Giovanni Boccaccio
Decameron
Edizione di riferimento:
Giovanni Boccaccio: Decameron,
a cura di Vittore
Branca, Utet, Torino 1956
COMINCIA IL LIBRO
CHIAMATO DECAMERON, COGNOMINATO PRENCIPE GALEOTTO, NEL QUALE SI CONTENGONO
CENTO NOVELLE IN DIECI DÌ DETTE DA SETTE DONNE E DA TRE GIOVANI UOMINI.
Umana cosa è aver
compassione degli afflitti: e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è
massimamente richiesto li quali già hanno di conforto avuto mestiere e hannol
trovato in alcuni; fra quali, se alcuno mai n'ebbe bisogno o gli fu caro o già
ne ricevette piacere, io sono uno di quegli. Per ciò che, dalla mia prima
giovinezza infino a questo tempo oltre modo essendo acceso stato d'altissimo e
nobile amore, forse più assai che alla mia bassa condizione non parrebbe,
narrandolo, si richiedesse, quantunque appo coloro che discreti erano e alla
cui notizia pervenne io ne fossi lodato e da molto più reputato, nondimeno mi
fu egli di grandissima fatica a sofferire, certo non per crudeltà della donna
amata, ma per soverchio fuoco nella mente concetto da poco regolato appetito:
il quale, per ciò che a niuno convenevole termine mi lasciava un tempo stare,
più di noia che bisogno non m'era spesse volte sentir mi facea. Nella qual noia
tanto rifrigerio già mi porsero i piacevoli ragionamenti d'alcuno amico le sue
laudevoli consolazioni, che io porto fermissima opinione per quelle essere
avvenuto che io non sia morto.
Ma sì come a Colui
piacque il quale, essendo Egli infinito, diede per legge incommutabile a tutte
le cose mondane aver fine, il mio amore, oltre a ogn'altro fervente e il quale
niuna forza di proponimento o di consiglio o di vergogna evidente, o pericolo
che seguir ne potesse, aveva potuto né rompere né piegare, per sè medesimo in
processo di tempo si diminuì in guisa, che sol di sè nella mente m'ha al
presente lasciato quel piacere che egli è usato di porgere a chi troppo non si
mette né suoi più cupi pelaghi navigando; per che, dove faticoso esser solea,
ogni affanno togliendo via, dilettevole il sento esser rimaso.
Ma quantunque cessata
sia la pena, non per ciò è la memoria fuggita de' benefici già ricevuti, datimi
da coloro a' quali per benivolenza da loro a me portata erano gravi le mie
fatiche: ne passerà mai, sì come io credo, se non per morte. E per ciò che la
gratitudine, secondo che io credo, trall'altre virtù è sommamente da commendare
e il contrario da biasimare, per non parere ingrato ho meco stesso proposto di
volere, in quel poco che per me si può, in cambio di ciò che io ricevetti, ora
che libero dir mi posso, e se non a coloro che me atarono alli quali per
avventura per lo lor senno o per la loro buona ventura non abbisogna, a quegli
almeno a' qual fa luogo, alcuno alleggiamento prestare. E quantunque il mio
sostenta mento, o conforto che vogliam dire, possa essere e sia a' bisognosi
assai poco, nondimeno parmi quello doversi più tosto porgere dove il bisogno
apparisce maggiore, sì perché più utilità vi farà e si ancora perché più vi fia
caro avuto.
E chi negherà questo,
quantunque egli si sia, non molto più alle vaghe donne che agli uomini
convenirsi donare? Esse dentro a' dilicati petti, temendo e vergognando,
tengono l'amorose fiamme nascose, le quali quanto più di forza abbian che le
palesi coloro il sanno che l'hanno provate: e oltre a ciò, ristrette dà voleri,
dà piaceri, dà comandamenti de' padri, delle madri, de' fratelli e de' mariti,
il più del tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse dimorano e
quasi oziose sedendosi, volendo e non volendo in una medesima ora, seco
rivolgendo diversi pensieri, li quali non è possibile che sempre sieno allegri.
E se per quegli alcuna malinconia, mossa da focoso disio, sopravviene nelle lor
menti, in quelle conviene che con grave noia si dimori, se da nuovi
ragionamenti non è rimossa: senza che elle sono molto men forti che gli uomini
a sostenere; il che degli innamorati uomini non avviene, sì come noi possiamo
apertamente vedere. Essi, se alcuna malinconia o gravezza di pensieri gli
affligge, hanno molti modi da alleggiare o da passar quello, per ciò che a
loro, volendo essi, non manca l'andare a torno, udire e veder molte cose,
uccellare, cacciare, pescare, cavalcare, giucare o mercatare: de' quali modi
ciascuno ha forza di trarre, o in tutto o in parte, l'animo a sè e dal noioso
pensiero rimuoverlo almeno per alcuno spazio di tempo, appresso il quale, con
un modo o con altro, o consolazion sopraviene o diventa la noia minore.
Adunque, acciò che in
parte per me s'ammendi il peccato della fortuna, la quale dove meno era di
forza, sì come noi nelle dilicate donne veggiamo, quivi più avara fu di
sostegno, in soccorso e rifugio di quelle che amano, per ciò che all'altre è
assai l'ago e 'l fuso e l'arcolaio, intendo di raccontare cento novelle, o
favole o parabole o istorie che dire le vogliamo, raccontate in diece giorni da
una onesta brigata di sette donne e di tre giovani nel pistelenzioso tempo
della passata mortalità fatta, e alcune canzonette dalle predette donne cantate
al lor diletto. Nelle quali novelle piacevoli e aspri casi d'amore e altri
fortunati avvenimenti si vederanno così né moderni tempi avvenuti come negli antichi;
delle quali le già dette donne, che queste leggeranno, parimente diletto delle
sollazzevoli cose in quelle mostrate e utile consiglio potranno pigliare, in
quanto potranno cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da
seguitare: le quali cose senza passamento di noia non credo che possano
intervenire. Il che se avviene, che voglia Idio che così sia; a Amore ne
rendano grazie, il quale liberandomi dà suoi legami m'ha conceduto il potere
attendere a' lor piaceri.
Comincia la Giornata
prima del Decameron, nella quale dopo la dimostrazione fatta dall'autore, per
che cagione avvenisse di doversi quelle persone, che appresso si mostrano,
ragunare a ragionare insieme, sotto il reggimento di Pampinea si ragiona di
quello che più aggrada a ciascheduno.
GIORNATA PRIMA
INTRODUZIONE
Quantunque volte,
graziosissime donne, meco pensando riguardo quanto voi naturalmente: tutte
siete pietose, tante conosco che la presente opera al vostro iudicio avrà grave
e noioso principio, sì come è la dolorosa ricordazione della pestifera
mortalità trapassata, universalmente a ciascuno che quella vide o altramenti
conobbe dannosa, la quale essa porta nella fronte. Ma non voglio per ciò che
questo di più avanti leggere vi spaventi, quasi sempre sospiri e tralle lagrime
leggendo dobbiate trapassare. Questo orrido cominciamento vi fia non altramenti
che a' camminanti una montagna aspra e erta, presso alla quale un bellissimo
piano e dilettevole sia reposto, il quale tanto più viene lor piacevole quanto maggiore
è stata del salire e dello smontare la gravezza. E sì come la estremità della
allegrezza il dolore occupa, così le miserie da sopravegnente letizia sono
terminate. A questa brieve noia (dico brieve in quanto poche lettere si
contiene) seguita prestamente la dolcezza e il piacere quale io v'ho davanti
promesso e che forse non sarebbe da così fatto inizio, se non si dicesse,
aspettato. E nel vero, se io potuto avessi onestamente per altra parte menarvi
a quello che io desidero che per così aspro sentiero come fia questo, io
l'avrei volentier fatto: ma ciò che, qual fosse la cagione per che le cose che
appresso si leggeranno avvenissero, non si poteva senza questa ramemorazion
dimostrare, quasi da necessità constretto a scriverle mi conduco.
Dico adunque che già
erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero
pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza,
oltre a ogn'altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza: la
quale, per operazion de' corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta
ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti
nelle parti orientali incominciata, quelle d'inumerabile quantità de' viventi
avendo private, senza ristare d'un luogo in uno altro continuandosi, verso
l'Occidente miserabilmente s'era ampliata. E in quella non valendo alcuno senno
né umano provedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da
oficiali sopra ciò ordinati e vietato l'entrarvi dentro a ciascuno infermo e
molti consigli dati a conservazion della sanità, né ancora umili supplicazioni
non una volta ma molte e in processioni ordinate, in altre guise a Dio fatte
dalle divote persone, quasi nel principio della primavera dell'anno predetto orribilmente
cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare. E non
come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva il sangue del naso era
manifesto segno di inevitabile morte: ma nascevano nel cominciamento d'essa a'
maschi e alle femine parimente o nella anguinaia o sotto le ditella certe
enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno
uovo, e alcune più e alcun'altre meno, le quali i volgari nominavan gavoccioli.
E dalle due parti del corpo predette infra brieve spazio cominciò il già detto
gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a
venire: e da questo appresso s'incominciò la qualità della predetta infermità a
permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in
ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui
minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era
certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno.
A cura delle quali infermità né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna
pareva che valesse o facesse profitto: anzi, o che natura del malore nol
patisse o che la ignoranza de' medicanti (de' quali, oltre al numero degli
scienziati, così di femine come d'uomini senza avere alcuna dottrina di
medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo) non conoscesse da
che si movesse e per consequente debito argomento non vi prendesse, non
solamente pochi ne guarivano, anzi quasi tutti infra 'l terzo giorno dalla
apparizione de' sopra detti segni, chi più tosto e chi meno e i più senza
alcuna febbre o altro accidente, morivano.
E fu questa pestilenza
di maggior forza per ciò che essa dagli infermi di quella per lo comunicare
insieme s'avventava a' sani, non altramenti che faccia il fuoco alle cose
secche o unte quando molto gli sono avvicinate. E più avanti ancora ebbe di
male: ché non solamente il parlare e l'usare cogli infermi dava a' sani
infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o qualunque
altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata pareva seco quella cotale
infermità nel toccator transportare.
Maravigliosa cosa è da
udire quello che io debbo dire: il che, se dagli occhi di molti e da' miei non
fosse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo,
quantunque da fededegna udito l'avessi. Dico che di tanta efficacia fu la
qualità della pestilenzia narrata nello appiccarsi da uno a altro, che non
solamente l'uomo all'uomo, ma questo, che è molto più, assai volte visibilmente
fece, cioè che la cosa dell'uomo infermo stato, o morto di tale infermità,
tocca da un altro animale fuori della spezie dell'uomo, non solamente della
infermità il contaminasse ma quello infra brevissimo spazio uccidesse. Di che
gli occhi miei, sì come poco davanti è detto, presero tra l'altre volte un dì
così fatta esperienza: che, essendo gli stracci d'un povero uomo da tale
infermità morto gittati nella via publica e avvenendosi a essi due porci, e
quegli secondo il lor costume prima molto col grifo e poi co' denti presigli e
scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento,
come se veleno avesser preso, amenduni sopra li mal tirati stracci morti
caddero in terra. Dalle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o
maggiori nacquero diverse paure e immaginazioni in quegli che rimanevano vivi,
e tutti quasi a un fine tiravano assai crudele era di schifare e di fuggire
gl'infermi e le lor cose; e così faccendo, si credeva ciascuno medesimo salute
acquistare.
E erano alcuni, li quali
avvisavano che il viver moderatamente e il guardarsi da ogni superfluità avesse
molto a così fatto accidente resistere; e fatta brigata, da ogni altro separati
viveano, e in quelle case ricogliendosi e racchiudendosi, dove niuno infermo
fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente
usando e ogni lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare a alcuno o volere di
fuori di morte o d'infermi alcuna novella sentire, con suoni e con quegli piaceri
che aver poteano si dimovano. Altri, in contraria oppinion tratti, affermavano
il bere assai e il godere e l'andar cantando attorno e sollazzando e il
sodisfare d'ogni cosa all'appetito che si potesse e di ciò che avveniva ridersi
e beffarsi esser medicina certissima a tanto male; e così come il dicevano
mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna ora
a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura, e molto più ciò per
l'altrui case faccendo, solamente che cose vi sentissero che lor venissero a
grado o in piacere. E ciò potevan far di leggiere, per ciò che ciascun, quasi
non più viver dovesse, aveva, sì come sé, le sue cose messe in abbandono; di
che le più delle case erano divenute comuni, e così l'usava lo straniere, pure
che ad esse s'avvenisse, come l'avrebbe il proprio signore usate; e con tutto
questo proponimento bestiale sempre gl'infermi fuggivano a lor potere.
E in tanta afflizione e
miseria della nostra città era la reverenda autorità delle leggi, così divine
come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri e esecutori di
quelle, li quali, sì come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi o sì
di famigli rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare; per la qual cosa
era a ciascun licito quanto a grado gli era d'adoperare. Molti altri servavano,
tra questi due di sopra detti, una mezzana via, non strignendosi nelle vivande
quanto i primi né nel bere e nell'altre dissoluzioni allargandosi quanto i
secondi, ma a sofficienza secondo gli appetiti le cose usavano e senza
rinchiudersi andavano a torno, portando nelle mani chi fiori, chi erbe
odorifere e chi diverse maniere di spezierie, quelle al naso ponendosi spesso,
estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali odori confortare, con ciò
fosse cosa che l'aere tutto paresse dal puzzo de' morti corpi e delle infermità
e delle medicine compreso e puzzolente.
Alcuni erano di più
crudel sentimento, come che per avventura più fosse sicuro, dicendo niuna altra
medicina essere contro alle pestilenze migliore né così buona come il fuggir
loro davanti; e da questo argomento mossi, non curando d'alcuna cosa se non di
sé, assai e uomini e donne abbandonarono la propia città, le propie case, i lor
luoghi e i lor parenti e le lor cose, e cercarono l'altrui o almeno il lor
contado, quasi l'ira di Dio a punire le iniquità degli uomini con quella
pestilenza non dove fossero procedesse, ma solamente a coloro opprimere li
quali dentro alle mura della lor città si trovassero, commossa intendesse; o
quasi avvisando niuna persona in quella dover rimanere e la sua ultima ora
esser venuta. E come che questi così variamente oppinanti non morissero tutti,
non per ciò tutti campavano: anzi, infermandone di ciascuna molti e in ogni
luogo, avendo essi stessi, quando sani erano, essemplo dato a coloro che sani
rimanevano, quasi abbandonati per tutto languieno. E lasciamo stare che l'uno
cittadino l'altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell'altro cura e i
parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì
fatto spavento questa tribulazione entrata né petti degli uomini e delle donne,
che l'un fratello l'altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il
fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi
non credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di
visitare e di servire schifavano. Per la qual cosa a coloro, de' quali era la
moltitudine inestimabile, e maschi e femine, che infermavano, niuno altro
sussidio rimase che o la carità degli amici (e di questi fur pochi) o
l'avarizia de' serventi, li quali da grossi salari e sconvenevoli tratti
servieno, quantunque per tutto ciò molti non fossero divenuti: e quelli cotanti
erano uomini o femine di grosso ingegno, e i più di tali servigi non usati, li
qual niuna altra cosa servieno che di porgere alcune cose dagl'infermi
addomandate o di riguardare quando morieno; e, servendo in tal servigio, se
molte volte col guadagno perdeano.
E da questo essere
abbandonati gli infermi da' vicini, da' parenti e dagli amici e avere scarsità
di serventi, discorse uno uso quasi davanti mai non udito: che niuna,
quantunque leggiadra o bella o gentil donna fosse, infermando, non curava
d'avere a' suoi servigi uomo, egli si fosse o giovane o altro, e a lui senza alcuna
vergogna ogni parte del corpo aprire non altrimenti che a una femina avrebbe
fatto, solo che la necessità della sua infermità il richiedesse; il che, in
quelle che ne guerirono, fu forse di minore onestà, nel tempo che succedette,
cagione. E oltre a questo ne seguio la morte di molti che per avventura, se
stati fossero atati, campati sarieno; di che, tra per lo difetto degli
opportuni servigi, li quali gl'infermi aver non poteano, e per la forza della
pestilenza, era tanta nella città la moltitudine che di dì e di notte morieno,
che uno stupore era a udir dire, non che a riguardarlo. Per che, quasi di
necessità, cose contrarie a' primi costumi de' cittadini nacquero tra quali
rimanean vivi. Era usanza (sì come ancora oggi veggiamo usare) che le donne parenti
e vicine nella casa del morto si ragunavano e quivi con quelle che più gli
appartenevano piagnevano; e d'altra parte dinanzi alla casa del morto co' suoi
prossimi si ragunavano i suoi vicini e altri cittadini assai, e secondo la
qualità del morto vi veniva il chericato; ed egli sopra gli omeri de' suoi
pari, con funeral pompa di cera e di canti, alla chiesa da lui prima eletta
anzi la morte n'era portato. Le quali cose, poi che a montar cominciò la
ferocità della pestilenza tutto o in maggior parte quasi cessarono e altre
nuove in lor luogo ne sopravennero. Per ciò che, non solamente senza aver molte
donne da torno morivan le genti, ma assai n'erano di quelli che di questa vita
senza testimonio trapassavano; e pochissimi erano coloro a' quali i pietosi
pianti e l'amare lagrime de' suoi congiunti fossero concedute, anzi in luogo di
quelle s'usavano per li più risa e motti e festeggiar compagnevole; la quale
usanza le donne, in gran parte proposta la donnesca pietà per la salute di
loro, avevano ottimamente appresa. Ed erano radi coloro, i corpi de' quali
fosser più che da un diece o dodici de' suoi vicini alla chiesa acompagnati; li
quali non gli orrevoli e cari cittadini sopra gli omeri portavano, ma una
maniera di beccamorti sopravenuti di minuta gente, che chiamar si facevan
becchini, la quale questi servigi prezzolata faceva, sottentravano alla bara; e
quella con frettolosi passi, non a quella chiesa che esso aveva anzi la morte
disposto ma alla più vicina le più volte il portavano, dietro a quattro o a sei
cherici con poco lume e tal fiata senza alcuno; li quali con l'aiuto de' detti
becchini, senza faticarsi in troppo lungo uficio o solenne, in qualunque
sepoltura disoccupata trovavano più tosto il mettevano.
Della minuta gente, e
forse in gran parte della mezzana, era il ragguardamento di molto maggior
miseria pieno; per ciò che essi, il più o da speranza o da povertà ritenuti
nelle lor case, nelle lor vicinanze standosi, a migliaia per giorno
infermavano; e non essendo né serviti né atati d'alcuna cosa, quasi senza
alcuna redenzione, tutti morivano. E assai n'erano che nella strada pubblica o
di dì o di notte finivano, e molti, ancora che nelle case finissero, prima col
puzzo de lor corpi corrotti che altramenti facevano a' vicini sentire sé esser morti;
e di questi e degli altri che per tutto morivano, tutto pieno. Era il più da'
vicini una medesima maniera servata, mossi non meno da tema che la corruzione
de' morti non gli offendesse, che da carità la quale avessero a' trapassati.
Essi, e per sé medesimi e con l'aiuto d'alcuni portatori, quando aver ne
potevano, traevano dalle lor case li corpi de' già passati, e quegli davanti
alli loro usci ponevano, dove, la mattina spezialmente, n'avrebbe potuti veder
senza numero chi fosse attorno andato: e quindi fatte venir bare, (e tali
furono, che, per difetto di quelle, sopra alcuna tavole) ne portavano. Né fu
una bara sola quella che due o tre ne portò insiememente, né avvenne pure una
volta, ma se ne sarieno assai potute annoverare di quelle che la moglie e 'l
marito, di due o tre fratelli, o il padre e il figliuolo, o così fattamente ne
contenieno. E infinite volte avvenne che, andando due preti con una croce per
alcuno, si misero tre o quatro bare, dà portatori portate, di dietro a quella:
e, dove un morto credevano avere i preti a sepellire, n'avevano sei o otto e
tal fiata più. Né erano per ciò questi da alcuna lagrima o lume o compagnia
onorati; anzi era la cosa pervenuta a tanto, che non altramenti si curava degli
uomini che morivano, che ora si curerebbe di capre; per che assai
manifestamente apparve che quello che il naturale corso delle cose non avea
potuto con piccoli e radi danni a' savi mostrare doversi con pazienza passare,
la grandezza de' mali eziandio i semplici far di ciò scorti e non curanti.
Alla gran moltitudine
de' corpi mostrata, che a ogni chiesa ogni dì e quasi ogn'ora concorreva
portata, non bastando la terra sacra alle sepolture, e massimamente volendo
dare a ciascun luogo proprio secondo l'antico costume, si facevano per gli
cimiterii delle chiese, poi che ogni parte era piena, fosse grandissime nelle
quali a centinaia si mettevano i sopravegnenti: e in quelle stivati, come si
mettono le mercatantie nelle navi a suolo a suolo, con poca terra si ricoprieno
infino a tanto che la fossa al sommo si pervenia.
E acciò che dietro a
ogni particularità le nostre passate miserie per la città avvenute più
ricercando non vada, dico che, così inimico tempo correndo per quella, non per
ciò meno d' alcuna cosa risparmiò il circustante contado, nel quale, (lasciando
star le castella, che erano nella loro piccolezza alla città) per le sparte
ville e per li campi i lavoratori miseri e poveri e le loro famiglie, senza
alcuna fatica di medico o aiuto di servidore, per le vie e per li loro colti e
per le case, di dì e di notte indifferentemente, non come uomini ma quasi come
bestie morieno. Per la qual cosa essi, così nelli loro costumi come i cittadini
divenuti lascivi, di niuna lor cosa o faccenda curavano; anzi tutti, quasi quel
giorno nel quale si vedevano esser venuti la morte aspettassero, non d'aiutare
i futuri frutti delle bestie e delle terre e delle loro passate fatiche, ma di
consumare quegli che si trovavano presenti si sforzavano con ogni ingegno. Per
che adivenne i buoi, gli asini, le pecore, le capre, i porci, i polli e i cani
medesimi fedelissimi agli uomini, fuori delle proprie case cacciati, per li
campi (dove ancora le biade abbandonate erano, senza essere, non che raccolte
ma pur segate) come meglio piaceva loro se n'andavano. E molti, quasi come
razionali, poi che pasciuti erano bene il giorno, la notte alle lor case senza
alcuno correggimento di pastore si tornavano satolli.
Che più si può dire
(lasciando stare il contado e alla città ritornando) se non che tanta e tal fu
la crudeltà del cielo, e forse in parte quella degli uomini, che infra 'l marzo
e il prossimo luglio vegnente, tra per la forza della pestifera infermità e per
l'esser molti infermi mal serviti o abbandonati né lor bisogni per la paura
ch'aveono i sani, oltre a centomilia creature umane si crede per certo dentro
alle mura della città di Firenze essere stati di vita tolti, che forse, anzi
l'accidente mortifero, non si saria estimato tanti avervene dentro avuti? 0
quanti gran palagi, quante belle case, quanti nobili abituri per adietro di
famiglie pieni, di signori e di donne, infino al menomo fante rimaser voti! O
quante memorabili schiatte, quante ampissime eredità, quante famose ricchezze
si videro senza successor debito rimanere! Quanti valorosi uomini, quante belle
donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galieno, Ipocrate o
Esculapio avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono co' lor parenti,
compagni e amici, che poi la sera vegnente appresso nell'altro mondo cenaron
con li lor passati!
A me medesimo incresce
andarmi tanto tra tante miserie ravolgendol: per che, volendo omai lasciare
star quella parte di quelle che io acconciamente posso schifare, dico che,
stando in questi termini la nostra città, d'abitatori quasi vota, addivenne, sì
come io poi da persona degna di fede sentii, che nella venerabile chiesa di
Santa Maria Novella, un martedì mattina, non essendovi quasi alcuna altra
persona, uditi li divini ufici in abito lugubre quale a sì fatta stagione si
richiedea, si ritrovaro no sette giovani donne tutte l'una all'altra o per
amistà o per vicinanza o per parentado congiunte, delle quali niuna il venti e
ottesimo anno passato avea né era minor di diciotto, savia ciascuna e di sangue
nobile e bella di forma e ornata di costumi e di leggiadra onestà. Li nomi
delle quali io in propria forma racconterei, se giusta cagione da dirlo non mi
togliesse, la quale è questa: che io non voglio che per le raccontate cose da
loro, che seguono, e per l'ascoltare nel tempo avvenire alcuna di loro possa prender
vergogna, essendo oggi alquanto ristrette le leggi al piacere che allora, per
le cagioni di sopra mostrate, erano non che alla loro età ma a troppo più
matura larghissime; né ancora dar materia agl'invidiosi, presti a mordere ogni
laudevole vita, di diminuire in niuno atto l'onestà delle valorose donne con
isconci parlari. E però, acciò che quello che ciascuna dicesse senza confusione
si possa comprendere appresso, per nomi alle qualità di ciascuna convenienti o
in tutto o in parte intendo di nominarle: delle quali la prima, e quella che di
più età era, Pampinea chiameremo e al seconda Fiammetta, Filomena la terza e la
quarta Emilia, e appresso Lauretta diremo alla quinta e alla sesta Neifile, e
l'ultima Elissa non senza cagion nomeremo.
Le quali, non già da
alcuno proponimento tirate ma per caso in una delle parti della chiesa
adunatesi, quasi in cerchio a seder postesi, dopo più sospiri lasciato stare il
dir de' paternostri, seco delle qualità del tempo molte e varie cose
cominciarono a ragionare.
E dopo alcuno spazio,
tacendo l'altre, così Pampinea cominciò a parlare: – Donne mie care, voi
potete, così come io, molte volte avere udito che a niuna persona fa ingiuria
chi onestamente usa la sua ragione. Natural ragione è, di ciascuno che ci
nasce, la sua vita quanto può aiutare e conservare e difendere: e concedesi
questo tanto, che alcuna volta è già addivenuto che, per guardar quella, senza
colpa alcuna si sono uccisi degli uomini. E se questo concedono le leggi, nelle
sollecitudini delle quali è il ben vivere d'ogni mortale, quanto maggiormente,
senza offesa d'alcuno, è a noi e a qualunque altro onesto alla conservazione
della nostra vita prendere quegli rimedii che noi possiamo? Ognora che io vengo
ben raguardando alli nostri modi di questa mattina e ancora di più a quegli di
più altre passate e pensando chenti e quali li nostri ragionamenti sieno, io
comprendo, e voi similemente il potete prendere, ciascuna di noi di se medesima
dubitare: né di ciò mi maraviglio niente, ma maravigliomi forte, avvedendomi
ciascuna di noi aver sentimento di donna, non prendersi per voi a quello di che
ciascuna di voi meritamente teme alcun compenso. Noi dimoriamo qui, al parer
mio, non altramente che se essere volessimo o dovessimo testimonie di quanti
corpi morti ci sieno alla sepoltura recati o d'ascoltare se i frati di qua
entro, de' quali il numero è quasi venuto al niente, alle debite ore cantino i
loro ufici, o a dimostrare a qualunque ci apparisce, né nostri abiti, la
qualità e la quantità delle nostre miserie. E, se di quinci usciamo, o veggiamo
corpi morti o infermi trasportarsi dattorno, o veggiamo coloro li quali per li
loro difetti l'autorità delle publiche leggi già condannò ad essilio, quasi
quelle schernendo, per ciò che sentono gli essecutori di quelle o morti o
malati, con dispiacevoli impeti per la terra discorrere, o la feccia della
nostra città, del nostro sangue riscaldata, chiamarsi becchini e in strazio di
noi andar cavalcando e discorrendo per tutto, con disoneste canzoni
rimproverandoci i nostri danni. Né altra cosa alcuna ci udiamo, se non: – I
cotali son morti –, e – Gli altrettali sono per morire –; e, se ci fosse chi
fargli, per tutto dolorosi pianti udiremmo.
E, se alle nostre case
torniamo, non so se a voi così come a me adiviene: io, di molta famiglia, niuna
altra persona in quella se non la mia fante trovando, impaurisco e quasi tutti
i capelli addosso mi sento arricciare; e parmi, dovunque io vado o dimoro per
quella, l'ombre di coloro che sono trapassati vedere, e non con quegli visi che
io soleva, ma con una vista orribile, non so donde il loro nuovamente venuta,
spaventarmi.
Per le quali cose, e qui
e fuori di qui e in casa mi sembra star male; e tanto più ancora quanto egli mi
pare che niuna persona, la quale abbia alcun polso e dove possa andare, come
noi abbiamo, ci sia rimasa altri che noi. E ho sentito e veduto più volte, (se
pure alcuni ce ne sono) quegli cotali, senza fare distinzione alcuna dalle cose
oneste a quelle che oneste non sono, solo che l'appetito le cheggia, e soli e accompagnati,
e di dì e di notte, quelle fare che più di diletto lor porgono. E non che le
solite persone, ma ancora le racchiuse ne' monisteri, faccendosi a credere che
quello a lor si convenga e non si disdica che all'altre, rotte della obedienza
le leggi, datesi a' diletti carnali, in tal guisa avvisando scampare, son
divenute lascive e dissolute.
E se così è (che essere
manifestamente si vede) che faccian noi qui? che attendiamo? che sognamo?
perché più pigre e lente alla nostra salute, che tutto il rimanente de'
cittadini, siamo? reputianci noi men care che tutte l'altre? o crediam la
nostra vita con più forti catene esser legata al nostro corpo che quella degli
altri sia, e così di niuna cosa curar dobbiamo, la quale abbia forza
d'offenderla? Noi erriamo, noi siamo ingannate; che bestialità è la nostra se
così crediamo; quante volte noi ci vorrem ricordare chenti e quali sieno stati
i giovani e le donne vinte da questa crudel pestilenza, noi ne vedremo
apertissimo argomento.
E perciò, acciò che noi
per ischifaltà o per traccuttaggine non cadessimo in quello, di che noi per
avventura per alcuna maniera, volendo, potremmo scampare (non so se a voi
quello se ne parrà che a me ne parrebbe), io giudicherei ottimamente fatto che
noi, sì come noi siamo, sì come molti innanzi a noi hanno fatto e fanno, di
questa terra uscissimo; e, fuggendo come la morte i disonesti essempli degli
altri, onestamente a' nostri luoghi in contado, de' quali a ciascuna di noi è
gran copia, ce ne andassimo a stare; e quivi quella festa, quella allegrezza,
quello piacere che noi potessimo, senza trapassare in alcuno atto il segno
della ragione, prendessimo. Quivi s'odono gli uccelletti cantare, veggionvisi
verdeggiare i colli e le pianure, e i campi pieni di biade non altramenti ondeggiare
che il mare, e d'alberi ben mille maniere, e il cielo più apertamente, il
quale, ancora che crucciato ne sia, non per ciò le sue bellezze eterne ne nega,
le quali molto più belle sono a riguardare che le mura vote della nostra città.
Ed evvi oltre a questo l'aere assai più fresco, e di quelle cose che alla vita
bisognano in questi tempi v'è la copia maggiore, e minore il numero delle noie.
Per ciò che, quantunque quivi così muoiano i lavoratori come qui fanno i
cittadini, v'è tanto minore il dispiacere quanto vi sono, più che nella città,
rade le case e gli abitanti. E qui d'altra parte, se io ben veggio, noi non
abbandoniam persona, anzi ne possiamo con verità dire molto più tosto
abbandonate; per ciò che i nostri, o morendo o da morte fuggendo, quasi non
fossimo loro, sole in tanta afflizione n'hanno lasciate.
Niuna riprensione
adunque può cadere in cotal consiglio seguire; dolore e noia e forse morte, non
seguendolo, potrebbe avvenire. E per ciò, quando vi paia, prendendo le nostre
fanti e con le cose oportune faccendoci seguitare, oggi in questo luogo e
domane in quello quella alle grezza e festa prendendo che questo tempo può
porgere, credo che sia ben fatto a dover fare; e tanto dimorare in tal guisa,
che noi veggiamo (se prima da morte non siam sopragiunte) che fine il cielo
riserbi a queste cose. E ricordivi che egli non si disdice più a noi l'onesta
mente andare, che faccia a gran parte dell'altre lo star disonestamente.
