
morte o gravissimo danno e pericolo ne gli seguiria: ma come il giorno si
chiude, tutto quel prato pieno d'uomini con archi e con saette potreste vedere
guardando la torre dintorno. E 'l castellano, e' suoi sergenti, e qualunque
altro v'ha alcuno uficio, tutti eunuchi sono: e questo ha l'amiraglio voluto,
acciò che alcuno non pensasse di fare quello ch'egli sta per guardare ch'altri
non faccia; e questa guardia né giorno né notte falla già mai. Vedete omai che
consiglio o che aiuto qui si puote porgere! Ma non per tanto veggiamo le vie
che ci sono o potrebbono essere, e quella che meno rea ci pare, se alcuna ce
n'ha, per quella procediamo».
[87]
Taciti
e pieni di maraviglia per le udite cose si stavano costoro, né alcuno rispondea
alcuna parola, quando Dario rincominciò:
«Signori,
io non discerno qui se non tre vie, delle quali l'una ci conviene pigliare, e
mancandoci queste, niuna altra ce ne so pensare. Le quali tre, queste sono
esse: o per prieghi riaverla dall'amiraglio, o per forza rapirla della torre, o
con ingegno acquistare l'amicizia del castellano, la quale avendo, non dubito
che a fine si verria del vostro intendimento. Ciascuna di queste mi pare
fortissima a poterne venire a fine, però che se noi ne vogliamo l'amiraglio
pregare, questo mi pare che saria un gittare le parole al vento: e la cagione è
ch'egli sopra tutti i suoi tesori la tiene cara, e io gli udii dire che a niuna
persona del mondo, fuori che al Soldano, la doneria, per dovere ricevere un
altro regno simile a quello che possiede. Per che io dubito che i nostri
prieghi ne' quali il nostro intendimento gli si scoprisse, nol movessero più
tosto ad averci sospetti, e a donarci essilio etterno de' suoi regni, che a
farci grazia: e però questa via mi pare al presente da lasciare, con ciò sia
cosa che ad essa possiamo ultimamente ricorrere. Il volere la torre assalire, e
per forza trarne quella, per ogni cagione saria follia, però ch'ella è da sé
forte, e appresso è ben guardata, e avanti che combattuta o presa fosse, tutto
il suo regno ci poria essere corso, e, non che noi, ma innumerabile quantità di
cavalieri pigliare e mettere in rotta potrebbono, e così con danno rimarremmo disperati
e forse uccisi. Ma di queste altre mi pare il migliore con ingegno l'amicizia
del castellano pigliare, però che al prendere quella non ci può aver pericolo,
e forse, presa, potrà giovare, se saviamente con lui si procede. La quale in
questo modo si potrà acquistare: egli è vecchio, superbissimo e avaro, e sopra
tutte le cose del mondo si diletta di giucare a scacchi e vincere: però
prendere con lui parole, e umilemente i suoi pareri concedergli, e appresso
donandogli alcuna volta di belle gioie, e giucando con lui, gli porria l'uomo
divenire amico: la quale amistà quando fosse presa, nuovo consiglio si
converria avere a lui recare al nostro piacere. Questo modo mi piacerebbe, e
questo mi pare da tenere, e per questo spero che 'l nostro intendimento verrà
ad effetto, ma tuttavia vi ricordo che copertamente procediate a questo, però
che se egli, o altri che a lui il ridicesse, s'avedesse che a questo fine la
sua amicizia si cercasse, nulla saria d'averla mai; poi quando amico sarà, fia
più sicuro lo scoprirsi a lui solamente. Io mi credo, di ciò ch'io v'ho
parlato, avere ben detto, e chiaro il mio parere. Voi siete savi, e se bene
avete notate le parole mie, voi potete bene aver compreso ciò che qui bisogna
di fare, così com'io che vi consiglio: e però se migliore via ci conoscete, sia
per non detto quello che io ho consigliato, e seguiamo quella».
Tacquesi
allora Dario, e Ascalion e Bellisano vi dissero molte parole, ma ultimamente a
tutti e a Filocolo parve il migliore di seguire ciò che Dario avea consigliato:
e fra loro deliberarono che Filocolo fosse colui che l'amistà di Sadoc dovesse
pigliare, il quale si vantò di farlo bene e compiutamente.
[88]
Partito
il lungo consiglio, chi si diede ad una cosa e chi ad un'altra di costoro.
Filocolo solamente si diede a pensare sopra l'udite cose, e prima fra sé le
commenda e disidera, poi gravissimi reputa i pericoli a' quali si mette,
incerto d'acquistare la cosa per la quale a quelli si dispone. Di questo
pensiero salta in un altro, e di quell'altro in molti; egli si ricorda di tutti
i pericoli ch'egli ha corsi, e imagina quelli che egli correre dee: e nella
savia mente estima i corsi essere stati grandi, ma molto maggiori gli paiono
quelli che a venire sono; e nel pensiero gli prende de' preteriti paura non che
de' futuri. E pargli, quando bene le parole di Dario pensa, quasi al suo disio
mai non dovere pervenire per alcuno pericolo al quale egli si metta, o, se ne
dee pervenire ad effetto, pensa che tardi fia. Ma più tosto consente, se ad
alcuna cosa fare si mette, morte o vergogna acquistarne che il suo volere
adempiere, né ancora ha alcuna volta ne' suoi pensieri conosciuti i suoi folli
disii come ora conosce. Per che egli fra sé e sé cominciò a dire:
[89]
«O
poco savio, quale stimolo a tante pericolose cose infino a qui t'ha mosso e
vuole a maggiori da quinci inanzi muovere? Niuna cosa, se non una femina, amata
da te oltre al dovere. Ora è egli licito l'amare altrui più che sé? Certo no,
ché ogni ordinato amore incomincia e procede dall'amare se medesimo: dunque ama
più te che questa femina. "E così fo io". "Non fai, ché se tu
più te amassi, tu non cercheresti i pericolosi casi per la sua salute, dove la
tua agevolmente si può perdere". "La mia non si perderà".
"E chi te ne fa certo?". "La speranza ch'io porto agl'iddii che
m'aiuteranno". "Gl'iddii aiutano coloro che per debita ragione si
mettono a non strabocchevoli pericoli e lasciano perire chi n'ha voglia, come
pare che tu abbia". "Adunque come debbo fare?". "Lasciala stare".
"Io non posso". "Sì, potrai, se tu vorrai". "E che
vita sarà la mia sanza amore?". "Quale è stata quella di coloro che
sono stati davanti a te". "Io non potrei sanza amore vivere".
"Amane un'altra, quella che al tuo padre piacerà, e torna a lui co' tuoi
tesori, e contentalo come tu dei, ché sai ch'egli ama te sopra tutte le cose, e
non seguire più questo: meno male è corta che lunga follia". "L'uomo
non può amare e disamare a sua posta. E come lascerei io questa impresa, acciò
che poi si dicesse: 'Filocolo per viltà fu nel luogo dove Biancifiore era, cui
egli amava tanto secondo che diceva, né in alcuno modo tentò di
riaverla'?". "Oh quanti perirono già per non volere le loro folli
imprese lasciare, temendo di cotesti detti, i quali in brieve tempo si
dimenticano!". "Dunque la pur lascerò, tornando dond'io venni?".
"Mai sì che tu la lascerai, se tu disideri di vivere". "Di
vivere disidero". "Adunque lasciala". "E che varrà la mia
vita?". "Quello che vale quella degli uomini che si pongono in cuore
di non amare una cosa che a pericolo li conduca". "Certo, poi che io
infino a qui sono venuto, io voglio pur tentare di riaverla". "E non
te ne avverrà forse bene". "E qual male me ne potrà avvenire?".
"L'essere con vergogna morto". "Chi mi ucciderà, faccendomi io
conoscere?". "Quegli che subitamente, sanza domandarti chi tu se', ti
ferirà". "E' non si uccidono coloro che amistà cercano: ucciderammi
il castellano per che io voglia essere suo amico?". "Mai no; ma
quando tu gli scoprirai quello per che tu gli se' divenuto amico, egli non te
ne servirà, per paura non forse il risappia il signore, e privilo d'avere e di
vita: anzi a lui ti paleserà per levartisi da dosso. Non sai tu che negli arabi
niuna fede si truova? E per questo il signore ti farà uccidere o ti scaccerà
del suo reame con vergogna". "E' non avverrà così, che io vincerò la
sua nequizia con molti doni". "Or ecco che tu la pur racquisti: che
avrai tu racquistato?". "Avrò racquistato colei cui io amo e che me
ama sopra tutte le cose". "Tu t'inganni, se tu pensi che colei ora di
te si ricordi, essendo sanza vederti tanto tempo dimorata. Nulla femina è che
sì lungamente in amare perseveri, se l'occhio o il tatto spesso in lei non
raccende amore". "E come mi potrebbe ella mai dimenticare, essendoci
noi tanto per adietro amati?". "Per un altro amadore! Credi tu che i
mercatanti sanza alcun bacio o forse sanza pigliarsi la sua virginità, che
n'ebbero tanto spazio, la lasciassero da loro partire? E se questi forse non
savi da loro la partirono, credi tu che l'amiraglio infino a qui vergine
l'abbia lasciata? Certo non è da credere. Egli non l'ha tanto cara, quanto
Dario ti dice, se non perché con lei si giace. Dunque non Biancifiore, ma una
puttana cerchi di racquistare". "Non è così, ché se i mercatanti
tolta l'avessero la sua virginità, l'amiraglio l'avria conosciuta sotto il
fatale arbore, e cacciatala da sé; e se egli con lei si giacesse, non con
l'altre damigelle, ma seco la terrebbe". "E poi ch'ella sia pur
vergine, non è elli da mettersi per lei alla morte!". "Certo si è,
ché per questo ultimo pericolo fuggire, non è da volere che perduti sieno
quanti n'ho già corsi per adietro per averla. Io ne ho già molti passati, non
con isperanza d'averla di presente per quelli; per questo, se bene m'avviene,
sanza alcun mezzo l'avrò". "Folle se' stato cercandoli, e sarai se a
questo ti metti". "Folle no, ma innamorato sì: così agl'innamorati
conviene vivere. Guardisi chi in cotali pericoli non vuole vivere, d'incappare
nelle reti d'amore. Ella sarà per me con ogni ingegno, con ogni forza
ricercata: aiutinmi gl'iddii nelle cui mani io mi rimetto". E così detto,
alzando il viso, gliele parve davanti a sé vedere, e con pietoso aspetto, nelle
braccia di Venere, avere tutte le sue parole ascoltate. Per la qual cosa
dolendosi se di lei ne' pensieri o nelle sue parole avea meno che onore
parlato, e quasi vergognandosene, più fervente nel suo proponimento divenne,
giurando per quella dea, la quale egli molte fiate veduta avea, di mai non
riposare infino a tanto che racquistata non l'avesse, se ancora per quello gli
fosse davanti agli occhi manifesta la morte; e con questa diliberazione si
partì da' suoi pensieri.
[90]
Rallegravasi
Apollo nella sua casa, quando primieramente lo 'nnamorato giovane pervenne al
tanto tempo cercato paese, dove avuto il consiglio di Dario tutto in sé propose
di adempiere. Ma ciò sì tosto com'egli imaginava, non poté venire ad effetto,
però che in diversi atti e modi la fortuna, ancora non contenta de' suoi beni,
gli ruppe le vie, per che assai tempo ozioso gli convenne stare. Egli in questa
disposizione dimorando, vietò a' suoi compagni che in alcuno atto tra loro più
che uno di loro onorato fosse, né che alcuno, se non da lui chiamato, mai
l'accompagnasse. E ultimamente tutti gli pregò che quello per che quivi
dimoravano ad alcuno per alcuna cagione non palesassero. Moveasi adunque questi
molte fiate solo per andare al castellano, in se medesimo pensando diverse
scuse alla sua andata, né mai al proposito pervenire potea, quando da uno
quando da un altro impedimento impedito, onde dolente indietro si ritornava.
Egli mai fuori di casa non usciva, se per andare al castellano nol facea; mai
mentre in Alessandria dimorò ad alcuno paesano si fece conoscere, né con alcuno
notizia prese, da Dario in fuori. Non potendo adunque questi al disiato fine
pervenire, né mai, per quante volte andato fosse alla torre, Biancifiore avere
sola una volta veduta, dolente vivea, e per sua consolazione saliva sopra la
più alta parte dell'ostiere di Dario, e quindi rimirando l'alta torre, alcuno
diletto sentiva, fra sé dicendo:
«O
Biancifiore, poi che tolto m'è il potere vedere te, il luogo dove tu se' non mi
può esser tolto ch'io non vegga».
E
in questa vita stette infino a tanto che Febo in quello animale, che la
figliuola di Agenor trasportò de' suoi regni, se ne venne a dimorare, e quivi
quasi nella fine congiunto con Citerea, rinnovellato il tempo, cominciò gli
amorosi animi a riscaldare e a raccendere i fuochi divenuti tiepidi nel freddo
e spiacevole tempo di verno: e massimamente quello di Filocolo, il quale sì nel
suo disio divenne fervente, che appena raffrenare si potea di pur non mettersi
a volere il suo proponimento adempiere sanza guardare luogo o tempo. Ma ciò non
sostennero gl'iddii, anzi con forte animo il fecero sostenere aspettando.
[91]
Venuto
adunque già Titan ad abitare con Castore, un giorno, essendo il tempo chiaro e
bello, Filocolo si mosse per andare verso la torre: alla quale essendo ancora
assai lontano, verso quella rimirando, vide ad una finestra una giovane, alla
quale nel viso i raggi del sole riflessi dal percosso cristallo davano mirabile
luce; che egli imaginò che la sua Biancifiore fosse, dicendo fra sé impossibile
cosa essere che il viso d'alcun'altra giovane sì lucente fosse o essere
potesse. Per che tanto il disio gli crebbe di vederla più da presso e
d'adempiere ciò che proposto aveva, che, abandonate insieme le redine del
cavallo con quelle della sua volontà, disse:
«Certo,
se io dovessi morire, poi che io non posso te avere, o Bianci fiore, e'
converrà che io il luogo ove tu dimori abbracci per tuo amore. E in questo
proponimento col cavallo correndo infino al piè della torre se n'andò: dove
disceso con le braccia aperte s'ingegnava d'abbracciare le mura, quelle
baciando infinite fiate, e quasi nell'animo di ciò che faceva si sentiva
diletto.
[92]
Assai
di lontano vide il castellano Filocolo verso la torre correre, per che egli, e
molti appresso di lui, correndo, con una mazza ferrata in mano gli sopravenne
crucciato molto e pieno d'ira; e quasi furioso nol corse a ferire, dicendo:
«Ahi,
villano giovane, e oltre al dovere ardito, vago più di vituperevole morte che
di laudevole vita, quale arroganza t'ha tanto sospinto avanti, che in mia
presenza alla torre ti sia appropinquato? Io non so quale iddio delle mie mani
la tua vita ha campata: tirati indietro, villano!».
[93]
Filocolo
udendo queste parole e vedendosi intorniato da molti, e ciascuno presto per
ferirlo, quasi tutto smarrì, dubitando di morire, e volentieri vorria allora
essere stato in altra parte. Ma ricordandosi di Biancifiore rinvigorì, e,
riprese le spaventate forze, umilemente così rispose:
«O
signor mio, perdonami, che non per mio difetto questo è avvenuto, né per
malizia ho contro la tua signoria offeso: la dura bocca del mio cavallo di
questo m'ha colpa, il quale assai lontano di qui correndo si mosse, né per mia
forza tener lo potei infino a questo luogo: al quale venuto, maravigliandomi
de' sottili lavorii, non potei fare che io non mi appressassi ad essi per
vederli, non credendo a te dispiacere. Tutta fiata se io ho fallito, nelle tue
mani mi rimetto: fa di me secondo il tuo piacere».
[94]
Sadoc
rimirava fiso Filocolo, e umiliato ascoltando le sue parole nelle sue bellezze
simile a Biancifiore l'estimava, e avendolo udito così benignamente parlare,
gli disse:
«Giovane,
monta a cavallo».
Filocolo
presto salito in sul suo palafreno, dietro a Sadoc reverente andava. A cui
Sadoc disse:
«Dimmi,
giovane, se tu se' cavaliere o scudiere, e di che parte, e quello che quinci
andavi faccendo quando il tuo cavallo qui contra tua voglia ti trasportò».
A
cui Filocolo rispose:
«Signore,
io sono un povero valletto d'oltra mare, il quale prendo diletto in andare il
mondo veggendo; e udendo la gran bellezza di questa torre narrare, essendo io
da Rodi mosso per vedere Bambillonia, qui per vederla ne venni. E ora inanzi
quando il mio cavallo qui mi trasportò, tornava con un mio falcone pellegrino
da mio diporto, il quale avendolo ad una starna lasciato, e egli non potendola
prendere al primo volo, sdegnato in su questa torre se ne volò, e richiamandolo
io, il palafreno, temendo il romore, a correre si mosse, qui recandomi come mi
vedeste».
[95]
Mentre
che costoro così parlando andavano, pervennero alla gran porta della torre, e
entrati in essa dismontarono. E avendo il castellano le belle maniere di
Filocolo vedute, imaginò lui dovere essere nobile giovane. Per la qual cosa
quivi assai l'onorò, e dopo molte parole gli disse:
«Giovane,
la somiglianza che tu hai d'una donzel la che in questa torre dimora, chiamata
Biancifiore, t'ha oggi la vita campata: di che siano lodati gl'iddii, che la
mia ira mitigarono com'io ti vidi, la qual cosa rado o mai più non avvenne».
Di
questo il ringraziò assai Filocolo, sempre a lui offerendosi servidore, e
similmente a quella giovane la cui somiglianza campato l'avea, se egli la
conoscesse. E dopo questo entrati in molti e diversi ragionamenti, a Filocolo
andò l'occhio in un canto del luogo dove dimoravano, ove egli vide uno
scacchiere nobilissimo e ricco appiccato; il qual veduto, disse:
«Sire,
dilettatevi voi di giucare a scacchi, che io veggio sì bello scacchiere?».
Rispose
Sadoc:
«Sì,
molto, e tu sai giucare?». A cui Filocolo rispose:
«Alquanto
ne so».
Disse
allora Sadoc:
«E
giuchiamo infino a tanto che questo caldo passi, che tu possa alla città
tornare».
«Ciò
mi piace molto, signor mio», rispose Filocolo.
[96]
Fece
adunque Sadoc in una fresca loggia distendere tappeti e venire lo scacchiere, e
l'uno dall'una parte e l'altro dall'altra s'asettarono. Ordinansi da costoro
gli scacchi, e cominciasi il giuoco, il quale acciò che puerile non paia, da
ciascuna parte gran quantità di bisanti si pongono, presti per merito del
vincitore. Giuocano adunque costoro, l'uno per guadagnare i posti bisanti,
l'altro per perdere quelli e acquistare amistà. Filocolo giucando conosce sé
più sapere del giuoco che 'l castellano. Ristringe adunque Filocolo il re del
castellano nella sua sedia con l'uno de' suoi rocchi e col cavaliere, avendo il
re alla sinistra sua l'uno degli alfini; il castellano assedia quello di
Filocolo con molti scacchi, e solamente un punto per sua salute gli rimane nel
salto del suo rocco. Ma Filocolo a cui giucare conveniva, dove muovere doveva
il cavaliere suo secondo per dare scac co matto al re, e conoscendolo bene,
mosse il suo rocco, e nel punto rimaso per salute al suo re il pose. Il
castellano lieto cominciò a ridere, veggendo che egli matterà Filocolo dove
Filocolo avria potuto lui mattare, e dandogli con una pedona pingente scacco
quivi il mattò, a sé tirando poi i bisanti; e ridendo disse: «Giovane, tu non
sai del giuoco», avvegna che ben s'era aveduto di ciò che Filocolo avea fatto,
ma per cupidigia de' bisanti l'avea sofferto, infignendosi di non avedersene. A
cui Filocolo rispose:
«Signor
mio, così apparano i folli».
Racconciasi
il secondo giuoco, e la quantità de' bisanti si radoppiano da ciascuna parte.
Il castellano giuoca sagacemente e Filocolo non meno. Il castellano niuno buon
colpo muove ch'egli non dica:
«Giovane,
meglio t'era il tuo falcone lasciare andare che qua seguirlo».
Filocolo
tace, mostrando che molto gli dolgano i bisanti: e avendo quasi a fine recato
il giuoco, e essendo per mattare il castellano, mostrando con alcuno atto di
ciò avvedersi, tavolò il giuoco. Conosce in se medesimo il castellano la
cortesia di Filocolo, il quale più tosto perdere che vincere disidera, e fra sé
dice:
«Nobilissimo
giovane e cortese è costui più che alcuno ch'io mai ne vedessi». Racconciansi
gli scacchi al terzo giuoco, accrescendo ancora de' bisanti la quantità; nel
principio del quale il castellano disse a Filocolo:
«Giovane,
io ti priego e scongiuro per la potenza de' tuoi iddii, che tu giuochi come tu
sai il meglio, né, come hai infino a qui fatto, non mi risparmiare».
Filocolo
rispose:
«Signor
mio, male può il discepolo col maestro giucare sanza essere vinto; ma poi che
vi piace, io giucherò come io saprò».
Incominciasi
il terzo giuoco, e giuocano per lungo spazio: Filocolo n'ha il migliore: il
castellano il conosce. Cominciasi a crucciare e a tignersi nel viso, e
assottigliarsi se potesse il giuoco per maestria recuperare. E quanto più
giuoca, tanto n'ha il peggiore. Filocolo gli leva con uno alfino il cavaliere,
e dagli scacco rocco. Il castellano, per questo tratto crucciato oltre misura
più per la perdenza de' bisanti che del giuoco, diè delle mani negli scacchi, e
quelli e lo scacchiere gittò per terra. Questo vedendo Filocolo disse:
«Signor
mio, però che usanza è de' più savi il crucciarsi a questo giuoco, però voi men
savio non reputo, perché contro gli scacchi crucciato siate. Ma se voi aveste
bene riguardato il giuoco, prima che guastatolo, voi avreste conosciuto che io
era in due tratti matto da voi. Credo che 'l vedeste, ma per essermi cortese,
mostrandovi crucciato, volete avere il giuoco perduto, ma ciò non fia così:
questi bisanti sono tutti vostri».
E
mostrando di volere i suoi adeguare alla quantità di quelli del castellano, ben
tre tanti ve ne mise de' suoi, i quali il castellano, mostrando d'intendere ad
altre parole, gli prese dicendo:
«Giovane,
io ti giuro per l'anima del mio padre, che io ho de' miei giorni con molti
giucato, ma mai non trovai chi a questo giuoco mi mattasse se non tu, né
similmente più cortese giovane di te trovai ne' giorni miei».
Filocolo
rispose:
«Sire,
di cortesia poss'io molto più voi lodare che voi me con ciò sia cosa che io
oggi per la vostra cortesia la n'aggia guadagnata».
[97]
Le
parole in diversi ragionamento tra costoro multiplicano, e il giorno se ne va:
per che Filocolo, veggendo il sole che cercava l'occaso, li parve di partirsi,
per che egli disse:
«Signor
mio, e' mi si fa tardi d'essere alla città: però quando vi piaccia, con licenza
vostra mi partirò».
Il
castellano, che già della piacevolezza di Filocolo era preso, disse:
«Cortese
giovane, se non fosse che l'andare per queste parti di notte è per molte
cagioni dubbioso, tu ceneresti meco questa sera; ma io ti priego che per amore
di quella cosa che tu più ami, che domani tu torni a mangiare meco».
A
cui Filocolo rispose:
«Si
re, per l'amore di voi, e per quello di colei da cui parte scongiurato m'avete,
io non posso niuna cosa che in piacere vi sia, disdire; il comandamento vostro
sarà fornito: rimanete adunque con la grazia degl'iddii».
«Gli
iddii ad ogni tuo disio sempre siano favorevoli», rispose Sadoc. E Filocolo,
salito a cavallo e da Sadoc partitosi, alla città in parte contento se ne
tornò.
[98]
Come
egli alla città fu pervenuto, e smontato all'ostiere di Dario, l'ora essendo
già tarda, trovò Dario e Ascalion e gli altri tutti attenderlo, i quali, come
il videro, lieti gli si fecero avanti, dicendo:
«Assai
ci hai oggi fatto avere di te pensiero; dove se' tu tanto dimorato?».
«Nelle
mani della fortuna - rispose Filocolo, - la quale non così nimica m'è com'io
reputava, ma forse de' miei danni pietosa, mi comincia a mostrare lieto viso
ne' nostri avvisi, e sì fatto principio in quello che divisammo ho avuto, che
appena ch'io ne possa altro sperare che grazioso fine».
E
chiamati Dario e Bellisano e Ascalion in una camera, ciò che avvenuto gli era
loro narrò. Lodano costoro gl'iddii, e a Dario piace tale cominciamento e
consigliali l'andare a mangiare con lui e l'essergli cortese, dicendogli che
d'oro e d'avere non dubitasse, che, poi che 'l suo donato avesse, quanto egli
n'avea in suo servigio ponesse sicuramente, ricordandogli che con discrezione
proceda, ad ogni uomo celando il suo segreto, fuori che al castellano, quando
luogo e tempo gli parrà. Ringrazialo Filocolo: prendono il cibo e vannosi a
posare. Ma gli altri dormono e Filocolo ferma nella mente con molti
ragionamenti ciò che al castellano dee dire, e quello che con lui vuol fare, e
che movimento deggia il suo essere a dovergli narrare il suo segreto. Molte vie
truova, e ciascuna pruova in se medesimo, e le migliori riserba nella memoria.
Poco abandonano la notte le sollecitudini lo 'nnamorato petto, e la notte, che
già maggiore gl'incominciava a parere che l'altre, si consuma: e il chiaro
giorno rallegra il mondo. Levasi Filocolo, e tacitamente e con discrezione
ordina ciò che davanti al sonno la notte avea pensato; e venuta l'ora ch'egli
estimò convenevole, soletto se ne cavalcò alla torre. Quivi dal castellano con
mirabile onore è ricevuto, e le tavole preste niuna cosa aspettano se non loro.
[99]
Dopo
alcuni ragionamenti s'asettano costoro alle tavole, come piacque al castellano,
e con gran festa mangiano splendidamente serviti. E già presso alla fine del
mangiare, Filocolo cominciò a dubitare non corto venisse il suo avviso ad
effetto, però che già tempo gli parea, con ciò fosse cosa che altro non
restasse al levare delle tavole se non le frutta. Ma mentre che in tale
pensiero alquanto alterato dimorava, Parmenione giunse quivi, il quale contentò
assai Filocolo nella sua venuta, e salito in su la sala, nelle sue mani recò la
bellissima coppa e grande d'oro, la quale con gli altri tesori Felice re
ricevette per pregio della giovane Biancifiore dagli ausonici mercatanti, e
quella piena di bisanti d'oro, tanto grave che appena avria più Parmenione
potuto portare, coperta con uno sottilissimo velo, davanti Sadoc la presentò,
dicendo:
«Bel
signore, quel giovane al quale voi ieri per vostra benignità la vita servaste,
avendo egli per sua presuntuosità la morte guadagnata, questa coppa con questi
frutti che dentro ci sono, i quali nel suo paese nascono, vi presenta, e,
appresso, sé e le sue cose offera, al vostro piacere apparecchiate».
Vedendo
questo Sadoc, e ascoltando le parole da Parmenione dette, tutto rimase allenito
e con cupido occhio rimirò quella, nel cuore lie to di tal presente. Nondimeno,
della magnanimità e cortesia di Filocolo maravigliandosi molto, e rivolto dove
Filocolo sedeva, con benigno aspetto il riguardò, e poi disse:
«Grande
e nobile è il presente, e prezioso è il terreno che sì fatti frutti produce: e
se non che egli mi si disdice l'essere villano verso di chi a me è stato
cortese, forte saria che io tal presente prendessi, però che a Giove saria
grandissimo e accettevole cotale dono».
E
fatta prendere la coppa di mano a Parmenione, gli disse:
«Voi
potrete di colui che vi manda pensare quello che del più nobile uomo del mondo
si possa dire, e però che io mi sento insofficiente a rendere grazie
convenevole di tanto dono, a quelle non procedo, se non che per questo: egli ha
me, e le mie cose, e ciò che per me si potesse, sì a sé obligato, quanto io
potessi essere il più».
Parmenione,
fatta convenevole riverenza, si partì.
[100]
Rimasi
costoro insieme, e levate le tavole, per li pensieri del castellano niuna cosa
andava, se non la gran nobiltà che gli parea quella di Filocolo, e con effetto
in sé dicea:
«Che
potre' io per degno merito di tanta larghezza fare a costui, acciò che io
interamente gli potessi mostrare quant'io per lui farei, e quant'io sia di tal
dono conoscente?».
E
poi a se medesimo rispondea:
«Tu
se' sì suo, che tu mai interamente mostrare non gliele potresti, salvo se gran
bisogno non gli venisse, ove tu la persona e l'avere per lui disponessi».
Ma
dopo questo, volendo a Filocolo parte del suo buon volere dimostrarli, con seco
in una camera solo il chiamò, e, quivi amenduni postisi a sedere, così cominciò
con lui a ragionare:
[101]
«Giovane,
per quella fé che tu dei agl'iddii e per l'amore che tu porti a me, aprimisi la
tua nobiltà, acciò che io, di quella pigliando essemplo, possa nobile divenire.
Io vidi già ne' miei dì molti nobili uomini, chi per antico sangue, chi per
infiniti tesori, chi per be' costumi, e chi per una maniera e chi per un'altra;
ma e' non mi soviene che io mai così nobile cosa, come tu se', vedessi. Che
operai io mai, o che potrei per te operare, che un tanto e tale dono mi si
convenisse? Io porto oppinione che tu trapassi di piacevolezza e di cortesia
tutti gli uomini del mondo».
A
costui rispose così Filocolo:
«Signor
mio, non vogliate me rozzo ancora ne' costumi con queste parole schernire. Io
non seguo nobiltà di cuore in queste operazioni, però che non ci è, ché io sono
di picciola radice pianta, ma ricordomi d'avere già così veduto fare a mio
padre, i cui essempli io seguito: e similmente conosco che io non potrei mai
fare tanto che alla vostra nobiltà aggiugnere potessi, o che d'onore a quella
più non si convenisse. Ma voi mi porgete ammirazione col dire che mai per me
non operaste, perché questo io operare dovessi. Ora crediate che se la mia vita
più tempo si lontanasse che quella di Dandona o di Zenofanzio non fece, mai
della memoria mia non si partirà l'essere per la vostra benignità vivo, come
già oggi udiste ch'io riconosco. E quando questo non fosse stato, sarebbe
inlicita cosa a fare, là dove amichevole amore di due cuori fa uno, niuna cosa
a fine di servigio ricevuto, o che ricevere per inanzi si deggia, avvegna che
questo a me appropiare non posso, però che, come già dissi, da voi la vita
tengo, e conoscovi tanto e tale, ch'io non dubito che voi più che altro uomo
del mondo per me potete operare. E però non solamente coloro da' quali l'uomo
ha i servigi ricevuti sono da essere onorati, ma quelli ancora che possono per
inanzi servire».
Il
castellano, ferventissimo a' piaceri di Filocolo, udendolo dire lui poterlo più
ch'altro mai servire, con molti scongiuri lo strigne ch'egli non gli celi il
dì, che fido d'essere così da lui servito, come se medesimo servirebbe. Più
volte a questa dimanda tacque Filocolo, e 'l castellano più volte, ognora più
acceso, desiderava di sapere in che a Filocolo potesse servire. La qual cosa
vedendo Filocolo, più volte volle il suo disio palesare, e infino al proferire
recò le parole, e poi dubitando le tirava indietro, in altre novelle volgendo
le sue parole. Ma il castellano, avendo proposto pur di volere sapere in che
servire lo potesse, non restava d'incalciario, ogni novella rompendogli, e che
ciò gli dicesse pregandolo, non pensando che dovesse riuscire a quello che
fece. Filocolo, così incalciato, e più ognora dubitando, per avventura si
ricordò d'un verso già da lui letto in Ovidio, ove i paurosi dispregia dicendo:
'La fortuna aiuta gli audaci, e i timidi caccia via'; e vedendo manifestamente
che tra lui e la fine del suo disio era questo in mezzo e che parlare gli
convenia s'egli servigio volea ricevere, allargò le forze al disiderante cuore,
e propose di dare via alle parole, e cominciò così:
[102]
«Signore,
però ch'io non dubito che quello di che io vi pregherò, e a che voi mi
stringete che io vi prieghi, voi il potrete fare, e potreste molto maggiori
cose, io vi paleserò ciò che il dubitoso cuore infino a qui ha celato a tutta
gente. E però che io nel parlare e nell'operare non sono il primo errante, vi
priego che se forse alcuna cosa io dicessi forse oltre al dovere detta, che voi
mi perdoniate, e come padre mi riprendiate; e se quello ch'io dimando per voi
si può adempiere, io vi priego, per quello effettuoso amore che le vostre
parole mostrano che mi portiate, che voi sanza alcuna scondetta e sanza indugio
di ciò mi serviate. Io nelle vostre mani e della fortuna la mia vita rimetto: e
acciò che bene vi sia chiaro il mio intendimento, vi dico così, ché mia
credenza è, che, poi che Febo ebbe di Danne penneia il cuore per amore passato,
io non credo che mai alcuno fosse tanto innamorato quanto io sono. E certo le
mie operazioni il dimostrano, ché io venuto di Spagna infino in questo luogo
sono con molte tribulazioni e noie, cercando prima il ponente tutto, e poi ciascuna
isola che tra qui e Partenope dimora, disiderando di ritrovare Biancifiore, a
me furtivamente levata e venduta a' mercatanti. Hammi qui la fortuna
balestrato, ov'io di lei per risponso d'alcuno iddio ho trovato novelle, e voi
ieri la ricordaste. E per quello ch'io abbia per lo ragionamento di molti
uomini nella mente raccolto, ella in questa torre sotto la vostra guardia
dimora, di che io assai mi contento più che se in altra parte fosse. Avendomi
gl'iddii a questo partito recato, che io sia vostro com'io mi tengo ora, com'io
davanti vi dissi, amore per lei oltre ogni sua legge mi stimola. E certo se io
volessi particolarmente narrarvi quanti pericoli io ho già per l'amore di lei
corsi, e quanto io l'ami, prima il dì saria dalla notte chiuso, e quella, esso
ritornando, cacciata; ma però che, com'io credo, già in parte tal vita
provaste, e per quella il mio tutto potete comprendere, non mi stendo in più
parole, se non che quello che io da voi avere disidero è questo, l'una delle
due cose: o che io dalle vostre mani sia ucciso o che voi a Biancifiore parlare
mi facciate. Priegovi che quella vita ch'io per voi porto, per voi non pera».
E
non potendo avanti parlare, stretto da' singhiozzi del pianto, si tacque.
[103]
Il
castellano ascoltò queste parole con intero intendimento; e raccolto tutto in
sé, così fra sé cominciò dire:
«Ben
m'ha costui con sottile ingegno recato quello che io non credetti mai che
alcuno mi recasse, ma avvenga che vuole, io terminerò i suoi affanni a mio
potere. Di ciò mi può la fortuna fare corta noia, se contro a me per questo si
volesse voltare; io sono omai vecchio, né mai notabil cosa per alcuno feci: ora
nella fine de' miei anni, in servigio di sì nobile giovane come costui è,
voglio il rimanente della mia vita mettere in avventura. Se io il servo e
campo, gran merito appo gl'iddi acquisterò; se io per servirlo muoio, la fama
di tanto servigio toccherà l'uno e l'altro polo con etterna fama».
Così
adunque deliberato di fare in se medesimo, riguardò Filocolo nel viso: e veggendo
le sue lagrime e gi ardenti sospiri, non si poté per pietà tenere, ma con lui
pianse. E dopo alquanto così gli cominciò a parlare:
[104]
«Filocolo,
con sottili arti hai rotti i miei proponimenti, e certo la tua nobiltà e la
pietà delle tue lagrime hanno piegata la mia durezza: e però confortati. Io
disidero di servirti, e di ciò che pregato m'hai sanza fallo ti servirò.
Aiutinci gl'iddii a tanta impresa, e la fortuna, nelle cui mani ci rimettiamo,
non ci sia avversa. Non lagrimare più ma alza il viso, e ascolta qual via sia
da noi da esser tenuta».
Piacquero
a Filocolo queste parole, e alzò il viso. A cui Sadoc disse:
«Giovane,
io ho in brieve spazio di tempo per la mia mente molte vie cercate per recare
sì alto disio, come il tuo è, ad effetto, né alcuna ne truovo che buona sia a
tal cosa recare a fine se non una sola, la quale è di non picciolo pericolo, ma
di grande. Tu hai gran cosa dimandata, alla quale per picciolo affanno non si
può pervenire: e però ascolta. Se a te dà il cuore di metterti a tanta ventura,
io mi sono ricordato che di qui a pochi giorni in queste parti si celebra una
festa grandissima, la quale noi chiamiamo de' cavalieri. In quel giorno i
templi di Marte e Venere sono visitati con fiori e con frondi e con
maravigliosa allegrezza: il quale giorno io avrò fatto per li vicini paesi le
rose e' fiori tutti cogliere, e in tante ceste porre, quante damigelle nella
torre dimorano; e guardole in questo prato davanti la torre, dove l'amiraglio
coronato e vestito di reali drappi con grandissima compagnia viene, e di
ciascuna cesta prende rose con mano a suo piacere, e secondo che egli comanda,
così poi le collo sopra la torre, faccendo chiamare quella a cui dice che data
sia. E però che la tua Biancifiore la più bella è di tutte, sempre prima che
alcuna altra è presentata, io ti porrò, se tu vuoi, in questa cesta che a
Biancifiore presentare si dee, e coprirotti di rose e di fiori quanto meglio si
potrà. Ma s'egli avvenisse che la fortuna, nimica de' nostri avvisi, ti
scoprisse e facesseti al signore vedere, niuna redenzione saria alla nostra
vita. Vedi omai il pericolo: pensa quello che da fare ti pare. Se egli non se
n'avvedrà, tu potrai con lei essere alquanti giorni: poi s'avviene che esso
alcuna volta, sì come egli suole spesso a mangiare salirvi, vi salga, in forma
d'uno de' miei sergenti te ne trarrò. Altra via nulla ci è. Egli tiene di tutte
le porti le chiavi, se non di questa la quale tu vedi aperta, la quale io ho in
guardia».
Filocolo,
pieno d'ardente disio, a niuno pericolo, a niuna strabocchevole cosa che
avvenire possa, pensa, ma subito risponde che egli a questo pericolo e ad ogni
maggiore che avvenire potesse è presto, affermando che per grandissimi pericoli
e affanni si convenga pervenire all'alte cose.
[105]
Finiscesi
adunque con questo proponimento il loro consiglio, e con fede e con giuramento
insieme si legano, l'uno d'osservare la 'mpromessa e l'altro di tacere. E così
Sadoc, dato il giorno a Filocolo che egli a lui ritorni, confortandolo da sé
l'accomiata. E Filocolo torna alla città contento, e tanto lieto che appena il
può nascondere, disiderando che mai il termine posto venga: e ogni ora gli
parea più lungo spazio di tempo che non era stato quello che tribolato avea,
Biancifiore cercando.
[106]
O
avarizia, insaziabile fiera, divoratrice di tutte le cose, quanta è la tua
forza! Tu sottilissima entratrice con disusate cure ne' mondani petti rompi le
caste leggi. Tu con grosso velo cuopri il viso alla ragione. Tu rivolgi la
ruota contra 'l taglio della giusta spada. Tu spezzi con disusata forza i freni
di temperanza, e levi a fortezza le sue potenze. Tu, o insaziabile appetito,
rechi necessità ne' luoghi d'abondanza pieni. Tu, o iniqua, non sai che fede si
sia. Tu puoi i pietosi cuori rivolgere in crudeli. Che più dirò di te, se non
che puoi la fama per la infamia far lasciare e gli etterni regni per li terreni
abandonare? Chi avria mai potuto, o guastatrice d'ogni virtù, credere che
pascendoti ampiamente nel petto di Sadoc, la sua fierità in vilissima lenonia
si mutasse per te? Forti cose paiono a pensare le tue operazioni!
[107]
Viene
il nominato giorno, Filocolo sollecito torna a Sadoc. Niuno amico sa la sua
andata: e dovendo la vegnente mattina Filocolo nascondersi ne' fiori, quella
notte si dorme con Sadoc, della quale la maggior parte consuma in divoti
prieghi. Niuno iddio rimane in cielo, a cui le sue voci non si muovano. A tutti
promette gra ziosi incensi se a questo punto l'aiutano, e Marte e Venere più
che gli altri sono pregati: e ultimamente gl'iddii degli ombrosi regni di Dite
da lui sono tentati divotamente d'umiliare, acciò che a' suoi disii non si
oppongano. Ma poi che ella, al suo parere lunghissima, trapassa, e appressasi
il giorno, essi due soli si levano, e trovata la cesta, Filocolo vi si mette
dentro, raccolto in quella guisa che egli può il meglio, e quivi entro Sadoc
maestrevolemente molto il cuopre di fiori e di rose, ammaestrandolo che cheto
si tenga. E posti di fiori sopra lui grandissima quantità, così acconcio, con
l'altre ceste davanti al signore già venuto nel prato, dove similemente quasi
tutto il popolo della città era raccolto per tal festa vedere, le presenta,
alla guardia di quelle continuo dimorando.
[108]
O
amore, nemico de' paurosi, quanta è maravigliosa la tua potenza, e quanto
furono le tue fiamme ferventi nel petto di Filocolo! Quale strabocchevole via
fu mai usata per te quale fu quella che Filocolo ebbe ardire di tentare? A
Leandro non era il mare contrario, e a Paris era di lungi il nimico; a Perseo
la sua forza era mediante, e Dedalo per la sua salute, essendogli chiuso il
mare e la terra, con maestrevoli ali fuggì per l'aere. Gran cosa fa fare il
fuggire la morte, gran fidanza rende l'uomo a se medesimo combattente, e le
follie de' mariti spesso sono cagione d'adulterii alle mogli, e le larghezze
delle vie fanno volonterosi gli uomini molte volte ad andare per quelle. Ma
costui non larga via si vedea, non assenza di nimico, non disposto a potere per
sua forza campare, non fuggire morte, ma più tosto seguirla a quello
mettendosi. Egli pose la sua vita sotto la fede d'uomo che mai fede non avea
conosciuta, e sotto sottili frondi di ro se, le quali dalle più picciole aure
sariano potute muovere, e scoprirlo nel cospetto del nimico. Egli diede il vivo
corpo all'essere immobile come morto. Tu porgi più forza e più ardire che la
natura medesima. Quello che Filocolo non avea avuto ardire di dimandare al
padre, solamente ora in pericolo da non potere pensare, davanti al nimico la
cerca. Oh, quale amante! Oh, quanto da essere amato! Oh, quanto Biancifiore più
ch'altra misera si poria riputare, se di ciò le disavvenisse che Filocolo ha
impreso! Oh, quanta saria la sua paura se ella consapevole fosse di queste
cose! Certo io non so vedere quale ella si fosse, o più dolorosa perdendolo, o
più contenta tenendolo.
[109]
Il
signore comanda che la più bella cesta di fiori gli sia presentata davanti.
Sadoc presto quella dove Filocolo timido, come la grua sotto il falcone o la
colomba sotto il rapace sparviero, dimorava, gli porta avanti. O iddii, o santa
Venere, siate presenti, difendete da tanti occhi il nascoso giovane. Mise
allora l'amiraglio le mani in quella, e pensando a Biancifiore, a cui mandare
la dovea, tanto effettuosamente di quelle prese, che de' biondi capelli seco
tirò, ma nol vide. Quale allora la paura di Filocolo fosse io nol crederci
sapere né potere dire, però chi ha punto d'ingegno il si pensi: egli fu quasi
che passato agl'immortali secoli, appena vita gli rimase, e quasi di tremore
tutto si mosse, ma la santa dea, presente, il ricoperse con non veduta mano; e
levato da Sadoc e da molti altri del cospetto dell'amiraglio, il quale avea
comandato che per amore di lui a Biancifiore si presentasse, fu portato a piè
della torre. E quivi fatta chiamare Glorizia, la quale al servigio di
Biancifiore dimorava, fece la cesta collare suso ad una finestra. Ma Filocolo,
quasi stordito ancora della paura, non intese chi chiamata si fosse, ma
fermamente si credette da Biancifiore, dovere essere ricevuto. Per che egli già
a Glorizia vicino, disideroso di vedere Biancifiore, si scoperse il viso. La
qual cosa quando Glorizia vide, non riconoscendolo, subito gittò un grandissimo
strido, e ritornatole alla memoria chi costui era, ricopertogli il viso, che
già dalle sante mani era stato ricoperto, tacitamente il riconfortò dicendo:
«Non
dubitare, io ti conosco».
Ma
già tutte le compagne erano là corse dicendo:
«Glorizia,
che avesti tu che tu sì forte gridasti, né t'è nel viso colore alcuno rimaso?».
Alle
quali ella rispose:
«Io
non ebbi, care compagne, già mai tale paura, però che volendo io prendere la
cesta de' fiori, e in essi sicuramente mirando, subitamente uno uccello uscì di
quelli e nel viso mi ferì volando: per ch'io, temendo d'altro, così gridai».
E
poi ella sola presa la cesta con l'aiuto della invisibile dea, nella gran
camera e bella di Biancifiore la portò, e serratasi dentro, lo 'nnamorato
giovane con le rose insieme della cesta trasse, e con ismisurata allegrezza
abbracciandolo gli fece lunga festa, e appena in sé credea che essere potesse
vero ciò ch'ella vedea. Di molte cose il dimandò, e molte a lui ne disse,
avanti che interamente fosse certa ch'egli, cui ella vedea, fosse Florio.
[110]
Dimorato
Filocolo per alquanto spazio nella bella camera solo con Glorizia, le bellezze
di quella con ammirazione riguardando, e vedendo che bene era vero ciò che
Dario detto ne gli avea, e più, domandò Glorizia che di Biancifiore fosse. A
cui Glorizia quello che n'era, e che ne fu poi che venduta era stata,
interamente gli disse, tanto che di pietà a lagrimare il mosse. E poi così le
disse:
«O
Glorizia, cara sorella, di grazia ti priego che tosto vedere la mi facci, però
che io ardo del disio, e appena credo tanto vivere ch'io la vegga».
A
cui Glorizia disse:
«Caro
signore, ciò che tu mi di' io credo, e di lei il simigliante ti posso dire:
ella non crede mai te poter vedere. Ma però che la fortuna, infino a qui stata
in ogni cosa a voi contraria, non possa per poco avedimento più nuociervi, se
ti piace, alquanto m'ascolterai, e s'io dico bene, segui il mio consiglio.
[111]
"Egli
è usanza qua entro, che quando tutte le giovani donzelle avranno ciascuna le
sue rose ricevute, di venirsene qui in questa camera, e di qui andare
nell'altre camere, faccendo festa insieme, né a ciò alcuna può prendere scusa,
e questo potrai tu vedere onde io dubito che se io dicessi a Biancifiore che tu
qui fossi e mostrassileti, non avvenissero due cose, o l'una delle due, le
quali sono queste. La prima è che mi pare manifestamente vedere che s'ella ti
vedesse, impossibile saria da te partirla mai, e dimorando teco, e non fosse
con le donzelle a far festa, di leggiere esse ne porriano meno che bene
pensare, e porriane agevolmente male seguire; appresso ho che peggio che questo
ch'è detto saria, ch'io so che, vedendoti ella, saria tanta la sua letizia, che
di leggieri quello che 'l dolore non ha potuto vincere, cioè il tribolato
cuore, l'allegrezza il vincerebbe. E già sappiamo che avvenne, e tu il puoi
avere udito, di Mivenzio Stavola, di Sifocle e di Filone, i quali ne' duri
affanni vivuti, per allegrezza morirono. Ma, acciò che né l'una né l'altra di
queste cose avvenga, si potrà così fare: acciò che tu contenti il tuo disio, e
il suo festeggiare con l'altre non manchi, io in una camera a questa contigua
ti metterò, della quale tu potrai ciò che in questa si farà vedere. Quivi
dimorando tu tacitamente, io, sanza dire a Biancifiore al cuna cosa che tu qui
sii, qua entro con le sue compagne la farò venire, dove tu la potrai, quanto ti
piacerà, vedere. E questo per rimedio del primo male che avvenire ne poria, e
per contentamento di te, tutto questo giorno infino alla notte ti basti. E
acciò che l'altro non avvenga, per mio consiglio terrai questa via: io ti
trarrò di quindi, e dietro alle cortine del suo letto, le quali io basserò, che
ora stanno levate come tu vedi, ti nasconderò. Quivi tacitamente dimorerai
tanto che coricata e dormire la vedrai, e poi che addormentata sarà, siati
licito fare il tuo disio. Sono certa che ella, destandosi nelle tue braccia,
diverrà piena di paura avanti che ti conosca, ma poi veggendoti, conoscendo, la
paura, a poco a poco partendosi, darà luogo moderatamente all'allegrezza, e
così l'uno e l'altro dubbioso pericolo fuggiremo. Se altro forse avvenisse, io
vi sarò assai vicina, e lei caccerò col mio parlare d'ogni errore».
Piacque
a Filocolo questo consiglio, ancora che grave gli paresse il dovere tanto
aspettare. Per che Glorizia in quella camera il menò, e sotto grave giuramento
promettere si fece che egli più avanti non faria che quello che essa l'avea
consigliato. E partitasi da lui e serratolo dentro, dov'era Biancifiore se ne
venne.
[112]
Trovò
Glorizia Biancifiore sopra un letto d'una sua compagna giacere boccone piena di
malinconia e di pensieri, e quasi tutta nell'aspetto turbata, a cui ella
cominciò così a dire:
«O
bella giovane, che pensieri sono questi? Qual malinconia t'occupa? Leva su, non
sai tu che oggi è giorno da festeggiare e non da pensare? Già tutte le tue
compagne hanno le rose e' fiori ricevute, e fanno festa, e te solamente
aspettano; leva su, vienne: non sono tutti i giorni dell'anno igualmente da
dolersi». A cui Biancifiore rispose:
«Madre
e compagna mia, a me sariano da dolere tutti i giorni dell'anno s'egli n'avesse
molti più che non ha, e massimamente questo giorno nel quale noi dimoriamo, ché
se della memoria non t'è uscito, in cotal giorno nacqui io, e colui similemente
per cui io mi dolgo. Non ti torna egli a mente che in questo giorno l'empio re
suo padre ci soleva insieme di bellissimi drappi vestire, e solavamo della
nostra natività fare maravigliosa festa? E ora, imprigionata, da lui lontana,
non so che di lui si sia, né m'è possibile il vederlo, né di lui alcuna novella
udire! Non credi tu che mi vadano per la mente i dolorosi accidenti, che
avvenire possono e avvengono tutto giorno a' viventi? Ora che so io se 'l mio
Florio vive? Che similmente so io se egli ha me messa in oblio per l'amore
d'un'altra giovane? Che so io se mai i' 'l debbo rivedere? Come, pensando queste
cose, pensi tu che io possa lieta dimorare o fare, come l'altre fanno, festa,
con ciò sia cosa che, qualunque l'una di queste avvenisse, io non vorrei più
vivere? E pur conosco tutte esser possibile ad avvenire: ma certo se io sapessi
pure a che fine gl'iddii mi debbono recare, io avrei alcuna cagione di
conforto, se buona la sentissi. Elli m'hanno lungo tempo con la speranza che io
ho avuta nelle loro parole con meno dolore nutricata, ma ora veggendo che ad
effetto non vengono, tutto il dolore, che per adietro a poco a poco dovea
sentire, raccolto insieme tutto mi tormenta: per che parendomi che gl'iddii
come gli uomini abbiano apparato a mentire, più di piangere che di far festa
m'è caro».
[113]
Queste
parole udite, Glorizia così cominciò a parlare:
«Bella
figliuola, assai delle tue parole e di te mi fai maravigliare. Come hai tu
oppinione che Iddio possa mentire già mai, con ciò sia cosa ch'egli sia sola
verità? Non escano più di te queste parole, ma credi fermamente ciò che t'è da
lui promesso doverti essere osservato: ma alla persona che molto disia, ogni
brieve termine gli par lungo. Credi tu, perché tu sii qui poco più d'un anno
dimorata, essergli però uscita di mente, e ch'egli non ti possa bene le sue
promesse attenere? Ma quanto più dimori sanza riceverla, tanto più t'appressi a
doverla prendere. E non voglia Iddio che sia ciò che tu di Florio pensi, che
morte, o altro amore che 'l tuo, l'abbia occupato o l'occupi mai. Di questo ti
rendi certa: che egli vive e amati e cercati, e di qua entro ti trarrà sua, se
non m'inganna l'oppinione che io ho presa d'una nuova visione, che nel sonno di
lui e di te questa notte m'apparve».
A
queste parole si dirizzò Biancifiore dicendo:
«O
cara madre, dimmi, che vedesti?».