L'altre donne, udita
Pampinea, non solamente il suo consiglio lodarono, ma disiderose di seguitarlo
avevan già più particularmente tra sé cominciato a trattar del modo, quasi,
quindi levandosi da sedere, a mano a mano dovessero entrare in cammino. Ma
Filomena, la quale discretissima era, disse: – Donne, quantunque ciò che ragiona
Pampinea sia ottimamente detto, non è per ciò così da correre a farlo, come
mostra che voi vogliate fare. Ricordivi che noi siamo tutte femine, e non ce
n'ha niuna sì fanciulla, che non possa ben conoscere come le femine sien
ragionate insieme e senza la provedenza d'alcuno uomo si sappiano regolare. Noi
siamo mobili, riottose, sospettose, pusillanime e paurose; per le quali cose io
dubito forte, se noi alcuna altra guida non prendiamo che la nostra, che questa
compagnia non si dissolva troppo più tosto, e con meno onor di noi, che non ci
bisognerebbe; e per ciò è buono a provederci avanti che cominciamo.
Disse allora Elissa:
– Veramente gli uomini
sono delle femine capo e senza l'ordine loro rare volte riesce alcuna nostra
opera a laudevole fine; ma come possiam noi aver questi uomini? Ciascuna di noi
sa che de' suoi son la maggior parte morti, e gli altri che vivi rimasi sono,
chi qua e chi là in diverse brigate, senza saper noi dove, vanno fuggendo
quello che noi cerchiamo di fuggire; e il prender gli strani non saria
convenevole; per che, se alla nostra salute, vogliamo andar dietro, trovare si
convien modo di sì fattamente ordinarci che, dove per diletto e per riposo
andiamo, noia e scandalo non ne segua.
Mentre tralle donne
erano così fatti ragionamenti, e ecco entrar nella chiesa tre giovani non per
ciò tanto che meno di venticinque anni fosse l'età di colui che più giovane era
di loro; ne quali né perversità di tempo né perdita d'amici o di parenti né
paura di se medesimi avea potuto amor, non che spegnere, ma raffreddare. De'
quali, l'uno era chiamato Panfilo, e Filostrato il secondo, e l'ultimo Dioneo,
assai piacevole e costumato ciascuno; e andavano cercando per loro somma
consolazione, in tanta turbazione di cose, di vedere le loro donne, le quali
per ventura tutte e tre erano tra le predette sette, come che dell'altre alcune
ne fossero congiunte parenti d'alcuni di loro. Né prima esse agli occhi corsero
di costoro, che costoro furono da esse veduti; per che Pampinea allor cominciò
sorridendo:
– Ecco che la fortuna a'
nostri cominciamenti è favorevole, e hacci davanti posti discreti giovani e
valorosi, li quali volentieri e guida e servidor ne saranno, se di prendergli a
questo uficio non schiferemo. Neifile allora, tutta nel viso divenuta per vergogna
vermiglia, per ciò che l'una era di quelle che dall'un de giovani era amata,
disse:
– Pampinea, per Dio,
guarda ciò che tu dichi; io conosco assai apertamente niuna altra cosa che
tutta buona dir potersi di qualunque s'è l'uno di costoro, e credogli a troppo
maggior cosa che questa non è sofficienti; e similmente avviso loro buona
compagnia e onesta dover tenere non che a noi, ma a molto più belle e più care
che noi non siamo. Ma, per ciò che assai manifesta cosa è loro essere d'alcune
che qui ne sono innamorati, temo che infamia e riprensione, senza nostra colpa
o di loro, non ce ne segua se gli meniamo.
Disse allora Filomena:
– Questo non monta
niente: là dove io onestamente viva né mi rimorda d'alcuna cosa la coscienza,
parli chi vuole in contrario; Iddio e la verità l'arme per me prenderanno. Ora,
fossero essi pur già disposti a venire, ché veramente, come Pampinea disse,
potremmo dire la fortuna essere alla nostra andata favoreggiante.
L'altre, udendo costei
così fattamente parlare, non solamente si tacquero ma con consentimento
concorde tutte dissero che essi fosser chiamati e loro si dicesse la loro
intenzione e pregassersi che dovesse loro piacere in così fatta andata lor
tener compagnia. Per che senza più parole Pampinea, levatasi in piè, la quale a
alcun di loro per consanguinità era congiunta, verso loro, che fermi stavano a
riguardarle, si fece e, con lieto viso salutatigli, loro la lor disposizione
fe' manifesta, e pregogli per parte di tutte che con puro e fratellevole animo
a tener loro compagnia si dovessero disporre. I giovani si credettero
primieramente essere beffati; ma, poi che videro che da dovero parlava la
donna, rispuosero lietamente sé essere apparecchiati; e senza dare alcuno
indugio all'opera, anzi che quindi si partissono, diedono ordine a ciò che a
fare avessono in sul partire. E ordinatamente fatta ogni cosa opportuna
apparecchiare, e prima mandato là dove intendevan d'andare, la seguente
mattina, cioè il mercoledì, in su lo schiarir del giorno, le donne con alquante
delle lor fanti e i tre giovani con tre lor famigliari, usciti della città, si
misero in via; né oltre a due piccole miglia si dilungarono da essa, che essi
pervennero al luogo da loro primieramente ordinato. Era il detto luogo sopra
una piccola montagnetta, da ogni parte lontano alquanto alle nostre strade, di
varii albuscelli e piante tutte di verdi fronde ripiene piacevoli a riguardare;
in sul colmo della quale era un palagio con bello e gran cortile nel mezzo, e
con logge e con sale e con camere, tutte ciascuna verso di sé bellissima e di
liete dipinture raguardevole e ornata, con pratelli da torno e con giardini
maravigliosi e con pozzi d'acque freschissime e con volte piene di preziosi
vini: cose più atte a curiosi bevitori che a sobrie e oneste donne. Il quale
tutto spazzato, e nelle camere i letti fatti, e ogni cosa di fiori, quali nella
stagione si potevano avere, piena e di giunchi giuncata, la vegnente brigata
trovò con suo non poco piacere.
E postisi nella prirna
giunta a sedere, disse Dioneo, il quale oltre a ogni altro era piacevole
giovane e pieno di motti: – Donne, il vostro senno, più che il nostro
avvedimento ci ha qui guidati. Io non so quello che de' vostri pensieri voi
v'intendete di fare; li miei lasciai io dentro dalla porta della città allora
che io con voi poco fa me ne uscì fuori; e per ciò, o voi a sollazzare e a
ridere e a cantare con meco insieme vi disponete (tanto, dico, quanto alla
vostra dignità s'appartiene), o voi mi licenziate che io per li miei pensieri
mi ritorni e steami nella città tribolata. A cui Pampinea, non d'altra maniera
che se similmente tutti i suoi avesse da sé cacciati, lieta rispose:
– Dioneo, ottimamente
parli: festevolmente viver si vuole, né altra cagione dalle tristizie ci ha fatto
fuggire. Ma, per ciò che le cose che sono senza modo non possono lungamente
durare, io, che cominciatrice fui de' ragionamenti da' quali questa così bella
compagnia è stata fatta pensando al continuare della nostra letizia, estimo che
di necessità sia convenire esser tra noi alcuno principale, il quale noi e
onoriamo e ubbidiamo come maggiore, nel quale ogni pensiero stea di doverci a
lietamente viver disporre. E acciò che ciascun pruovi il peso della
sollecitudine insieme col piacere della maggioranza, e per conseguente, d'una
parte e d'altra tratto, non possa, chi nol pruova, invidia avere alcuna, dico
che a ciascun per un giorno s'attribuisca e 'l peso e l'onore; e chi il primo
di noi esser debba nella elezion di noi tutti sia; di quelli che seguiranno,
come l'ora del vespro s'avvicinerà, quegli o quella che a colui o a colei
piacerà, che quel giorno avrà avuta la signoria; e questo cotale, secondo il
suo arbitrio, del tempo che la sua signoria dee bastare, del luogo e del modo
nel quale a vivere abbiamo ordini e disponga.
Queste parole sommamente
piacquero e ad una voce lei per reina del primo giorno elessero; e Filomena,
corsa prestamente ad uno alloro, per ciò che assai volte aveva udito ragionare
di quanto onore le frondi di quello eran degne e quanto degno d'onore facevano
chi n'era meritamente incoronato, di quello alcuni rami colti, ne le fece una
ghirlanda onorevole e apparente, la quale messale sopra la testa, fu poi mentre
durò la lor compagnia manifesto segno a ciascuno altro della real signoria e
maggioranza.
Pampinea, fatta reina,
comandò che ogni uom tacesse, avendo già fatti i famigliari de' tre giovani e
le loro fanti, che eran quattro, davanti chiamarsi, e tacendo ciascun, disse:
– Acciò che io prima
essemplo dea a tutte voi, per lo quale, di bene in meglio procedendo, la nostra
compagnia con ordine e con piacere e senza alcuna vergogna viva e duri quanto a
grado ne fia, io primieramente costituisco Parmeno, famigliar di Dioneo, mio
siniscalco, e a lui la cura e la sollecitudine di tutta la nostra famiglia
commetto e ciò che al servigio della sala appartiene. Sirisco, famigliar di
Panfilo, voglio che di noi sia spenditore e tesoriere e di Parmeno seguiti i
comandamenti. Tindaro al servigio di Filostrato e degli altri due attenda nelle
camere loro, qualora gli altri, intorno a' loro ufici impediti, attendere non
vi potessero. Misia mia fante, e Licisca, di Filomena, nella cucina saranno
continue e quelle vivande diligentemente apparecchieranno che per Parmeno loro
saranno imposte. Chimera, di Lauretta, e Stratilia, di Fiammetta, al governo
delle camere delle donne intente vogliamo che stieno e alla nettezza de' luoghi
dove staremo; e ciascuno generalmente, per quanto egli avrà cara la nostra
grazia, vogliamo e comandiamo che si guardi, dove che egli vada, onde che egli
torni, che egli oda o vegga, niuna novella, altro che lieta, ci rechi di fuori.
E questi ordini
sommariamente dati, li quali da tutti commendati furono, lieta drizzata in piè
disse:
– Qui sono giardini, qui
sono pratelli, qui altri luoghi dilettevoli assai, per li quali ciascuno a suo
piacer sollazzando si vada, e come terza suona, ciascun qui sia, acciò che per
lo fresco si mangi.
Licenziata adunque dalla
nuova reina la lieta brigata, li giovani insieme colle belle donne, ragionando
dilettevoli cose, con lento passo si misono per uno giardino, belle ghirlande
di varie frondi faccendosi e amorosamente cantando.
E poi che in quello
tanto fur dimorati quanto di spazio dalla reina avuto aveano, a casa tornati,
trovarono Parmeno studiosamente aver dato principio al suo uficio, per ciò che,
entrati in sala terrena, quivi le tavole messe videro con tovaglie bianchissime
e con bicchieri che d'ariento parevano, e ogni cosa di fiori di ginestra
coperta; per che, data l'acqua alle mani, come piacque alla reina, secondo il
giudicio di Parmeno tutti andarono a sedere.
Le vivande dilicatamente
fatte vennero e finissimi vini fur presti; e senza più chetamente li tre
famigliari servirono le tavole. Dalle quali cose, per ciò che belle e ordinate
erano rallegrato ciascuno, con piacevoli motti e con festa mangiarono. E levate
le tavole (con ciò fosse cosa che tutte le donne carolar sapessero e similmente
i giovani e parte di loro ottima mente e sonare e cantare), comandò la reina
che gli strumenti venissero; e per comandamento di lei Dioneo preso un liuto e
la Fiammetta una viuola, cominciarono soavemente una danza a sonare. Per che la
reina coll'altre donne, insieme co' due giovani presa una carola, con lento
passo, mandati i famigliari a mangiare, a carolar cominciarono; e quella
finita, canzoni vaghette e liete cominciarono a cantare. E in questa maniera
stettero tanto che tempo parve alla reina d'andare a dormire: per che, data a
tutti la licenzia, li tre giovani alle lor camere, da quelle delle donne
separate, se n'andarono, le quali co' letti ben fatti e così di fiori piene
come la sala trovarono, e simigliantemente le donne le loro; per che,
spogliatesi, s'andarono a riposare.
Non era di molto spazio
sonata nona, che la reina, le vatasi, tutte l'altre fece levare, e similmente i
giovani, affermando esser nocivo il troppo dormire di giorno; e così se
n'andarono in uno pratello, nel quale l'erba era verde e grande né vi poteva
d'alcuna parte il sole; e quivi sentendo un soave venticello venire, sì come
volle la lor reina, tutti sopra la verde erba si puosero in cerchio a sedere,
a' quali ella disse così:
– Come voi vedete, il
sole è alto e il caldo è grande, né altro s'ode che le cicale su per gli ulivi;
per che l'andare al presente in alcun luogo sarebbe senza dubbio sciocchezza.
Qui è bello e fresco stare, e hacci, come voi vedete, e tavolieri e scacchieri,
e puote ciascuno, secondo che all'animo gli è più di piacere, diletto pigliare.
Ma se in questo il mio parer si seguisse, non giucando, nel quale l'animo
dell'una delle parti convien che si turbi senza troppo piacere dell'altra o di
chi sta a vedere, ma novellando (il che può porgere, dicendo uno, a tutta la
compagnia che ascolta diletto) questa calda parte del giorno trapasseremo. Voi
non avrete compiuta ciascuno di dire una sua novelletta, che il sole fia
declinato e il caldo mancato, e potremo dove più a grado vi fia andare
prendendo diletto; e per ciò, quando questo che io dico vi piaccia (ché
disposta sono in ciò di seguire il piacer vostro), faccianlo; e dove non vi
piacesse, ciascuno infino all'ora del vespro quello faccia che più gli piace.
Le donne parimente e gli uomini tutti lodarono il novellare. – Adunque, disse
la reina, se questo vi piace, per questa Giornata prima voglio che libero sia a
ciascuno di quella materia ragionare che più gli sarà a grado. E rivolta a
Panfilo, il quale alla sua destra sedea, piacevolmente gli disse che con una
delle sue novelle all'altre desse principio. Laonde Panfilo, udito il
comandamento, prestamente, essendo da tutti ascoltato, cominciò così.
NOVELLA PRIMA
Ser Cepperello con una
falsa confessione inganna uno santo frate, e muorsi; ed essendo stato un
pessimo uomo in vita, è morto reputato per santo e chiamato san Ciappelletto.
Convenevole cosa è,
carissime donne, che ciascheduna cosa la quale l'uomo fa, dallo ammirabile e
santo nome di Colui il quale di tutte fu facitore le dea principio. Per che,
dovendo io al nostro novellare, sì come primo, dare cominciamento, intendo da
una delle sue maravigliose cose incominciare, acciò che, quella udita, la
nostra speranza in lui, sì come in cosa impermutabile, si fermi e sempre sia da
noi il suo nome lodato. Manifesta cosa è che, sì come le cose temporali tutte
sono transitorie e mortali, così in sé e fuor di sé essere piene di noia e
d'angoscia e di fatica e ad infiniti pericoli soggiacere; alle quali senza
niuno fallo né potremmo noi, che viviamo mescolati in esse e che siamo parte
d'esse, durare né ripararci, se spezial grazia di Dio forza e avvedimento non
ci prestasse. La quale a noi e in noi non è da credere che per alcuno nostro
merito discenda, ma dalla sua propia benignità mossa e da prieghi di coloro
impetrata che, sì come noi siamo, furon mortali, e bene i suoi piaceri mentre
furono in vita seguendo, ora con lui etterni sono divenuti e beati; alli quali
noi medesimi, sì come a procuratori informati per esperienza della nostra
fragilità, forse non audaci di porgere i prieghi nostri nel cospetto di tanto
giudice, delle cose le quali a noi reputiamo opportune gli porgiamo. E ancora
più in questo lui verso noi di pietosa liberalità pieno discerniamo, che, non
potendo l'acume dell'occhio mortale nel segreto della divina mente trapassare
in alcun modo, avvien forse tal volta che, da oppinione ingannati, tale dinanzi
alla sua maestà facciamo procuratore, che da quella con etterno essilio è
scacciato; e nondimeno esso, al quale niuna cosa è occulta, più alla purità del
pregator riguardando che alla sua ignoranza o allo essilio del pregato, così
come se quegli fosse nel suo conspetto beato, esaudisce coloro che 'l priegano.
Il che manifestamente potrà apparire nella novellala quale di raccontare
intendo; manifestamente dico, non il giudicio di Dio, ma quel degli uomini
seguitando. Ragionasi adunque che essendo Musciatto Franzesi di ricchissimo e
gran mercatante in Francia cavalier divenuto e dovendone in Toscana venire con
messer Carlo Senzaterra, fratello del re di Francia, da papa Bonifazio
addomandato e al venir promosso, sentendo egli gli fatti suoi, sì come le più
volte son quegli de' mercatanti, molto intralciati in qua e in là e non potersi
di leggiere né subitamente stralciare, pensò quegli commettere a più persone; e
a tutti trovò modo; fuor solamente in dubbio gli rimase cui lasciar potesse
sofficiente a riscuoter suoi crediti fatti a più borgognoni.
E la cagion del dubbio
era il sentire li borgognoni uomini riottosi e di mala condizione e misleali; e
a lui non andava per la memoria chi tanto malvagio uom fosse, in cui egli
potesse alcuna fidanza avere che opporre alla loro malvagità si potesse.
E sopra questa
essaminazione pensando lungamente stato, gli venne a memoria un ser Cepperello
da Prato, il qual molto alla sua casa in Parigi si riparava. Il quale, per ciò
che piccolo di persona era e molto assettatuzzo, non sappiendo li franceschi
che si volesse dire Cepperello, credendo che cappello, cioè ghirlanda, secondo
il loro volgare, a dir venisse, per ciò che piccolo era come dicemmo, non
Ciappello, ma Ciappelletto il chiamavano; e per Ciappelletto era conosciuto per
tutto, là dove pochi per ser Cepperello il conoscieno.
Era questo Ciappelletto
di questa vita: egli, essendo notaio, avea grandissima vergogna quando uno de'
suoi strumenti (come che pochi ne facesse) fosse altro che falso trovato; de'
quali tanti avrebbe fatti di quanti fosse stato richiesto, e quelli più
volentieri in dono che alcun altro grandemente salariato. Testimonianze false
con sommo diletto diceva, richiesto e non richiesto; e dandosi a que' tempi in
Francia a' saramenti grandissima fede, non curandosi fargli falsi, tante
quistioni malvagiamente vincea a quante a giurare di dire il vero sopra la sua
fede era chiamato. Aveva oltre modo piacere, e forte vi studiava, in commettere
tra amici e parenti e qualunque altra persona mali e inimicizie e scandali, de'
quali quanto maggiori mali vedeva seguire tanto più d'allegrezza prendea.
Invitato ad un omicidio o a qualunque altra rea cosa, senza negarlo mai,
volenterosamente v'andava; e più volte a fedire e ad uccidere uomini colle
propie mani si trovò volentieri. Bestemmiatore di Dio e de' santi era
grandissimo; e per ogni piccola cosa, sì come colui che più che alcun altro era
iracundo. A chiesa non usava giammai; e i sacramenti di quella tutti, come vil
cosa, con abominevoli parole scherniva; e così in contrario le taverne e gli
altri disonesti luoghi visitava volentieri e usavagli.
Delle femine era così
vago come sono i cani de' bastoni; del contrario più che alcun altro tristo
uomo si dilettava. Imbolato avrebbe e rubato con quella conscienzia che un
santo uomo offerrebbe. Gulosissimo e bevitore grande, tanto che alcuna volta
sconciamente gli facea noia. Giuocatore e mettitor di malvagi dadi era solenne.
Perché mi distendo io in tante parole? Egli era il piggiore uomo forse che mai
nascesse. La cui malizia lungo tempo sostenne la potenzia e lo stato di messer
Musciatto, per cui molte volte e dalle private persone, alle quali assai
sovente faceva ingiuria, e dalla corte, a cui tuttavia la facea, fu riguardato.
Venuto adunque questo
ser Cepperello nell'animo a messer Musciatto, il quale ottimamente la sua vita
cono sceva, si pensò il detto messer Musciatto costui dovere essere tale quale
la malvagità de' borgognoni il richiedea; e perciò, fattolsi chiamare, gli
disse così:
– Ser Ciappelletto, come
tu sai, io sono per ritrarmi del tutto di qui, e avendo tra gli altri a fare
co' borgognoni, uomini pieni d'inganni, non so cui io mi possa lasciare a
riscuotere il mio da loro più convenevole di te; e perciò, con ciò sia cosa che
tu niente facci al presente, ove a questo vogli intendere, io intendo di farti
avere il favore della corte e di donarti quella parte di ciò che tu riscoterai
che convenevole sia.
Ser Ciappelletto, che
scioperato si vedea e male agitato delle cose del mondo e lui ne vedeva andare
che suo sostegno e ritegno era lungamente stato, senza niuno indugio e quasi da
necessità costretto si diliberò, e disse che volea volentieri.
Per che, convenutisi
insieme, ricevuta ser Ciappelletto la procura e le lettere favorevoli del re,
partitosi messer Musciatto, n'andò in Borgogna dove quasi niuno il conoscea; e
quivi, fuor di sua natura, benignamente e mansuetamente cominciò a voler
riscuotere e fare quello per che andato v'era, quasi si riserbasse l'adirarsi
al da sezzo.
E così faccendo,
riparandosi in casa di due fratelli fiorentini, li quali quivi ad usura
prestavano e lui per amor di messer Musciatto onoravano molto, avvenne che egli
infermò; al quale i due fratelli fecero prestamente venire medici e fanti che
il servissero e ogni cosa opportuna alla sua santà racquistare.
Ma ogni aiuto era nullo,
per ciò che 'l buono uomo, il quale già era vecchio e disordinatamente vivuto,
secondo che i medici dicevano, andava di giorno in giorno di male in peggio,
come colui ch'aveva il male della morte; di che li due fratelli si dolevan
forte.
E un giorno, assai
vicini della camera nella quale ser Ciappelletto giaceva infermo, seco medesimi
cominciarono a ragionare:
– Che farem noi – diceva
l'uno all'altro – di costui? Noi abbiamo dei fatti suoi pessimo partito alle
mani, per ciò che il mandarlo fuori di casa nostra così infermo ne sarebbe gran
biasimo e segno manifesto di poco senno, veggendo la gente che noi l'avessimo
ricevuto prima, e poi fatto servire e medicare così sollecitamente, e ora,
senza potere egli aver fatta cosa alcuna che dispiacere ci debba, così
subitamente di casa nostra e infermo a morte vederlo mandar fuori. D'altra
parte, egli è stato sì malvagio uomo che egli non si vorrà confessare né
prendere alcuno sacramento della Chiesa; e, morendo senza confessione, niuna
chiesa vorrà il suo corpo ricevere, anzi sarà gittato a' fossi a guisa d'un
cane. E, se egli si pur confessa, i peccati suoi son tanti e sì orribili che il
simigliante n'avverrà, per ciò che frate né prete ci sarà che 'l voglia né
possa assolvere; per che, non assoluto, anche sarà gittato a' fossi. E se
questo avviene, il popolo di questa terra, il quale sì per lo mestier nostro,
il quale loro pare iniquissimo e tutto 'l giorno ne dicon male, e sì per la
volontà che hanno di rubarci, veggendo ciò, si leverà a romore e griderrà: –
Questi lombardi cani, li quali a chiesa non sono voluti ricevere, non ci si
vogliono più sostenere –; e correrannoci alle case e per avventura non
solamente l'avere ci ruberanno, ma forse ci torranno oltre a ciò le persone; di
che noi in ogni guisa stiam male, se costui muore.
Ser Ciappelletto, il
quale, come dicemmo, presso giacea là dove costoro così ragionavano, avendo
l'udire sottile, sì come le più volte veggiamo avere gl'infermi, udì ciò che
costoro di lui dicevano; li quali egli si fece chiamare, e disse loro:
– Io non voglio che voi
di niuna cosa di me dubitiate né abbiate paura di ricevere per me alcun danno.
Io ho inteso ciò che di me ragionato avete e son certissimo che così
n'avverrebbe come voi dite, dove così andasse la bisogna come avvisate; ma ella
andrà altramenti. Io ho, vivendo, tante ingiurie fatte a Domenedio che, per
farnegli io una ora in su la mia morte, né più né meno ne farà. E per ciò
procacciate di farmi venire un santo e valente frate, il più che aver potete,
se alcun ce n'è, e lasciate fare a me, ché fermamente io acconcerò i fatti
vostri e i miei in maniera che starà bene e che dovrete esser contenti. I due
fratelli, come che molta speranza non prendessono di questo, nondimeno se
n'andarono ad una religione di frati e domandarono alcuno santo e savio uomo
che udisse la confessione d'un lombardo che in casa loro era infermo; e fu lor
dato un frate antico di santa e di buona vita e gran maestro in Iscrittura e
molto venerabile uomo, nel quale tutti i cittadini grandissima e spezial
divozione aveano, e lui menarono.
Il quale, giunto nella
camera dove ser Ciappelletto giacea e allato postoglisi a sedere, prima
benignamente il cominciò a confortare, e appresso il domandò quanto tempo era
che egli altra volta confessato si fosse. Al quale ser Ciappelletto, che mai
confessato non s'era, rispose:
– Padre mio, la mia
usanza suole essere di confessarmi ogni settimana almeno una volta, senza che
assai sono di quelle che io mi confesso più; è il vero che poi ch'io infermai,
che son presso a otto dì, io non mi confessai, tanta è stata la noia che la
infermità m'ha data.
Disse allora il frate:
– Figliuol mio, bene hai
fatto, e così si vuol fare per innanzi; e veggio che, poi sì spesso ti
confessi, poca fatica avrò d'udire o di domandare.
Disse ser Ciappelletto:
– Messer lo frate, non
dite così; io non mi confessai mai tante volte né sì spesso, che io sempre non
mi volessi confessare generalmente di tutti i miei peccati che io mi ricordassi
dal dì ch'i' nacqui infino a quello che confessato mi sono; e per ciò vi
priego, padre mio buono, che così puntualmente d'ogni cosa mi domandiate come
se mai confessato non mi fossi. E non mi riguardate perch'io infermo sia, ché
io amo molto meglio di dispiacere a queste mie carni che, faccendo agio loro,
io facessi cosa che potesse essere perdizione della anima mia, la quale il mio
Salvatore ricomperò col suo prezioso sangue. Queste parole piacquero molto al
santo uomo e parvongli argomento di bene disposta mente; e poi che a ser
Ciappelletto ebbe molto commendato questa sua usanza, il cominciò a domandare
se egli mai in lussuria con alcuna femina peccato avesse. Al qual ser
Ciappelletto sospirando rispose:
– Padre mio, di questa
parte mi vergogno io di dirvene il vero, temendo di non peccare in vanagloria.
Al quale il santo frate
disse:
– Dì sicuramente, ché il
ver dicendo né in confessione né in altro atto si pecco' giammai.
Disse allora ser Ciappelletto:
– Poiché voi di questo
mi fate sicuro, e io il vi dirò: io son così vergine come io uscì del corpo
della mamma mia.
– Oh benedetto sia tu da
Dio! – disse il frate – come bene hai fatto! e, faccendolo, hai tanto più
meritato, quanto, volendo, avevi più d'arbitrio di fare il contrario che non
abbiam noi e qualunque altri son quegli che sotto alcuna regola sono costretti.
E appresso questo il
domandò se nel peccato della gola aveva a Dio dispiaciuto; al quale, sospirando
forte, ser Ciappelletto rispose del sì, e molte volte; perciò che con ciò fosse
cosa che egli, oltre a' digiuni delle quaresime che nell'anno si fanno dalle
divote persone, ogni settimana almeno tre dì fosse uso di digiunare in pane e
in acqua, con quello diletto e con quello appetito l'acqua bevuta avea, e
spezialmente quando avesse alcuna fatica durata o adorando o andando in
pellegrinaggio, che fanno i gran bevitori il vino; e molte volte aveva
disiderato d'avere cotali insalatuzze d'erbucce, come le donne fanno quando
vanno in villa; e alcuna volta gli era paruto migliore il mangiare che non
pareva a lui che dovesse parere a chi digiuna per divozione, come digiunava
egli. Al quale il frate disse:
– Figliuol mio, questi
peccati sono naturali e sono assai leggieri; e per ciò io non voglio che tu ne
gravi più la conscienzia tua che bisogni. Ad ogni uomo addiviene, quantunque
santissimo sia, il parergli dopo lungo digiuno buono il manicare, e dopo la
fatica il bere.
– Oh! – disse ser
Ciappelletto – padre mio, non mi dite questo per confortarmi; ben sapete che io
so che le cose che al servigio di Dio si fanno, si deono fare tutte nettamente
e senza alcuna ruggine d'animo; e chiunque altri menti le fa, pecca.
Il frate contentissimo
disse:
– E io son contento che
così ti cappia nell'animo, e piacemi forte la tua pura e buona conscienzia in
ciò. Ma, dimmi: in avarizia hai tu peccato, disiderando più che il convenevole,
o tenendo quello che tu tener non dovesti? Al quale ser Ciappelletto disse:
– Padre mio, io non
vorrei che voi guardaste perché io sia in casa di questi usurieri: io non ci ho
a far nulla; anzi ci era venuto per dovergli ammonire e gastigare e torgli da
questo abbominevole guadagno; e credo mi sarebbe venuto fatto, se Iddio non
m'avesse così visitato. Ma voi dovete sapere che mio padre mi lasciò ricco
uomo, del cui avere, come egli fu morto, diedi la maggior parte per Dio; e poi,
per sostentare la vita mia e per potere aiutare i poveri di Cristo, ho fatte
mie picciole mercatantie, e in quelle ho desiderato di guadagnare, e sempre co'
poveri di Dio quello che ho guadagnato ho partito per mezzo, l'una metà
convertendo né miei bisogni, l'altra metà dando loro; e di ciò m'ha sì bene il
mio Creatore aiutato che io ho sempre di bene in meglio fatti i fatti miei.
– Bene hai fatto, –
disse il frate – ma come ti se' tu spesso adirato?
– Oh! – disse ser
Ciappelletto – cotesto vi dico io bene che io ho molto spesso fatto. E chi se
ne potrebbe tenere, veggendo tutto il dì gli uomini fare le sconce cose, non
servare i comandamenti di Dio, non temere i suoi giudici? Egli sono state assai
volte il dì che io vorrei più tosto essere stato morto che vivo, veggendo i
giovani andare dietro alle vanità e vedendogli giurare e spergiurare, andare
alle taverne, non visitare le chiese e seguir più tosto le vie del mondo che
quella di Dio.
Disse allora il frate:
– Figliuol mio, cotesta
è buona ira, né io per me te ne saprei penitenzia imporre. Ma, per alcuno caso,
avrebbeti l'ira potuto inducere a fare alcuno omicidio o a dire villania a persona
o a fare alcun'altra ingiuria?
A cui ser Ciappelletto
rispose:
– Ohimè, messere, o voi
mi parete uom di Dio: come dite voi coteste parole? o s'io avessi avuto pure un
pensieruzzo di fare qualunque s'è l'una delle cose che voi dite, credete voi
che io creda che Iddio m'avesse tanto sostenuto? Coteste son cose da farle gli
scherani e i rei uomini, de' quali qualunque ora io n'ho mai veduto alcuno,
sempre ho detto: «Va che Dio ti converta».
Allora disse il frate:
– Or mi dì, figliuol
mio, che benedetto sia tu da Dio: hai tu mai testimonianza niuna falsa detta
contro alcuno o detto mal d'altrui o tolte dell'altrui cose senza piacer di
colui di cui sono?
– Mai, messere, sì, –
rispose ser Ciappelletto – che io ho detto male d'altrui; per ciò che io ebbi già
un mio vicino che, al maggior torto del mondo, non faceva altro che battere la
moglie, sì che io dissi una volta mal di lui alli parenti della moglie, sì gran
pietà mi venne di quella cattivella, la quale egli, ogni volta che bevuto avea
troppo, conciava come Dio vel dica.
Disse allora il frate:
– Or bene, tu mi di' che
se' stato mercatante: ingannasti tu mai persona così come fanno i mercatanti?
– Gnaffe, – disse ser
Ciappelletto, – messer sì; ma io non so chi egli si fu, se non che uno,
avendomi recati danari che egli mi dovea dare di panno che io gli avea venduto,
e io messogli in una mia cassa senza annoverare, ivi bene ad un mese trovai
ch'egli erano quattro piccioli più che essere non doveano; per che, non
rivedendo colui e avendogli serbati bene uno anno per rendergliele, io gli
diedi per l'amor di Dio.
Disse il frate:
– Cotesta fu piccola
cosa; e facesti bene a farne quello che ne facesti.
E, oltre a questo, il
domandò il santo frate di molte altre cose, delle quali di tutte rispose a
questo modo. E volendo egli già procedere all'assoluzione, disse ser
Ciappelletto:
– Messere, io ho ancora
alcun peccato che io non v'ho detto.
Il frate il domandò
quale; ed egli disse:
– Io mi ricordo che io
feci al fante mio un sabato dopo nona spazzare la casa, e non ebbi alla santa
domenica quella reverenza che io dovea.
– Oh!, – disse il frate,
– figliuol mio, cotesta è leggier cosa.
– Non, – disse ser
Ciappelletto, – non dite leggier cosa, ché la domenica è troppo da onorare,
però che in così fatto dì risuscitò da morte a vita il nostro Signore.
Disse allora il frate: –
O altro hai tu fatto?
– Messer sì, – rispose
ser Ciappelletto, – ché io, non avvedendomene, sputai una volta nella chiesa di
Dio. Il frate cominciò a sorridere e disse:
– Figliuol mio, cotesta
non è cosa da curarsene: noi, che siamo religiosi, tutto il dì vi sputiamo.
Disse allora ser
Ciappelletto:
– E voi fate gran
villania, per ciò che niuna cosa si convien tener netta come il santo tempio,
nel quale si rende sacrificio a Dio.
E in brieve de' così
fatti ne gli disse molti, e ultimamente cominciò a sospirare, e appresso a
piagner forte, come colui che il sapeva troppo ben fare quando volea.
Disse il santo frate:
– Figliuol mio, che hai
tu?
Rispose ser
Ciappelletto:
– Ohimè, messere, ché un
peccato m'è rimaso, del quale io non mi confessai mai, sì gran vergogna ho di
doverlo dire; e ogni volta ch'io me ne ricordo piango come voi vedete, e parmi
essere molto certo che Iddio mai non avrà misericordia di me per questo
peccato.
Allora il santo frate
disse:
– Va via, figliuol, che
è ciò che tu dì? Se tutti i peccati che furon mai fatti da tutti gli uomini, o
che si debbon fare da tutti gli uomini mentre che il mondo durerà, fosser tutti
in uno uom solo, ed egli ne fosse pentuto e contrito come io veggio te, si è
tanta la benignità e la misericordia di Dio che, confessandogli egli, gliele
perdonerebbe liberamente; e per ciò dillo sicuramente. Disse allora ser
Ciappelletto, sempre piagnendo forte:
– Ohimè, padre mio, il
mio è troppo gran peccato, e appena posso credere, se i vostri prieghi non ci
si adoperano, che egli mi debba mai da Dio esser perdonato.
A cui il frate disse:
– Dillo sicuramente, ché
io ti prometto di pregare Iddio per te.
Ser Ciappelletto pur
piagnea e nol dicea, e il frate pur il confortava a dire. Ma poi che ser
Ciappelletto piagnendo ebbe un grandissimo pezzo tenuto il frate così sospeso,
ed egli gittò un gran sospiro e disse:
– Padre mio, poscia che voi mi promettete di
pregare Iddio per me, e io il vi dirò. Sappiate che, quando io era piccolino,
io bestemmiai una volta la mamma mia –; e così detto ricominciò a piagnere
forte.
Disse il frate:
– O figliuol mio, or
parti questo così grande peccato? Oh! gli uomini bestemmiano tutto 'l giorno
Iddio, e sì perdona egli volentieri a chi si pente d'averlo bestemmiato; e tu
non credi che egli perdoni a te questo? Non piagner, confortati, ché fermamente,
se tu fossi stato un di quegli che il posero in croce, avendo la contrizione
ch'io ti veggio, sì ti perdonerebbe egli.
Disse allora ser
Ciappelletto:
– Ohimè, padre mio, che
dite, – voi? La mamma mia dolce, che mi portò in corpo nove mesi il dì e la
notte e portommi in collo più di cento volte! troppo feci male a bestemmiarla e
troppo è gran peccato; e se voi non pregate Iddio per me, egli non mi sarà
perdonato.
Veggendo il frate non
essere altro restato a dire a ser Ciappelletto, gli fece l'assoluzione e
diedegli la sua benedizione, avendolo per santissimo uomo, sì come colui che
pienamente credeva esser vero ciò che ser Ciappelletto avea detto.
E chi sarebbe colui che
nol credesse, veggendo uno uomo in caso di morte dir così? E poi, dopo tutto
questo, gli disse:
– Ser Ciappelletto,
coll'aiuto di Dio voi sarete tosto sano; ma se pure avvenisse che Iddio la
vostra benedetta e ben disposta anima chiamasse a sé, piacev'egli che 'l vostro
corpo sia sepellito al nostro luogo?
Al quale ser
Ciappelletto rispose:
– Messer sì; anzi non
vorre' io essere altrove, poscia che voi mi avete promesso di pregare Iddio per
me; senza che io ho avuta sempre spezial divozione al vostro ordine. E per ciò
vi priego che, come voi al vostro luogo sarete, facciate che a me vegna quel
veracissimo corpo di Cristo, il qual voi la mattina sopra l'altare consecrate;
per ciò che (come che io degno non ne sia) io intendo colla vostra licenzia di
prenderlo, e appresso la santa e ultima unzione, acciò che io, se vivuto son
come peccatore, almeno muoia come cristiano.
Il santo uomo disse che
molto gli piacea e che egli dicea bene, e farebbe che di presente gli sarebbe
apportato; e così fu.
Li due fratelli, li
quali dubitavan forte non ser Ciappelletto gl'ingannasse, s'eran posti appresso
ad un tavolato, il quale la camera dove ser Ciappelletto giaceva divideva da
un'altra, e ascoltando leggiermente udivano e intendevano ciò che ser
Ciappelletto al frate diceva; e aveano alcuna volta sì gran voglia di ridere,
udendo le cose le quali egli confessava d'aver fatte, che quasi scoppiavano, e
fra sé talora dicevano:
– Che uomo è costui, il
quale né vecchiezza né infermità né paura di morte alla qual si vede vicino, né
ancora di Dio dinanzi al giudicio del quale di qui a picciola ora s'aspetta di
dovere essere, dalla sua malvagità l'hanno potuto rimuovere, né far ch'egli
così non voglia morire come egli è vivuto?
Ma pur vedendo che sì
aveva detto che egli sarebbe a sepoltura ricevuto in chiesa, niente del rimaso
si curarono. Ser Ciappelletto poco appresso si comunico', e peggiorando senza
modo, ebbe l'ultima unzione; e poco passato vespro, quel dì stesso che la buona
confessione fatta avea, si morì. Per la qual cosa li due fratelli, ordinato di
quello di lui medesimo come egli fosse onorevolmente sepellito, e man datolo a
dire al luogo de' frati, e che essi vi venissero la sera a far la vigilia
secondo l'usanza e la mattina per lo corpo, ogni cosa a ciò opportuna
disposero.
Il santo frate che
confessato l'avea, udendo che egli era trapassato, fu insieme col priore del
luogo, e fatto sonare a capitolo, alli frati ragunati in quello mostrò ser
Ciappelletto essere stato santo uomo, secondo che per la sua confessione
conceputo avea; e sperando per lui Domenedio dover molti miracoli dimostrare,
persuadette loro che con grandissima reverenzia e divozione quello corpo si
dovesse ricevere. Alla qual cosa il priore e gli altri frati creduli
s'accordarono; e la sera, andati tutti là dove il corpo di ser Ciappelletto
giaceva, sopr'esso fecero una grande e solenne vigilia; e la mattina, tutti
vestiti co' camici e co' pieviali, con libri in mano e con le croci innanzi,
cantando, andaron per questo corpo e con grandissima festa e solennità il
recarono alla lor chiesa, seguendo quasi tutto il popolo della città, uomini e
donne. E nella chiesa postolo, il santo frate che confessato l'avea, salito in
sul pergamo, di lui cominciò e della sua vita, de' suoi digiuni, della sua
virginità, della sua simplicità e innocenzia e santità maravigliose cose a
predicare, tra l'altre cose narrando quello che ser Ciappelletto per lo suo
maggior peccato piagnendo gli avea confessato, e come esso appena gli avea
potuto mettere nel capo che Iddio gliele dovesse perdonare, da questo
volgendosi a riprendere il popolo che ascoltava, dicendo:
– E voi, maledetti da
Dio, per ogni fuscello di paglia che vi si volge tra' piedi bestemmiate Iddio e
la Madre, e tutta la corte di paradiso.
E oltre a queste, molte
altre cose disse della sua lealtà e della sua purità; e in brieve colle sue
parole, alle quali era dalla gente della contrada data intera fede, sì il mise
nel capo e nella divozion di tutti coloro che v'erano che, poi che fornito fu
l'uficio, colla maggior calca del mondo da tutti fu andato a baciargli i piedi
e le mani, e tutti i panni gli furono in dosso stracciati, tenendosi beato chi
pure un poco di quegli potesse avere; e convenne che tutto il giorno così fosse
tenuto, acciò che da tutti potesse essere veduto e visitato. Poi, la vegnente
notte, in una arca di marmo sepellito fu onorevolmente in una cappella, e a
mano a mano il dì seguente vi cominciarono le genti ad andare e ad accender
lumi e ad adorarlo, e per conseguente a botarsi e ad appiccarvi le imagini
della cera secondo la promession fatta.
E in tanto crebbe la
fama della sua santità e divozione a lui, che quasi niuno era, che in alcuna
avversità fosse, che ad altro santo che a lui si botasse, e chiamaronlo e
chiamano san Ciappelletto; e affermano molti miracoli Iddio aver mostrati per
lui e mostrare tutto giorno a chi divotamente si raccomanda a lui.
Così adunque visse e
morì ser Cepperello da Prato e santo divenne come avete udito. Il quale negar
non voglio essere possibile lui essere beato nella presenza di Dio, per ciò
che, come che la sua vita fosse scelerata e malvagia, egli potè in su l'estremo
aver sì fatta contrizione, che per avventura Iddio ebbe misericordia di lui e
nel suo regno il ricevette; ma, per ciò che questo n'è occulto, secondo quello
che ne può apparire ragiono, e dico costui più tosto dovere essere nelle mani
del diavolo in perdizione che in paradiso. E se così è, grandissima si può la
benignità di Dio cognoscere verso noi, la quale non al nostro errore, ma alla
purità della fede riguardando, così faccendo noi nostro mezzano un suo nemico,
amico credendolo, ci esaudisce, come se ad uno veramente santo per mezzano
della sua grazia ricorressimo.
E per ciò, acciò che noi
per la sua grazia nelle presenti avversità e in questa compagnia così lieta
siamo sani e salvi servati, lodando il suo nome nel quale cominciata l'abbiamo,
lui in reverenza avendo, né nostri bisogni gli ci raccomandiamo, sicurissimi
d'essere uditi.
E qui si tacque.
NOVELLA SECONDA
Abraam giudeo, da
Giannotto di Civignì stimolato, va in corte di Roma; e veduta la malvagità de'
cherici, torna a Parigi e fassi cristiano.
La novella di Panfilo fu
in parte risa e tutta commendata dalle donne; la quale diligentemente ascoltata
e al suo fine essendo venuta, sedendo appresso di lui Neifile, le comandò la
reina che, una dicendone, l'ordine dello incominciato sollazzo seguisse. La
quale, sì come colei che non meno era di cortesi costumi che di bellezza
ornata, lietamente rispose che volentieri, e cominciò in questa guisa.
Mostrato n'ha Panfilo
nel suo novellare la benignità di Dio non guardare a' nostri errori, quando da
cosa che per noi veder non si possa procedano; e io nel mio intendo di
dimostrarvi quanto questa medesima benignità, sostenendo pazientemente i
difetti di coloro li quali d'essa ne deono dare e colle opere e colle parole
vera testimonianza, il contrario operando, di sé argomento d'infallibile verità
ne dimostri, acciò che quello che noi crediamo con più fermezza d'animo
seguitiamo. Sì come io, graziose donne, già udii ragionare, in Parigi fu un gran
mercatante e buono uomo, il quale fu chiamato Giannotto di Civignì, lealissimo
e diritto e di gran traffico d'opera di drapperia; e avea singulare amistà con
uno ricchissimo uomo giudeo, chiamato Abraam, il qual similmente mercatante era
e diritto e leale uomo assai. La cui dirittura e la cui lealtà veggendo
Giannotto, gl'incominciò forte ad increscere che l'anima d'un così valente e
savio e buono uomo per difetto di fede andasse a perdizione. E per ciò
amichevolmente lo cominciò a pregare che egli lasciasse gli errori della fede
giudaica e ritornasse alla verità cristiana, la quale egli poteva vedere, sì
come santa e buona, sempre prosperare e aumentarsi; dove la sua, in contrario,
diminuirsi e venire al niente poteva discernere.
Il giudeo rispondeva che
niuna ne credeva né santa né buona fuor che la giudaica, e che egli in quella
era nato e in quella intendeva e vivere e morire; né cosa sarebbe che mai da
ciò il facesse rimuovere. Giannotto non stette per questo che egli, passati
alquanti dì, non gli rimovesse simiglianti parole, mostrandogli, così
grossamente come il più i mercatanti sanno fare, per quali ragioni la nostra
era migliore che la giudaica. E come che il giudeo fosse nella giudaica legge
un gran maestro, tuttavia, o l'amicizia grande che con Giannotto avea che il
movesse, o forse parole le quali lo Spirito Santo sopra la lingua dell'uomo
idiota poneva che sel facessero, al giudeo cominciarono forte a piacere le
dimostrazioni di Giannotto; ma pure, ostinato in su la sua credenza, volger non
si lasciava.
Così come egli pertinace
dimorava, così Giannotto di sollecitarlo non finava giammai, tanto che il
giudeo, da così continua instanzia vinto, disse:
– Ecco, Giannotto, a te
piace che io divenga cristiano, e io sono disposto a farlo, sì veramente che io
voglio in prima andare a Roma, e quivi vedere colui il quale tu dì che è
vicario di Dio in terra, e considerare i suoi modi e i suoi costumi e
similmente dei suoi fratelli cardinali; e se essi mi parranno tali che io possa
tra per le tue parole e per quelli comprendere che la vostra fede sia migliore
che la mia, come tu ti se' ingegnato di dimostrarmi, io farò quello che detto
t'ho; ove così non fosse, io mi rimarrò giudeo come io mi sono.
Quando Giannotto intese
questo, fu in sé stesso oltremodo dolente, tacitamente dicendo:
– Perduta ho la fatica,
la quale ottimamente mi parea avere impiegata, credendomi costui aver
convertito; per ciò che, se egli va in corte di Roma e vede la vita scelera ta
e lorda de' cherici, non che egli di giudeo si faccia cristiano, ma, se egli
fosse cristiano fatto, senza fallo giudeo si ritornerebbe.
E ad Abraam rivolto
disse:
– Deh, amico mio, perché
vuoi tu entrare in questa fatica e così grande spesa, come a te sarà d'andare
di qui a Roma? senza che, e per mare e per terra, ad un ricco uomo come tu se',
ci è tutto pien di pericoli. Non credi tu trovar qui chi il battesimo ti dea?
E, se forse alcuni dubbi hai intorno alla fede che io ti dimostro, dove ha
maggiori maestri e più savi uomini in quella, che son qui, da poterti di ciò
che tu vorrai o domanderai dichiarire? Per le quali cose al mio parere questa
tua andata è di soperchio. Pensa che tali sono là i prelati quali tu gli hai
qui potuti vedere e puoi, e tanto ancor migliori quanto essi son più vicini al
pastor principale. E perciò questa fatica, per mio consiglio, ti serberai in
altra volta ad alcuno perdono, al quale io per avventura ti farò compagnia. A
cui il giudeo rispose:
– Io mi credo,
Giannotto, che così sia come tu mi favelli, ma, recandoti le molte parole in
una, io son del tutto (se tu vuogli che io faccia quello di che tu m'hai
cotanto pregato) disposto ad andarvi, e altramenti mai non ne farò nulla.
Giannotto, vedendo il
voler suo, disse:
– E tu va con buona
ventura –; e seco avvisò lui mai non doversi far cristiano, come la corte di
Roma veduta avesse; ma pur, niente perdendovi, si stette.
Il giudeo montò a
cavallo e, come più tosto potè, se n'andò in corte di Roma, là dove pervenuto
dà suoi giudei fu onorevolmente ricevuto. E quivi dimorando, senza dire ad
alcuno per che andato vi fosse, cautamente cominciò a riguardare alle maniere
del papa e de' cardinali e degli altri prelati e di tutti i cortigiani; e tra
che egli s'accorse, sì come uomo che molto avveduto era, e che egli ancora da
alcuno fu informato, egli trovò dal maggiore infino al minore generalmente
tutti disonestissimamente peccare in lussuria, e non solo nella naturale, ma
ancora nella soddomitica, senza freno alcuno di rimordimento o di vergogna, in
tanto che la potenzia delle meretrici e de' garzoni in impetrare qualunque gran
cosa non v'era di picciol potere. Oltre a questo, universalmente gulosi,
bevitori, ebriachi e più al ventre serventi a guisa d'animali bruti, appresso
alla lussuria, che ad altro, gli conobbe apertamente.
E più avanti guardando,
in tanto tutti avari e cupidi di denari gli vide, che parimente l'uman sangue,
anzi il cristiano, e le divine cose, chenti che elle si fossero, o a' sacrifici
o a' benefici appartenenti, a denari e vendevano e comperavano, maggior
mercatantia faccendone e più sensali avendone che a Parigi di drappi o di
alcun'altra cosa non erano, avendo alla manifesta simonia «procureria» posto
nome, e alla gulosità «sustentazioni», quasi Iddio, lasciamo stare il
significato de' vocaboli, ma la 'ntenzione de' pessimi animi non conoscesse, e
a guisa degli uomini a' nomi delle cose si debba lasciare ingannare. Le quali
cose, insieme con molte altre le quali da tacer sono, sommamente spiacendo al
giudeo, sì come a colui che sobrio e modesto uomo era, parendogli assai aver
veduto, propose di tornare a Parigi, e così fece. Al quale, come Giannotto
seppe che venuto se n'era, niuna cosa meno sperando che del suo farsi
cristiano, se ne venne, e gran festa insieme si fecero; e, poi che riposato si
fu alcun giorno, Giannotto il domandò quello che del santo padre e de'
cardinali e degli altri cortigiani gli parea. Al quale il giudeo prestamente
rispose:
– Parmene male, che
Iddio dea a quanti sono; e di coti così che, se io ben seppi considerare, quivi
niuna santità, niuna divozione, niuna buona opera o essemplo di vita o d'altro
in alcuno che cherico fosse veder mi parve; ma lussuria, avarizia e gulosità,
fraude, invidia e super bia e simili cose e piggiori (se piggiori essere
possono in alcuno) mi vi parve in tanta grazia di tutti vedere, che io ho più
tosto quella per una fucina di diaboliche operazioni che di divine. E per
quello che io estimi, con ogni sollecitudine e con ogni ingegno e con ogni arte
mi pare che il vostro pastore, e per consequente tutti gli altri, si procaccino
di riducere a nulla e di cacciare del mondo la cristiana religione, là dove
essi fondamento e sostegno esser dovrebber di quella.
E per ciò che io veggio
non quello avvenire che essi procacciano, ma continuamente la vostra religione
aumentarsi e più lucida e più chiara divenire, meritamente mi par di scerner io
Spirito Santo esser d'essa, sì come di vera e di santa più che alcun'altra,
fondamento e sostegno. Per la qual cosa, dove io rigido e duro stava a' tuoi
conforti e non mi volea far cristiano, ora tutto aperto ti dico che io per
niuna cosa lascerei di cristian farmi. Andiamo adunque alla chiesa: e quivi,
secondo il debito costume della vostra santa fede, mi fa battezzare.
Giannotto, il quale
aspettava dirittamente contraria conclusione a questa, come lui così udì dire
fu il più contento uomo che giammai fosse. E a Nostra Dama di Parigi con lui
insieme andatosene, richiese i cherici di là entro che ad Abraam dovessero dare
il battesimo. Li quali, udendo che esso l'addomandava, prestamente il fecero: e
Giannotto il levò del sacro fonte e nominollo Giovanni; e appresso a gran
valenti uomini il fece compiutamente ammaestrare nella nostra fede la quale
egli prestamente apprese, e fu, poi buono e valente uomo e di santa vita.
NOVELLA TERZA
Melchisedech giudeo, con
una novella di tre anella, cessa un gran pericolo dal Saladino
apparecchiatogli.
Poiché, commendata da
tutti la novella di Neifile, ella si tacque, come alla reina piacque, Filomena
così cominciò a parlare.
La novella da Neifile
detta mi ritorna a memoria il dubbioso caso già avvenuto ad un giudeo. Per ciò
che già e di Dio e della verità della nostra fede è assai bene stato detto, il
discendere oggimai agli avvenimenti e agli atti degli uomini non si dovrà
disdire; e a narrarvi quella verrò, la quale udita, forse più caute diverrete
nelle risposte alle quistioni che fatte vi fossero. Voi dovete, amorose
compagne, sapere che, sì come la sciocchezza spesse volte trae altrui di felice
stato e mette in grandissima miseria, così il senno di grandissimi pericoli
trae il savio e ponlo in grande e in sicuro riposo. E che vero sia che la
sciocchezza di buono stato in miseria altrui conduca, per molti essempli si
vede, li quali non fia al presente nostra cura di raccontare, avendo riguardo
che tutto 'l dì mille essempli n'appaiano manifesti. Ma che il senno di
consolazione sia cagione, come promisi, per una novelletta mosterrò
brievemente.
Il Saladino, il valore
del qual fu tanto che non solamente di piccolo uomo il fe' di Babillonia
soldano, ma ancora molte vittorie sopra li re saracini e cristiani gli fece
avere, avendo in diverse guerre e in grandissime sue magnificenze speso tutto
il suo tesoro, e, per alcuno accidente sopravvenutogli bisognandogli una buona
quantità di danari, né veggendo donde così prestamente come gli bisognavano
aver gli potesse, gli venne a memoria un ricco giudeo, il cui nome era
Melchisedech, il quale prestava ad usura in Alessandria, e pensossi costui avere
da poterlo servire quando volesse; ma sì era avaro che di sua volontà non
l'avrebbe mai fatto, e forza non gli voleva fare; per che, strignendolo il
bisogno, rivoltosi tutto a dover trovar modo come il giudeo il servisse,
s'avvisò di fargli una forza da alcuna ragion colorata. E fattolsi chiamare e
familiarmente ricevutolo, seco il fece sedere e appresso gli disse:
– Valente uomo, io ho da
più persone inteso che tu se' savissimo e nelle cose di Dio senti molto avanti;
e per ciò io saprei volentieri da te quale delle tre leggi tu reputi la verace,
o la giudaica o la saracina o la cristiana. Il giudeo, il quale veramente era
savio uomo, s'avvisò troppo bene che il Saladino guardava di pigliarlo nelle
parole per dovergli muovere alcuna quistione, e pensò non potere alcuna di
queste tre più l'una che l'altra lodare, che il Saladino non avesse la sua
intenzione. Per che, come colui al qual pareva d'aver bisogno di risposta per
la quale preso non potesse essere, aguzzato lo 'ngegno, gli venne prestamente
avanti quello che dir dovesse, e disse:
– Signor mio, la
quistione la qual voi mi fate è bella, e a volervene dire ciò che io ne sento,
mi vi convien dire una novelletta, qual voi udirete.
Se io non erro, io mi
ricordo aver molte volte udito dire che un grande uomo e ricco fu già, il
quale, intra l'altre gioie più care che nel suo tesoro avesse, era uno anello
bellissimo e prezioso; al quale per lo suo valore e per la sua bellezza volendo
fare onore e in perpetuo lasciarlo né suoi discendenti, ordinò che colui de'
suoi figliuoli appo il quale, sì come lasciatogli da lui, fosse questo anello
trovato, che colui s'intendesse essere il suo erede e dovesse da tutti gli
altri essere come maggiore onorato e reverito.
E colui al quale da
costui fu lasciato il simigliante ordinò né suoi discendenti e così fece come
fatto avea il suo predecessore; e in brieve andò questo anello di mano in mano
a molti successori; e ultimamente pervenne alle mani ad uno, il quale avea tre
figliuoli belli e virtuosi e molto al padre loro obedienti, per la qual cosa
tutti e tre parimente gli amava. E i giovani, li quali la consuetudine dello
anello sapevano, sì come vaghi d'essere ciascuno il più onorato tra' suoi
ciascuno per sé, come meglio sapeva, pregava il padre, il quale era già vecchio,
che, quando a morte venisse, a lui quello anello lasciasse. Il valente uomo,
che parimente tutti gli amava, né sapeva esso medesimo eleggere a qual più
tosto lasciar lo dovesse, pensò, avendolo a ciascun promesso, di volergli tutti
e tre sodisfare; e segretamente ad uno buono maestro ne fece fare due altri, li
quali sì furono simiglianti al primiero, che esso medesimo che fatti gli avea
fare appena conosceva qual si fosse il vero. E venendo a morte, segretamente
diede il suo a ciascun de' figliuoli. Li quali, dopo la morte del padre,
volendo ciascuno la eredità e l'onore occupare, e l'uno negandolo all'altro, in
testimonianza di dover ciò ragionevolmente fare ciascuno produsse fuori il suo
anello. E trovatisi gli anelli sì simili l'uno all'altro che qual di costoro
fosse il vero non si sapeva conoscere, si rimase la quistione, qual fosse il
vero erede del padre, in pendente, e ancor pende.
E così vi dico, signor
mio, delle tre leggi alli tre popoli date da Dio padre, delle quali la quistion
proponeste: ciascuno la sua eredità, la sua vera legge e i suoi comandamenti
dirittamente si crede avere e fare; ma chi se l'abbia, come degli anelli,
ancora ne pende la quistione. Il Saladino conobbe costui ottimamente essere
saputo uscire del laccio il quale davanti a' piedi teso gli aveva; e per ciò
dispose d'aprirgli il suo bisogno e vedere se servire il volesse; e così fece,
aprendogli ciò che in animo avesse avuto di fare, se così discretamente, come
fatto avea, non gli avesse risposto.
Il giudeo liberamente
d'ogni quantità che il Saladino richiese il servì; e il Saladino poi
interamente il soddisfece; e oltre a ciò gli donò grandissimi doni e sempre per
suo amico l'ebbe e in grande e onorevole stato appresso di sé il mantenne.
NOVELLA QUARTA
Un monaco, caduto in
peccato degno di gravissima punizione, onestamente rimproverando al suo abate
quella medesima colpa, si libera dalla pena.
Già si tacea Filomena,
dalla sua novella espedita, quando Dioneo, che appresso di lei sedeva, senza
aspettare dalla reina altro comandamento, conoscendo già, per l'ordine
cominciato, che a lui toccava il dover dire, in cotal guisa cominciò a parlare.
Amorose donne, se io ho
bene la 'ntenzione di tutte compresa, noi siam qui per dovere a noi medesimi
novellando piacere; e per ciò, solamente che contro a questo non si faccia,
estimo a ciascuno dovere essere licito (e così ne disse la nostra reina, poco
avanti, che fosse) quella novella dire che più crede che possa dilettare; per
che, avendo udito per li buoni consigli di Giannotto di Civignì Abraam aver
l'anima salvata Melchisedech per lo suo senno avere le sue ricchezze dagli
agguati del Saladino difese, senza riprensione attender da voi, intendo di
raccontar brievemente con che cautela un monaco il suo corpo da gravissima pena
liberasse.
Fu in Lunigiana, paese
non molto da questo lontano, uno monistero già di santità e di monaci più
copioso che oggi non è, nel quale tra gli altri era un monaco giovane, il
vigore del quale né la freschezza né i digiuni né le vigilie Potevano macerare.
Il quale per ventura un giorno in sul mezzodì, quando gli altri monaci tutti
dormivano, andandosi tutto solo dattorno alla sua chiesa, la quale in luogo
assai solitario era, gli venne veduta una giovinetta assai bella, forse
figliuola d'alcuno de' lavoratori della contrada, la quale andava per gli campi
certe erbe cogliendo; né prima veduta l'ebbe, che egli fieramente assalito fu
dalla concupiscenza carnale.
Per che, fattolesi più
presso, con lei entrò in parole e tanto andò d'una in altra, che egli si fu
accordato con lei e seco nella sua cella ne la menò, che niuna persona se
n'accorse. E mentre che egli, da troppa volontà trasportato, men cautamente con
lei scherzava, avvenne che l'abate, da dormir levatosi e pianamente passando
davanti alla cella di costui, sentì lo schiamazzio che costoro insieme faceano;
e per conoscere meglio le voci, chetamente s'accostò all'uscio della cella ad
ascoltare e manifestamente conobbe che dentro a quella era femina e tutto fu
tentato di farsi aprire; poi pensò di voler tenere in ciò altra maniera e,
tornatosi alla sua camera, aspettò che il monaco fuori uscisse.
Il monaco, ancora che da
grandissimo suo piacere e diletto fosse con questa giovane occupato, pur
nondimeno tuttavia sospettava; e parendogli aver sentito alcuno stropiccio di
piedi per lo dormentorio, ad un piccolo pertugio pose l'occhio e vide
apertissimamente l'abate stare ad ascoltarlo e molto bene comprese l'abate aver
potuto conoscere quella giovane essere nella sua cella. Di che egli, sappiendo
che di questo gran pena gli dovea seguire, oltre modo fu do lente; ma pur,
senza del suo cruccio niente mostrare alla giovane, prestamente seco molte cose
rivolse, cercando se a lui alcuna salutifera trovar ne potesse; e occorsegli
una nuova malizia, la quale al fine imaginato da lui dirittamente pervenne. E
faccendo sembiante che esser gli paresse stato assai con quella giovane, le
disse:
– Io voglio andare a
trovar modo come tu esca di qua entro senza esser veduta; e per ciò statti pianamente
infino alla mia tornata.
E uscito fuori e serrata
la cella colla chiave, dirittamente se n'andò alla camera dello abate, e
presentatagli quella, secondo che ciascuno monaco faceva quando fuori andava,
con un buon volto disse:
– Messere, io non potei
stamane farne venire tutte le legne le quali io avea fatte fare, e perciò con
vostra licenzia io voglio andare al bosco e farlene venire.
L'abate, per potersi più
pienamente informare del fallo commesso da costui, avvisando che questi accorto
non se ne fosse che egli fosse stato da lui veduto, fu lieto di tale accidente,
e volentier prese la chiave e similmente li die' licenzia. E, come il vide
andato via, cominciò a pensar qual far volesse più tosto, o in presenza di
tutti i monaci aprir la cella di costui e far loro vedere il suo difetto, acciò
che poi non avesser cagione di mormorare contra di lui quando il monaco
punisse, o di voler prima da lei sentire come andata fosse la bisogna. E,
pensando seco stesso che questa potrebbe essere tal femina o figliuola di tale
uomo, che egli non le vorrebbe aver fatta quella vergogna d'averla a tutti i
monaci fatta vedere, s'avvisò di voler prima veder chi fosse e poi prender
partito; e chetamente andatosene alla cella, quel la aprì ed entrò dentro e
l'uscio richiuse.