«Certo
- rispose Glorizia - e' mi parea vedere nella tua camera il tuo Florio esser
venuto, non so per che via né per che modo, e pareami ch'egli avesse indosso
una gonnella quasi di colore di vermiglia rosa, e sopr'essa un drappo, il cui
colore quasi simigliante mi parea a' tuoi capelli, e pareami tanto lieto,
quanto mai io il vedessi, e rimirava te solamente, che nel tuo letto soavemente
dormivi. A cui e' mi parea dire: "O Florio, come, o perché venisti tu
qui?". E egli mi rispondea: "Del come non ti caglia, ma il perché ti
dirò: io, non potendo sanza cuore dimorare, per esso venuto sono qui, però che
costei che dorme il tiene, né mai di qui sanza esso mi partirò. Quelli iddii
che all'aspra battaglia m'aiutarono, quando la sua vita dalle fiamme campai,
m'hanno promesso di renderlami, e a loro fidanza per essa venni". Tu
allora mi parea che ti svegliassi e piena di maraviglia riguardandolo, appena
credevi ch'egli desso fosse, ma poi riconosciutolo, grandissima festa
faciavate. La quale mentre ch'io riguardava, tanta era l'allegrezza che nel
cuore mi crescea, che non potendola il debole sonno sostenere, si ruppe: per
che io spero che la tua speranza non fia vana. E parmi fermamente credere che
egli cercando te sia in questo paese, e che tu forse ancora, anzi che lungo
tempo sia, quella allegrezza, che tu con lui solevi in questo giorno fare,
farai: però confortati, e fortifica la tua buona speranza».
Udendo
queste parole Biancifiore si gittò al collo a Glorizia, e abbracciatala cento
volte o più la baciò, dicendo:
«Cara
compagna, gl'iddii rechino ad effetto quello che tu pensi! Ma io non so vedere
come fare si potesse, posto ch'egli pur fosse a' piè di questa torre, ch'egli
mi parlasse o mi riavesse, se bene consideriamo sotto che guardia dimoriamo».
Disse
Glorizia:
«Non
sta a te il dover pensare che via Iddio gli si voglia mostrare a riaverti: non
è da pensare che quelli, che altra volta l'aiutò, ora l'abandoni».
[114]
Levossi
adunque per i conforti di Glorizia Biancifiore, e con l'altre cominciò a far
festa, secondo che usata era per adietro. Elle aveano già tutte le rose prese:
per che di quelle portando grandissima quantità alla camera di Biancifiore, con
quella in quella n'andarono, e con dolci voci cantando, e tale sonando con
usata mano dolci strumenti, e altre presesi per mano danzando, e altre faccendo
diversi atti di festa, e gittando l'una all'altra rose insieme motteggiandosi,
e Biancifiore similmente, non sappiendo che da Filocolo veduta fosse, con
quelle sì festeggiava, gittando spesso grandissimi sospiri. E in questa maniera
nella sua camera e in quelle dell'altre tutto quel giorno dimorarono. Ma
Filocolo, che per picciolo pertugio vide nella bella camera entrare
Biancifiore, di pietà tale nel viso divenne, quale colui che morto a' fuochi è
portato; e la debolezza dello innamorato cuore cacciò fuori di lui un sudore
che tutto il bagnò, e con tramortita voce, gittato un gran sospiro, disse
pianamen te:
«Oimè,
ch'io sento i segnali dell'antica fiamma!».
E
poi in sé ritornato e renduta al cuore intera sicurtà e forza, con diletto
cominciò a rimirare quella che solo suo bene, solo suo diletto, solo suo disio
riputava, e fra sé, più bella che mai riputandola, dicea:
«O
sommi iddii immortali, come può egli essere che io qui sia e vegga la mia
Biancifiore? Essaltata sia la vostra potenza!».
E
rimirando Biancifiore, si ricordava di tutti i passati pericoli, i quali nulli
essere stati estimava veggendo lei, tenendo che per così bella cosa a molto
maggiori ogni uomo si dovria mettere. Poi fra sé diceva:
«Deh,
Biancifiore, sai tu ch'io, sia qui? Se tu il sai, come ti puoi tu tenere di
venirmi ad abbracciare? E se tu nol sai, perché t'è tanto bene celato e tanta
gioia quanta io credo che tu avresti vedendomi? Come ti poss'io sì presso
dimorare che tu non mi senta? Mirabile cosa mi fai vedere, con ciò sia cosa che
a me non prima giugnendo in questi porti vidi la terra, che 'l cuore cominciò a
battere forte, sentendo la tua potenza: e questo fu alla mia ignoranza
infallibile testimonio che tu qui eri. Oh, se il mio iniquo padre e la mia
crudele madre che io per te a tale pericolo mi fossi messo, quale io sono, e
ora così vicino ti stessi com'io sto, sapessero, appena ch'io creda che la
paura e 'l dolore non gli uccidesse! Deh, quanto m'è tardi che io manifestare
mi ti possa! Io non posso rimirandoti sentire perfetta gioia, sappiendo che tu
nol sappi».
In
questa maniera servito da Glorizia celatamente dimorò Filocolo tutto il giorno,
il quale egli estimava che mai meno non venisse, tanto gli parea più che gli
altri passati maggiore, e ben che lungo gli paresse, non però di mirare
Biancifiore in quello si poté saziare. Ma poi che 'l giorno alla sopravegnente
notte diede luogo, Glorizia, acconciato il letto di Biancifiore e bassate le
cortine, trasse Filocolo del luogo dove stava, e lui di dietro alle cortine,
come detto gli avea ripose, pregandolo che s'attendesse e in quella maniera
facesse che a lei la mattina promesso avea.
[115]
Mancati
i giuochi e le feste delle pulcelle per la sopravenuta notte, Biancifiore con
Glorizia se ne vennero nella gran camera per dormirsi. E sì come per adietro
erano usate, cominciarono di Filocolo nuove cose a ragionare e molte: e
Biancifiore, che una cintoletta di Florio avea, la quale lungo tempo avea
guardata, quella tenendo in mano, altro che baciarla non facea. E in questa
maniera dimorando, Glorizia disse:
«Biancifiore,
se Iddio ciò che tu disideri ti conceda, vorresti tu che Florio fosse qui teco
ora in diritto?».
Gittò
allora Biancifiore un gran sospiro, e poi disse:
«Oimè,
di che mi domandi tu ora? E' non è niuna cosa nel mondo che io più tosto
volessi, che io vorrei che Florio qui fosse, ben che male sia a disiderare ciò
che non si può avere: avvegna che, se io che sono femina fossi fuori di questa
torre, come io imprigionata ci sono dentro, e la mia libertà possedessi, com'io
credo ch'egli la sua possegga, io non dubiterei d'andarlo per tutto il mondo
cercando, infino che io il troverei; e se avvenisse che, così com'io dimoro
rinchiusa, egli rinchiuso dimorasse, niuna via sarebbe che io non cercassi per
essere con lui; e quando ogni via da potere essere con lui mi fosse tolta,
certo io m'ingegnerei di commettermi a' paurosi spiriti, che mi vi portassero.
Non so se questo egli per me facesse».
«Come
- disse Glorizia - vorresti tu metter Florio a tanto pericolo, quanto gli
potrebbe seguire, se egli venisse qui? Non pensi tu che, se l'amiraglio in
alcun modo se n'avedesse, tu e egli morreste sanza alcuna redenzione?».
«Certo
- disse Biancifiore - credere dei che niuno suo pericolo io vorrei: prima il
mio disidererei. Ma se io avessi lui teste so alquanto, della mia morte io non
mi curerei, se avvenisse che però morire mi convenisse, anzi contenta n'andrei
agl'immortali secoli: ma se a lui altro che bene avvenisse, oltre misura mi dorrebbe.
E certo io m'ucciderei avanti che io vedere lo volessi».
«Or
ecco - disse Glorizia - tu nol puoi avere; egli non c'è, né ci può venire: è
alcuno altro che tu disiderassi o, che poi che tu non vedesti lui, ti sia
piaciuto?».
Con
turbato viso rispose Biancifiore e disse:
«O
Glorizia, per quello amore che tu mi porti, più simili parole non mi dire. Elli
non è nel mondo brievemente uomo cui io disideri né che mi piaccia, se non
egli: e poi ch'io lui non vidi, e' non mi parve vedere uomo, non che alcuno me
ne piacesse, avvegna che egli a torto ebbe già oppinione ch'io amassi Fileno,
il quale me molto amò, ma da me mai non fu amato. Cessino gl'iddii da me che
alcuno mai me ne piaccia se non Fiorio, o che io d'altrui che sua sia già mai,
mentre queste membra in vita saranno col tristo corpo: e poi che l'anima ancora
di questo si partirà, ove che ella vada, sarà sua, e lui a mio potere seguirà.
E voglioti dire nuova cosa, che poi che tu stamane mi dicesti la veduta
visione, entrando io in questa camera, il cuore mi cominciò sì forte a battere,
che mai non mi ricorda che sì forte mi battesse, e giuroti per gli etterni
iddii che ovunque io sono andata o stata, e' m'è paruto avere allato Florio:
per che io porto ferma speranza ch'egli per lo mondo mi cerchi, come tu mi
dicesti che credevi, e forse in questo paese dimora».
«Siene
certa», le disse Glorizia.
[116]
Andavasene
la notte con queste parole, e Filocolo di dietro alla cortina ascoltava il
ragionare di queste due, e tal volta di nascosa parte Biancifiore rimirava, e
con fer ventissimo disio volea dire:
«Io
son qui, il tuo Florio, il quale tu tanto disideri!».
Ma
per la promessa fede e per paura del mostrato pericolo si ritenea: elli gli
parea ogni ora un anno che Glorizia tacesse, e Biancifiore andasse a dormire;
ma del suo disio il contrario avvenia, che mai Biancifiore tanto vegghiato non
avea, quanto quella sera, invescata alle parole di Glorizia, vegghiava. Ma poi
che Glorizia, vinta dal sonno, lasciò Biancifiore e nella vicina camera andò a
dormire, Biancifiore si coricò nel ricco letto, e per quello stendendo le
braccia, e più volte cercandolo tutto, non potendo dormire, così quasi
piangendo cominciò a dire:
[117]
«O
Florio, sola speranza mia, gl'iddii ti concedano migliore notte che io non ho;
gl'iddii ti conservino in quella prosperità e in quel bene che tu disideri, e a
te e a me concedino ciò che licito non ci fu potere avere, e mettanti in cuore
di ricercarmi, avvegna che assai lontana ti dimori. Ma saper puoi che per amore
di te io sostengo le non meritate tribolazioni; e però quello amore che me non
lasciò vincere alla paura, che del tuo padre avere dovea, che io pure non ti
amassi, vincati a far sì che io da te sia ricercata. Non ti ritengano le
minacce del tuo padre, né le lusinghe della tua madre. Spera, ché io non ho
altro bene nel mondo che te, né d'altrui attendo soccorso se non da te. O dolce
Florio, possibile mi fosse ora nelle mie braccia ritrovarti! Oh quanto bene
avrei! Certo io non crederei che la fortuna o gl'iddii mi potessero poi far
male. Io ti bacerei centomila volte; e appena che queste mi bastassero! Oh
quante volte sarieno da me baciati quelli occhi, che con la loro piacevolezza
prima mi fecero amor sentire! Io strignerei con le sconsolate braccia il
dilicato collo tanto, quanto il mio disio avanti si distendesse. Deh, ora ci
fossi tu: che è a pensare che una timida giovine dorma sola in così gran letto
come fo io? Tu mi saresti graziosa compagnia e sicura. O santa Venere, quando
sarà che la 'mpromessa da voi fatta a me s'adempia? Viverò io tanto? Appena che
io il creda. Io ardo: io non posso sostenere le vostre percosse, ma impossibile
conosco che 'l mio disio ora s'adempia, tanto gli sono lontana; ma in luogo di
ciò, o Citerea, manda nel petto mio soave sonno, e quello che io veramente aver
non posso, fammelo nel sonno sentire. Contenta con questo il mio disire, acciò
che alquanto si mitighi la mia pena. Or ecco, io m'acconcio a dormire, e
attendo nelle mie braccia il disiato bene. O santa dea, io gli lascio il suo
luogo: venga con grazioso diletto a me, io te ne priego».
Queste
parole dicendo, ogni volta ch'ella ricordava Florio, gittava un grandissimo
sospiro, e con le braccia distese verso quella parte dove Filocolo nascoso
dimorava, con fatica, dopo molti sospiri, s'adormentò.
[118]
Filocolo
udiva tutte queste parole, e più volte fu tentato di gittarlesi in braccio e di
dire:
«Eccomi,
il tuo disio è compiuto!».
Ma
poi dubitando si ritenea, e con disiderio attendea ch'ella s'addormentasse; ma
poi che la vide dormire, pianamente spogliandosi infra le distese braccia si
mise, lei nelle sue dolcemente recando. Ma già per questo la bella giovane non
si destò, né Filocolo destare la volea prima ch'ella per sé si destasse; anzi,
tenendola in braccio, dicea:
«O
dolce amor mio, o più che altra cosa da me amata, è egli possibile a credere
che tu sii nelle mie braccia? Certo io ti tengo e stringoti, e appena il credo.
Luceva la camera, sì come chiaro giorno fosse, per la virtù de' due carbunculi;
per che egli riguardandola dicea:
«Certo,
tu se' pur la mia Biancifiore, e non m'inganna il sonno, come già molte volte
m'ha ingannato, ché ora pur vegghiando ti tengo. Ma tu che poco inanzi cotanto
nelle tue braccia mi disideravi, secondo il tuo parlare, come puoi ora dormire
avendomi? Non mi sente il tuo cuore, il quale so che continuamente vegghia
ricordandosi di me? O bella donna, destati, acciò che tu conosca chi tu hai
nelle tue braccia. Veramente tu n'hai ciò che tu in sogno alla santa dea
domandavi. Destati, o vita mia, acciò che tu più allegra ch'altra femina col più
lieto uomo del mondo ti ritruovi, e prendi la 'mpromessa della santa dea.
Destati, o sola speranza mia, acciò che tu vegga quello che agl'iddii è
piaciuto: tu tieni nelle tue braccia quello che tu disideri, e nol sai. Or,
s'io ti fossi testé tolto, come ti sarebbe in odio l'aver dormito! Destati, e
prendi il disiderato bene, poi che gl'iddii ti sono graziosi».
Egli
dice queste e molte altre parole, e ad ogni parola cento volte o più la bacia.
Egli, tirate indietro le cortine, con più aperto lume la riguarda e sovente
l'anima alienata richiama. Egli la scuopre e con amoroso occhio rimira il
dilicato petto, e con disiderosa mano tocca le ritonde menne, baciandole molte
volte. Egli distende le mani per le segrete parti, le quali mai amore ne'
semplici anni gli avea fatte conoscere, e toccando perviene infino a quel luogo
ove ogni dolcezza si richiude: e così toccando le dilicate parti, tanto diletto
prende, che gli pare trapassare di letizia le regioni degl'iddii; e oltre modo
disidera che Biancifiore più non dorma e a destarla non ardisce, anzi con
sommessa voce la chiama e tal volta strignendolasi più al petto s'ingegna di
fare che ella si desti. Ma l'anima, che nel sonno le parea nelle braccia di
colui stare, nelle cui il corpo veramente dimorava, non la lasciava dal sonno
isviluppare, parendole in non minore allegrezza essere che paresse a Filocolo,
che lei tenea. Ma poi, pur costretta di destarsi, tutta stupefatta stringendo
le braccia si destò, dicendo:
«Oimè,
anima mia, chi mi ti toglie?».
A
cui Filocolo rispose:
«Dolce
donna, confortati, che gl'iddii mi t'hanno dato, niuna persona mi ti potrà
torre».
Ella
udita la voce umana, stordita del sonno e di paura, si volle fuori del letto
gittare e gridare e chiamare Glorizia, ma Filocolo la tenne forte, e subitamente
le disse:
«O
giovane donna, non gridare e non fuggire colui che più t'ama che sé: io sono il
tuo Florio, confortati e caccia da te ogni paura». Tacque costei
maravigliandosi, e, parendole la sua voce, disse:
«Come
può essere che tu qui sii ora ch'io ti credea in Ispagna?».
«Così
ci sono come gl'iddii hanno voluto - rispose Filocolo, - e però rassicurati».
Pareano
impossibili queste parole ad essere vere a Biancifiore, e riguardandolo le
parea desso, e rallegravasi, e non credendolo, tutta di paura tremava.
[119]
In
questa maniera Filocolo confortandola, e da lei la paura cacciando con vere
parole, dimorarono alquanto. E ella in più modi accertatasi che desso era, cioè
Florio, colui cui ella tenea in braccio, sospirando lo incominciò ad abbracciare
e a baciare, tanto amorosamente e tanto lieta in se medesima, che appena le
bastava a tanta letizia la vita; e così gli disse:
«O
dolce anima mia, cosa impossibile a credere mi fai vedere; dimmi, per
quegl'iddii che tu adori, come venisti tu qui?».
A
cui Filocolo rispose:
«Donna
mia, così ci venni come fu piacere degl'iddii. Non è bene, mentre ciascuno di
noi si maraviglia, narrare il modo: ma rallegrati che sano e salvo, e più lieto
ch'io fossi mai, nelle tue braccia dimoro».
«Di
ciò mi rallegro io molto, ma io non posso fare ch'io non sia nella mia
allegrezza impedita - disse Biancifiore, - pensando a qual pericolo tu per
venire qui ti sii messo». Rispose Filocolo:
«Poi
che prosperevolemente gl'iddii hanno il mio intendimento recato al disiderato
fine, di che tu ti dei rallegrare, non pensiamo più a' passati pericoli,
spendiamo il tempo più dilettevolemente, però che incerti siamo quanto
conceduto ce ne fia, mentre nell'altrui mani dimoriamo».
[120]
Cominciaronsi
adunque i due amanti a far festa l'uno all'altro, e ciascuno i disiderati baci
sanza numero s'ingegnava di porgere all'altro. Forte saria a potere esprimere
la gioia e l'allegrezza di loro due: ma chi tal bene già per suoi affanni
gustò, qual fosse il può considerare. E mentre in questa festa dimorano,
Biancifiore dimanda che sia del suo anello, il quale Filocolo nel suo dito
gliele mostra.
«Omai
- disse Biancifiore - non dubito che l'agurio ch'io presi delle parole di tuo
padre, quando davanti gli presentai il paone, non venghino ad effetto, che
disse di darmi, avanti che l'anno compiesse, per marito il maggior barone del
suo regno: e certo di te intesi, di cui io non sono ora meno contenta, avvegna
che passato sia l'anno, che se avanti avuto t'avessi, pure ch'io t'aggia».
A
cui Filocolo disse:
«Bella
donna, veramente verrà ad effetto ciò che di quelle parole dicesti; né credere
che io sì lungamente aggia affannato per acquistare amica, ma per acquistare
inseparabile sposa, la quale tu mi sarai. E fermamente, avanti che altro fra
noi sia, col tuo medesimo anello ti sposerò, alla qual cosa Imineo e la santa
Giunone e Venere, nostra dea, siano presenti». Disse adunque Biancifiore:
«Mai
di ciò che ora mi parli dubitai, e con ferma speranza sempre vivuta sono di
dovere tua sposa morire; e però levianci di qui, e davanti alla santa figura
del nostro iddio questo facciamo: elli, nostro Imineo, elli la santa Giunone e
Venere ci sia».
[121]
Levatasi
adunque Biancifiore e copertasi d'un ricco drappo, e similmente Filocolo, davanti
alla bella imagine di Cupido se n'andarono, e quella di fresche frondi e di
fiori coronata, davanti ad essa accesero risplendenti lumi, e amenduni
s'inginocchiarono. E Filocolo primamente cominciò così a dire:
«O
santo iddio, signore delle nostre menti, a cui noi dalla nostra puerizia avemo
con intera fede servito, riguarda con pietoso occhio alla presente opera. Io
con fatica inestimabile qui pervenuto, cerco quello che tu ne' cuori de' tuoi
suggetti fai disiderare, e questa giovane con indissolubile matrimonio cerco di
congiungermi, al quale congiungimento ti priego niuna cosa possa nuocere, niuno
vivente dividerlo né romperlo, niuno accidente contaminarlo, ma per la tua
pietà in unità il conserva: e come con le tue forze sempre i nostri cuori hai
tenuti congiunti, così ora i cuori e' corpi serva in un volere, in un disio, in
una vita e in una essenzia. Tu sii nostro Imineo; tu in luogo della santa
Giunone guarda le nostre facelline e sii testimonio del nostro maritaggio».
A
questa ultima voce, la figura, dando con gli occhi maggiore luce che l'usato,
mostrò con atti i divoti prieghi avere intesi, e movendosi alquanto, verso loro
inchinando, si fece ne' sembianti più lieta. Per che Biancifiore, che simile
orazione avea fatta, disteso il dito, ricevette il matrimoniale anello; e
levatasi suso, come sposa, vergognosamente, dinanzi alla santa imagine baciò
Filocolo, e egli lei. E dopo questo, correndo n'andò al letto di Glorizia,
dicendo:
«O
Glorizia, leva su, vedi ciò che gl'iddii per grazia hanno voluto di quello che
noi questa sera e ieri tanto ragionammo». Levossi Glorizia, mostrandosi nuova
di ciò che Biancifiore le diceva, e venuta in presenza di Filocolo gli fece
mirabilissima festa; e veduto ciò che fatto aveano, contenta oltre misura
disse:
«E
come, così tacitamente da voi tanta festa sarà celebrata sanza suono? Negati ci
sono gl'idraulici organi e le dolci voci della cetera d'Orfeo e qualunque altro
citerista, ma io con nuova nota supplirò il difetto».
E
preso un bastonetto, tutti e quattro i cari alberi percosse, e quindi
dolcissima melodia in diversi versi si sentì: la quale tanto, quanto di loro fu
piacere, durò. Ma dopo molti ragionamenti, già gran parte della notte passata,
ciascuno, fatti tacere i canti, al letto si ritornò.
[122]
O
allegrezza inestimabile, o diletto non mai sentito, o amore incomparabile, con
quanto effetto congiugneste voi i novelli sposi! Pensinlo le dure menti, nelle
quali amore non puote entrare, pensinlo i crudi animi: e se questo pensando,
non divengono molli, credasi che graziosa virtù in loro abitare non possa!
Nelli disiderati congiugnimenti si poterono per la camera vedere fiaccole non
accese da umana mano, né da quella portate. Ivi si poté vedete Imineo in figura
vera coronato d'uliva, e Citerea fare mirabile festa intorno al suo figliuolo;
e non ch'altro iddio, ma Diana vi si vide rallegrarsi di tanto congiugnimento,
laudandosi, cantando santi versi, che sì lungamente l'uno all'altro avea sotto
le sue leggi guardati casti. Dilettaronsi i due amanti convenevole spazio negli
amorosi congiugnimenti, e ultimamente del tempo quasi fino presso al giorno
dierono a diversi ragionamenti: poi vinti dal sonno, abbracciati soavemente
dormendo stettero tanto, che il sole luminò ciascuno clima del nostro emisperio
con chiara luce.
[123]
Destati
quasi ad un'ora amenduni gli amanti si levarono lieti, e Biancifiore vide
Filocolo vestito in quella forma che Glorizia le avea detto d'averlo veduto
nella sua visione, e maravigliandosene gliele raccontò; di che Filocolo,
pensando al modo del parlare di Glorizia, alcuna ammirazione non prese, ma
disse:
«Gran
cose mostrano gl'iddii future a coloro cui essi amano!».
E
da Glorizia serviti, quel giorno insieme, narrando l'uno gli accidenti suoi
all'altro, con piacevole ragionamento dimorarono. Ma a Filocolo, gli occhi di
cui pure a quelli d'Amore correano, venne disio di sapere che quella figura
quivi adoperasse, e dimandonne Biancifiore, la quale così gli disse:
«Io
non so per che qui posta si fosse, né mai ne domandai, se non che io estimo che
per bellezza e ornamento della camera ci fosse posta; ma ciò che io nel
cospetto di questa figura sovente facea, mi piace di raccontarti:
[124]
"Riguardando
io questa imagine e considerando la bellezza d'essa, sovente di te mi
ricordava, perché, avvegna che promesso mi fosse da Venere questo effetto a che
pervenuti siamo, parendomi impossibile, temendo d'averti perduto, di questa te,
qual Sirofane egiziaco fece del perduto figliuolo, feci: e sì come quelli di
fiori e di frondi ornava la memoria del figliuolo, davanti a lei della sua
dissoluzione dolendosi, così io di questa facea. Io l'ornava di fiori e di
frondi spesso, e per suo propio nome la chiamava Florio: e quand'io disiderava
di vederti, a questa vedere correa, alla quale contemplare fui più volte dalle
mie compagne trovata. Con questa, come se con meco fossi stato, de' miei dolori
e infortunii mi do lea, con costei piangea, con costei i miei disii narrava,
costei in forma di te pregava che m'aiutasse, costei onorava; a costei gli
amorosi baci, che a te ora effettuosamente porgo, porgea, costei pregava che di
me le cadesse, costei in ogni atto sì come se tu ci fossi stato, trattava. E
certo, la mercé di colui per cui posto c'è, elli alcuno, avvegna che picciolo,
conforto mi porgea, per che io sovente a con costui dolermi e a baciarlo,
com'io t'ho detto, tornava"».
[125]
Niuno
infortunio, niuno accidente all'uno o all'altro era intervenuto, poi che divisi
furono, che quel giorno non si raccontasse, avendo l'uno dell'altro non poca
ammirazione e diletto. Ma venuta la notte si coricarono, continuando gran parte
di quella vegghiando con piacevoli ragionamenti e con amorevoli abbracciamenti;
per che poi, vinti dal sonno, oltre al termine della notte dormirono per lungo
spazio; perché la fortuna, ancora alle prosperità loro non ferma, con
inoppinato accidente s'ingegnò d'offenderli con più grave paura che ancora
offesi gli avesse, in questo modo.
[126]
L'amiraglio
pieno di malinconia, forse per disusato pensiero, cerca, per fuggir quella, la
bellezza di Biancifiore vedere, credendo in quella veramente ogni potenza di
gioia rendere, far dimora. E partitosi d'Alessandria la terza mattina vegnente
poi che le rose presentate avea, essendo ancora molto nuovo il sole, se ne
venne alla bella torre, sopra la quale, come tal volta suo costume era,
subitamente montò sanza alcun compagno. E giunto nella gran sala, alla camera
di Biancifiore pervenne, don de Glorizia poco avanti era uscita e serratala di
fuori. Questa aperta, passò dentro, e nella sua entrata, corsogli l'occhio al
letto di Biancifiore, vide lei con Filocolo dormire abbracciati insieme: di che
rimaso tutto stordito, quasi di dolore non morio. Ma pur sostenendoli la vita
di riguardare costoro, lungamente li rimirò e fra sé dicea:
«O
Biancifiore, vilissima puttana, tolgano gl'iddii via che tu delle mie mani la
vita porti: tu morrai uccidendoti io. Tu, da me più che la vita mia per adietro
amata, hai con isconvenevole peccato meritato odio; e tu, la quale io con
sollecitudine ho infino a qui ingegnatomi dal congiungimento di qualunque uomo,
e ancora dal mio medesimo, che d'avere i tuoi abbracciamenti tutto ardea, ho
guardata, ora per tua malvagità congiuntati con non so cui, la morte
debitamente hai guadagnata: e io la ti darò. Tu sarai miserabile essemplo a
tutte l'altre che per inanzi volessero ardire di cotal fallo commettere. Una
ora amenduni vi perderà, e la tua vituperata bellezza perirà sotto la mia
spada: niuna bellezza mi farà pietoso».
E
queste parole dicendo, trasse fuori la tagliente spada e alzò il braccio per
ferirli; ma Venus, nascosa nella sua luce, stando presente, non sofferse tanto
male, ma messasi in mezzo ricevette sopra lo impassibile corpo l'acerbo colpo,
il quale sopra i dormenti amanti discendea: per che niente furono offesi. E il
pensiero subito si mutò all'amiraglio, parendogli vil cosa due che dormissero
uccidere, e la sua spada fedare di sì vile sangue: per che egli tiratala
indietro, la ripose, e sanza destarli si partì della camera, infiammato contra
loro, e in tutto deliberando nell'acceso animo di tal fallo farli punire. E
sceso dell'alta torre, sanza essere da persona scontrato o veduto, trovati i
sergenti suoi lui aspettanti, comandò che sanza indugio alla camera di
Biancifiore salissero, e lei e colui che con lei troveranno ignudo, così ignudi
strettamente legassero, e giuso dalla finestra, onde i fiori erano stati
collati, gli mandassero nel prato, sanza avere di loro misericordia alcuna, o
sanza niuno priego ascoltare.
[127]
Mossesi
sanza ordine la scelerata masnada, e allegri del male operare salirono le
disusate scale e pervennero alla bella camera, la quale ancora come l'amiraglio
lasciata l'avea trovarono. Passano dentro, e veggono i due amanti abbracciati
dormire: maravigliansi delle bellezze di ciascuno. Ma già per questo niuna
pietà ramorbidisce i duri cuori: le scelerate mani legano i giovani colpevoli
per soperchio amore. Niuno da tanta crudeltà si tira indietro, ma ciascuno più
volentieri li stringe, e prendendo diletto di toccare la dilicata giovane, per
merito di quello aggiungono più legami. Toccano le ruvide mani le dilicate carni,
e gli aspri legami e duri li stringono, e li disordinati romori percuotono
l'odorifero aere; per che i due amanti stupefatti si svegliano. E veggendosi
intorno il disonesto popolo, si volsero levare per fuggire, ma i non ancora
sentiti legami li 'mpedirono; e non vedendosi alcuno altro aiuto o rimedio, con
dolorosa voce domandano che questo sia. Con vergognose parole è loro risposto:
«Voi
siete per le vostre opere morti».
La
miseria, nella quale la non stante fortuna gli avea recati, niuna risposta
lascia porgere convenevole a' dolenti prieghi. Biancifiore, in reale
eccellenzia vivuta infino a qui, ora come vilissima serva trattata, è
dispregiata da' disonesti parlamenti della sconvenevole gente. E Filocolo, al
quale i maggiori baroni soleano porgere dilicati servigi, percosso e con le
mani e con villane parole, da' più vili è schernito. Biancifiore piange né sa
che dire, e stordita non può pensare come avvenuto sia il doloroso accidente. E
il romore multiplica per la torre: corre Glorizia e corrono l'altre damigelle,
ciascuna prima si maraviglia, poi per pietà piange, e la bella sala, che mai
dolente voce sentita non avea, ora di quelle ripiena risonando mostra il dolore
maggiore. Niuna può a Biancifiore soccorso donare, ma disiderose della sua
salute, lagrime e prieghi per quella porgono agl'iddii. Niuna si fa schiva di
rimirare lo ignudo giovane, ma notando le sue bellezze, col pensiero menomano
la colpa di Biancifiore. I contrarii fati sospingono i sergenti ad affrettarsi
d'adempiere il comandamento del signore, per che i due amanti legati sono
collati con lunga fune giù della torre: e acciò che ad alcuno non sia occulto
il commesso peccato, vicini al prato rimangono sospesi. La rapportatrice fama
con più veloce corso rapporta il male e in un momento riempie i vicini popoli
dell'avvenuto male: per che con abandonato freno ciascuno corre al disonesto
strazio, vaghi di vedere ciò che pietà fa loro poi debitamente spiacere. I
sergenti votano la torre di loro, e armati con molti compagni guardano che
alcuno non s'avvicini a' pendenti giovani. I quali tanto così legati pendono,
quanto nel duro petto dell'amiraglio pende qual pena a tale offesa voglia dare;
ma poi che con diliberato animo elesse che la loro vita per fuoco finisse,
comanda che nel prato siano posati, e quivi in accesi fuochi siano sanza pietà
messi, acciò che di loro facciano sacrificio a quella dea, le cui forze agli
sconvenevole congiugnimenti gli condusse. Udito il comandamento, i fuochi
s'accendono, e i due amanti sono messi in terra, e ignudi con sospinti passi
sono tirati all'ardenti fiamme.
[128]
Piangendo
Biancifiore così col suo amante sospesa, Filocolo con forte animo serrò nel
cuore il dolore, e col viso non mutato né bagnato d'alcuna sua lagrima sostenne
il disonesto assalto della fortuna, la quale, perché l'angoscia dell'animo non
menomi, niuna sua felicità gli leva della memoria. Egli, vedendosi solo e sanza
speranza d'alcuno aiuto, le forze de' suoi regni fra sé ripete, e loro, per
adietro poco amate, ora avria molto care. Egli si duole degli abandonati
compagni, nescii di tale infortunio, da' quali soccorso spererebbe, se credesse
che 'l sapessero. Egli, pensando alla vile morte che davanti si vede, appena
può le lagrime ritenere. Ma sforzando col senno la pietosa natura, quelle dentro
ritiene, e dopo alquanto pensiero, con gli occhi a se medesimo volti, così fra
sé cominciò a dire:
«O
inoppinato caso! O nimica fortuna! Ora l'ultimo fine delle tue ire sopra me
sazierai. Ora i lunghi tuoi affanni finirai. Tu per molti strabocchevoli pericoli
m'hai recato a sì vile fine, non sostenendo più volte, quando il morire m'era a
grado, che vita mi fallisse. Oh, quante volte sarei io potuto morire con minor
doglia che ora non morrò, e più laudevolmente! Se tu, o iniquissima dea, avessi
sostenuto che io, la prima volta ch'io da costei mi partii, fossi nelle sue
braccia morto, com'io cercava, sentendo io per la mia partita intollerabile
dolore, gl'iddii infernali avriano presa lieta la mia anima! O almeno m'avesse
la ingiusta lancia del siniscalco passato il cuore, quando con lui, mai più non
usato all'armi, combattei! O mi fosse stato licito l'uccidermi, quando costei
tanto piansi, credendola morta! Almeno qualunque di queste morti presa avessi,
nel cospetto della mia madre sarei morto, e ella col mio padre insieme il
pietoso uficio avrebbero adoperato, guardando poi le mie ceneri con pietoso
onore, le quali mai non rivedrà, se Eolo con le sue forze non le vi porta
mescolate con ravolti nuvoli e con la non conosciuta arena. Ora, se tu forse
questa misera grazia agl'indegni parenti non volevi concedere, perché nelle
marine onde, dove la spaventevole notte, della quale io ho poi sempre avuto
paura, tanto mi spaventasti, non mi facesti ricevere a' marini iddii? E ben che
assai mi fosse stata dura la morte, per ché più presso era a' miei disiri,
l'avrei io più tosto voluta, quando nelle tue mani mi rimisi, nascondendomi
sotto le frondi mobili sì come tu. Perché allora così la persona mia, come i
capelli, non palesasti agli occhi del nimico? Tu, crudelissima, di questi e di
molti altri pericoli m'hai campato, non per grazia ch'io aggia nel tuo cospetto
avuta, ma per conducermi a più disprezzevole fine, come ora hai fatto. E certo
tutto questo mi saria assai meno grave a sostenere, se a sì fatta vergogna mi
vedessi solo. Oimè, quanto m'è grave a pensare che colei cui io amo sopra tutte
le cose del mondo, colei per cui i passati pericoli mi sono paruti leggieri a
sostenere per vederla, colei che me più che io lei ama, mi sia compagna a sì
vile morte! O Filocolo, più ch'altro uomo misero, hai tu tanto affanno durato
per conducere la innocente giovene a sì vile fine? Ella muore per te, e per te
un'altra volta a simil morte fu condannata, per te venduta e per te vituperata.
La fortuna, forse verso lei pacificata, l'apparecchiava degna felicità alla sua
bellezza, se tu non fossi stato, e però tu giustamente muori. Ma ella perché,
con ciò sia cosa ch'ella non sia colpevole? Sola l'angoscia di lei mi duole,
ché la mia io la passerei con minore gravezza! O crudel padre, o dispietata
madre, oggi di me rimarrete quieti: voi non mi voleste pacificamente avere, e
voi oggi di me vedovi rimarrete. Né vi concederà la fortuna di chiudere i miei
occhi nella mia morte, né di riporre le mie ceneri ne' cari vasi. Oggi della
vostra nimica Biancifiore, da voi con tante insidie perseguitata, sarete
diliberati, ma non sanza vostra tristizia, né potrete per me spandere lagrime,
che per lei similemente non le spandiate. Un giorno, una ora, una morte vi ci
torrà: e non ingiustamente, ché convenevole cosa è che chi non vuole il bene
quietamente possedere, che tribolando sanza esso viva. Rimanete adunque in
etterno dolore, e di tal peccato siano gl'iddii giusti vendicatori. O gloriosi
iddii, non si parta del vostro cospetto inulta la iniquità del mio padre. O
sommi governatori de' cieli, i quali in tanti affanni avete le mie fiamme
udite, aiutate la innocente giovane. Venga sopra me, il quale ho commessa
l'offesa, la vostra indignazione. O Imineo, o Iuno, o Venere, i quali io
l'altra notte, se io non errai, vidi per la lieta camera portanti i santi
fuochi del novello matrimonio, riservatevi Biancifiore al buono agurio di
quelli, e se alcuna infernale furia fu tra voi con quelli mescolata, o se alcun
gufo sopra noi cantò, caggiano sopra me i tristi agurii. Io non curo della mia
morte, però che io l'ho con ingegno cercata: sia solamente costei, che per me
sanza colpa muore, aiutata da voi».
[129]
Biancifiore,
piena di paura e di vergogna e di dolore incomparabile, piangea, e i suoi occhi
né più né meno faceano che fare suole il pregno aere, quando Febo nella fine
del suo Leone dimora, che, porgendone acqua di più basso luogo, con più ampia
gocciola bagna la terra: l'una lagrima non attendea l'altra. Ella avea il suo
viso e 'l dilicato petto tutto bagnato, e simile quello di Filocolo, sopra 'l
quale gli occhi, che non ardivano di riguardare in parte dove riguardati
fossero, tenea. Essa tal volta, sentendo per li legami aspra doglia, alzava gli
occhi, rimirando nel viso Filocolo, per vedere se a lui, come a lei, doleva,
disiderando d'avere più di lui che di sé compassione, e vedendolo solamente
sanza lagrime turbato, si maravigliava, e non meno le piacea vederlo, ben che
in mortale pericolo si vedesse, che piaciuto le fosse qualora più lieti mai si
videro. Ma pensando che brieve tale diletto convenia essere per la
sopravegnente morte, mossa da compassione debita, così fra sé cominciò a dire:
[130]
"O
nimica fortuna, qual peccato a sì vile fine mi conduce, avendomi in vita tenuta
con più miserie ch'altra femina, io nol conosco. Io misera, composta da Cloto,
fatale dea, nel ventre della mia madre fui cagione del crudel tagliamento fatto
del mio padre, e per consequente, nella mia venuta nel tristo mondo, cacciai di
vita la dolente madre. Impossibile mi fu di conoscere i miei genitori: e nata
serva, mai la mia libertà non fu ridomandata. Ma gl'iniqui fati, apparecchiati
di nuocermi, m'apparecchiavano peggio. Io, formata bella dalla natura, fui a me
per la mia bellezza cagione d'etterni danni, dove l'altre ne sogliono graziosi
meriti seguitare. Se io fossi di turpissima forma stata, lo indissolubile
amore, tra me e Florio generato per iguale bellezza, ancora saria ad entrare
ne' nostri petti: e così io non sarei stata dal suo padre odiata e condannata alle
prime fiamme. Io non sarei stata comperata prima da' mercatanti e poi
dall'amiraglio, ma ancora mi sarei nelle reali case, e così fuor di pericolo io
e altri sarebbe. O bellezza, fiore caduco, maladetta sii tu in tutte quelle
persone a cui nociva t'apparecchi d'essere! Tu principale cagione fosti dello
ardente amore che costui mi porta; tu gli levasti la luce dello 'ntelletto, e
la ragione, per la quale conoscere doveva me, femina vile, non essere da essere
amata da lui; tu di migliaia di sospiri l'hai fatto albergatore: tu degli occhi
suoi hai fatto fontane di dolenti lagrime; tu infiniti pericoli gli hai fatti
parer leggieri, per venirti a possedere: e ora posseduta, a questo vilissimo
fine l'hai condotto. Ahi, dolorosa me, perché insieme con la mia madre non
morii quand'io nacqui? Quanti mali sarieno per un solo male spenti! Il
siniscalco saria vivo, e 'l valoroso cavaliere Fileno non saria perduto in
sconvenevole essilio; Florio ora a tal pericolo non saria, ma lieto ne' suoi
regni aspetteria la promessa corona, e i miseri padre e madre, che di lui
debbono udire la vituperosa morte, viverieno lieti del loro figliuolo, del
quale ancora più dolenti morranno. Oimè misera, a che morte son io
apparecchiata! Al fuoco! Il fuoco caccerà de' fermi petti l'amoroso fuoco. Quel
fuoco che il mare, né la terra, né paura, né vergogna, né ancora gl'iddii hanno
potuto spegnere, il fuoco lo spegnerà. Oggi di perfetti amanti torneremo nulla.
Oggi sarà biasimata e tenuta vile la nostra gran costanza e fermezza d'animi. Oggi
congiunte cercheranno le nostre anime gli sconosciuti regni. Oggi scalpiteranno
i piedi e moveranno i venti le ceneri già credute serbarsi a splendidi vasi.
Oggi la forza di Citerea fia annullata. O dolente giorno, di tanti mali
riguardatore, perché nel mondo venisti? O Apollo, a cui niuna cosa si nasconde,
perché la tua luce ne desti? Tu mostrandoti chiaro insieme ti mostri crudele,
però che già per minori danni nascondesti i raggi tuoi a' mondani. Oimè,
Florio, a che vile partito mi ti veggio avanti! Oimè, come può l'anima
sostenermi tanto in vita, pensando che noi siamo cagione di commovimento a
tutta Alessandria, pensando che tante migliaia d'occhi solamente noi guardino,
solamente di noi ragionino, solamente di noi pensino, pensando ancora con quanto
vituperoso parlare sia da' riguardanti ciascuna parte di noi, che ignudi a'
loro occhi dimoriamo, sia riguardata? Caro ne saria il campare, ma non il
vivere in questo luogo. O sommi iddii, i cui pietosi occhi il mio peccato ha
rivolti altrove, che ha meritato Florio, che questa morte sia da voi solterto
ch'egli sostenga? Egli ha amato, e amando ha fatto quello che voi già faceste.
Costretto è ciascuno di seguire le leggi del suo signore. Egli fece quello che
Amore gli comandò; ma io, malvagia femina, non servai il dovere all'amiraglio,
sotto la cui signoria mi stringieno i fati. Io sola peccai, dunque io sola
merito di morire; muoia dunque io, e Florio, che niente ha meritato, viva. O
iddii, se in voi pietà alcuna è rimasa, purghisi l'ira vostra e quella dell'amiraglio
sopra me. Se Florio campa, io contenta piglierò la morte. Cessi che per me,
vile femina, muoia un figliuolo d'un sì alto re! Oimè, or che dimando io? Già è
manifesto che i miseri indarno cercano grazia. Oimè, come tosto è in tristizia
voltata la brieve allegrezza! Oh, quanto è picciolo stato lo spazio del nostro
matrimonio, il quale noi pregavamo gl'iddii che 'l dovessero etternare! Certo
per sì picciolo spazio sanza prieghi potevamo passare, adoperando il tempo ne'
baci che si doveano finire per ischernevole morte. Oimè, ch'io m'allegrava
parendomi l'agurio delle parole dello iniquo re poter prendere con effetto
buono! Ma i fati, che dolente principio m' hanno sempre in ogni mia cosa
donato, non consentono ch'io senta lieto fine. O vecchio re Felice, o reina,
nell'effetto al tuo nome contraria, con che cuore ascolterete voi il misero
accidente? Or saravvi possibile a vivere tanto, che 'l tristo apportatore di
tale novella abbia compiuto di dire che 'l dilicato corpo di Florio sia stato
dalle fiamme consumato? Io non so, ma forte mi pare a pensare che sì. Io son
certa che se voi vivete, mentre vi basterà la lingua alle parole, mai in altro,
che in maledizione della mia anima non moverete quella; e se morite, fra le
nere ombre sempre come nemica mi seguirete, e non sanza ragione. O iddii,
consentite, se i miei prieghi niuno merito acquistano nella vostra presenza,
che Florio campi, se possibile è, e io, degna di morire, muoia. La sua vita,
ancora molto utile al mondo, non si prolungherà sanza vostro grande onore: la
mia, che a niuna cosa può valere, perisca, e sostenga il peso del vostro
cruccio. Siami conceduta questa grazia, in guiderdone della quale il mio corpo
da ora v'offero per sacrificio".
[131]
Ircuscomos
e Flagrareo, venuti de' libiani popoli, nel viso bruni e feroci, co' capelli
irsuti e con gli occhi ardenti, grandi molto di persona, erano dall'amiraglio
fatti capitani de' suoi militi, e la notturna guardia della torre sotto la loro
discrezione avea commessa. Questi dopo il comandamento dell'amiraglio, armati
sopra forti destrieri, con molti compagni vennero nel prato, intorniati di
pedoni infiniti con archi e con saette. Essi fecero accendere due fuochi assai
vicini alla torre, e fecero posare in terra Filocolo e Biancifiore, e tirare alle
accese fiamme con villane parole. Quivi venuto, Filocolo vide due luoghi per la
morte di loro due apparecchiati; ond'egli, sanza mutare aspetto, alzò il viso
verso Ircuscomos e disse:
«Poi
che agl'iddii e alla nimica fortuna e a voi piace che noi moriamo, siane
concessa in questa ultima ora una sola grazia; la quale faccendoci, niuna cosa
del vostro intendimento menomerà. Noi, miseri, dalla nostra puerizia sempre ci
siamo amati, e ben che nostro infortunio sia stato il non potere mai coi corpi
insieme dimorare, mai le nostre anime non furono divise: un volere, un amore ci
ha sempre tenuti legati e congiunti, e un medesimo giorno ci diede al mondo:
piacciavi che, poi che una ora ci toglie, che similmente una medesima fiamma ci
consumi. Siano mescolate le nostre ceneri dopo la nostra morte, e le nostre
anime insieme se ne vadano».
Ircuscomos,
che mai non avea apparato d'essere pietoso, faccendo sembianti di non averlo
udito, comandò che come era incominciato così i sergenti seguissero; ma
Flagrareo con più benigno spirito disse:
«E
che ci nuoce il fargli di suo medesimo danno grazia? Con quella forza ardono le
fiamme i due, che l'uno: siagli conceduto di morire con lei, con cui la colpa
commise».
[132]
Fu
adunque Filocolo insieme con Biancifiore legato ad un palo e intorniato di
legne. Le quali cose mentre si facevano, Biancifiore piangendo rimirava
Filocolo e diceva con rotta voce e con vergogna:
«O
signore mio dolce, ove se' tu con affanni e con pericoli venuto ad essere messo
vivo nelle ardenti fiamme! Oimè, quant'è più il dolore ch'io di te sento, che
quello che di me mi fa dolere! Oimè, quanto m'è grave a pensare che tu per me
sì vilmente sii dato a morire! I dolenti occhi non possono mostrare con le loro
lagrime ciò che il cuore sente, qualora io ti riguardo ignudo con meco insieme
tra tanto popolo disposti a morire. O anima mia, che hai tu commesso che
gl'iddii, che essere ti soleano benivoli, così sieno contro a te turbati e in
tanta avversità t'abandonino? Perché ti nuoce il mio peccato? Maladetta sia
l'ora ch'io nacqui, e che amore mise negli occhi miei quel piacere, del quale
tu, oltre al dovere, sempre se' stato innamorato, poi che a questo fine ne
dovevi venire. Oimè, ch'io mi dolgo che tu per adietro m'abbi campata
dall'altro fuoco, per che, campandomi, t'acquistasti morte. Io misera, degna di
morire, volontieri muoio, né mi saria grave il sostenere prima ogni pena, e poi
questa, solamente che tu campassi. Ahi, quanto volentieri tal grazia e a Dio e
al mondo dimanderei, se io credessi che conceduta mi fosse! Ma essi hanno avuto
del nostro poco bene invidia, e però, più disposti a' nostri dannì che a
piacerne, non si moveriano ad alcun priego. Oimè misera, che quel giorno che ci
diede al mondo, quel giorno la cagione di questa morte ne porse. Impossibile è
ora alla tua madre credere che tu sii a questo partito; e i tuoi miseri
compagni forse estimano che tu ora lietamente dimori, però che, non essendo
essi conosciuti, alcuno non dice loro questo accidente. Elli venuti lieti con
teco, ricercheranno dolenti, sanza te, le ragguagliate acque, e là dove me con
teco credettero presentare al tuo padre, la crudele morte di noi due
racconteranno: per che il tuo regno, rimanendo vedovo, con dolore in etterno ti
piangerà».
[133]
Queste
parole mossero il forte animo di Filocolo, e le lagrime, lungamente costrette,
con maggiore abondanza uscirono fuori degli occhi, e così le cominciò piangendo
a rispondere:
«Quella
pietà che io di me dovea avere, non m'ha potuto vincere, che io con forte animo
non abbia mostrato di sostenere pazientemente il piacere degl'iddii, ma,
pensando a te, ha rotto il proponimento del debole animo. Tu con meco insieme
misera, per la mia vita prolungare, disideri più pene che li fati ne porgono,
cara tenendo la morte, se io campassi, e fatti colpevole, dove manifestamente
in me la colpa conosci. Ora in che hai tu offeso? Io ho fatto ogni male. Tu
soavemente dormendoti nel tuo letto fosti con ingegni da me usati assalita, per
che io debitamente morire dovrei. Io sotto giusto giudice dovria ogni pena
portare: la qual cosa se fosse, e tu campassi, grazioso mi saria molto; ma la
fortuna, che sempre igualmente ci ha in avversità tenuti, ora al giusto per lo
ingiusto non vuole perdonare morte. Io ho con meco questo anello, il quale la
mia misera madre mi donò nella mia partita, promettendomi ch'egli avea virtù di
cessare le fiamme e l'acque dal giovamento della vita di chi sopra l'avesse: la
virtù di costui credo che 'l mio periclitante legno, la notte che io in mare passai
tanta tempesta con ismisurata paura, aiutasse. Però tienilo sopra di te: io non
credo che la fortura abbia avuta potenza di levargli la virtù, la quale se
levata non gliel ha, di leggieri potrai campare. La tua bellezza merita
aiutatore, il quale non dubito che tu troverai, e rimanendo tu in vita, molto
nel morire mi contenterai».
«Sia
da me lontano ciò che tu parli - disse Biancifiore, - ma tu, la cui vita è ad
altrui e a me più che la mia cara, sopra te il tieni, acciò che se gl'iddii
altro aiuto ti negano, per la virtù di questo campi: la cui virtù già mi
conforta, e più consolata al morire mi dispone, pensando ch'ella fia possibile
ad aiutarti».
Così
costoro con sommessa voce parlando, il fuoco fu acceso, e l'ardore
s'appressava, quando, rifiutando ciascuno l'uno all'altro l'anello, di piana
concordia piangendo s'abbracciarono, e con dolenti voci la morte attendendo,
l'uno e l'altro dall'anello era tocco, e dalle fiamme difesi: ma essi, per
debita paura del sopravegnente fummo, con alte voci l'aiuto degl'iddii
invocavano piangendo.
[134]
Mossero
le voci di costoro i non crucciati iddii a degna pietà, e furono essauditi e
con sollicita grazia aiutati, ben che assai gli aiutasse l'anello. Venere,
intenta a' suoi suggetti, commosse il cielo, e per loro porse pietosi prieghi a
Giove, col consentimento del quale e di ciascuno altro iddio, il necessario
aiuto si dispose a porgere. E involta in una bianchissima nuvola, coronata
delle frondi di Pennea, con un ramo di quelle di Pallade in mano, lasciò i cieli
e discese sopra costoro, e con l'una mano, cessando i fummi dintorno a' due
amanti, a' circunstanti li volse, e quelli in oscurissima nuvola mantenendo
bassi, con noioso cocimento impediva i circunstanti da poter vedere dove
Filocolo e Biancifiore fosse, dando a loro chiaro e puro aere, nel quale tutta
si mostrò loro e disse:
«Cari
suggetti, le vostre voci hanno commossi i cieli e impetrato aiuto;
rassicuratevi: io sono la vostra Citerea, madre del vostro signore. Questa sarà
ultima ingiuria a voi e fine delle vostre avversità, dopo la quale voi
pacificamente, avendo vinta la contraria fortuna, vi verete. Io v'ho recato
segnale d'etterna pace: guardatelo infino che di qui uscirete. Marte per lo
vostro aiuto stimola i tuoi compagni con sollecitudine; né prima di qui mi
partirò, che tu li sentirai cercare la vostra salute con armata mano».
E
questo detto, lasciato l'ulivo nelle loro mani si partì, volendo essi già
ringraziarla.
[135]
La
santa voce con intera speranza riconfortò gli sconsolati amanti, i quali con
perfetto animo rendeano agl'iddii degne lode di tale aiuto; ma ben che il fummo
rivolto alla circunstante gente impedisse il potere costoro vedere, nondimeno
il furioso popolo e gli armati cavalieri dalla incominciata iniquità non
ristavano, ma crucciati, più pronti s'ingegnavano di far male. Ircuscomos con
una mazza ferrata in mano costringe i sergenti di ritrovare e d'ardere i
giovani; Flagrareo dall'altra parte gli conforta al male operare. Ma invano
adoperano: niuno li può rivedere, né alcuno non è possente di passare più oltre
che il fummo si stenda. L'ira s'accende negli animi, e cercano di passare con
le lance e con le saette l'oscurità del fummo, imaginando che delle molte
alcuna gli ucciderà. Niuna cosa nuoce loro, niuna saetta vi passa: il romore
era grande, tale che per poco spaventava i confortati amanti. Che più? Ogni
ingegno di nuocere si pruova; ma invano s'affatica chi nuocere vuole a colui
cui Iddio vuole aiutare. Elli non possono loro nuocere, né rivederli in alcun
modo.
[136]
Ascalion
e 'l duca, con Dario e con Bellisano e con gli altri, ignoranti dell'andata di
Filocolo, dubitando l'aspettano quella notte e 'l giorno appresso. E ritornando
un'altra volta le stelle, e dopo quelle Febo, con più malinconia di lui
pensavano; e venuta la terza notte, imaginando essi che là fosse andato
dov'era, pieni di pensieri varii per la lunga dimoranza, s'andarono a dormire.
Ma ad Ascalion, quasi più sollecito della salute di Filocolo, entrato di tale
stanza in varie imaginazioni, si rivolge per la mente le future cose, e
dubitando forte non avvenissero, il tacito sonno con quieto passo gli entra nel
petto; e levandolo da quelle, in sé tutto quanto il lega, e nuove e disusate
cose gli dimostra, mentre seco il tiene. Elli parea a lui essere in un luogo da
lui mai non veduto, e pieno di pungenti ortiche e di spruneggioli, del qual
luogo volendo uscire, e non trovando donde, s'andava avolgendo e tutto
pungendosi. E di questo in sé sostenendo grave doglia, non so di che parte gli
parea veder venire Filocolo, ignudo, tutto palido e in diverse parti del corpo
piagato, e tutto livido, e di dietro a lui in simile forma venire Biancifiore,
con le bionde trecce sparte sopra i candidi omeri; e correndo verso lui fra le
folte spine, tutti si pungevano e delle punture parea che sangue uscisse, che
tutti gli macchiasse: e giunti nel suo cospetto si fermavano, e sanza parlare
alcuna cosa, il riguardavano né più né meno come se dire volessero:
«Non
ti muove pietà di noi a vederci così maculati?».
I
quali riguardando così conci, Ascalion sanza dire nulla piangeva, parendogli
che più i loro mali che i suoi propii gli dolessero. Ma così stati alquanto,
gli parve che Filocolo più gli s'appressasse, e piangendo gli dicesse con voce
tanto fioca che appena gliele parea potere udire:
«O
caro maestro, che fai, ché non ci aiuti? Non vedi tu come la nimica fortuna,
voltatasi sopra me e sopra la innocente Biancifiore, premendoci sotto la più
infima parte della sua ruota ci ha conci, che come puoi vedere, niuna parte di
noi ha lasciata sana, e minacciaci peggio, se il tuo aiuto o quello degl'iddii
non ci soccorre».
A
cui Ascalion parea che rispondesse:
«O
cari a me più che figliuoli, la maraviglia che di voi e delle vostre piaghe ho
avuta, assai sanza parlarvi m'hanno tenuto; ma più d'ammirazione mi porge il
vedervi insieme dolenti, non sappiendo pensare come esser possa, essendo tu con
la disiata giovane Biancifiore e ella teco, la fortuna ci possa porre alcuna
noia, che dolenti vi faccia: dillomi come questo è avvenuto; il mio aiuto sai
che per lo tuo bene è disposto ad ogni cosa infino alla morte. Mostrami pure da
cui aiutar ti deggia».
A
cui Filocolo rispose:
«Come
tu vedi, così è: bastiti il veder questo, sanza più volerne udire. Vedi qui
dintorno a me Ircuscomos e Flagrareo con infinito popolo, per comandamento
dell'amiraglio, volerci in fiamme consumare».
Questo
udito, ad Ascalion parve vedere dintorno a Filocolo ciò che le parole
significavano; per che crescendogli il dolore e la pietà di ciò che vedea, ad
un'ora Filocolo e Biancifiore e 'l sonno se n'andarono, e egli stupefatto per
le vedute cose, alzato il capo, vide già il chiaro giorno per tutto essere
venuto. Per che egli sanza indugio si levò e vestissi, e quasi tutto smarrito
venne a' compagni. A' quali narrò ciò che veduto avea, per che egli teme non
Filocolo abbia alcuna novità. Gli altri, udendo questo, tutti dubitano, né
sanno che consiglio prendere. Ultimamente con Dario e con Bellisano deliberano
d'andare alla torre, per sapere da Sadoc quello che di Filocolo fosse, o se con
lui dopo la sua partita fosse dimorato.
[137]
Stando
costoro in questo ragionamento, la rapportatrice fama vide del suo alto luogo
queste cose, e di fuori delle sue finestre cacciò voci, che in picciolo spazio
ciò che a Filocolo avvenuto era per Alessandria si spande. Ma niuno sa il nome
di Filocolo, e tutti quello di Bianci fiore; ciascuno corre al prato, e tutti
si maravigliano, e in picciolo spazio di tempo riempiono quello. Odono Ascalion
e' compagni, sì come gli altri, queste voci: dubitando domandano chi costoro
sieno, a cui la fortuna è tanto contraria, desiderando d'accertarsi di ciò che
non vorrieno sapere. Niuno sa loro dire più avanti, se non:
«Biancifiore
con un giovane sono condannati».
Dubitano
costoro, e hanno ragione, per la visione veduta, e pensano che Filocolo sia:
dimandano de' segnali del giovane, i quali udendo, la loro credenza cresce. Non
si sanno fra loro accordare che fare si deggiano: i più savi, storditi
dell'avvenimento, hanno perduto il saper consigliare. Ma tra costoro così
pavefatti un giovane di maravigliosa grandezza e robusto e fiero nell'aspetto,
armato sopra un alto cavallo apparve fra loro, e con disusata voce incominciò
loro a dire:
«O
cavalieri, quale indugio è questo? Seguitemi con l'armi indosso, acciò che il
nostro Filocolo più tosto di paura del sopravenuto pericolo esca».
Costoro
d'una parte e d'altra d'ammirazione ripieni, udendo ricordare il nome di
Filocolo, così come i furiosi tori, ricevuto il colpo del pesante maglio, qua e
là sanza ordine saltellano, così costoro sanza memoria dolenti corrono alle
loro armi: Bellona presta maraviglioso aiuto a tutti. Dario, contento de'
pericoli per amore di Bellisano, sanza pensare a' ragunati beni o a sé quello
che avvenire possa, apparecchia a sé e a tutti cavalli di gran valore, e armato
con loro insieme monta a cavallo, e sanza modo ora qua ora là scorrendo fra la
folta gente, che a vedere correa, dietro all'armato campione si mettono con le
lance in mano: e venuti sopra il pieno prato veggono il fummo grande e il
circunstante popolo. Crede Ascalion veramente che in quello Filocolo e
Biancifiore sanza vita dimorino, ignaro del soccorso della santa dea, e,
cruccioso perché tardi gli pare esser venuto a tal soccorso dare, disidera di morire.
Egli si volta a' compagni e dice:
«Signori,
io credo che gl'iddii abbiano alle loro regioni chiamata l'anima di colui, per
cui debitamente il vivere ci era caro, e come voi potete vedere, in disonesto e
sconvenevole modo è stato di morire costretto. Io non so qual si sia il vostro
intendimento, ma il mio è di morire combattendo, acciò che parte della vendetta
della morte del mio signore adoperi. Io in niuna maniera intendo di riportare
al vecchio re sì sconcia novella, però se alcuno di voi più disidera di
rivedere Marmorina che questo intendimento seguire, torni indietro, mentre
licito gli è sanza danno: e chi in un volere è con meco, con ardito cuore
ferisca la nemica turba». A queste parole niun'altra cosa fu risposto se non:
«Noi
siamo tutti teco in un volere».
E
più avriano detto, ma il grieve dolore ristrinse la voce con amaro singhiozzo
nel suo passare: per che con focoso disio feriti i cavalli, e disposti a
morire, prima con le loro forze l'altrui morte e la loro vendicando, appresso
ad Ascalion se n'andarono verso il tenebroso fummo, dove il fiero giovane già
era fermato e confortavagli al loro intendimento. E quivi trovarono Ircuscomos
e Flagrareo costringenti il maladetto popolo alla morte de' due amanti.
[138]
Pingesi
avanti Ascalion e ficca gli occhi per l'oscurità del fummo, disiderando, se in
alcun modo esser potesse, di veder Filocolo, ma per niente s'affatica: per che
dirizzatosi sopra le strieve, vede i compagni pure a lui guardare. Ond'egli
recatasi la forte lancia in mano, e chiusa la visiera dell'elmo, e imbracciato
il buono scudo, ardendo tutto di rabbiosa ira, fra sé dice:
«O
graziosa anima, dovunque tu dimori, avendo in queste fiamme di Filocolo
lasciato il corpo, rallegrati, però che a vedere l'infernali fiumi gran
compagnia d'anime de' tuoi nemici ti seguirà, e poi quelle de' tuoi compagni,
de' quali niuno al tuo padre intende di rapportare novelle della tua morte.
Veramente, o anima graziosa, chiunque gliele dirà, con la tua morte la vendetta
fatta d'essa e le morti di noi tutti racconterà. Prestinci gl'iddii sì lunga
vita, che, prima che i nostri occhi si chiudano, noi veggiamo le nostre spade
tinte di ciascun sangue di qualunque ha nociuto a te, e poi ci facciano cadere
con loro insieme sanza vita nel sanguinoso campo: dove se mai chi ci uccida non
troveremo, noi con le nostre mani, per seguirti, la morte ci porgeremo».
E
questo detto, dirizzatosi verso Ircuscomos, il quale davanti a sé vedea,
gridando disse:
«Ahi,
crudel barbaro, oggi la tua crudeltà avrà fine: la tua morte sarà merito della
mia lancia!».
E
corsogli sopra, drizzata verso lui la lucente punta, il ferì nello scudo, sopra
'l quale quella si ruppe sanza offenderlo niente. Il barbaro, questo vedendo,
con altissime voci richiama la sparta masnada sopra i sette compagni, non
avendo ancora veduto l'ottavo: e sì come il porco poi che ha sentite l'agute
sanne de' caccianti cani, squamoso con furia si rivolge tra essi, magagnando
qual prima con la sanna giunge, così Ircuscomos rabbioso, con ispiacevole
mormorio, con una mazza ferrata in mano sopra il cavallo con tutta sua forza si
dirizzò per ferire Ascalion sopra la testa. Ma Ascalion, savio, lo schifa, e,
mentre che il peso del corpo tira Ircuscomos abasso, Ascalion, tratta la spada,
il fiere sopra il sinistro omero sì forte, che di poco non il braccio con tutto
lo scudo gli mandò a terra. Ircuscomos sente la doglia, e ricoverato il corpo,
fiere sì forte Ascalion sopra l'elmo, che, fatto di quello molti pezzi, lui
tutto stordito fé bassare sopra il collo del suo cavallo; ma poco stato,
tornato in sé, si levò più fiero. E come tal volta il leone, poi che 'l suo
sangue in terra vede, diviene più fiero, così Ascalion, divenuto più sopra il
barbaro animoso, con la spada in mano tornò verso lui, e dandogli più colpi,
uno con tutta sua forza ne gli diede dove ferito l'avea sopra l'omero altra
volta, e mandò in terra il braccio con tutto lo scudo. Il libiano, doloroso di
tale accidente, non però lascia di ferire Ascalion; ma egli spaventato del gran
colpo, gli altri sopra lo scudo riceve. Ma Ircuscomos già debile per lo perduto
sangue, vedendosi sanza scudo, volta le redine del destriere, e lasciando il
campo, verso Alessandria se ne fugge. Il romore per gl'incominciati colpi
multiplica: gli altri compagni d'Ascalion, poi che videro lui cominciare,
ciascuno, bassata la lancia, corre verso i nimici, e, per essemplo del vecchio
cavaliere, ciascuno vigorosamente combatte, e sanza alcuna paura di morire. Ma
Parmenione che con Flagrareo s'era scontrato, datisi due gran colpi
nell'affrontare, combatte maravigliosamente e punto non spaventato per la
fierezza del nimico, né della moltitudine circustante, con maestrevoli e forti
colpi il reca a fine, e semimorto quivi il lasciò davanti al fummo, correndo
agli altri. Bellisano, ormai anziano cavaliere, d'armi gran maestro e di
guerra, faceva mirabili cose. Egli, andando dietro ad Ascalion, quanti davanti
del misero popolazzo gli venieno, tanti n'uccideva o feriva, né alcuno a' suoi
colpi poteva riparare. Il duca dall'altra parte, scontratosi con un turchio
chiamato Belial, ferocissimo e di gran forza, combattea mirabilmente bene, ma
resistere non gli avria potuto, se non che venendo Menedon di traverso con una
scure in mano levata ad un cavaliere, che morto avea, quella alzando, sì forte
diede sopra la testa al turchio che feritolo a morte e storditolo, tutto sopra
'l collo del cavallo caduto stette grande ora, difeso da molti; ma poi
risentendosi, recatosi il freno in mano, e cominciando a fuggire tenne la via verso
il mare con molti altri, e seguiti dal duca e da Menedon, per tema de' mortali
colpi con tutti i cavalli fuggirono in mare, de' quali assai, credendo morte
fuggire, morirono. Messaallino e Dario erano più che gli altri vicini al fummo
venuti, correndo dietro a' due cavalieri; e incappati tra grande moltitudine
d'armati pedoni, quivi combattendo, furono loro uccisi i buoni cavalli: per che
rimanendo a piede, forte combattendo con la scelerata turba, di quelli intorno
a sé ciascuno avea fatto gran monte d'uccisi, sopra i quali saette e lance, in
grandissima quantità, quasi in forma di nuvoli si saria veduta continuamente
cadere. E ben che ciascuno de' sette mirabili cose facesse, di niuno fu
maraviglia il campare sanza morte quanto di questi due. Andavano adunque
combattendo i sette compagni valorosamente, più per vendicare la morte di
Filocolo e per morire, che per vaghezza d'acquistar vittoria. E già presso che
al loro intendimento venuti, avendone essi molti uccisi, e ciascuno debole e
stanco e in molte parti ferito, ognora più multiplicando il popolo e la
quantità degli armati cavalieri, si disponeano a rendere l'anime. Il feroce
iddio, che ciò conosceva, mossosi, dietro se li raccolse, e con veloce corso
intorniando il prato tutti e otto, col suo aspetto a qualunque era nel campo
tanta paura porse, che come a Noto, robustissimo vento, fugge davanti alla
faccia la sottile arena sanza resistenza, così a lui generalmente ogni uomo
fuggiva, trepidando la morte, non altrimenti che la timida cerbia veduto il fiero
leone.
[139]
Votasi
con grandissimo romore l'ampia prateria: niuna gente vi rimane, se non i
vincitori, o quelli i quali, morti o feriti, non hanno potenza di fuggire; né
alcuno ha ardire di più ritornare nel prato. Le lagrime delle vaghe giovani, che
pietose riguardavano dell'alta torre, crescono per l'uccisione, e con quelle la
loro speranza della salute di Biancifiore: e molte, non potendo sostenere di
vedere l'uccisione, se ne levano. Altre porgono pietose orazioni agl'iddii per
lo salvamento della picciola schiera: altra va e torna, altra alcuna volta non
si par te, disiderando di vedere la fine. I vittoriosi cavalieri s'accostano al
fummo dolenti della loro vittoria sanza morte, e, quella disiderando, niuno le
sue piaghe ristringe, ma riguardando per lo campo si maravigliano di ciò che
essi pochi hanno fatto, vedendo grande la moltitudine de' morti e de' feriti.
Ciascuno ringrazia il grande cavaliere, non conoscendolo per iddio, e di molte
cose il dimandano, ma esso a nulla né a niuno risponde. Ciascuno vorria vedere,
se possibile fosse, i busti de' corpi che essi morti estimavano. Alcuni di loro
diceano essere convenevole omai gittarsi vivi sopra il loro fuoco, acciò che
una medesima fiamma le ceneri di tutti raccogliesse in uno. Altri lodavano prima
a loro porgere sepultura, e poi sé ardere, dicendo che degna cosa non era le
loro ceneri con altre, che sì non si amassero, contaminare.
[140]
E
mentre che queste cose, disiderosi della loro morte, ragionavano, e tentavano
di vedere e di passare il fummo, il quale punto loro non si apriva, Filocolo,
il quale più volte per lo infinito romore avea della sua salute dubitato,
udendo costoro dintorno a sé ragionare, non però conoscendoli né intendendo ciò
che diceano, né potendogli vedere, sentendo il prato quieto e sanza alcun
romore, fuori che d'un picciolo pianto che faceano i feriti, con quella voce
più alta, che paura nel timido petto avea lasciata, così cominciò a dire:
«O
qualunque cavalieri che intorno a' miseri dimorate, di noi forse pietosamente
ragionando, quella pietà che di noi hanno avuta gl'iddii, entri negli animi
vostri: non siate tardi a mettere ad essecuzione quello che gl'iddii hanno
incominciato. Essi vogliono la nostra vita forse ancora cara al mondo. Noi vivi
nello oscuro nuvolo sanza niuna offesa dimoriamo, tenendo in mano ramo
significante pace, lasciato a noi da divina mano: passate adunque qui dove noi
siamo, e sciogliete i nostri legami, acciò che salvi dove voi siete, possiamo
venire».
[141]
Giungendo
questa voce agli orecchi di Ascalion e degli altri, i quali veramente la
conobbero, di tristizia gli animi subitamente spogliarono, di quella letizia
rivestendogli, che Isifile nel dolore di Ligurgo si rivestì co' riconosciuti
figliuoli. E Ascalion, prima che alcuno, rispose:
«O
fortunato giovane, il quale morto estimavamo, e per te noi tutti tuoi compagni
morire disideravamo, multiplica con la verità la nostra letizia e dinne per la
potenza de' tuoi iddii se tu se' vivo come ne parli, o se alcuno spirito,
volendoci dal fermo volere levare, parla per te nelle accese fiamme: acciò che,
se tu vivi, solliciti la tua salute cerchiamo, e se non, la proposta morte
prendiamo sanza più stare».
[142]
Conobbe
Biancifiore la voce del suo maestro e così rispose:
«O
caro maestro, rallegrati, e credi fermamente ciò ch'io ti parlo: il tuo Florio
e io viviamo nelle cocenti fiamme da niuna cosa offesi. Ond'io ti priego per
quello amore che già mi portasti, la nostra liberazione affretta, acciò che di
noi la paura si parta, e possiamo con voi di tale pericolo campati rallegrarci.
Io ardo più di vederti che non fanno le accese legne preste per li nostri
danni. Gl'iddii benivoli a noi ci hanno graziosa fortuna promessa per inanzi, e
sanza fallo salute: però il vivere vi sia caro».
[143]
Odono
Ascalion e i suoi compagni la voce della graziosa giovane, e riconfortati con
immenso vigore aspettano francamente qualunque novità, ragionando diverse cose
co' chiusi amanti, infino che altra cosa appaia, più nella pietà degl'iddii
omai sperando, che nelle loro forze.
[144]
Mentre
i cavalieri rallegrati ragionando si stanno accosto alla buia nuvola, la quale
in niuno modo cede a chi vuole oltre passare se non come un muro, levandosi da
dosso ciascuno le molte saette, di che più che dell'armi erano caricati, e
avendo cura e di loro e delle loro piaghe, le quali non medicavano, ma di
ristrignerie per meno sangue perdere s'ingegnavano, Ircuscomos col braccio
tagliato, e con molti altri feriti e non feriti pervennero all'amiraglio; a cui
Ircuscomos disse:
«Signore,
vedi come sopravenuti nimici n'hanno conci!». A cui l'amiraglio disse:
«Or
chi sono costoro, o quanti, o che domandano?».
Ircuscomos
rispose:
«Signore,
io non ne vidi se non forse sei o otto contra tutta la nostra moltitudine
combattenti, faccendo d'arme cose incredibili a narrare: chi essi sieno io non
so, né per che venuti, ma io estimo che per la salute del giovane, il quale io
credo che morto sia, venuti sieno».
«Come
credi che morto sia, - disse l'amiraglio, - non l'hai tu veduto? Egli è sì
grande spazio, che voi li metteste nel fuoco per mio comandamento!».
«Certo
- rispose Ircuscomos - mirabil cosa de' condannati è similemente avvenuta, che
non fu più tosto il fuoco acceso, che il fummo si rivolse tutto a noi, e sanza
salire ad alto, sì come sua natura li sortì, quivi dintorno ad essi si fermò,
e, come fortissimo muro, a uomini, a saette e a lance privò il passare dentro
a' due, e similemente il potere essere veduti: dintorno al quale dimorando noi,
ingegnandoci di nuocere a coloro che dentro v'erano, sopravennero coloro che
così n'hanno conci, come parlato v'abbiamo. Egli è con loro un uomo di
smisurata grandezza, il quale con la sua vista spaventa sì chi 'l vede, che
ciascuno piglia la fuga sanza volervi più tornare. E brievemente io non credo
che nella gran prateria sia alcuno rimaso, se non morto, de' quali gran
quantità credo che v'abbia; e de' condannati quello che se ne sia, dire non vi
so più inanzi».
[145]
L'amiraglio
ascolta queste cose, e infiammasi, udendo, d'ardentissima ira. E poi che
Ircuscomos tacque biasimando il vile popolo e' molti cavalieri, turbato si leva
del loro cospetto, e andando sanza riposo per la sua camera torcendosi le mani
e strignendo i denti, giura per gli immortali iddii di far morire gli
assalitori de' suoi cavalieri. E uscito fuori, con fiera voce comanda ogni uomo
essere ad arme, e sanza indugio seguirlo. Egli s'arma e monta sopra un forte
cavallo; e Alessandria tutta commossa, e ciascuno sotto l'armi, chi lieto e chi
dolente, chi a piè e chi a cavallo, ciascuno il seguita, e furiosi ne vanno
verso il prato, faccendo con diversi romori di trombette, di corni e d'altri
suoni significanti battaglia e con voci tutto l'aere risonare. E pervenuti
vicini al prato, già quasi essendo per entrarvi dentro, niuno cavallo era che a
forza del cavalcante non voltasse la testa, e quasi sanza potere essere
ritenuto, fino alla città tornava correndo. A ciascuno uomo così s'arricciavano
i capelli in capo, come suole fare al ricco mercatante nelle dubbiose selve,
poi che i ladroni con l'occhio ha scoperti. Niuno avea ardire di passare in
quello: tutti hanno paura e niuno sa di che. Ciascuno, stato infino a quel
luogo fiero e ardito al venire, pauroso, disidera di tornarsi adietro.
L'amiraglio fremisce tutto, e con minacce e con percosse s'ingegna di pingere
avanti i suoi dicendo:
«O
gente villana, qual paura è questa? Chi vi caccia? Temete voi sei cavalieri?».
Le
sue parole sono udite, ma non messe ad effetto. Le percosse ciascuno fugge, e
le minacce meno che la non conosciuta paura temono. Maravigliasi l'amiraglio di
tanta viltà. Domanda la cagione di tanta paura: niuno gliele sa dire, ma tutti
temendo rinculano. Tra'si avanti l'amiraglio, e comanda d'esser seguito: viene
in su l'entrata del prato, e più ch'alcuno degli altri pavido volta le lente
redine del corrente destriere, né egli medesimo conosce perché. Molte volte
ripruova sé e fa riprovare i suoi; ma nulla è che più avanti passare si possa
che i termini del prato, segnati ne' confini della via entrante in quello. Con
maraviglia comincia l'amiraglio a essaminare nella mente quello che da fare
sia, o perché ciò avvenire possa. Niuno avviso trova, per lo quale il suo avviso
si possa fornire: e subitamente muta pensiero, e fra sé dice:
«Io
operai male dannando i due giovani a morte villana sanza intera notizia di loro
avere. Che so io chi e' si sieno? E' poriano essere tali che gl'iddii per loro
fanno queste cose: né altramente poria essere, che sanza volontà loro tanto
popolo e cavalieri da sei o da otto fossero messi in fuga, e tanti quanti noi
siamo li temessimo. Veramente io credo che agl'iddii spiaccia ciò che di loro
feci, e che essi sieno pronti alla loro vendetta».
[146]
Propone
adunque l'amiraglio d'andare con segno di pace a' vittoriosi cavalieri, se egli
potrà, e dimandarli di loro condizione e domandare la loro pace, se concedere
gliela vorranno; e se i due amanti non saranno morti, di trarli di quel pericolo,
e in ammenda della vergogna, onorarli sopra i maggiori del suo regno: e così
com'egli divisa, così mette ad effetto. Egli si fa disarmare, e vestito di
bianchi vestimenti e sottili, si fa recare un ramo d'uliva, e salito a cavallo,
con quello in mano, tenta di passare nel prato tutto solo. Il passarvi gli è
largito, ma non sanza alcuna paura; e pervenuto davanti a' cavalieri che a
cavallo incontro gli venieno, maravigliandosi vede con loro lo spaventevole
giovane: e certo Filocolo non ebbe maggior paura di morire veggendo intorno a
sé le fiamme accese, che ebbe l'amiraglio vedendosi colui presso. Egli con
umile e con tremante voce cominciò loro così a dire:
[147]
«O
chi che voi vi siate, vittoriosi cavalieri, vendicatori per la vostra pietà
della villana morte de' due giovani, contro a' quali io sanza ragione fui
crudele, gl'iddii, i quali sanza dubbio favorevoli a voi conosco, in meglio
avanzino i vostri disii. Io con segno di pace in mano vengo per quella a voi,
a' quali guerriere mai non saria stato se conosciuti v'avessi per adietro, come
ora conosco: piacciavi di concederlami. Voi avete tanti de' miei cavalieri
morti, che degnamente è vendicata la morte degli arsi giovani, se vostra cosa
erano e se per vendicare quelli, qui veniste, com'io credo; e ciò si vede, ché
'l prato, pure stamane tutto verde, ora vermiglio e pieno di morti e di feriti
discerno, e 'l mare ancora per paura di voi tiene parte della mia gente
annegati. E con tutto questo, se di costoro la morte per li morti non fosse
ammendata, vaglia la mia umiltà il mancamento della vendetta. Gl'iddii
perdonano agli uomini, e voi per essemplo di loro ne perdonate».
[148]
Rispose
Ascalion all'amiraglio:
«Veramente
l'ira degl'iddii merita chi pace rifiuta per avere guerra, dove meritevolemente
può pace cadere. Noi, vaghi della salute de' due giovani, qui venimmo, e
trovandogli in modo che morti gli credevamo, per morire e per vendicarli
combattemmo. Ma gl'iddii a loro e a noi graziosi, loro e noi da morte con
vittoria ci hanno salvati in vita: essi nelle fiamme vivono sanza alcuna
offesa. E se noi tanta gente abbiamo morta e loro riabbiamo vivi, di ciò niuna
mala volontà ci dee da te essere portata, anzi ne puoi molto essere contento,
pensando che l'ira degl'iddii, la quale giustamente dovea sopra te cadere per
la tua ingiustizia, è sopra parte del tuo popolo caduta. Sia adunque ciò che
fatto avemo in luogo di punizione del tuo fallo, ch'avesti ardire gli amici
degl'iddii tentare d'uccidere con fuoco. Ora quello ch'è fatto adietro non può
tornare. Tu cerchi la nostra pace e la tua ci profferi: noi la ti doniamo, e tu
prendi la nostra, e sicuro vivi, e di tanto ti facciamo certo, che, se morti
fossero i due giovani, tu morresti, e la tua città, assalita da noi con fuoco,
saria consumata, e da noi uccisi tutti coloro che giunti fossero, mentre la
vita e la potenza ne durasse. Va adunque, e coloro cui tu facesti legare fa
sciogliere, e della infamia, in che per la tua ingiusta opera sono corsi, in
vera fama li fa ritornare, e pensa di chiara e intera pace servare, se l'ira
degl'iddii e la nostra non vuogli guadagnare».
[149]
Di
ciò che Ascalion dice, si maraviglia l'amiraglio, e dubita forte, udendo le sue
parole, che pace non gli sia rotta, e promette loro con ferma intenzione, per
gli suoi iddii, servarla a loro. E poi che con amichevoli parole fra l'una
parte e l'altra hanno pace fermata, l'amiraglio, che sanza modo del miracolo
degl'iddii si maravigliava, vedendo il fummo e udendo parlare coloro cui morti
credea, chiamò a sé molti de' suoi, a' quali disarmati fu licito di potere a
lui venire, a' quali egli comandò che ogni ingegno adoperassero che il fummo
rompessero e passassero in quello, e i giovani sciogliessero. I quali, lieti
tutti della vita di Biancifiore, apparecchiandosi d'ubidire al comandamento,
niuno loro ingegno o forza fu necessaria, ché Venere solvé la durezza del
fummo, e quello, spandendosi, se ne salì in aere, lasciando i giovani,
intorniati dagli accesi tizzoni, tutti al popolo scoperti: e tirate le brace
indietro, con diligenza furono disciolti, e tratti quindi così freschi come
rugiadosa rosa colta nell'aurora. Niuna cosa li avea offesi, fuori che alquanto
i legami, de' quali ancora i segnali nelle dilicate carni si pareano. Elli fu
loro di presente porti preziosi vestimenti, e Ascalion, e 'l duca, e Parmenione
e gli altri, smontati de' deboli cavalli, infinite volte abbracciandoli, e
pensando al gran miracolo, appena loro gli parea aver salvi, pur domandando se
alcuna cosa loro nociuto avesse. A costoro solamente Biancifiore, che di buono
amore li amava, rispondea, e con loro parlando e per pietà lagrimando, non
avendogli di gran tempo veduti, facea festa, faccendosi maraviglia della loro virtù,
vedendo il prato pieno di morti e di feriti. Furono loro apprestati i cavalli,
e montati sopr'essi, l'amiraglio disse:
«Se
vi piace, partianci da questi pianti e nella città andiamo a far festa,
rallegrandoci di tanta grazia, quanta dagl'iddii possiamo riconoscere d'avere
questo dì ricevuta».
[150]
Seguesi
il consiglio dell'amiraglio, e cavalcano tutti insieme, e quelli strumenti che
con guerreggevole voce uscirono della città, mutati in segno di letizia
precedendoli gli accompagnano. Biancifiore cavalca con Ascalion e con gli altri
compagni, e con loro de' suoi infortunii va ragionando, ora parlando con l'uno,
ora con l'altro: e essi contano a lei de' loro insieme avuti con Filocolo.
L'amiraglio appresso costoro cavalca con Filocolo, e riguardandolo nel viso e
notando gli atti suoi, nel cuore nobilissimo e d'alta progenie lo estima; e
maravigliandosi di tante cose quante vedute avea quel giorno, e vedendo per
cui, arde di disiderio di sapere chi egli sia; per che a Filocolo così cominciò
a dire:
«O
giovane, il quale più che altro puoi vivere contento, considerando alla
benevolenze degl'iddii, la quale intera possiedi, secondo il mio parere, io ti
priego per quel merito che tu dei loro di tanto dono, quanto oggi t'hanno
conceduto, che obliando la crudeltà che verso di te, non conosciuto da me, oggi
ho usata, che ti piaccia di dirmi chi tu se', e onde, e come a questa giovane
nell'alta torre salisti. E di ciò contentarmi non ti può nuocere, né cagione
alcuna spaventarti, però che vedendo la benivolenzia degl'iddii tanta verso di
voi, ogni ingiuria a me fatta ho perdonata, e buona pace tra te e' tuoi
compagni e me è fermata. Adempi adunque per la tua nobiltà il mio disio».
[151]
Filocolo,
udite le parole dell'amiraglio, pensa un poco, e prima che risponda, essamina
quello che convenevole sia da dire, e che da tacere, e conosce omai convenevole
l'essere conosciuto, poi che acquistata ha colei per cui il suo nome celava, e
così gli risponde:
«Signore,
niuna paura mi farà tacere la verità a voi disiderante di sapere chi io sia, e
però che vi sia più caro che io viva che se io fossi morto, più volentieri vel
dirò. Siavi adunque manifesto che io mi chiamo Florio, e per tema della fama
del mio nome, divenuto pellegrino d'amore, in Filocolo il trasmutai, e così ora
m'appellano i compagni, e sono nipote d'Atalante sostenitore de' cieli, al
quale Felice re di Spagna mio padre fu figliuolo. E dalla mia puerizia
innamorato di Biancifiore, discesa dell'alto sangue dell'Africano Scipione,
nata nelle nostre case, come fortunoso caso volle, essendo ella falsamente, e
di nascosto a me, venduta e qui recata, infino in questo luogo mediante molti
avversi casi l'ho seguita. E sappiendo che nella gran torre dimorava, né
potendo a lei in alcun modo parlare o vederla, avendo le condizioni della torre
interamente spiate, ammaestrato dalli ingegni della mia madre, a mio padre di
questi paesi venuta, a cui gl'iddii ciò che seppe Medea hanno dato a sapere, in
quella forma che Giove con Asterien ebbe piacevole congiugnimenti, mi mutai, e
in quella torre volai, e lei dormendo, tornato io in vera forma, nelle braccia
mi recai, la quale, svegliata, lungamente a rassicurare penai, tanto la vostra
signoria dottava, non ancora così subito riconoscendomi. La quale, poi che
conosciuto m'ebbe, davanti la bella imagine del mio signore, che sopra l'ignea
colonna nella gran camera dimora, di lui faccendo Imineo, per mia sposa con
letizia la sposai, e con lei, dalla notte passata avanti a questa, infino a
quell'ora dimorai che stamattina lo sconcio popolo sopra mi vidi legarmi con
lei, quando io mi destai».
[152]
Quando
l'amiraglio udì ricordare il re Felice e dire: "la mia madre venne al mio
padre di questi paesi", rimirò Filocolo nel viso e disse:
«Ahi,
giovane, non m'ingannare, scuopramisi la verità intera, come promettesti, e se
tu se' figliuolo di colui cui conti, accertamene con giuramento».
A
cui Filocolo disse:
«Signore,
per dove re de' vostri regni la corona ricevere, io non vi narrerei se non la
verità, e giurovi per la potenza degl'iddii, che oggi delle vostre mani sanza
morte m'hanno tratto, ch'io sono di colui figliuolo, di cui io vi parlo».
L'amiraglio
non aspettando più parole, lieto sanza comparazione, così a cavallo com'era,
abbracciò Filocolo, e baciollo centomila volte:
«O
caro nipote! O gloria de' parenti miei! O spettabile giovane, tu sii il ben
venuto. Io, fratello alla tua madre, non conoscendoti, oggi t'ho tanto offeso!
Oh, che maladetta possa essere la mia subitezza! Oimè, perché avanti il subito
comandamento non ti conobbi io? Tu saresti stato da me onorato, sì come degno.
Io ho fatta, per ignoranza della tua grandezza, cosa da non dovere mai essere
dimenticata né a me perdonata. Io non sarò mai lieto qualora di questo accidente
mi ricorderò. Io posso dire che io più ch'altro uomo dagl'iddii era amato, se
io avanti all'offesa t'avessi conosciuto, ben che assai di grazia m'abbiano
conceduta, avendo per la loro pietà tornata indietro tanta mia iniquità,
campandoti. Tu mi sei più che la propia vita caro. Ma certo del mio fallo parte
a te si dee apporre, però che, se tu quando qui venisti, mi ti fossi palesato
come dovevi, tu, fuggendo la ricevuta avversità, avresti il tuo disio avuto
sanza fatica e sanza alcun pericolo: tu saresti da me stato onorato sì come tu
meritavi. L'occultare del tuo nome, e di te a me, e la mia subita iniquità,
m'hanno fatto contro a te villana crudeltà usare. Alla quale emendare,
considerando chi tu se', io non conosco la via: sola la tua benignità priego che
tanta cosa metta in oblio, sopra di me sodisfaccendo ogni male commesso. E da
quinci inanzi, di me e del mio regno, secondo il tuo piacere, disponi, e
dell'acquistata giovane co' pericoli e con gli affanni, così come il disio ti
giudica, ne sia. La quale, avvegna che io per adietro assai ho onorata, molto
più, pensando a' suoi magnanimi antichi, se conosciuta l'avessi, onorata
l'avrei, ben che nimici grandissimi fossero a' nostri per lo loro comune».
[153]
Non
fu meno caro a Filocolo dall'amiraglio essere per parente riconosciuto, che
all'amiraglio fosse; e faccendogli quella festa che a tanto uomo si convenia,
gli cominciò a dire:
«Signore,
di ciò che oggi è avvenuto non voi siete da incolpare, ma io solamente, il
quale presuntuoso oltre al dovere, non conoscendovi, tentai le vostre case
contaminare. La fortuna nell'ultima parte delle sue guerre m'ha con debita
paura sotto la vostra potenza voluto spaventare, e gl'iddii nel principio de'
miei beni con sommo dono m'hanno voluto dare speranza a maggiori cose. A me non
è meno caro con tanti e tali pericoli avere Biancifiore racquistata, poi che
sani e salvi siamo, ella e io e i miei compagni, che se con più agevole via
racquistata l'avessi. Le cose con affanno avute sogliono più che l'altre
piacere: e però a tutte queste cose considerando, sanza più delle passate
ricordarci, faremo ragione come se state non fossero, e delle nostre prosperità
facciamo allegra festa».
Consente
l'amiraglio che così sia, e dimanda dello stato del vecchio re e della sua
sorella e di Filocolo madre. Filocolo gli risponde lungo tempo esser passato
che di loro niuna cosa avea udita; ma, come dolorosi della sua partita gli avea
lasciati, gli racconta. Appressansi a questa festa i compagni di Filocolo, e
l'amiraglio conoscendolo per ziano di Filocolo, come signore onorano, e egli
loro come fratelli riceve, e a Biancifiore con riverente atto delle passate
cose cerca perdono, profferendolesi in luogo di fratello in ciò che fare
potesse che le piacesse. Ella per vergogna il candido viso, nel quale ancora
vivo colore tornato non era per la passata paura, dipinse di piacevole
rossezza, ringraziandolo molto e dicendo che, appresso Filocolo, per signore il
tenea. E con questi ragionamenti e con altri lieti pervengono alla città.
[154]
Entrano
costoro con letizia in Alessandria, e pervenuti alla real corte, scavalcano, e
salgono nella gran sala, e quivi truovano Sadoc e Glorizia legati e fare
grandissimo pianto. Costoro avea l'amiraglio fatti prendere, per sapere da loro
come Filocolo a Biancifiore salito fosse, e per farli poi, se colpevoli fossero
stati, vituperosamente morire: e già fatto l'avria, se il subito furore preso
per le parole d'Ircuscomos, non fosse sopravenuto. I quali vedendo, Filocolo,
mosso a debita pietà de' loro pianti, per loro priega, e di grazia domanda che
se in alcuna cosa avessero offeso, sia loro perdonato, sembianti faccendo di
non conoscerli. All'amiraglio piace, e sanza niuna disdetta fattigli
disciogliere, comanda che con loro insieme si rallegrino, vivendo sanza alcuna
paura. Cominciasi la festa grande: i due amanti di reali vestimenti sono
incontanente rivestiti. E cercando già Febo di nascondersi, declinando dal
meridiano arco, e essi ancora digiuni, con gli altri compagni, i quali tutti
con preziosi unguenti aveano le loro piaghe curate, pigliano i cibi, e con
graziosi ragionamenti infino alla notte trapassano. E quella sopravenuta,
apparecchiata a Filocolo e a Biancifiore una ricca camera, vanno a dormire, e
il simigliante fa ciascuno degli altri, e l'amiraglio.
[155]
Le
notturne tenebre, dopo i loro spazii, trapassano, e Titan, venuto nell'aurora,
arreca il nuovo giorno. Levan si gli amanti, e l'amiraglio e Ascalion e' suoi
compagni: e venuti nella presenza di Filocolo, Filocolo domanda da potere
sacrificare, però che avanti a tutte l'altre cose vuole i voti e le promessioni
fatte persolvere. Piace all'amiraglio, e le necessarie cose s'apprestano.
Visita adunque Filocolo per Alessandria tutti i templi, e quelli di mortine
incorona. Egli a Giunone uccide il tauro e a Minerva la vacca e a Mercurio il
vitello; a Pallade le sue ulive e a Cerere frutta e piene biade, e a Bacco
poderosi vini, e a Marte egli co' suoi compagni offerano le penetrate armi, e a
Venere e al suo figliuolo, e a qualunque altro dio o dea celestiale o marino o
terreno o infernale offera degni doni, sopra gli altari di tutti accendendo
fuochi; e 'l simigliante fa Biancifiore, e Ascalion e i suoi compagni, e con
loro l'amiraglio e molti cittadini, solvendo infinite promissioni fatte a
diversi iddii per la salute di Biancifiore. Adempiute le promissioni fatte da
Filocolo e da Biancifiore la notte del loro lieto congiugnimento, contenti
tornano alla real casa da molti accompagnati, dove riposati con festa
s'assestano alle tavole poste, e prendono gli apparecchiati mangiari, con
l'amiraglio insieme.
[156]
Fatti
i sacrificii e presi i cibi, l'amiraglio chiama in una camera Filocolo e' suoi
compagni, e quivi con molte parole esprime l'affettuoso amore che a Filocolo,
come a caro parente, porta. Ultimamente il dimanda se suo intendimento è per
vera sposa Biancifiore tenere. A cui Filocolo risponde sé mai altro non avere
disiderato che Biancifiore per isposa: la quale poi che gl'iddii conceduta
gliel hanno, mentre l'anima col corpo sarà congiunta, altra che lei avere non
intende. L'amiraglio, che più per contentarlo che per riprenderlo dimorava,
loda il suo piacere, e dice:
«Non
è convenevole cosa che sì alta congiunzione furtivamente sia stata fatta: e
però, quando di voi piacere sia, narrando prima a' nostri suggetti la tua
grandezza, i quali forse si maravigliano dell'onore ch'io ti fo, in cospetto di
loro la sposerai, e con quella festa che a tante sponsalizie si conviene,
lietamente le nozze celebreremo».
[157]
A
Filocolo e a' compagni piace tale diviso, e di ciò fare nello albitrio
dell'amiraglio rimettono, il quale volonteroso d'onorare Filocolo, comanda che
i morti corpi sieno levati della gran prateria, e data loro sepoltura;
«ciascuno, lasciando ogni dolore, s'apparecchi a fare festa».
E
dà il giorno a' suoi popoli, nel quale tutti nella gran prateria vegnano, acciò
che la cagione della comandata festa a tutti si manifesti. Vanno adunque i
parenti de' morti nel sanguinoso prato, e a' tristi busti con tacito pianto
danno occulti fuochi la vegnente notte, e poi debita sepoltura. E' feriti da
scaltriti medici sono aiutati, mettendo per comandamento del signore le
ricevute offese in non calere.
[158]
Il
giorno dato viene, e il vermiglio prato ritornato verde riceve la moltitudine
de' nobili e del popolo sopravegnente in quello. L'amiraglio, che con discreto
stile avea ordinata l'alta festa, vestito di reali vestimenti e coronato d'oro,
e con lui in simile forma Filocolo e Biancifiore, discende nella gran corte: e
saliti sopra i gran cavalli tutti e tre, e accompagnati da' più nobili, con
canti e con graziosi suon se ne vengono al prato pieno di gente. E quivi
smontati da cavallo e saliti tutti e tre in parte che da tutta poteano essere
veduti, Filocolo alla destra mano e Biancifiore alla sinistra dell'amiraglio,
l'amiraglio, dirizzato in piede, diede segno di voler parlare, con la mano
comandando il tacere.
[159]
Tacque
ogni uomo, e con riposato silenzio si diede ad ascoltare l'amiraglio, il quale
così cominciò a dire:
«Signori,
la non stabile fortuna diede co' suoi inoppinati movimenti che Biancifiore,
nobilissima giovane, dell'alto sangue di Scipione Africano discesa, da noi da
poco tempo in qua conosciuta, nascesse nelle reali case del gran re Felice,
degli spagnuoli regni gastigatore, in uno medesimo giorno con Florio qui di lui
figliuolo e a me caro nipote, della quale egli ancora ne' puerili anni, sì come
gl'iddii delle cose che avvengono consenzienti, innamorò. Al cui amore, avuta
da' contrarii fati invidia, fu con gran sollecitudine cercato di porre fine,
dubitando di non pervenire a quello che i movimenti celestiali, secondo alcuni,
avvegna che non savi, incessabili, gli hanno ultimamente condotti, egli, per
fuggire questo, dando fede al sottile inganno fatto per alcuno, che oltre al
dovere l'odiava, consentì che al fuoco dannata fosse; dove ella pervenuta, e di
sua salute incerta, fu dagl'iddii e da costui con mirabile aiuto soccorsa e
levata da tale pericolo. La qual cosa vedendo, il re, acciò che quello che pur
volea fuggire non gli seguisse, lei, moltitudine di tesori venduta a'
mercatanti, diede ad intendere essere morta, la quale Florio, uccidendosi,
s'avea proposto di seguitarla: ma, la verità narratagli dalla madre, a me
carnale sorella, rimase in vita. Ella fu qui da' mercatanti recata, e da me,
per donare al Soldano, tesori sanza numero comperata; e qui da lui, molti
pericoli medianti, seguita, con sottile ingegno s'argomentò di congiungere
quello che 'l padre con tanti avvisi avea voluto dividere. E andato per
artificio mai non udito a lei nell'alta torre, con lei il trovai dormendo, e
mosso a subita ira, quasi con la mia spada non gli uccisi; ma gl'iddii, a cui
niuna cosa s'occulta, conoscendo che ancora da loro gran frutto dovea uscire,
li difesero dal mio colpo. Ma non però mancata la mia ira, con furore li
giudicai come vedeste; e quanto gl'iddii gli aiutassero, ancora vi fu
manifesto. Venuti adunque per tante avversità e per sì fatti pericoli com'io
v'ho narrato, aiutati in tutto dagl'iddii, disiderano sotto la nostra potenza
di congiugnere quell'amore che insieme si portano per matrimoniale legame. Alla
qual cosa, conoscendo noi che degl'iddii è veramente piacere, abbiamo voluto
che voi siate presenti, e rallegrandovi di ciò che gl'iddii si rallegrano,
ciascuno secondo il suo grado faccendo festa li onori, considerando che l'uno
figliuolo è di re, e la sua testa è a corona promessa, l'altra d'imperiale
sangue è discesa».
Tacque
l'amiraglio, e le trombe e molti altri strumenti sonarono, e le voci del popolo
grandissime nelle lode dell'amiraglio e de' novelli sposi toccarono le stelle.
[160]
Mancati
i romori e riavuto il silenzio, vennero i sacerdoti con vestimenti atti a'
sacrificii, e recate le imagini de' santi iddii nella presenza dell'amiraglio e
de' novelli sposi e di tutto il popolo, coronati di liete frondi, invocando
prima con pietose voci Imineo e la santa Giunone e qualunque altro iddio, che
grazioso principio, mezzo e fine dovessero concedere al futuro matrimonio, e
con etterna pace e in unità tenerli congiunti, la seconda volta l'anello fecero
dare a Biancifiore: e sonati varii strumenti e molti canti, di festevole romore
riempierono l'aere.
[161]
Cominciasi
la festa grande, e lo sconfortato popolo si comincia a rallegrare, contento che
tanto uomo sia per l'aiuto degl'iddii da sì turpe morte campato. Niun tempio è
sanza fuoco. Niuna ruga è scoperta, ma tutte, di bellissimi drappi coperte, e
d'erbe e di fiori giuncate, danno piacevole ombra. Niuna parte della città è
sanza festa, e infino al prato niuno poria un passo muovere sanza avere di gran
quantità di festanti graziosa compagnia. Ordinansi giuochi, e molte compagnie
sotto diversi segnali fanno diverse feste. I mangiari copiomente dati danno
materia di più festa. L'amiraglio per amore di Biancifiore comanda che alle
vaghe donzelle, alle quali mai non fu licito uscire, la torre sia aperta, e che
esse liete vengano con la loro compagna a festeggiare. Discendono tutte, e date
le destre a Biancifiore, con lei si rallegrano, dandosi lieti baci in segnale
di vero amore. La festa multiplica nel prato, e gli amorosi canti e' diversi
suoni occupano che alcun'altra cosa vi si possa udire. È adunque quel luogo,
che alla loro morte poco davanti fu statuito, ora ad essaltamento della loro
vita diterminato. Quel luogo, ove ardente fuoco per consumarli era acceso, ora
d'odoriferi liquori tutto inaffiato porge diletto a' festeggianti. Quel luogo,
ove pochi giorni inanzi gli uomini armati la morte l'uno dell'altro cercavano,
ora pieno di pace, di concordia e d'allegrezza vi si festeggia. Quel luogo, che
poco inanzi era pieno di sangue e d'uomini morti e di pianti, ora di canti e di
lieti suoni e di festanti uomini e donne si sente risonare. Rivolto ha ogni
cosa in contrario la mutata fortuna: le molte damigelle, che davanti per la
morte di Biancifiore piangeano, ora cantando della sua vita si rallegrano. Che
più brievemente si può dire, se non che: "Chi ha il male se 'l
piagne"? E gli altri, come se stato non fosse niente, con intero animo
festeggiano, dilettandosi di piacere a' novelli sposi e d'onorarli.
[162]
Questo
giorno servirono alla mensa de' novelli sposi nobili baroni e assai: nel quale
Ferramonte, duca di Montoro, ricordandosi d'aversi vantato al paone di dovere
Biancifiore, il giorno della festa delle sue nozze, della coppa servire,
all'amiraglio cotal dono di grazia dimandò e fugli conceduto; per che quel
giorno e quanto la festa durò, graziosamente di tale uficio con reverenzia la
servì. A quella mensa furono molti grandi e alti presenti da parte
dell'amiraglio e di Dario e d'altri grandi uomini del paese portati, e da parte
di Sadoc la gran coppa con quelli bisanti e con molti altri gioielli fu recata:
di che Filocolo e lui e gli altri ringraziò debitamente, e a tutti doni alla
loro grandezza convenevole donò.
[163]
Già
il sole minacciava l'occaso, quando all'amiraglio e a Filocolo parve di tornare
alla città; ma Parmenione che d'adestrare Biancifiore a casa del novello sposo
s'era al paone vantato, non essendogli uscito di mente, vestito con Alcipiades
figliuolo dell'amiraglio, e con alcuni altri giovani nobili della città, di
drappi rilucentissimi e gravi per molto oro, al freno di Biancifiore vennero, e
quella infino al real palagio adestrandola accompagnarono, dove ella, con festa
tale ch'ogni comparazione vi saria scarsa, fu ricevuta.
[164]
Menedon
che la sua promissione non avea similemente messa in oblio, dimandati
all'amiraglio compagni, e da lui molti nobili giovani della città ricevuti, con
varii vestimenti di seta sopra i correnti cavalli, di simile vesta coperti, più
volte mentre la festa durò, quando con bigordi e quando con bandiere, i
cavalli, tutti risonanti di tintinnanti sonagli, armeggiando, onorevolemente la
festa essaltò. Ma Ascalion volonterosamente il suo voto avria fornito, ma, non
guarito ancora delle ferite ricevute alla passata battaglia, alla gran pruova,
di che vantato s'era, non avria potuto resistere: però, comandandolo
Biancifiore, se ne rimase. E Messaallino similmente, lontano a' suoi regni, non
poté il suo vanto allora adempiere, ma riserbollo a fornire nella loro tornata
a Marmorina.
[165]
Contenti
adunque Filocolo e Biancifiore della mutata fortuna, nella gran festa più
giorni lieti dimorarono, ringraziando con pietose lode gl'iddii che da gran
pericoli a salutevole porto gli avean recati e posto aveano alle loro fatiche
fine, disiderando di tornar omai lieti al vecchio padre.