La giovane, vedendo
venire l'abate, tutta smarrì, e temendo di vergogna cominciò a piagnere. Messer
l'abate, postole l'occhio addosso e veggendola bella e fresca, ancora che
vecchio fosse, sentì subitamente non meno cocenti gli stimoli della carne che
sentiti avesse il suo giovane monaco, e fra sé stesso cominciò a dire: – Deh,
perché non prendo io del piacere quando io ne posso avere, con ciò sia cosa che
il dispiacere e la noia, sempre che io ne vorrò, sieno apparecchiati? Costei è
una bella giovane, ed è qui che niuna per sona del mondo il sa; se io la posso
recare a fare i piacer miei, io non so perché io nol mi faccia. Chi saprà? ai
più; io estimo che egli sia gran senno a pigliarsi del bene, quando Domenedio
ne man da altrui –. E così dicendo, e avendo del tutto mutato proposito da
quello per che andato v'era, fattosi più presso alla giovane, pianamente la
cominciò a confortare e a pregarla che non piagnesse; e, d'una parola in altra
procedendo, ad aprirle il suo desiderio pervenne.
La giovane, che non era
di ferro né di diamante, assai agevolmente si piegò a' piaceri dello abate; il
quale, abbracciatala e baciatala più volte, in sul letticello del monaco
salitosene, avendo forse riguardo al grave peso della sua dignità e alla tenera
età della giovane, temendo forse di non offenderla per troppa gravezza, non
sopra il petto di lei salì, ma lei sopra il suo petto pose, e per lungo spazio
con lei si trastullò.
Il monaco, che fatto
avea sembiante d'andare al bosco, essendo nel dormentorio occultato, come vide
l'abate solo nella sua cella entrare, così tutto rassicurato, estimò il suo
avviso dovere avere effetto; e veggendol serrar dentro, l'ebbe per certissimo.
E, uscito di là dov'era, chetamente n'andò ad un pertugio, per lo quale ciò che
l'abate fece o disse, e udì e vide. Parendo allo abate essere assai colla
giovanetta dimorato, serratala nella cella, alla sua camera se ne tornò; e dopo
al quanto, sentendo il monaco e credendo lui esser tornato dal bosco, avvisò di
riprenderlo forte e di farlo incarcerare, acciò che esso solo possedesse la
guadagnata preda; e fattoselo chiamare, gravissimamente e con mal viso il
riprese e comandò che fosse in carcere messo.
Il monaco
prontissimamente rispose:
– Messere, io non sono
ancora tanto all'ordine di san Benedetto stato, che io possa avere ogni
particularità di quello apparata; e voi ancora non m'avavate mostrato che i
monaci si debban far dalle femine priemere, come dà digiuni e dalle vigilie; ma
ora che mostrato me l'avete, vi prometto, se questa mi perdonate, di mai più in
ciò non peccare, anzi farò sempre come io a voi ho veduto fare.
L'abate, che accorto
uomo era, prestamente conobbe costui non solamente aver più di lui saputo, ma
veduto ciò che esso aveva fatto. Perché, dalla sua colpa stessa rimorso, si
vergognò di fare al monaco quello che egli, sì come lui, aveva meritato. E
perdonatogli e impostogli di ciò che veduto aveva silenzio, onestamente misero
la giovinetta di fuori, e poi più volte si dee credere ve la facesser tornare.
NOVELLA QUINTA
La marchesana di
Monferrato, con un convito di galline e con alquante leggiadre parolette,
reprime il folle amore del re di Francia.
La novella da Dioneo
raccontata, prima con un poco di vergogna punse i cuori delle donne ascoltanti
e con onesto rossore né loro visi apparito ne diedon segno; e poi quella, l'una
l'altra guardando, appena del ridere potendosi astenere, sogghignando
ascoltarono. Ma venuta di questa la fine, poiché lui con alquante dolci parole
ebber morso, volendo mostrare che simili novelle non fosser tra donne da
raccontare, la reina verso la Fiammetta, che appresso di lui sopra l'erba
sedeva, rivolta, che essa l'ordine seguitasse le comandò. La quale vezzosamente
e con lieto viso a lei riguardando incominciò. Sì perché mi piace noi essere entrati
a dimostrare con le novelle quanta sia la forza delle belle e pronte risposte,
e sì ancora perché quanto negli uomini è gran senno il cercar d'amar sempre
donna di più alto legnaggio ch'egli non è, così nelle donne è grandissimo
avvedimento il sapersi guardare dal prendersi dello amore di maggiore uomo
ch'ella non è, m'è caduto nell'animo, donne mie belle, di mostrarvi, nella
novella che a me tocca di dire, come e con opere e con parole una gentil donna
sé da questo guardasse e altrui ne rimovesse Era il marchese di Monferrato,
uomo d'alto valore, gonfaloniere della Chiesa, oltre mar passato in un general
passaggio da' cristiani fatto con armata mano. E del suo valore ragionandosi
nella corte del re Filippo il Bornio, il quale a quel medesimo passaggio andar
di Francia s'apparecchiava, fu per un cavalier detto non essere sotto le stelle
una simile coppia a quella del marchese e della sua donna; però che, quanto
tra' cavalieri era d'ogni virtù il marchese famoso, tanto la donna tra tutte
l'altre donne del mondo era bellissima e valorosa.
Le quali parole per sì
fatta maniera nell'animo del re di Francia entrarono, che, senza mai averla
veduta, di subito ferventemente la cominciò ad amare e propose di non volere,
al passaggio al quale andava, in mare entrare altrove che a Genova; acciò che
quivi, per terra andando, onesta cagione avesse di dovere andare la marchesana
a vedere, avvisandosi che, non essendovi il marchese, gli potesse venir fatto
di mettere ad effetto il suo disio. E secondo il pensier fatto mandò ad
esecuzione; per ciò che, mandato avanti ogni uomo, esso con poca compagnia e di
gentili uomini entrò in cammino; e avvicinandosi alle terre del marchese, un dì
davanti mandò a dire alla donna che la seguente mattina l'attendesse a
desinare. La donna, savia e avveduta, lietamente rispose che questa l'era somma
grazia sopra ogni altra e che egli fosse il ben venuto. E appresso entrò in
pensiero che questo volesse dire, che un così fatto re, non essendovi il marito
di lei, la venisse a visitare; né la 'ngannò in questo l'avviso, cioè che la
fama della sua bellezza il vi traesse. Nondimeno, come valorosa donna
dispostasi ad onorarlo, fattisi chiamare di que' buoni uomini che rimasi
v'erano, ad ogni cosa opportuna con loro consiglio fece ordine dare, ma il
convito e le vivande ella sola volle ordinare. E fatte senza indugio quante
galline nella contrada erano ragunare, di quelle sole varie vivande divisò a'
suoi cuochi per lo convito reale.
Venne adunque il re il
giorno detto, e con gran festa e onore dalla donna fu ricevuto. Il quale, oltre
a quello che compreso aveva per le parole del cavaliere, riguardandola, gli
parve bella e valorosa e costumata, e sommamente se ne maravigliò e commendolla
forte, tanto nel suo disio più accendendosi, quanto da più trovava esser la
donna che la sua passata stima di lei. E dopo al cun riposo preso in camere
ornatissime di ciò che a quelle, per dovere un così fatto re ricevere,
s'appartiene, venuta l'ora del desinare, il re e la marchesana ad una tavola
sedettero, e gli altri secondo la lor qualità ad altre mense furono onorati.
Quivi essendo il re
successivamente di molti messi servito e di vini ottimi e preziosi, e oltre a
ciò con diletto talvolta la marchesana bellissima riguardando, sommo piacere
avea. Ma pure, venendo l'un messo appresso l'altro, cominciò il re alquanto a
maravigliarsi, conoscendo che quivi, quantunque le vivande diverse fossero, non
per tanto di niuna cosa essere altro che di galline. E come che il re
conoscesse il luogo, là dove era, dovere esser tale che copiosamente di diverse
salvaggine avervi dovesse, e l'avere davanti significata la sua venuta alla
donna spazio l'avesse dato di poter far cacciare; non pertanto, quantunque
molto di ciò si maravigliasse, in altro non volle prender cagione di doverla
mettere in parole, se non delle sue galline, e con lieto viso rivoltosi verso
lei disse:
– Dama, nascono in
questo paese solamente galline senza gallo alcuno?
La marchesana, che
ottimamente la dimanda intese, parendole che secondo il suo disidero Domenedio
l'avesse tempo mandato opportuno a poter la sua intenzion dimostrare, al re
domandante, baldanzosamente verso lui rivolta, rispose:
– Monsignor no, ma le
femine, quantunque in vestimenti e in onori alquanto dall'altre variino, tutte
perciò son fatte qui come altrove.
Il re, udite queste
parole, raccolse bene la cagione del convito delle galline e la virtù nascosa
nelle parole; e accorsesi che invano con così fatta donna parole si
gitterebbono, e che forza non v'avea luogo; per che così come disavvedutamente
acceso s'era di lei, così saviamente era da spegnere per onor di lui il mal
concetto fuoco. E senza più motteggiarla, temendo delle sue risposte, fuori
d'ogni speranza desinò; e, finito il desinare, acciò che col presto partirsi
ricoprisse la sua disonesta venuta, ringraziatala dell'onor ricevuto da lei,
accomandandolo ella a Dio, a Genova se n'andò.
NOVELLA SESTA
Confonde un valente uomo
con un bel detto la malvagia ipocresia de' religiosi.
Emilia, la quale
appresso la Fiammetta sedea, essendo già stato da tutte commendato il valore e
il leggiadro gastigamento della marchesana fatto al re di Francia, come alla
sua reina piacque, baldanzosamente a dire cominciò. Né io altresì tacerò un
morso dato da un valente uomo secolare ad uno avaro religioso con un motto non
meno da ridere che da commendare.
Fu adunque, o care
giovani, non è ancora gran tempo, nella nostra città un frate minore
inquisitore della eretica pravità, il quale, come che molto s'ingegnasse di
parere santo e tenero amatore della cristiana fede, sì come tutti fanno, era
non men buono investigatore di chi piena aveva la borsa, che di chi di scemo
nella fede sentisse. Per la quale sollecitudine per avventura gli venne trovato
un buono uomo, assai più ricco di denari che di senno, al quale, non già per
difetto di fede, ma semplicemente parlando, forse da vino o da soperchia
letizia riscaldato, era venuto detto un dì ad una sua brigata sé avere un vino
sì buono che ne berrebbe Cristo. Il che essendo allo inquisitore rapportato, ed
egli sentendo che gli suoi poderi eran grandi e ben tirata la borsa, cum
gladiis et fustibus impetuosissimamente corse a formargli un processo
gravissimo addosso, avvisando non di ciò alleviamento di miscredenza nello
inquisito, ma empimento di fiorini nella sua mano ne dovesse procedere, come
fece. E fattolo richiedere, lui domandò se vero fosse ciò che contro di lui era
stato detto. Il buono uomo rispose del sì, e dissegli il modo. A che lo
'nquisitore santissimo e divoto di san Giovanni Boccadoro disse:
– Dunque hai tu fatto
Cristo bevitore e vago de' vini solenni, come se egli fosse Cinciglione o
alcuno altro di voi bevitori ebriachi e tavernieri? E ora, umilmente parlando,
vuogli mostrare questa cosa molto essere leggiera. Ella non è come ella ti
pare; tu n'hai meritato il fuoco, quando noi vogliamo, come noi dobbiamo, verso
te operare.
E con queste e con altre
parole assai, col viso dell'arme, quasi costui fosse stato epicuro negante la
etternità delle anime, gli parlava. E in brieve tanto lo spaurì che il buono
uomo per certi mezzani gli fece con una buona quantità della grascia di san
Giovanni Boccadoro ugner le mani (la quale molto giova alle infermità delle
pestilenziose avarizie de' cherici, e spezialmente de' frati minori, che denari
non osan toccare) acciò ch'egli dovesse verso lui misericordiosamente operare.
La quale unzione, sì
come molto virtuosa, avvegna che Galieno non ne parli in alcuna parte delle sue
medicine, sì e tanto adoperò, che il fuoco minacciatogli di grazia si permutò
in una croce; e, quasi al passaggio d'oltremare andar dovesse, per far più
bella bandiera, gialla gliele pose in sul nero. E oltre a questo, già ricevuti
i denari, più giorni appresso di sé il sostenne, per penitenzia dandogli che
egli ogni mattina dovesse udire una messa in Santa Croce e all'ora del mangiare
avanti a lui presentarsi, e poi il rimanente del giorno quello che più gli
piacesse potesse fare.
Il che costui
diligentemente faccendo, avvenne una mattina tra l'altre che egli udì alla
messa uno evangelio, nel quale queste parole si cantavano: – Voi riceverete per
ogn'un cento, e possederete la vita etterna –; le quali esso nella memoria
fermamente ritenne, e, secondo il comandamento fattogli, ad ora di mangiare
davanti allo inquisitore venendo, il trovò desinare. Il quale lo 'nqui sitore
domandò se egli avesse la messa udita quella mattina. Al quale esso prestamente
rispose:
– Messer sì.
A cui lo 'nquisitore
disse:
– Udisti tu in quella
cosa niuna della quale tu dubiti o vogline domandare?
– Certo, – rispose il
buono uomo, – di niuna cosa che io udissi dubito, anzi tutte per fermo le credo
vere. Udìne io bene alcuna che m'ha fatto e fa avere di voi e degli altri
vostri frati grandissima compassione, pensando al malvagio stato che voi di là
nell'altra vita dovrete avere. Disse allora lo 'nquisitore:
– E qual fu quella
parola, che t'ha mosso ad aver questa compassion di noi?
Il buono uomo rispose:
– Messere, ella fu
quella parola dello evangelio, la qual dice: «Voi riceverete per ogn'un cento».
Lo inquisitore disse:
– Questo è vero; ma
perché t'ha per ciò questa parola commosso?
– Messere, – rispose il
buono uomo – io vel dirò: poi che io usai qui, ho io ogni dì veduto dar qui di
fuori a molta povera gente, quando una e quando due grandissime caldaie di
broda, la quale a' frati di questo convento e a voi si toglie sì come
soperchia, davanti; per che, se per ogn'una cento vene fieno rendute di là, voi
n'avrete tanta che voi dentro tutti vi dovrete affogare.
Come che gli altri, che
alla tavola dello inquisitore erano, tutti ridessono, lo 'nquisitore sentendo
trafiggere la lor brodaiuola ipocresia, tutto si turbò; e se non fosse che
biasimo portava di quello che fatto avea, un altro processo gli avrebbe addosso
fatto, per ciò che con ridevol motto lui e gli altri poltroni aveva morsi; e
per bizzarria gli comandò che quello che più gli piacesse facesse, senza più
davanti venirgli.
NOVELLA SETTIMA
Bergamino, con una
novella di Primasso e dello abate di Clignì, onestamente morde una avarizia
nuova venuta in messer can della Scala.
Mosse la piacevolezza
d'Emilia e la sua novella la reina e ciascun altro a ridere e a commendare il
nuovo avviso del crociato. Ma, poi che le risa rimase furono e racquetato
ciascuno, Filostrato, al qual toccava il novellare, in cotal guisa cominciò a
parlare.
Bella cosa è, valorose
donne, il ferire un segno che mai non si muti, ma quella è quasi maravigliosa,
quando alcuna cosa non usata apparisce di subito, se subitamente da uno arciere
è ferita. La viziosa e lorda vita de' cherici, in molte cose quasi di cattività
fermo segno, senza troppa difficultà dà di sé da parlare, da mordere e da
riprendere a ciascuno che ciò disidera di fare; e per ciò, come che ben facesse
il valente uomo che lo inquisitore della ipocrita carità de' frati, che quello
danno a' poveri che converrebbe loro dare al porco o gittar via, trafisse,
assai estimo più da lodare colui del quale, tirandomi a ciò la precedente
novella, parlar debbo; il quale messer Cane della Scala, magnifico signore,
d'una subita e disusata avarizia in lui apparita morse con una leggiadra
novella, in altrui figurando quello che di sé e di lui intendeva di dire; la
quale è questa.
Sì come chiarissima fama
quasi per tutto il mondo suona, messer Cane della Scala, al quale in assai cose
fu favorevole la fortuna, fu uno de' più notabili e de' più magnifici signori
che dallo imperadore Federigo secondo in quasi sapesse in Italia.
Il quale, avendo
disposto di fare una notabile e maravigliosa festa in Verona, e a quella molte
genti e di varie parti fossero venute, e massimamente uomini di corte d'ogni
maniera, subito (qual che la cagion si fosse) da ciò si ritrasse, e in parte
provedette coloro che venuti v'erano e licenziolli. Solo uno, chiamato
Bergamino, oltre al credere di chi non lo udì presto parlatore e ornato, senza
essere d'alcuna cosa proveduto o licenzia datagli, si rimase, sperando che non
senza sua futura utilità ciò dovesse essere stato fatto. Ma nel pensiero di
messer Cane era caduto ogni cosa che gli si donasse vie peggio esser perduta
che se nel fuoco fosse stata gittata; né di ciò gli dicea o facea dire alcuna
cosa.
Bergamino dopo alquanti
dì, non veggendosi né chiamare né richiedere a cosa che a suo mestier
partenesse e oltre a ciò consumarsi nello albergo co' suoi cavalli e co' suoi
fanti, incominciò a prender malinconia; ma pure aspettava, non parendogli ben
far di partirsi. E avendo seco portate tre belle e ricche robe, che donate gli
erano state da altri signori, per comparire orrevole alla festa, volendo il suo
oste esser pagato, primieramente gli diede l'una, e appresso, soprastando
ancora molto più, convenne, se più volle col suo oste tornare, gli desse la
seconda; e cominciò sopra la terza a mangiare, disposto di tanto stare a vedere
quanto quella durasse e poi partirsi. Ora, mentre che egli sopra la terza roba
mangiava, avvenne che egli si trovò un giorno, desinando messer Cane, davanti
da lui assai nella vista malinconoso. Il qual messer Can veggendo, più per
istraziarlo che per diletto pigliare d'alcun suo detto, disse:
– Bergamino, che hai tu?
tu stai così malinconoso! dinne alcuna cosa.
Bergamino allora, senza
punto pensare, quasi molto tempo pensato avesse, subitamente in acconcio de'
fatti suoi disse questa novella:
– Signor mio, voi dovete
sapere che Primasso fu un gran valente uomo in gramatica e fu oltre ad
ogn'altro grande e presto versificatore, le quali cose il renderono tanto
ragguardevole e sì famoso che, ancora che per vista in ogni parte conosciuto
non fosse, per nome e per fama quasi niuno era che non sapesse chi fosse
Primasso. Ora avvenne che, trovandosi egli una volta a Parigi in povero stato,
sì come egli il più del tempo dimorava, per la virtù che poco era gradita da
coloro che possono assai, udì ragionare d'uno abate di Clignì, il quale si
crede che sia il più ricco prelato di sue entrate che abbia la Chiesa di Dio,
dal papa in fuori; e di lui udì dire maravigliose e magnifiche cose in tener
sempre corte e non esser mai ad alcuno, che andasse là dove egli fosse, negato
né mangiare né bere solo che quando l'abate mangiasse il domandasse. La qual
cosa Primasso udendo, sì come uomo che si dilettava di vedere i valenti uomini
e signori, diliberò di volere andare a vedere la magnificenza di questo abate e
domandò quanto egli allora dimorasse presso a Parigi. A che gli fu risposto che
forse a sei miglia ad un suo luogo; al quale Primasso pensò di potervi essere,
movendosi la mattina a buona ora, ad ora di mangiare.
Fattasi adunque la via
insegnare, non trovando alcun che v'andasse, temette non per isciagura gli
venisse smarrita, e così potere andare in parte dove così tosto non troveria da
mangiare; per che, se ciò avvenisse, acciò che di mangiare non patisse disagio,
seco pensò di portare tre pani, avvisando che dell'acqua (come che ella gli
piacesse poco) troverebbe in ogni parte. E quegli messisi in seno, prese il suo
cammino, e vennegli sì ben fatto che avanti ora di mangiare pervenne là dove
l'abate era. Ed entrato dentro andò riguardando per tutto, e veduta la gran
moltitudine delle tavole messe e il grande apparecchio della cucina e l'altre
cose per lo desinare apprestate, fra sé medesimo disse: – Veramente è questi
così magnifico come uom dice –. E stando alquanto intorno a queste cose
attento, il siniscalco dello abate (per ciò che ora era di mangiare) comandò
che l'acqua si desse alle mani; e, data l'acqua, mise ogni uomo a tavola. E per
avventura avvenne che Primasso fu messo a sedere appunto dirimpetto all'uscio
della camera donde l'abate dovea uscire per venire nella sala a mangiare. Era
in quella corte questa usanza, che in su le tavole né vino né pane né altre
cose da mangiare o da bere si ponea giammai, se prima l'abate non veniva a
sedere alla tavola Avendo adunque il siniscalco le tavole messe, fece dire
all'abate che, qualora gli piacesse, il mangiare era presto.
L'abate fece aprir la
camera per venire nella sala, e venendo si guardò innanzi, e per ventura il
primo uomo che agli occhi gli corse fu Primasso, il quale assai male era in
arnese e cui egli per veduta non conoscea; e come veduto l'ebbe, incontanente
gli corse nello animo un pensier cattivo e mai più non statovi, e disse seco:
«Vedi a cui io do mangiare il mio!» E tornandosi addietro, comandò che la
camera fosse serrata e domandò coloro che appresso lui erano, se alcuno
conoscesse quel ribaldo che a rimpetto all'uscio della sua camera sedeva alle
tavole. Ciascuno rispose del no.
Primasso, il quale avea
talento di mangiare, come colui che camminato avea e uso non era di digiunare,
avendo alquanto aspettato e veggendo che lo abate non veniva, si trasse di seno
l'un de' tre pani li quali portati avea, e cominciò a mangiare. L'abate, poi
che alquanto fu stato, comandò ad uno de' suoi famigliari che riguardasse se
partito si fosse questo Primasso.
Il famigliare rispose:
– Messer no, anzi mangia
pane, il quale mostra che egli seco recasse.
Disse allora l'abate:
– Or mangi del suo, se
egli n'ha, ché del nostro non mangerà egli oggi.
Avrebbe voluto l'abate
che Primasso da sé stesso si fosse partito, per ciò che accomiatarlo non gli
pareva far bene. Primasso, avendo l'un pane mangiato, e l'abate non vegnendo,
cominciò a mangiare il secondo; il che similmente all'abate fu detto, che fatto
avea guardare se partito si fosse.
Ultimamente, non venendo
l'abate, Primasso, mangiato il secondo, cominciò a mangiare il terzo; il che
ancora fu allo abate detto, il quale seco stesso cominciò a pensare e a dire:
«Deh questa che novità è oggi che nell'anima m'è venuta? che avarizia? chente sdegno?
e per cui? Io ho dato mangiare il mio, già è molt'anni, a chiunque mangiare
n'ha voluto, senza guardare se gentile uomo è o villano, povero o ricco. o
mercatante o barattiere stato sia, e ad infiniti ribaldi con l'occhio me l'ho
veduto straziare, né mai nello animo m'entrò questo pensiero che per costui mi
c'è oggi entrato. Fermamente avarizia non mi dee avere assalito per uomo di
picciolo affare, qualche gran fatto dee essere costui che ribaldo mi pare,
poscia che così mi s'è rintuzzato l'animo d'onorarlo». E, così detto, volle
sapere chi fosse, e trovato ch'era Primasso, quivi venuto a vedere della sua
magnificenzia quello che n'aveva udito, il quale avendo l'abate per fama molto
tempo davante per valente uom conosciuto, si vergognò; e, vago di fare
l'ammenda, in molte maniere s'ingegnò d'onorarlo. E appresso mangiare, secondo
che alla sufficienza di Primasso si conveniva, il fe' nobilmente vestire e,
donatigli denari e un pallafreno, nel suo arbitrio rimise l'andare e lo stare.
Di che Primasso contento, rendutegli quelle grazie le quali potè maggiori, a
Parigi, donde a piè partito s'era, ritornò a cavallo. Messer Cane, il quale
intendente signore era, senza altra dimostrazione alcuna ottimamente intese ciò
che dir volea Bergamino, e sorridendo gli disse:
– Bergamino, assai
acconciamente hai mostrati i danni tuoi, la tua virtù e la mia avarizia e quel
che da me di sideri; e veramente mai più che ora per te da avarizia assalito
non fui; ma io la caccerò con quel bastone che tu medesimo hai divisato.
E fatto pagare l'oste di
Bergamino, e lui nobilissimamente d'una sua roba vestito, datigli denari e un
pallafreno, nel suo piacere per quella volta rimise l'andare e lo stare.
NOVELLA OTTAVA
Guglielmo Borsiere con
leggiadre parole trafigge l'avarizia di messer Erminio de' Grimaldi.
Sedeva appresso
Filostrato Lauretta, la quale, poscia che udito ebbe lodare la 'ndustria di
Bergamino e sentendo a lei convenir dire alcuna cosa, senza alcun comandamento
aspettare, piacevolmente così cominciò a parlare.
La precedente novella,
care compagne, m'induce a voler dire come un valente uomo di corte similemente
e non senza frutto pugnesse d'un ricchissimo mercatante la cupidigia; la quale,
perché l'effetto della passata somigli, non vi dovrà perciò essere men cara,
pensando che bene n'addivenisse alla fine.
Fu adunque in Genova,
buon tempo è passato, un gentile uomo chiamato messere Ermino de' Grimaldi, il
quale (per quello che da tutti era creduto) di grandissime possessioni e di
denari di gran lunga trapassava la ricchezza d'ogni altro ricchissimo cittadino
che allora si sapesse in Italia. E sì come egli di ricchezza ogni altro
avanzava che italico fosse, così d'avarizia e di miseria ogni altro misero e
avaro che al mondo fosse soperchiava oltre misura; per ciò che, non solamente
in onorare altrui teneva la borsa stretta, ma nelle cose opportune alla sua
propria persona, contra il general costume de' genovesi che usi sono di
nobilmente vestire, sosteneva egli, per non spendere, difetti grandissimi, e
similmente nel mangiare e nel bere. Per la qual cosa, e meritamente, gli era
de' Grimaldi caduto il soprannome e solamente messer Ermino Avarizia era da
tutti chiamato.
Avvenne che in questi
tempi che costui, non spendendo, il suo multiplicava, arrivò a Genova un valente
uomo di corte e costumato e ben parlante, il quale fu chia mato Guiglielmo
Borsiere, non miga simile a quelli li quali sono oggi, li quali, non senza gran
vergogna de' corrotti e vituperevoli costumi di coloro li quali al presente
vogliono essere gentili uomini e signor chiamati e reputati, sono più tosto da
dire asini nella bruttura di tutta la cattività de' vilissimi uomini allevati,
che nelle corti. E là dove a que' tempi soleva essere il lor mestiere e
consumarsi la lor fatica in trattar paci, dove guerre o sdegni tra gentili
uomini fosser nati, o trattar matrimoni, parentadi e amistà, e con belli motti
e leggiadri ricreare gli animi degli affaticati e sollazzar le corti, e con
agre riprensioni, sì come padri, mordere i difetti de' cattivi, e questo con
premi assai leggieri; oggidì in rapportar male dall'uno all'altro, in seminare
zizzania, in dire cattività e tristizie, e, che è peggio, in farle nella
presenza degli uomini, in rimproverare i mali, le vergogne e le tristezze vere
e non vere l'uno all'altro, e con false lusinghe gli animi gentili alle cose
vili e scelerate ritrarre, s'ingegnano il lor tempo di consumare; e colui è più
caro avuto, e più da' miseri e scostumati signori onorato e con premi
grandissimi essaltato, che più abominevoli parole dice o fa atti: gran vergogna
e biasimevole del mondo presente, e argomento assai evidente che le virtù,di
qua giù dipartitesi, hanno nella feccia de' vizi i miseri viventi abbandonati.
Ma, tornando a ciò che io cominciato avea, da che giusto sdegno un poco m'ha
trasviata più che io non credetti dico che il già detto Guiglielmo da tutti i
gentili uomini di Genova fu onorato e volentieri veduto. Il quale, essendo
dimorato alquanti giorni nella città e avendo udite molte cose della miseria e
della avarizia di messer Ermino, il volle vedere.
Messer Ermino aveva già
sentito come questo Guiglielmo Borsiere era valente uomo, e pure avendo in sé,
quantunque avaro fosse, alcuna favilluzza di gentilezza, con parole assai
amichevoli e con lieto viso il ricevette, e con lui entrò in molti e vari
ragionamenti, e ragionando il menò seco, insieme con altri genovesi che con lui
erano, in una sua casa nuova, la quale fatta avea fare assai bella; e, dopo
avergliele tutta mostrata, disse:
– Deh, messer
Guiglielmo, voi che avete e vedute e udite molte cose, saprestemi voi insegnare
cosa alcuna che mai più non fosse stata veduta, la quale io potessi far dipignere
nella sala di questa mia casa?
A cui Guiglielmo, udendo
il suo mal conveniente parlare, rispose:
– Messere, cosa che non
fosse mai stata veduta non vi crederrei io sapere insegnare, se ciò non fosser
già starnuti o cose a quegli somiglianti; ma, se vi piace, io ve ne insegnerò
bene una che voi non credo che vedeste giammai. Messere Ermino disse:
– Deh, io ve ne priego,
ditemi quale è dessa –; non aspettando lui quello dover rispondere che rispose.
A cui Guiglielmo allora prestamente disse:
– Fateci dipignere la
Cortesia.
Come messere Ermino udì
questa parola, così subitamente il prese una vergogna tale, che ella ebbe forza
di fargli mutare animo quasi tutto in contrario a quello che infino a quella
ora aveva avuto, e disse:
– Messer Guiglielmo, io
la ci farò dipignere in maniera che mai né voi né altri con ragione mi potrà
più dire che io non l'abbia veduta e conosciuta.
E da questo dì innanzi
(di tanta virtù fu la parola da Guiglielmo detta) fu il più liberale e il più
grazioso gentile uomo e quello che più e cittadini e forestieri onorò che altro
che in Genova fosse a' tempi suoi.
NOVELLA NONA
Il re di Cipri, da una
donna di Guascogna trafitto, di cattivo valoroso diviene.
Ad Elissa restava
l'ultimo comandamento della reina; la quale, senza aspettarlo, tutta festevole
cominciò. Giovani donne, spesse volte già addivenne che quello che varie
riprensioni e molte pene date ad alcuno non hanno potuto in lui adoperare, una
parola molte volte per accidente, non che ex proposito, detta l'ha operato. Il
che assai bene appare nella novella raccontata dalla Lauretta, e io ancora con
un'altra assai brieve ve lo intendo dimostrare; perché, con ciò sia cosa che le
buone sempre possan giovare, con attento animo son da ricogliere, chi che
d'esse sia il dicitore.
Dico adunque che né
tempi del primo re di Cipri, dopo il conquisto fatto della Terra Santa da
Gottifrè di Buglione, avvenne che una gentil donna di Guascogna in
pellegrinaggio andò al Sepolcro, donde tornando, in Cipri arrivata, da alcuni
scelerati uomini villanamente fu oltraggiata. Di che ella senza alcuna
consolazion dolendosi, pensò d'andarsene a richiamare al re; ma detto le fu per
alcuno che la fatica si perderebbe, perciò che egli era di sì rimessa vita e da
sì poco bene, che, non che egli l'altrui onte con giustizia vendicasse, anzi
infinite con vituperevole viltà a lui fattene sosteneva; in tanto che chiunque
avea cruccio alcuno, quello col fargli alcuna onta o vergogna sfogava.
La qual cosa udendo la
donna, disperata della vendetta, ad alcuna consolazione della sua noia propose
di voler mordere la miseria del detto re; e andatasene piagnendo davanti a lui,
disse:
– Signor mio, io non
vengo nella tua presenza per vendetta che io attenda della ingiuria che m'è
stata fatta, ma in sodisfacimento di quella ti priego che tu m'insegni come tu
sofferi quelle le quali io intendo che ti son fatte, acciò che, da te
apparando, io possa pazientemente la mia comportare; la quale, sallo Iddio, se
io far lo potessi, volentieri la ti donerei, poi così buon portatore ne sé. Il
re, infino allora stato tardo e pigro, quasi dal sonno si risvegliasse,
cominciando dalla ingiuria fatta a questa donna, la quale agramente vendicò,
rigidissimo persecutore divenne di ciascuno che contro all'onore della sua
corona alcuna cosa commettesse da indi innanzi.