LIBRO
QUINTO
[1]
Aspro
guiderdone porgevano i cieli sopra i parenti di Filocolo per le loro
operazioni. Essi, per la sua partita rimasi con dolore inestimabile, spendevano
i loro giorni in lagrime e in prieghi: la superflua malinconia di loro medesimi
fa loro perdere ogni sollecitudine. I reali visi con miserabile aspetto
mostrano avere la dignità perduta. I pianti hanno inasprite le guance, e il
dolore ha congiunta la dolente pelle con l'ossa; e i capelli e la barba, più
bianchi che non soleano, danno de' pensieri e degli affanni convenevoli
testimonianze; e i vestimenti oscuri, portati più lunga stagione che la loro
grandezza non dava, non lasciava loro né altri rallegrare. Essi, ben che col
corpo ne' loro palagi dimorassero, seguivano con la mente il caro figliuolo,
faccendo del suo cammino diverse imaginazioni, sempre temendo. Né udivano
alcuna novella d'alcuna parte, che essi di lui non dubitassero: e gl'infiniti
pericoli ne' quali i pellegrinanti possono incappare, tutti per lo petto loro
si rivolgeano, con paura non forse in alcuno incappasse il loro Filocolo;
similemente dubitando del luogo dove la sua Biancifiore ritrovasse, non forse
fosse tale che grave danno ne gl'incorresse, o che, non potendola riavere, di
dolore morisse, o disperato a loro mai non reddisse: e quasi di lui sanza
alcuna speranza di bene viveano, vedendo o con la imaginazione o per visione
quasi ciò che nel suo cammino gli avvenne. E questo consentivano gl'iddii,
perché più multiplicando il loro dolore, più fossero degnamente della loro
nequizia puniti. E a questa miseria e doglia aveano per compagnia tutto il loro
reame, il quale, in desolazione dimorando, dubitavano della morte del vecchio
re, non sappiendo che consiglio pigliarsi dopo quella, per la vedova corona,
poi che loro perduto parea avere Filocolo.
[2]
Era
già il decimo mese passato, poi che Filocolo ricevuto avea per sua la disiata
Biancifiore, e 'l dolce tempo tornato cominciava a rivestire i prati e gli
alberi delle perdute frondi, avendo Delfico toccato il principio del Montone,
quando a Filocolo tornò nella memoria l'abandonato padre e la misera madre, e
fu di loro da degna pietà costretto. Egli vide il tempo grazioso a navicare,
propose di tornare a rivederli con la cara sposa, e rendere loro con la sua
tornata la perduta allegrezza. Nel qual proponimento dimorando, un giorno a sé
chiamò l'amiraglio e Ascalion e gli altri suoi compagni e amici, e il suo
proponimento a tutti fece palese. I compagni il lodano, ma all'amiraglio, che
di buono amore l'amava, pare grave tale ragionamento, pensando che,
acconsentendolo, la partita di Filocolo ne seguiva. Rispondeli così:
«Ogni
tuo piacere m'è a grado, ma dove esser potesse, assai mi saria il tuo rimanere
più grazioso, avvegna che a tanto uomo io non sia possente di dare onorevole
grado quale si converria, ma quello ch'io posso, sanza infingermi, volentieri
doneria».
A
cui Filocolo rispose:
«Io
non dubito che più ch'io sia degno non sia da voi onorato, ma il conosco, e
sentomene obligato sempre a voi; e dove e' non fosse il debito amore che mi
strigne di rivedere i vecchi parenti, e con la mia tornata a loro rendere la
perduta consolazione, e similemente visitare i miei regni, i quali sanza
conforto stanno, credendomi aver perduto, io in niuna parte volentieri
dimorerei come in queste, e massimamente con voi, da cui, appresso agl'iddii,
la vita, l'onore e 'l bene e la mia Biancifiore, la quale io sopra tutte le
cose disiderai e amo, riconosco».
«Adunque
- disse l'amiraglio - il vostro piacere farete, e non che a questo io vi
storni, ma confortare vi deggio, e così farò: omai giusta cosa è che delle sue
cose ciascuno si rallegri più che gli strani».
Disse
adunque Filocolo:
«Comandate
che la nostra nave sia racconcia, acciò che, quando i venti al nostro viaggio
saranno, possiamo con la grazia degl'iddii intendere al navicare».
[3]
Poi
che l'amiraglio vide la volontà di Filocolo, egli comanda che la sua nave sia
acconcia e tutta di nuovi corredi riguarnita, e in compagnia di quella molte
altre ne fa aprestare. Viene il proposto giorno della partenza: il mare
imbianca per li ripercossi mari e mostra poche delle sue acque, in quella parte
occupato da molti legni; e il romore de' navicanti e dell'acque e de' suoni
riempiono l'aere; e cercano di partirsi. Filocolo, che con violate vele e
vestimenti era, elli e' suoi compagni, venuto, comanda che, levati via quelli,
s'adornino di bianchi, e fa inghirlandare i templi e dare sacrificii agl'iddii,
mescolati con prieghi, che benivoli li facciano i venti e le marine onde, e lui
co' suoi con perfetta salute producano a' disiderati luoghi. E già
l'occidentale orizonte avea ricoperto il carro della luce, e le stelle si
vedeano, quando il vento più fresco venne, per che a' marinari parve di
partirsi. E a salire sopra l'acconcia nave chiamarono Filocolo, il quale con
grandissima compagnia e d'uomini e di donne a' marini liti pervenne; e quivi
con pietoso viso e animo pervenuto, dall'amiraglio prese congedo, prima de'
ricevuti beneficii rendendogli debite grazie, appresso da Alcipiades e da Dario
e da Sadoc, a lui carissimi amici, s'accomiatò, e salì sopra la bianca nave. Da
questi tutti con lagrime si parte Biancifiore e Glorizia, e salgo no appresso a
Filocolo, le quali Bellisano e Ascalion e 'l duca e gli altri compagni di
Filocolo tutti, avendo a coloro che rimaneano porte le destre mani e detto
addio, seguirono. E così tutti ricolti, l'una parte piglia il mare, l'altra la
terra, e gli animi che per lunga consuetudine e per iguali costumi erano
divenuti uno, tengono luogo in mezzo la distanza, riscontrandosi quasi, partiti
da' corpi che si dividono.
[4]
La
fortuna pacificata a' due amanti, e i fati recanti già a' suoi effetti i
piaceri degl'iddii, concedeano graziosi venti alle volanti navi. A' quali poi
che i remi perdonarono, al mare furono date le bianche vele, né prima si
calarono che i porti di Rodi l'avessero in sé raccolte, dove, ad istanza de'
prieghi di Bellisano, Filocolo e Biancifiore co' suoi discesero in terra, e
quivi da lui, più volonteroso che potente, magnificamente furono onorati: e non
solamente da esso, ma da tutti i paesani per amore di lui ricevettero
volonteroso onore. Piace a Filocolo il partirsi, lodando che i beni della
fortuna s'usino quando gli concede. Bellisano s'apparecchia di seguirlo, ma
Filocolo, conoscendolo attempato e di riposo bisognoso più che d'affanno,
ringraziandolo, con prieghi il fa rimanere, e non sanza molte lagrime. Filocolo
disidera d'adempiere la promessa fatta a Sisife, comanda che l'estrema Punta di
Trinacria sia con la prora de' suoi legni cercata: le vele si tendono, e i
timoni fanno alle navi segare le salate acque con diritto solco verso quella
parte, aiutandole il secondo vento. E in pochi giorni, lasciatisi dietro gli
orientali paesi, pervenne al dimandato luogo: e date le poppe in terra, con
brieve scala scesero sopra le secche arene. E venuti al grande ostiere di
Sisife, da lei onorevolemente e con viso pieno di festa ricevuti furono. Ella
niuna parte di potere si riserbò ad onorarli, ma ancora sforzandosi le parea
far poco. E dimorata con loro in graziosa festa più giorni, e sentendo che per
matrimoniale legge erano i due giovani congiunti, cioè la cercata e 'l
cercatore, cui essa, secondo le parole di Filocolo, fratello e sorella estimava,
si meravigliò, e con umile preghiera domandò che in luogo di singulare grazia
come ciò fosse le fosse scoperto. A' cui prieghi Filocolo con riso rispose: e
prima chi essi erano, e i loro amori insieme con gli infortunii brievemente
narrò, nella quale narrazione il suo pellegrinare, e la cagione della nascosa
verità, e ciò che avvenuto gli era, poi che da lei si partì, si contenne. Le
quali cose udendo Sisife, ripiena non meno di pietà che di maraviglia, lieta
ringraziò gl'iddii che dopo tanti affanni in salutevole porto gli avea
condotti. Dimorati adunque quivi quanto fu il piacere di Filocolo, a lei furono
cari doni da Biancifiore donati, e con proferte grandissime, all'una dall'altra
fatte, si partirono. E Biancifiore dietro a Filocolo, sopra l'usata nave, che
già avea i ferri tolti agli scogli, risalì; né prima vi fu suso che Filocolo
comanda che verso l'antica Partenope si pigli il cammino. Il quale preso da'
marinari, avanti che il terzo sole nel mondo nascesse, nella città pervennero,
e in quella, discesi in terra, entrarono: e con iguale piacere di tutti
determinarono di finire il rimanente del cammino sanza navicare. Per che fatti
porre in terra i ricchi arnesi e' gran tesori, e quegli uomini che a Filocolo
piacque di ritenere con seco, comandò che alla bella città di Marmorina
n'andassero, e di Filocolo e de' compagni e della loro tornata vere novelle
portassero al vecchio re Felice e ad ogni altro amico e parente loro.
[5]
Rimasero
Filocolo e' suoi, partite le navi, sopra il grazioso lito, nella ricca città
molti giorni prendendo dilet to, e da' cittadini onorati, e pieni di grazia nel
cospetto di ciascuno. Ma però che nelle virtuose menti ozioso perdimento di
tempo non può con consolazione d'animo passare, Filocolo con la sua Biancifiore
cercarono di vedere i tiepidi bagni di Baia, e il vicino luogo all'antica
sepoltura di Meseno, donde ad Enea fu largito l'andare a vedere le regioni de'
neri spiriti e del suo padre; e cercarono i guasti luoghi di Cummo, e 'l mare,
le cui rive, abondevoli di verdi mortelle, Mirteo il fanno chiamare, e l'antico
Pozzuolo, con le circunstanti anticaglie, e ancora quante cose mirabili in
quelle parti le reverende antichità per li loro autori rapresentano: e in quel
paese traendo lunga dimoranza, niuno giorno li tiene a quel diletto, che
l'altro davanti li avea tenuti. Essi tal volta guardando l'antiche maraviglie
vanno e negli animi come gli autori di quelle diventano magni. Tal volta nei
sani liquori gli affannati corpi rinfrescano, e alcune con picciola navicella solcano
le salate acque, e con maestrevole rete pigliano i non paurosi pesci; e spesse
volte agli uccelli dell'aere paurosi, con più potenti di loro danno dilettevoli
incalciamenti a' riguardanti. E alcun giorno li tiene ne' ramosi boschi, con
leggeri cani e con armi seguitando le timide bestie, poi alli loro ostieri
tornando, dove in canti con dolci suoni di diversi strumenti spendono il tempo,
che al sonno e al prendere de' cibi avanza loro.
[6]
In
questa maniera molti giorni dimorando, uno di quelli avvenne che essendo
Filocolo co' suoi compagni entrato in un dilettevole boschetto, seguito da
Biancifiore e da molte altre giovani, con lento passo, davanti a loro
picciolissimo spazio, sanza esser cacciato, si levò un cervio: il quale come
Filocolo vide, preso delle mani d'uno dei suoi compagni un dardo, correndo il
cominciò a seguire; e già parendogli essere al cervio vicino, s'aperse, e
vibrato il dardo col forte braccio, quello lanciò, credendo al cervio dare; ma
tra il cervio e Filocolo era quasi per diamitro posto un altissimo pino, nella
stremità del cui duro pedale il dardo percosse, e con la sua foga un pezzo
della dura corteccia scrostò dell'antico piede, egli e ella assai a quello
vicini cadendo: alla quale sangue con dolorosa voce venne appresso, non
altrimenti che quando il pio Enea del non conosciuto Polidoro, sopra l'arenoso
lito, levò un ramo, e disse:
«O
miserabili fati, io non meritai la pena ch'io porto, e voi non contenti ancora
mi stimolate con punture mortali! Oh felici coloro, a cui è licito il morire,
quando quello adimandano!».
E
qui si tacque. Questa voce il veloce corso di Filocolo e de' suoi compagni,
quasi tutti pieni di paura e di maraviglia, ritenne, e quasi storditi stavano
riguardando, non sappiendo che fare; ma dopo alquanto Filocolo con pietosa voce
così cominciò a dire:
«O
santissima arbore, da noi non conosciuta, se in te alcuna deità si nasconde,
come crediamo, perdona alle non volonterose mani de' tuoi danni: caso, non
deliberata volontà, ci fece offendere. Purghi la tua pietà il nostro difetto, i
quali presti ad ogni satisfazione, temendo la tua ira, siamo disposti».
Soffiò
per la vermiglia piaga alquanto il tronco, e poi il suo soffiare convertendo in
parole, così rispose:
«Giovani,
niuna deità in me si richiude, la quale se si richiudesse, i vostri pietosi
prieghi avrieno forza di piegarla a perdonarvi: dunque, maggiormente me, il
quale sanza forza di vendicarmi dimoro, disideroso della grazia non tanto degli
uomini, quanto ancora delle fiere, con ciò sia cosa che ciascuna nuocere mi
possa, e nuoccia tal volta, né io possa ad alcuno nuocere; però bastimi il
vostro pentere per satisfazione, né vi sia questo dagl'iddii imputato in
colpa».
Seguì
a questa voce Filocolo:
«Dunque,
o giovane, se gl'iddii, gli uomini e le fiere ti sieno graziosi e i tuoi rami
con pietosa sollecitudine conservino interi, non ti sia noia dirci chi tu se',
e per che qui relegato dimori».
Così
rispose il pedale:
«L'amaritudine,
che la dolente anima sente, non può torre che a' vostri prieghi non sia
sodisfatto, perché tanto è dalla dolcezza di quelli legata, che posponendo
l'angoscia, disiderosa di piacervi, vuole che io vi risponda; e però così
brevemente vi dico. La genitrice di me misero mi diede per padre un pastore chiamato
Eucomos, i cui vestigii quasi tutta la mia puerile età seguitai; ma poi che la
nobiltà dello 'ngegno, del quale natura mi dotò, venne crescendo, torsi i piedi
dal basso calle, e sforzandomi per più aspre vie di salire all'alte cose,
avvenne che, per quelle incautamente andando, nelle reti tese da Cupido
incappai, delle quali mai isviluppare non mi potei: di che con ragione
dolendomi, per miserazione degl'iddii, in quella forma che voi mi vedete, per
fuggire peggio, mi trasmutaro».
E
qui si tacque.
[7]
Poi
che Filocolo sentì la dolente voce aver posto silenzio e già Biancifiore con
sua compagnia essere sopravenuta, egli rincominciò così:
«Se
quella terra, che noi calchiamo, lungamente alle tue radici presti grazioso
umore, per lo quale esse diligentemente nutrite le tue frondi nutrichino e a'
tuoi rami aggiungano copiosa quantità de' tuoi pomi, e se il tuo pedale sia
lungamente dalla tagliente scure difeso, non ti sia duro ancora parlarne e
farci noto donde fosti, e il tuo nome, e come qui venisti, e per che modo nelle
reti d'amore incappasti, e qual fu la cagione perché di lui dolendoti, poi in
questo albero, più che in alcuno altro, ti trasformasti, e per cui, acciò che
se il tuo corpo e la cara anima nascosi nella du ra scorza non possono la tua fama
far palese, noi sappiendo la verità da te, di te possiamo quella debitamente
raccontare agl'ignoranti, i quali forse, udendo le nostre parole, mossi con noi
a debita pietà, per te pietosi prieghi porgeranno agli iddii, e così la tua
pena si mitighi, e la tua fama s'allunghi e si dilati».
Così
come quando Zeffiro soavemente spira, si sogliono le tenere sommità degli
alberi muovere per li campi, l'una fronda nell'altra ferendo, e di tutte dolce
tintinno rendendo, in tale maniera tutto l'albero tremando si mosse a queste
parole, e poi con voce alquanto più che la precedente pietosa rincominciò:
«Io
non spero che mai pietà possa per sua forza mollificare ciò che crudeltà
ingiustamente ha indurato; ma perciò che quello ch'io per troppa fede sostengo,
non sia creduto che per mio peccato m'avvenga, e per la dolcezza de' vostri
prieghi, che maggior guiderdone meritano che quello che domandano, parlerò e
ciò che disiderate di sapere vi chiarirò. Ma perciò che sanza molte parole ciò
che domandato avete, dire non vi posso, vi priego, se gl'iddii da simile
avvenimento vi guardino, non vi sia duro alquanto il mio lungo dire ascoltare:
[8]
"Nella
fruttifera Italia siede una picciola parte di quella la quale gli antichi, e
non immerito, chiamarono Tuscia, nel mezzo della quale, quasi fra bellissimi
piani, si leva un picciolo colle, il quale l'acque, vendicatrici della giusta
ira di Giove, quando i peccati di Licaon meritarono di fare allagare il mondo,
vi lasciò, secondo l'oppinione di molti, la quale reputo vera, però che ad
evidenzia di tale verità si mostra il picciolo poggio pieno di marine
cochiglie, né ancora si posson sì poco né molto le 'nteriora di quello
ricercare, che di quelle biancheggianti tutte non si truovino, e similemente i
fiumi a quello circunstanti, più veloci di corso che copiosi d'acque, le loro
arene di queste medesime cochiglie dipingono. Sopra questo pasceva Eucomos la
semplice mandria delle sue pecore, quando chiamato assai vicino a quelle onde,
le quali i cavalli di Febo, passato il meridiano cerchio, con fretta disiderano
per alleviare la loro ardente sete, e per riposo, fu: ov'egli andò, e quivi la
mansueta greggia di Franconarcos, re del bianco paese, gli fu comandata, la
quale egli con somma sollecitudine guardò. Avea il detto re di figliuole
copioso numero, di bellezze ornate e di costumi splendide, le quali insieme un
giorno, con caterva grandissima di compagne mandate dal loro padre, andarono a
porgere odoriferi incensi a un santo tempio dedicato a Minerva, posto in uno
antico bosco, avvegna che bello d'arbori, d'erbe e di fiori fosse. Esse, poi
che il comandamento del padre ebbero ad essecuzione messo, essendo loro del
giorno avanzato gran parte, a fare insieme festa per lo dilettevole bosco si
dierono. A questo bosco era vicino Eucomos, sopra tutti i pastori
ingegnosissimo, con la comandata greggia, il quale nuovamente con le propie
mani avendo una sampogna fatta che più che altra dilettevole suono rendea agli
uditori, ignorante della venuta delle figliuole del suo signore, essendo allora
il sole più caldo che in alcun'altra ora del giorno, avea le sue pecore sotto
l'ombra d'uno altissimo faggio raccolte, e, dritto appoggiato ad un mirteo
bastone, questa sua nuova sampogna con gran diletto di se medesimo sonava, e
niente di meno alla dolcezza di quello le pecore faceano mirabili giuochi.
Questo suono udito dalle vaghe giovani, sanza niuna dimoranza corsero quivi, e
poi che per alquanto spazio ebbero ricevuto diletto, e del suono e della veduta
delle semplici pecore, una di loro chiamata Gannai, fra l'altre speziosissima,
chiamò Eucomos, pregandolo che a loro col suo suono facesse festa, di ciò
merito promettendogli. Fecelo. Piacque loro. Tornano più volte ad udirlo.
Eucomos assottiglia il suo ingegno a più nobili suoni, e sforzasi di piacere:
Gannai, più vaga del suono che alcuna dell'altre, lo 'ncalcia a sonare. Corre
agli occhi di Eucomos la bellezza di lei con grazioso piacere: a questo
s'aggiungono dolci pensieri. Egli in se medesimo loda molto la bellezza di
colei, e estima beato colui cui gl'iddii faranno degno di possederla, e
disidererebbe, se possibile gli paresse, d'essere egli. Con questi pensieri,
Cupido, sollicitatore delle vagabunde menti, disceso di Parnaso, gli
sopravenne, e per le rustiche medolle tacitamente mescolò i suoi veleni,
aggiungendo al desiderio subita speranza. Eucomos si sforza di piacere, e per
lo nuovo amore la sua arte gli spiace, ma pur discerne non convenevole a
lasciarla, sanza saper come. I suoi suoni pieni di più dolcezza ciascun giorno
diventano, si come aumentati da sottigliezza di miglior maestro: l'ardenti
fiamme d'amore lo stimolano; per che egli, nuova malizia pensata, propone di
metterla in effetto, come Gannai verrà più ad ascoltarlo. Non passò il terzo
giorno, che la fortuna, acconciatrice de' mondani accidenti, conscia del
futuro, sostenne che Gannai, sola delle sorelle, con picciola compagnia, né da
lei temuta, semplicemente venne al luogo ove Eucomos usata era d'udire, e
supplica, con prieghi di maggiore grazia degni, che egli suoni: è ubidita. Ma
il pastore malizioso con la bocca suona e con gli occhi disidera, e col cuore
cerca di mettere il suo diviso ad effetto: per che, poi ch'egli vide Gannai
intentissima al suo suono, allora con lento passo mosse la sua gregge, e egli
dietro ad esse, e con lenti passi pervenne in una ombrosa valle, ove Gannai il
seguì: e quasi avanti dall'ombre della valle si vide coperta che essa
conoscesse avere i suoi passi mossi, tanto la dolcezza del suono le avea
l'anima presa. Quivi vedendola Eucomos, gli parve tempo di scoprirle il lungo
disio, e, mutato il sonare in parole vere e dolci, il suo amore le scoperse, a
quelle aggiungendo lusinghe e impromesse; e cominciolle a mo strare che questo
molto saria nel cospetto degl'iddii grazioso, se ella il mettesse ad effetto,
però che egli a lei saria come il suo padre alla sua madre era stato: e
nondimeno le promise che mai il suo suono ad altrui orecchie che alle sue
pervenire non faria, se non quanto ad essa piacesse, molte altre cose
aggiungendo alle sue promesse. Gannai prima si maravigliò, e poi temette,
dubitando forse costui non forza usasse, dove le dolci parole o' prieghi non le
fossero valuti: e udendo le 'ngannatrici lusinghe, semplice le credette, e solo
per suo pegno prese la fede dal villano, che come alla sua madre il suo padre
era stato, così a lei sarebbe, e i suoi piaceri nella profonda valle li
consentì, dove due figliuoli di lei generò, de' quali io fui l'uno, e chiamommi
Idalogos. Ma non lungo tempo quivi, ricevuti noi, dimorò, che abandonata la
semplice giovane e l'armento, ritornò ne' suoi campi, e quivi appresso noi si
tirò, e non guari lontano al suo natale sito, la promessa fede a Gannai, ad
un'altra, Garemirta chiamata, ripromise e servò, di cui nuova prole dopo poco
spazio riceveo. Io semplice e lascivo, come già dissi, le pedate dello
'ngannatore padre seguendo, volendo un giorno nella paternale casa entrare, due
orsi ferocissimi mi vidi avanti con gli occhi ardenti, disiderosi della mia
morte, de' quali dubitando io volsi i passi miei, e da quella ora in avanti
sempre l'entrare in quella dubitai. Ma acciò che io più vero dica, tanta fu la
paura, che, abandonati i paternali campi, in questi boschi venni l'apparato
uficio ad operare: e qui dimorando, con Calmeta pastore solennissimo, a cui
quasi la maggior parte delle cose era manifesta, pervenni a più alto disio.
Egli un giorno riposandosi col nostro pecuglio, con una sampogna sonando,
cominciò a dire i nuovi mutamenti e gl'inoppinabili corsi della inargentata
luna, e qual fosse la cagione del perdere e dell'acquistare chiarezza, e perché
tal volta nel suo epiciclo tarda e tal veloce si dimostrasse; e con che ragione
il centro del cerchio il suo cor po portante, allora due volte circuisce il
differente, il suo centro movente intorno al piccolo cerchio, che l'equante
una; e da che natura potenziata la virtù dell'uno pianeto all'altro portasse, e
similmente i suoi dieci vizi, seguendo di Mercurio e di Venere con debito
ordine i movimenti. E appresso con dolce nota la dorata casa del sole disegnò
tutta, non tacendo de' suoi eclissi e di quelli della luna le cagioni,
mostrando come da lui ogni altra stella piglia luce, e così essere necessario,
a volere i luoghi di quelle sapere, prima il suo conoscere, mostrando del
rosseggiante Marte, del temperato Giove e del pigro Saturno una essere la
regola a cercare i luoghi loro. E mostrato con sottile canto interamente le
loro regioni, e quali in quelle a loro fossero più degne dimoranze e più care,
passò cantando al nido di Leda, e in quello, da vero principio cominciando,
prima del Montone friseo disse, e delle sue stelle, e quali gradi in quello i
masculini e quali feminini, quali lucidi e quali tenebrosi, quali putei, quali
azemena, e quali aumentanti la fortuna fossero, dimostrò: e similmente di qual
pianeto fosse casa, e quale in esso s'essaltasse, e la triplicità, e' termini
di ciascuno in quello, e le tre facce; questo ancora mostrando del sacrificato
Tauro da Alcide per la morte di Cacco, e de' due fratelli di Clitemestra, nella
fine de' quali l'estivale solstizio comincia, e con quel medesimo ordine del
retrogrado Cancro cantò, e del feroce Leone, e della onesta Vergine, nella fine
della quale il coluro di Libra, equinozio faccente disse incominciare; e di lei
cantò come degli altri avea cantato, mostrando nella sua fine la combustione
avvenuta per lo malvagio reggimento del carro della luce usato da Fetonte,
spaventato dall'animale uscito della terra a ferire Orione: la cui prima
faccia, come di Libra l'ultima, fu combusta, di lui seguendo, come di quella avea
detto, e di Chirone Aschiro seguitando, nella fine di cui pose lo iemale
solstizio; poi cantando della nutrice di Giove, e del suo Pincerna, e de'
Pesci, da Venere nel luogo ove dimorano situati, dicendo nella fine di quelli
il coluro d'Ariete cominciarsi insieme con l'equinozio del detto segno:
mostrando appresso così de' pianeti, come de' segni le compressioni e' sessi e
le potenze diterminate negli umani membri, e come alla loro signoria prima in
sette e poi in dodici parti sia tutto il mondo diviso, così quello che sotto li
sette climati s'abita, come l'altro, con questo dicendo la variazione delle
loro elevazioni per li diversi orizonti, e che legge da loro sia servata nel
ritondo anno, mutando i tempi. E con non meno maestrevole verso l'udii, dopo questo,
cantare e dimostrare nel suo canto come Calisto e Cinosura più presso al polo
artico dimorassero, faccendo cenìt alle maggiori notti, e assegnare la cagione
per che le loro stelle in mare non possono né siano lasciate da Occeano come
l'altre bagnare. E seguitò dove Boote e la corona d'Adriano e Alcide, vincitore
dell'alte pruove, fossero locati; e sanza mutar nota cantò del Corvo, per la
recente acqua mandato da Febo, il quale, per lo soperchio tempo messo ad
aspettare i non maturi fichi, meritò per la bella bugia, egli con l'apportato
Serpente e con lo caro Crate d'oro, essere in cielo dal mandatore locati e
ornati di più stelle. E insieme con questi raccontò il luogo dove colei che la
palma delibuta porta e dove il Portatore del serpente e Eridano e la paurosa
Lepre co' due Cani dimorassero, cantando poi del Nibbio, il quale le 'nteriora
del fatato Toro, ucciso da Briareo, portò in cielo, ove egli fu da Giove locato
e adornato di nove stelle, seguendo appresso d'Erisim, d'Istuc e d'Auriga i
luoghi, e dell'Australe Corona, movendo con più soave suono come Orione,
cantando sopra il portante Dalfino, fuggì il mortal pericolo, e poi per li
meriti dell'uno e dell'altro meritassero il cielo, e qual parte d'esso; e dove
il primo Cavallo e l'altro intero, e la Nave che prima solcò il non usato mare
dimorassero, dimostrò; e segnò la gloria di Perseo, e 'l suo luogo, con la
testa d'Algol e dell'Idra, crescente per li suoi danni, e il luogo del Vaso. E
rimembromi che disse ancora del Centauro e del celestial Lupo le stelle, di
dietro a' quali del Pesce e dello Alare i luoghi dimostrò, con quelli di Cefeo,
e del Triangolo, e di Ceto, e d'Andromaca, e del pagaseo Cavallo; passando
dietro a questi dentro alle regioni degl'iddii con più sottile canto col suo
suono. Queste cose ascoltai io con somma diligenza, e tanto dilettarono la
rozza mente, ch'io mi diedi a voler conoscere quelle, e non come arabo, ma
seguendo con istudio il dimostrante: per la qual cosa di divenire esperto
meritai. E già abandonata la pastorale via, del tutto a seguitar Pallade mi
disposi, le cui sottili vie ad imaginare, questo bosco mi prestò agevoli
introducimenti, per la sua solitudine. Nel quale dimorando, m'avvidi lui essere
alcuna stagione dell'anno, e massimamente quando Ariete in sé Delfico riceve,
visitato da donne, le quali più volte, lente andando, io con lento passo le
seguitai, di ciò agli occhi porgendo grazioso diletto, continuamente i dardi di
Cupido fuggendo, temendo non forse, ferito per quelli, in detrimento di me
aumentassi i giorni miei: e disposto a fuggire quelli, prima alla cetera
d'Orfeo, poi ad essere arciere mi diedi; e prima con la paura del mio arco, del
numero delle belle donne, le quali già per lunga usanza tutte conoscea, una
bianca colomba levai, e fra' giovani albuscelli seguii con le mie saette più
tempo, vago delle sue piume. Né per non poterla avere punse però mai di
malinconia il cuore, che più del suo valore per poco che d'altro si dilettava.
Dallo studio di costei seguire, del luogo medesimo levata, mi tolse una nera
merla, la quale movendo col becco rosso piacevoli modi di cantare, oltre modo
disiderare mi si fece, non però in me voltando le mie saette; e più volte fu
ch'io credetti quella ricogliere negli apparecchiati seni. E di questo
intendimento un pappagallo mi tolse, delle mani uscito ad una donna della pia
cevole schiera. A seguire costui si dispose alquanto più l'animo, ch'alcuno
degli altri uccelli, il quale andando le sue verdi piume ventilando, fra le
frondi del suo colore agli occhi mi si tolse, né vidi come. Ma il discreto
arciere Amore, che per sottili sentieri sottentrava nel guardingo animo,
essendo rinnovato il dolce tempo, nel quale i prati, i campi e gli arbori
partoriscono, andando le donne all'usato diletto, fece del piacevole coro di
quelle levare una fagiana, alla quale io per le cime de' più alti arbori con
gli occhi andai di dietro; e la vaghezza delle variate penne prese tanto
l'animo a più utili cose disposto, che, dimenticando quelle, a seguire questa
tutto si dispose, non risparmiando né arte né saetta né ingegno per lei avere,
sentendo il puro cuore già tutto degli amorosi veleni lungamente fuggiti
contaminato. Allora conoscendomi preso in quel laccio dal quale molto con
discrezione m'era guardato, mi rivoltai, e vidi il numero delle belle donne
essere d'una scemato, la quale io avanti avendola tra esse veduta, più che
alcuna dell'altre avea bella stimata. Allora conobbi lo 'nganno da Amore usato,
il quale non avendomi potuto come gli altri pigliare, con sollecitudine d'altra
forma mi prese, prima con diversi disii disponendo il cuore per farlo abile a
quello; e rivolgendomi sospirando alla fagiana, la donna, che al numero delle
altre falliva, di quella forma in essa mutandosi, agli occhi m'apparve, e così
disse: "Che ti disponi a fuggire? Nulla persona più di me t'ama".
Queste parole più paura d'inganno che speranza di futuro frutto mi porsero, e
dubitai, però che ella era di bellezza oltre modo dell'altre splendidissima, e
d'alta progenie avea origine tratta, e delle grazie di Giunone era copiosa: per
le quali cose io dicea essere impossibile che me volesse altro che schernire, e
se potuto avessi, volentieri mi sarei dallo 'ncominciato ritratto. Ma la
nobiltà del mio cuore, tratta non dal pastore padre, ma dalla reale madre, mi
porse ardire, e dissi: "Seguirolla, e proverò se vera sarà nell'effetto
come nel parlare si mostra volonterosa". Entrato in questo proponimento e
uscito dell'usato cammino, abandonate le imprese cose, cominciai a disiderare,
sotto la nuova signoria, di sapere quanto l'ornate parole avessero forza di
muovere i cuori umani: e seguendo la silvestre fagiana, con pietoso stile
quelle lungamente usai, con molte altre cose utili e necessarie a terminare
tali disii. E certo non sanza molto affanno lunga stagione la seguii, né alla
fine campò, che nelle reti della mia sollecitudine non incappasse. Ond'io
avendola presa, a' focosi disii, piacendole, sodisfeci, e in lei ogni speranza
fermai, per sommo tesoro ponendola nel mio cuore: e ella, abandonata la
boschereccia salvatichezza, con diletto nel mio seno sovente si riposava. E
s'io bene comprendea le note del suo canto, ella niuna cosa amava, secondo
quelle, se non me, di che io vissi per alcuno spazio di tempo contento. Ma la
non stante fede de' feminili cuori, parandosi agli occhi di costei nuovo
piacere, dimenticò com'io già le piacqui, e prese l'altro, e fuggita del mio
misero grembo, nell'altrui si richiuse. Quanto sia il dolore di perdere
subitamente una molto amata cosa, e massimamente quando col propio occhio in
altra parte trasmutata si vede, il dirlo a voi sarebbe un perder parole, però
che so che 'l sapete; ma non per tanto, con quello, ad ogni animo
intollerabile, la speranza di racquistarla mi rimase, né per ciò risparmiai
lagrime, né prieghi, né affanni. Ma la concreata nequizia a niuna delle dette
cose prestò audienzia, né concedé occhio, per che io con affanno in
tribulazione disperato rimasi, morte per mia consolazione cercando, la quale
avere mai non potei, non essendo ancora il termine del dover finire venuto. Il
quale io volendo, come Dido fece o Biblide, in me recare, e già levato in piè
di questo prato, ov'io piangendo sedeva, mi sentii non potermi avanti mutare,
anzi soprastare a me Venere, di me pietosa, vidi, e disiderante di dare alle
mie pene sosta. I piedi, già stati presti, in radici, e 'l cor po in pedale, e
le braccia in rami, e i capelli in frondi di questo albero trasmutò, con dura
corteccia cignendomi tutto quanto. Né variò la condizione d'esso dalla mia
natura, se ben si riguarda: egli verso le stelle più che altro vicino albero la
sua cima distende, così come io già tutto all'alte cose inteso mi distendea.
Egli i suoi frutti di fuori fa durissimi, e dentro piacevoli e dolci a gustare.
Oimè, che in questo la mia lunga durezza al contrastare agli amorosi dardi si
dimostra, la quale volessero gl'iddii ch'io ancora avessi! Ma l'agute saette,
passata la dura e rozza forma di me povero pastore, trovarono il cuore abile
alle loro punte. Questo mio albero ancora in sé mostra le frondi verdi, e
mostrerà mentre le triste radici riceveranno umore dalla circunstante terra, in
che la mia speranza, molte volte ingannata, né ancora secca, né credo che mai
secchi, si può comprendere. E se voi ben riguardate, egli ancora mostra del mio
dolore gran parte: che esso, lagrimando, caccia fuori quello che dentro non può
capere; e così come questo legno meglio arde ch'alcuno altro, così io, prima
stato ad amare duro, poi più che alcun amante arsi, e per ogni piccolo sguardo
sì mi raccendo come mai acceso fossi. Né il dilettevole odore ch'io porgo poté
mai fare tanti di quello disiderosi, ch'io altro che a quella, per cui questa
pena porto, mi dilettassi di piacere. Potete adunque per le mie parole e per me
comprendere quanta poca fede le mondane cose servino agli speranti, e
massimamente le femine, nelle quali niuno bene, niuna fermezza, né niuna
ragione si truova. Esse, schiera sanza freno, secondo che la corrotta volontà
le muta, così si muovono: per la qual cosa, se licito mi fosse, con voce piena
d'ira verso gl'iddii crucciato mi volgerei, biasimandogli perché l'uomo, sopra
tutte le loro creature nobile, accompagnarono di sì contraria cosa alla sua
virtù"».
[9]
Le
parole del misero appena erano finite, che Biancifiore levata da sedere del
luogo dove stava, per più appressare le parole sue al rotto pedale, così
cominciò a dire:
«O
Idalogo, che colpa hanno le buone, e di diritta fede servatrici, se a te una
malvagia, per tua simplicità, nocque non osservando la promessa?».
A
cui Idalogo:
«Se
io solo da' vostri inganni mi sentissi schernito, tanta vergogna m'occuperebbe
la coscienza, che mai a' prieghi di alcuno, quanto che e' fossero da essaudire,
non direi i miei danni, come a voi ho fatto; ma però che tutto il mondo infino
dal suo principio fu e è delle vostre prodizioni ripieno, sentendomi nel numero
de' più caduto, lascio più largo il freno al mio vero parlare. Ma se gl'iddii
dalle malvage ti seperino, non mi celare chi tu se', che sì pronta alla difesa
delle buone surgesti, come se di quelle fossi».
«Io
sursi - disse Biancifiore - a quello che ciascuna prima operare e poi difendere
dovria, sentendomi di quel peccato pura del quale in generale tutte ne biasimi:
e acciò ch'io non aggiunga noia alle tue pene, sodisfarotti del mio nome. E
sappi ch'io sono quella Biancifiore la quale la fortuna con tribulazioni
infinite ha dal suo nascimento seguita, ma ora meco pacificata, quelle a sé
ritrae, e, concedutomi il mio disio, in pace vivo».
«Or
se' tu - disse Idalogo - quella Biancifiore per la quale il mondo conosce quanto
si possa amare, o essere con leale fede amato? Se' tu colei la quale, secondo
che tutto il mondo parla, è tanto stata amata da Florio figliuolo dell'alto re
di Spagna, e che, per intera fede servargli, se' nimica della fortuna stata,
dove amica l'avresti potuta avere rompendo la pura fede? Se quella se', con
ragione delle mie parole ti duoli».
«Io
sono quella», rispose Biancifiore.
«Adunque
- disse Idalogo - singolare laude meriti: tu sola se' buona, tu sola d'onore
degna, niun'altra credo che tua pari ne viva. E certo se io nella memoria avuta
t'avessi, quando in generalità male di voi parlai, te avrei dello infinito
numero delle ingannatrici tratta; ma in verità e' mi pare ciò che di te ho
udito maggiore maraviglia che il sentirmi in questa forma ove mi vedi. Ma se la
fortuna lungamente pacifica teco viva, dimmi, che è di quel Florio, che tu
tanto ami e che te più che sé ama, sì come la fama rapportatrice ne conta?».
Rispose
Biancifiore:
«Il
mio Florio ha infino a ora teco parlato, e è qui meco: e come mi potrei io
sanza lui dire felice e con la fortuna pacificata?».
«O
felicissima la vita tua! - disse il tronco, - molto m'è a grado, e assai me ne
contento, che voi, che già tanto foste infortunati, ora contenti stiate,
pensando ch'io possa prendere speranza di pervenire a simile partito de' miei
affanni».
[10]
Già
i corpi percossi dal tiepido sole porgevano lunghe ombre, e Febeia si mostrava
in mezzo il cielo, andante alla sua ritondità, quando, Biancifiore non più
parlante, Filocolo disse:
«O
Idalogo, dinne, per quella fede che tu già ad amore portasti, come a' tuoi
orecchi pervenne la nostra fama, con ciò sia cosa che appena ne' nostri regni
credevamo che saputi fossero i nostri amori?».
A
cui Idalogo così rispose:
«Come
in queste parti i vostri fatti si sapessero m'è occulto, ma come io li sappia
vi narrerò. Sì come voi vedete, io porgo con le mie frondi graziose ombre
dintorno al mio pedale, e il suolo di fiori e d'erbe ogni anno s'adorna più
bello che alcuno altro prato vicino: per la qual cosa i miei compagni, sì per
conforto di me che d'udirgli mi dilettava, sì per riposo e diletto di loro
medesimi, qui sovente soleano venire, e nelli loro ragionamenti dire quelle
cose le quali mancamento delle mie doglie credevano che fossero, e talora
credendomi piacere, con fresche onde le mie radi ci riconfortavano. E quando
costoro questo luogo non avessero occupato, molti gentili uomini e donne
vegnenti a' santi bagni, ove voi forse ora dimorate, qui a ragionare di diverse
materie, qui a far festa, se ne sogliono venire. E quando di questi tutti solo
rimanessi, da' pastori non sono abandonato: a' quali, però che mi ricorda ch'io
già di loro fui, più fresca ombra porgo che ad alcuni. E come degli altri qui
vegnenti odo i varii ragionamenti, così i loro e le loro contenzioni e le
battaglie de' loro animali spesso sento, e di me hanno fatto prigioniere del
prenditore: tra' quali ragionamenti molti, non so che gente un giorno qui si
venne, a' quali quasi interi i vostri casi udii narrare, forse non credendo
essi essere uditi, i quali non minori che i miei riputai; e fummi caro
ascoltargli, sentendo che solo negli amorosi affanni non dimorava».
[11]
Queste
cose udite, parve a Filocolo di partirsi, e disse:
«Idalogo,
gl'iddii quella perfetta consolazione che tu disideri ti donino, sì come tu a
noi hai delle domandate cose donata. Noi, costretti dalla sopravegnente notte,
più con teco non possiamo stare, e però ti preghiamo che se per noi alcuna cosa
fare si può che piacere ti sia, la ne dichi, con ferma speranza che fornita fia
giusto il potere nostro».
«Assai
potreste fare - rispose Idalogo, - e però che nella vostra grande nobiltà
confido, vi farò un priego: com'io poco avanti vi dissi, io amai una donna,
dalla grazia della quale abandonato, disiderando in essa ritornare, porsi
prieghi e lagrime infinite, le quali la durezza del cuore di lei niente
mutarono, per che io sono in questa forma. Ora avvenne poco tempo appresso la
mia mutazione, giovani a me carissimi, e consapevoli de' miei mali, qui s'adunarono,
e quasi come se a me le parole porgessero, credendomi della vendetta degl'iddii
rallegrare, dissero la bella donna in bianco marmo essere mutata, allato ad una
piccola fontana di chiara acqua, dimorante nelle grotte del duro monte Iberno,
a mano sinistra, passata la grotta oscura. Della qual cosa io non lieto ma
dolente fui, pensando che se avanti dura era a' miei prieghi stata, omai
pieghevole non saria; ma di ciò sono incerto, e però la speranza del pregare
non ho lasciata, per che io vi priego che quando verso la città andrete non vi
sia noia il visitare la fresca fontana, e quelle parole di me porgete alla
bianca pietra che pietà vi consente. Né vi partite prima di qui, che il pezzo
della dura scorza, tolta a me dal vostro dardo, sia al suo luogo renduta: poi
con la grazia degl'iddii licito siavi l'andare».
[12]
Udito
questo, Filocolo giurando promise di fare quello che dimandato gli era, e la
scorza rendé al domandante, la quale così dall'albero fu ripresa come da
calamita ferro: e dettogli addio, co' suoi si partì del luogo pieno di
maraviglia, del nuovo caso ragionando co' suoi. E parlando pervennero al loro
ostiere, ove preso il cibo dierono i corpi a' notturni riposi.
[13]
Salito
il sole nell'aurora, Filocolo e' suoi compagni si levarono e il cammino verso
Partenope ripresono; e già le tenebrose oscurità della forata montagna passate,
vicini al luogo dall'albero disegnato pervennero. Quivi vaghi di vedere cose
nuove, non sappiendo il luogo né trovando cui domandarne, vanno con gli occhi investigando,
e ciascuna grotta pensano essere la domandata fonte: ma quella nascosa da
frondi, quanto più cercano più s'occulta. Ciascuno guarda se vedesse alcuno
che, domandandolo, li certificasse. Niuno veggono; ma Parmenione ascoltando udì
di lontano risonare l'aere di tumultuose voci, per che chiamati gli sparti
compagni, disse:
«Se
noi in quella parte andiamo ove io sento romore di gente, leggieri ci sarà
quello che cerchiamo trovare».
Piacque
a tutti l'andarvi: seguitano il suono, il quale, essendo da loro, quanto più
andavano, più chiaro udito gli fa certi non deviare per pervenire a quello: al
quale, dopo non gran quantità di passi, lieti pervennero, e videro alquanti
pastori raccolti sotto fresche ombre fare i loro montoni urtare insieme, e in
merito del vincitore corone d'alloro essere poste da una parte; i quali, quando
ad urtare venieno, ciascuno i suoi con voce altissima aiutava; e questo a
vedere dimoravano più altre persone, per accidente quivi, sì come costoro,
venute. Filocolo co' suoi fu con festa a vedere ricevuto; ove dimorato
alquanto, fé uno de' pastori domandare della nascosa fontana. Questi li disegnò
il luogo, proferendosi di mostrarla, se a guardare non avesse la vincitrice
mandria. Queste parole udirono due speziosissime giovani quivi venute con loro
compagnia a vedere, le quali, reputando non picciola cortesia agli strani
giovani piacere, dissero:
«Signori,
ella è a noi notissima, né greggia, né altro impedimento ci occupa che mostrare
non la vi possiamo, se i nostri passi seguire non isdegnate».
Alle
quali Filocolo:
«Niuna
altra cosa dubitavamo, se non di non essere degni di seguire così care pedate,
quando altrui che voi, di ciò che cerchiamo, dimandammo; ma poi che a voi piace
verso di noi per vostra virtù essere cortesi, procedete, certe che
contentissimi siamo di seguirvi».
[14]
Mossersi
le graziose giovani, il nome delle quali l'una Alcimenal, l'altra Idamaria era,
e con voci soavi e radi ragionamenti, passo inanzi passo, i disideranti
menarono alla fontana, alla quale essi più volte erano stati vicini, né veduta
l'aveano. Ma ciò non è da maravigliare, però che la natura, maestra di tutte le
cose, co' suoi ingegni nelle 'nteriora del monte aveva volto un rozzo arco,
sopra 'l quale fortissima lammia si posava, coperchio delle chiare onde, e quel
luogo, il quale essa scoperto vi lasciò per porger luce, alberi di frondi pieni
l'aveano occupato. Ad essa venuti, Alcimenal disse:
«Signori,
qui è la fresca fonte che cercate, e quinci s'entra ad essa», mostrando loro un
piccolo pertugio, dentro al quale a scendere all'acque alcuno grado scendere si
conveniva.
[15]
Entrò
in quella Filocolo, e quasi opposito all'entrata vide il bianco marmo soprastante
a parte dell'acqua, e sceso in essa, fresca e dilettevole molto la vide: e ben
che, di fuori dimorando, la fontana fosse d'alberi nascosa agli occhi de'
viandanti, nondimeno dentro fra fronda e fronda graziosa luce vi trapassava.
Ella era d'una parte e d'altra di spine, per adietro state cariche di fresche
rose; e per mezzo, a fronte al marmo, un bellissimo melogranato, le cui radici
fino al fondo si distendeano, era, le cui foglie e frutti gran parte de' solari
raggi cacciava dalla fontana. Filocolo si rinfrescò le mani e 'l viso con la
chiara acqua; poi, posto a sedere alzato al bianco marmo, così da tutti udito
cominciò a dire:
[16]
«O
pietà, santissima passione de' giusti cuori, tu negli umili e miserabili luoghi
del misericordioso seno di Giove discendi e visiti i commossi petti dalle
vedute e talora dalle udite cose. Tu fai i sostenitori e i veditori d'una
medesima pena partecipi. Tu rechi agli occhi quelle lagrime le quali più che
altre meritano, e hai potenza di muovere i duri cuori da' loro proponimenti
nefandi e di scacciare l'ardente ira del turbato fiele. Tu nimica delle
miserie, se' dell'offese graziosa perdonatrice. Per te la tagliente spada della
giustizia sovente in misericordiosa opera volge il suo operare. E chi agl'iddii
ci ricongiungerebbe, da' quali le nostre operazioni inique ci allontanano, se
tu noi facessi? Tu se' degli assaliti dalla fortuna cagione di graziosa
speranza e di consolazione apportatrice. Che più dirò di te? Tu piena di tanta
umanità se', che aperto si può dire che il cuore, ove tu non regni, più tosto
ferino che umano sia. Tu e 'l figliuolo di Citerea sedete ad uno scanno. Egli
sanza te faria le sue opere vane. Niuna ingiuria poriano gl'iddii porgere sì
grave, che molto maggiore a chi del suo petto ti scaccia non si convenisse. Tu
me, che dell'ultimo ponente sono, facesti dell'angosce d'Idalogo partefice, il
quale dipinto e dentro afflitto di molte miserie, non poté questa pietra
muovere con la tua forza dal duro proposito, amandola sopra tutte le cose e
avendola amata: per che degnamente ora di sé può porgere manifesto essemplo a'
riguardanti. O amore, per la grazia del quale io i meritati doni posseggo, viva
in etterno il tuo valore: il quale, s'io merito nel tuo cospetto alcuna grazia
più che quella ch'io ricevuta posseggo, ti priego che di così fatti cuori il
lontani, però che tu, benivolo co' malivoli, degno luogo non puoi avere. Sia
l'acerbità consumatrice de' cuori che la nutricano, degni di perdere e la tua
grazia e quella degli uomini».
[17]
Così
tosto come Filocolo, dette queste parole, tacque, Idamaria, che interamente
l'avea notate, disse:
«O
giovane, se gl'iddii te al nominato paese riportino con prospera vita, dinne
onde t'è manifesto ciò che qui parli in degno dispregio della pietra che tu
tocchi. Tu ne fai maravigliare, essendo tu d'occidente e noi paesane, non
essendoci quello che a te è, manifesto».
Alla
quale Filocolo parlando sodisfece, e domandò se 'l modo della trasformazione di
quella fosse loro noto che gliele dicessero. A cui Alcimenal:
«Per
udita tutto il sappiamo; e poi che n'hai col tuo dire appagate, col nostro
sanza dimoranza t'appagheremo, e fiati caro».