NOVELLA DECIMA
Maestro Alberto da
Bologna onestamente fa vergognare una donna, la quale lui d'esser di lei
innamorato voleva far vergognare. Restava, tacendo già Elissa, l'ultima fatica
del novellare alla reina, la quale, donnescamente cominciando a parlare, disse.
Valorose giovani, come
né lucidi sereni sono le stelle ornamento del cielo e nella primavera i fiori
de' verdi prati, così de' laudevoli costumi e de' ragionamenti piacevoli sono i
leggiadri motti. Li quali, per ciò che brievi sono, molto meglio alle donne
stanno che agli uomini, in quanto più alle donne che agli uomini il molto
parlare e lungo, quando senza esso si possa fare, si disdisce, come che oggi
poche o niuna donna rimasa ci sia, la quale o ne 'ntenda alcuno leggiadro o a
quello, se pur lo 'ntendesse, sappia rispondere: general vergogna e di noi e di
tutte quelle che vivono. Per ciò che quella virtù che già fu nell'anime delle
passate hanno le moderne rivolta in ornamenti del corpo; e colei la quale si
vede indosso li panni più screziati e più vergati e con più fregi, si crede
dovere essere da molto più tenuta e più che l'altre onorata, non pensando che,
se fosse chi addosso o in dosso gliele ponesse, uno asino ne porterebbe troppo
più che alcuna di loro; né per ciò più da onorar sarebbe che uno asino.
Io mi vergogno di dirlo,
per ciò che contro all'altre non posso dire che io contro a me non dica: queste
così fregiate, così dipinte, così screziate, o come statue di marmo mutole e
insensibili stanno, o sì rispondono, se sono addomandate, che molto sarebbe
meglio l'avere taciuto; e fannosi a credere che da purità d'animo proceda il
non saper tra le donne e co' valenti uomini favellare, e alla loro milensaggine
hanno posto nome onestà, quasi niuna donna onesta sia se non colei che colla
fante o colla lavandaia o colla sua fornaia favella: il che se la natura avesse
voluto, come elle si fanno a credere, per altro modo loro avrebbe limitato il cinguettare.
E il vero che, così come
nell'altre cose, è in questa da riguardare e il tempo e il luogo e con cui si
favella; per ciò che talvolta avviene che, credendo alcuna donna o uomo con
alcuna paroletta leggiadra fare altrui arrossare, non avendo bene le sue forze
con quelle di quel cotale misurate, quello rossore che in altrui ha creduto
gittare sopra sé l'ha sentito tornare. Per che, acciò che voi vi sappiate
guardare, e oltre a questo acciò che per voi non si possa quello proverbio
intendere che comunemente si dice per tutto, cioè che le femine in ogni cosa
sempre pigliano il peggio, questa ultima novella di quelle d'oggi, la quale a
me tocca di dover dire, voglio venerenda ammaestrate; acciò che come per
nobiltà d'animo dall'altre divise siete, così ancora per eccellenzia di costumi
separate dall'altre vi dimostriate.
Egli non sono ancora
molti anni passati, che in Bologna fu un grandissimo medico e di chiara fama
quasi a tutto 'l mondo, e forse ancora vive, il cui nome fu maestro Alberto. Il
quale, essendo già vecchio di presso a settanta anni, tanta fu la nobiltà del
suo spirito che, essendo già del corpo quasi ogni natural caldo partito, in sé
non schifò di ricevere l'amorose fiamme; perché avendo veduta ad una festa una
bellissima donna vedova, chiamata, secondo che alcuni dicono, madonna
Malgherida de' Ghisolieri, e piaciutagli sommamente, non altrimenti che un
giovinetto, quelle nel maturo petto ricevette, in tanto che a lui non pareva
quella notte ben riposare che il dì precedente veduto non avesse il vago e
dilicato viso della bella donna.
E per questo incominciò
a continuare, quando a piè e quando a cavallo, secondo che più in destro gli
venia, la via davanti alla casa di questa donna. Per la qual cosa ed ella e
molte altre donne s'accorsero della cagione del suo passare, e più volte
insieme ne motteggiarono di vedere uno uomo, così antico d'anni e di senno,
innamorato, quasi credessero questa passione piacevolissima d'amore solamente
nelle sciocche anime de' giovani e non in altra parte capere e dimorare.
Per che, continuando il
passare del maestro Alberto, avvenne un giorno di festa che, essendo questa
donna con molte altre donne a sedere davanti alla sua porta e avendo di lontano
veduto il maestro Alberto verso loro venire, con lei insieme tutte si proposero
di riceverlo e di fargli onore, e appresso di motteggiarlo di questo suo
innamoramento; e così fecero. Per ciò che, levatesi tutte e lui invitato, in
una fresca corte il menarono, dove di finissimi vini e confetti fecer venire; e
al fine con assai belle e leggiadre parole come questo potesse essere, che egli
di questa bella donna fosse innamorato, il domandarono, sentendo esso lei da
molti belli, gentili e leggiadri giovani essere amata.
Il maestro, sentendosi
assai cortesemente pugnere, fece lieto viso e rispose:
– Madonna, che io ami,
questo non dee esser maraviglia ad alcuno savio, e spezialmente voi, però che
voi il valete. E come che agli antichi uomini sieno naturalmente tolte le forze
le quali agli amorosi esercizi si richieggiono, non è per ciò lor tolta la
buona volontà né lo intendere quello che sia da essere amato, ma tanto più
dalla natura conosciuto, quanto essi hanno più di conoscimento che i giovani.
La speranza la quale mi muove che io vecchio ami voi amata da molti giovani, è
questa: io sono stato più volte già là dove io ho veduto merendarsi le donne e
mangiare lupini e porri; e come che nel porro niuna cosa sia buona, pur men reo
e più piacevole alla bocca è il capo di quello, il quale voi generalmente, da
torto appetito tirate, il capo vi tenete in mano, e manicate le frondi, le
quali non solamente non sono da cosa alcuna, ma son di malvagio sapore. E che
so io, madonna, se nello eleggere degli amanti voi vi faceste il simigliante? E
se voi il faceste, io sarei colui che eletto sarei da voi, e gli altri cacciati
via.
La gentil donna insieme
coll'altre alquanto vergognandosi disse:
– Maestro, assai bene e
cortesemente gastigate n'avete della nostra presuntuosa impresa; tuttavia il
vostro amor m'è caro, sì come di savio e valente uomo esser dee; e per ciò,
salva la mia onestà, come a vostra cosa ogni vostro piacere m'imponete
sicuramente.
Il maestro, levatosi co'
suoi compagni, ringraziò la donna, e ridendo e con festa da lei preso commiato,
si partì. Così la donna, non guardando cui motteggiasse, credendo vincere, fu
vinta: di che voi, se savie sarete, ottimamente vi guarderete.
CONCLUSIONE
Già era il sole
inchinato al vespro, e in gran parte il caldo diminuito, quando le novelle
delle giovani donne e de' tre giovani si trovarono esser finite. Per la qual
cosa la loro reina piacevolmente disse:
– Omai, care compagne,
niuna cosa resta più a fare al mio reggimento per la presente giornata, se non
darvi reina nuova, la quale di quella che è a venire, secondo il suo giudicio,
la sua vita e la nostra ad onesto diletto disponga; e quantunque il dì paia di
qui alla notte durare, perciò che chi alquanto non prende di tempo avanti non
pare che ben si possa provedere per l'avvenire, e acciò che quello che la reina
nuova dilibererà esser per domattina opportuno si possa preparare, a questa ora
giudico doversi le seguenti giornate incominciare. E perciò a reverenza di
Colui a cui tutte le cose vivono e consolazione di noi, per questa seconda
giornata Filomena, discretissima giovane, reina guiderà il nostro regno.
E così detto, in piè
levatasi e trattasi la ghirlanda dello alloro, a lei reverente la mise; la
quale essa prima e appresso tutte l'altre e i giovani similmente salutaron come
reina e alla sua signoria piacevolmente s'offersero. Filomena, alquanto per
vergogna arrossata veggendosi coronata del regno e ricordandosi delle parole
poco avanti dette da Pampinea, acciò che milensa non paresse, ripreso l'ardire,
primieramente gli ufici dati da Pampinea riconfermò, e dispose quello che per
la seguente mattina e per la futura cena fare si dovesse, quivi dimorando dove
erano; e appresso così cominciò a parlare:
– Carissime compagne,
quantunque Pampinea, per sua cortesia più che per mia virtù, m'abbia di voi
tutti fatta reina, non sono io per ciò disposta nella forma del nostro vivere
dovere solamente il mio giudicio seguire, ma col mio il vostro insieme; e acciò
che quello che a me par di fare conosciate, e per consequente aggiugnere e
menomar possiate a vostro piacere, con poche parole ve lo intendo di
dimostrare. Se io ho ben riguardato alle maniere oggi da Pampinea tenute, egli
me le pare avere parimente laudevoli e dilettevoli conosciute; e per ciò infino
a tanto che elle, o per troppa continuanza o per altra cagione, non ci
divenisser noiose, quelle non giudico da mutare.
Dato adunque ordine a
quello che abbiamo già a fare cominciato, quinci levatici, alquanto n'andrem
sollazzando, e come il sole sarà per andar sotto, ceneremo per lo fresco, e,
dopo alcune canzonette e altri sollazzi, sarà ben fatto l'andarsi a dormire.
Domattina, per lo fresco levatici, similmente in alcuna parte n'andremo
sollazzando, come a ciascuno sarà più a grado di fare, e, come oggi avem fatto,
così all'ora debita torneremo a mangiare, balleremo, e da dormire levatici,
come oggi state siamo, qui al novellar torneremo, nel quale mi par grandissima
parte di piacere e d'utilità similmente consistere. È il vero che quello che
Pampinea non potè fare, per lo esser tardi eletta al reggimento, io il voglio
cominciare a fare, cioè a ristrignere dentro ad alcun termine quello di che
dobbiamo novellare e davanti mostrarlovi, acciò che ciascuno abbia spazio di
poter pensare ad alcuna bella novella sopra la data proposta contare; la quale,
quando questo vi piaccia, sia questa: che, con ciò sia cosa che dal principio
del mondo gli uomini sieno stati da diversi casi della fortuna menati, e
saranno infino alla fine, ciascun debba dire sopra questo: chi, da diverse cose
infestato, sia, oltre alla sua speranza, riuscito a lieto fine. Le donne e gli
uomini parimente tutti questo ordine commendarono e quello dissero di seguire.
Dioneo solamente, tutti gli altri tacendo già, disse:
– Madonna, come tutti
questi altri hanno detto, così dico io sommamente esser piacevole e
commendabile l'ordine dato da voi; ma di spezial grazia vi chieggio un dono, il
quale voglio che mi sia confermato per infino a tanto che la nostra compagnia
durerà, il quale è questo: che io a questa legge non sia costretto di dover
dire novella secondo la proposta data, se io non vorrò, ma quale più di dire mi
piacerà. E acciò che alcun non creda che io questa grazia voglia sì come uomo
che delle novelle non abbia alle mani, infino da ora son contento d'esser
sempre l'ultimo che ragioni.
La reina, la quale lui e
sollazzevole uomo e festevole conoscea e ottimamente si avvisò questo lui non
chiedere se non per dovere la brigata, se stanca fosse del ragionare,
rallegrare con alcuna novella da ridere, col consentimento degli altri
lietamente la grazia gli fece.
E da seder levatasi,
verso un rivo d'acqua chiarissima, il quale d'una montagnetta discendeva in una
valle ombrosa da molti arbori fra vive pietre e verdi erbette, con lento passo
se n'andarono. Quivi, scalze e colle braccia nude per l'acqua andando,
cominciarono a prendere vari diletti fra sé medesime. E appressandosi l'ora
della cena, verso il palagio tornatesi, con diletto cenarono. Dopo la qual
cena, fatti venir gli strumenti, comandò la reina che una danza fosse presa, e
quella menando la Lauretta, Emilia cantasse una canzone, dal leuto di Dioneo
aiutata. Per lo qual comandamento Lauretta prestamente prese una danza, e
quella menò, cantando Emilia la seguente canzone amorosamente:
Io son sì vaga della mia
bellezza,
che d'altro amor giammai
non curerò, né credo
aver vaghezza.
Io veggio in quella,
ogn'ora ch'io mi specchio,
quel ben che fa contento
lo 'ntelletto,
né accidente nuovo o
pensier vecchio
mi può privar di si caro
diletto.
Qual altro dunque
piacevole oggetto
potrei veder giammai,
che mi mettesse in cuor
nuova vaghezza?
Non fugge questo ben,
qualor disio
di rimirarlo in mia
consolazione;
anzi si fa incontro al
piacer mio
tanto soave a sentir,
che sermone
dir nol poria, ne
prendere intenzione
d'alcun mortal giammai,
che non ardesse di cotal
vaghezza.
E io, che ciascun'ora
più m'accendo,
quanto più fiso gli
occhi tengo in esso,
tutta mi dono a lui,
tutta mi rendo,
gustando già di ciò
ch'el m'ha promesso,
e maggior gioia spero
più da presso
sì fatta, che giammai
simil non si sentì qui di
vaghezza.
Questa ballatetta
finita, alla qual tutti lietamente aveano risposto, ancor che alcuni molto alle
parole di quella pensar facesse, dopo alcune altre carolette fatte, essendo già
una particella della brieve notte passata, piacque alla reina di dar fine alla
Giornata prima; e, fatti i torchi accendere, comandò che ciascuno infino alla
seguente mattina s'andasse a riposare; per che ciascuno, alla sua camera
tornatosi, così fece.
Finisce la giornata
prima del Decameron.
Incomincia la seconda giornata,
nella quale. sotto il reggimento di Filomena, sl ragiona di chi, da diverse
cose infestato, sia, oltre alla sua speranza, riuscito a lieto fine.
GIORNATA SECONDA
INTRODUZIONE
Già per tutto aveva il
sol recato colla sua luce il nuovo giorno e gli uccelli, su per gli verdi rami
cantando piacevoli versi, ne davano agli orecchi testimonianza, quando
parimente tutte le donne e i tre giovani levatisi ne' giardini se n'entrarono e
le rugiadose erbe con lento passo scalpitando, d'una parte in un'altra, belle
ghirlande faccendosi, per lungo spazio diportando s'andarono. E sì come il
trapassato giorno avean fatto, così fecero il presente: per lo fresco avendo
mangiato, dopo alcun ballo s'andarono a riposare, e da quello appresso la nona
levatisi, come alla loro reina piacque, nel fresco pratello venuti, a lei
dintorno si posero a sedere.
Ella, la quale era
formosa e di piacevole aspetto molto, della sua ghirlanda dello alloro
coronata, alquanto stata e tutta la sua compagnia riguardata nel viso, a
Neifile comandò che alle future novelle con una desse principio; la quale,
senza scusa alcuna fare, così lieta cominciò a parlare.
NOVELLA PRIMA
Martellino, infignendosi
attratto, sopra santo Arrigo fa vista di guarire, e, conosciuto il suo inganno,
è battuto, e poi, preso e in pericolo venuto d'esser impiccato per la gola,
ultimamente scampa.
Spesse volte, carissime
donne, avvenne che chi altrui s'è di beffare ingegnato, e massimamente quelle cose
che sono da reverire, s'è colle beffe e talvolta col danno di sé solo
ritrovato. Il che, acciò che io al comandamento della reina ubbidisca e
principio dea con una mia novella alla proposta, intendo di raccontarvi quello
che prima sventuratamente, e poi fuori di tutto il suo pensiero assai
felicemente, ad un nostro cittadino avvenisse. Era, non è ancora lungo tempo
passato, un tedesco a Trivigi, chiamato Arrigo, il quale, povero uomo essendo,
di portar pesi a prezzo serviva chi il richiedeva; e, con questo, uomo di
santissima vita e di buona era tenuto da tutti. Per la qual cosa, o vero o non
vero che si fosse, morendo egli, adivenne, secondo che i trivigiani affermano,
che nell'ora della sua morte le campane della maggior chiesa di Trivigi tutte,
senza essere da alcuno tirate, cominciarono a sonare. Il che in luogo di
miracolo avendo, questo Arrigo esser santo dicevano tutti; e concorso tutto il
popolo della città alla casa nella quale il suo corpo giaceva, quello a guisa
d'un corpo santo nella chiesa maggiore ne portarono, menando quivi zoppi
attratti e ciechi e altri di qualunque infermità o difetto impediti, quasi
tutti dovessero dal toccamento di questo corpo divenir sani.
In tanto tumulto e
discorrimento di popolo, avvenne che in Trivigi giunsero tre nostri cittadini,
de' quali l'uno era chiamato Stecchi, l'altro Martellino e il terzo Marchese,
uomini li quali, le corti de' signori visitando, di contraffarsi e con nuovi
atti contraffacendo qualun que altro uomo li veditori sollazzavano. Li quali quivi
non essendo stati giammai, veggendo correre ogni uomo, si maravigliarono, e
udita la cagione per che ciò era, disiderosi divennero d'andare a vedere. E
poste le lor cose ad uno albergo, disse Marchese:
– Noi vogliamo andare a
veder questo santo; ma io per me non veggio come noi vi ci possiam pervenire,
per ciò che io ho inteso che la piazza è piena di tedeschi e d'altra gente
armata, la quale il signor di questa terra, acciò che romor non si faccia, vi
fa stare; e oltre a questo la chiesa, per quello che si dica, è sì piena di
gente che quasi niuna persona più vi può entrare.
Martellino allora, che
di veder questa cosa disiderava, disse:
– Per questo non
rimanga; ché di pervenire infino al corpo santo troverrò io ben modo.
Disse Marchese:
– Come?
Rispose Martellino:
– Dicolti. Io mi
contraffarò a guisa d'uno attratto, e tu dall'un lato e Stecchi dall'altro,
come se io per me andar non potessi, mi verrete sostenendo, faccendo sembianti
di volermi là menare acciò che questo santo mi guarisca; egli non sarà alcuno
che veggendoci non ci faccia luogo, e lascici andare. A Marchese e a Stecchi
piacque il modo; e, senza alcuno indugio usciti fuori dello albergo, tutti e
tre in un solitario luogo venuti, Martellino si storse in guisa le mani, le
dita e le braccia e le gambe, e oltre a questo la bocca e gli occhi e tutto il
viso, che fiera cosa pareva a vedere; né sarebbe stato alcuno che veduto
l'avesse, che non avesse detto lui veramente esser tutto della persona perduto
rattratto. E preso così fatto da Marchese e da Stecchi, verso la chiesa si
dirizzarono, in vista tutti pieni di pietà, umilemente e per lo amor di Dio
domandando a ciascuno che dinanzi lor si parava, che loro luogo facesse; il che
agevolmente impetravano; e in brieve, riguardati da tutti, e quasi per tutto
gridandosi –fa luogo, fa luogo, là pervennero ove il corpo di santo Arrigo era
posto; e da certi gentili uomini, che v'erano dattorno, fu Martellino
prestamente preso e sopra il corpo posto, acciò che per quello il beneficio
della sanità acquistasse.
Martellino, essendo
tutta la gente attenta a vedere che di lui avvenisse, stato alquanto, cominciò,
come colui che ottimamente far lo sapeva, a far sembiante di distendere l'uno
dediti, e appresso la mano, e poi il braccio, e così tutto a venirsi
distendendo. Il che veggendo la gente, sì gran romore in lode di santo Arrigo
facevano che i tuoni non si sarieno potuti udire.
Era per avventura un
fiorentino vicino a questo luogo, il quale molto bene conoscea Martellino, ma
per l'essere così travolto quando vi fu menato non lo avea conosciuto; il
quale, veggendolo ridirizzato e riconosciutolo, subitamente cominciò a ridere e
a dire:
– Domine, fallo tristo!
chi non avrebbe creduto, veggendol venire, che egli fosse stato attratto da
dovero?
Queste parole udirono
alcuni trivigiani, li quali incontanente il domandarono:
– Come! Non era costui
attratto?
A'quali il fiorentino
rispose:
– Non piaccia a Dio!
egli è sempre stato diritto come è qualunque di noi, ma sa meglio che altro
uomo, come voi avete potuto vedere, far queste ciance di contraffarsi in
qualunque forma vuole.
Come costoro ebbero
udito questo, non bisognò più avanti; essi si fecero per forza innanzi e
cominciarono a gridare:
– Sia preso questo
traditore e beffatore di Dio e de' santi, il quale, non essendo attratto, per
ischernire il nostro santo e noi, qui a guisa d'attratto è venuto.
E così dicendo il
pigliarono, e giù del luogo dove era il tirarono, e presolo per li capelli e
stracciatigli tutti i panni in dosso, gli cominciarono a dare delle pugna e de'
calci; né parea a colui esser uomo, che a questo far non correa. Martellino
gridava mercé per Dio e quanto poteva s'aiutava; ma ciò era niente: la calca
gli multiplicava ogni ora addosso maggiore.
La qual cosa veggendo Stecchi
e Marchese, cominciarono fra sé a dire che la cosa stava male, e di sé medesimi
dubitando, non ardivano ad aiutarlo; anzi con gli altri insieme gridavano ch'el
fosse morto, avendo nondimeno pensiero tuttavia come trarre il potessero delle
mani del popolo. Il quale fermamente l'avrebbe ucciso, se uno argomento non
fosse stato, il qual Marchese subitamente prese; che, essendo ivi di fuori la
famiglia tutta della signoria, Marchese, come più tosto potè, n'andò a colui
che in luogo del podestà v'era, e disse:
– Mercé per Dio! egli è
qua un malvagio uomo che m'ha tagliata la borsa con ben cento fiorini d'oro; io
vi priego che voi il pigliate, sì che io riabbia il mio. Subitamente, udito
questo, ben dodici de' sergenti corsero là dove il misero Martellino era senza
pettine carminato, e alle maggior fatiche del mondo rotta la calca, loro tutto
pesto e tutto rotto il trassero delle mani e menaronnelo a palagio; dove molti
seguitolo che da lui si tenevano scherniti, avendo udito che per tagliaborse
era stato preso, non parendo loro avere alcuno altro più giusto titolo a fargli
dar la mala ventura, similemente cominciarono a dire, ciascuno da lui essergli
stata tagliata la borsa.
Le quali cose udendo il
giudice del podestà, il quale era un ruvido uomo, prestamente da parte
menatolo, sopra ciò 'ncominciò ad esaminare. Ma Martellino rispondea
motteggiando, quasi per niente avesse quella presura; di che il giudice
turbato, fattolo legare alla colla, parecchie tratte delle buone gli fece dare
con animo di fargli confessare ciò che coloro dicevano, per farlo poi appiccare
per la gola. Ma poi che egli fu in terra posto, domandandolo il giudice se ciò
fosse vero che coloro incontro a lui dicevano, non valendogli il dire di no,
disse:
– Signor mio, io son
presto a confessarvi il vero, ma fatevi a ciascun che mi accusa dire quando e
dove io gli tagliai la borsa, e io vi dirò quello che io avrò fatto, e quel che
no.
Disse il giudice:
– Questo mi piace; e
fattine alquanti chiamare, l'uno diceva che gliele avea tagliata otto dì eran
passati, l'altro sei, l'altro quattro, e alcuni dicevano quel dì stesso.
Il che udendo
Martellino, disse:
– Signor mio, essi
mentono tutti per la gola; e che io dica il vero, questa pruova ve ne posso
fare, che così non fossi io mai in questa terra entrato, come io mal non ci
fui, se non da poco fa in qua; e come io giunsi, per mia disavventura andai a
vedere questo corpo santo, dove io sono stato pettinato come voi potete vedere;
e che questo che io dico sia vero, ve ne può far chiaro l'uficiale del signore
il quale sta alle presentagioni, e il suo libro, e ancora l'oste mio. Per che,
se così trovate come io vi dico, non mi vogliate ad instanzia di questi malvagi
uomini straziare e uccidere.
Mentre le cose erano in
questi termini, Marchese e Stecchi, li quali avevan sentito che il giudice del
podestà fieramente contro a lui procedeva, e già l'aveva collato, temetter
forte, seco dicendo: «Male abbiam procacciato; noi abbiamo costui tratto della
padella, e gittatolo nel fuoco». Per che, con ogni sollecitudine dandosi
attorno, e l'oste loro ritrovato, come il fatto era gli raccontarono. Di che
esso ridendo, gli menò ad un Sandro Agolanti, il quale in Trivigi abitava e
appresso al signore avea grande stato, e ogni cosa per ordine dettagli, con
loro insieme il pregò che de' fatti di Martellino gli tenesse.
Sandro, dopo molte risa,
andatosene al signore, impetrò che per Martellino fosse mandato, e così fu. Il
quale coloro che per lui andarono trovarono ancora in camicia dinanzi al
giudice, e tutto smarrito e pauroso forte, perciò che il giudice niuna cosa in
sua scusa voleva udire; anzi, per avventura avendo alcuno odio né fiorentini,
del tutto era disposto a volerlo fare impiccar per la gola, e in niuna guisa
rendere il voleva al signore, infino a tanto che costretto non fu di renderlo a
suo dispetto. Al quale poiché egli fu davanti, e ogni cosa per ordine dettagli,
porse prieghi che in luogo di somma grazia via il lasciasse andare; per ciò
che, infino che in Firenze non fosse, sempre gli parrebbe il capestro aver
nella gola. Il signore fece grandissime risa di così fatto accidente; e fatta
donare una roba per uomo, oltre alla speranza di tutti e tre di così gran pericolo
usciti, sani e salvi se ne tornarono a casa loro.
NOVELLA SECONDA
Rinaldo d'Esti, rubato,
capita a Castel Guiglielmo ed è albergato da una donna vedova e, de' suoi danni
ristorato, sano e salvo si torna a casa sua.
Degli accidenti di
Martellino da Neifile raccontati senza modo risero le donne, e massimamente
tra' giovani Filostrato, al quale, per ciò che appresso di Neifile sedea,
comandò la reina che novellando la seguitasse. Il quale senza indugio alcuno
incominciò.
Belle donne, a
raccontarsi mi tira una novella di cose catoliche e di sciagure e d'amore in
parte mescolata, la quale per avventura non fia altro che utile avere udita; e
spezialmente a coloro li quali per li dubbiosi paesi d'amore sono camminanti,
né quali, chi non ha detto il paternostro di san Giuliano, spesse volte, ancora
che abbia buon letto, alberga male.
Era adunque, al tempo
del marchese Azzo da Ferrara, un mercatante chiamato Rinaldo d'Esti per sue
bisogne venuto a Bologna; le quali avendo fornite e a casa tornandosi, avvenne
che, uscito di Ferrara e cavalcando verso Verona, s'abbattè in alcuni li quali
mercatanti parevano ed erano masnadieri e uomini di malvagia vita e condizione,
con li quali ragionando incautamente s'accompagnò. Costoro, veggendol
mercatante e stimando lui dover portar danari, seco diliberarono che, come
prima tempo si vedessero, di rubarlo; e perciò, acciò che egli niuna suspezion
prendesse, come uomini modesti e di buona condizione, pure d'oneste cose e di
lealtà andavano con lui favellando, rendendosi, in ciò che potevano e sapevano,
umili e benigni verso di lui; per che egli di avergli trovati si reputava in
gran ventura, per ciò che solo era con uno suo fante a cavallo. E così
camminando, d'una cosa in altra, come né ragionamenti addiviene, trapas sando,
caddero in sul ragionare delle orazioni che gli uomini fanno a Dio; e l'un de'
masnadieri, che erano tre, disse verso Rinaldo:
– E voi, gentile uomo,
che orazione usate di dir camminando? Al quale Rinaldo rispose:
– Nel vero io sono uomo
di queste cose assai materiale e rozzo, e poche orazioni ho per le mani, sì
come colui che mi vivo all'antica e lascio correr due soldi per ventiquattro
denari; ma nondimeno ho sempre avuto in costume camminando di dir la mattina,
quando esco dell'albergo, un paternostro e una avemaria per l'anima del padre e
della madre di san Giuliano, dopo il quale io priego Iddio e lui che la
seguente notte mi deano buono albergo. E assai volte già de' miei dì sono stato
camminando in gran pericoli, de' quali tutti scampato, pur sono la notte poi
stato in buon luogo e bene albergato; per che io porto ferma credenza che san
Giuliano, a cui onore io il dico, m'abbia questa grazia impetrata da Dio; né mi
parrebbe il dì ben potere andare, né dovere la notte vegnente bene arrivare,
che io non l'avessi la mattina detto.
A cui colui, che
domandato l'avea, disse:
– E istamane dicestel
voi?
A cui Rinaldo rispose:
– Sì bene.
Allora quegli che già
sapeva come andar doveva il fatto, disse seco medesimo: «Al bisogno ti fia
venuto; ché, se fallito non ci viene, per mio avviso tu albergherai pur male»;
e poi gli disse:
– Io similmente ho già
molto camminato, e mai nol dissi, quantunque io l'abbia a molti molto già udito
commendare, né giammai non m'avvenne che io per ciò altro che bene albergassi;
e questa sera per avventura ve ne potrete avvedere chi meglio albergherà, o voi
che detto l'avete o io che non l'ho detto. Bene è il vero che io uso in luogo
di quello il Dirupisti, o la 'Ntemerata, o il Deprofundi, che sono, secondo che
una mia avola mi soleva dire, di grandissima virtù.
E così di varie cose
parlando e al lor cammin procedendo, e aspettando luogo e tempo al loro
malvagio proponimento, avvenne che, essendo già tardi, di là da Castel
Guiglielmo, al valicare d'un fiume, questi tre, veggendo l'ora tarda e il luogo
solitario e chiuso, assalitolo, il rubarono, e lui a piè e in camicia lasciato,
partendosi dissero:
– Va e sappi se il tuo
san Giuliano questa notte ti darà buono albergo, ché il nostro il darà bene a
noi –; e, valicato il fiume, andaron via.
Il fante di Rinaldo
veggendolo assalire, come cattivo, niuna cosa al suo aiuto adoperò, ma, volto
il cavallo sopra il quale era, non si ritenne di correre sì fu a Castel
Guiglielmo, e in quello, essendo già sera, entrato, senza darsi altro impaccio,
albergò. Rinaldo rimaso in camicia e scalzo, essendo il freddo grande e
nevicando tuttavia forte, non sappiendo che farsi, veggendo già sopravvenuta la
notte, tremando e battendo i denti, cominciò a riguardare se dattorno alcun
ricetto si vedesse, dove la notte potesse stare, che non si morisse di freddo;
ma niun veggendone (per ciò che poco davanti essendo stata guerra nella
contrada v'era ogni cosa arsa), sospinto dalla freddura, trottando si dirizzò
verso Castel Guiglielmo, non sappiendo perciò che il suo fante là o altrove si
fosse fuggito, pensando, se dentro entrare vi potesse, qual che soccorso gli
manderebbe Iddio.
Ma la notte oscura il
soprapprese di lungi dal castello presso ad un miglio; per la quale cosa sì
tardi vi giunse che, essendo le porti serrate e i ponti levati, entrar non vi
potè dentro. Laonde, dolente e isconsolato, piagnendo guardava dintorno dove
porre si potesse, che almeno addosso non gli nevicasse; e per avventura vide
una casa sopra le mura del castello sportata alquanto in fuori, sotto il quale
sporto diliberò d'andarsi a stare infino al gior no; e là andatosene e sotto
quello sporto trovato un uscio, come che serrato fosse, a piè di quello
ragunato alquanto di pagliericcio che vicin v'era, tristo e dolente si pose a
stare, spesse volte dolendosi a san Giuliano, dicendo questo non essere della
fede che aveva in lui. Ma san Giuliano, avendo a lui riguardo, senza troppo
indugio gli apparecchiò buono albergo.
Egli era in questo
castello una donna vedova, del corpo bellissima quanto alcuna altra, la quale
il marchese Azzo amava quanto la vita sua, e quivi ad instanzia di sé la facea
stare. E dimorava la predetta donna in quella casa, sotto lo sporto della quale
Rinaldo s'era andato a dimorare. Ed era il dì dinanzi per avventura il marchese
quivi venuto per doversi la notte giacere con essolei, e in casa di lei
medesima tacitamente aveva fatto fare un bagno, e nobilmente da cena. Ed
essendo ogni cosa presta, e niun'altra cosa che la venuta del marchese era da
lei aspettata, avvenne che un fante giunse alla porta, il quale recò novelle al
marchese, per le quali a lui subitamente cavalcar convenne; per la qual cosa,
mandato a dire alla donna che non lo attendesse, prestamente andò via. Onde la
donna, un poco sconsolata, non sappiendo che farsi, deliberò d'entrare nel
bagno fatto per lo marchese, e poi cenare e andarsi al letto; e così nel bagno
se n'entrò. Era questo bagno vicino all'uscio dove il meschino Rinaldo s'era
accostato fuori della terra; per che, stando la donna nel bagno, sentì il
pianto e 'l tremito che Rinaldo faceva, il quale pareva diventato una cicogna.
Laonde, chiamata la sua fante, le disse:
– Va su e guarda fuor
del muro a piè di questo uscio chi v'è, e chi egli è, e quel ch'el vi fa. La
fante andò, e aiutandola la chiarità dell'aere, vide costui in camicia e scalzo
quivi sedersi come detto è, tremando forte; per che ella il domandò chi el
fosse. E Rinaldo, sì forte tremando che appena poteva le parole formare, chi el
fosse e come e perché quivi, quanto più brieve potè, le disse; e poi
pietosamente la cominciò a pregare che, se esser potesse, quivi non lo
lasciasse di freddo la notte morire.
La fante, divenutane
pietosa, tornò alla donna e ogni cosa le disse. La qual similmente pietà
avendone, ricordatasi che di quello uscio aveva la chiave, il quale alcuna
volta serviva alle occulte entrate del marchese, disse:
– Va, e pianamente gli
apri; qui è questa cena, e non saria chi mangiarla, e da poterlo albergare ci è
assai. La fante di questa umanità avendo molto commendata la donna, andò e sì
gli aperse, e dentro messolo, quasi assiderato veggendolo, gli disse la donna:
– Tosto, buono uomo,
entra in quel bagno, il quale ancora è caldo.
Ed egli questo, senza
più inviti aspettare, di voglia fece; e tutto dalla caldezza di quello
riconfortato, da morte a vita gli parve essere tornato. La donna gli fece
apprestare panni stati del marito di lei, poco tempo davanti morto, li quali
come vestiti s'ebbe, a suo dosso fatti parevano; e aspettando quello che la
donna gli comandasse, incominciò a ringraziare Iddio e san Giuliano che di sì
malvagia notte, come egli aspettava, l'avevano liberato, e a buono albergo, per
quello che gli pareva, condotto Appresso questo la donna alquanto riposatasi, avendo
fatto fare un grandissimo fuoco in una sua camminata, in quella se ne venne, e
del buono uomo domandò che ne fosse. A cui la fante rispose:
– Madonna, egli s'è
rivestito, ed è un bello uomo e par persona molto da bene e costumato. – Va
dunque, – disse la donna – e chiamalo, e digli che qua se ne venga al fuoco, e
sì cenerà, ché so che cenato non ha.
Rinaldo nella camminata
entrato, e veggendo la donna, e da molto parendogli, reverentemente la salutò,
e quelle grazie le quali seppe maggiori del beneficio fattogli le rende'. La
donna, vedutolo e uditolo, e parendole quello che la fante dicea, lietamente il
ricevette e seco al fuoco familiarmente il fè sedere e dello accidente che
quivi condotto l'avea il domandò. Alla quale Rinaldo per ordine ogni cosa
narrò.
Aveva la donna, nel
venire del fante di Rinaldo nel castello, di questo alcuna cosa sentita, per
che ella ciò che da lui era detto interamente credette; e sì gli disse ciò che
del suo fante sapeva e come leggiermente la mattina appresso ritrovare il
potrebbe. Ma poi che la tavola fu messa, come la donna volle, Rinaldo, con lei
insieme le mani lavatesi, si pose a cenare.
Egli era grande della
persona e bello e piacevole nel viso e di maniere assai laudevoli e graziose e
giovane di mezza età; al quale la donna avendo più volte posto l'occhio addosso
e molto commendatolo, e già, per lo marchese che con lei dovea venire a
giacersi, il concupiscibile appetito avendo desto nella mente, dopo la cena, da
tavola levatasi, colla sua fante si consigliò se ben fatto le paresse che ella,
poi che il marchese beffata l'avea, usasse quel bene che innanzi l'avea la
fortuna mandato. La fante, conoscendo il disiderio della sua donna, quanto potè
e seppe a seguirlo la confortò; per che la donna, al fuoco tornatasi, dove
Rinaldo solo lasciato aveva, cominciatolo amorosamente a guardare, gli disse:
– Deh, Rinaldo, perché
state voi così pensoso? Non credete voi potere essere ristorato d'un cavallo e
d'alquanti panni che voi abbiate perduti? Confortatevi, state lietamente, voi
siete in casa vostra; anzi vi voglio dire più avanti, che, veggendovi cotesti
panni in dosso, li quali del mio morto marito furono, parendomi voi pur desso,
m'è venuto stasera forse cento volte voglia d'abbracciarvi e di baciarvi; e, se
io non avessi temuto che dispiaciuto vi fosse, per certo io l'avrei fatto.
Rinaldo, queste parole
udendo e il lampeggiar degli occhi della donna veggendo, come colui che
mentecatto non era, fattolesi incontro colle braccia aperte, disse:
– Madonna, pensando che
io per voi possa omai sempre dire che io sia vivo, a quello guardando donde
torre mi faceste, gran villania sarebbe la mia se io ogni cosa che a grado vi
fosse non m'ingegnassi di fare; e però contentate il piacer vostro
d'abbracciarmi e di baciarmi, ché io abbraccerò e bacerò voi vie più che
volentieri.
Oltre a queste non
bisognar più parole. La donna, che tutta d'amoroso disio ardeva, prestamente
gli si gittò nelle braccia; e poi che mille volte, disiderosamente
strignendolo, baciato l'ebbe e altrettante da lui fu baciata, levatisi di
quindi, nella camera se n'andarono, e senza niuno indugio coricatisi,
pienamente e molte volte, anzi che il giorno venisse, i lor disii adempierono.
Ma poi che ad apparire cominciò l'aurora, sì come alla donna piacque, levatisi,
acciò che questa cosa non si potesse presummere per alcuno, datigli alcuni
panni assai cattivi ed empiutagli la borsa di denari, pregandolo che questo
tenesse celato, avendogli prima mostrato che via tener dovesse a venir dentro a
ritrovare il fante suo, per quello usciolo onde era entrato, il mise fuori.
Egli, fatto dì chiaro, mostrando di venire di più lontano, aperte le porti,
entrò nel castello e ritrovò il suo fante; per che, rivestitosi de' panni suoi
che nella valigia erano, e volendo montare in su 'l cavallo del fante, quasi
per divino miracolo addivenne che li tre masnadieri che la sera davanti rubato
l'aveano, per altro maleficio da loro fatto poco poi appresso presi, furono in
quel castello menati, e per confessione da loro medesimi fatta, gli fu restituito
il suo cavallo, i panni e i danari, né ne perdé altro che un paio di cintolini,
dei quali non sapevano i masnadieri che fatto se n'avessero.
Per la qual cosa
Rinaldo, Iddio e san Giuliano ringraziando, montò a cavallo e sano e salvo
ritornò a casa sua; e i tre masnadieri il dì seguente andarono a dar de' calci
a rovaio.
NOVELLA TERZA
Tre giovani, male il
loro avere spendendo, impoveriscono; dei quali un nepote con uno abate
accontatosi tornandosi a casa per disperato, lui truova essere la figliuola del
re d'lnghilterra, la quale lui per marito prende e de' suoi zii ogni danno
ristora, tornandogli in buono stato.
Furono con ammirazione
ascoltati i casi di Rinaldo d'Esti dalle donne e dà giovani, e la sua divozion
commendata, e Iddio e san Giuliano ringraziati, che al suo bisogno maggiore gli
avevano prestato soccorso. Né fu per ciò (quantunque cotal mezzo di nascoso si
dicesse) la donna reputata sciocca, che saputo aveva pigliare il bene che Iddio
a casa l'aveva mandato. E mentre che della buona notte che colei ebbe
sogghignando si ragionava, Pampinea, che sé allato allato a Filostrato vedea,
avvisando, sì come avvenne, che a lei la volta dovesse toccare, in sé stessa
recatasi, quel che dovesse dire cominciò a pensare; e dopo il comandamento della
reina, non meno ardita che lieta, così cominciò a parlare. Valorose donne,
quanto più si parla de' fatti della Fortuna, tanto più, a chi vuole le sue cose
ben riguardare, ne resta a poter dire; e di ciò niuno dee aver maraviglia, se
discretamente pensa che tutte le cose, le quali noi scioccamente nostre
chiamiamo, sieno nelle sue mani, e per conseguente da lei secondo il suo
occulto giudicio, senza alcuna posa d'uno in altro e d'altro in uno
successivamente, senza alcuno conosciuto ordine da noi, esser da lei permutate.
Il che, quantunque con piena fede in ogni cosa e tutto il giorno si mostri, e
ancora in alcune novelle di sopra mostrato sia, nondimeno, piacendo alla nostra
reina che sopra ciò si favelli, forse non senza utilità degli ascoltanti aggiugnerò
alle dette una mia novella, la quale avviso dovrà piacere.
Fu già nella nostra
città un cavaliere, il cui nome fu messer Tebaldo, il quale, secondo che alcuni
vogliono, fu de' Lamberti; e altri affermano lui essere stato degli Agolanti,
forse più dal mestiere de' figliuoli di lui poscia fatto, conforme a quello che
sempre gli Agolanti hanno fatto e fanno, prendendo argomento, che da altro. Ma,
lasciando stare di quale delle due case si fosse, dico che esso fu né suoi
tempi ricchissimo cavaliere, ed ebbe tre figliuoli, de' quali il primo ebbe
nome Lamberto, il secondo Tedaldo, e il terzo Agolante, già belli e leggiadri
giovani, quantunque il maggiore a diciotto anni non aggiugnesse, quando esso
messer Tebaldo ricchissimo venne a morte, e a loro, sì come a legittimi suoi
eredi, ogni suo bene e mobile e stabile lasciò.
Li quali, veggendosi
rimasi ricchissimi e di contanti e di possessioni, senza alcuno altro governo
che del loro medesimo piacere, senza alcuno freno o ritegno cominciarono a
spendere, tenendo grandissima famiglia e molti e buoni cavalli e cani e uccelli
e continuamente corte, donando e armeggiando, e faccendo ciò non solamente che
a gentili uomini s'appartiene, ma ancora quello che nello appetito loro
giovenile cadeva di voler fare. Né lungamente fecer cotal vita,che il tesoro
lasciato loro dal padre venne meno; e non bastando alle cominciate spese
seguire le loro rendite, cominciarono a impegnare e a vendere le possessioni; e
oggi l'una e doman l'altra vendendo, appena s'avvidero che quasi al niente
venuti furono, e aperse loro gli occhi la povertà, li quali la ricchezza aveva
tenuti chiusi.
Per la qual cosa
Lamberto, chiamati un giorno gli altri due, disse loro qual fosse l'orrevolezza
del padre stata e quanta la loro, e quale la lor ricchezza e chente la povertà
nella quale per lo disordinato loro spendere eran venuti; e, come seppe il
meglio, avanti che più della lor miseria apparisse, gli confortò con lui
insieme a vendere quel poco che rimaso era loro e andarsene via; e così fecero.
E, senza commiato chiedere o fare alcuna pompa, di Firenze usciti, non si
ritenner sì furono in Inghilterra; e quivi, presa in Londra una casetta,
faccendo sottilissime spese, agramente cominciarono a prestare ad usura; e sì
fu in questo loro favorevole la fortuna, che in pochi anni grandissima quantità
di denari avanzarono. Per la qual cosa con quelli, successivamente or l'uno or
l'altro a Firenze tornandosi, gran parte delle lor possessioni ricomperarono, e
molte dell'altre comperar sopra quelle, e presero moglie; e continuamente in
Inghilterra prestando, ad attendere a' fatti loro un giovane loro nepote, che
avea nome Alessandro, mandarono, ed essi tutti e tre a Firenze avendo
dimenticato a qual partito gli avesse lo sconcio spendere altra volta recati,
nonostante che in famiglia tutti venuti fossero, più che mai strabocchevolmente
spendevano ed erano sommamente creduti da ogni mercatante, e d'ogni gran
quantità di danari. Le quali spese alquanti anni aiutò loro sostenere la moneta
da Alessandro loro mandata, il quale messo s'era in prestare a' baroni sopra
castella e altre loro entrate, le quali di gran vantaggio bene gli
rispondevano. E mentre così i tre fratelli largamente spendeano, e mancando
denari accattavano, avendo sempre la speranza ferma in Inghilterra, avvenne
che, contro alla oppinion d'ogni uomo, nacque in Inghilterra una guerra tra il
re e un suo figliuolo, per la qual tutta l'isola si divise, e chi tenea con
l'uno e chi coll'altro; per la qual cosa furono tutte le castella de' baroni
tolte ad Alessandro, né alcuna altra rendita era che di niente gli rispondesse.
E sperandosi che di giorno in giorno tra 'l figliuolo e 'l padre dovesse esser
pace, e per conseguente ogni cosa restituita ad Alessandro, e merito e capitale,
Alessandro dell'isola non si partiva, e i tre fratelli, che in Firenze erano,
in niuna cosa le loro spese grandissime limitavano, ogni giorno più accattando.
Ma poi che in più anni
niuno effetto seguire si vide alla speranza avuta, li tre fratelli non solamente
la credenza perderono, ma, volendo coloro che aver doveano esser pagati, furono
subitamente presi; e non bastando al pagamento le lor possessioni, per lo
rimanente rimasono in prigione, e le lor donne e i figliuoli piccioletti qual
se ne andò in contado e qual qua e qual là assai poveramente in arnese, più non
sappiendo che aspettare si dovessono, se non misera vita sempre.
Alessandro, il quale in
Inghilterra la pace più anni aspettata avea, veggendo che ella non venia e
parendogli quivi non meno in dubbio della vita sua che invano dimorare, di
liberato di tornarsi in Italia, tutto soletto si mise in cammino. E per ventura
di Bruggia uscendo, vide n'usciva similmente uno abate bianco con molti monaci
accompagnato e con molta famiglia e con gran salmeria avanti, al quale appresso
venieno due cavalieri antichi e parenti del re, co' quali, sì come con
conoscenti, Alessandro accontatosi, da loro in compagnia fu volentieri
ricevuto. Camminando adunque Alessandro con costoro, dolcemente gli domandò chi
fossero i monaci che con tanta famiglia cavalcavano avanti e dove andassono. Al
quale l'uno de' cavalieri rispose:
– Questi che avanti
cavalca è un giovinetto nostro parente, nuovamente eletto abate d'una delle
maggior badie d'lnghilterra; e per ciò che egli è più giovane che per le leggi
non è conceduto a sì fatta dignità, andiam noi con esso lui a Roma ad impetrare
dal Santo Padre che nel difetto della troppo giovane età dispensi con lui, e
appresso nella dignità il confermi; ma ciò non si vuol con alcuno ragionare.
Camminando adunque il
novello abate ora avanti e ora appresso alla sua famiglia, sì come noi tutto il
giorno veggiamo per cammino avvenire de' signori, gli venne nel cammino presso
di sé veduto Alessandro, il quale era giovane assai, di persona e di viso
bellissimo, e, quanto alcuno altro esser potesse, costumato e piacevole e di
bella maniera; il quale maravigliosamente nella pri ma vista gli piacque quanto
mai alcuna altra cosa gli fosse piaciuta e, chiamatolo a sè, con lui cominciò
piacevolmente a ragionare e domandar chi fosse, donde venisse e dove andasse.
Al quale Alessandro ogni suo stato liberamente aperse e sodisfece alla sua
domanda e sé ad ogni suo servigio, quantunque poco potesse, offerse. L'abate,
udendo il suo ragionare bello e ordinato, e più partitamente i suoi costumi
considerando e lui seco estimando, come che il suo mestiere fosse stato
servile, essere gentile uomo, più del piacer di lui s'accese e, già pieno di
compassion divenuto delle sue sciagure, assai familiarmente il confortò e gli
disse che a buona speranza stesse, per ciò che, se valente uom fosse, ancora
Iddio il riporterebbe là onde la fortuna l'aveva gittato, e più ad alto; e
pregollo che, poi verso Toscana andava, gli piacesse d'essere in sua compagnia,
con ciò fosse cosa che esso là similmente andasse. Alessandro gli rendè grazie
del conforto e sé ad ogni suo comandamento disse esser presto.
Camminando adunque
l'abate, al quale nuove cose si volgean per lo petto del veduto Alessandro,
avvenne che dopo più giorni essi pervennero ad una villa, la quale non era
troppo riccamente fornita d'alberghi; e volendo quivi l'abate albergare,
Alessandro in casa d'uno oste, il quale assai suo dimestico era, il fece
smontare, e fecegli la sua camera fare nel meno disagiato luogo della casa; e
quasi già divenuto uno siniscalco dello abate, sì come colui che molto era
pratico, come il meglio si potè per la villa allogata tutta la sua famiglia chi
qua e chi là, avendo l'abate cenato e già essendo buona pezza di notte e ogni
uomo andato a dormire, Alessandro domandò l'oste là dove esso potesse dormire.
Al quale l'oste rispose:
– In verità io non so;
tu vedi che ogni cosa è pieno, e puoi veder me e la mia famiglia dormir su per
le panche; tuttavia nella camera dello abate sono certi granai, à quali io ti
posso menare e porrovvi su alcun letticello, e quivi, se ti piace, come meglio
puoi questa notte ti giaci.
A cui Alessandro disse:
– Come andrò io nella
camera dello abate, che sai che è piccola e per istrettezza non v'è potuto
giacere alcuno de' suoi monaci? Se io mi fossi di ciò accorto quando le cortine
si tesero, io avrei fatto dormire sopra i granai i monaci suoi e io mi sarei
stato dove i monaci dormono.
Al quale l'oste disse:
– L'opera sta pur così,
e tu puoi, se tu vuogli, quivi stare il meglio del mondo: l'abate dorme, e le
cortine son dinanzi; io vi ti porrò chetamente una coltricetta, e dormiviti.
Alessandro, veggendo che
questo si poteva fare senza da re alcuna noia allo abate, vi s'accordò, e
quanto più cheta mente potè vi s'acconciò.
L'abate, il quale non
dormiva, anzi alli suoi nuovi disii fieramente pensava, udiva ciò che l'oste e
Alessandro parlavano, e similmente avea sentito dove Alessandro s'era a giacer
messo; per che, seco stesso forte contento, cominciò a dire: – Iddio ha mandato
tempo a' miei desiri: se io nol prendo, per avventura simile a pezza non mi
tornerà.
E diliberatosi del tutto
di prenderlo, parendogli ogni cosa cheta per lo albergo, con sommessa voce
chiamò Alessandro e gli disse che appresso lui si coricasse; il quale, dopo
molte disdette spogliatosi, vi si coricò. L'abate postagli la mano sopra 'l
petto, lo 'ncominciò a toccare non altramenti che sogliano fare le vaghe
giovani i loro amanti; di che Alessandro si maravigliò forte e dubitò non forse
l'abate, da disonesto amore preso si movesse a così fattamente toccarlo. La
qual dubitazione, o per presunzione o per alcuno atto che Alessandro facesse,
subitamente l'abate conobbe, e sorrise; e prestamente di dosso una camicia, che
avea, cacciatasi, prese la mano d'Alessandro e quella sopra il petto si pose,
dicendo:
– Alessandro, caccia via
il tuo sciocco pensiero, e, cercando qui, conosci quello che io nascondo.
Alessandro, posta la
mano sopra il petto dello abate, trovò due poppelline tonde e sode e dilicate,
non altramenti che se d'avorio fossono state; le quali egli trovate e
conosciuto tantosto costei esser femina, senza altro invito aspettare,
prestamente abbracciatala, la voleva baciare, quando ella gli disse:
– Avanti che tu più mi
t'avvicini, attendi quello che io ti voglio dire. Come tu puoi conoscere, io
son femina e non uomo; e pulcella partitami da casa mia, al papa andava che mi
maritasse. O tua ventura o mia sciagura che sia, come l'altro giorno ti vidi,
sì di te m'accese Amore, che donna non fu mai che tanto amasse uomo; e per
questo io ho diliberato di volere te avanti che alcuno altro per marito; dove
tu me per moglie non vogli, tantosto di qui ti diparti e nel tuo luogo ritorna.
Alessandro, quantunque
non la conoscesse, avendo riguardo alla compagnia che ella avea, lei estimò
dovere essere nobile e ricca, e bellissima la vedea; per che, senza troppo
lungo pensiero, rispose che, se questo a lei piacea, a lui era molto a grado.
Essa allora, levatasi a
sedere in su il letto, davanti ad una tavoletta dove Nostro Signore era
effigiato, postogli in mano uno anello, gli si fece sposare; e appresso insieme
abbracciatisi, con gran piacere di ciascuna delle parti, quanto di quella notte
restava si sollazzarono. E, preso tra loro modo e ordine alli lor fatti, come
il giorno venne, Alessandro levatosi e per quindi della camera uscendo, donde
era entrato, senza sapere alcuno dove la notte dormito si fosse, lieto oltre
misura, con lo abate e con sua compagnia rientrò in cammino, e dopo molte
giornate pervennero a Roma.
E quivi, poi che alcun
dì dimorati furono, l'abate con li due cavalieri e con Alessandro senza più
entrarono al papa, e fatta la debita reverenza, così cominciò l'abate a
favellare:
– Santo padre, sì come
voi meglio che alcuno altro dovete sapere, ciascun che bene e onestamente vuol
vivere, dee, in quanto può, fuggire ogni cagione la quale ad altramenti fare il
potesse conducere; il che acciò che io, che onestamente viver disidero, potessi
compiutamente fare, nell'abito nel quale mi vedete, fuggita segretamente con
grandissima parte de' tesori del re d'lnghilterra mio padre (il quale al re di
Scozia vecchissimo signore, essendo io giovane come voi mi vedete, mi voleva
per moglie dare), per qui venire, acciò che la vostra santità mi maritasse, mi
misi in via. Né mi fece tanto la vecchiezza del re di Scozia fuggire, quanto la
paura di non fare per la fragilità della mia giovanezza, se a lui maritata
fossi, cosa che fosse contra le divine leggi e contra l'onore del real sangue
del padre mio.
E così disposta venendo,
Iddio, il quale solo ottimamente conosce ciò che fa mestiere a ciascuno, credo
per la sua misericordia, colui che a lui piacea che mio marito fosse mi pose
avanti agli occhi; e quel fu questo giovane – e mostrò Alessandro – il quale
voi qui appresso di me vedete, li cui costumi e il cui valore son degni di
qualunque gran donna, quantunque forse la nobiltà del suo sangue non sia così
chiara come è la reale. Lui ho adunque preso e lui voglio; né mai alcuno altro
n'avrò, che che se ne debba parere al padre mio o ad altrui. Per che la
principal cagione per la quale mi mossi è tolta via; ma piacquemi di fornire il
mio cammino, sì per visitare li santi luoghi e reverendi, de' quali questa città
è piena, e la vostra santità, e sì acciò che per voi il contratto matrimonio
tra Alessandro e me solamente nella presenza di Dio io facessi aperto nella
vostra e per conseguente degli altri uomini. Per che umilemente vi priego che
quello che a Dio e a me è piaciuto sia a grado a voi, e la vostra benedizion ne
doniate, acciò che con quella, sì come con più certezza del piacere di Colui
del quale voi siete vicario, noi possiamo insieme, all'onore di Dio ed al
vostro, vivere e ultimamente morire.
Maravigliossi
Alessandro, udendo la moglie esser figliuola del re d'lnghilterra, e di
mirabile allegrezza occulta fu ripieno; ma più si maravigliarono li due
cavalieri e sì si turbarono che, se in altra parte che davanti al papa stati
fossero, avrebbono ad Alessandro e forse alla donna fatta villania. D'altra
parte il papa si maravigliò assai e dello abito della donna e della sua
elezione; ma, conoscendo che indietro tornare non si potea, la volle del suo
priego sodisfare. E primieramente, racconsolati i cavalieri li quali turbati
conoscea e in buona pace con la donna e con Alessandro rimessigli, diede ordine
a quello che da far fosse.
E il giorno posto da lui
essendo venuto, davanti a tutti i cardinali e dimolti altri gran valenti
uomini, li quali invitati ad una grandissima festa da lui apparecchiata eran
venuti, fece venire la donna realmente vestita, la qual tanto bella e sì
piacevol parea che meritamente da tutti era commendata e simigliantemente
Alessandro splendidamente vestito, in apparenza e in costurni non miga giovane
che ad usura avesse prestato, ma più tosto reale e da' due cavalieri molto
onorato; e quivi da capo fece solennemente le sponsalizie celebrare, e appresso
le nozze belle e magnifiche fatte, colla sua benedizione gli licenziò.
Piacque ad Alessandro e
similmente alla donna, di Roma partendosi, di venire a Firenze, dove già la
fama aveva la novella recata; e quivi, da' cittadini con sommo onore ricevuti,
fece la donna li tre fratelli liberare, avendo prima fatto ogni uom pagare, e
loro e le lor donne rimise nelle lor possessioni. Per la qual cosa, con buona
grazie di tutti, Alessandro con la sua donna, menandone seco Agolante, si partì
di Firenze, e a Parigi venuti, onorevolmente dal re ricevuti furono. Quindi
andarono i due cavalieri in Inghilterra e tanto col re adoperarono, che egli le
rende'la grazia sua e con grandissima festa lei e 'l suo genero ricevette, il
quale egli poco appresso con grandissimo onore fè cavaliere e donogli la contea
di Cornovaglia.
Il quale fu da tanto e
tanto seppe fare, che egli paceficò il figliuolo col padre, di che seguì gran
bene all'isola, ed egli n'acquistò l'amore e la grazia di tutti i paesani; e
Agolante ricoverò tutto ciò che aver vi doveano interamente e ricco oltre modo
si tornò a Firenze, avendol prima il conte Alessandro cavalier fatto. Il conte
poi con la sua donna gloriosamente visse; e, secondo che alcuni voglion dire,
tra col suo senno e valore e l'aiuto del suocero, egli conquistò poi la Scozia
e funne re coronato.
NOVELLA QUARTA
Landolfo Rufolo,
impoverito, divien corsale e da' Genovesi preso, rompe in mare, e sopra una
cassetta, di gioie carissime piena, scampa, e in Gurfo ricevuto da una femina,
ricco si torna a casa sua.
La Lauretta appresso
Pampinea sedea, la qual veggendo lei al glorioso fine della sua novella, senza
altro aspettare, a parlar cominciò in cotal guisa. Graziosissime donne, niuno
atto della Fortuna, secondo il mio giudicio, si può veder maggiore, che vedere
uno d'infima miseria a stato reale elevare, come la novella di Pampinea n'ha
mostrato essere al suo Alessandro addivenuto. E per ciò che a qualunque della
proposta materia da quinci innanzi novellerà converrà che infra questi termini
dica, non mi vergognerò io di dire una novella, la quale, ancora che miserie maggiori
in sé contenga, non per ciò abbia così splendida riuscita. Ben so che, pure a
quella avendo riguardo, con minor diligenzia fia la mia udita; ma altro non
potendo, sarò scusata. Credesi che la marina da Reggio a Gaeta sia quasi la più
dilettevole parte d'ltalia; nella quale assai presso a Salerno e una costa
sopra 'l mare riguardante, la quale gli abitanti chiamano la costa d'Amalfi,
piena di picciole città, di giardini e di fontane, e d'uomini ricchi e
procaccianti in atto di mercatantia sì come alcuni altri. Tra le quali città
dette n'è una chiamata Ravello, nella quale, come che oggi v'abbia di ricchi
uomini, ve n'ebbe già uno il quale fu ricchissimo, chiamato Landolfo Rufolo; al
quale non bastando la sua ricchezza, disiderando di raddoppiarla, venne presso
che fatto di perder con tutta quella sé stesso.
Costui adunque, sì come
usanza suole essere de' mercatanti, fatti suoi avvisi, comperò un grandissimo
legno, e quello tutto di suoi denari caricò di varie mercatantie e andonne con
esse in Cipri. Quivi, con quelle qualità medesime di mercatantie che egli aveva
portate, trovò essere più altri legni venuti; per la qual cagione, non
solamente gli convenne far gran mercato di ciò che portato avea, ma quasi, se
spacciar volle le cose sue, gliele convenne gittar via; laonde egli fu vicino
al disertarsi. E portando egli di questa cosa seco grandissima noia, non
sappiendo che farsi e veggendosi di ricchissimo uomo in brieve tempo quasi
povero divenuto, pensò o morire o rubando ristorare i danni suoi, acciò che la
onde ricco partito s'era povero non tornasse. E, trovato comperatore del suo
gran legno, con quegli denari e con gli altri che della sua mercatantia avuti
avea, comperò un legnetto sottile da corseggiare, e quello d'ogni cosa
opportuna a tal servigio armò e guernì ottimamente, e diessi a far sua della
roba d'ogni uomo, e massimamente sopra i turchi.
Al qual servigio gli fu
molto più la fortuna benivola che alla mercatantia stata non era. Egli, forse
infra uno anno, rubò e prese tanti legni di turchi, che egli si trovò non
solamente avere racquistato il suo che in mercatantia avea perduto, ma di gran
lunga quello avere raddoppiato. Per la qual cosa, gastigato dal primo dolore
della perdita, conoscendo che egli aveva assai per non incappar nel secondo, a
sé medesimo dimostrò quello che aveva, senza voler più, dovergli bastare; e per
ciò si dispose di tornarsi con esso a casa sua. E pauroso della mercatantia,
non s'mpacciò d'investire altramenti i suoi denari, ma con quello legnetto col
quale guadagnati gli avea, dato de' remi in acqua, si mise al ritornare. E già
nello Arcipelago venuto, levandosi la sera uno scilocco, il quale non solamente
era contrario al suo cammino, ma ancora faceva grossissimo il mare, il quale il
suo picciol legno non avrebbe bene potuto comportare, in uno seno di mare, il
quale una piccola isoletta faceva, da quello vento coperto, si raccolse, quivi
proponendo d'aspettar lo migliore. Nel qual seno poco stante due gran cocche di
genovesi, le quali venivano di Costantinopoli, per fuggire quello che Landolfo
fuggito avea, con fatica pervennero. Le genti delle quali, veduto il legnetto e
chiusagli la via da potersi partire, udendo di cui egli era e già per fama
conoscendol ricchissimo, sì come uomini naturalmente vaghi di pecunia e rapaci,
a doverlo avere si disposero. E messa in terra parte della lor gente con
balestra e bene armata, in parte la fecero andare che del legnetto niuna
persona, sé saettato esser non voleva, poteva discendere; ed essi, fattisi
tirare a' paliscalmi e aiutati dal mare, s'accostarono al picciol legno di
Landolfo, e quello con picciola fatica in picciolo spazio, con tutta la ciurma,
senza perderne uomo, ebbero a man salva; e fatto venire sopra l'una delle lor
cocche Landolfo e ogni cosa del legnetto tolta, quello sfondolarono, lui in un
povero farsettino ritenendo.
Il dì seguente, mutatosi
il vento, le cocche ver ponente venendo fer vela: e tutto quel dì prosperamente
vennero al loro viaggio; ma nel far della sera si mise un vento tempestoso, il
qual faccendo i mari altissimi, divise le due cocche l'una dall'altra. E per
forza di questo vento addivenne che quella sopra la quale era il misero e
povero Landolfo, con grandissimo impeto di sopra all'isola di Cifalonia
percosse in una secca e, non altramenti che un vetro percosso ad un muro tutta
s'aperse e si stritolò; di che i miseri dolenti che sopra quella erano, essendo
già il mare tutto pieno di mercatantie che notavano e di casse e di tavole,
come in così fatti casi suole avvenire, quantunque oscurissima notte fosse e il
mare grossissimo e gonfiato, notando quelli che notar sapevano,
s'incominciarono ad appiccare a quelle cose che per ventura loro si paravan
davanti.