E
cominciò così:
[18]
«I
nostri antichi, che con solenne memoria le cose della loro età notarono, ne
dicevano sé ricordarsi in questa parte né la pietra né il bel granato né queste
spine, le quali, pochi dì sono passati, fiorite vedemmo, sì come ora sono
bocciolose, non esserci, ma sola l'acqua e la grotta di questo luogo si
contentavano. E similemente ne dicevano che questo luogo, il quale ora più da'
pastori che da altra gente veggiamo visitato, rideva tutto d'arbori e d'erbe,
essendo con ordine il suo suolo cultivato da maestra mano: per la qual cosa i
gentili uomini e le donne, vaghi di riposo e di diletto, qui per prendere quello
soleano venire. Per che avvenne che di questa stagione, un giorno, donne di
Partenope qui vennero a sollazzarsi, e schiusa da' loro cuori ogni malinconia,
tutte liete si dierono a' cibi: delle quali quattro bellissime, abandonato ogni
vergognoso freno, forse oltre al dovere presero de' doni di Bacco, da' quali
stimolate, lasciata la loro compagnia, con ragionamenti e atti dissoluti si die
rono ad andare fra li fruttiferi alberi correndo, l'una tal volta cacciando
l'altra e l'altra tal volta dall'una essendo cacciata. Per che, riscaldate e
dall'affanno e da Lico, e da' solari raggi, per cacciare quello, le fresche
ombre di questo luogo cercarono. Nel quale entrate, l'una chiamata Alleiram
dove cotesto marmo dimora, non essendovi esso, essa si pose a sedere; la
seconda, Airam chiamata, qui a fronte, dove le vecchie radici del bel granato
vedete, s'assise; la terza, il cui nome era Asenga, dal sinistro, e Annavoi, la
quarta, dal destro ad Alleiram si posero, le contrarie mani d'Airam tenendo
ciascuna. E qui riposando i corpi, a' lascivi ragionamenti non dierono riposo,
ma cominciando i sommi iddii a dispregiare, sé e le loro lascivie lodando,
l'una dicendo e l'altre ascoltando, così cominciarono a ragionare, prima
all'altre Alleiram parlando in questa forma:
[19]
"Già
ne' semplici anni mi ricorda aver creduto questo luogo molto essere da
riverire, dicendo alcuni, d'una semplicità con meco presi, che qui Diana, dopo
i boscherecci affanni, coi suo coro venia a ricreare, bagnandosi, le faticate
forze: e tali furono che dissero, ma falso, che Atteon qua entro guardando,
essendoci ella, meritò di divenire cervio. Qui ancora le ninfe di questo paese
testavano riposarsi, qui le naiade e le driade nascondersi: ma la mia stoltizia
ora m'è manifesta, ora veggio quanto poco lontano veggono, gl'ingannati occhi
de' mondani, i quali con ferma credenza, a diverse imagini faccendo diversi
templi, quelle adorano, dicendole piene di deità. O rustico errore più tosto
che verità! Elli hanno appo loro gl'iddii e le dee e i celestiali regni, e
vannogli fra le stelle cercando. E che ciò sia vero, rimirisi i nostri visi,
adorni di tanta bellezza, che nullo verso la poria descrivere: ella avria forza
di muovere gli uomini a grandissime cose. Dunque, quali iddii o quali dee, qual
Venere, qual Cupido, o qual Diana più di noi è da esser riverita? Folle è chi
crede altra deità che la nostra. Noi commoveremmo i regni a battaglie e ne'
combattenti metteremmo pace a nostra posta: quello che gl'iddii non poterono
fare, avendo Elena porta la cagione. Quali folgori, quali tuoni poté mai Giove
fulminare, che da temere fossero come la nostra ira? Marte non fa se non
secondo che noi commettiamo. Cessi adunque questo luogo da essere riverito, se
non per amore di noi: e che ciò sia ragione, io vi mostrerò la mia forza
maggiore che quella di Venere essere stata, e udite come:
[20]
Quanto
io fossi di sangue nobilissima non bisogna di dire, che è manifesto, né alcuno
di quelli che iddii si chiamano, potrebbe con giusta ragione mostrare più la
sua origine che la mia antica. Io similemente in dirvi quant'io di ricchezze
abondi non mi faticherò, però che è aperto Giunone a quelle non potere dare
crescimento discernevole con tutte le sue. La copia de' parenti è a me
grandissima: e oltre a tutte le cose che nel mondo si possono disiderare, son
io bellissima come appare, e nel più notabile luogo della mia città situata è
la lieta casa che mi riceve. Davanti la quale niuno cittadino è che sovente non
passi; e quelli forestieri, i quali per terra l'oriente e 'l freddo Arturo ne
manda, e Austro e Ponente per mare, tutti, se la città disiderano di vedere,
conviene che davanti a me passino, gli occhi de' quali tutti la mia bellezza ha
forza di tirarli a vedermi. E ben che io a tutti piaccia, però tutti a me non piacciono;
ma nullo è ch'io mostri di rifiutare, ma con giuochevole sguardo a tutti
igualmente dono vana speranza, con la quale nelle reti del mio piacere tutti
gli allaccio, non dubitando di dare né di prendere amorose parole. E se le mie
parole meritano d'essere credute, vi giuro che Cupido molte volte, per lo
piacere di molti, s'è di ferirmi sforzato. Ma né lo spesseggiare del gittare
de' suoi dardi, né lo sforzarsi, mai ignudo poterono il mio petto toccare:
anzi, faccendo d'essere ferita sembiante, ho ad alcuni vedute le sue ricchezze
disordinatamente spendere credendo più piacere. Alcuno altro, dubitando non
alcuno più di lui mi piacesse, contra quello ha ordinato insidie; e altri
donandomi mi credono avere piegata. E tali sono stati, che, per me se medesimi
dimenticando, con le gambe avolte sono caduti in cieca fossa: e io di tutti ho
riso, prendendo però quelli a mia satisfazione i quali la mia maestra vista ha
creduti che siano più atti a' miei piaceri. Né prima ho il fuoco spento, ch'io
ho il vaso dell'acqua appresso rotto, e gittati i pezzi via. Tra la quale turba
grandissima de' miei amanti, un giovane, di vita e di costumi e d'apparenza
laudevole sopra tutti gli altri, mi amò, il cui amore conoscendo, i' 'l feci
del numero degli eletti al mio diletto, e ciò egli non sanza molta fatica
meritò. Egli, in prima che questo gli avvenisse, poetando, in versi le degne
lodi della mia bellezza pose tutte. Egli di quelle medesime aspro difenditore
divenne contra gl'invidi parlatori. Egli, occulto pellegrino d'amore, in modo
incredibile cercò quello che io poi gli donai, e ultimamente divenuto d'ardire
più copioso ch'alcuno altre che mai mi amasse, s'ingegnò di prendere, e prese,
quello ch'io con sembianti gli volea negare. Mentre che questi dilettandomi mi
tenea non però mancò l'amore suo verso di me, ma sempre crebbe: le quali cose
tutte io, fermissima resistente a Cupidine, non guardai, ma sì come d'altri
alcuni avea fatto, così di lui feci gittandolo del mio seno. Questa cosa fatta,
la costui letizia si rivolse in pianto. E brevemente egli in poco tempo di
tanta pieta il suo viso dipinse, che egli a compassione di sé movea i più
ignoti. Egli mi si mostrava, e con prieghi e con lagrime, tanto umile quanto
più poteva, la mia grazia ricercava, la quale acciò ch'io gliele rendessi,
Venere più volte si faticò pregandomi e talora spaventandomi e in sonni e in
vigilie. Ma ciò non mi poté mai muovere: per che rimanendo perdente, il
giovane, che si consumava, trasmutò in pino, e ancora alle sue lagrime non ha
posto fine; ma per la bellezza ch'io posseggo, io prima dove l'albero dimora
non andrò che io in dispetto di Venere farò più inanzi al dolente albero
sentire la mia durezza, ch'io con le taglienti scuri prima il pedale, poi
ciascun ramo farò tagliare e mettere nell'ardenti fiamme. Ben potete avere per
le mie parole compreso quanta sia la potenza di Venere, la quale non de' minori
iddii, ma nel numero de' maggiori è scritta, e per consequente poso siamo di
ciascun altro, pensare: e però se non possono, non deono essere con così fatto
nome né di tanti onori reveriti. Noi che possiamo, noi dobbiamo essere onorate:
e che io possa già l'ho mostrato, e ancora, come detto ho, più aspramente
intendo di dimostrarlo".
[21]
Avea
detto costei, quando Asenga, che alla sua sinistra sedea, così cominciò a dire:
"Veramente ingiuria sanza ragione sostegnamo; e ben che ogni potere
agl'iddii, sì come voi dite, falsamente s'attribuisca, ancora con questo è alle
dee e a loro attribuita ogni bellezza. E prima diciamo della Luna, la quale non
si vergognò per adietro d'amare, e sanza vergogna sostiene d'essere bella
chiamata. Or non ci è egli ogni mese mille volte manifesto il suo viso variarsi
in mille figure, tra le quali molte una sola n'è bella, e quella è quando essa,
opposita al suo fratello, tutta quanta ci si mostra lucente, ancora che allora
non so di che nebula ne mostri il suo viso dipinto? Ciascun'altra stagione, da
questa infuori, difettuosa e laida ci appare, né ci si mostra, se ben
riguardiamo, se non la notte, bella, nella quale stagione le più laide si
possono, sanza essere conosciute, tra le bellissime mescolare. Ma s'egli
avviene che tra lei e Febo alcuna volta la terra si ponga, noi la veggiamo di
sozza rossezza tutta contaminata: perché dunque bella? Giunone similmente e Apollo
da un poco d'austro sono turbati, e guaste le loro bellezze per li suoi nuvoli.
Diana non dico, però che è da presumere che se stata fosse bella non avria
consentito che Atteon, per averla veduta, fosse tornato cervio, ma che avesse
parlato e narrato la sua bellezza agl'ignoranti avria consentito. E più
possiamo ancora di lei dire che, per che ella conobbe più la sua rustichezza
essere atta alle cacce che ad amare, però quello uficio si prese. E come di
queste diciamo, così di Venere possiamo dire, la quale se bella come si canta
fosse stata, saria sì piaciuta ad Adone, che egli pauroso di perdere per morte
sì bella dea, avria i suoi sani consigli seguiti. E similemente possiamo di
molte altre dire quello che di noi non avviene. Io, bellissima, continuo bella
nella mia forma mi mostro, né cambio viso né figura perch'io cambi stagione; né
patisco eclissi come la luna fa, né mi nocciono i nuvoli d'austro, né i
rischiaramenti d'aquilone mi giovano come ad Appollo e a Giunone fanno, anzi, e
con questi e sanza quelli, continuamente bella dimoro. Né similemente mai al
viso d'alcuno riguardante mi nascosi, né mi nasconderei, ma sentendomi com'io
sento bella, mi diletto da molti essere amata e guardata. Io non comandai, né
pregai, né consigliai mai cosa ch'ella non fosse con sollecitudine messa in
effetto e osservata: dunque, più tosto io che alcuna delle sopradette sono da
essere chiamata dea". E qui si tacque.
[22]
Da
poi che Asenga tacque, Airam, quasi non meno che la prima superba, lodandosi
oltre modo, cominciò a parlare seguitando: "Voi la impotenza degl'iddii e
'l difetto delle loro bellezze biasimate, cosa da non sostenere in sì alto nome
sanza effetto: ma più di loro mancanza vi narrerò. Essi, sì come voi sapete,
delle future cose veridici proveditori si fanno, di quelle porgendo risponso a'
dimandanti, aggiugnendo che le presenti sanza mezzo conoscono, e in memoria
ritengono le passate. Ma questo non è vero, e però non si dee sostenere: se,
come già si disse, avessero forza, gli oltraggi che tutto giorno impuniti
veggiamo, sanza punizione non passerieno. Similemente se le bellezze loro le
nostre avanzassero, contenti ne' loro termini non quelle per le mondane abandonerebbero,
come molte volte hanno fatto e fanno. Se sì providi fossero come si tengono,
non agl'ingegni delle semplici giovani si lascerebbono ingannare, né quelle con
ingegni ingannerebbono. Se forti, perché in toro mutarsi per ingannare Europa?
Se belli, perché in oro per ingannare Danne? Se savi, perché non provedere
all'impromessa fatta all'amata Semelè Niuna di queste cose è in loro, e voi le
due avete mostrate, e io mostrerò la terza. Io non meno bella d'Alcitoe, amata
da molti e poi da Febo, con discreto stile amando, mai ad alcuno il mio cuore
non patefeci, ma per non disciogliere da' miei legami alcuno, quelli che tal
volta più m'erano in odio con più lusinghevole occhio li riguardava. Del numero
de' quali Febo, proveditore de' futuri accidenti, fu. Oh, quante volte egli,
per più lungo spazio potermi vedere, con lento passo menò i suoi cavalli per
mezzo il cielo, e ritennegli alcuna volta con adirata mano, affrettandosi essi
come erano usati d'andare all'onde di Speria, e spesso, non avendo ancora loro
rimessi i freni, a quelli medesimi si crucciò, volonteroso di cercare l'aurora
prima che 'l convenevole! Oh, quante volte si dolfero con lamentevoli voci le
Notti a Giove, dicendo che la ragione del loro spazio Febo l'occupava! E' mi
ricorda ancora che tanto fu un giorno il diletto che di mirarmi prendea, che
egli ebbe presso che smarrito l'usato cammino. E se non fosse il romore di
Cinosura, che, vedendolo di lontano, temeo le sue fiamme, che 'l fece in sé
ritornare, egli pure avria la seconda volta arso il cielo, e io di ciò m'avria
riso, se fulminato fosse caduto come il figliuolo. Io non so se fu mai savio
come si dice, ma se così fu, non so dove egli la sua scienza mandasse, che egli
sempre con ferma fede credette sé essere singolare signore dell'anima mia.
Esso, cercatore di tutto il mondo, portava seco d'ogni parte que' doni ch'egli
credea che mi dovessero più piacere, e con quelli s'ingegnava di servare
l'amore mio verso di lui, e per quelli sovente tentava di volere quel diletto
il quale egli avuto di Climene, più oltre non la richiese. Ma io, più provida
delle cose che deono avvenire di lui, essendo egli ancora del tutto dal mio
cuore lontano, ben che altro disiderio che di lui avere non mostrassi, con
belle ragioni e con impromesse prolungando le dimandate grazie, il tirai lungo
tempo, quelle altrui concedendo perché più m'era a grado. Egli forse di se
medesimo ingannato, mi si credea per la sua bellezza più ch'altri piacere: ma
non solamente sotto quella si ristringono l'amorose leggi. Questo gli recitò
Venere, conscia, sì come io avea voluto, di lei fidandomi, de' miei segreti, e
disegnolli il luogo degli amorosi furti, il quale egli della somma altezza
vide: per che quasi per grieve dolore turbato più giorni luce non porse. Ma la
mancante natura supplicando a Giove, si dice che nell'usato uficio il fece
tornare: ma mai da quell'ora in avanti con diritto occhio non mi guardò, ma
passando davanti a me traverso, quasi sdegnoso mi mira; di che io poco mi curo.
Ora poi che così colui che ha voce di tutte le cose vedere fu da me gabbato per
senno, che si fa ria degli altri iddii che tanto non veggono? Credibile è che
motto peggio se ne farebbe e fa, per che a me pare che se non sopra loro
meritiamo, almeno loro pari riputare, sanza alcuna ingiuria di loro, ci
possiamo: e se l'avviso mio non manca, possibile ci fia levare la falsa fama
che gli chiama dei, e porla a noi; né fia chi il contradica, solo che della
nostra grazia vogliamo far degni di quella i disianti".
[23]
Risero
delle parole di costei le stolte compagne; e poi la quarta di loro, chiamata
Annavoi, disse: "Perché in tante parole ci distendiamo? Veramente
nell'iddii né potenza, né senno, né bellezza dimora: e ancora più, essi, detti
misericordiosi da tutti i viventi, di quella niente hanno. Pietà niuna in loro
si trova: tiranni e usurpatori sono dell'altrui cose. E che feci io già in
dispetto di Diana, la quale vendicatrice dea è chiamata? Non le levai io con la
mia bellezza e con la forza della mia lingua, delle quali due cose io fui sopra
tutte le partenopensi giovani dotata, cinque fedelissimi servidori l'uno dopo
l'altro, avvegna che d'età fossero dispari, però che i due già vicini erano
all'arco sopra il quale umane forze più non s'avanzano ma vengono mancando, e
gli altri due ancora quelle guance mostravano che dalla madre recarono, e 'l
quinto non piena la barba a maggior quantità la serbava per iscemarla? Certo
sì. Costoro e con la bellezza degli sfavillanti occhi e con la dolcezza del mio
parlare, per lo quale meritai Sirena essere chiamata, legai io sì nelle mie
reti, che avendo loro fatti gittare gli archi co' quali prima per li boschi
servivano Diana, prima de' loro tesori con soave mano li privai, e quelli sotto
la mia balia ascosi, cavando loro poi del sinistro lato i sanguinosi cuori, li
lasciai sanza vita. Quale vendetta mai di questo si vide? Niuna certo: e
perché? Perché la potenza della parte offesa non era tale, e le vendette
seguono i meno possenti. Io tale quale sia essa non la curo: e cessi del mio
petto che io mai più in tale errore viva, che dii o dee creda che sieno o li
coltivi o porga prieghi. Noi siamo dee, e quelli uomini che ci piacciono nostri
iddii: e quali celesti regni più belli che questi nostri si poriano trovare?
Noi siamo tra quelle cose di che coloro, i quali l'errore rustico chiama iddii,
si tengono signori. Chi dubita che miglior partito ha chi nella sua città
guarnito dimora, che chi di lontano agognando se ne chiama signore? Noi belle,
noi savie, noi possenti siamo e saremo quanto il secolo si lontanerà, e degne
di quello onore che Giove e gli altri ingiustamente s'hanno usurpato".
[24]
Tacque
costei; e già la seconda volta nell'usato ordine ricominciavano il maladetto
parlare con più aspre parole, quando gl'iddii, né più né meno che i cittadini
della città, le cui mura subito sono assalite dal nascoso agguato de' nemici,
corrono or qua or là sanza ordine, e con fretta ora entrando ora uscendo delle
case prendono l'arme e cercano sanza troppe parole la loro difesa, correndo a'
dubbiosi luoghi, fecero, fra' celesti scanni da subita ira commossi, forse non
meno infiammati che quando dal bestiale ardire de' Giganti fu il cielo
assalito. Li quali così corsi dierono pauroso suono e chiusero il mondo
d'oscure nuvole, né a niuno vento fu tenuta la via: e crucciati tutti discesero
sopra questo luogo, la cui ira temendo la terra tremò forte. Ma essi lasciato
il furore, si dice che prima Venere con Cupido in questo luogo entrarono, né
trovarono però il malvagio colloquio cessato, anzi quelle ferme in quello, sanza
alcuna paura del divino giudicio, dimoravano. Qui Venere non salutò né fu
salutata; ma volta ad Alleiram disse: "Dunque, o iniqua giovane, prendi tu
gloria d'aver dispiaciuto a noi, e insuperbisci per la tardata vendetta, e
minacci di peggio operare? Or non pensi tu che con riposato andamento noi
procediamo delle nostre ire alla vendetta, poi il tardato tempo con
accrescimento di pena ristoriamo? Tu rea di gravissimo peccato, ora riceverai
guiderdone. Tu rifiutatrice de' nostri dardi, diverrai fredda e impossibile a
quelli ricevere: né più avanti piacerai, né vedrai chi per te o spenda, o muova
brighe, o si dimentichi, né più di cotali riderai, né eleggerai, né romperai
vasi. E come tu già niuna compassione avesti verso chi quella meritava, così
molti, sappiendo i tuoi casi, forse di te compassione avranno: ma niente ti
gioverà. E come altri a te per pietà già porse prieghi, così a te fia tolto di
poterne porgere. E sì come io non ti potei a' miei voleri recare, così me a'
tuoi non conducerà né uomo né dio. E prima le lagrime di colui che già fu tuo
finiranno, e tornerà la perduta allegrezza per più dolce obietto che tu non
fosti, che tu solamente in speranza ritorni di ritornare nella perduta forma. E
le laude già dette della tua bellezza in amorosi versi, altro titolo che della
tua prenderanno, né mai ti fia possibile il più nuocergli che nociuto gli abbi:
anzi se la mia deità merita di conoscere alcuna delle future cose, tu, vaga di
riavere la sua grazia, di quella patirai difetto, come mi pare, e misera
conoscerai quanta sia la mia potenza da te con parole orribili dispregiata. Tu,
dura e immobile a' miei voleri, in durissima marmore mutera'ti, e questa grotta
nella quale tu siedi ti fia etterna casa"; e più non disse. Queste parole
udendo Alleiram mutò cuore, e sariasi voluta volentieri pentere, ma non ci era
il tempo. Ella volle con alta voce domandare mercé, ma il sopravenuto freddo,
che già alla lingua così come agli altri membri avea tolta la possa, nol
sofferse: la pigra freddezza con disusato modo nel ventre ritirò le dilicate
braccia e le candide gambe, e in picciol spazio niuna cosa della bella giovane
si saria potuto vedere se non un bianco tronco, il quale in durissimo marmo
mutato, come voi vedete, fu trovato. E se forse alcuna rossezza in quello
vedete, dicesi che Lieo gliele diede, di cui più copiosa che 'l convenevole
dimorava, quando qui più furiose che savie vennero baccando.
[25]
Mentre
che così Venere parlava ad Alleiram, Airam dubitò forte, e volle fuggire del
luogo, ma le gambe, davanti snelle, già fatte pigre barbe di questo albero, la
ritennero. E Febo venuto presente con soave voce così le cominciò a dire:
"Adunque, o giovane, d'avermi ingannato, il tuo cuore celandomi e
togliendomi i cari doni, ti vanti? Male e poco senno è contra lo stimolo
calcitrare, ma acciò che a te non paia che noi le malfatte cose impunite
lasciamo, come avanti cantasti, tu prima per lo tuo parlare sarai punita, sì
come Perillo da Falaris per lo suo medesimo artificio fu. E già parte in albero
convertita, tutta in quello, avanti ch'io mi parta, ti muterai; e però che tu
avesti ardire di dire di volere essere nostra pari, tu i tuoi pedali avrai
torti, né fia loro licito il potersi troppo in alto distendere, ma più tosto
fieno sì bassi, che con poco affanno di terra ciascuno piccolo uomo coglierà i
tuoi pomi. E sì come tu de' miei doni ti dicesti occulta sottrattrice, così de'
tuoi frutti gran parte gitterai alla terra prima che maturi li vegga: né quelli
che rimarranno, sanza vederli io, maturerai già mai. E farò che, come tu del
tuo cuore fosti a ciascuno occultatrice, che i frutti tuoi, come il dolce tempo
della loro maturazione sentiranno, così incontanente, aprendosi in più parti, a
me e a chi vedere le vorrà mostreranno le tue interiora. E della tua corteccia,
però che sopra tutte l'altre bellezze la tua essaltasti, farò che chi alcuna
cosa in oscuro colore vorrà del suo mutare non possa sanza il sugo di
quella". E mentre che egli queste parole dicea, il miserabile corpo a poco
a poco stremandosi, li suoi membri riducea a questa forma che voi vedete questo
granato. Né prima che in questo albero fosse mutata, le fu possibile dire una
sola parola, e manco poi.
[26]
Asenga,
nel mezzo di queste due, paurosa né fuggiva, né chiedeva mercede. E chi poria
davanti dell'ira degli iddii fuggire? La Luna turbata le sopravenne, dicendo:
"O misera, quale cagione a contaminare la nostra bellezza ti mosse? Mai da
noi offesa non fosti, fuori solamente se io a' tuoi furtivi amori avessi forse
già porta luce, fuggendola tu; ma perché io di ciò a te dispiacessi, io ad
infinita gente ne piaceva: né però fu che io alcun tempo, a te e all'altre di
ciò dilettantesi, non lasciassi atto a' vostri falli. Tu noi mille forme mutare
in un mese confessi, tra le quali una volta bella e non più paiamo, e te
continua bellezza essere affermi; ma tu in picciolo pruno voltata, partorirai
fiori alla tua bellezza simili, i quali di mostrare quella una volta l'anno
saranno contenti, e poi che le loro frondi poco durabili cadute fieno, in quel
colore che per eclissi ne dicesti rivolgere, maturandosi, le tue bocciole
torneranno: e quelle tanto dal tuo pedale fieno guardate, quando le frondi, di
verdi tornate in gialle, fiano dal primo autunno percosse". E questo
detto, il bel corpo in gracile fusto mutossi, a cui le gambe in pilose barbe e
le braccia in pungenti rami, e la verde vesta in verdi frondi si mutaro, e 'l
candido viso e le belle mani bianche rose sopra quelle rimasero in questo
luogo.
[27]
Diana,
la cui ira non molto era mancata, stette sopra la timidissima Annavoi, dicendo:
"Ancora che la vendetta s'indugi, non menoma il dolore del dolente
ricevitore di quella. Tu, perfida ucciditrice de' miei suggetti, sempre il
commesso male mostrerai. Tu in essiguo corpo e debile a ciascuno offenditore,
ti muterai, e nella sommità di quello partorirai un fiore, il quale, chiuso, in
cinque frondette verdi mostrerà le tre età varie de' miei sudditi, e, aperto,
paleserà i mal tolti tesori, dintorno a' quali i cinque cuori de' miei suggetti
si vedranno"; né disse più. E questa subitamente in quella forma e in quel
modo che Asenga si mutò, e essa similmente; ma i fiori furono diversi, ché dove
Asenga in bianco fiore con molte frondi, Annavoi in vermiglio con cinque sole,
e in mezzo gialla, si trasformò. E questo fatto, gl'iddii tornarono ne' loro
regni, e l'aere cacciò i suoi nuvoli e rimase chiaro».
[28]
Con
maraviglia ascoltò Filocolo infino a qui la parlante giovane, dicendo poi:
«O
giusta vendetta, quanto dei tu essere temuta da ciascuno che queste cose
ascolta! Assai sostenne la divina pietà, ché certo la menoma delle molte parole
meritava maggior pena!».
E
con voce da questa assai diversa seguì queste altre parole:
«O
superbia, pericolosa pestilenza del tuo oste, maladetta sii tu! Tu, a te
iniqua, non sostieni compagno. Tu, non conoscente, se' de' meriti guastatrice,
invocatrice d'ira e suscitatrice di briga; chi seco ti tiene non sarà savio,
poi che tu, più altera che possente, hai vestite le tue armi, e con gli occhi
ardenti spaventi il mondo. Tu ti credi con le corna toccare le stelle, e,
parlando aspro, col muovere impetuoso, rigidamente operando cacci avanti a te i
men possenti; ma la vendicatrice giustizia di te contenta l'animo de'
sofferenti. Così dopo pochi passi torna la tua potenza come vela che per troppo
vento, l'albero rotto, ravolta cade. Tu simile a' robusti cerri, prima ti rompi
che tu ti pieghi a' soffianti venti. Male s'armarono queste misere per loro
delle tue armi. Male le tue corna si posero: giusta vendetta l'ha umiliate,
com'è degno».
E
queste parole dette, si volse al carro della luce, e videlo già il meridiano
cerchio aver passato, e declinare così il caldo come i raggi, per che a'
compagni tempo di tornare alla città disse che gli parea; ma prima con queste
parole parlò dicendo:
«O
sacro fonte, veramente delle dee luogo e guardatore delle loro vendette, per
quella pietà che a giusta ira le mosse ti priego, se per te Idalogo può niuno
soccorso avere, donagliele: spruovisi alquanto la tua dolcezza ad ammollare
l'acerba durezza della bella pietra da lui infino allo estremo dolore amata».
Alle
cui parole, se possibile fosse stato le 'nteriora del marmo vedere, vedute si
sarieno tremare, ma la morbida durezza del bianco aspetto, tenendo forse la sua
faccia, quello non lasciò palesare. E questo detto, Filocolo con le giovani
uscì di quella al chiaro giorno.
[29]
Il
debito ringraziare alle giovani da Filocolo fatto, mostrò quanto fosse stato a
Filocolo caro la dimostrazione della fonte fatta da loro, e simile il
chiarimento delle degne mutazioni: dopo il quale, da loro con piacevoli parole
prese congedo, verso la città co' suoi ritornando. Alla quale ancora non
pervenuto, di lontano conobbe Caleon, a lui carissimo per lo non dimenticato
onore, al quale egli sopravenne avanti che da lui conosciuto fosse. Ma non
prima Caleon lo conobbe che con riverenza il riceveo: e partita la maraviglia,
e l'amorose accoglienze finite, Caleon voltò i passi e con Filocolo nella città
ritornò, de' suoi felici casi contento, ben che a' suoi, contrarii, alquanto la
sforzevole entratrice invidia aggiugnesse dolore.
[30]
Tornati
alla città, Filocolo domanda che sia della bella Fiammetta, per adietro stata
loro reina nell'amoroso giardino; alla cui domanda Caleon subito non rispose,
ma bassò la fronte, e con dolore riguardava la terra. A cui Filocolo:
«O
caro amico, come prendi tu ora turbazione di ciò che già mi ricorda ti
rallegravi? Qual è la cagione? Non vive Fiammetta?».
Allora
Caleon dopo un sospiro disse:
«Vive,
ma la fortuna volubile m'ha mutata legge, e tale me la conviene usare, che
assai più cara mi saria la morte».
«E
come?», disse Filocolo. A cui Caleon:
«Quella
stella, al chiaro raggio della quale la mia picciola navicella avea la sua
proda dirizzata per pervenire a salutevole porto, è per nuovo turbo sparita: e
io misero nocchiero rimaso in mezzo mare sono d'ogni parte dalle tempestose
onde percosso, e i furiosi venti, a' quali niuna marinesca arte mi dà rimedio,
m'hanno le vele, che già furono liete, levate, e i timoni, e niuno argomento
m'è a mia salute rimaso: anzi mi veggio d'una parte al cielo minacciare, e
d'altra le lontane onde mostrano il mare doversi con maggior tempesta
commuovere. I venti sono tanti ch'io non posso né avanti né adietro andare, e
se io potessi, non saprei qual porto cercare mi dovessi. E ancora che la morte
mi fosse cara se mi venisse, nondimeno mi pure spaventa ella sovente sopra le
torbide onde con le sue minacce, e gl'iddii hanno gli occhi rivolti altrove, e
a' miei prieghi turati gli orecchi, e i falsi amici m'hanno lasciato, e il
buono non mi può atare: qual io stia omai pensatelvi».
[31]
Filocolo,
che già tali mari avea navicati, a se medesimo pensando, di Caleon divenne
pietoso, e disse:
«Giovane,
a quel maestro che ha più volte operando la sua arte esperta si puote e deesi
credere con più giusta ragione che a quello o che la sperimenta o sperimentare
la dee; né questo si può negare. Sono adunque i mutamenti della fortuna varii e
le sue vie non conosciute. Già fu che io con più tempesta ne' mari dove il tuo
legno dimora mi trovai che tu non truovi, e certo io non potea sperare se non
morte, né altro dintorno mi vedea, quando subitamente in porto di salute mi
vidi con tranquillo mare. E tu ti dei ricordare, non sono ancora molti anni
passati, quanto la tua vita alla mia fosse contraria, quando ti specchiavi nel
tuo disio, e io pellegrino con grieve doglia ignorava ove il mio fosse; e ora
io il mio veggio e tengo, e tu quello che avevi non tieni; per che, a me
riguardando, dei sperare bene. La tua doglia è grandissima: ma chi dubiterà che
dopo gli altissimi monti non sia una profonda valle? Io, il quale ho corsi i
dolenti mari tutti, e a cui né scoglio né secca né porto s'occulta, in quelli
voglio della tua navicella essere nocchiero, e spero con quella arte che io a
salutevole porto pervenni, te delle pestilenziose onde trarrò quando ti
piaccia».
«Adunque
- disse Caleon, - o signor mio, nelle tue mani sia la vita mia».
[32]
Finito
il ragionamento, e Filocolo dimorato alcun giorno con Caleon, lo stretto
vinculo del paterno amore lo 'ncominciò a stringere, e con intera volontà
disidera di rivedere i parenti, e così propone e comanda che verso Marmorina si
prenda il cammino, e con seco mena Caleon, disideroso della futura salute. Elli
passano, o Capis, la tua città, Capo di Campagna; e le fredde montagne, fra le
quali Sulmona, uberissima di chiare onde dimora, si lasciano dietro, e
pervengono al luogo ove l'uccello di Dio, mutato in contrario pelo, da rustica
mano si dovea ancora portare in insegna. E quindi partiti, passano l'alpestre
montagne e truovano le dolci onde del Tevero; e passando avanti, i gelati monti
truovano ancora tiepidi delle battaglie di Persio. Né videro la sera del
secondo giorno che alle graziose montagne pervennero, che nel futuro da' vecchi
doveano pigliare etterno nome. Quivi venuti, Filocolo si ricordò di Fileno, il
quale in fonte lasciato avea sopra il cerruto poggetto, e disideroso di
rivederlo, là egli e' suoi compagni n'andarono, non avendo il sole ancora di
quel giorno l'ottava ora toccata.
[33]
Li
grandi arnesi s'acconciarono al riposo de' caldi giovani, e sopra le verdi erbe
fra' salvatichi cerri presono il cibo, dopo il quale, in picciolo spazio, con
non pensato passo la notte li sopravenne, e il cielo pieno di chiare stelle
dava piacevole indizio al futuro giorno. Per che Filocolo vicino alla fontana,
sopra un praticello pieno di verdi erbette, fece chiamare Biancifiore, alla
quale era ignoto il luogo dov'ella fosse, e con parole piacevoli così le
cominciò a dire:
«O
lungamente da me disiderata giovane, dimmi, per quello amore che tu mi porti,
il vero di ciò ch'io ti domanderò».
«Sì
farò», disse Biancifiore. A cui Filocolo seguì:
«Etti
uscito della memoria Fileno, a cui tu con le propie mani donasti per amore il
caro velo? O sospirasti mai per lui poi che di Marmorina temendomi si partì?».
A
queste parole dipinse Biancifiore il suo candido viso per vergogna di bella
rossezza, ma le notturne tenebre le furono graziose, e quello celarono, e
rispose così:
«Signor
mio, a me sopra tutte le cose caro, e a cui niuno mio segreto dee essere
ascoso, assai volte di Fileno mi sono ricordata e ricordo. E come potrà egli
mai della mia memoria uscire, con ciò sia cosa che ancora mi spaventi la
rimembranza della pistola ch'io da te ricevetti, turbato per falsa oppinione
avuta in me per lo ricordato velo, il quale io, costretta dalla tua madre,
donai, non per mia voglia? Ma veramente mai amore per lui sospirare non mi
fece: anzi giuro che se licito mi fosse odiarlo, io chiederei di grazia
agl'iddii che la sua memoria levassero di terra».
Disse
allora Filocolo:
«Sariati
caro vederlo?».
A
cui Biancifiore:
«Certo
sì, nella vostra grazia; e la cagione che a questo mi moveria non saria amore
ch'io gli porti, ma sola pietà de' suoi parenti, la vita de' quali io reputo
che simile a quella de' vostri sia, con ciò sia cosa che egli a' suoi unigenito
sia, come voi ai vostri: ma voi per me lasciaste i vostri dolenti, e egli sanza
alcuna colpa, che per sospecione di me legittima commettesse, meritò la vostra
ira. Amommi, e però fu tolto al padre. Or che avria la fortuna fatto alli
nocenti, se elli m'avesse odiata? Concedano gl'iddii e a voi e a me che da tutti
siamo di buono amore amati, e se essere non può che amati siamo di qualunque
amore, amando noi ciascuno come si conviene».
«Ottimamente
parli - disse Filocolo, - e io la mia grazia e la tua presenza gli renderò,
certo della tua fede, della quale ben fui per adietro certo; ma noi amanti ogni
cosa temiamo, e però odiai. Come Febo ne renderà il nuovo giorno, rendute
grazie agl'iddii che prima di te mi dierono speranza buona, ti farò lui vedere,
il quale per dolore in su questo poggio in fontana si convertì».
[34]
Posaronsi
la notte nel selvatico luogo sotto le tese tende, difesi da' sopravegnenti casi
da' suoi sergenti; ma venuto il giorno, il duca e Ascalion e gli altri compagni
insieme con Caleon furono a chiamare Filocolo, il quale levato, fece l'antico
tempio mondare, come altra volta avea fatto, e accendere i fuochi sopra gli
umidi altari; e fatti uccidere più tori per la salvazione di sé e de' suoi
compagni, con puro cuore offerse a' fuochi le debite interiora di quelli,
rendendo con queste voci grazie de' ricevuti beni:
«O
sommo Giove, governatore dell'universo con ragione perpetua, e tu, o santa
Giunone, la quale con felice legame congiugni e servi longevi i santi
matrimonii, e tu, o Imineo, degno e etterno testimonio di quelli, lodati siate
voi! Ora per voi sento pace, e ho la lunga sollecitudine abandonata, però che
gli occhi miei veggono ciò che per adietro lungamente disiderarono, e le mie
braccia stringono la sua salute. E tu, o santissima Venere, madre de' volanti
amori, insieme col tuo amante Marte, ricevete i nostri sacrificii; i quali sì
come a protettori e guidatori delle nostre menti offeriamo. E voi qualunque
iddii del solitario e diserto luogo siete abitatori, e da cui la veridica
promessione ricevemmo, prendete olocausto in riconoscenza di tanto dono. O
cielo, adorno di molte stelle, ricevi con tutti i tuoi iddii le nostre voci, e
tu, terra, co' tuoi, e similemente co' suoi il verdeggiante mare; e della
nostra salvazione, visitati con possibili sacrificii, vi rallegrate, e per
inanzi di bene in meglio ne prosperate, acciò che nelle nostre bocche sempre
cresca la vostra loda».
Biancifiore
e Glorizia, Ascalion e 'l duca e gli altri compagni e servidori di Filocolo,
tutti ginocchioni nel tempio davanti a' crepitanti fuochi dimoravano, seguendo
con tacita voce ciò che Filocolo alto dicea nel cospetto degl'immortali iddii.
Ma finite le divote orazioni, e levati da quelle, ordinarono, ad onore di
quelli, giuochi con solenne ordine, e di quindi se ne vennero sopra la bella
fontana; alla quale venuti, sopra la verde erbetta che i margini di quella
adornava, Biancifiore prima e poi ciascuno degli altri si posero a sedere e
videro quella per li due luoghi del mezzo, sì come usata era per adietro,
bollire. Di che Biancifiore, che ancora veduta non l'avea, si maravigliò, e
pensando allo stato di Fileno nel quale già per adietro veduto l'avea, e a
quello in che ora il vedea, pietosa sanza fine quella riguardando divenne, e
parlato avria la sua pietà dimostrando, se non che avanti di lei cominciò verso
Filocolo Menedon a dire queste parole:
[35]
«O
grazioso signore, debita pietà mi muove, la quale, dentro al cuore, del misero
Fileno mi porge compassione, pensando che gli avversarii fati tanto tempo fuori
della sua forma in questa l'abbiano tenuto: e certo se benivoli mi fossero
gl'iddii, io gli pregherei per la sua salute, dove a voi dispiacere non
credessi, però che egli mi fu assai caro e a voi non dovria già dispiacere,
però che se voi avete i vostri disii ricevuti, degli altrui danni non dovete essere
vago».
«Non
m'aiutino essi iddii - disse Filocolo, - se io la salute di Fileno non
disidero, e se quella non mi fosse cara, se la vedessi».
[36]
Mentre
così sopra la chiara onda si ragionava, quella, tutta commossa, del mezzo di sé
mandò fuori una pietosa voce, e disse:
«O
tu, il quale da debita pietà de' miei danni se' mosso a sì bene per me parlare,
e cui alla voce riconoscere mi pare, se lungo dolore, o voce a quella ch'io
credo simile, non m'inganna, gl'iddii mettano il tuo piacere avanti, e te guardino
da simile caso, acciò che mai non pruovi quello di che se' con ragione pietoso.
Io ti priego per quella pietà che di me nel tuo petto dimora che, s'io mai ti
fui caro, che quello che poco inanzi dicevi metti avanti, acciò ch'io così ti
possa vedere come io t'odo parlare, e adempiasi quello che la speranza mi
promette».
Menedon
e gli altri a questa voce tutti attoniti diventarono, ancora che altra volta
l'avessero udita parlare, e tacquero alquanto; poi Menedon rincominciò:
«Niuna
ammirazione ho se la mia voce conosci, però che sì com'io credo, le avversità
non danno a chi le riceve dell'amico oblianza; ma dimmi, se non t'è grave, qual
via sia a' tuoi beni più utile, acciò che io per quella correndo ti riduca nel
pristino stato».
A
cui Fileno:
«Oimè,
quanto lontano a quella ti sento! Una sola cosa mi manca, la quale avendo
viverei contento, e quella è la grazia del signor mio Florio, figliuolo
dell'alto re Felice, a cui già ti conobbi compagno: gl'iddii me ne sieno
testimonii che fedelmente l'amai e amo! E' non è lungo tempo passato che i miei
dolori multiplicarono, sentendo io da un giovine, di Marmorina vicino, che
quinci passò, com'egli avea la sua bella Biancifiore perduta, e pellegrinando
con dolore la ricercava: e se quella riavessi, certo io conosco gl'iddii sì
misericordiosi, ch'essi mi renderieno la perduta forma. Dunque, sola quella mi
procaccia con valevoli prieghi, quella mi racquista se me vuoi trarre
d'affanno. E se tu, o giovane, disideri forse di sapere perché io la perdessi,
io tel dirò. Certo io non sacrilegio, non tradimento, non omicidio, non
ribellione commisi, perché giustamente movessi il mio signore ad ira, ma come
giovane amai: e cui? Non sua nimica, ma quella giovane che lui sopra tutte le
cose del mondo amava: io dico di Biancifiore, la cui bellezza quanti la vedeano
tanti ne innamorava. E certo io ignorava che egli lei amasse, ché se saputo
l'avessi, ben che il cuore dell'amore di lei portassi feruto, con forza mi
sarei infinto di non amarla. E ben che io pur molto l'amassi, guastava però il
mio amore la sua fermezza, la quale si dice che mai per alcuno accidente non
mutò cuore? Certo no! E se io il bel velo ebbi, il quale col mio non tacere mi
fu di tanto male, quant'io sento e ho poi sentito, cagione, ella, invita, comandandogliele
la reina, mel concedette: dunque per amore puoi vedere ch'io mi dolgo. Oimè,
che se l'ira d'uno potesse trarre amore del cuore ad un altro, io direi che
licito gli fosse stato l'adirarsi; ma quella in me misero il multiplicò, né
l'ha però mancato il lungo essilio. Or quali cose sono con maggiore appetito
disiderate che quelle che sono molto vietate? Veramente ti giuro che mai il mio
pensiero non si distese tanto avanti ch'io sconcia cosa di Biancifiore
disiassi, né disidererei già mai, sentendo com'io sento che ella sia da lui
sopra tutte le cose amata. Né mi pare ingiusta cosa a dire ch'egli più si debba
contentare che io la ami che se io la odiassi. E se quello c'ho detto non si
concede, e dicasi pure ch'io gravemente abbia fallito, consentasi, e sia a chi
si pente largito perdono. Giove perdona e ciascuno altro iddio a' suoi
offenditori, quando, riconosciuto il fallo, pentendosi domandano perdono.
Veramente mi saria grazia, s'io fallii, che 'l mio signore mi perdoni, ché s'io
non fallii, avendomi in ira, mancherebbe di suo dovere. Tanto è la grazia
grande quanto il perdono. Niuna ragione vuole che grado si senta del non
ricevuto servigio. Se io fossi in Marmorina e servissilo e avessi la sua grazia
intera, di ciò al mio servigio sentirei dovere rendere grazie. Oimè, che a'
signori dovria essere spesso caro il fallire de' suggetti per poter perdonare,
acciò che perdonando la loro grande benivolenza mostrassero. Sanno però
gl'iddii, conoscitori degli occulti cuori, che io tal guiderdone del mio amore
non meritai, ma forse altro peccato a sì fatta pena, sotto questo titolo
d'avere Biancifiore amata, non sanza ragione, m'ha menato. Bel la vittoria e
grande è il perdonare. Dunque per onore del mio signore e per lo mio utile
priega: e se tanto di me ti cale, non ti paia l'affanno, che non fia piccolo,
malagevole, acciò che me possa rendere lieto a' miseri parenti, ignoranti de'
miei angosciosi fati. Per merito del quale bene, se 'l farai, spero che
lungamente gl'iddii ti serveranno lieto a' tuoi, se gli hai».
[37]
«Non
fia sì lungo come pensi l'affanno», rispose Menedon alla fonte. E volto a
Filocolo, a cui niente riferire bisognava, ché tutto avea udito, con umile
preghiera gli domandò che la sua grazia gli rendesse, e con Menedon ciascuno
degli altri in merito del lungo affanno similemente la dimandarono. A' quali
Filocolo liberamente la concedette, giurando per se medesimo che di perfetto
amore l'amerà per inanzi, e le preterite cose sì come fanciullesche metterà in
oblio: di che tutti il ringraziarono. E Filocolo a Biancifiore commise che sì
lieta novella narrasse all'aspettante, la quale graziosa non aspettò il secondo
comandamento, ma voltato sopra la fonte il viso, riguardando in essa, disse:
«O
giovane, che nelle liquide onde la tua forma nascondi, confortati, la grazia
del tuo signore t'è renduta: e però sicuro nella sua presenza ti presenta».
La
chiara fonte sì tosto come in sé riceveo la bella imagine della sua donna, così
la conobbe, e lasciato l'usato bollire, con soave movimento intorno a quella
mostrava festa, e la voce entrata per le dolenti caverne rendé letizia al
misero; per che così parlò:
«O
immortali iddii, a' quali niuna cosa si occulta, sia lodata la vostra
inestimabile potenza. Io per la vostra benignità di quella dolcezza ho gustata,
che la nemica fortuna mi tolse quando Marmorina abandonai, e quella donna, per
cui l'amara iniquità sostenni, quella la riavuta grazia m'ha annunziata.
Piacciavi adunque misericordiosamente operare ch' io nella prima forma tornando
lieto a' cari amici mi presenti».
Egli
dicea ancora queste parole, quando i circunstanti videro le chiare acque
coagularsi nel mezzo e dirizzarsi in altra forma abandonando il loro erboso
letto, né seppero vedere come subitamente la testa, le braccia e 'l corpo, le
gambe e l'altre parti d'uno uomo, di quelle si formassero, se non che,
riguardando con maraviglia, co' capelli e con la barba e co' vestimenti bagnati
tutti trassero Fileno del cavato luogo, e davanti a Filocolo il presentarono.
Al quale egli, come il vide, s'inginocchiò davanti e con pietose voci dimandò
perdono, e appresso di Filocolo la benivolenza: le quali cose benignamente
Filocolo gli concesse. Egli fu di nuovi vestimenti adorno, e i raviluppati
capelli e la male stante barba furono rimessi, in ordine, levandone le
superflue parti, e lieto si diede con gli altri cavalieri a far festa,
maravigliandosi non poco qual caso quivi gli avesse menati insieme con
Biancifiore. Il cui viso poi ch'egli ebbe veduto, stimandolo più bello che mai gli
fosse paruto, contento tacitamente si dispose al vecchio amore, credendo sanza
quello niuna cosa valere.
[38]
Queste
cose così faccendosi, s'udì nel luogo un grandissimo romore, come di gente che,
combattuto, avesse la vittoria del campo acquistata. Del quale Filocolo e' suoi
si maravigliarono e dubitarono alquanto, e domandarono Fileno se noto gli fosse
che significasse il romore e chi 'l facesse. A' quali Fileno rispose sé molte
volte simili romori avere uditi, ma per che fatti fossero del tutto ignorava.
Allora sì come a Filocolo piacque, il duca Ferramonte e Messaallino, sopra
forti cavalli, armati e accompagnati da molti de' servidori, andarono per cono
scere la cagione di tanto romore, e usciti del folto bosco videro nel piano,
alla riva del picciolo fiume, dall'una parte e dall'altra, molta gente rustica
nel sembiante, a' quali non tenda, non padiglione era, ma tagliati rami dava
loro le disiate ombre; né alcuno v'era di cappello d'acciaio o d'elmo che
rilucesse, né alcuno cavallo facea fremire il povero campo, né tromba risonare,
ma rozzi corni movea la disordinata gente a' suoi mali; e quasi la maggior
parte delle loro arme erano bastoni, e poche spade teneano occupati i loro
lati, le quali poche non aveano forza di piegare i solari raggi in altra parte,
che dove il sole gli mandava. I loro scudi erano ad alcuni le dure scorze del
morbido ciriegio, e altri si copriano di quelle della robusta quercia, e
alcuni, forse più nobili, gli aveano, ma sì affumicati, che in essi niun'altra
cosa che nera si vedea. In luogo di balestra usavano rombole, e i loro
quadrelli erano ritondi ciottoli; le loro lance si prendeano da' fronduti
canneti. Archi erano loro assai, le cui saette in luogo di ferro erano apuntate
col coltello, né era loro bandiera alcuna, fuori che una di tela assai vile, la
quale mezza bianca e mezza vermiglia si mostrava al vento, credo più tosto di
pecorino sangue tinta che di colore; e simigliante l'avversa parte l'avea di
tanto diversa, che all'una era il bianco di sopra e all'altra di sotto; e di
dietro a queste ora qua, ora là, quale poco e quale assai, correano
disordinati.
[39]
Come
il duca e Messaallino videro il rozzo popolo, di loro si risero, e alquanto gli
riguardarono, e già aveano determinato di ritornarsi indietro, quando Messaallino
disse:
«Perché
non andiamo noi a loro, e di loro condizione ci facciamo certi, acciò che
tornando a Filocolo, il quale di tutto loro essere ci domanderà, non sappiendo
gliele ridire, non siamo da lui scherniti?».
«Andiamo»,
rispose il duca; e verso quelli che già mostravano di loro dubitare, con segno
di pace s'appressarono, e con graziosa voce, non mostrando d'avere la loro
picciola condizione a schifo, gli salutarono, e quelli, che sopra la riva del
fiume dimoravano dal lato del bosco, domandarono chi essi fossero e perché
quivi stessero, e quale era stata la cagione del loro romore poco avanti. A'
quali uno di loro, il quale forse degli altri avea il maestrato, così rispose:
«Noi,
i quali voi qui vedete, siamo abitatori d'un picciolo poggio qui vicino, il
quale i nostri antichi chiamarono Caloni, e noi da quello Caloni ci chiamiamo,
popolo robusto e fiero nelle nostre armi, né niuno altro è a cui il lavorio
della terra meglio sia noto, né che fatica in ciò a comparazione di noi possa
durare: e la cagione per che qui dimoriamo è acciò che passare possiamo questo
fiumicello e di sopra quel terreno cacciare in perdizione la gente che vi
vedete, la quale nuovamente venuta qui, un poggio simile al nostro, che nostra
iurisdizione era, s'hanno preso, e abitanio oltre a nostro volere, e chiamansi
Cireti. I quali, come voi vedete, a contradirci il passo qui a fronte a noi
sopra la riviera si sono posti, né in alcuna parte possiamo su per quella
andare che essi non ci vengano tuttavia davanti. Il gran romore che fu poco
avanti fu per due che nell'acque si combatteano, a conforto de' quali ciascuna
col gridare aiutava il suo; ma ultimamente il nostro ebbe vittoria, per che di
quercia il coronammo, come là vedere il potete».
Disse
allora Messaallino:
«Secondo
ch'io avviso, voi dovreste con pace poter sostenere che coloro abitassero il
vostro poggio, però che si gran popolo non mi parete che soperchio terreno
sanza quello che coloro hanno preso non abbiate, ma n'avete tanto che sanza
cultura la maggior parte veggiamo».
«Certo
- disse il villano - più contrarietà di sangue che vaghezza di terreno ci muove
a queste brighe, per mio avviso».
«E
che contrarietà di san gue è tra voi? - disse Messaallino; - non siete voi
tutti uomini, e in una contrada abitate e in un luogo?».
A
cui colui rispose:
«Noi
fummo dell'antica città di Fiesole, e allora di quella uscimmo quando
Catellina, de' nostri mali singolare cagione, superato da Antonio e da Afranio
ne trasse i nostri antichi, i quali della mortale battaglia appena campati qui
fuggirono, e quasi in dubbio di loro salute abitarono quel poggetto che davanti
vi dissi, sotto quel nome ch'avete udito che ci chiamiamo. Ma costoro, non è
gran tempo passato, quando Attila guastò la nuova città da' romani fatta a piè
della nostra, temendo le fiamme e l'ira del tiranno, qui fuggirono, e sanza
alcuno congedo s'abitarono il paese prima da noi occupato: per che noi, a
giusta ira mossi, ogni anno a quello che ora ne vedete ne siamo e saremo infino
a tanto o che noi di questo paese fuggendo gli cacceremo o che essi noi alle
nostre case renderanno vinti».
[40]
Udite
queste cose, il duca Ferramonte e Messaallino si partirono da loro e tornarono
a Filocolo, e ciò che udito aveano e veduto gli dissero: di che Filocolo si
rise, e volle andare a vedere. E venuto ad essi, tanto con parole gli commosse
che essi, preso ardire, si misero a passare il fiume, il quale non sopra la
cintura gli bagnava. Ma essi non furono giunti all'altra riva, che i loro
avversarii armati loro vennero incontro, e in mezzo 'l fiume incominciarono
sanza ordine la loro battaglia, forte co' duri bastoni lacerando le salvatiche
armi e i loro dossi. Arco né rombola non ci avea luogo per la loro vicinità; e
se alcuna spada v'era, o dava in fallo o se feriva si torceva. L'acqua che già
più rossa che bianca correa gl'impediva molto, e tal volta i più codardi facea
valorosi combattitori, ritenendo i loro piedi nella molle arena, i quali per lo
duro campo sarieno fuggiti. Ma poi che lungo spazio combattendo ebbero durato,
tornandone molti dall'una parte e dall'altra magagnati, avendo Filocolo assai
riso co' suoi compagni de' modi nuovi di costoro, col suo cavallo entrò
nell'acqua, e i pochi rimasi alla battaglia divise, e ciascuno pari fece al suo
campo tornare. Ritornati così costoro, non dopo molto spazio le risa di
Filocolo si voltarono in pietà, vedendo i magagnati dolersi e sanza alcuno
compenso a' loro mali. E però che a lui parea di ciò essere cagione, si pensò
di volergli pacificare, e in restaurazione de' loro danni edificare loro una
terra nella quale sicuri vivessero sotto savio duca: e questo narrando a'
compagni, da tutti li fu lodato.
[41]
Allora
Filocolo fece a sé chiamare dell'una parte e dell'altra i principali, e la
cagione domandò della loro discordia. De' quali l'uno perché combatteva,
l'altro perché si difendeva narrarono interamente, a' quali Filocolo così
disse:
«O
miseri, poveri d'uomini e d'avere, perché al piccolo numero di voi, il quale ha
più tosto d'aumento bisogno che d'altro, combattendo cercate distruzione? A voi
dovria bastare seguire di Saturno la dottrina, sanza volere di Marte usurpare
l'uficio, però che in voi né nobiltà di cuore, né ordine, né senno, né arme non
dimora. Voi combattete acciò che soli qui rimagnate in questo piano, ma voi non
v'avvedete che se questo continuate in brieve tempo il piano di voi rimarrà
solo, e le case che voi avete con affanno fatte e dovreste in pace abitare,
gente strana verrà che sanza affanno le si goderà. Or fu dagl'iddii data alla
terra l'ampia superficie, perché un popolo solo la dovesse abitare? Non vi
bastava il luogo che possedete? Che vi facea se costoro alquanto da voi lontani
si posero a dimo rare, i quali, pensando che vostri antichi fratelli furono, se
ben si guarda, dovavate nelle vostre case propie ricevere, pensando similmente
che voi così come essi fuggitivi veniste in questo luogo, e quella ragione ci
avavate che essi ora per loro difendono? Io pietoso de' vostri danni voglio che
l'uno all'altro perdoni le ricevute offese, e sia tra voi vera e perfetta pace;
e sì come voi foste fratelli, così ritorniate, e de' due popoli piccoli e
cattivi divegnate uno buono e grande. E io, acciò che l'uno non disdegni andare
a casa l'altro ad abitare, vi darò nuova abitazione, la quale io vi cignerò di
profondi fossi e d'altissime mura e di forti torri, e in quella vi donerò armi,
per le quali, se alcuno vicino invidioso del vostro luogo ve 'l volesse torre,
il potrete difendere. Io vi darò in quello similemente chi vi guiderà con
ragionevole ordine e le vostre quistioni con diritto stile terminerà, e sotto
la cui protezione sicuri viverete come uomini: e oltre a tutto questo, vi
donerò doni, per li quali ornare vi potrete e parer belli quando gli altrui paesi
visitare vorrete». Dinanzi al viso del magnifico uomo niuno seppe che dirsi, ma
contenti dell'alte promesse, strignendo le spalle, dopo alquanto risposero:
«Messere,
noi faremo ciò che voi vorrete».