Intra li quali il misero
Landolfo, ancora che molte volte il dì davanti la morte chiamata avesse, seco
eleggendo di volerla più tosto che di tornare a casa sua povero come si vedea,
vedendola presta n'ebbe paura; e, come gli altri, venutagli alle mani una
tavola, a quella s'appicco', se forse Iddio, indugiando egli l'affogare, gli
mandasse qualche aiuto allo scampo suo; e a cavallo a quella, come meglio
poteva, veggendosi sospinto dal mare e dal vento ora in qua e ora in là, si
sostenne infino al chiaro giorno. Il quale venuto, guardandosi egli d'attorno,
niuna cosa altro che nuvoli e mare vedea, e una cassa la quale sopra l'onde del
mare notando talvolta con grandissima paura di lui gli s'appressava, temendo
non quella cassa forse il percotesse per modo che gli noiasse; e sempre che
presso gli venia, quanto potea con mano, come che poca forza n'avesse, la
lontanava. Ma, come che il fatto s'andasse, avvenne che, solutosi subitamente
nell'aere un groppo di vento e percosso nel mare, sì grande in questa cassa
diede e la cassa nella tavola sopra la quale Landolfo era, che, riversata, per
forza Landolfo lasciatola andò sotto l'onde e ritornò suso notando, più da
paura che da forza aiutato, e vide da se molto dilungata la tavola; per che,
temendo non potere ad essa pervenire, s'appressò alla cassa la quale gli era
assai vicina, e sopra il coperchio di quella posto il petto, come meglio
poteva, colle braccia la reggeva diritta. E in questa maniera, gittato dal mare
ora in qua e ora in là, senza mangiare, sì come colui che non aveva che, e
bevendo più che non avrebbe voluto, senza sapere ove si fosse o vedere altro
che mare, dimorò tutto quel giorno e la notte vegnente.
Il dì seguente appresso,
o piacer di Dio o forza di vento che 'l facesse, costui divenuto quasi una
spugna, tenendo forte con amendue le mani gli orli della cassa a quella guisa
che far veggiamo a coloro che per affogar sono, quando prendono alcuna cosa,
pervenne al lito dell'isola di Gurfo, dove una povera feminetta per ventura
suoi stovigli con la rena e con l'acqua salsa lavava e facea belli. La quale,
come vide costui avvicinarsi, non conoscendo in lui alcuna forma, dubitando e
gridando si trasse indietro.
Questi non potea
favellare e poco vedea, e perciò niente le disse; ma pure, mandandolo verso la
terra il mare, costei conobbe la forma della cassa, e più sottilmente guardando
e vedendo, conobbe primieramente le braccia stese sopra la cassa, quindi
appresso ravvisò la faccia e quello essere che era s'imaginò. Per che, da
compassion mossa, fattasi alquanto per lo mare, che già era tranquillo, e per
li capelli presolo, con tutta la cassa il tiro in terra, e quivi con fatica le
mani dalla cassa sviluppatogli, e quella posta in capo ad una sua figlioletta
che con lei era, lui come un picciol fanciullo ne portò nella terra, e in una
stufa messolo, tanto lo stropicciò e con acqua calda lavo che in lui ritornò lo
smarrito calore e alquante delle perdute forze; e quando tempo le parve
trattonelo, con alquanto di buon vino e di confetto il riconforto, e alcun
giorno, come potè il meglio, il tenne, tanto che esso, le forze recuperate,
conobbe la dove era. Per che alla buona femina parve di dovergli la sua cassa
rendere, la quale salvata gli avea, e di dirgli che omai procacciasse sua
ventura, e così fece.
Costui, che di cassa non
si ricordava, pur la prese, presentandogliele la buona femina, avvisando quella
non potere sì poco valere che alcun dì non gli facesse le spese; e trovandola
molto leggiera, assai manco della sua speranza. Nondimeno, non essendo la buona
femina in casa, la sconficcò per vedere che dentro vi fosse, e trovò in quella
molte preziose pietre, e legate e sciolte, delle quali egli alquanto
s'intendea; le quali veggendo e di gran valore conoscendole, lodando Iddio che
ancora abbandonare non l'avea voluto, tutto si riconfortò. Ma, si come colui
che in picciol tempo fieramente era stato balestrato dalla fortuna due volte,
dubitando della terza, pensò convenirgli molta cautela avere a voler quelle
cose poter conducere a casa sua; per che in alcuni stracci, come meglio potè,
ravvoltole, disse alla buona femina che più di cassa non avea bisogno, ma che,
se le piacesse, un sacco gli donasse e avessesi quella.
La buona femina il fece
volentieri; e costui, rendutele quelle grazie le quali poteva maggiori del
beneficio da lei ricevuto, recatosi suo sacco in collo, da lei si partì, e
montato sopra una barca, passò a Brandizio, e di quindi, marina marina, si
condusse infino a Trani, dove trovati de' suoi cittadini li quali eran
drappieri, quasi per l'amor di Dio fu da loro rivestito, avendo esso già loro
tutti li suoi accidenti narrati, fuori che della cassa; e oltre a questo,
prestatogli cavallo e datogli compagnia, infino a Ravello, dove del tutto
diceva di voler tornare, il rimandarono. Quivi parendogli essere sicuro,
ringraziando Iddio che condotto ve l'avea, sciolse il suo sacchetto, e con più
diligenzia cercata ogni cosa che prima fatto non avea, trovò sé avere tante e
sì fatte pietre che, a convenevole pregio vendendole e ancor meno, egli era il
doppio più ricco che quando partito s'era. E trovato modo di spacciare le sue
pietre, infino a Gurfo mandò una buona quantità di denari, per merito del
servigio ricevuto, alla buona femina che di mare l'avea tratto, e il
simigliante fece a Trani a coloro che rivestito l'aveano; e il rimanente, senza
più volere mercatare, si ritenne e onorevolmente visse infino alla fine.
NOVELLA QUINTA
Andreuccio da Perugia,
venuto a Napoli a comperar cavalli, in una notte da tre gravi accidenti
soprapreso, da tutti scampato con un rubino si torna a casa sua.
Le pietre da Landolfo
trovate – cominciò la Fiammetta, alla quale del novellar toccava – m'hanno alla
memoria tornata una novella non guari meno di pericoli in sé contenente che la
narrata dalla Lauretta, ma in tanto differente da essa, in quanto quegli forse
in più anni e questi nello spazio d'una sola notte addivennero, come udirete.
Fu, secondo che io già
intesi, in Perugia un giovane il cui nome era Andreuccio di Pietro, cozzone di
cavalli; il quale, avendo inteso che a Napoli era buon mercato di cavalli,
messisi in borsa cinquecento fiorin d'oro, non essendo mai più fuori di casa
stato, con altri mercatanti là se n'andò: dove giunto una domenica sera in sul
vespro, dall'oste suo informato la seguente mattina fu in sul Mercato, e molti
ne vide e assai ne gli piacquero e di più e più mercato tenne, né di niuno
potendosi accordare, per mostrare che per comperar fosse, sì come rozzo e poco
cauto più volte in presenza di chi andava e di chi veniva trasse fuori questa
sua borsa de' fiorini che aveva. E in questi trattati stando, avendo esso la
sua borsa mostrata, avvenne che una giovane ciciliana bellissima, ma disposta
per piccol pregio a compiacere a qualunque uomo, senza vederla egli, passò
appresso di lui e la sua borsa vide e subito seco disse: – Chi starebbe meglio
di me se quegli denari fosser miei? – e passò oltre.
Era con questa giovane
una vecchia similmente ciciliana, la quale, come vide Andreuccio, lasciata
oltre la giovane andare, affettuosamente corse a abbracciarlo: il che la
giovane veggendo, senza dire alcuna cosa, da una delle parti la cominciò a
attendere. Andreuccio, alla vecchia rivoltosi e conosciutala, le fece gran
festa, e promettendogli essa di venire a lui all'albergo, senza quivi tenere
troppo lungo sermone, si partì: e Andreuccio si tornò a mercatare ma niente
comperò la mattina.
La giovane, che prima la
borsa d'Andreuccio e poi la contezza della sua vecchia con lui aveva veduta,
per tentare se modo alcuno trovar potesse a dovere aver quelli denari, o tutti
o parte, cautamente incominciò a domandare chi colui fosse o donde e che quivi
facesse e come il conoscesse. La quale ogni cosa così particularmente de' fatti
d'Andreuccio le disse come avrebbe per poco detto egli stesso, sì come colei
che lungamente in Cicilia col padre di lui e poi a Perugia dimorata era, e
similmente le contò dove tornasse e perché venuto fosse.
La giovane, pienamente
informata e del parentado di lui e de' nomi, al suo appetito fornire con una
sottil malizia, sopra questo fondò la sua intenzione, e a casa tornatasi, mise
la vecchia in faccenda per tutto il giorno acciò che a Andreuccio non potesse
tornare; e presa una sua fanticella, la quale essa assai bene a così fatti
servigi aveva ammaestrata, in sul vespro la mandò all'albergo dove Andreuccio
tornava. La qual, quivi venuta, per ventura lui medesimo e solo trovò in su la
porta e di lui stesso il domandò. Alla quale dicendole egli che era desso,
essa, tiratolo da parte, disse:
– Messere, una gentil
donna di questa terra, quando vi piacesse, vi parleria volentieri.
Il quale ve vedendola,
tutto postosi mente e parendogli essere un bel fante della persona, s'avvisò
questa donna dover di lui essere innamorata, quasi altro bel giovane che egli
non si trovasse allora in Napoli, e prestamente rispose che era apparecchiato e
domandolla dove e quando questa donna parlargli volesse. A cui la fanticella
rispose:
– Messere, quando di
venir vi piaccia, ella v'attende in casa sua.
Andreuccio presto, senza
alcuna cosa dir nell'albergo, disse:
– Or via mettiti avanti,
io ti verrò appresso.
Laonde la fanticella a
casa di costei il condusse, la quale dimorava in una contrada chiamata
Malpertugio, la quale quanto sia onesta contrada il nome medesimo il dimostra.
Ma esso, niente di ciò sappiendo né suspicando, credendosi in uno onestissimo
luogo andare e a una cara donna, liberamente, andata la fanticella avanti, se
n'entrò nella sua casa; e salendo su per le scale, avendo la fanticella già sua
donna chiamata e detto – Ecco Andreuccio, –, la vide in capo della scala farsi
a aspettarlo.
Ella era ancora assai
giovane, di persona grande e con bellissimo viso, vestita e ornata assai orrevolemente;
alla quale come Andreuccio fu presso, essa incontrogli da tre gradi discese con
le braccia aperte, e avvinghiatogli il collo alquanto stette senza alcuna cosa
dire, quasi da soperchia tenerezza impedita; poi lagrimando gli basciò la
fronte e con voce alquanto rotta disse:
– O Andreuccio mio, tu
sii il ben venuto!
Esso, maravigliandosi di
così tenere carezze, tutto stupefatto rispose:
– Madonna, voi siate la
ben trovata!
Ella appresso, per la
man presolo, suso nella sua sala il menò e di quella, senza alcuna cosa
parlare, con lui nella sua camera se n'entrò, la quale di rose, di fiori
d'aranci e d'altri odori tutta oliva, là dove egli un bellissimo letto
incortinato e molte robe su per le stanghe, secondo il costume di là, e altri
assai belli e ricchi arnesi vide; per le quali cose, sì come nuovo, fermamente
credette lei dovesse essere non men che gran donna. E postisi a sedere insieme
sopra una cassa che appiè del suo letto era, così gli cominciò a parlare:
– Andreuccio, io sono
molto certa che tu ti maravigli e delle carezze le quali io ti fo e delle mie
lagrime, sì come colui che non mi conosci e per avventura mai ricordar non
m'udisti. Ma tu udirai tosto cosa la quale più ti farà forse maravigliare, sì
come è che io sia tua sorella; e dicoti che, poi che Idio m'ha fatta tanta
grazia che io anzi la mia morte ho veduto alcuno de' miei fratelli, come che io
disideri di vedervi tutti, io non morrò a quella ora che io consolata non
muoia. E se tu forse questo mai più non udisti, io tel vo' dire. Pietro, mio
padre e tuo, come io credo che tu abbi potuto sapere, dimorò lungamente in
Palermo, e per la sua bontà e piacevolezza vi fu e è ancora da quegli che il
conobbero amato assai. Ma tra gli altri che molto l'amarono, mia madre, che
gentil donna fu e allora era vedova, fu quella che più l'amò, tanto che, posta
giù la paura del padre e de' fratelli e il suo onore, in tal guisa con lui si
dimesticò, che io ne nacqui e sonne qual tu mi vedi.
Poi, sopravenuta cagione
a Pietro di partirsi di Palermo e tornare in Perugia, me con la mia madre
piccola fanciulla lasciò, né mai, per quello che io sentissi, più né di me né
di lei si ricordò: di che io, se mio padre stato non fosse, forte il
riprenderei avendo riguardo alla ingratitudine di lui verso mia madre mostrata
(lasciamo stare allo amore che a me come a sua figliola non nata d'una fante né
di vil femina dovea portare), la quale le sue cose e sé parimente, senza sapere
altrimenti chi egli si fosse, da fedelissimo amor mossa rimise nelle sue mani.
Ma che è?. Le cose mal fatte e di gran tempo passate sono troppo più agevoli a
riprendere che a emendare: la cosa andò pur così. Egli mi lasciò piccola
fanciulla in Palermo, dove, cresciuta quasi come io mi sono, mia madre, che ricca
donna era, mi diede per moglie a uno da Gergenti, gentile uomo e da bene, il
quale per amor di mia madre e di me tornò a stare a Palermo; e quivi, come
colui che è molto guelfo cominciò a avere alcuno trattato col nostro re Carlo.
Il quale, sentito dal re Federigo prima che dare gli si potesse effetto, fu
cagione di farci fuggire di Cicilia quando io aspettava essere la maggior
cavalleressa che mai in quella isola fosse; donde, prese quelle poche cose che
prender potemmo (poche dico per rispetto alle molte le quali avavamo), la
sciate le terre e li palazzi, in questa terra ne rifuggimmo, dove il re Carlo
verso di noi trovammo sì grato che, ristoratici in parte li danni li quali per
lui ricevuti avavamo, e possessioni e case ci ha date, e dà continuamente al
mio marito, e tuo cognato che è, buona provisione, sì come tu potrai ancor
vedere. E in questa maniera son qui, dove io, la buona mercé di Dio e non tua,
fratel mio dolce, ti veggio.
E così detto, da capo il
rabbracciò e ancora teneramente lagrimando gli basciò la fronte.
Andreuccio, udendo
questa favola così ordinatamente, così compostamente detta da costei, alla
quale in niuno atto moriva la parola tra' denti né balbettava la lingua, e
ricordandosi esser vero che il padre era stato in Palermo e per se medesimo de'
giovani conoscendo i costumi, che volentieri amano nella giovanezza, e veggendo
le tenere lagrime, gli abbracciari e gli onesti basci, ebbe ciò che ella diceva
più che per vero: e poscia che ella tacque, le rispose:
– Madonna, egli non vi dee
parer gran cosa se io mi maraviglio: per ciò che nel vero, o che mio padre, per
che che egli sel facesse, di vostra madre e di voi non ragionasse giammai, o
che, se egli ne ragionò, a mia notizia venuto non sia, io per me niuna
coscienza aveva di voi se non come se non foste; e emmi tanto più caro l'avervi
qui mia sorella trovata, quanto io ci sono più solo e meno questo sperava. E
nel vero io non conosco uomo di sì alto affare al quale voi non doveste esser
cara, non che a me che un picciolo mercatante sono. Ma d'una cosa vi priego mi
facciate chiaro: come sapeste voi che io qui fossi?»
Al quale ella rispose: –
Questa mattina mel fè sapere una povera femina la qual molto meco si ritiene,
per ciò che con nostro padre, per quello che ella mi dica, lungamente e in
Palermo e in Perugia stette, e se non fosse che più onesta cosa mi parea che tu
a me venissi in casa tua che io a te nell'altrui, egli ha gran pezza che io a
te venuta sarei.
Appresso queste parole
ella cominciò distintamente a domandare di tutti i suoi parenti nominatamente,
alla quale di tutti Andreuccio rispose, per questo ancora più credendo quello
che meno di creder gli bisognava. Essendo stati i ragionamenti lunghi e il
caldo grande, ella fece venire greco e confetti e fè dar bere a Andreuccio; il
quale dopo questo partir volendosi, per ciò che ora di cena era, in niuna guisa
il sostenne, ma sembiante fatto di forte turbarsi abbracciandol disse:
– Ahi lassa me, ché
assai chiaro conosco come io ti sia poco cara! Che è a pensare che tu sii con
una tua sorella mai più da te non veduta, e in casa sua, dove, qui venendo,
smontato esser dovresti, e vogli di quella uscire per andare a cenare
all'albergo? Di vero tu cenerai con esso meco: e perché mio marito non ci sia,
di che forte mi grava, io ti saprò bene secondo donna fare un poco d'onore.
Alla quale Andreuccio,
non sappiendo altro che rispondersi, disse:
– Io v'ho cara quanto
sorella si dee avere, ma se io non ne vado, io sarò tutta sera aspettato a cena
e farò villania. Ed ella allora disse:
– Lodato sia Idio, se io
non ho in casa per cui mandare a dire che tu non sii aspettato! benché tu
faresti assai maggior cortesia, e tuo dovere, mandare a dire a' tuoi compagni
che qui venissero a cenare, e poi, se pure andare te ne volessi, ve ne potresti
tutti andar di brigata. Andreuccio rispose che de' suoi compagni non volea
quella sera, ma, poi che pure a grado l'era, di lui facesse il piacer suo. Ella
allora fè vista di mandare a dire all'albergo che egli non fosse atteso a cena;
e poi, dopo molti altri ragionamenti, postisi a cena e splendidamente di più
vivande serviti, astutamente quella menò per lunga infino alla notte obscura;
ed essendo da tavola levati e Andreuccio partir volendosi, ella disse che ciò
in niuna guisa sofferrebbe, per ciò che Napoli non era terra da andarvi per
entro di notte, e massimamente un forestiere; e che come che egli a cena non
fosse atteso aveva mandato a dire, così aveva dello albergo fatto il
somigliante. Egli, questo credendo e dilettandogli, da falsa credenza ingannato,
d'esser con costei, stette. Furono adunque dopo cena i ragionamenti molti e
lunghi non senza cagione tenuti; e essendo della notte una parte passata, ella,
lasciato Andreuccio a dormire nella sua camera con un piccol fanciullo che gli
mostrasse se egli volesse nulla, con le sue femine in un'altra camera se
n'andò.
Era il caldo grande: per
la qual cosa Andreuccio, veggendosi solo rimasto, subitamente si spogliò in
farsetto e trassesi i panni di gamba e al capo del letto gli si pose; e
richiedendo il naturale uso di dovere diporre il superfluo peso del ventre,
dove ciò si facesse domandò quel fanciullo, il quale nell'uno de' canti della
camera gli mostrò uno uscio e disse:
– Andate là entro.
Andreuccio dentro
sicuramente passato, gli venne per ventura posto il piè sopra una tavola, la
quale dalla contraposta parte sconfitta dal travicello sopra il quale era; per
la qual cosa capolevando questa tavola con lui insieme se n'andò quindi giuso:
e di tanto l'amò Idio, che niuno male si fece nella caduta, quantunque alquanto
cadesse da alto, ma tutto della bruttura, della quale il luogo era pieno,
s'imbrattò. Il quale luogo, acciò che meglio intendiate e quello che è detto e
ciò che segue, come stesse vi mostrerò. Egli era in un chiassetto stretto, come
spesso tra due case veggiamo: sopra due travicelli, tra l'una casa e l'altra
posti, alcune tavole eran confitte e il luogo da seder posto, delle quali
tavole quella che con lui cadde era l'una.
Ritrovandosi adunque là
giù nel chiassetto Andreuccio, dolente del caso, cominciò a chiamare il
fanciullo; ma il fanciullo, come sentito l'ebbe cadere, così corse a dirlo alla
donna. La quale, corsa alla sua camera, prestamente cercò se i suoi panni
v'erano; e trovati i panni e con essi i denari, li quali esso non fidandosi
mattamente sempre portava addosso, avendo quello a che ella di Palermo,
sirocchia d'un perugin faccendosi, aveva teso il lacciuolo, più di lui non
curandosi prestamente andò a chiuder l'uscio del quale egli era uscito quando
cadde. Andreuccio, non rispondendogli il fanciullo, cominciò più forte a
chiamare: ma ciò era niente. Per che egli, già sospettando e tardi dello
inganno cominciandosi a accorgere salito sopra un muretto che quello
chiassolino dalla strada chiudea e nella via disceso, all'uscio della casa, il
quale egli molto ben riconobbe, se n'andò, e quivi invano lungamente chiamò e
molto il dimenò e percosse. Di che egli piagnendo, come colui che chiara vedea
la sua disavventura, cominciò a dire:
– Oimè lasso, in come
piccol tempo ho io perduti cinquecento fiorini e una sorella!
E dopo molte altre
parole, da capo cominciò a battere l'uscio e a gridare; e tanto fece così che
molti de' circunstanti vicini, desti, non potendo la noia sofferire, si
levarono; e una delle servigiali della donna, in vista tutta sonnocchiosa,
fattasi alla finestra proverbiosamente disse:
– Chi picchia là giù?
– Oh! – disse Andreuccio
– o non mi conosci tu? Io sono Andreuccio, fratello di madama Fiordaliso. Al
quale ella rispose: – Buono uomo, se tu hai troppo bevuto, va dormi e tornerai
domattina; io non so che Andreuccio né che ciance son quelle che tu dì; va in
buona ora e lasciaci dormir, se ti piace.
– Come, – disse
Andreuccio – non sai che io mi dico? Certo sì sai; ma se pur son così fatti i
parentadi di Cicilia, che in sì piccol termine si dimentichino, rendimi almeno
i panni miei li quali lasciati v'ho, e io m'andrò volentier con Dio.
Al quale ella quasi
ridendo disse:
– Buono uomo, e' mi par
che tu sogni, –, e il dir questo e il tornarsi dentro e chiuder la finestra fu
una cosa. Di che Andreuccio, già certissimo de' suoi danni, quasi per doglia fu
presso a convertire in rabbia la sua grande ira e per ingiuria propose di
rivolere quello che per parole riaver non potea; per che da capo, presa una
gran pietra, con troppi maggior colpi che prima fieramente cominiciò a
percuotere la porta. La qual cosa molti de' vicini avanti destisi e levatisi,
credendo lui essere alcuno spiacevole il quale queste parole fingesse per
noiare quella buona femina, recatosi a noia il picchiare il quale egli faceva,
fattisi alle finestre, non altramenti che a un can forestiere tutti quegli
della contrada abbaiano adosso, cominciarono a dire:
– Questa è una gran
villania a venire a questa ora a casa le buone femine e dire queste ciance;
deh! va con Dio, buono uomo; lasciaci dormir, se ti piace; e se tu hai nulla a
far con lei, tornerai domane, e non ci dar questa seccaggine stanotte.
Dalle quali parole forse
assicurato uno che dentro dalla casa era, ruffiano della buona femina, il quale
egli né veduto né sentito avea, si fece alle finestre e con una boce grossa,
orribile e fiera disse:
– Chi è laggiù?
Andreuccio, a quella
voce levata la testa, vide uno il quale, per quel poco che comprender potè, mostrava
di dovere essere un gran bacalare, con una barba nera e folta al volto, e come
se del letto o da alto sonno si levasse sbadigliava e stropicciavasi gli occhi:
a cui egli, non senza paura, rispose:
– Io sono un fratello
della donna di là entro.
Ma colui non aspettò che
Andreuccio finisse la risposta, anzi più rigido assai che prima disse:
– Io non so a che io mi
tegno che io non vegno là giù, e deati tante bastonate quante io ti vegga
muovere, asino fastidioso e ebriaco che tu dei essere, che questa notte non ci
lascerai dormire persona –; e tornatosi dentro serrò la finestra.
Alcuni de' vicini, che
meglio conoscieno la condizion di colui, umilmente parlando a Andreuccio
dissono:
– Per Dio, buono uomo,
vatti con Dio, non volere stanotte essere ucciso costì: vattene per lo tuo
migliore.
Laonde Andreuccio,
spaventato dalla voce di colui e dalla vista e sospinto da' conforti di coloro
li quali gli pareva che da carità mossi parlassero, doloroso quanto mai alcuno
altro e de' suoi denar disperato, verso quella parte onde il dì aveva la
fanticella seguita, senza sa per dove s'andasse, prese la via per tornarsi
all'albergo. E a se medesimo dispiacendo per lo puzzo che a lui di lui veniva, disideroso
di volgersi al mare per lavarsi, si torse a man sinistra e su per una via
chiamata la Ruga Catalana si mise. E verso l'alto della città andando, per
ventura davanti si vide due che verso di lui con una lanterna in mano venieno
li quali temendo non fosser della famiglia della corte o altri uomini a mal far
disposti, per fuggirli, in un casolare, il qual si vide vicino, pianamente
ricoverò. Ma costoro, quasi come a quello proprio luogo inviati andassero, in
quel medesimo casolare se n'entrarono; e quivi l'un di loro, scaricati certi
ferramenti che in collo avea, con l'altro insieme gl'incominciò a guardare,
varie cose sopra quegli ragionando. E mentre parlavano, disse l'uno:
– Che vuol dir questo?
Io sento il maggior puzzo che mai mi paresse sentire –; e questo detto alzata
alquanto la lanterna, ebbe veduto il cattivel d'Andreuccio, e stupefatti
domandar: – Chi è là?
Andreuccio taceva, ma
essi avvicinatiglisi con lume il domandarono che quivi così brutto facesse:
alli quali Andreuccio ciò che avvenuto gli era narrò interamente. Costoro,
imaginando dove ciò gli potesse essere avvenuto, dissero fra sè: – Veramente in
casa lo scarabone Buttafuoco fia stato questo –. E a lui rivolti, disse l'uno:
– Buono uomo, come che
tu abbi perduti i tuoi denari, tu molto a lodare Idio che quel caso ti venne
che tu cadesti né potesti poi in casa rientrare: per ciò che, se caduto non
fossi, vivi sicuro che, come prima adormentato ti fossi, saresti stato amazzato
e co' denari avresti la persona perduta. Ma che giova oggimai di piagnere? Tu
ne potresti così riavere un denaio come avere delle stelle del cielo: ucciso ne
potrai tu bene essere, se colui sente che tu mai ne facci parola.
E detto questo,
consigliatisi alquanto, gli dissero:
– Vedi, a noi è presa
compassion di te: e per ciò, dove tu vogli con noi essere a fare alcuna cosa la
quale a fare andiamo, egli ci pare esser molto certi che in parte ti toccherà
il valere di troppo più che perduto non hai.
Andreuccio, sì come
disperato, rispuose ch'era presto. Era quel dì sepellito uno arcivescovo di
Napoli, chiamato messer Filippo Minutolo, era stato sepellito con ricchissimi
ornamenti e con uno rubino in dito il quale valeva oltre cinquecento fiorin
d'oro, il quale costoro volevano andare a spogliare; e così a Andreuccio fecer
veduto. Laonde Andreuccio, più cupido che consigliato, con loro si mise in via;
e andando verso la chiesa maggiore, e Andreuccio putendo forte, disse l'uno:
– Non potremmo noi
trovar modo che costui si lavasse un poco dove che sia, che egli non putisse
così fieramente? Disse l'altro:
– Sì, noi siam qui
presso a un pozzo al quale suole sempre esser la carrucola e un gran secchione;
andianne là e laverenlo spacciatamente.
Giunti a questo pozzo
trovarono che la fune v'era ma il secchione n'era stato levato: per che insieme
diliberarono di legarlo alla fune e di collarlo nel pozzo, e egli là giù si
lavasse e, come lavato fosse, crollasse la fune e essi il tirerebber suso; e
così fecero.
Avvenne che, avendol
costor nel pozzo collato, alcuni della famiglia della signoria, li quali e per
lo caldo e perché corsi erano dietro a alcuno avendo sete, a quel pozzo venieno
a bere: li quali come quegli due videro, incontanente cominciarono a fuggire,
li famigliari che quivi venivano a bere non avendogli veduti. Essendo già nel
fondo del pozzo Andreuccio lavato, dimenò la fune. Costoro assetati, posti giù
lor tavolacci e loro armi e lor gonnelle, cominciarono la fune a tirare
credendo a quella il secchion pien d'acqua essere appicato. Come Andreuccio si
vide alla sponda del pozzo vicino così, lasciata la fune, con le mani si gittò
sopra quella. La qual cosa costoro vedendo, da subita paura presi, senza altro
dir lasciaron la fune e cominciarono quanto più poterono a fuggire: di che
Andreuccio si maravigliò forte, e se egli non si fosse bene attenuto, egli
sarebbe infin nel fondo caduto forse non senza suo gran danno o morte; ma pure
uscitone e queste arme trovate, le quali egli sapeva che i suoi compagni non
avean portate, ancora più s'incominciò a maravigliare. Ma dubitando e non
sappiendo che, della sua fortuna dolendosi, senza alcuna cosa toccar quindi
diliberò di partirsi: e andava senza saper dove.
Così andando si venne
scontrato in que' due suoi compagni, li quali a trarlo del pozzo venivano; e
come il videro, maravigliandosi forte, il domandarono chi del pozzo l'avesse
tratto. Andreuccio rispose che non sapea, e loro ordinatamente disse come era
avvenuto e quello che trovato aveva fuori del pozzo. Di che costoro, avvisatisi
come stato era, ridendo gli contarono perché s'eran fuggiti e chi stati eran
coloro che su l'avean tirato. E senza più parole fare, essendo già mezzanotte,
n'andarono alla chiesa maggiore, e in quella assai leggiermente entrarono e
furono all'arca, la quale era di marmo e molto grande; e con lor ferro il
coperchio, ch'era gravissimo, sollevaron tanto quanto uno uomo vi potesse
entrare, e puntellaronlo. E fatto questo, cominciò l'uno a dire:
– Chi entrerà dentro?
A cui l'altro rispose:
– Non io.
– Nè io, – disse colui –
ma entrivi Andreuccio.
– Questo non farò io, –
disse Andreuccio. Verso il quale ammenduni costoro rivolti dissero:
– Come non v'enterrai?
In fè di Dio, se tu non v'entri, noi ti darem tante d'uno di questi pali di
ferro sopra la testa, che noi ti farem cader morto.
Andreuccio temendo
v'entrò, e entrandovi pensò seco: – Costoro mi ci fanno entrare per ingannarmi,
per ciò che, come io avrò loro ogni cosa dato, mentre che io penerò a uscir
dall'arca, essi se ne andranno pe' fatti loro e io rimarrò senza cosa alcuna –.
E per ciò s'avisò di farsi innanzi tratto la parte sua; e ricordatosi del caro
anello che aveva loro udito dire, come fu giù disceso così di dito il trasse
all'arcivescovo e miselo a sè; e poi dato il pasturale e la mitra è guanti e
spogliatolo infino alla camiscia, ogni cosa diè loro dicendo che più niente
v'avea.
Costoro, affermando che
esser vi doveva l'anello, gli dissero che cercasse per tutto: ma esso
rispondendo che non trovava e sembiante facendo di cercarne, alquanto li tenne
ad aspettare. Costoro che d'altra parte eran sì come lui maliziosi,dicendo pur
che ben cercasse preso tempo, tirarono via il puntello che il coperchio
dell'arca sostenea, e fuggendosi lui dentro dall'arca lasciaron racchiuso. La
qual cosa sentendo Andreuccio, qual egli allor divenisse ciascun sel può
pensare.
Egli tentò più volte e
col capo e con le spalle se alzare potesse il coperchio, ma invano si faticava:
per che da grave dolor vinto, venendo meno cadde sopra il morto corpo
dell'arcivescovo; e chi allora veduti gli avesse malagevolmente avrebbe
conosciuto chi più si fosse morto, o l'arcivescovo o egli. Ma poi che in sé fu
ritornato, dirottissimamente cominciò a piagnere, veggendosi quivi senza dubbio
all'un de' due fini dover pervenire: o in quella arca, non venendovi alcuni più
a aprirla, di fame e di puzzo tra' vermini del morto corpo convenirlo morire, o
vegnendovi alcuni e trovandovi lui dentro, sì come ladro dovere essere
appiccato.