E
tornati, ciascuno a' suoi queste cose riferì. E quale migliore novella poria
loro essere contata? Essi, poco davanti stati in tanta discordia, insieme nel
cospetto di Filocolo tutti ne vennero, e quelli che impotenti erano per li
ricevuti colpi vi si fecero portare, e gittatiglisi a' piedi, con una voce tutti
la proferta grazia domandarono, la quale Filocolo disse di dare. E fattigli
entrare nel santo tempio, prima per la futura pace offersero sacrificio
agl'iddii e quella con orazione divota domandarono, poi in presenza degl'iddii
e di Filocolo e de' suoi baciandosi tutti insieme giurarono mai per alcuno
accidente tal pace non rompere, ma intera essi e' loro successori servarla, e
sempre essere a Filocolo, o a chi per lui vi rimanesse, suggetti.
[42]
Queste
cose fatte, Filocolo rimase in sollecitudine d'osservare le promesse cose, e
co' suoi compagni cavalca per la contrada salvatica, essaminando con gli occhi
e con la mente qual luogo più alle nuove mura fosse atto, appresso del quale
insieme andavano Fileno e Caleon simile cosa guardando. E avendo per lungo
spazio attorniato il paese, Caleon disse a Fileno:
«Perché
Filocolo sopra questo poggio, dove questo cerreto dimora, non edifica la nuova
terra? Niuno luogo ho veduto ancora in queste parti tanto atto a tal mestiero:
questo tutta la contrada signoreggia, questo forte luogo e bello, questo
d'acque abondevole, sì come molti piccioli rivi ne mostrano. Questo è quasi in
mezzo tra l'una abitazione e l'altra de' due popoli tornati uno. Niuno difetto
è qui, per lo quale più tosto sia da cercare altro luogo. Elli ha similemente
dalla orientale piaggia vicino il fiume ove fu la sconcia zuffa di costoro, e
'l mezzogiorno dà loro il veloce fiume chiamato Elsa. Io direi che questo fosse
il migliore luogo che avere si potesse in questa parte». Questo diviso piacque
a Fileno, e parveli di dirlo a Filocolo. Le quali cose come Filocolo udì, così
acconsentì al loro consiglio dicendo:
«Veramente
così è come voi dite, e qui per lo vostro consiglio fermeremo a' villani la
nuova terra».
[43]
Chiamaronsi
i villani come a Filocolo piacque, e l'antica selva, dove mai scure non avea
suo taglio provato né dente d'alcuna bestia fatto offesa, per paura degl'iddii,
credendo i circunstanti che eziandio qualunque fronda era in quella fosse piena
di deità, comandò che si tagliasse tutta, prima con pietosa orazione scusandosi
agl'iddii, se in essa forse alcuni n'abitavano, così dicendo:
«O
iddii di questo luogo abitatori, se alcuno ce ne abita, perdonatemi la nuova
ingiuria la quale io non arrogante contro alla vostra potenza commetto come
Erisitone fece, ma disideroso di darvi per abitaculo più fruttuosa selva che di
cerri, fo questo».
E
dette queste parole, con le propie mani faccendo quello che molti dubitavano di
fare, a tutti porse ardire.
[44]
Tagliasi
l'antico bosco, e Filocolo, pietoso de' disperati popoli, pensa al loro riposo,
con sollecitudine, disiderando poi di rivedere il padre. Ma Biancifiore da
altra sollecitudine è molestata: Glorizia, che il dolce aere della vicina Roma
sentiva, accesa d'ardente disio di rivedere quella oltre all'usato modo,
dimorando sola un giorno con Biancifiore, così le cominciò a dire:
«O
giovane donna lungamente per lo mondo errata, come non ti strigne l'amore della
tua patria? Come non disideri tu di vedere la tua Roma la quale tu mai non
vedesti? Or non ti saria egli caro vedere gli stretti parenti del tuo padre e
quelli della tua madre, i quali tu niente conosci né essi te? Tu ora se' a
quella vicina, né niuno tempo puoi a rivederla eleggere migliore: e certo quello
che fu in disiderio agli strani, posti nell'ultime parti de' regni, de' quali
io ancora ti vedrò coronata, ben dee essere a te, di lei figliuola, in volontà:
pregane il tuo Florio che di quindi andiamo, il quale niuna cosa pare che tanto
disideri quanto piacerti. E se egli forse per la nuova impresa vuole pure
essere qui, e questo fornito, non vuole più tempo mettere in mezzo a rivedere
il padre, concedati almeno che in questo mezzo noi possiamo andar a vederla,
accompagnate dal suo e tuo maestro Ascalion. Noi peneremo poco a tornare qui,
ché certo quinci par tendoci non si vedrà il sole sei volte nuovo, prima che
Roma tu, veduti i tuoi strettissimi parenti e di Roma grandissimi prencipi,
vedrai. Le grandissime nobiltà della tua terra, tra le quali il gran palagio
ove i romani consigli si faceano, vedrai, e similemente il Coliseo, e
Settensolio, fatto per gli studii delle liberali arti. E vedrai la sepoltura
del magnifico Cesare, tuo antico avolo, posta sopra aguto marmo di Persia; e
vedrai la colonna Adriana e l'arco adorno delle vittorie d'Ottaviano. O quante
cose mirabili ancora, vedute queste, ti resteranno a vedere! Io poi da tutti i
tuoi parenti conosciuta, darò con le mie parole ferma fede che tu di Lelio e di
Giulia sii stata figliuola, e sarò creduta, però che i miei parenti, ancora che
io al tuo servigio sia, non sono ignobili. E essendo tu riconosciuta da' tuoi,
sarai ricevuta negli alti palagi e intorniata di nobilissime donne, le quali
per grande amore che t'avranno e per le tue bellezze ti guarderanno per
maraviglia, faccendoti ciascuna onore a pruova, e sarai da tutte tacitamente
ascoltata narrando i tuoi casi, i quali esse ascoltando spanderanno lagrime
d'amore baciandoti mille volte, e appena parrà loro che tu con esse sia, tanto
fia il disiderio loro d'essere con teco. E i fratelli del tuo padre, lieti di
sì bella nipote, ordineranno feste, parendo loro avere racquistato il perduto
Lelio, e saranno molto più di te ora contenti che se piccolina t'avessero
avuta, e massimamente sentendo la verità della tua virtuosa vita, laudevole
infra le dee del cielo, e ancora veggendoti sposa di Florio, figliuolo di sì
alto re, come è quello di Spagna: e più si rallegreranno, sentendo che corona
d'oro sia alla tua testa apparecchiata quando il vecchio re morisse, ancora che
molti de' tuoi antichi la portassero. Perché mi fatico io di dirti quanto tu
dell'andarvi diverrai contenta, con ciò sia cosa che io mai la menoma parte
dire non te ne potrei? Però andianvi, ché, se niuna altra cosa te ne seguisse,
se non che tu conoscerai te non essere quella che forse tal volta la coscienza
ti dice, per le udite parole sì vi dovresti tu volere andare. E con tutte
queste cose ancora farai tu me lieta più ch'altra femina fosse mai, però che io
rivedrò i miei, i quali forse già è lungo tempo dierono per me pietose lagrime,
credendo ch'io fossi morta. Non essere a' miei prieghi dura, io te ne priego,
ma se io mai grazia da te meritai, concedi quello ch'io con tanti prieghi
t'adimando».
[45]
Glorizia
tacque, e Biancifiore così le rispose:
«O
donna, a me più cara che madre, e cui io sola per madre riconosco, perché con
tanto effetto priego sopra priego aggiugnendo mi prieghi, né più né meno come
se tu avessi in me sì poca fede che incredibile ti fosse ch'io per te non facessi
ciò che per me si potesse operare? Tu disideri d'essere in Roma, e a me
t'ingegni, dov'io d'esservi non disiderassi, di farmelo disiderare con le tue
parole, le quali in verità il gran disio, ch'io ho di vederla, assai m'hanno
acceso: e se io mai disiato non l'avessi, vedendolo a te disiare, sì lo
disidererei; ma come poss'io mettere ad effetto, se non quanto piace al mio
Florio? Non sai tu che per matrimoniale legge gli sono legata? Io non posso, né
debbo, far più ch'e' voglia, però che egli è mio signore per molte ragioni. Non
fu' io in casa sua nutricata? Non sono io da lui per tutto 'l mondo stata
ricercata? Non m'ha egli con pericolo della sua persona tratta delle mani della
canina gente, ov'io era in servaggio venduta? Non sono io per lui due volte
stata liberata da morte? Non sono io similemente sua sposa? Dunque seguire i
suoi piaceri deggio, non egli i miei. Se tu vuoi ch'io il prieghi, ben so che
nulla cosa è che a mio priego e' non facesse; ma io debbo riguardare di che io
priego, però che sovente priegano alcuni di cose che pregando a sé negano il
servigio. Come potrei io giustamente pregare Florio che a Roma venisse, con ciò
sia cosa ch'egli m'abbia detto, già è assai, che egli sopra tutte le cose del
mondo disidera di rivedere il vecchio padre, della cui morte egli dubita molto,
per lo dolore nel quale il lasciò, quando da lui per cercar me si partì?
Dirogli io: "Veggiamo in prima Roma", sappiendo ch'egli altro
disidera? E come tu di', la magnificenza e la bellezza di Roma ha potere di
trarre a sé gli uomini de' lontani paesi a farsi vedere: dunque, quanto
maggiormente dee potere, veduta, ritenergli! Ecco che Florio a' miei prieghi vi
venisse, e di quella vago oltre la sua intenzione vi dimorasse, e in questo
tempo alcuna novità nel suo regno nascesse, la quale egli andandovi trovasse,
non direbbe egli: "Biancifiore, per te m'è questo avvenuto, che mi tirasti
a Roma"? E s'egli il dicesse, qual dolore mi saria maggiore? E forse
ancora per quello che il suo padre fece al mio, dubita di venirvi, e non sanza
ragione: però ch'io ho già udito che i romani niuna ingiuria lasciano inulta.
Ma tu di': "Andiamvi sanza lui"; ora non pensi tu come mai me da sé
partiria, a cui, per l'essere noi divisi, tanta noia quanta tu sai ci è
avvenuta? Certo egli tenendomi in braccio appena mi si crede avere, e
continuamente dubita che i contrarii fati non tornino che me gli tolghino; e
non una ma molte volte m'ha detto che mai altro che morte non ne dividerà, la
quale gl'iddii facciano lungo tempo lontana da noi. E s'egli pure avvenisse che
sanza sé in alcuna parte mi fidasse, non è alcuna ove egli più tosto non mi
lasciasse andare che a Roma, però che egli s'imagina che i miei parenti
incontanente a lui mi togliessero, e ad altrui mi dessero, la qual cosa io mai
non consentirei: dunque seguiamo prima i suoi piaceri, però che si conviene
lasciargli rivedere il vecchio padre e la dolente madre e il suo regno; i quali
veduti, con più audacia gli domanderò Roma vedere co' miei parenti. Tanto
abbiamo sostenuto, ben possiamo questo piccolo termine sostenere; e io te ne
priego che infino allora, per amore di me, con pazienza sostenghi il tuo
disio».
[46]
Non
parlò più avanti Glorizia, se non:
«Quanto
ti piace attenderò»; e tacitamente da lei partendosi, fra sé disse:
«Quello
Iddio cui io adoro e in cui io spero, tosto me la faccia vedere».
Sopravenuta
la notte, Biancifiore nel dilicato letto si diede al notturno riposo: la quale
poi che de' gradi con che sale ebbe passati cinque, nel sonno furono da
Biancifiore mirabili cose vedute. A lei pareva essere in parte da lei non
conosciuta, e quivi vedere davanti da sé sospesa in cielo una donna di grazioso
aspetto molto, e le bellezze di quella le sue in grandissima quantità le parea
che avanzassero; a cui ella vedea sopra la bionda testa una corona di valore
inestimabile al suo parere, e i suoi vestimenti vermigli e percossi da una
chiara luce fiammeggiavano tutto il circunstante aere, de' quali niuna parte
d'essa era sanza adornamento di nobilissime pietre o d'oro; e nella destra mano
le vedea una palma verde, simile da lei mai non veduta, e la sinistra tenea
sopra un pomo d'oro, che sopra il sinistro ginocchio si riposava, e sedea sopra
due grifoni, i quali verso il cielo volando, tanto l'avevano verso quello
portata, che le parea che la sua corona con le stelle si congiungesse, e sotto
i suoi piedi tenea un altro pomo, nel quale Biancifiore rimirando estimava che
tutte le mondane regioni descritte vi fossero e potesservisi vedere. Ella vide
similemente dal destro e dal sinistro lato di costei, da ciascuno, un uomo di
grandissima autorità ne' suoi sembianti; ma quelli che dalla destra della bella
donna sedea, le parea che fosse antico, e negli atti suoi modesto molto,
similemente come la donna incoronato di corona significante incomparabile
dignità, il quale era vestito di vestimenti bianchi, ben che un vermiglio
mantello sopra quelli avesse disteso, e sopra uno umile agnello le parea che si
sedesse, nella mano destra tenendo due chiavi, l'una d'oro e l'altra d'ariento,
e nella sinistra un libro, e i suoi occhi sempre avea al cielo. Ma certo colui
che dalla sinistra della donna sedeva, era d'altro aspetto: egli era giovane e
robusto e fiero ne' sembianti, incoronato d'una corona tanto bella che quasi
con la luce che da essa movea e la donna e 'l vecchio tutti facea risplendenti,
e era di vermiglio vestito come la donna, e sedea sopra un ferocissimo leone,
nella sinistra mano tenendo una aquila e nella destra una spada, con la quale
in quel ritondo pomo che la bella donna sotto i piedi tenea, faceva non so che
rughe. Le quali cose Biancifiore con ammirazione riguardando, e massimamente la
bellezza della gentil donna, fra sé le parea così dire:
«O
bella donna, la quale nel viso non sembri mortale, beato colui che sì singulare
bellezza possiede come è la tua! Certo io non vorrei per alcuna cosa che così
com'io ti veggio il mio Florio ti vedesse, però che mi pare essere certa che di
leggiere me per te metteria in oblio; ma caro mi saria molto conoscerti, acciò
che la degna laude che tu meriti, con la mia voce manifestassi agl'ignoranti».
Queste
parole dette, parea a Biancifiore che la donna così le parlasse:
«O
cara figliuola, tanto si stenderà la mia vita quanto il mondo si lontanerà; e
allora che tutte le cose periranno, e io. Le mie bellezze, secondo la tua
estimazione, n'hanno già molti fatti beati e fanno e faranno, solamente che di
quelle si truovino disianti, le quali però sì come tu imagini, non hanno
potenza di nuocere alle tue. Tu disiderosa nel tuo parlare di conoscermi, il dì
passato rifiutasti di venirmi a vedere e a conoscere. Io per te perdei il tuo
padre e la tua madre, e tu di loro non vuoi il difetto rintegrare. Se io ti
paio così bella come tu di', come a vedere non mi vieni? Ora io voglio che tu
sappi ch'io sono la tua Roma. E se i peccati del tuo suocero, de' qua li gran
parte fieno, per costui, volgendosi al vecchio, davanti la maestà del sommo
Giove deleti, non fossero, il tuo Florio la spada di quest'altro ancora
terrebbe; però viemmi a vedere sanza alcuno indugio: il tuo fattore vuole, e
non sanza gran bene di te e del tuo marito».
E
questo detto sparì, né più la vide avanti Biancifiore; per che rimasa
stupefatta nel sonno di tanta bellezza, dopo picciolo spazio si svegliò, né più
dormì quella notte: anzi, sopra ciò che veduto avea, pensosa stette infine che
il sole apparve. Allora ella e Filocolo levati e venuti a' verdi boschi, e
rimirando i nuovi tagliatori, ciò che Glorizia il passato giorno l'avea parlato
e quello che la notte avea veduto, detto e udito gli raccontò; dopo ciò che
detto l'avea, intimamente pregandolo che, se essere potea sanza disturbamento
del suo avviso, che essi avanti a tutte l'altre cose dovessero visitare Roma,
la quale mai veduta non aveano. Molto si maravigliò Filocolo di ciò che a Biancifiore
udì contare, e vedendo il disio di Biancifiore così acceso d'andare a Roma,
mutò disio, e rispose:
«Biancifiore,
cara sposa, tanto m'è caro quanto a te piace: a tuo volere sia la nostra
andata, quando ordinato avrò quello che i fati hanno voluto ch'io incominci».
A
cui Biancifiore disse:
«Signor
mio, a tua posta sta e l'andare e 'l dimorare; ma se di ciò il mio disio si
seguisse, il più tosto che si potesse saremmo in cammino».
«E
sì saremo noi», rispose Filocolo.
[47]
Egli
era già al piccolo monte levata tutta la verde chioma, né niuna cosa alta sopra
quello si vedea se non le mura del vecchio tempio, quando Filocolo, fatti
prendere buoi, con profondo solco disegnò i fondamenti delle future mura, e
appresso ordinò i luoghi delle torri, e in quali parti le mura aperte per dar
luogo agli entranti dovessero rimanere. E similemente divisò le diritte rughe,
e quali luoghi per etterne abitazioni rimanessero. E fatto questo, chiamò a sé
Caleon, a cui egli disse:
«Giovane,
tu, secondo il tuo parlare, ami crudelissima donna sanza essere da lei amato; e
se io ho bene le tue parole per adietro notate, così come già ti fu caro
l'essere suggetto ad amore, così ora carissimo partirti del tutto da lui ti
saria: alla qual cosa fare, ottimo oficio t'ho trovato, quando e' ti piaccia.
Io, come tu vedi, la nuova terra ho cominciata, la quale producere a fine,
concedendolo gl'iddii, ho proposto, e con ciò sia cosa che sollecitudine mi
stringa maggiore, questo affatto intendo di commettere altrui, insieme col quale
il dominio del luogo concederò a chi il prenderà. Se tu il vuoi prendere, la
sollecitudine tua converrà essere molta, e in molte cose e diverse, la quale
avendo, la vaga anima per forza abandonerà gli amorosi pensieri, e quelli
abandonando, metterà in dimenticanza, e, dimenticati, potrai dire te essere
dalla infermità che sostieni liberato, e fuori delle mani dell'amore della
crudele donna. E non ti sia noia se io edificatore ti faccio di mura, e gente
rozza e grossa ti do a governare più tosto che terra fatta con gente ordinata,
la quale alla tua gran virtù conosco si converria, però che se io ti dessi
quelli a reggere, il loro ordine e la loro mansuetudine poco affanno o niuno
daria alla tua mente, e così in quelli pensieri ove dimori, in quelli perseverando
staresti, né mai liberato saresti da amore. Ma costoro, inordinati e materiali,
sovente ti moveranno ad ira, la quale tu paziente sosterrai, e la loro
inordinatezza ti sarà materia di pensare come a ordine li possi recare: de'
quali pensieri, e d'altri molti, quello che già ti dissi ti seguirà. A diverse
infermità, diversi impiastri adopera il savio medico: prendi questo alla tua
per mio consiglio, se disideri di sanare».
[48]
Caleon,
udendo il savio consiglio e conoscendo la liberalità di Filocolo, e similmente
il perpetuo onore e l'utile che di ciò che Filocolo gli proferea gli potea
seguire rispose:
«Signor
mio, a molto più valoroso di me sì alto uficio si converria, il quale ancora,
come voi dite, ottimo rimedio il conosco alla mia infermità, e però in luogo di
grazia singulare da voi il ricevo, apparecchiato ad ogni riconoscenza che voi
vorrete di tanto dono; e là dov'io insofficiente fossi, quant'io posso divoto
priego gl'iddii che in luogo di me il mio difetto suppliscano, e voi lungo
tempo conservino in vita, sempre di bene in meglio aumentando».
Concessegli
adunque Filocolo il luogo, e de' suoi tesori gran parte gli fece donare, acciò
che la cominciata opera potesse magnificamente adempiere; e fatti convocare
tutti e due i pacificati popoli, i quali del nuovo luogo doveano essere
abitatori, a Caleon fece intera fedeltà giurare, e promettere che elli lui per
signore e per difenditore avrebbero sempre, né i suoi comandamenti in alcuno
atto trapasserebbero: i quali se passassero, secondo il suo giudicio del
passamento sosterrieno la punizione; e quelle leggi, che egli desse loro,
quelle serverieno, essi e i loro discendenti. E così similemente Caleon promise
di servarli e guardarli e governarli come cari fratelli e suggetti, da qualunque
persona ingiustamente offendere li volesse. Allora Filocolo disse a Caleon:
«Omai
edifica, e di bene in meglio la tua terra, la quale tu chiamerai Calocepe,
accrescerai».
E
fatti i suoi arnesi acconciare, a ciascuno vietando che sanza sua licenza chi
e' fossero non manifestasse ad alcuno, in abito di pellegrini montarono a
cavallo, e accomiatati da Caleon, cavalcarono verso Roma.
[49]
Rimase
Caleon col rozzo popolo chiamato Calocepi, e il primo comandamento fatto da lui
alla nuova gente fu che da essi fossero tutte le loro case disfatte e che essi
dentro al cerchio fatto per le mura future dovessero le loro case apportare, e
in quello abitare co' loro figliuoli e con le loro famiglie: di che egli fu
ubidito sanza niuno indugio, faccendo a difensione de' solari raggi e del
lagrimoso verno case di giunchi assai rozze, di terra e di bovino sterco
mescolato murate. Questo fatto, egli fece i profondi fondamenti cavare, e di
cotti mattoni fece fare bellissime mura, delle quali circuì tutta la nuova terra,
faccendo a quelle otto porte, e a ciascuna di sopra ad essa una fortissima e
alta torre, e dopo questo, ampissimi fossi aggiunse al circuito. Ella parea già
terra, e di lontano le merlate mura si poteano guardare: per che egli pensando
che le mura sanza uomini e gli uomini sanza arme niuna cosa a resistenza de'
nimici valeano, a ciascuno uomo all'arme possibile donò arme, mostrando loro
con non poca fatica come vestire e usare le dovessero, e poi riparò il vecchio
tempio con gran divozione dedicandolo a Giove; e quivi sacerdoti ordinò,
ammaestrati a' sacrificii statuiti per lui al sommo Giove; e similmente i
giuochi da Filocolo ordinati rinnovò, e quelli comandò che si facessero
ciascuno anno, entrante il sole nel suo Leone. Queste cose così fatte, gli piacque
nella più alta parte della sua terra edificare a sé reale abituro, il quale
magnifico fece, e, sopra esso dimorando, potea tutto il suo popolo vedere:
nella gran corte del quale avea ordinato di dare leggi al popolo, per le quali
essi debitamente vivessero. E già veggendo a ciascuno avere la rustica casa in
bello abituro tornato di pietre e di mattoni cotti a instanza del suo, e le
rughe essere diritte e piene di popolo contento, volle loro dare modo di
vestimenti, e diede, acciò che uomini e non selvagge fie re paressero.
Similmente statuì loro ferie, nelle quali cessare dalle fatiche dovessero e
darsi al riposo: egli similmente a diversi studii delle liberali arti ne
dispose alcuni, e altri alle meccaniche. Né lungo spazio si volse che con
ordine costoro serrati nel picciolo cerchio sicuri, la notte dormiano contenti
di tal reggimento, e conoscenti che divenuti erano uomini per la discrezione e
sollecitudine di Caleon: e egli similemente di tali suggetti si contentava,
vedendogli abili e disposti a qualunque cosa egli volea. Che più dirò di lui?
Egli in tale ordine e disposizione recò il luogo in pochi anni, che le mura
ampliare si convennero, le quali poi invidiate ne' futuri tempi, miseramente
caddero sotto altro duca.
[50]
Il
pellegrino Filocolo in pochi giorni pervenne a Roma, e in quella tacitamente
entrarono, e sì come a lui piacque, in un grande ostiere smontarono, vicino
agli antichi palagi di Nerone. Quivi dimorati alcun giorno sanza essere
conosciuti, avvenne che andando Filocolo insieme con Ascalion, col duca, con
Fileno e con gli altri in pellegrina forma vedendo le mirabili cose di Roma,
Mennilio Africano, a Lelio stato fratello, si scontrò con loro, e vide
Ascalion, la cui riconoscenza non gli tolse l'abito pellegrino, ma con alta
voce chiamandolo, ricordandosi lui essere stato congiunto di stretta amistà con
Lelio, gli disse:
«O
santo Ascalion, or privaci la tua santità delle tue parole, perché peccatori
siamo? Perché sì largo passi sanza parlarne?».
Allora
Ascalion, che ben lo riconoscea, si volse e disse:
«Dolce
amico, tutto, il contrario mi facea dubitare di parlarti».
Elli
s'abbracciarono quivi molte volte e insieme gran festa si fecero, ripetendo i
tempi preferiti; ma dopo l'amichevoli accoglienze, Mennilio domandò chi fossero
i compagni, al quale Ascalion rispose:
«Questi
sono giovani miei amici, i quali udendo la gran fama della vostra città, con
meco, pellegrino, pellegrinando vollero venire a vederla, e già qui dimorati
siamo più giorni, e omai credo ci partiremo».
Disse
allora Mennilio:
«Ora
conosco che solo l'amore di Lelio mio fratello alla mia casa ti menava, e non
il mio, poi che, lui tolto di mezzo, alla nostra casa disdegni di venire. Oimè,
come tu gravemente offeso m'hai, essendo altrove dimorato in Roma, che meco! Io
ti priego per quella fede che tu a Lelio portasti, che tu co' tuoi compagni ad
esser meco vegnate, mentre in Roma a dimorare avete».
A
cui Ascalion assai disdisse, pregandolo che di ciò nol gravasse, con ciò fosse
cosa che a' compagni forse non piaceria, però che le donne d'alcuni erano con
essi loro A cui Mennilio disse:
«E
le donne di loro con le nostre saranno, e voi con noi». Ascalion, non potendosi
da' prieghi di Mennilio difendere, con licenza di Filocolo quello che Mennilio
volle consentì, e tutti insieme con Biancifiore e con Glorizia entrarono nel
gran palagio per adietro stato di Lelio, nel quale le donne dalle donne e gli
uomini dagli uomini onorevolemente ricevuti furono.
[51]
Onorati
così costoro da Mennilio, tenendo Ascalion stato di maggiore di tutti, sì come
a Filocolo piacea, egli in sé rimembrando le passate cose, s'incominciò a
dolere, veggendosi per l'antica amicizia di Lelio onorare da' fratelli, e egli
avea avuta paura di dare sepoltura al morto amico, essendovi presente, avvegna
che tardi gli fosse noto: e similemente a Giulia più benivolo non essersi
mostrato, e a Biancifiore nelle sue avversità: e le cose che già di lei avea
dette per ritrarre Filocolo da tale amore, ora l'incominciarono a dolere. Egli
fece a Filo colo vietare a Glorizia che in nulla maniera a Biancifiore dovesse
narrare chi coloro fossero dove albergati erano, sappiendo bene che essa gli
conoscea. Ma Filocolo, dopo alcun giorno, vedute le magnificenze de' due
fratelli, cioè di Mennilio e di Quintilio, e essendogli molto piaciute, e
similemente l'onore che ad Ascalion e a loro tutti era fatto, e quello che
Clelia, di Mennilio sposa, stata per adietro di Giulia sorella, e Tiberina,
moglie di Quintilio, facevano a Biancifiore e a Glorizia e all'altre che con
Biancifiore erano, li venne volontà di sapere chi costoro fossero, e domandonne
Ascalion. «Come, caro figliuolo, non sai tu dove tu se' e in casa cui?».
«Certo
- disse Filocolo - in Roma so ch'io sono, e in casa di Mennilio; ma chi esso
sia io non so: e s'io il sapessi, a che fare te ne domanderei io?».
Disse
allora Ascalion:
«Ora
sappi che di costoro fu fratello Lelio, il padre di Biancifiore, il quale dal
tuo padre fu ucciso, e quella donna chiamata Clelia, la quale tanto Biancifiore
onora, sorella carnale fu di Giulia sua madre. Vedi ove la fortuna ci ha
mandati! Io penso che senno sarebbe omai di qui partirci, però che di leggieri,
se conosciuti fossimo da loro, potremmo in questa fine del nostro cammino
ricevere impedimento: e io ho veduto, e molte volte udito, nave correre lungo
pileggio con vento prospero, e all'entrare del dimandato porto rompere
miseramente. La fortuna ci è in molte cose stata contraria: che sappiamo noi se
ancora la sua ira verso noi è passata? Da fuggire è la cagione acciò che
l'effetto cessi».
Queste
parole udendo Filocolo si maravigliò molto, pensando alla grande nobiltà de'
zii di Biancifiore, e alla miseria in che la fortuna l'avea recata, ponendola
nella sua casa come serva, e così da tutti riputata; e molto in se medesimo si
contentò che donna di sì nobile progenie gli fu dagl'iddii per amante mandata e
poi per isposa: e con Ascalion delle iniquità del padre e della madre verso di
lei usate si duole, e più che mai le biasima e odia, e con turbato viso
grievemente riprende il suo maestro riducendogli a memoria ciò che per adietro
sconciamente della giovane aveva parlato, e dice che «meritamente gl'iddii
dovriano a costoro notificare chi tu se', acciò che dove tu onore ricevi,
fossi, come hai servito, guiderdonato».
Poi
con più temperato viso dice:
«Veramente
io dubito che conosciuti non siamo in questo luogo, però che costoro hanno
sangue toscano: essi non mettono mai l'offese in oblio sanza vendetta. Se io
forse da loro fossi conosciuto, io non credo che mi riguardassero per ch'io
loro congiunto sia: ma come mi potrò io anche partire sanza la loro pace, o
almeno sanza la loro conoscenza, la quale io in niuna parte posso meglio che
qui trattare?».
Ascalion,
che tutte le sue parole ascoltava, né niente si turbò per riprensione udita,
però che già debita compunzione per se medesimo avea presa della commessa
colpa, così gli disse:
«Filocolo,
tu e' tuoi compagni siete giovani e per diverse parti del mondo sconosciuti
siete pellegrinati, per la qual cosa alcuna persona non è che vi conosca per
quelli che siete: però, se di qui partirti disideri, fare lo possiamo, né fia
chi saputo abbia chi voi vi siate. Se la conoscenza e la pace de' tuoi parenti
disideri, non è prima da chiederla che i loro animi si conoscano: e però taciti
dimoriamo come infino a qui dimorati siamo, infino a tanto o che mi parlino
d'alcuna cosa, per la quale io possa a ragionare de' tuoi fatti debitamente
venire, o che io, eleggendo debito tempo, ne parli a loro, o che alcun'altra
via ci si prenda migliore, per la quale il loro intendimento possiamo
conoscere; il quale conosciuto, quello che operare deggiamo conosceremo».
A
questo s'accordò Filocolo, e lasciarono il lungo consiglio.
[52]
Dimorando
adunque costoro, per conoscere di loro operare il migliore, Filocolo solo con
Menedon dall'ostiere si partirono un giorno, e soletti andavano le bellezze di
Roma mirando, le quali saziare non si poteano di guardare, lodando la
magnanimità di coloro che fatte l'aveano fare e de' facitori il maestro. E così
andando pervennero al bellissimo tempio, che del bel nome di colui s'adorna che
prima nel diserto comandò penitenza a' peccatori, annunziando il celeste regno
essere propinquo, e dalla rana cognominato del rabbioso Nerone; e in quello
entrarono, e rimirando di quello le grandezze in una parte videro effigiata di
colui la figura che fu dell'universo salute. Questa si pose Filocolo con
ammirazione grandissima a riguardare: e qual fosse la cagione delle forate
mani, de' piedi e del costato pensare non sapea, per che sopra questo
imaginando dimorava sospeso. Nella quale dimoranza stando, uno uomo antico non
troppo e di bella apparenza, in iscienza peritissimo, il cui nome, secondo
ch'egli poscia manifestò, era Ilario, disceso di parenti nobilissimi, d'Attene
quivi con Bellisano, patrizio di Roma, e figliuolo dell'inclito imperadore
Giustiniano, quivi venuto, e all'ordine de' cavalieri di Dio scritto, forse a
guardia del bel luogo diputato, gli sopravenne, e vide Filocolo così quella
imagine riguardare. Ma avanti che alcuna cosa gli dicesse, il mirò molto, e
parvegli nello aspetto nobile e di grande affare, per che con reverenza, non
conoscendolo, così l'incominciò a parlare:
«O
giovane, con molta ammirazione l'effige del creatore di tutte le cose riguardi,
come se mai da te non fosse stato veduto».
A
cui Filocolo graziosamente rispose:
«Sanza
dubbio, amico, ciò che tu di' è vero; e però ch'io mai più nol vidi, con
ammirazione ora il riguardava».
«E
come può essere - disse Ilario - che tu molte volte non l'abbi veduto, se de'
servatori della sua legge se'?».
«Certo
- disse Filocolo - né lui, come già dissi, mai più vidi, né qual sia la sua
legge conosco».
«Adunque
qual legge servi, o cui adori?», disse Ilario. A cui Filocolo rispose:
«La
legge che i miei predecessori servarono e che ancora i popoli del paese ond'io
sono servano, e io servo: e da noi è adorato Giove, e gli altri immortali iddii
posseditori delle celestiali regioni, a' quali, quante volte di loro abbiamo
bisogno, tante volte accendiamo fuochi sopra i loro altari e diamo incensi, e
le dimandate cose riceviamo».
«Dunque
tu idolatrio se' della setta de' gentili?».
«Così
sono come tu di'», rispose Filocolo.
«Ora
ignori tu - disse Ilario - che noi cotesta setta abbiamo, e degnamente, in
odio, sì come eretici e operatori delle cose spiacenti a Dio?».
«Non
lo ignoro», disse Filocolo.
«Dunque
- disse Ilario - come sicuro qui, gentile, vivi tra 'l popolo di Dio? Non sai
tu che come voi a noi parate insidie, così a voi potrebbero essere da noi
parate? Ma che? Di questo per nulla ti domando, ché chi alla salute dell'anima
non ha cura, come è da presumere che egli di quella del corpo si deggia curare?
Poi che tu la nostra legge non servi, non contaminare il nostro tempio sacro:
escitene fuori!».
A
cui Filocolo disse:
«Male
può servare persona la cosa che mai non li fu nota; forse se io questa vostra
legge udissi o quello ch'io dovessi credere mi fosse mostrato, poria essere
che, dannando la mia, seguirei questa, e con voi insieme del popolo di Dio
diventerei».
«Già
per udirla, se mai più non l'udisti, non perderai: io la ti mostrerò tutta,
avvegna che a ben volerlati fare intendere mi converrà distendere in molte
parole, le quali dubito non ti fossero tediose ad udire».
A
cui Filocolo disse:
«A
te non sia affanno il dire, che a me mai l'ascoltare non rincrescerà».
«Adunque
- disse Ilario - sediamo, e colui cui tu hai infino ad ora riguardato, il quale
di tutti i beni è donatore, e in cui presenza noi dimoriamo, mi conceda che
fruttuose siano le mie parole».
[53]
Posersi
a sedere Filocolo e Menedon, e Ilario in mezzo di loro, nel cospetto della
reverenda imagine. A' quali parlando Ilario con soave voce mostrò chi fosse il
creatore di tutte le cose, e come sanza principio era stato, così niuna fine
era da credere a lui dovere essere; e dopo questo loro dichiarò di tanto
fattore le prime opere, cioè il cielo e la terra, con ciò che in essi di bene e
di bellezza veggiamo o sentiamo, o vedere o sentire si puote. Egli mostrò loro
appresso la creazione de' belli spiriti, i quali non conoscenti prima contro al
loro fattore alzaron le ciglia, per la qual cosa etterno essilio meritarono de'
beati regni, essendo loro per perpetua carcere l'infimo centro della terra
donato. E dopo questo narrò come a restaurazione de' voti scanni, il primo
padre con la sua sposa furon formati in Ebron e messi in paradiso; e fatto loro
dalla divina voce il mai servato comandamento, il trapassare del quale a loro e
a' loro successori guadagnò morte e affanno. Piacqueli ancora di dire quanto il
principio della prima età fosse dalle seguenti variato, mostrando come i loro
digiuni le ghiande solveano, e gli alti pini davano piacevoli ombre, e i
correnti fiumi davano graziosi beveraggi agli assetati, e l'erbe soavissimi
sonni; e come semplici vestimenti contenti gli copriano, e come ciascuno sola
la sua contrada conoscea sanza cercare l'altrui, e come i terribili suoni delle
battaglie tacevano e l'armi non erano e l'arte di quelle non si sapea, per che
la terra il beveraggio dell'umano sangue non conoscea; seguendo come a costoro,
a' quali sì semplice vita bastava, non bastarono gli ordini della natura, né la
lussuria, né il loro vero Iddio per adorare, ma passando nell'una e nell'altra
cosa i termini meritarono l'ira del sommo fattore, per la quale il mondo
allagò, riserbato solamente da Dio un padre con tre figliuoli e con le loro
spose, però che erano giusti, nella salutifera arca, con l'altre co se
necessarie alla mondana restaurazione. Appresso questo, dimostrò loro con
aperta ragione l'uscimento dell'arca lontanamente stata a galla, e 'l
nascimento de' popoli discesi di Cam, Sem e Iafet, e le edificazioni e della
gran torre e dell'altre città fatte da' rifiutanti l'ombre degli alberi; e il
primo trovamento di Bacco schernitore del suo primo gustatore, e le varie
maniere de' vestimenti e de' loro colori, e i cercamenti degli altrui paesi, e
quali fossero i fedeli servatori de' piaceri di Dio, e quali da quelli
diviassero: né niuna notabile cosa lasciò a narrare che stata fosse infino a'
tempi del primo Patriarca. Qui posta alla prima e alla seconda età fine, della
terza cominciò a parlare, e le cose state fatte da Abraam, dal fratello, dal
figliuolo e dal nepote tutte disse, insieme con le vedute e udite da loro. E
contando del duodecimo fratello, trenta danari dagli altri venduto, narrò le
sue avversità e l'uscimento di quelle e 'l salimento alla sua gloria; e 'l
passamento del popolo di Dio in Egitto di dietro a lui, e quello che qui
operasse, e quanto i discendenti vi stessero, e sotto quale servitute mostrò
aperto, infino alla natività di colui che, dell'acque ricolto, da Dio i dieci
comandamenti della legge riceveo, da' quali, quelle che noi oggi serviamo,
tutte ebbero origine. E questo detto, seguì quanti e quali fossero i segni
fatti nella presenza del crudo prencipe, che oltre al loro volere nella
provincia d'Egitto gli tenea racchiusi. Né tacque come sotto la sua guida esso
popolo, per dodici schiere passando il rosso mare, uscissero di quello con
secco piede, avendo per pedoto la notte una colonna di fuoco e 'l giorno una
nuvola, e similemente come, seguiti, gli avversarii nelle rosse acque rimasero.
Mostrò ancora quanta e quale fosse la vita loro nel diserto luogo, e come,
morto il primo legista, sotto il governo di Iosué rientrarono in terra di
promissione, e quivi con quali popoli avessero le già cominciate battaglie,
dicendo loro ancora con quanta reverenza trovata fosse e servata e riportata
l'arca santa. E come lo sciolto popolo si reggesse, e sotto quali giudici, e
chi fra loro con divina bocca parlasse, e di che, disse, e come elli
disiderasse re e fosse loro dato, narrò infino a David. Qui alla terza età pose
fine e cominciò la quarta, le avversità di David e le sue opere tutte narrando,
dicendo all'altre principali come Micol acquistasse, e quello che per Bersabè
operasse, né tacque d'Ansalon come morisse e per che, né della mirabile forza
di Sansone, né della scienza di Salamone, mostrando com'egli a Dio il gran
tempio di Ierusalem avea edificato, e con questa l'altre sue operazione tutte.
E per consequente de' suoi discendenti e degli altri prencipi successori disse
ciò che stato n'era e che operato aveano: e de' profeti stati per li loro
tempi, infino che alla trasmigrazione di Bambilionia pervenne. Quivi la quinta
età cominciò, della quale a dire niuna cosa lasciò notabile, infino alle
gloriose opere de' Maccabei, le quali furono non poco da commendare. E con
tutto che egli queste cose del popolo di Dio narrasse, non mise egli in oblio
però le notabili cose state fatte per gli altri di fuori da quello, ma per i
suoi tempi ogni cosa narrò. Egli mostrò come di Nebrot fosse disceso Belo,
primo re degli Assiri, il cui figliuolo Nino era stato primo prevaricatore de'
patrimoniali termini, con mano armata soggiogandosi l'oriente. E disse ciò che
Semiramis avea già fatto, e degli altri ancora successori ciò che vi fu
notabile, e come per trentotto re, l'uno succedente all'altro, il reame era
pervenuto a mano di Sardanapalo, il quale i bagni e gli ornamenti delle camere
e 'l dilicato dormire e i piacevoli cibi trovò, al quale Cirro, re di Persia,
tolse il regno, e similmente a Baldassar, di Nabucdonosor, re di Bambillonia,
successore, insieme con Dario re de' Medi, e a' Medi soggiogato rimase. Né
lasciò a dire che il regno de' Medi cominciò sotto Arbato, e Arbato fu il primo
re, e dopo il settimo re pervenne ad Alessandro, e similemente quello de'
Persi, de' quali Cirro fu principio e Dario fine, tra l'uno e l'altro avuti
undici re, il quale Alessandro discese de' greci re, de' quali il primo fu
Saturno, cacciato da Giove. È mostrò loro ancora da costui, lasciante a Tolomeo
quello per eredità, essere ricominciato il regno degli Egiziaci, finito poi nel
tempo di Cleopatra per la forza de' romani, che 'l soggiogarono; e narrò come
degli Argivi il primo re fu Inaco, e de' Lacedemoni Foroneo, primo donatore di
legge a' suoi popoli. E non di meno mostrò a che tempo l'antica Tebe s'era
edificata, e chi fossero i suoi re, e sotto cui distrutta. E similemente della
gran Troia e de' suoi reali e della sua distruzione disse. Né mise in oblio di
narrare lano essere d'Italia stato primo re, e Romolo de' romani, contando di
quella la notabile edificazione. E disse d'Agrileon stato primo re di Sitronia;
e molte altre cose recitò laudevoli intorno a quelle, del giudaico popolo:
mostrando ancora i diversi errori di molti erranti e non sappienti, che e come
agl'idoli sacrificare s'era pervenuto dagli antichi, abandonata la diritta via.
Ma parendogli delle vecchie cose avere assai detto, quelle lasciando disse:
«Giovani,
ciò che davanti detto avemo poco è a quello che dire intendiamo, necessario di
sapere, ma vuolsi credere, e è introducimento a ciò che dire vi credo appresso:
e però ascoltate e con diligenza notate le mie parole».
[54]
«Quanto
sia stato nelle cinque età passate, vi credo con aperta ragione aver mostrato -
disse Ilario; - ora alla sesta piena di grazia, nella quale dimoriamo, con più
lento passo ci conviene procedere, e dicovi così. Come voi poteste nel
principio del mio parlare comprendere, se bene ascoltaste, uno è il creatore di
tutte le cose, a cui principio non fu né fine sarà mai, il quale, da sé gittate
le superbe creature, volle di nobile generazione riempiere i voti luoghi, e
creò l'uomo, al quale morte annunziò se il mandato passasse, com'io vi dissi.
Ma quelli, vinta la sua sposa dalle false subduzioni dell'etterno nimico,
piacendo a lei il trapassò, per che cacciato con lei insieme del glorioso
luogo, agli affannosi cultivamenti della terra ne venne, e morì; e noi, sì come
suoi successori, corporalmente tutti moriamo. Ma però che le nostre anime,
fatte da Dio alla sua imagine, tutte andavano a' dolenti regni de' malvagi
angeli, non tanto giustamente fosse col corpo vivuta, né niuna era possibile
per suo merito a risalire colà donde peccando era caduta, il creatore di quelle
per sua propia benignità verso noi divenne pietoso, e nel principio di questa
sesta età, regnante Ottaviano Augusto e tenendo tutto il mondo in pace quieta,
il suo unico Figliuolo volle che s'incarnasse in una vergine di reale progenie
discesa, il cui nome fu e è Maria, alla quale in Nazaret, città di Giudea, per
convenevole messo il fece annunziare. Dal quale essa rassicurata, al volere del
suo signore sì rispose, dicendo: "Ecco l'ancilla del Signore, sia a me
secondo la sua parola". La quale risposta fatta, cooperante la virtù del
Santo Spirito, l'unico Figliuolo di Dio fu incarnato; alla quale incarnazione
niuna naturale operazione fu mescolata, né opportuna, se bene si guarda. Fu
adunque la incarnazione, come detto v'ho, del Figliuolo di Dio, il quale poi
glorioso nacque, acciò che poi passione e morte sostenendo le nostre colpe
lavasse, e facessene possibili a salire a quella gloria donde ne cacciò
disubidendo il primo padre, non perché Iddio non avesse con la sua parola sola
potutone perdonare e rifarci degni, che bene avria potuto, però che nella sua
potenza ogni cosa si richiude; ma egli fece questo acciò che più apertamente la
benivolenza, la quale continua ha verso di noi, ne dimostrasse, e acciò che noi
più pronti a' suoi servigi ci disponessimo, veggendone tanto dono conceduto
sanza averlo servito, ma più tosto diservito. Incarnato adunque costui, le
leggi della presa carne seguendo, nove mesi nel ventre della Vergine fé dimora,
la quale venendo con Giosep suo sposo, uomo di lunghissima età, il quale
abandonare l'avea voluta per la non conosciuta pregnezza, se l'ammonizione
dell'angelo non fosse, da Betelem in Ierusalem a pagare una moneta che dieci
piccioli valesse, detta denaro, sì come Ottaviano avea mandato comandando,
acciò che 'l numero de' suoi sudditi sapesse, menando un bue e uno asino seco:
il bue per vendere acciò che le spese sostentasse del parto, e l'asino per
leviare l'affanno del cammino. Sentendo la Vergine il tempo del partorire, così
andando, ad una grotta, la quale lungo la via era dove i viandanti soleano tal
volta loro bestie legare per fuggire l'acque o' caldi, o per riposo, entrarono,
però che per li molti andanti ogni casa era presa. Quivi poveramente la notte
si riposarono, la quale già mezza passata, la Vergine, così come con diletto
carnale non avea conceputo, così sanza alcuna doglia spuose il suo santo
portato: il quale, acciò che dal freddo che era grande il guardasse, povera di
panni, nel fieno, che davanti al bue e all'asino era, l'involse. E che deono
fare gli uomini, poi che quelle bestie, conoscendo il Salvatore del mondo,
s'inginocchiarono, quella reverenza faccendogli che il loro poco conoscimento
amministrava? In quell'ora s'udirono l'angeliche voci degli angeli tornanti al
cielo, cantando 'Gloria in excelsis Deo', con quanto di quello inno si
legge poi. In quell'ora si videro per lo mondo mirabili cose, e massimamente in
questa città. Or non ruinò elli quella notte il gran tempio della pace, il
quale, secondo a' romani domandanti fu risposto, doveva tanto durare che la
Vergine partorisse, per che essi, imaginando quella mai non dover partorire,
nella sommità della porta di quello scrissero "il tempio della pace
etterno", e sopra le ruinate mura fu poi edificato un altro salutifero
tempio, da colei nominato che Vergine partorì? Non la imagine di Romolo, re de'
romani, cadde e tutta si disfece? Certo sì; e l'imagini fatte a dimostrazione
delle mondane provincie, a' romani suddite, tutte si ruppero, né restò nel
mondo alcuno idolo intero. Quella notte, oscurissima, divenne chiara come bel
giorno, e una fonte d'acqua viva in liquore d'olio in questa città si converse,
e olio corse tutto quel glorioso giorno infino al Tevero. E apparve a tre re
orientali, stanti sopra il vittoriale monte, quel giorno una stella
chiarissima, nella quale elli videro un fanciullo piccolo con una croce in
testa, e parlò loro che in Giudea il cercassero. E quel giorno medesimo,
avvegna che alcuni dicano che prima apparissero, apparvero in oriente tre soli,
i quali, poi che veduti furono, in un corpo tutti e tre ritornarono, per li
quali assai aperto l'essenza della Trinità si manifestò. E certo Ottaviano
Augusto volle da' romani essere adorato per iddio, ma egli, discreto, i
consigli della savia Sibilia domandò; alla quale, venuta a lui il giorno di
questa natività gloriosa, egli disse: "Vedi se niuno dee di me nascere
maggiore, o se io per iddio a' romani mi lascio adorare". La quale, nella
sua camera dimorando, in un cerchio d'oro, contra il sole apparito, gli mostrò
una vergine con un fanciullo in braccio, la quale egli con maraviglia
riguardando, s'udì dire: "Hec est Ara celi", né vide chi 'l dicesse.
A cui la Sibilla poi disse: "Quelli è maggiore di te, e lui adora".
Le quali parole udite, egli gli offerse incenso, e in tutto a' romani rinunziò
l'esser adorato per iddio, però che mortale e non degno di ciò si sentiva. E in
questo medesimo giorno apparve un cerchio, il quale tutta la terra circuì,
fatto a modo che iri; e le vigne d'Egando, le quali proferano il balsamo,
fiorirono quella notte, e diedero frutto e liquore. E pochi dì avanti questo si
truova che arando alcuni con buoi, i buoi dissero: "Gli uomini
mancheranno, e le biade aumenteranno". Similemente i pastori, che in
quella notte guardavano le loro bestie, essendo loro dagli angeli nunziato il
nascimento del garzone, andando in quella parte, trovarono vero ciò che loro
era stato detto, e ado raronlo. In quella notte similmente si truova che quanti
soddomiti erano, tanti ne furono estinti, avendo Iddio quel peccato oltre agli
altri, e meritamente, in fastidio: e dicesi che vedendo Iddio quel vizio contra
natura nell'umana natura operarsi, per poco non rimase d'incarnarsi. Dunque
tante cose, e molte altre che avvennero, le quali a contare troppo saria lungo,
mostrarono bene che il Creatore e Salvatore del mondo era nato: e se forse
mirabile vi pare che tanto uomo in sì estrema povertà nascesse, la cagione vi
tragga di maraviglia. Egli, signore di tutte le cose, è credibile che se voluto
avesse, potea ne' gran palagi, tra molti panni, nelle infinite dilicatezze,
nascere, e avere molte balie; ma acciò che l'umiltà mostrasse a tutti dovere
esser cara, così bassamente cercò di nascere, e per molte altre cagioni, le
quali con più disteso stile ancora vi mostrerò, il fece. Nato adunque così
costui, fu all'ottavo giorno della sua natività circunciso secondo la giudaica
legge. E i tre re d'oriente con doni, seguendo la veduta stella, il vennero a
visitare: e giunti in Ierusalem, Erode, re di quella, dimandarono di lui, il
quale, non conoscendolo, e di lui dubitando, però che udito avea il re de'
Giudei dovere nascere, disse: "E' non è qui, andate e trovatelo, e da me
tornate, acciò che io, da voi sappiendo ove egli sia, vada e adorilo". I
quali, usciti di Ierusalem, e riveduta la stella, in Betelem lo trovarono, e
adoraronlo, e offersonli oro, incenso e mirra: e ammoniti nel loro sonno
dall'angelo, per altra via nelle loro regioni tornarono. Il quarantesimo giorno
venuto, fu offerto al tempio, e dal vecchio Simeone, la sua venuta aspettante,
fu ricevuto, allora ch'egli incominciò: "Nunc dimittis etc.". Erode
poi, veggendosi da' tre re schernito, comandò che tutti i garzonetti di Giudea
gli fossero presentati; ma Giosep, ammonito da divina ammonizione, col
fanciullo e con la madre fuggì in Egitto: gli altri presi da Erode furono
uccisi, credendo tra quelli avere il nato fanciullo morto. Ma in processo di
tempo, essendo egli già nel duodecimo anno, nel tempio di Dio co' dottori della
giudaica legge disputò, leggendo quella. E poi vita umana veramente sanza
peccare fino al trentesimo anno servò: il quale venuto, andato nel deserto ove
Giovanni era, da lui prima prese battesimo, e quello per che era venuto
cominciò a mostrare nelle sue predicazioni, eleggendosi dodici discepoli, i
quali sì come fratelli amò e loro la diritta via del regno suo mostrò, la quale
essi, sì come le loro opere manifestano, conobbero bene, e seguironla. E avendo
già cominciato questo Figliuolo di Dio a mostrare come egli vero Iddio e vero
uomo fosse, convitato alle nozze d'Alclitino, il vino mancandovi, di pura e
vera acqua fece bonissimo vino tornare. Elli, fatta la quadragesima e vinte le
tentazioni dell'antico oste, cominciò a predicare alle turbe e a sanare
gl'infermi, a liberare gl'indemoniati, a mondare i leprosi, a dirizzare gli
attratti e a guarire i paraletici, e qualunque altra infermità, e a suscitare i
morti, per le quali cose da molti era seguito. Egli similemente liberò una
femina presa in adulterio, scrivendo in terra a' Farisei: "Quale di voi è
sanza peccato pigli la prima pietra". Egli pascé di cinque pani e di due
pesci cinquemila uomini, e femine e fanciulli sanza fine, e avanzonne dodici
sporte, e ad una Samaritana, cercando bere ad una fonte, narrò le più segrete
sue cose, per ch'ella, questo manifestato nella città, con molti il seguitò.
Egli a' prieghi delle care sorelle suscitò Lazzaro, stato già quattro giorni
nella sepoltura; e mangiando con Simone fariseo, alla donna di Magdalo, lunga
peccatrice stata, la quale con le lagrime gli avea lavati i piedi e asciutti
co' capelli e unti con prezioso unguento, perdonò i molti peccati, dicendo:
"Va, e non peccare più". Egli similemente sanò un povero, lungo tempo
stato alla pescina per lavarsi nella commossa acqua. Ma poi per le molte cose
da' Giudei invidiato, fu cercato di lapidare, la cui ira egli la prima volta
fuggì, ma poi con onore grandissimo, sedendo sopra una asina, essendogli tutta
Ierusalem con rami d'ulive e di palma e con canti uscita incontro, rientrò in
quella, ove poco tale onore gli durò. Ma egli già conoscendo il tempo della sua
passione essere vicino, cenò co' discepoli e loro com'egli dovea essere tradito
da uno di loro nunziò. Dopo la qual cena, lavati a tutti i piedi, andò in un
giardino fuori della città ad orare con alcuni di quelli; ma colui che 'l
tradimento avea ordinato, venuto quivi co' sergenti del prencipe de' Farisei,
tradendolo, con gran romore e furore come un ladrone fu preso. Ma s'egli avesse
voluto fuggire, niuno era che 'l tenesse, quando tramortiti caddero tutti nel
suo cospetto; ma egli sollicito alla nostra redenzione stando fermo, rendute
loro le prime forze, si lasciò pigliare: e volete udire più benignità di lui?
Avendo Pietro Simone, uno de' suoi discepoli, il quale egli capo degli altri e
suo vicario avea ordinato, tagliata l'orecchia a uno de' servi de' prencipi,
ammonendo lui che il coltello riponesse, l'orecchia sanò al magagnato. Fu
adunque, così preso, costui menato nel cospetto di Caifas e d'Anna, i quali a
Pilato il mandarono, di lui ponendo false accuse, sì come quelli che per
invidia la sua morte cercavano, pensando che se egli vivesse tutto il loro
popolo trarrebbe alla vera fede da lui predicata, e essi rimarriano sanza.
Pilato, il quale quivi per li romani era preside, infino alla mattina legato il
tenne. La mattina, udendo che galileo fosse, il mandò ad Erode, il quale,
disideroso di vederlo, poi a Pilato, vedutolo, il rimandò; e stato lungamente
suo nimico, per questo, suo amico è ritornato. Pilato non trovando in lui
alcuna colpa, il volea lasciare, ma il gridante popolo lo spaventava, ond'egli,
fattolo flagellare duramente, credendo che ciò bastasse, il volle loro rendere,
i quali gridando la sua morte, a quella il condussero e in croce in mezzo a due
ladroni il crocifissero, schernendolo e dandogli aceto e fiele a bere con una
spugna: sopra la quale egli morì. Quello che, mo rendo costui, avvenne,
ascoltatelo: elli tremò la terra fortissimamente; le pietre, sanza essere
tocche, si spezzarono in molte parti; il velo del tempio di Salamone si divise
per mezzo; i monumenti s'aprirono, e molti corpi risuscitarono; il sole oscurò,
essendo la luna in quintadecima, e tutta la terra universalmente sostenne
tenebre per più ore: le quali cose Dionisio veggendo, essendo in Attene, e
della vostra setta, disse: "O il signore della natura sostiene ingiuria o
tutto il mondo perirà". E Longino, cieco cavaliere, ferendo con la sua
lancia il santo costato, di quello sentì sangue e acqua viva venire giù per la
lancia, per che agli occhi ponendosela riebbe la vista. Centurione, stato
avanti degli schernitori, vedendo queste cose, confessò lui veramente essere
stato Figliuolo di Dio. Dunque dove tante e tali cose si videro, ben si puote
credere colui Figliuolo di Dio e Redentore a noi essere stato. Venuto il
vespro, fu il beato corpo diposto della croce da Nicodemo e da Giosep di
Bramanzia e con odorifere cose involto in un mondo lenzuolo, fu posto in una
sepoltura, la quale da armate guardie e suggellata fu guardata, acciò che i
suoi discepoli, i quali tutti abandonato l'aveano, quando fu preso, non
venissero e furasserlo, e poi dicessero: "Risuscitato è". Ma la santa
anima sì tosto com'ella il corpo abandonò, cosa discese all'etterna prigione e
rotte le porti della potenza dell'antico avversario, trasse i santi padri, i
quali in lui venturo debitamente credettero, e, aperta la celestiale porta
infino a quel tempo stata serrata, nella gloria del suo Padre gli mise. Poi al
terzo dì ritornando al vero corpo, con quello veramente risuscitò, e più volte
apparve e a' suoi discepoli e ad altrui. E dopo il quarantesimo giorno,
vedendolo tutti i discepoli suoi e la sua madre, se ne salì al cielo, faccendo
loro nunziare che ancora a giudicare i vivi e i morti ritornare dovea. E dopo
il decimo giorno tutti del Santo Spirito gl'infiammò, per lo quale ogni scienza
e ogni locuzione di qualunque gente fu loro manifesta: e predicando la santa
legge, tutti per diverse parti del mondo andarono».
[55]
«Ora
- disse Ilario - avete udito quello che noi crediamo, adoriamo e la cui legge
serviamo. Udito avete la cagione della sua incarnazione, la quale né per angelo
né per altra creatura si potea supplire se non per questa. Udito avete la
gloriosa natività come fosse, e la concezione. Udito avete la laudevole e
virtuosa e miracolosa vita di lui. Udito avete l'affannosa e vituperosa fine e
cruda morte ch'egli per noi sostenne; e similemente la pia redenzione, la
vittoriosa resurrezione, e la mirabile apparizione, e la gloriosa ascensione v'
ho mostrato, e ultimamente la donazione graziosa del Santo Spirito, e nunziato
v'ho il futuro giudicio: le quali cose se ben pensate, vero Iddio e vero uomo
incarnato, nato, vivuto e passo e morto e risuscitato essere il conoscerete. Né
vi si occulterà ne' vostri pensieri quanta la sua infinita pietà sia stata
verso di noi, il quale per la nostra salute diè se medesimo. Gran cosa è quando
un servo per la liberazione del signore, o l'uno amico per l'altro, o l'uno per
l'altro fratello, o 'l padre per il figliuolo, o 'l figliuolo per il padre
prende morte: ma quanto è maggiore il signore, per lo servo liberare,
vituperosa pigliarla! Noi, servi del peccato, tanto perfettamente da lui fummo
amati, che egli non disdegnò l'altezza de' suoi regni abandonare per pigliare
carne, acciò che possibile si facesse a patire e a pigliare morte per nostra
redenzione. Adunque non vi vinca la terrena cupidità, alla quale le vostre
false e abominevoli leggi sono più atte che la nostra, ma cacciate da voi i
giuochi dello ingannevole nimico delle nostre anime, e nuovi davanti a Dio
vostro Creatore vi presentate».
[56]
Ascoltarono
con gran maraviglia Filocolo e Menedon le cose dette da Ilario, e quelle
notarono, parendo loro, sì come erano, grandissime: e visitando poi Ilario più
volte, ogni fiata ridire se ne faceano parte, né niuna cosa rimasa decisa fu
che essi distesamente dire non si facessero, e come e quando e dove di tutte si
fecero narrare. Le quali udite tutte, Filocolo domandò Ilario in che la
credenza perfetta di chi salvare si volea si ristringesse. A cui Ilario
cominciò così:
«Noi
prima fedelmente crediamo, e semplicemente confessiamo uno solo Iddio etterno e
incommutabile e vero, in cui ogni potenza dimora. Crediamo lui incomprensibile
e ineffabile Padre, Figliuolo e Santo Spirito, tre persone in una essenzia, in
una sustanzia, overo natura semplice omnino. Crediamo il Padre da niuno creato,
il Figliuolo dal Padre solo e lo Spirito Santo da ciascuno procedere: né mai
ebbono principio e così sempre saranno sanza fine. Crediamo lui di tutte le
cose principio e creatore delle visibili e invisibili, delle spirituali e
corporali. Crediamo lui dal principio aver creato di niuna cosa la spirituale e
corporale creatura, cioè l'angelica e la mondana, e appresso l'umana, quasi
comune di spirito e di corpo. Crediamo che questa santa e individua Trinità al
profetato tempo desse all'umana generazione salute, e l'unigenito Figliuolo di
Dio di tutta la Trinità comunemente della Vergine, cooperante il Santo Spirito,
fu fatto vero uomo di razionale anima e di corpo composto, avendo una persona
in due nature. Egli veramente ne mostrò la via della verità, con ciò sia cosa
che, secondo la divinità, immortale e impassibile fosse, secondo l'umanità si
fece passibile e mortale. Il quale ancora per la salute dell'umana generazione
crediamo che sopra il legno della croce sostenesse passione e fosse morto, e
discendesse all'inferno, e risuscitasse da morte e salisse in cielo. E crediamo
che vera mente egli discendesse in anima, e risuscitasse in carne, e salisse in
cielo parimenti con ciascuna. E crediamo che nella fine del secolo egli verrà a
giudicare i vivi e i morti, e a rendere a ciascuno secondo le sue opere, o
buone o ree che state sieno, e così a' malvagi come a' buoni, i quali tutti con
li loro propii corpi che ora portano risurgeranno, acciò che come avranno
meritato ricevano: quelli con Pluto in pena etterna, quelli con Giove in gloria
sempiterna. Crediamo ancora de' fedeli una essere l'universale ecclesia, fuori
della quale niuno crediamo che si salvi, nella quale esso Iddio è sacerdote e
sacrificio, il cui corpo e sangue nel sacramento dell'altare sotto spezie di
pane e di vino veramente si contiene, transustanziati il pane in corpo e 'l
vino in sangue per divina potenza, acciò che a compiere il ministerio
dell'unità togliamo del suo quello che egli del nostro tolse; e questo
sacramento niuno il può fare, se non quello sacerdote che sarà dirittamente
ordinato secondo le chiavi della chiesa, le quali egli agli apostoli concedette
e a' loro successori. Crediamo similemente il sacramento del battesimo, il
quale ad invocazione della individua Trinità, cioè Padre e Figlio e Santo
Spirito, si consacra nell'acqua: così a' piccoli come a' grandi, da chiunque
egli è, secondo la forma della chiesa, dato, giova a salute. Dopo il quale
ricevuto, s'alcuno cadesse in peccato, crediamo che sempre per vera penitenza
può tornare a Dio: e non solamente le vergini e' continenti, ma ancora i
congiugati per diritta fede, piacenti a Dio, crediamo potere ad etterna
beatitudine pervenire. E così a te e a qualunque altro di quella vuole essere
partefice conviene credere, dannando ogni altra oppinione che alcuni altri
avessero avuta e avessero delle predette cose, sì come eretici e contrarii alla
diritta fede».
[57]
«Grandissime
cose e mirabile credenza ne conta il tuo parlare - disse Filocolo ad Ilario, -
le quali tanto piene d'ordine, di santità e di virtù veggio, che già disidero
con puro animo d'essere de' tuoi; ma sanza i miei compagni, con li quali
riferire voglio l'udite cose, niuna cosa farei, ancora che faccendolo sanza
loro conosco saria ben fatto».
A
cui Ilario:
«Giovane,
confortati nelle mie parole, e con teco i tuoi compagni vi conforta: e fuggendo
le tenebre, nelle quali colui, cui voi orate, vi tiene, venite alla vera luce
da cui ogni lume procede, e che per la vostra e nostra salute se medesimo diede
a obbrobriosa morte. Correte al santo fonte del vero lavacro, il quale, lavando
l'oscura caligine delle vostre menti, vi lascerà conoscere Iddio, il quale
l'orazioni de' peccatori essaudisce nel tempo opportuno. Assai è tra' miseri
miserabile colui che può uscire d'angoscia e entrare in festa, se in quella pur
miseramente dimora. Venite adunque e lavatevi nel santo fonte, e di quelle tre
virtù nobilissime, Fede, Speranza e Carità vi rivestite, sanza le quali niuno
può piacere a Dio; e così chi le veste, impossibile è che gli etterni regni
siano serrati. Dunque v'è licito venire al donatore di tutti i beni a servire,
e la prigione etterna fuggite mentre potete. Né vi faccia vili la poca
autorità, che forse io confortante dimostro, ché le parole da me dette a voi
non sono mie, anzi furono de' quattro scrittori delle sante opere del nostro
fattore, de' quali ciascuno testimonia quello che parlato v'ho, e con loro
insieme molti altri, i quali, avvegna che fossero più e diversi, un solo fu il
dittatore, cioè il Santo Spirito, la cui grazia discenda sopra voi, e vi dimori
sempre».
[58]
Partironsi
adunque Filocolo e Menedon da Ilario, sopra l'udite cose molto pensosi, e
ripetendole fra loro più volte, quanto più le ripeteano, più piaceano: per che
essi in loro deliberarono del tutto di volere alla santa legge passare, e di
narrarlo a' compagni proposero. E accesi del celestiale amore, tornarono lieti
al loro ostiere, dove essi il duca e Parmenione e Fileno e gli altri trovarono
aspettargli, maravigliandosi di loro lunga dimora così soli. Co' quali poi che
Filocolo fu alquanto dimorato, non potendo più dentro tenere l'accesa fiamma,
chiamatili tutti in una segreta camera, così loro cominciò a parlare:
[59]
«O
cari compagni e amici, a me più che la vita cari, i nuovi accidenti nuove
generazioni di parlari adducono, e però io sono certo che voi vi maraviglierete
assai di ciò ch'io al presente ragionare vi credo; ma però che da nuova fiamma
sono costretto, e secondo il mio giudicio il debbo fare, non tacerò ciò che il
cuore in bene di voi e mio conosce. Noi, sì come voi sapete, non siamo guari
lontani al giorno nel quale il terzo anno si compierà che voi per amore di me
seguendomi lasciaste, sì com'io, le case vostre, e in mia compagnia, non uno
solo, ma molti pericoli avete corsi, per li quali io ho la vostra costanza e
fidele amicizia conosciuta, e conosco perfetta, e sanza fine ve ne sono tenuto.
Ma come che l'avversità sieno state molte, prima da Dio e poi da voi la vita e
'l mio disio riconosco: per le quali cose mi si manifesta che se io a ciascuno
donassi un regno, quale è quello ond'io la corona attendo, non debitamente vi
avrei guiderdonati; ma il sommo Iddio, proveditore di tutte le cose, e degli
sconsolati consiglio, ha parati davanti agli occhi miei degni meriti alle
vostre virtù, i quali da lui, non da me, se 'l mio consiglio terrete come savi,
prenderete, e in etterno sarete felici. E acciò che le parole, le quali io vi
dirò, voi non crediate che io da avarizia costretto le muova, infino da ora
ogni potenza, ogni onore, ogni ricchezza che io avere deggio nel futuro tempo
nel mio regno, nella vostra potenza rimetto, e quello che più vostro piacere è,
liberamente ne fate come di vostro: e ciò che io in guiderdone de' ricevuti
servigi v'intendo di rendere si è che io annunziatore dell'etterna gloria vi
voglio essere, la quale e a voi e a me, se prendere la vogliamo, è apparecchiata,
e dirovvi come».
E
cominciando dal principio infino alla fine, ciò che Ilario in molte volte gli
avea detto avanti che si partisse, quivi a costoro disse, come se per molti
anni studiato avesse ciò che dire loro intendea. E mirabile cosa fu che,
secondo ch'egli disse poi, nella lingua gli correano le parole meglio che egli
prima nell'animo non divisava di dirle; la qual cosa superinfusa grazia di Dio
essere conobbe, seguendo dopo queste parole dette:
«Non
crediate, signori, che io come giovane vago d'abandonare i nostri errori sia
corso a questa fede sanza consiglio e subito: io ci ho molto vegghiato, e molto
in me medesimo ciò ch'io vi parlo ho essaminato, e mai contrario pensiero ho
trovato alla santa fede. E poi penso più inanzi che dove il mio consiglio non
bastasse a discernere la verità, dobbiamo credere che quello di Giustiniano
imperadore, il quale, in uno errore con noi insieme, quello lasciando, ricorse
alla verità, e in quella dimora, come noi sappiamo, vi fia bastevole. Dunque
de' più savi seguendo l'essemplo, niuno può degnamente essere ripreso, o fare
meno che bene. Siate adunque solleciti meco insieme alla nostra salute».
[60]
I
giovani baroni, che ad altre cose credeano costui dovere riuscire nel principio
del suo parlare, udendo queste cose si maravigliarono molto, e guardando al ben
dire di costui, similemente così com'egli, conobbero grazia di Dio nella sua
lingua essere entrata; e i nobili animi, i quali mai da quello di Filocolo non
erano stati discordi, così come nelle mondane e caduche cose aveano con lui una
volontà avuta, similemente di subito con lui entrarono in un volere della santa
fede, e ad una voce risposero:
«Alti
meriti ne rendi a' lunghi affanni: sia laudato quel glorioso Iddio, che con la
sua luce la via della verità t'ha scoperta. Fuggansi le tenebre, e te, essendo
duce, seguiamo alla luce vera. I vani iddii e fallaci periscano, e
l'onnipotente, vero e infallibile Creatore di tutte le cose, sia amato,
onorato, adorato e creduto da noi. Venga il vivo fonte che dalle preterite
ordure, nelle quali come ciechi dietro a cieco duca siamo caduti, ci lavi, e
facciaci Iddio essere manifesto».
[61]
Levansi
lieti i giovani dal santo parlare, e tra gli altri più che alcuno, Ascalion,
però che il suo lungo disio il quale per tiepidezza mai mostrato non avea, vede
venire ad effetto. E essendo già tempo più di dormire che di ragionare,
Filocolo entrò nella sua camera, e con Biancifiore cominciò le sante parole a
ragionare, la quale da Clelia sua zia, santissima donna, di tutte era
informata; ma udendole a Filocolo dire, contenta molto gli rispose:
«Quello
che tu ora vuoi che io voglia, io ho già più dì disiderato, e dubitava
d'aprirti il mio talento: però qualora ti piace, io sono presta, e già mi si fa
tardi, che io sopra mi senta la santa acqua versare, e nella salutifera leg ge
divenga esperta».
Queste
parole udendo Filocolo contento ringraziò Iddio e ne' pensieri della santa fede
il più della notte dimorò, con disio attendendo il giorno, acciò che in opera
mettesse il suo diviso con la sua sposa e co' compagni.
[62]
Rendé
la chiara luce di Febo i raggi suoi confortando le tramortite erbette, e
Filocolo di quella vago, levato con Menedon lieto tornò ad Ilario, il quale sopra
la porta del santo tempio trovarono: e lui salutato, con esso passarono nel
tempio, e con chiara verità ciò che fatto aveano gli narrarono, e come i loro
compagni di tal conversione letizia incomparabile aveano avuta e mostrata, per
la qual cosa disposti alla predicata credenza erano del tutto. Allora Ilario,
lietissimo di tanta grazia, quanta il datore di tutti i beni avea nelle sue
parole messa, ringraziò Iddio e disse a Filocolo:
«Dunque
niuno indugio sia a questo bene; chiama i tuoi compagni, e ricevete il santo
lavacro».
A
cui Filocolo rispose:
«Sì
faremo, ma prima, ove io di voi fidare mi possa, alcuno mio segreto vi vorrei
rivelare, acciò che, come all'anima porto avete salutifero consiglio, così
similemente provveggiate al corpo».
«Ciò
mi piace - disse Ilario, - e con quella fede a me parla ogni cosa che con teco
medesimo faresti, sicuro che mai per me niuno il sentirà».
Per
che Filocolo così cominciò a dire:
[63]
«Caro
padre, io il quale voi in abito pellegrino così soletto vedete, ancora che a me
non stiano bene a porgervi queste parole (ma costretto da necessità le dico),
sono di Spagna, e figliuolo unico del re Felice signoreggiante quella; e nelle
fini de' nostri regni, sì come alcuni m'hanno detto, uno tempio ha ad uno dei
dodici discepoli del Figliuolo di Dio dedicato, al quale i fedeli della santa
legge che voi tenete e ch'io tenere credo, hanno divozione grandissima, e
sovente il visitano. E avendo a quello uno di questa città nobilissimo
singulare fede, il cui nome fu Lelio Africano, con più giovani a visitarlo si
mise in cammino, e con lui menò una sua donna, il cui nome era Giulia. Né erano
ancora pervenuti a quello, che essendo al mio padre stato dato a vedere che
suoi nimici fossero e assalitori del suo regno, passando essi per una profonda
valle, da lui e da sua gente furono virilmente assaliti: e per quello che io
inteso abbia, egli co' suoi mirabilissima difesa fecero, ma ultimamente tutti,
nel mezzo de' cavalieri di mio padre, che di numero in molti doppii loro avanzavano,
rimasero morti, tra' quali Lelio similemente fu ucciso. Dopo cui in vita Giulia
rimase, e gravida per singulare dono, per la sua inestimabile bellezza fu alla
mia madre presentata, la quale da lei graziosamente ricevuta e onorata fu: e di
ciò mi sia testimonio Iddio ch'io dico vero. Era similemente la mia madre
pregna, e amendune in un giorno, la mia madre me, e Giulia una giovane chiamata
Biancifiore partorì, e rendé l'anima a Dio, e sepellita fu onorevolemente in
uno nostro tempio secondo il nostro costume. Noi, nati insieme, con grandissima
diligenza nutricati fummo, e in molte cose ammaestrati, e sì come io ora credo,
volere di Dio fu che l'uno dell'altro s'innamorasse, e tanto ne amammo, che
diverse avversità, anzi infinite, n'avvennero. Ma ultimamente il mio padre,
credendo lei di vile nazione essere discesa, acciò che io per isposa non la
prendessi; né mai avanti la vedessi, come serva la vendé a' mercatanti, e fu
portata in Alessandria, e a me dato a vedere ch'era morta. Ma io poi la verità
sappiendo, con ingegni e con affanni e con infiniti pericoli seguendola la
racquistai, e per mia sposa la mi congiunsi, e lei amo sopra tutte le cose del
mondo. E certo io n'ho un piccolo figliuolo, al quale appena che il sesto mese
sia compiuto, e è 'l suo nome Lelio; e però che del padre di Biancifiore valore
oltre misura intesi, così il chiamai: ella e egli sono qui meco. E dicovi più,
che la fortuna n'ha portati ad essere in casa di Quintilio e di Mennilio,
fratelli carnali, secondo ch'io ho inteso, di Lelio; ma già non ne conoscono,
né Biancifiore di loro conosce alcuno, né sa chi essi sieno, avvegna che con
lei sia una romana, la quale con la madre fu presa e che sempre con essa è
stata, il cui nome è Glorizia, la quale tutti li conosce, e a lei per mio comandamento
il tien celato. Adunque quello per che io queste cose v'ho detto è che,
prendendo il santo lavacro, dubito non mi convenga palesare, e palesandomi,
costoro la vendetta della morte del loro fratello sopra me non prendano: e
d'altra parte, ancora che io sanza palesarmi, potessi il santo lavacro
pigliare, sì mi saria la pace di tanti e tali parenti carissima, né sanza essa
volentieri mi partirei, se per alcun modo credessi poterla avere. E avvegna che
io nella morte del loro fratello niente colpassi e il mio padre disavedutamente
ciò facesse, sì mi metterei io ad ogni satisfazione che per me si potesse fare
molto volentieri. Certo la vita di Lelio mi saria più che un regno cara: Iddio
il sa. Voi, dunque, discreto mostratore della via di Dio, quella del mondo non
dovete ignorare, ché chi sa le gran cose, le piccole similemente dee sapere.
Udito avete in che il vostro consiglio a me bisogni: dunque, per amore di colui
alla cui fede recato m'avete, vi priego che al mio bisogno, utile consiglio
porgendo, proveggiate».
[64]
Ilario
ascoltò con maraviglia le parole di Filocolo, e più volte reiterare se le fece,
né alcuna particularità fu ch'egli sapere e udire non volesse, e dell'alta
condizione di Filocolo, e del basso stato che egli mostrava quivi ebbe ammirazione,
e penollo assai a credere, e poi così gli rispose:
«La
tua nobiltà mi fa più contento d'averti tratto d'errore, che se tu un
particulare uomo fossi; e allora che tu sarai uomo di Dio, come tu se'
dell'avversaria parte, io t'onorerò come figliuolo di re si dee onorare. E
certo se io noto bene le tue parole, lunga è stata la sofferenza di Dio, che di
tanti e tali pericoli t'ha liberato, sostenendo la vita tua. Ma nullo altro
merito ti ha tanta grazia impetrata, se non la conversione alla quale ora se'
venuto, di che tu, se 'l conosci, molto gli se' tenuto: e veramente di ciò che
tu dubiti è da dubitare, ma confortati, ché io spero che colui, che di maggior
pericolo t'ha tratto, così similemente di questo ti libererà. E io ci prenderò
modo utile e presto, come tu vedrai, però che Quintilio è a me strettissimo
amico, né niuna cosa voglio che egli similemente non voglia, per che di
leggiere la loro pace avrai. Ma certo tanto ti dico: siati la tua sposa cara,
né guardare perché in guisa di serva la sua madre fosse alla tua donata: ella
fu del più nobile sangue di questa città creata, sì come de' troiani Iulii, e
il padre fratello di costoro, in casa cui tu tacitamente dimori, trasse origine
dal magnanimo Scipione, l'opere e la nobiltà del quale risonarono per tutto
l'universo. E acciò che tu non creda che io forse meno che 'l vero ti dica, tu
il vedrai. Egli è in questa città patrizio Bellisano, figliuolo di Giustiniano
imperadore de' romani, il quale alla cattolica fede, come avanti ti dissi,
tornò, non sono ancora molti anni assati, dirizzandolvi Agapito sommo pastore;
il quale Bellisano è di lei congiuntissimo parente: io il farò a te benivolo,
sì come colui che come padre m'ubidisce, e farollo al tuo onore sollicito,
insieme con Vigilio qui sommo pontefice e vicario di Dio. Dunque confortati e
spera in Dio, che il sole non vedrà l'occaso, che tu conciliato sarai co'
fratelli del tuo suocero».
[65]
Niuno
indugio pose Ilario alla sua promissione fornire; ma partito Filocolo, mandò
per Quintilio e per Mennilio, i quali a lui insieme con le loro donne venire
dovessero. I quali, questo udito, maravigliandosi che ciò esser volesse, prima
essi e le loro donne appresso v'andarono, lasciando sola Biancifiore con
Glorizia; e venuti a lui nel gran tempio, in una parte di quello così Ilario
disse loro:
«Mirabile
cosa è a' miei orecchi pervenuta oggi, come udirete. Questa mattina andando io
per questo tempio, un giovane di piacevole aspetto assai con un suo compagno,
così come io, andavano; il quale io donde egli fosse dimandai. Egli mi rispose:
"Spagnuolo sono". Per che io entrando in ragionamento con lui delle
cose di quelli paesi, per avventura mi venne ricordato Lelio vostro fratello,
il quale là rendé l'anima a Dio, e dimanda'lo se di lui mai alcuna cosa sentito
avea: a che e' mi rispose che, vigorosamente combattendo, dall'avversaria parte
non conosciuto fu morto, e che dietro a lui rimase una bellissima donna
chiamata Giulia, gravida, la quale una fanciulla, il cui nome egli non sa,
partorendo, di questa vita passò nelle reali case del re di Spagna. E in quel
giorno similemente la reina del paese, a cui donata era stata, un figliuolo
fece. Il quale, secondo che lui mi narra, crescendo, e con la giovane insieme
nutrito, di lei molto s'innamorò e ultimamente, oltre a' piaceri del padre, per
isposa se l'ha copulata: e dopo la morte di lui, sì come unigenito, la sua
fronte ornerà della corona del regno, e ella, reina, insieme con lui viverà. Le
quali cose udendo, mi furono care, e volsivele fare sentire, però che quinci
possiamo conoscere Iddio i suoi mai non abandonare: ché, s'egli a sé chiamò
Lelio, egli vi donò una che 'l numero delle corone della vostra casa aumenterà,
di che mi pare che vi deggiate contentare, avendo novellamente una reina per
nipote ritrovata, della quale niuna menzione era tra voi. E secondo che il
giovane mi dice, il marito di lei assai vi ama, e ciò manifesta un piccolo
figliuolo, il quale poco tempo ha che egli nacque di lei, il quale elli per
amore del vostro fratello chiamò Lelio. Egli sanza comparazione la vostra
conoscenza disidera, e sariali sopra tutte le cose cara la vostra pace, e se
avere la credesse, volentieri vi verria a vedere; ma sentendo la vostra
potenza, con ragione teme non sopra di lui la morte del vostro fratello, alla quale
egli, non nato ancora, niente colpò, voleste vengiare: per che a me parria che
a lui sì come innocente si dovesse ogni cosa dimettere e ricevendolo per
parente, dargli la vostra pace: e così la vostra cara nipote rivedreste reina».
[66]
L'antica
morte, per le molte lagrime sparte per adietro, non rintenerì i cuori con tanta
pietà, che per l'udite parole agli occhi venissero lagrime, anzi riguardando
l'un l'altro stettero per ammirazione alquanto muti, né seppero tristizia della
ricordata morte mostrare, né letizia della viva nipote; ma poi Quintilio disse:
«Quanto
dura e amara ne fu la morte del nostro fratello, tanto ne saria dolce e cara la
sua figliuola vedere e tenere come nipote; ma come sanza vendetta si possa sì
fatta offesa mettere in oblio non conosco, avvegna che dir possiate il giovane
innocente, e i piaceri di Dio convenirsi con pazienza portare: il quale è da
credere che così come egli combattendo consentì che morisse, così vivendo,
l'avria potuto fare essere vittorioso. Non per tanto ciò che tu ne consiglierai
faremo, fidi che altro che nostro onore non sosterresti».
A
cui Ilario così rispose:
«Veramente
in tutte le cose vorrei l'onore vostro. Io conosco in queste cose che voi
potete molto piacere a Dio, e sanza vostra vergogna, la quale, ancora che ci
fosse, la dovreste prendere per piacergli, se voi volete, e a voi grandissima
gloria e consolazione acquistare. A Dio piacere, ricevendo il giovane in Roma,
il quale, tenendo per difetto d'amaestramento contraria legge, a quella di Dio
di leggiere tornerà, e similemente la vostra nipote, e per consequente tutto il
loro grandissimo reame. Che vergogna non vi sia il pacificamente riceverlo è
manifesto: voi state in pensiero di vendicare la morte di Lelio, la quale non
vendicata vergogna vi riputate. Or non la vendicò egli avanti che morisse? Egli
col suo forte braccio uccise un nipote del nimico re e molti altri, e quando
pure vendicata non l'avesse, a Dio si vogliono le vendette lasciare, il quale
con diritta stadera rende a ciascuno secondo che ha meritato. Che consolazione
e che gloria vi fia vedervi una nipote in casa reina, pensatelo voi! Elli
ancora se ne poria aumentare la nostra republica, però ch'egli potrebbe il suo
regno al romano imperio sommettere come già fu: per che a me pare, e così vi
consiglio, che s'egli la vostra pace vuole, che voi gliela concediate, e qui
venendo esso onorevolemente il riceviate».
A
questo niuno rispondea; ma Clelia udendo che viva fosse la sua cara nipote, di
cui mai alcuna cosa più non aveano udito, accesa di focoso disio di vederla,
con assidui prieghi cominciò a pregare Mennilio e Quintilio che la loro pace
concedessero al giovane, secondo il consiglio d'Ilario, e facessero in Roma con
la cara sposa venire. Per che Mennilio, dopo alquanto, conoscendo la verità che
Ilario loro parlava, e vinto da' prieghi della sua donna, disse:
«E
come si poria questa cosa trattare, con ciò sia cosa che esso a noi non
manderia, perché dubita, e noi a lui non manderemmo, però che contrarii sono
alla nostra fede e i mandati offenderiano?».
A
cui Ilario:
«Se
voi la vostra pace volete rendere al giovane, e promettermi che venuto egli qui
come parente il riceverete e avretelo caro, io credo sì fare con la speranza di
Dio, che tosto lui e la vostra nipote e 'l piccolo Lelio vi presenterò».
«E
noi faremo ciò che tu divisi», rispose Mennilio. E andati davanti al santo
altare, davanti alla imagine di Colui a cui la morte per la nostra vita fu
cara, per la sua passione e resurrezione giurarono in mano d'Ilario che qualora
egli la loro nipote e 'l marito e 'l figliuolo di lei loro presentasse davanti,
che essi come carissimo parente il riceverebbero e onorerebbero, e più, che ciò
che Lelio con Giulia già possedeo li donerebbero.
«Niuna
cosa più vi domando - disse Ilario; - andate, e quando io vi farò chiamare
verrete a me».
Per
che costoro da Ilario partiti verso la loro casa tornarono.
[67]
Biancifiore
rimasa con Glorizia sola nel gran palagio del suo padre, essendo già in Roma
dimorata molti giorni co' suoi zii, sanza conoscerne alcuno, né osante di dire
alcuna cosa a' dimandanti, o dimandare, tutta in sé ardeva di disio di
conoscere i suoi, i quali Glorizia per adietro le avea detto; per che così a
Glorizia cominciò a dire:
«O
Glorizia, o donna mia, ove sono i gran parenti, i quali già mi dicesti che io
qui troverei? Ove i molti abbracciari? Ove la gran festa della mia venuta?
Oimè, io non ho ancora niuno veduto, né tu mostrato me n'hai alcuno. Deh,
perché alcuno almeno non me ne mostri? Io dubito che tu non m'abbi gabbata, e
datomi ad intendere quello che non è vero, per venire a vedere la tua Roma,
ov'io ancora a nessuno ti vidi parlare. Certo io mi pento già d'essere qui
venuta per tale conveniente che io non conosca né sia da alcuno conosciuta, ché
in verità già per vedere alti palagi o intagliati marmi io non avrei il mio
Florio dal suo intendimento svolto».
A
cui Glorizia rispose:
«Tanto
a te e a me convien sostenere, quanto piacere sarà di Florio, che taciturnità
n'ha imposta». E fra sé di dire come dalla sorella carnale della sua ma dre e
da' fratelli del suo padre era onorata, tutta ardea, e similemente di farsi a
Clelia conoscere, a cui piccola giovane era stata congiunta compagna, e ora,
più d'anni piena, da lei non era riconosciuta, e ancora alcuno de' fratelli le
parea aver veduto in compagnia di Mennilio; né d'avere avuto ardire
d'abbracciarlo, tutta si consumava. E stando essa e Biancifiore in questi
ragionamenti, sopravenne Clelia, da loro lietamente ricevuta, e ruppelo loro, narrando
ciò che udito aveano. A' quali ragionamenti Filocolo sopravenne: e se non fosse
che a Biancifiore accennò, che già costei le parea riconoscere per zia, quivi
erano scoperti. Ma Biancifiore, vedendo Filocolo, chetò alquanto l'ardente
disio, sperando che tosto con li loro si rivedrebbono.
[68]
Fece
Ilario chiamare a sé Filocolo, e come egli nelle sue mani de' suoi parenti la
pace avea giurata gli narrò: della qual cosa Filocolo contentissimo, che fare
dovesse il domandò. A cui Ilario disse:
«Giovane,
io ho promesso di farti qui di Spagna venire, e però acciò che essi, alquanto
la tua venuta tardandosi, più nel disio s'accendano di vederti, va, e con li
tuoi compagni per modo convenevole prendi congedo, e fuori di questa città ne
va a dimorare in alcuno luogo vicino, nel quale sì cheto stia, che la fama di
te non pervenga a' loro orecchi: e quivi tanto aspetta, che io per te mandi. E
quando il mio messaggiere vedrai, allora come figliuolo d'alto re che tu se'
t'adornerai, acciò che con la tua sposa magnificamente e con la tua famiglia
venghi; e sì come tu vedrai, io a' tuoi parenti sicuro ti presenterò».
[69]
Sanza
niuno indugio partitosi Filocolo da Ilario, e tornato all'ostiere, narrò a'
suoi compagni che fare doveano, e similemente a Biancifiore e a Glorizia, acciò
che malcontente nel piccolo spazio non dimorassero. Per che veduto luogo e
tempo, Ascalion disse a Mennilio che partire li convenia: e preso da lui
congedo e da Quintilio, e Filocolo e gli altri compagni similemente rendendo
degne grazie del ricevuto onore, e Biancifiore e Glorizia da Clelia e da
Tiberina ancora s'accomiatarono, con pietose lagrime partendosi. E saliti sopra
i buoni cavalli, con tutta la famiglia e 'l piccolo figliuolo, che all'ostiere
loro primo era rimaso, fattisi venire li grandi arnesi, cercarono, Alba, antica
città da te, o Enea, edificata, alla quale assai tosto pervennero: e quivi
stando celati, attesero il messaggio d'Ilario.
[70]
Ilario,
che all'impresi fatti era sollecito, avendo con molti altri ragionamenti gli
animi di Mennilio e di Quintilio accesi d'ardente disio di vedere Filocolo e la
loro nipote e 'l piccolo Lelio, parendogli tempo, per singulare messo a
Filocolo nunziò che la futura mattina venisse sanza alcuno indugio. E questo
fatto, andato a Vigilio sommo sacerdote, e avvisatolo della venuta del giovane
prencipe, e la cagione, con umili prieghi ad obviarlo il commosse con
eccellente processione, e dopo lui il vittorioso Bellisano a simile cosa
richiese: il quale, udendo chi il giovane fosse, graziosamente il promise.
Allora Ilario mandò per Mennilio e per Quintilio, e loro la venuta di Filocolo
nunziò, confortandoli che onorevole, mente gli uscissero incontro e
graziosamente il ricevessero.
[71]
Venne
il grazioso giorno, bello per molte cose e da Biancifiore e da Glorizia sopra
tutte le cose disiderato. Filocolo comandò che il grande arnese si caricasse e
alla città n'andasse avanti: la qual cosa secondo il suo comandamento fu fatta.
E egli, lasciato il pellegrino abito, d'un bellissimo drappo a oro si vestì co'
suoi compagni insieme e stette sopra un gran cavallo, bellissimo a riguardare
come il sole, nell'aspetto mostrando bene quello che era, da molti sergenti
intorniato e da' suoi compagni, sé nobilissimi nella vista ripresentanti,
seguito: e dopo loro, e avanti, scudieri e altra famiglia assai bene e
onorevolemente adorni cavalcavano. Appresso i quali Biancifiore, vestita d'un
verde velluto adorno di risplendente oro e preziosissime pietre, messi con
maestrevole mano i biondi capelli in dovuto ordine e sopr'essi un sottilissimo
velo, e sopra quello una nobilissima corona portava, cara e per magistero e per
pietre grandissimo tesoro, veniva, bellissima tanto quanto ogni comparazione ci
saria scarsa. E dall'una parte a piccolo passo cavalcava Ascalion, e dall'altra
le veniva il duca: e dopo loro Glorizia magnificamente con molte altre donne,
d'Alessandria venute in loro compagnia, e in braccio portava il piccolo
garzonetto. Mennilio, che in sollecitudine d'obviare Filocolo dimorava, come
vide il giorno, così con Quintilio e con molti altri parenti e amici e compagni
e con Ilario onoratamente molto salirono a cavallo, e con istrumenti molti e
con gran festa ad obviare Filocolo uscirono, e appresso di loro Clelia e
Tiberina in guisa di grandissime principesse ornate: e da' nobili uomini di
Roma e da molte donne accompagnate, cavalcando di Roma uscirono, non credendo
Clelia poter pervenire a tanto che la sua cara nipote vedesse: la quale ella
non conoscendo, né da lei conosciuta, tanti giorni veduta avea. E cavalcando
così costoro verso Filocolo, e Filocolo verso loro, non molto lontani a Roma,
dalla lungi si videro i cari parenti, per la qual cosa Ilario, a tutti entrato
inanzi, come vide Filocolo, smontò del cavallo, e Filocolo, vedendolo
dismontato, similemente discese, e Mennilio e Quintilio già discesi
s'appressarono ad Ilario. A' quali llario disse:
«Nobili
giovani, ecco qui il figliuolo di Felice re di Spagna, e sposo della vostra
nipote: onoratelo e pacificamente il ricevete come avete promesso, e come
dovete».
E
a Filocolo disse:
«Altissimo
prencipe, ecco qui i zii della tua sposa: come degni li conosci, così li
onora».
E
posta la destra di Filocolo nelle destre di Quintilio e di Mennilio, tacque, e
le trombe e gli altri strumenti infiniti riempierono l'aere di lieto suono.
Essi allora s'abbracciarono e baciaronsi in bocca, e fecersi maravigliosa
festa, ben che alquanto Mennilio e Quintilio stupefatti fossero, ricordandosi
che poco avanti loro oste era stato, e non l'aveano conosciuto. E non essendo
ancora a cavallo rimontati, Biancifiore sopravenne, la quale veggendo il suo
signore a piè, dismontò di presente, e Ilario, presala per la mano, e di
braccio a Glorizia recato in braccio a sé il piccolo Lelio, nel cospetto di
coloro la menò ove Clelia e Tiberina con l'altre donne già giunte e dismontate
onoravano Filocolo, e disse:
«Signori
e donne, ecco qui Biancifiore vostra nipote e 'l piccolo Lelio suo figliuolo».
A
questa voce furono mille grazie rendute a Dio, e Mennilio e Quintilio con
tenero amore abbracciarono la loro nipote, sopra tutte le cose del mondo
maravigliandosi della sua bellezza. E Clelia, che mai vedere non la credea,
l'abbracciò mille volte e baciandola, di tenerezza lagrimando, tutto il bel
viso le bagnò, e 'l simile fece Tiberina, e molte altre donne a lei
congiuntissime parenti, dolendosi del tempo che con loro non conosciuta da esse
era stata. Poi Clelia, preso in braccio il grazioso garzonetto, con
maravigliosa festa mirandolo, ringraziava Iddio dicendo:
«O
dolce signore Iddio, omai consolata viverò ne' tuoi servigi, poi che Lelio e
Giulia renduti m'hai».
La
festa fu grande: e chi la poria intera narrare? Chi pellegrinando alcuna volta
per lungo tempo andò, tornando alla casa, quale essa fu il può pensare. La
quale faccendosi, essi rirnontarono a cavallo; e Filocolo dall'una parte e 'l
duca dall'altra accompagnando Clelia cavalcarono; Tiberina in mezzo di Menedon
e di Messaallino veniva; Mennilio e Quintilio, che della bellezza della loro
nipote non si poteano ricredere, accompagnavano Biancifiore, e Parmenione e
Ascalion Glorizia, che il piccolo Lelio portava, tanto contenta, quanto mai
fosse stata, da Clelia sanza fine onorata e riconosciuta: e l'altre nobili
donne da nobili uomini accompagnate, delle grandissime bellezze di Biancifiore
e della magnificenza di Filocolo ragionando, cavalcarono infino all'entrata
della nobile città. Quivi Vigilio, sommo pastore, già venuto trovarono, al
freno del cui cavallo videro Bellisano e Tiberio nobilissimo romano: il quale
come Filocolo di lontano vide, così lasciate le donne, da cavallo dismontò, e,
inginocchiandosi, gli fece debita riverenza, e poi umilemente a baciargli il
piè li corse. Poi volto a Bellisano, il quale egli ben conoscea, inchinandosi
molto, l'abbracciò, e poi dirizzandosi si baciarono e fecersi graziosa festa, e
Tiberio fece il simigliante: e Biancifiore similmente da cavallo discesa, e
trattasi la ricca corona, di lontano dovuta reverenzia fece al santo padre. Al
freno del quale, rinunziandolo Vigilio, Filocolo con Bellisano volle essere,
riputando sconvenevole cosa che il figliuolo di tanto imperadore andasse a piè
e egli a cavallo, e, concedendogliele Tiberio, vi fu: e così infino al santo
tempio, ove la predicazione della santa fede udita avea da Ilario, andarono, al
quale tutta Roma era corsa per vederlo e Biancifiore similemente. Quivi
pervenuti, ogni uomo dismontò da cavallo e entrò nel santo tempio, ove
onorevolemente da Ilario era stata aprestata la santa fonte con l'acqua per
battezzarli, nella quale prima che altro si facesse, Filoco lo e il piccolo
Lelio e tutti i suoi compagni, nel cospetto di tutti i romani, da Vigilio
ricevettero, nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo,
battesimo, confessando la santa credenza e rinunziando la iniqua. Nella qual
fonte Filocolo il suo appositivo nome, cioè Filocolo, lasciò, e Florio, suo
naturale, riprese. Biancifiore similemente con le sue donne in più segreta
parte simile lavacro con divoto cuore ricevettero. E rivestiti tutti, con la
benedizione del santo padre si partirono; e accompagnati da Bellisano e da
Tiberio e dagli altri romani prencipi, con grandissimo onore e festa, a' grandi
palagi di Mennilio pervennero.
[72]
Quivi
pervenuti e saliti alle gran sale, si rincominciano le mirabili carezze e
feste. E Mennilio con gli altri, parlando con Ascalion escono di dubbio udendo
la cagione per che altra volta a loro si tenessero celati: e rimasi contenti,
niuno ad altra cosa che a festeggiare intende. Florio, delle avvenute cose
oltre contento, quivi la sua magnanimità comincia a mostrare, e i gran tesori
lungamente guardati dona e dispende, pure che i prenditori sieno. Niuno gli va
davanti, che sanza dono si parta, e 'l simigliante il duca e gli altri fanno: e
quasi niuno è in Roma che per ricevuto dono o molto o poco non sia loro tenuto.
Ampliasi la loro fama, e come dii vi sono riveriti. Niuno v'è che non s'ingegni
di piacere loro e di servirgli: e questo aggrada molto a Mennilio e a
Quintilio, e lieti vivono di tale parente, e con gli altri faccendo festa,
quella lungamente fanno durare.
[73]
Glorizia,
onorata molto da Clelia, dalla quale veramente fu riconosciuta, di rivedere il
padre e la madre e' suoi sollicita, con licenza di Biancifiore, accompagnata da
molti, ricerca i suoi palagi, ove due fratelli solamente avanti nati di lei
lasciò nel suo partire, e ora piena di molti la ritruova. Ella due sorelle già
grandi, e con figliuoli, e tre fratelli più che gli usati vi vede, e, non
conosciuta, non è chi le parli. Il padre vecchissimo giace, e appena vede
alcuna cosa. Sempronio di lei maggior fratello, il quale ella bene riconosce,
ma egli lei no, però che nell'aspetto nobile donna gli pare, e vedela di
bellissimi vestimenti ornata e accompagnata da molti valletti, l'onora e
dicele:
«Gentil
donna, cui adomandate voi?». A cui Glorizia:
«O
caro fratello Sempronio, or non mi conosci tu? Non vedi tu che io sono la tua
Glorizia, la quale sì piccola da voi mi partii seguendo Giulia e Lelio al
lontano tempio? Che? Voi ora non mi riconoscete? Certo io riconosco ben voi».
A
cui Sempronio:
«Gentil
donna, a cui che il cianciare stia bene, a voi molto si disdice: e non è atto
di nobile donna andare gli antichi dolori delle morte persone per modo di beffe
ritornando a memoria. Noi vi siamo, quando vi piaccia, e fratelli e servidori,
e la nostra casa è a' vostri piaceri apparecchiata, ma cessi che sotto colore
di Glorizia noi qua entro ricevere vi vogliamo, però che già Apollo è oltre a
venti volte tornato alla sua casa, poi che Glorizia mutò vita, sì come noi ben
sappiamo, che la piangemmo molto come cara sorella, e questo ancora a tutta
Roma è manifesto; e sappiamo ancora Domeneddio ora non essere in terra sceso a
risuscitar lei. Voi siete errata: guardate che caso non vi faccia meno che bene
parlare».
Allora
Glorizia, tutta nel viso cambiata per le due sorelle di lei e per li tre
fratelli nati dopo la sua partita, i quali ella non conoscea, e per gli altri
circunstanti, dopo un gran sospiro disse:
«Oimè,
fratello, or come mi parli tu? Sono io femina cui in alcuno atto la gola leda?
Certo per singulare grazia da Dio questo conosco, che tra l'altre io sono una
delle più modeste. Oimè, che io perché io le mie case ricerco, m'è detto che io
meno che bene parlo! E più, che m'è detto che io, che mai non morii, già è gran
tempo fui morta, pianta e sepellita. Deh, Iddio!, come può egli essere che
Clelia, a cui io niente per consanguinità attengo, m'abbia riconosciuta, e i
miei fratelli non mi conoscono, ma mi scacciano?».
Ma
poi, lasciando del dolersi i sembianti, passò più avanti dicendo:
«Io
sono Glorizia, e vivo, né mai morii. Onoratemi nella mia casa come è degno.
Mostratemi Lavinio mio padre e Vetruria mia madre, e fate venire Scurzio mio
promesso marito, il quale io giovane qui con voi e con Afranio mio fratello
lasciai».
Sempronio,
udendo questo, più s'incominciò a maravigliare, e più fiso mirandola, quasi già
la veniva raffigurando; ma la memoria del falso corpo, per adietro da lui sepellito,
non gli lasciava credere ciò che vera imaginazione gli raportava. Il vecchio
padre udì la questionante figliuola, e la voce, non udita di gran tempo,
riconobbe, e già quasi gli fu manifesto essere per adietro stato ingannato; e
chiamato a sé Sempronio, gli comandò che dentro a lui menasse la donna, la
quale prima alla sua poca vista non fu palese, che egli, come potea, grave, la
corse ad abbracciare, dicendo:
«Veramente
tu se' Glorizia mia cara figliuola».
E
narratole come morta pianta l'aveano, sanza fine la fecero maravigliare, e poi
dolere della trapassata madre e rallegrare della multiplicata prole, a' quali
faccendola nota con intera chiarezza, con festa a Scurzio suo marito, il quale
lei credendo morta un'altra n'avea menata, che poco tempo era passato che
similemente morta s'era, la rendeo, con cui ella felicemente poi lungamente
visse.
[74]
Ricevuta
Glorizia, e riso molto di questo accidente da Biancifiore e da Clelia alle
quali poi essa lo narrò, e durante ancora la festa grande di Florio, Ascalion,
già molto pieno d'anni, infermò, e dopo lunga infermità, in buona disposizione
rendé l'anima a Dio. Il cui passare di questa vita sanza comparazione a Florio
dolfe, ma fattolo di nobilissimi vestimenti vestire e a guisa di nobile
cavaliere adornare sopra un ricchissimo letto, vergognandosi di spandere
lagrime nella presenza de' circunstanti, quindi comandò ogni persona partire, e
rimaso solo, con amarissimo pianto bagnando il morto viso, così cominciò a
dire:
[75]
«O
singulare amico a me intra molti, a cui le mie avversità sempre furono tue,
dove se' tu? Quali regioni, o Ascalion, cerca testé la tua santa anima? Certo
io credo le celestiali, però che la tua virtù le meritò. O caro amico, quanto
amara cosa da me t'ha diviso! Ove a te il ritroverò io simile? Chi, se la
contraria fortuna tornasse, di vivere mitissimamente mi daria consiglio, come
tu facesti più volte, essendo amore di morte nel mio misero petto? Chi alle mie
gravi avversità aiutarmi sostenere gli avversari fati sottentrerebbe, come tu
sottentravi? Oimè, che queste cose sempre mi saranno fitte nell'intime medolle,
e prima il mio spirito le sottili aure cercherà, ch'elle passino della mia
memoria. Alcuni vogliono lodare per amicizia grandissima quella di Filade e
d'Oreste, altri quella di Teseo e di Peritoo mirabilemente vantano, e molti
quella d'Achille e di Patrocolo mostrano maggiore che altra; e Maro, sommo
poeta, quella di Niso e di Eurialo cantando sopra l'altre pone, e tali sono che
recitano quella di Damone e di Fizia avere tutte l'altre passate: ma niuno di
quelli che questo dicono la nostra ha conosciuta. Certo niuna a quella che tu
verso di me hai portata si può appareggiare. Se Filade Oreste furioso
lungamente guardò, egli però te non passò di fermezza. E chi fu alla mia lunga
follia continua guardia se non tu? E quale più dirittamente si può dire folle,
o fa maggiori follie, che colui che oltre al ragionevole dovere soggiace ad
amore sì come io feci? Se Peritoo ardì di cercare dietro a Teseo le infernali
case, di sé più maraviglia che odio mettendo nel doloroso iddio, gran cosa
fece; ma tu non dietro a me, anzi davanti hai tentate pestilenziose cose, e da
non dire, per farmi sicuro il passare. E se Achille animosamente la morte di
Patrocolo, con cui egli era sempre vivuto amico, vendicò, tu più robustamente
operasti, faccendo sì con la tua forza che io non fossi morto. E se Niso, morto
Eurialo, volle con lui morire, potendo campare, in ciò singulare segno d'amore
verso lui mostrando, e tu similemente potendo te salvare, vedendo me nel
mortale pericolo, a morire meco, se io fossi morto, eri disposto, e io l'udiva.
E chi dubita che tu ancora, con isperanza che io mai non fossi tornato, non
fossi per lo mio capo entrato, come Fizia per Damone entrò, del suo tornare,
per la stretta amistà, sicuro? Oimè, che singulare amico ho perduto! Tu quanto
più l'avversità m'infestava, tanto più a' miei beni eri sollecito. Niuna cosa
celavi tu tanto che essa a me non fosse aperta, e molte cose al mio petto
fidatamente davi a tenere coperte, e tu similemente eri colui a cui io tutti i
miei segreti fidava, però che tu, dolce amico, non eri di quelli che così vanno
con l'amico, come l'ombra con colui cui il sole fiere, tra' quali se alcuna
nube si oppone che privi la luce, con quella insieme fugge. Tu così nell'un
tempo come nell'altro, sempre fosti equale. O nobile compagno, il quale mai la
tua volontà dalla mia non partisti, ove pari a te il ritroverò? O discreto mae
stro, e a me più che padre, i cui ammaestramenti seguirò io? Sotto cui fidanza
viverò io omai sicuro? Certo io non so chi mi fia fido duca negli ignoti passi.
A cui per consiglio ricorrerò? Non so! Chi mi ripresenterà al mio padre, il
quale, sentendo te meco, di rivedermi vive sicuro? Certo s'egli la tua morte
sapesse, egli si crederia avermi perduto. Oimè, quanto amara mi pare la tua
partenza! Or fosse piacere di Dio che la morte teco m'avesse tratto! Io ne
venia contento sì come colui che della sua Biancifiore ha avuto il suo disio
ritrovandola, e poi la santa fede prendendo è da ogni sozzura lavato. Appresso
con così fatto compagno, partendomi di questa vita, non crederia potere esser
passato se non a più felice. Ora io credo che tu in lieta vita dimori, e Iddio
nel mondo grazia mirabile ti concedeo, faccendoti tanti anni vivere che alla
vera conoscenza tornassi: per che da sperare è che nel secolo ove tu dimori da
lui similemente abbi ricevuta grazia, la quale se così hai com'io credo, ti
priego che per me dinanzi al tuo e al mio Fattore impetri grazia, che mi lasci,
mentre io vivo, nel suo servigio divotamente vivere, e quando a passare di
questa vita vengo, costà su mi chiami, ov'io spero che grazioso luogo mi
serberai, acciò che, com'io qua giù nella mortale vita sempre fui caro teco,
così nella etterna carissimo teco dimori».
[76]
Queste
parole dette, Florio, asciutti i lagrimosi occhi, uscì della camera ove stava,
e con onore grandissimo in Laterano fece sepellire il morto corpo, il quale
Biancifiore, sanza prendere alcuna consolazione, più giorni pianse, dicendo sé
mai altro padre di lui non avere conosciuto, e il simigliante Glorizia, la
quale molto l'amava; il duca Ferramonte ancora, e Messaallino e Parme nione e
gli altri, non era chi potesse riconfortare. E certo Mennilio e Quintilio e le
loro donne, di ciò dolenti, assai il fecero molto onorare alla sepoltura.
[77]
Essendo
la gran festa della tornata di Florio e di Biancifiore lungamente durata, e
venuta a fine, e le lagrime cessate del trapassato Ascalion, a Florio si
raccese il disio di rivedere il padre. Per che egli a Mennilio e al fratello e
alle donne cercò licenza di poterlo andare a vedere, e similemente la madre e
il suo regno: la quale benignamente gli fu conceduta, ben che più caro fosse
stata a' conceditori la loro dimoranza. Ma prima che essi si partissero, di
grazia fece loro Vigilio mostrare la santa effigie di Cristo, recata di
lerusalern a Vespasiano. E dopo quella, la quale Florio con divozione riguardò,
la inconsutile tunica fu loro mostrata; e quella testa appresso, che fu, per
servare il giuramento d'Erode, merito della saltatrice giovane. E poi videro
quella del Prencipe degli apostoli, insieme con quella del gran Vaso di
elezione: né niuna altra notabile reliquia in Roma fu che essi non vedessero.
Le quali vedute, Florio di grazia impetrò dal sommo pontefice che Ilario con
lui dovesse andare, acciò che nelle cose da lui ignorate fosse da Ilario
chiarificato, e insegnateli, e appresso perché egli quello che a lui avea
predicato, predicasse al vecchio padre e a molti popoli del suo regno, e a
quelli che si convertissono desse battesimo. E concedutogli da Vigilio, prese
comiato e con la sua benedizione si partì; nella cui partenza, Bellisano con
molti altri romani nobili uomini andarono infino fuori della città, e
similemente Clelia e Tiberina con Biancifiore. Ma Florio, ringraziando
Bellisano e gli altri nobili e accomiatatosi da loro, si partì, cavalcando con
Mennilio e con Ilario, i quali seco menava avanti, e Biancifiore appresso con
pietose lagrime promettendo di ritornare tosto, lasciò Quintilio, suo zio, e
Clelia e Tiberina, seguendo Florio suo marito.
[78]
Cavalcati
adunque costoro verso Marmorina più giorni, e a quella già forse per una dieta
vicini, piacque a Florio di significare al padre la sua felice tornata per
convenevoli ambasciadori, la quale esso attendeva e sopra tutte le cose
disiderava, avendo da' marinari de' tornati legni interamente saputa la sua
fortuna, della quale saria stato contento, se la nobiltà di Biancifiore avesse
saputa, ma per quello dolente vivea, ben che con disiderio attendesse il
figliuolo: e ancora, con tutto che Florio suscetta avesse di lei graziosa
prole, gli andavano per lo iniquo cuore pensieri dì nuocerle. Andarono adunque
i mandati al vecchio re, e lui d'età pieno trovarono salito sopra un'alta torre
del suo real palagio; e sopra quella stando, rimirava i circunstanti paesi,
acciò che di lontano potesse conoscere la venuta del suo figliuolo. A cui i
mandati ambasciadori lietamente di quello la venuta nunziarono, aggiungendo,
come loro fu imposto, che con ciò fosse cosa che egli la verace credenza
battezzandosi avesse presa, che similemente a lui dovesse piacere di pigliarla
nel suo venire, se non, che mai nella sua presenza non tornerebbe. Le quali
cose udendo il re, prima della sua venuta allegrissimo, come l'altre cose
ascoltò, così divenne turbato, e con grandissimo romore alzando la grave testa
disse:
«O
misera la vita mia, perché figliuolo mai d'avere disiderai niuno? Avanti che io
l'avessi, chi fu più di me felice, ben che io il contrario mi reputassi,
tenendo che alla mia felicità niuna cosa se non figliuoli mancasse, e sanza
quelli nulla fossi? E, avutolo, che felicità si fosse mai non conobbi! Oimè,
ora non mi fosse mai nato, che certo ancora col mio nome durerebbe l'effetto.
Io, misero, nella sua natività mi pote' uno IN aggiungere al santo nome, acciò
che in misero l'avessi mutato, come la fortuna mutò le cose. Io mi credetti
avere bastone alla mia vecchiezza, e io gravissimo peso mi v'ho trovato
aggiunto. Questi dalla sua puerizia cominciò quella cosa a fare, per la quale
io dovea vivere dolente, e essendo infino a qui tristo, di lui e della sua
pellegrinazione sempre temendo, vivuto, credendo per la sua tornata alquanto
menomare la mia doglia, l'ho accresciuta, e egli l'accresce continuo. Sia
maladetta l'ora ch'egli nacque, e che io prima d'averlo disiderai! Egli a me
s'ha lungamente tolto, e ora in etterno a' nostri iddii s'ha furato, e me
similemente vuole loro torre; ma e' non sarà così, né mai farò cosa che gli
piaccia e cessino gl'iddii che io di farla abbia in pensiero. Dunque ha egli i
nostri veri iddii, da' quali egli ha tanti beni ricevuti, abandonati per altra
legge, e ha creduto a' sottrattori cristiani, de' quali maggiori nimici non ci
conosce? Ora ha egli messo in oblio la santa Venere, la quale, secondo ch'io
udii, gli porse celestiale arme a difendere l'amata Biancifiore contra mio
volere? Ha egli dimenticato Marte, il quale non isdegnò abandonare i suoi regni
per venirlo ad aiutare nell'aspra battaglia campale, ov'egli, se l'aiuto di
quello non fosse stato, saria rimaso morto? Ha egli dimenticati gl'iddii, da
cui prima risponso ebbe della perduta Biancifiore, o quelli che lui nello
acceso fuoco difesero? Ora sia la loro potenza maladetta, poi che da lui tanto
sostengono. A loro avviene, e a me similemente, come a colui che nel suo grembo
con diligenza il serpente nutrica: egli è il primo morso dal velenoso dente.
Quando riceverà egli mai dal nuovo Iddio tante grazie, quante da quelli,
ch'egli ha abandonati, ha ricevute? Certo non mai. Io non credo che egli fosse
mio figliuolo; ma più tosto delle dure quercie e delle fredde pietre fu
generato, e dalle crudeli tigre bevve il latte. Mai niuna mia afflizione il fé
pietoso, ma sempre quelle cose che egli ha sentito che noiose mi siano, quelle
ha operate: e però guardisi mai a me inanzi non apparisca; niuno nimico di me
potrà aver maggiore. Egli, continua tristizia dell'anima mia, so che quella,
divisa dal corpo, trista manderà agl'infernali iddii: quelli iddii, i quali
elli ha per nuova credenza abandonati, me ne facciano ancora vedendolo
turpissimamente morire essere contento!».
[79]
Tacque
il re, e costoro la fiera risposta udita, gli si levarono davanti, né a
rispondere poterono tornare a Florio, per la sopravenuta notte. Ma la reina, la
quale non picciola cura stringea di sapere del figliuolo novelle, vedendo
costoro partiti dal turbato re, a sé chiamare li fece, e da loro
particularmente dello stato del figliuolo s'informa, e dell'essere di
Biancifiore: delle quali cose di tutte saria stata contenta, se la nuova ira
del padre non fosse stata per la nuova legge dal figliuolo novellamente presa.
Ella, udendo che per quella sì aspramente il padre da sé l'accomiata, e lui
d'altra parte fermo di non venire davanti a lui, se la presa legge non prende,
vorria morire. Ma dopo lungo pensiero, con dolci parole priega gli ambasciadori
che l'adirata risponsione del padre non portino al suo figliuolo; ma
mitigandola sì gli dicano che egli nella sua presenza venga, però che il re
prima nol vedrà che egli si muterà d'animo, e il debito amore che tra loro dee
essere sanza niuna sconcia parola o altro mezzo gli concederà.
«Certo
qualora il vecchio re - dicea la reina - vedrà la chiara giovanezza del
figliuolo, egli lieto in se medesimo disidererà di piacergli, né niuna cosa
sarà che egli a lui domandi, che esso non disideri di adempierla. Dunque venga,
che molte cose a' principali si concedono, le quali l'uomo non si vergogna di
disdire a' medianti».
Con
molte altre parole ancora la reina conforta i messaggi che il figliuolo a
venire dispongano, disposta, se egli non viene, d'andare lui a vedere ove ch'e'
sia.
[80]
Era
già della notte gran parte passata, quando la reina da loro si partì, e essi
molto onorati, sì come ella avea comandato, andarono a dormire. Il vecchio re,
a cui il riposo più ch'altro porgea nutrimento alla debole vita, andato di
grande spazio avanti a riposarsi, e rivolgendosi sopra i niquitosi pensieri, in
quelli s'adormentò, e più fiso dormendo, sentì nella sua camera uno strepito
grandissimo, simile a quello che suol fare squarciata nube: per che egli pieno
di paura riscotendosi si svegliò, e la camera sua piena di mirabile splendore
vide. E non sappiendo che ciò si fosse, prima ruina avendo temuta, e ora
temendo fuoco, pavido cominciò a dire:
«Or
che è questo?».
Ma
poi che fuoco non essere il conobbe, con aguto viso cominciò a riguardare per
la luce, nella quale, o perché ella fosse molta o perché la vista del re fosse
poca, niuna cosa dentro vi discernea; ma bene udì alle sue parole rispondere:
«Io
sono colui che tutto posso, e a cui niuno pari si truova, e in cui il tuo
figliuolo con la sua sposa e co' suoi compagni credono novellamente, a' cui
piaceri se tu benignamente non acconsenti, io il farò in tua presenza, o vuogli
tu o no, regnare tanto che de' suoi giorni il termine fia compiuto, il quale
niuno può passare: e te farò viver tanto, che tu la sua morte vedrai. Appresso
la quale, la ribellione de' tuoi baroni ti fia manifesta, i quali davanti agli
occhi tuoi, contradicendolo tu, a poco a poco il tuo regno ti leveranno: e
quello perduto, in tanta miseria verrai, che il morire di grazia mille volte il
giorno domanderai, né ti sarà dato, prima che le mani t'abbia per rabbia rose;
e dopo, questo vituperevolemente morrai, e abominevole a tutto il mondo».
E
questo detto, a un'ora tacque la voce e sparve lo splendore. Per che il re
desto e pauroso, in sé molte volte ripeté l'udite parole dicendo:
«Or
chi potrebbe esser costui che tutto puote, che sì aspramente ne minaccia? Certo
la sua venuta venuta di Dio risembra, e similemente il partire! Dunque è da
temere, e da fare i piaceri suoi, anzi che incorrere nella sua ira: ma come gli
farò, ch'io nol potei vedere né nol conosco?».
E
in questi pensieri stando, sanza punto più la notte dormire che dormito infino
allora avesse, venne il giorno, e egli si levò. E sappiendo che gli
ambasciadori di Florio non erano partiti, a sé gli fece chiamare, e umilemente
li pregò che di ciò che detto avea la passata sera niente al figliuolo narrassero,
però che egli, spaventato con minacce la notte dal novello Iddio, avea mutato
proposito, e però gli dicessero ch'egli venisse, e troverialo ad ogni suo
piacere disposto.
[81]
Allora
si partirono costoro, e in brieve tornati a Florio, ciò che fu loro imposto
renderono: di che Florio contento, come di Marmorina per dolore uscito era
vestito di violato, così in quella propose di rientrare vestito di bianco in
segno di letizia e di purità, e così sé e' suoi fé vestire. E montato a
cavallo, con tutti verso Marmorina cavalcarono, a' quali i nobili uomini di
Marmorina a cavallo menando grandissima gioia e con strumenti infiniti uscirono
incontro; né fu alcuna ruga in Marmorina che di nobili drappi non fosse ornata,
per le quali le donne e i garzoni faccendo festa, attesero il loro signore,
ciascuna con la più bella roba fattasi bella. Con la quale così grande
allegrezza Florio entrò in Marmorina sotto onorevole palio, e Biancifiore
similemente dopo lui. E pervenuti al real palagio, ricevuti furono con mirabile
allegrezza dal vecchio padre e dalla pietosa madre, e con loro insieme tra gli
altri fu molto onorato Mennilio: e' compagni di Florio prima dal re e dalla
reina lietamente veduti, poi da' suoi stretti amici e parenti con maggiore
letizia furono ricevuti. Né niuna cosa è che non sia lieta in tutto il paese:
solamente i grandi parenti del trapassato Ascalion piangono la morte del
valoroso uomo, la quale già in brieve non si mise in oblio.
[82]
Mentre
la gran festa dura, e Biancifiore è dal re e dalla reina come figliuola
onorata, da loro saputo che d'imperiale stirpe discesa sia, domandatole delle
passate offese perdono, alle quali etterno silenzio ella comandò e pregò che
fosse, più giorni trapassano. Dopo i quali, già alquanto riposandosi il festeggiare,
Florio domanda che il re e la reina si dispongano a prendere la santa fede, sì
come promesso aveano, e appresso loro tutto il marmorino popolo e l'altro
rimanente del regno: al cui piacere il re si dispose in tutto. E fatto in una
gran piazza ragunare la molta gente della città, tacitamente la predicazione di
Ilario ascoltarono, dopo la quale il re prima e la reina appresso e tutta
l'altra gente, uomini e femine, piccoli e grandi, presero da Ilario il santo
lavacro. La qual cosa fatta, Florio per tutto il regno mandò legati a seminare
la santa semenza, e per tutto mandò comandando che chi la sua grazia
disiderasse, prendesse il battesimo, e abbattessero i fallaci idoli a reverenza
fatti de' falsi iddii: e de' templi fatti a loro facessero templi al vero Iddio
dedicati, e lui adorassero e temessero e amassero. Il cui comandamento non dopo
molto tempo per tutto fu messo ad essecuzione.
[83]
Faccendosi
della venuta di Florio la gran festa, Sara, a cui notificato fu, acciò che il
suo voto adempiesse, una corona di grandissima valuta, venendo alla corte del
suo signore, recò, e quella presentò a Biancifiore, la quale, di tanto dono
ringraziandolo, benignamente la prese. E Messaallino, che il suo vanto non avea
messo in oblio, i cari piantoni fece venire, e con lieto viso glieli presentò,
a cui ella, ringraziandolo, disse mai ad albero sì fatte radici non avere
vedute:
«ricca
è la terra che le produce». E in questa maniera la festa grande e notabile,
ricominciata per lo preso lavacro, dura lungamente. E i paesani, che vedovi
credeano rimanere di signore, ora riconfortati, lieti il riveggono.
[84]
Quanta
l'allegrezza di Florio fosse, dire non si poria. Egli si vede la disiderata
Biancifiore sposa, e di nobile stirpe, a lui ignota nel principio dello
innamoramento, discesa, e di lei un bellissimo figliuolo. Egli si vede, dopo
molti pericoli, da tutti campato, nel suo regno salvo tornato. Egli si vede il
vecchio padre e la cara madre, i quali egli appena credea ritrovare vivi. Egli
si vede il molto popolo, e da tutti essere amato: e quello che sopra tutte
queste cose gli è grazioso è che della setta de' fedeli a Dio è divenuto, e con
lui tutti i suoi seguaci. Nella quale letizia di tutte queste cose dimorando,
chiamò a sé i cari compagni con lui stati nel lungo pellegrinaggio, de' quali
alcuno ancora alla sua casa non era tornato, e disse loro:
«Signori
e cari amici, finito è il lungo cammino, il quale noi più anni è cominciammo:
e, lodato sia Iddio!, non invano avemo camminato. Ma ben che io la disiderata
cosa abbia acquistata, la vostra fatica, e la paura e l'affanno de' corsi
pericoli, non è stata meno, ne' quali mai da voi non mi vidi diviso, ma
solleciti sempre per levare me de' mali voi volonterosi conobbi a sottentrarvi;
le quali cose in me più volte pensate, con ragione mi vi conosco obligato. E
però io qui giovane, e ancora sotto paterna potestate obligato, più lontano
ch'io possa profferire non vi posso, ma a quello che per me si puote, tutto
sono vostro, disposto a niuno pericolo né affanno rifiutare per voi già mai. E
dopo questo, se mai avviene che la mia fronte sostenga corona, io sia chiamato
re e voi governate e possedete il reame, del quale se il nome come l'utilità si
può comunicare in molti, molto più sono contento che di quello ancora così
com'io godiate: e dove tutto questo a satisfazione di tanto servigio non
bastasse, che so che non basta, Iddio per me vi meriti il rimanente. Siavi
adunque licito omai a vostro piacere rivedere le vostre case, e fare lieti i
padri e le madri e gli stretti amici e parenti, i quali voi, già è tanto tempo,
sanza pigliar congedo per accompagnarmi abandonaste. Né sia però dalla mia
anima la vostra lontana, perché lontanandovi partiamo i corpi, ma così
congiunte, come per adietro state sono, le tenete sempre, tornando a rivedermi
quando riveduti i vostri avrete: e riposatevi tanto che sieno contenti».
[84]
La
grande liberalità di Florio e il suo dolce parlare gli animi prese de' valorosi
giovani, e a' suoi servigi disposti legò con più forte catena. Elli quasi a
tanta proferta non sapeano che rispondere, che a quella loro paresse degno
ringraziare, ma dopo alquanto spazio, ciascuno per sé e tutti insieme dissero:
«Florio,
assai ci è caro, e di maggior servigio il terremo guiderdone, che Iddio sì
liberale giovane ci ha dato per signore; per che della gran pro ferta,
l'attenere della quale crediamo che saria molto, maggiormente ti siamo tenuti:
Iddio il tuo regno e i tuoi beni aumenti sempre, e la grandezza della corona,
che sarà tua, con gloriosa fama prolunghi fino al gran giorno. Sempre siamo
tuoi, e se 'l proferire altrui le sue cose non fosse arroganza, ci
profferremmo; poi che a te quello che a noi medesimi aggrada, cioè che noi le
nostre case riveggiamo, con la già conceduta licenza ci partiremo».
E
queste parole dette, pietà entrò ne' fedeli petti: e abbracciandolo ciascuno, e
da Biancifiore e dal re e dalla reina prendendo congedo, lagrimando si
partirono, in sei parti dividendo la lunga e unica compagnia, tornando ognuno
alle sue case.
[86]
Stette
Florio quanto il lagrimoso verno durò col suo padre e con la sua madre. E negli
oziosi tempi narra loro i nuovi e perversi accidenti avvenutigli dopo la sua
partita. Egli prima all'altre cose dice l'avversità avuta della sua nave negli
ondosi mari e mostra loro come quella, da più contrarii venti combattuta, ad
alcun porto dirizzare non potea la sua prora; poi come dalle rotte onde del
mare, ora d'una parte ora d'altra percossa, e talora da quelle coperta, più
volte perduta, e loro con lei si riputarono, e come essendo loro dal vento la
vela e l'albero tolto, e dal mare i timoni, e il cielo minacciando crudelissime
tempeste, spesso aprendosi con grandissimi tuoni, quella per perduta già vinti
abandonarono: e giacendo sanza potersi atare si concederono alla fortuna, la
quale poi in Partenope con la già rotta nave li trasportò. «Quivi - disse
Florio - ci ritenne contrario vento, tanto che cinque volte tonda e altretante
cornuta si mostrò per tutto il mondo Febeia».
Poi
per molti mezzi mostrò come in Alessandria venisse, e quello che quivi facesse,
e quanto vi stesse: e con una verghetta che in mano tenea, disegna loro l'alta
torre da Sadoc guardata, e le sue bellezze conta, come colui che vedute l'avea.
Poi con quella verga più spazio pigliando, qual fosse e quanto il verde prato
dimostra, e dove l'amiraglio sedesse, quando fra le rose nella cesta gli fu
presentato avanti: e dice quanta la sua paura fosse sentendosi tirare i biondi
capelli. Poi disegna da che parte della torre fosse su tirato, e come nella
bella camera di Biancifiore fosse messo, e quello che egli facesse, e che
dicesse, e come stesse, tutto narra. Poi il principio della stata presura
ignorando, come egli collato giù della torre fosse con Biancifiore ignudi dice,
e mostra con la verga in che parte del prato fosse il fuoco acceso intorno a
loro due, e quando a loro l'oscuro nuvolo discese, e dove la battaglia di
Ascalion e de' suoi compagni con gli avversarii fosse fatta per lo suo scampo;
e conta come poi levato del pericolo, dall'amiraglio riconosciuto fu onorato.
Dice ancora della sua tornata, e del trovato Fileno, e della posta terra; e
similemente come in Roma entrasse, e dove prima arrivasse, e come poi uscitone,
e ritornandovi, fu onorato. Le quali cose il padre e la madre udendo,
subitamente paurosi divennero, e quasi a' partiti che disegnava, il pare loro
vedere. Poi lieti tornando de' ricevuti onori, dimenticano la paura e lodano
Iddio che loro, non per loro merito, ma per sua benignità renduto l'ha sano e
salvo.
[87]
Poi
che la dolente stagione fu passata, e la dolcissima primavera recata da Febo
avendo già di nuove e belle erbette e fiori rivestita la terra e gli alberi, a
Florio venne in disio di visitare il santo tempio, al quale Lelio non era
potuto pervenire con la sua Giulia, e a ciò si dispose, e con Mennilio e con
Ilario entrò al disiato cammino, e con loro Biancifiore. E 'l vecchio re, che
lungo tempo in Marmorina dimorato era, volonteroso d'andare a Corduba, egli e
la reina insieme con Florio infino a quella andarono, e quivi essi rimasero,
con loro ritenendo il piccolo Lelio; e Florio e' suoi cavalcarono avanti al
loro viaggio.
[88]
Camminando
costoro per alcuna giornata, partiti da Corduba lieti, e ragionando delle bene
avvenute cose per adietro, essi pervennero a' piè d'uno altissimo monte, in una
profonda valle, la quale tutta d'ossa bianchissime biancheggiava; di che Florio
molto si maravigliò e Mennilio; e chiamarono a sé un vecchio scudiere, non
sappiendo pensare essi che ciò si fosse, e dimandaronlo se mai udito avesse per
che quel luogo d'ossa sì pieno si mostrasse. A' quali il vecchio scudiere
rispose:
«Io
molte volte ho udito il perché, e certo ancora mi ricorda ch'io il vidi».
«E
quale è la cagione?», disse Florio. A cui lo scudiere, però che Mennilio vedeva
e Biancifiore, non rispose, ma stette alquanto, e poi disse:
«Signor
mio, camminiamo avanti, e alla vostra tornata io vel dirò».
«In
verità noi non ci partiremo - disse Florio - che tu nel dirai».
«E
se col mio dire - disse lo scudiere - io vi porgo turbazione, di ciò non sarà
mia la colpa».
«No
- rispose Florio; - sicuramente qual fosse la cagione interamente ne conta».
«Certo,
signor mio» disse egli allora, «in questo luogo tra infinita moltitudine di
cavalieri di vostro padre, di questo monte discendenti, e tre piccole schiere
di Lelio, padre di Biancifiore, fu asprissima battaglia, e io la vidi: e ben
che quelli di Lelio, e Lelio similemente, molti de' vostri cavalieri
uccidessero, vigorosamente difendendosi, ultimamente essi morti qui tutti
rimasero; a' quali non essendo sepoltura data, e de' romani e degli spagnuoli
insiememente mescolate, consumate le carni, qui l'ossa vedete».
[89]
Udendo
Mennilio e Biancifiore queste parole, alquanto da pietà ristretti sparsero
molte lagrime, ma riconfortati da Florio, parendo loro il migliore di rimanere
quivi quella sera, acciò che ricogliere potessero le sparte ossa, e poi
metterle in santo luogo, fecero tendere un padiglione sopra un verde prato. E
dismontati da cavallo, insieme con la loro famiglia, tutte per li campi
andandole ricogliendo si misero; e di quelle ricolte fecero un grandissimo
monte, e di portarle via diliberarono; ma Biancifiore disse:
«Che
portar vogliamo? Il nostro operare niente è valuto; non qui così l'ossa de'
morti cavalli raccolte sono come quelle dei nobili uomini? Per niente affannare
vogliamo: e però se distinguere l'une dall'altre sappiamo, l'umane ne potremo
portare; se non, qui tutte le sotterriamo, ché non è licita cosa che con le
umane membra quelle de' bruti animali occupino i santi luoghi».
Alla
qual cosa fare si misero, ma niente operavano, perché non sappiendo che farsi
né qual partito in ciò prendersi, parendo loro male di portare le bestiali ossa
a Roma e male di lasciare le romane quivi, lungamente stettero sospesi, tanto
che la oscura notte loro sopravenne. Per la qual cosa, lasciate stare quelle,
tornarono a' tesi padiglioni dicendo:
«In
domattina c'indugiamo a pigliar partito, e forse in questo mezzo Domeneddio
provederà alla nostra ignoranza».
[90]
Entrati
ne' padiglioni costoro, e dopo alquanto datisi al sonno, a Biancifiore in
fulvida luce un giovane di gra zioso aspetto con una giovane bellissima
accompagnato, di vermiglio vestiti, le apparvero, e nel suo cospetto si
fermarono, i quali Biancifiore parve che riguardasse, e tanto belli e tanto
lucenti li vedesse, e tanto lieti in se medesimi, quanto mai veduta avesse
alcuna cosa. E volendoli domandare chi fossero, il giovane cominciò a dire:
«O
bella e graziosa donna, nella pia opera faticata questa passata sera col tuo
marito ricogliendo gli sparti membri, a' quali le ruinose acque hanno
lungamente perdonato per la tua futura venuta, sepera le sante reliquie dalle
inique, ché non è giusta cosa che una terra quella che l'altre occupi».
A
cui Biancifiore parea che rispondesse:
«O
glorioso giovane, a ciò non sa la mia poca discrezione pigliar consiglio, però
che, sì come io ho veduto, più alle giuste che alle ingiuste niuno segno
dimora; ma se a te piace, poi che una pietà con meco insieme hai, andiamo, e
mostramele e meco insieme le scegli».
A
cui il giovane:
«Sanza
me le conoscerai; abandona i pigri sonni, e col tuo marito ti leva su, e con
Mennilio tuo zio, e a ricogliere l'andate. Voi le vedrete tutte vermiglie
rosseggiare, come se di fuoco fossero, e quelle che così fatte vedrete, di
quelle sicuri vivete che siano de' romani giovani morti in questo luogo; le
quali poi che raccolte avrete, con diligenza le rendete a Roma, di cui vivi
furono i corpi. E acciò, o giovane, che tu più lieta viva, chi io sia io mi ti
manifesto e apromiti, e sappi che io fui Lelio tuo padre, e questa che tu con
meco vedi, della cui bellezza tu tanto ti maravigli, fu e è Giulia la tua
madre, e così come cari e fedeli nel mondo fummo, e a Dio con puro cuore
servidori, così gloriosi vivemo nella vita alla quale niuna fine sarà già mai.
La qual cosa, acciò che tu mi creda, poi che tu tutte le vermiglie ossa avrai
ricolte, alla destra parte del tuo letto farai cavare, e quivi il mio corpo
così, come Giulia il vi pose, troverai coi viso del suo vele ancora coperto, e
l'armato corpo d'un verde mantello; il quale tu piglierai, e quello di Giulia
togliendo di Marmorina, insieme in Roma gli sepellirai»; e più non disse. Ma
volendo già dire Biancifiore: «O Giulia, cara madre, fammiti toccare», la luce
sparve e le sante persone, e il sonno si ruppe della giovane, la quale tutta
stupefatta si levò sanza indugio, e chiamati Florio e Mennilio, ciò che veduto
e udito avea per ordine disse loro: di che essi maravigliatisi, assai
ringraziarono Iddio, e levati tutti e tre andarono sanza alcun lume a fare il
pietoso uficio. Essi non uscirono prima de' padiglioni che, la notte essendo
molto oscura e non porgente alcuna luce, videro la profonda valle per diverse
parti tutta rilucere, ove un poco ove un altro, sì come il cielo nel tranquillo
sereno mostra le chiare stelle, e tutte le accomunate ossa sparte trovarono, e
mutate del luogo ove lasciate l'aveano. Essi nel principio con paura di
cuocersi, givano ricogliendo le rosseggianti reliquie, e tutte quelle per
diverse parti della valle sparte risolsero divotamente, e quelle poste sotto
diligente guardia, dove Biancifiore disse, cavarono. Né molto fu loro bisogno
andare a fondo, che essi trovarono il promesso corpo ancora e del velo e del
mantello coperto, fresco come se quel giorno di questa vita misera passato
fosse: il cui viso Biancifiore, ancora che morto fosse, al bello e lucente, che
veduto avea, raffigurò. Ella il bagnò di molte lagrime, nelle quali Mennilio e
Florio l'accompagnarono, tanta pietà li strinse. Poi riconsolati, preso quello,
e involtolo in un caro e mondo drappo, così armato come stava, il misero in una
cassa; e ossa rosseggianti per la cavata terra, forse d'altri corpi in quello
medesimo luogo sepelliti per Giulia, raccolte, aggiunsero all'altre.
[91]
Queste
cose faccendo costoro, sopravenne il chiaro giorno. Per la qual cosa essi, il
corpo e l'ossa ricolte sot to sofficiente custodia lasciate, cavalcarono avanti
al loro cammino, e poco distanti, in brieve al dimandato tempio pervennero, nel
quale essi entrarono e offersero grandissimi doni, e porsero pietose orazioni,
e voltarono i passi loro. E venuti al luogo ove lasciato aveano il corpo di
Lelio e le vermiglie reliquie, quelle prese, sanza ristare in alcuna parte, a
Marmorina ne le portarono: e quivi con solennità tratta della bella sepoltura
Giulia, e acconciatala in una cassa, con l'altro corpo e con le vermiglie ossa
a Roma ne le portarono, e quivi fatte grandissime e belle ossequie, con li loro
padri le sepellirono. Le quali cose fatte, lasciata la non profittevole
malinconia, lietamente veduti e ricevuti, a far festa co' parenti loro si
dierono.
[92]
Stato
Florio in Roma più giorni in allegrezza e in festa co' suoi, dalla cara madre
un singulare messo gli venne, narrante il re suo padre gravissima infermità
sostenere a Corduba, per la qual cosa egli dovesse sanza indugio tornare. Le
quali cose udite Florio, egli e Mennilio con pochi compagni, lasciando
Biancifiore con Clelia, si misero in cammino, e con istudioso passo dopo molti
giorni pervennero a Corduba, vivendo ancora il re, ma molto alla morte vicino:
al quale essi entrarono e con pietoso viso di suo essere domandarono. I quali
quando il re vide, contento molto disse:
«Omai,
o signor mio Domeneddio, prendi l'anima mia quando ti piace».
Poi
a Florio rivolto così gli parlò:
«Caro
figliuolo, da me sopra tutte le cose amato, io non posso più vivere: la lunga
età e la grave infermità mi mostrano la vicina morte, la quale io certo non
debbo mai volontieri prendere, però che lungamente vivuto sono, e delle sue
ragioni ho più tosto prese che ella delle mie. E appresso, avanti ch'ella abbia
la mia vita occupata, assai di quello ch'io ho disiderato e che ora fu, io non
credetti mai vedere, ho veduto: però qualora viene lietamente la riceverò. La
quale poi che del mondo tolto m'avrà, e renduta l'anima al futuro secolo, tu
del presente regno, del quale io lungamente re sono stato, prenderai la corona
e 'l reggimento. Per che io all'altre cose principalmente ti priego e comando
che te prima regghi e governi, sì che coloro, i quali tu avrai a reggere, di te
non si facciano con ragione scherno, e questo faccendo, niuno sarà che di bene
essere retto non speri. Siati la superbia nimica, e quanto puoi la fuggi, però
che ne' suggetti, seguendola, suole rebellazioni e indegnazioni d'animo e
inobedienze generare: e poche cose sono nel cospetto di Dio tanto noiose quanto
quella, però vivi umilemente, e co' tuoi suggetti sii familiare quanto si
conviene. Né l'iracunda rabbia sia o duri in te, la quale suole inducere subiti
movimenti e sconci, li quali, poi passata, sogliono dolere. Niuna vendetta sia
da te presa adirato, però che l'ira ha forza d'occupare l'animo sì che egli non
possa discernere il vero: dunque, passata quella, con discrezione procedi sopra
quello per che t'adirasti. E ben che talora sia fallo che aspra vendetta
meriti, mitiga i tormenti, e dove si conviene perdona volentieri: egli è a'
signori gran gloria l'avere perdonato. Né ti muova invidia a dolerti degli
altrui beni: ella suole, mostrando gli altrui regni più che i suoi uberosi,
fare sanza utilità dolere altrui de' beni del prossimo, e per consequente
disiderare la sua ruina: e di quella, s'avviene, far lieto altrui. Oh, che
iniqua letizia è questa, e quanto da fuggire, con ciò sia cosa che le vie della
fortuna sieno molte e varie, e strabocchevoli i suoi movimenti! Tale rise già
degli altrui danni, che de' suoi dopo picciol tempo pianse, e funne riso.
Dolersi con giusto animo delle altrui calamità non fu mai male. Rallegrati
adunque degli altrui beni, e di quelli che tu possiedi ringrazia Iddio. E
l'avarizia, divoratrice e insaziabi le male, del tutto da te fa che lontana
sia: più che tu abbia non t'è di necessità disiare. I termini del tuo regno
gran circuito occupano, i quali, se tu me ne crederai, d'ampliarli non entrerai
in sollecitudine: spesse volte, per avere l'uomo più che si convegna, quello
che convenevolemente avea, ha perduto. Né ti metta costei in disiderio di
ragunar tesori, i quali amara sollecitudine sono dell'uomo, e per quelli
moltiplicare in alto monte, far fare forze a quelli i quali più tosto per la
loro vita poter governare ne bisognerebbono, che esser loro tolti quelli che
hanno. Dispettevole cosa è nel prencipe l'avarizia, la quale ove dimora conviene
che giustizia se ne parta. Grandi furono i miei tesori, né quelli vivendo ho
spesi, né ora morendo mi possono un'ora di vita accrescere né seguirmi. Sii
adunque liberale, e con retto giudicio e onesto volere liberamente dona, e
quelli co' tuoi suggetti, non dimenticando gl'indigenti, godi: e guardati non
forse tanto liberale essere disideri, che tu in prodigalità cadessi, la quale a
non meno mali altrui conduce che l'avarizia. Guardati similemente che l'animo
accidia non ti occupi, la quale in pensieri suole altrui mettere molto sconci,
e per consequente alle operazioni: ella fa gli uomini molli e miseri di cuore,
e pigri alli loro beni, le quali cose in signore né in alcuno altro sono in
alcuna maniera da consentire. La faccia del prencipe dee essere lieta nel
cospetto del popolo suo; e nelle convenevoli imprese dee essere magnanimo, e
fuggire, essercitandosi, i vili e disonesti pensieri: la qual cosa e tu
similmente fa. Sia il tuo essercizio continuo e studii nelle virtù e nel ben
vivere de' tuoi suggetti, le cui utilità e riposi più che le tue medesime dei
pensare. Sia il tuo studio in tenergli in uno amore, in una pace e unità, però
che il regno, in sé diviso, fia distrutto. Non sono i grandi onori largiti e le
gran cose commesse, perché ne' morbidi letti dimoriamo oziosi; a noi, sì come
pastori, a' popoli come mansuete pecore ne conviene vegghiare: la qual cosa, se
sa viamente viverai, farai. Quanto puoi ancora caccerai da te i golosi disii, i
quali mettendo ad effetto deturpano il corpo e mancano la vita: e già, come tu
puoi avere udito, più uomini uccise la cena che il coltello. I cibi con
disordinato appetito presi superflui, generarono già molti mali: l'uomo per
quelli perde il lume della mente, e se medesimo non conosce, né Iddio, che è
peggio. E in cui che questo vizio sia da biasimare più che in altrui, è in
coloro che hanno altrui a reggere. Però usa i cibi acciò che tu viva, e non
vivere acciò che tu i cibi usi. Poca cosa la natura contenta, oltre alla quale,
quantunque si piglia genera danno, e è chiamato con ragione vizio. Similemente
ti sia la lussuria nimica, la quale, con ciò sia cosa che con tutti gli altri
vizii da combattere sia, sola è da fuggire. Questa del corpo e della borsa è
nemica con la sua corta e fastidiosa dolcezza e singulare laccio dell'antico
nemico ad inretire l'anime de' cattivi. Oh, quanti e quali mali già costei ha
fatti evenire! Quello rettore che l'userà, darà a' suoi uomini materia
d'enfiare, de' quali enfiamenti niuna altra cosa risulterà se non o tradimento
o insidie: però schifala. A te è la tua Biancifiore, bellissima e d'alta
schiatta nata, la quale tu lungamente hai amata e con sollecitudine guadagnata;
guardalati, e siati cara, e sola come si conviene ti basti sanza più avanti
cercare. E siati a mente che il guardarsi da' vizii non basta, sanza operare le
virtù, a gloriosa vita volere: e però, o caro figliuolo, imita quelle, e quanto
puoi l'adopera. Laudevole cosa e necessaria molto nei prencipi è la prudenzia,
sanza la quale niuno regno bene si governa. E similmente sanza giustizia niuno
regno dura: e poi che i ladroni, acciò che lungamente duri la loro compagnia,
in molte cose i suoi ordini servano, quanto maggiormente i prencipi la deono
volere servare! Adunque, e tu la serva, e a ciascuno con intera ragione il suo
debito rendi: né ti muova amore, odio, amicizia, o parentado, o dono a
giudicare con torta bilancia. E similemente ne' grandi uo mini fortezza d'animo
si richiede, imperò che quanto maggiori sono gli uomini, tanto maggiori
sogliono e possono le avversità avvenire; e però più forza a sostenere loro che
agli altri si richiede, non forse negli avversi casi mostrando mestizia, negli
animi de' suggetti pusillanimità generino. E in tutte le cose fa che temperato
sia: la temperanza in ogni cosa dimora bene. Ella multiplica le laudi e gli
onori, e aumenta la vita, e la sanità serva sanza affanno. E vivi caritevole,
ciascuno come te medesimo amando, ma non i suoi vizii. E fedele a Dio, nella
sua misericordia spera, la quale la morte de' peccatori non vuole, ma la vita,
acciò ch'elli si penta e viva, acciò che tu per queste possi all'etterna gloria
pervenire, quando della tua vita i termini compierai, sì come io ho già
compiuti, per quello che mi paia sentire. E acciò che i vizii fuggire e le
virtù seguire con intero animo possi, sempre davanti agli occhi porta la tua
fine la quale con diritto senno pensando, conoscerai di questo mondo niuna cosa
portarsi se non le buone e virtuose opere. E tra gli altri sia tuo pensiero
questo, che queste cose, le quali tu possederai e che io possedei, non ne sono
date per nostra singulare virtù, nella quale gli altri uomini passiamo, anzi
molte volte meglio che gli altri la nostra casa reggere non sapremmo, ma per
divina grazia l'abbiamo e reggiamo. E però che graziosamente ricevute
l'abbiamo, graziosamente ritenere e dare le dobbiamo. Adunque onestamente vivi,
e altrui non ledere, e a ciascuno quello che suo è dà. E onora la tua madre
sopra tutte le cose del mondo, acciò che la sua benedizione, quando allo
infallibile passo mi seguirà, meriti. E i tuoi figliuoli correggi e gastiga ne'
teneri anni, e ne' virtuosi costumi gli fa esperti, acciò che la loro vita ti
sia consolazione. E priegoti che l'anima di me vecchio tuo padre, la quale in
tanto t'ha sopra tutte le cose amato, che spesso per te sé a se medesima è
uscita di mente, ti sia raccomandata». E queste parole dicendo, allentando a
poco a poco la voce, finì le sante ammonizioni. E data al figliuolo la sua
benedizione, e teneramente con lagrime baciatolo, gridò:
«Io
me ne vo»; e seguì poi:
«O
signor mio, ricevi nelle tue mani l'anima del tuo servo».
E
così dicendo rendé l'anima al suo Fattore. La qual cosa veggendo Florio, con
pietosa mano chiuse gli occhi al moriente padre, e piangendo i lieti vestimenti
abandonò e pigliò i lugubri con molti compagni, tra' quali Mennilio similmente
li prese.
[93]
Ilario,
il quale con somma sollecitudine avea al vecchio re i santi sacramenti della
chiesa con divozione donati, poi che della presente vita passato il vide, come
a Florio piacque, secondo la romana consuetudine mise in ordine i grandi
ossequi; e con molto onore, sì come a tanto re si convenia, il fece sepellire
nella maggior chiesa della città.
[94]
Pianselo
Florio molti giorni; ma venuto il tempo che le lugubri vesti lasciare si
doveano e Florio fu riconfortato; i baroni e i grandi uomini del suo reame
vennero nella sua presenza, acciò che, egli presa la corona, la debita fedeltà
gli giurassero. Alla quale coronazione Florio fece chiamare Biancifiore, a cui
la morte del re era per amore di Florio assai doluta. Con lei venne la valorosa
donna Clelia, e Tiberina, e Glorizia e altre donne di Roma, le quali Quintilio
con Scurzio e con Sempronio accompagnarono. E Caleon, a cui era in cura allora
di fare fontane alla nuova terra, udendo della coronazione di Florio la
novella, lasciato stare ogni cosa, vi venne. E Fileno, e 'l padre e la madre e'
parenti lasciati, ancora vi venne, e 'l duca Ferramonte similemente, e Sara, e
Parmenione, e Messaallino e Menedon e qualunque altro grande del paese, ove
elli furono tutti da Florio lietamente e con onore ricevuti.
[95]
Il
dolce tempo era, e il cielo tutto ridente porgeva graziose ore: Citerea, tra le
corna dello stellato Tauro splendidissima dava luce, e Giove chiaro si stava
tra' guizzanti Pesci; Apollo nelle braccia di Castore e di Polluce più lieto
ogni mattina nelle braccia della sua Aurora si vedea entrare; Febeia correa con
le sue agute corna lieta alla sua ritondità. Ogni stella ridea, e il sottile
aere confortava i viventi, e la terra niuna parte di sé mostrava ignuda: ogni
cosa o erba o fiori si vedea, sanza i quali niuno albero si saria trovato, o
sanza frutto. Gli uccelli, che lungamente aveano taciuto, davano graziosi
canti, né alcuna cosa era sanza lieto segno, quando la gran festa della futura
coronazione di Florio si cominciò per Corduba: le rughe della quale, da
ciascuna parte ornate di simili drappi quali quelli d'Aragne, tutte ridono.
Niuna casa, niuno luogo è sanza maravigliosi suoni. E i giovani e le donne
lieti e riscaldati nel festeggiare, con graziose note cantano gli antichi
amori. Altri sopra i correnti cavalli, inghirlandati di novella fronde, ornati
sé e i loro cavalli di molto oro e di sonanti sonagli, corrono, e i vaghi occhi
delle giovani tirano a riguardarsi. Alcuni apparecchiano le forti armi per
mostrare in pacifiche giostre quant'elli sotto quelle sia poderoso. E altri
divisano altri giuochi, né niuno è sanza festa. E le molte e diverse brigate
de' festeggianti niuno riposo conoscono, e ben che Febo co' suoi cavalli si
tuffi nelle onde di Speria, non toglie egli loro il festeggiare: quello che il
nasco so sole toglie, l'accese faglie suppliscono, graziose alle non così belle
giovani. Ma poi che in così grande allegrezza, apparecchiate le necessarie
cose, il diterminato giorno della coronazione fu venuto, Florio vestito di
reali vestimenti venne in una gran piazza accompagnato da' nobili del reame, e
quivi Ilario e 'l duca Ferramonte, eletti da tutti gli altri in generale
all'alto mestiere, celebrato il santo uficio, invocato divotamente il nome di
Dio a sua laude e reverenza, del reame di Spagna con corona d'oro coronarono
Florio, in cospetto di tutto lo infinito popolo, del quale le vocì a cielo
andarono sì alte, che oppinione fu di molti che dentro passassero, dicendo:
«Viva
il nostro re».
Il
quale, poi che la corona ricevuta ebbe, si fece venire avanti Biancifiore, e
con le propie mani di simile regno la coronò reina. Queste cose fatte,
rincominciò la festa grandissima, e le trombe e i molti strumenti sonarono, e
l'armeggiare cominciò grandissimo, e tanta e sì generale festa per tutto si fa,
che niuna altra cosa vi si vede o sente.
[96]
Florio,
novello re, fattisi venire i ragunati tesori dal padre, e quelli liberamente
dona a' suoi baroni, e non consente che niuno sanza grandissimo dono si parta
da tanta festa. E poi con loro insieme per la terra andando, ovunque egli viene
fa festa multiplicare; e festeggia sempre seco avendo i cari compagni del suo
pellegrinaggio, e quelli onora e sopra tutti gli altri vede volentieri, e a
coloro dà i grandissimi doni: e a dare a ciascuno il suo regno gli paria far
poco. E durata per molti giorni la festa grandissima sanza comparazione, gli
amici e' servidori del re Florio contenti disiderano di rivedere le loro case e
cercano congedo, il quale il re Florio come può lieto concede. Caleon torna a
Calocepe, Fileno a Mar morina, Mennilio e Quintilio e gli altri giovani romani
con le loro donne, e con grandissimi doni lieti ricercano Roma, e con loro il
reverendo Ilario. Il quale prima in quella non giunse, che con ordinato stile,
sì come colui che era bene informato, in greca lingua scrisse i casi del giovane
re: il quale, con la sua reina Biancifiore ne' suoi regni rimasi, piacendo a
Dio, poi felicemente consumò i giorni della sua vita.
[97]
O
piccolo mio libretto, a me più anni stato graziosa fatica, il tuo legno
sospinto da graziosi venti tocca i liti con affanno cercati, e già il vento
richiamato da Eolo manca alle tue vele, e sopra essi contento ti lascia.
Fermati, adunque, ricogliendo quelle, e a' remi stimolatori delle solcate acque
concedi riposo, e agli scogli dà l'uncinute ancore, e de' segati mari e della
lunga via le meritate ghirlande aspetta, le quali la tua bellissima e valorosa
donna, il cui nome tu porti scritto nella tua fronte, graziosamente ti porgerà,
prendendoti nelle sue dilicate mani, dicendo con soave voce:
«Ben
sia venuto»; e forse con la dolce bocca ti porgerà alcun bacio. La qual cosa
s'avviene, chi più di te si potrà dire beato? E certo se altro merito non ti
seguisse del lungo affanno, se non che i suoi begli occhi ti vedranno, sì ti
fia egli assai grande, e glorioso potrai dire il tuo nome tra' navicanti. Ella,
la quale io sempre figurata porto nell'amorosa mente, mai i tuoi versi non
leggerà che di me, tuo autore, non le torni il nome nella memoria: la qual cosa
ne fia grandissimo dono. Adunque se di me tuo fattore t'è cura, dimora con lei,
ove io dimorare non oso, né di maggior fama avere sollecitudine, ché, con ciò
sia cosa che tu da umile giovane sii creato, il cercare gli alti luoghi ti si
disdice: e però agli eccellenti ingegni e alle robuste menti lascia i gran
versi di Virgilio. A te la bella donna si conviene con pietosa voce dilettare,
e confermarla ad essere d'un solo amante contenta. E quelli del valoroso
Lucano, ne' quali le fiere arme di Marte si cantano, lasciali agli armigeri
cavalieri insieme con quelli del tolosano Stazio. E chi con molta efficacia
ama, il sermontino Ovidio, seguiti, delle cui opere tu se' confortatore. Né ti
sia cura di volere essere dove i misurati versi del fiorentino Dante si
cantino, il quale tu sì come piccolo servidore molto dei reverente seguire.
Lascia a costoro il debito onore, il quale volere usurpare con vergogna
t'acquisterebbe danno. Elle son tutte cose da lasciare agli alti ingegni. La
cicogna figliante nell'alte torri discende a vivere a' fiumi. A te bisogna di
volare abasso, però che la bassezza t'è mezzana via. E Alcione volando batte le
sue ali nelle salate onde, e vive. A te è assai solamente piacere alla tua
donna, a cui è licito darti alto e basso luogo secondo che le piace: dalla
quale, per mio consiglio, mai non ti partirai. E ove staresti tu meglio che nel
suo grembo? Quali mani più belle ti poriano toccare, o occhi riguardare, o voce
profferere le tue parole? Da cui se tu pure per accidente esci di mano, e agli
altrui occhi pervieni, con pazienza le riprensioni de' più savi sostieni, e
secondo il loro diritto giudicio ti disponi alla menda. Al cinguettare de'
folli non porgere orecchi, ch'è bassa voglia; e a coloro che con benivola
intenzione ti riguardano, ingegnati di piacere, e i morsi dell'invidia quanto
puoi schifa, ne' denti della quale se pure incappi, resisti. Tu se' di tal
donna suggetto che le tue forze non deono esser piccole. E a' contradicenti le
tue piacevoli cose, dà la lunga fatica di Ilario per veridico testimonio, e,
nel cospetto di tutti, del tuo volgar parlare ti sia scusa il ricevuto
comandamento, che 'l tuo principio palesa. Serva adunque i porti mandatili, e
de' beni del tuo padre non essere detrattore: vivi, e di me tuo fattore sempre
nella mente il nome porta, la cui vita nelle mani della tua donna Amore
conservi.