E in così fatti pensieri
e doloroso molto stando, sentì per la chiesa andar genti e parlar molte
persone, le quali sì come gli avvisava, quello andavano a fare che esso co'
suoi compagni avean già fatto: di che la paura gli crebbe forte. Ma poi che
costoro ebbero l'arca aperta e puntellata, in quistion caddero chi vi dovesse entrare,
e niuno il voleva fare; pur dopo lunga tencione un prete disse:
– Che paura avete voi?
credete voi che egli vi manuchi? Li morti non mangian uomini: io v'entrerò
dentro io.
E così detto, posto il
petto sopra l'orlo dell'arca, volse il capo in fuori e dentro mandò le gambe
per doversi giuso calare.
Andreuccio, questo
vedendo, in piè levatosi prese il prete per l'una delle gambe e fè sembiante di
volerlo giù tirare. La qual cosa sentendo il prete mise uno strido grandissimo
e presto dell'arca si gittò fuori; della qual cosa tutti gli altri spaventati,
lasciata l'arca aperta, non altramente a fuggir cominciarono che se da
centomilia diavoli fosser perseguitati.
La qual cosa veggendo
Andreuccio, lieto oltre a quello che sperava, subito si gittò fuori e per
quella via onde era venuto se ne uscì dalla chiesa; e già avvicinandosi al
giorno, con quello anello in dito andando all'avventura, pervenne alla marina e
quindi al suo albergo si abbattè; dove li suoi compagni e l'albergatore trovò
tutta la notte stati in sollecitudine de' fatti suoi. A'quali ciò che avvenuto
gli era raccontato, parve per lo consiglio dell'oste loro che costui
incontanente si dovesse di Napoli partire; la qual cosa egli fece prestamente e
a Perugia tornossi, avendo il suo investito in uno anello, dove per comperare
cavalli era andato.
NOVELLA SESTA
Madonna Beritola, con
due cavriuoli sopra una isola trovata, avendo due figliuoli perduti, ne va in
Lunigiana; quivi l'un de' figliuoli col signor di lei si pone e colla figliuola
di lui giace ed è messo in prigione. Cicilia ribellata al re Carlo, e il
figliuolo riconosciuto dalla madre, sposa la figliuola del suo signore e il suo
fratello ritrova e in grande stato ritornano.
Avevan le donne
parimente e i giovani riso molto de' casi d'Andreuccio dalla Fiammetta narrati,
quando Emilia, sentendo la novella finita, per comandamento della reina, così
cominciò.
Gravi cose e noiose sono
i movimenti vari della Fortuna, de' quali perché quante volte alcuna cosa si
parla, tante è un destare delle nostre menti, le quali leggiermente
s'addormentano nelle sue lusinghe, giudico mai rincrescer non dover l'ascoltare
e a' felici e agli sventurati, in quanto li primi rende avvisati e i secondi
consola. E per ciò, quantunque gran cose dette ne sieno avanti, io intendo di
raccontarvene una novella non meno vera che pietosa; la quale, ancora che lieto
fine avesse, fu tanta e sì lunga l'amaritudine, che appena che io possa credere
che mai da letizia seguita si raddolcisse.
Carissime donne, voi
dovete sapere che appresso la morte di Federigo secondo imperadore fu re di
Cicilia coronato Manfredi, appo il quale in grandissimo stato fu un gentile
uomo di Napoli chiamato Arrighetto Capece, il quale per moglie avea una bella e
gentil donna similmente napoletana, chiamata madonna Beritola Caracciola. Il
quale Arrighetto, avendo il governo dell'isola nelle mani, sentendo che il re
Carlo primo avea a Benevento vinto e ucciso Manfredi, e tutto il regno a lui si
rivolgea, avendo poca sicurtà della corta fede de' ciciliani e non volendo
suddito divenire del nimico del suo si gnore, di fuggire s'apparecchiava. Ma
questo da' ciciliani conosciuto, subitamente egli e molti altri amici e
servitori del re Manfredi furono per prigioni dati al re Carlo, e la
possessione dell'isola appresso.
Madonna Beritola in
tanto mutamento di cose, non sappiendo che d'Arrighetto si fosse e sempre di
quello che era avvenuto temendo, per tema di vergogna, ogni sua cosa lasciata,
con un suo figliuolo d'età forse d'otto anni, chiamato Giusfredi, e gravida e
povera, montata sopra una barchetta, se ne fuggì a Lipari, e quivi partorì un
altro figliuol maschio, il quale nominò lo Scacciato; e presa una balia, con
tutti sopra un legnetto montò per tornarsene a Napoli a' suoi parenti. Ma
altramenti avvenne che il suo avviso; perciò che per forza di vento il legno,
che a Napoli andar dovea, fu trasportato all'isola di Ponzo, dove, entrati in
un picciol seno di mare, cominciarono ad attender tempo al loro viaggio.
Madama Beritola, come
gli altri, smontata in su l'isola e sopra quella un luogo solitario e rimoto
trovato, quivi a dolersi del suo Arrighetto si mise tutta sola. E questa
maniera ciascun giorno tenendo, avvenne che, essendo ella al suo dolersi
occupata, senza che alcuno o marinaro o altri se n'accorgesse, una galea di
corsari sopravvenne, la quale tutti a man salva gli prese, e andò via.
Madama Beritola, finito
il suo diurno lamento, tornata al lito per rivedere i figliuoli, come usata era
di fare, niuna persona vi trovò; di che prima si maravigliò, e poi, subitamente
di quello che avvenuto era sospettando, gli occhi infra 'l mare sospinse, e
vide la galea, non molto ancora allungata, dietro tirarsi il legnetto; per la
qual cosa ottimamente conobbe, sì come il marito, aver perduti i figliuoli; e
povera e sola e abbandonata, senza saper dove mai alcuno doversene ritrovare,
quivi vedendosi, tramortita, il marito è figliuoli chiamando, cadde in su 'l
lito.
Quivi non era chi con
acqua fredda o con altro argomento le smarrite forze rivocasse; per che a bello
agio poterono gli spiriti andar vagando dove lor piacque; ma, poi che nel
misero corpo le partite forze insieme colle lagrime e col pianto tornate
furono, lungamente chiamò i figliuoli, e molto per ogni caverna gli andò
cercando. Ma poi che la sua fatica conobbe vana e vide la notte sopravvenire,
sperando e non sappiendo che, di sé medesima alquanto divenne sollicita, e dal
lito partitasi, in quella caverna, dove di piagnere e di dolersi era usa, si
ritornò.
E poi che la notte con
molta paura e con dolore inestimabile fu passata, e il dì nuovo venuto, e già
l'ora della terza valicata, essa, che la sera avanti cenato non avea, da fame
costretta, a pascere l'erbe si diede; e, pasciuta come potè, piagnendo, a vari
pensieri della sua futura vita si diede. Nè quali mentre ella dimorava, vide
venire una cavriuola ed entrare ivi vicino in una caverna, e dopo alquanto
uscirne e per lo bosco andarsene; per che ella, levatasi, là entrò donde uscita
era la cavriuola, e videvi due cavriuoli forse il dì medesimo nati, li quali le
parevano la più dolce cosa del mondo e la più vezzosa; e, non essendolesi
ancora del nuovo parto rasciutto il latte del petto, quegli teneramente prese e
al petto gli si pose. Li quali, non rifiutando il servigio, così lei poppavano come
la madre avrebber fatto; e d'allora innanzi dalla madre a lei niuna distinzion
fecero. Per che, parendo alla gentil donna avere nel diserto luogo alcuna
compagnia trovata, l'erbe pascendo e bevendo l'acqua, e tante volte piagnendo
quante del marito e de' figliuoli e della sua preterita vita si ricordava,
quivi e a vivere e a morire s'era disposta, non meno dimestica della cavriuola
divenuta che de' figliuoli.
E così dimorando la
gentil donna divenuta fiera, avvenne dopo più mesi che per fortuna similmente
quivi arrivò un legnetto di pisani, dove ella prima era arrivata, e più giorni
vi dimorò.
Era sopra quel legno un
gentile uomo chiamato Currado de' marchesi Malespini con una sua donna valorosa
e santa; e venivano di pellegrinaggio da tutti i santi luoghi li quali nel
regno di Puglia sono, e a casa loro se ne tornavano. Il quale, per passare
malinconia, insieme colla sua donna e con alcuni suoi famigliari e con suoi
cani, un dì ad andare fra l'isola si mise, e non guari lontano al luogo, dove
era madama Beritola, cominciarono i cani di Currado a seguire i due cavriuoli,
li quali già grandicelli pascendo andavano; li quali cavriuoli da' cani
cacciati, in nulla altra parte fuggirono che alla caverna dove era madama
Beritola.
La quale, questo
vedendo, levata in piè e preso un bastone, li cani mandò indietro; e quivi
Currado e la sua donna, che i lor cani seguitavano, sopravvenuti, vedendo
costei, che bruna e magra e pilosa divenuta era, si maravigliarono, ed ella
molto più di loro. Ma poi che a' prieghi di lei ebbe Currado i suoi cani tirati
indietro, dopo molti prieghi la piegarono a dire chi ella fosse e che quivi
facesse; la quale pienamente ogni sua condizione e ogni suo accidente e il suo
fiero proponimento loro aperse. Il che udendo Currado, che molto bene
Arrighetto Capece conosciuto avea, di compassion pianse, e con parole assai
s'ingegnò di rimuoverla da proponimento sì fiero, offerendole di rimenarla a
casa sua o di seco tenerla in quello onore che sua sorella, e stesse tanto che
Iddio più lieta fortuna le mandasse innanzi. Alle quali proferte non piegandosi
la donna, Currado con lei lasciò la moglie e le disse che da mangiare quivi
facesse venire, e lei, che tutta era stracciata, d'alcuna delle sue robe
rivestisse e del tutto facesse che seco la ne menasse. La gentil donna con lei
rimasa, avendo prima molto con madama Beritola pianto de' suoi infortuni, fatti
venire vestimenti e vivande, colla maggior fatica del mondo a prendergli e a
mangiar la condusse; e ultimamente, dopo molti prieghi, affermando ella di mai
non volere andare ove conosciuta fosse, la 'ndusse a doversene seco andare in
Lunigiana insieme co' due cavriuoli e colla cavriuola, la quale in quel mezzo
era tornata e, non senza gran maraviglia della gentil donna, l'avea fatta
grandissima festa.
E così venuto il buon
tempo, madama Beritola con Currado e colla sua donna sopra il lor legno montò,
e con loro insieme la cavriuola e i due cavriuoli (da'quali, non sappiendosi
per tutti il suo nome, ella fu Cavriuola dinominata), e con buon vento tosto
infino nella foce della Magra n'andarono, dove smontati, alle lor castella ne
salirono.
Quivi appresso la donna
di Currado madama Beritola, in abito vedovile, come una sua damigella, onesta e
umile e obediente stette, sempre a' suoi cavriuoli avendo amore e faccendogli
nutricare.
I corsari, li quali
avevano a Ponzo preso il legno sopra il quale madama Beritola venuta era, lei
lasciata sì come da lor non veduta, con tutta l'altra gente a Genova
n'andarono; e quivi tra' padroni della galea divisa la preda, tocco'per
avventura, tra l'altre cose, in sorte ad un messer Guasparrin d'Oria la balia di
madama Beritola e i due fanciulli con lei; il quale lei co' fanciulli insieme a
casa sua ne mandò, per tenergli a guisa di servi né servigi della casa.
La balia, dolente oltre
modo della perdita della sua donna e della misera fortuna nella quale sé e i due
fanciulli caduti vedea, lungamente pianse. Ma, poi che vide le lacrime niente
giovare e sé esser serva con loro insieme, ancora che povera femina fosse, pure
era savia e avveduta; per che, prima come potè il meglio riconfortatasi, e
appresso riguardando dove erano pervenuti, s'avvisò che, se i due fanciulli
conosciuti fossono, per avventura potrebbono di leggiere impedimento ricevere;
e oltre a questo sperando che, quando che sia, si potrebbe mutar la fortuna ed
essi potrebbero, se vivi fossero, nel perduto stato tornare, pensò di non
palesare ad alcuna persona chi fossero, se tempo di ciò non vedesse; e a tutti
diceva, che di ciò domandata l'avessero, che suoi figliuoli erano. E il
maggiore non Giusfredi, ma Giannotto di Procida nominava; al minore non curò di
mutar nome; e con somma diligenzia mostrò a Giusfredi perché il nome cambiato
gli avea e a qual pericolo egli potesse essere se conosciuto fosse; e questo
non una volta ma molte e molto spesso, gli ricordava; la qual cosa il
fanciullo, che intendente era, secondo l'ammaestramento della savia balia
ottimamente faceva. Stettero adunque, e mal vestiti e peggio calzati, ad ogni
vil servigio adoperati, colla balia insieme pazientemente più anni i due
garzoni in casa messer Guasparrino. Ma Giannotto, già d'età di sedici anni,
avendo più animo che a servo non s'apparteneva, sdegnando la viltà della servil
condizione, salito sopra galee che in Alessandria andavano, dal servigio di
messer Guasparrino si partì, e in più parti andò in niente potendosi avanzare.
Alla fine, forse dopo tre o quattro anni appresso la partita fatta da messer
Guasparrino, essendo bel giovane e grande della persona divenuto, e avendo
sentito il padre di lui, il quale morto credeva che fosse, essere ancor vivo,
ma in prigione e in cattività per lo re Carlo guardato, quasi della fortuna
disperato, vagabundo andando, pervenne in Lunigiana, e quivi per ventura con
Currado Malespina si mise per famigliare, lui assai acconciamente e a grado
servendo. E come che (non) rade volte la sua madre, la quale colla donna di
Currado era, vedesse, niuna volta la conobbe, né ella lui; tanto la età l'uno e
l'altro, da quello che esser soleano quando ultimamente si videro, gli avea
trasformati.
Essendo adunque
Giannotto al servigio di Currado, avvenne che una figliuola di Currado, il cui
nome era Spina, rimasa vedova d'uno Niccolò da Grignano, alla casa del padre
tornò; la quale, essendo assai bella e piacevole e giovane di poco più di
sedici anni, per ventura pose gli occhi addosso a Giannotto, ed egli a lei, e
ferventissimamente l'uno dell'altro s'innamorò. Il quale amore non fu
lungamente senza effetto; e più mesi durò avanti che di ciò niuna persona
s'accorgesse. Per la qual cosa essi, troppo assicurati, cominciarono a tener
maniera men discreta che a così fatte cose non si richiedea. E andando un
giorno per un bosco bello e folto d'alberi la giovane insieme con Giannotto,
lasciata tutta l'altra compagnia, entrarono innanzi; e parendo loro molto di
via aver gli altri avanzati, in un luogo dilettevole e pien d'erba e di fiori,
e d'alberi chiuso, ripostisi, a prendere amoroso piacere l'un dell'altro
incominciarono. E, come che lungo spazio stati già fossero insieme, avendo il
gran diletto fattolo loro parere molto brieve, in ciò dalla madre della giovane
prima, e appresso da Currado, soprappresi furono. Il quale, doloroso oltre modo
questo vedendo, senza alcuna cosa dire del perché, amenduni gli fece pigliare a
tre suoi servidori e ad uno suo castello legati menargliene; e d'ira e di
cruccio fremendo andava, disposto di fargli vituperosamente morire.
La madre della giovane,
quantunque molto turbata fosse e degna reputasse la figliuola per lo suo fallo
d'ogni crudel penitenzia, avendo per alcuna parola di Currado compreso qual
fosse l'animo suo verso i nocenti, non potendo ciò comportare, avacciandosi
sopraggiunse l'adirato marito, e cominciollo a pregare che gli dovesse piacere
di non correr furiosamente a volere nella sua vecchiezza della figliuola
divenir micidiale e a bruttarsi le mani del sangue d'un suo fante, e che egli
altra maniera trovasse a sodisfare all'ira sua, sì come di fargli imprigionare
e in prigione stentare e piagnere il peccato commesso. E tanto e queste e molte
altre parole gli andò dicendo la santa donna, che essa da uccidergli l'animo suo
rivolse; e comandò che in diversi luoghi cia scun di loro imprigionato fosse, e
quivi guardati bene, e con poco cibo e con molto disagio servati infino a tanto
che esso altro diliberasse di loro; e così fu fatto. Quale la vita loro in
cattività e in continue lagrime e in più lunghi digiuni che loro non sarien
bisognati si fosse, ciascuno sel può pensare.
Stando adunque Giannotto
e la Spina in vita così dolente ed essendovi già uno anno, senza ricordarsi
Currado di loro, dimorati, avvenne che il re Piero di Raona, per trattato di
messer Gian di Procida, l'isola di Cicilia ribellò e tolse al re Carlo; di che
Currado, come ghibellino, fece gran festa. La quale Giannotto sentendo da
alcuno di quelli che a guardia l'aveano, gittò un gran sospiro, e disse:
– Ahi lasso me! che
passati sono omai quattordici anni che io sono andato tapinando per lo mondo,
niuna altra cosa aspettando che questa, la quale, ora che venuta è, acciò che
io mai d'aver ben più non speri, m'ha trovato in prigione, della quale mai se
non morto uscire non spero!
– E come? – disse il
prigioniere – che monta a te quello che i grandissimi re si facciano? Che avevi
tu a fare in Cicilia?
A cui Giannotto disse:
– El pare che 'l cuor mi
si schianti, ricordandomi di ciò che già mio padre v'ebbe a fare; il quale,
ancora che picciol fanciul fossi quando me ne fuggii, pur mi ricorda che io nel
vidi signore, vivendo il re Manfredi.
Seguì il prigioniere:
– E chi fu tuo padre?
– Il mio padre – disse
Giannotto – posso io omai sicuramente manifestare, poi del pericolo mi veggio
fuori, il quale io temeva scoprendolo. Egli fu chiamato ed è ancora, s'el vive,
Arrighetto Capece, e io non Giannotto, ma Giusfredi ho nome; e non dubito
punto, se io di qui fossi fuori, che tornando in Cicilia io non vi avessi ancora
grandissimo luogo.
Il valente uomo, senza
più avanti andare, come prima ebbe tempo, tutto questo raccontò a Currado. Il
che Currado udendo, quantunque al prigioniere mostrasse di non curarsene,
andatosene a madonna Beritola, piacevolmente la domandò se alcun figliuolo
avesse d'Arrighetto avuto che Giusfredi avesse nome. La donna piagnendo rispose
che, se il maggiore de' suoi due che avuti avea fosse vivo, così si chiamerebbe
e sarebbe d'eta di ventidue anni.
Questo udendo Currado,
avvisò lui dovere esser desso, e caddegli nell'animo, se così fosse, che egli
ad una ora poteva una gran misericordia fare e la sua vergogna e quella della
figliuola tor via, dandola per moglie a costui; e per ciò fattosi segretamente
Giannotto venire, partitamente d'ogni sua passata vita l'esaminò. E trovando
per assai manifesti indizi lui veramente esser Giusfredi, figliuolo
d'Arrighetto Capece, gli disse:
– Giannotto, tu sai
quanta e quale sia la 'ngiuria la qual tu m'hai fatta nella mia propia
figliuola, là dove, trattandoti io bene e amichevolmente, secondo che servidor
si dee fare, tu dovevi il mio onore e delle mie cose sempre e cercare e
operare; e molti sarebbero stati quegli, a' quali se tu quello avessi fatto che
a me facesti, che vituperosamente ti avrebber fatto morire; so il che la mia
pietà non sofferse. Ora, poi che così è come tu mi dì, che tu figliuolo sé di
gentile uomo e di gentil donna, io voglio alle tue angoscie, quando tu medesimo
vogli, porre fine e trarti della miseria e della cattività nella qual tu
dimori, e ad una ora il tuo onore e 'l mio nel suo debito luogo riducere. Come
tu sai, la Spina, la quale tu con amorosa, avvegna che sconvenevole a te e a
lei, amistà prendesti, è vedova, e la sua dota è grande e buona; quali sieno i
suoi costumi, e il padre e la madre di lei, tu il sai; del tuo presente stato
niente dico. Per che, quando tu vogli, io sono disposto, dove ella
disonestamente amica ti fu, ch'ella onestamente tua moglie divenga e che in
guisa di mio figliuolo qui, con esso meco e con lei, quanto ti piacerà dimori.
Aveva la prigione
macerate le carni di Giannotto, ma il generoso animo dalla sua origine tratto
non aveva ella in cosa alcuna diminuito, né ancora lo 'ntero amore il quale
egli alla sua donna portava. E quantunque egli ferventemente disiderasse quello
che Currado gli offereva e sé vedesse nelle sue forze, in niuna parte piegò
quello che la grandezza dello animo suo gli mostrava di dover dire, e rispose:
– Currado, né cupidità
di signoria né desiderio di denari né altra cagione alcuna mi fece mai alla tua
vita né alle tue cose insidie, come traditor, porre. Amai tua figliuola e amo e
amerò sempre, per ciò che degna la reputo del mio amore; e se io seco fui meno
che onestamente, secondo la oppinion de' meccanici, quel peccato commisi, il
quale sempre seco tiene la giovanezza congiunto e che, se via si volesse torre,
converrebbe che via si togliesse la giovanezza, e il quale, se i vecchi si
volessero ricordare d'essere stati giovani e gli altrui difetti colli loro
misurare e li loro cogli altrui, non saria grave come tu e molti altri fanno; e
come amico e non come nemico il commisi. Quello che tu offeri di voler fare
sempre il disiderai, e se io avessi creduto che conceduto mi dovesse esser
suto, lungo tempo è che domandato l'avrei; e tanto mi sarà ora più caro, quanto
di ciò la speranza è minore. Se tu non hai quello animo che le parole tue
dimostrano, non mi pascere di vana speranza; fammi ritornare alla prigione e
quivi quanto ti piace mi fa affliggere, ché quanto io amerò la Spina, tanto
sempre per amor di lei amerò te, che che tu mi ti facci, e avrotti in
reverenza. Currado, avendo costui udito, si maravigliò e di grande animo il
tenne e il suo amore fervente reputò, e più ne l'ebbe caro; e per ciò levatosi
in piè, l'abbracciò e baciò, e senza dar più indugio alla cosa, comandò che
quivi chetamente fosse menata la Spina.
Ella era nella prigione
magra e pallida divenuta e debole, e quasi un'altra femina che esser non soleva
parea, e così Giannotto un altro uomo: i quali nella presenzia di Currado di
pari consentimento contrassero le sponsalizie secondo la nostra usanza.
E poi che più giorni,
senza sentirsi da alcuna persona di ciò che fatto era alcuna cosa, gli ebbe di
tutto ciò che bisognò loro e di piacere era fatti adagiare, parendogli tempo di
farne le loro madri liete, chiamate la sua donna e la Cavriuola, così verso lor
disse:
– Che direste voi,
madonna, se io vi facessi il vostro figliuolo maggior riavere, essendo egli
marito d'una delle mie figliuole?
A cui la Cavriuola
rispose:
– Io non vi potrei di
ciò altro dire se non che, se io vi potessi più esser tenuta che io non sono,
tanto più vi sarei quanto voi più cara cosa che non sono io medesima a me mi
rendereste; e rendendomela in quella guisa che voi dite, alquanto in me la mia
perduta speranza rivocareste–; e lagrimando si tacque.
Allora disse Currado
alla sua donna:
– E a te che ne
parrebbe, donna, se io così fatto genero ti donassi?
A cui la donna rispose:
– Non che un di loro,
che gentili uomini sono, ma un ribaldo, quando a voi piacesse, mi piacerebbe.
Allora disse Currado:
– Io spero infra pochi
dì farvi di ciò liete femine. E veggendo già nella prima forma i due giovani
ritornati, onorevolmente vestitigli, domandò Giusfredi:
– Che ti sarebbe caro
sopra l'allegrezza la qual tu hai, se tu qui la tua madre vedessi?
A cui Giusfredi rispose:
– Egli non mi si lascia
credere che i dolori de' suoi sventurati accidenti l'abbian tanto lasciata
viva; ma, se pur fosse, sommamente mi saria caro, sì come colui che ancora per
lo suo consiglio mi crederrei gran parte del mio stato ricoverare in Cicilia.
Allora Currado l'una e
l'altra donna quivi fece venire. Elle fecero amendune maravigliosa festa alla
nuova sposa, non poco maravigliandosi, quale spirazione potesse essere stata
che Currado avesse a tanta benignità recato, che Giannotto con lei avesse
congiunto. Al quale madama Beritola, per le parole da Currado udite, cominciò a
riguardare, e da occulta virtù desta in lei alcuna rammemorazione de' puerili
lineamenti del viso del suo figliuolo, senza aspettare altro dimostramento,
colle braccia aperte gli corse al collo; né la soprabondante pietà e allegrezza
materna le permisero di potere alcuna parola dire, anzi sì ogni virtù sensitiva
le chiusero che quasi morta nelle braccia del figliuol cadde. Il quale,
quantunque molto si maravigliasse, ricordandosi d'averla molte volte avanti in
quel castello medesimo veduta e mai non riconosciutola, pur non dimeno conobbe
incontanente l'odor materno e sé medesimo della sua preterita trascutaggine
biasimando, lei nelle braccia ricevuta lagrimando teneramente baciò. Ma poi che
madama Beritola, pietosamente dalla donna di Currado e dalla Spina aiutata e
con acqua fredda e con altre loro arti, in sé le smarrite forze ebbe rivocate,
rabbraccò da capo il figliuolo con molte lagrime e con molte parole dolci; e
piena di materna pietà mille volte o più il baciò, ed egli lei reverentemente
molto la vide e ricevette. Ma poi che l'accoglienze oneste e liete furo iterate
tre e quattro volte, non senza gran letizia e piacere de' circustanti, e l'uno
all'altro ebbe ogni suo accidente narrato; avendo già Currado a' suoi amici
significato con gran piacere di tutti il nuovo parentado fatto da lui, e
ordinando una bella e magnifica festa, gli disse Giusfredi:
– Currado, voi avete
fatto me lieto di molte cose e lungamente avete onorata mia madre; ora, acciò
che niuna parte in quello che per vo' si possa ci resti a fare, vi priego che
voi mia madre e la mia festa e me facciate lieti della presenza di mio
fratello, il quale in forma di servo messer Guasparrin d'Oria tiene in casa il
quale come io vi dissi già, e lui e me prese in corso; e appresso che voi
alcuna persona mandiate in Cicilia, il quale pienamente s'informi delle
condizioni e dello stato del paese, e mettasi a sentire quello che è
d'Arrighetto mio padre, se egli è o vivo o morto; e se è vivo, in che stato; e
d'ogni cosa pienamente informato, a noi ritorni.
Piacque a Currado la
domanda di Giusfredi e, senza alcuno indugio, discretissime persone mandò e a
Genova e in Cicilia. Colui che a Genova andò, trovato messer Guasparrino, da
parte di Currado diligentemente il pregò che lo Scacciato e la sua balia gli
dovesse mandare, ordinatamente narrandogli ciò che per Currado era stato fatto
verso Giusfredi e verso la madre.
Messer Guasparrin si
maraviò forte, questo udendo, e disse:
– Egli è vero che io
farei per Currado ogni cosa, che io potessi, che gli piacesse; e ho bene in
casa avuti, già sono quattordici anni, il garzon che tu dimandi e una sua
madre, li quali io gli manderò volentieri; ma dira'gli da mia parte che si
guardi di non aver troppo creduto o di non credere alle favole di Giannotto, il
qual dì che oggi si fa chiamar Giusfredi, per ciò che egli è troppo più
malvagio che egli non s'avvisa.
E così detto, fatto
onorare il valente uomo, si fece in segreto chiamar la balia e cautamente la
esaminò di questo fatto. La quale, avendo udita la rebellion di Cicilia e
sentendo Arrighetto esser vivo, cacciata via la paura che già avuta avea,
ordinatamente ogni cosa gli disse. e le cagioni gli mostrò per che quella
maniera che fatto aveva tenuta avesse.
Messer Guasparrino,
veggendo li detti della balia con quegli dello ambasciador di Currado
ottimamente convenirsi. cominciò a dar fede alle parole; e per un modo e per un
altro, sì come uomo che astutissimo era, fatta inquisizion di questa opera, e
più ogni ora trovando cose che più fede gli davano al fatto, vergognandosi del
vil trattamento fatto del garzone, in ammenda di ciò, avendo una sua bella
figlioletta d'età d'undici anni, conoscendo egli chi Arrighetto era stato e
fosse, con una gran dota gli diè per moglie; e, dopo una gran festa di ciò
fatta. col garzone e colla figliuola e collo ambasciadore di Currado e colla
balia montato sopra una galeotta bene armata, se ne venne a Lerici; dove,
ricevuto da Currado, con tutta la sua brigata n'andò ad un castel di Currado,
non molto di quivi lontano, dove la festa grande era apparecchiata. Quale la
festa della madre fosse rivedendo il suo figliuolo, qual quella de' due
fratelli, qual quella di tutti e tre alla fedel balia, qual quella di tutti
fatta a messer Guasparrino e alla sua figliuola, e di lui a tutti, e di tutti
insieme con Currado e colla sua donna e co' figliuoli e co' suoi amici, non si
potrebbe con parole spiegare; e per ciò a voi, donne, la lascio ad imaginare.
Alla quale, acciò che compiuta fosse, volle Domeneddio, abbondantissimo
donatore quando comincia, sopraggiugnere le liete novelle della vita e del
buono stato d'Arrighetto Capece.
Per ciò che, essendo la
festa grande e i convitati (le donne e gli uomini) alle tavole ancora alla
prima vivanda, sopraggiunse colui il quale andato era in Cicilia, e tra l'altre
cose, raccontò d'Arrighetto che, essendo egli in Catania per lo re Carlo
guardato in prigione quando il romore contro al re si levò nella terra, il
popolo a furore corse alla prigione e, uccise le guardie, lui n'avean tratto
fuori, e sì come capitale nemico del re Carlo, l'avevano fatto lor capitano e
seguitolo a cacciare e ad uccidere i franceschi. Per la qual cosa egli
sommamente era venuto nella grazia del re Pietro, il quale lui in tutti i suoi
beni e in ogni suo onore rimesso aveva; laonde egli era in grande e in buono
stato; aggiugnendo che egli aveva lui con sommo onore ricevuto e inestimabile
festa aveva fatta della sua donna e del figliuolo, de' quali mai dopo la
presura sua niente aveva saputo; e oltre a ciò mandava per loro una saettia con
alquanti gentili uomini, li quali appresso venieno.
Costui fu con grande allegrezza
e festa ricevuto e ascoltato; e prestamente Currado con alquanti dei suoi amici
in contro si fecero a' gentili uomini che per madama Beritola e per Giusfredi
venieno, e loro lietamente ricevette, e al suo convito, il quale ancora al
mezzo non era, gl'introdusse.
Quivi e la donna e
Giusfredi e oltre a questi tutti gli altri con tanta letizia gli videro, che
mai simile non fu udita; e essi, avanti che a mangiar si ponessero, da parte
d'Arrighetto e salutarono e ringraziarono, quanto il meglio seppero e più
poterono, Currado e la sua donna dell'onore fatto e alla donna di lui e al
figliuolo; e Arrighetto e ogni cosa che per lui si potesse offersero al lor
piacere. Quindi a messer Guasparrino rivolti, il cui beneficio era inoppinato,
dissero sé essere certissimi che, qualora ciò che per lui verso lo Scacciato
stato era fatto da Arrighetto si sapesse, che grazie simiglianti e maggiori
rendute sarebbono. Appresso questo, lietissimamente nella festa delle due nuove
spose e con li novelli sposi mangiarono.
Nè solo quel dì fece
Currado festa al genero e agli altri suoi e parenti e amici, ma molti altri. La
quale poi che riposata fu, parendo a madama Beritola e a Giusfredi e agli altri
di doversi partire, con molte lagrime da Currado e dalla sua donna e da messer
Guasparrino, sopra la saettia montati, seco la Spina menandone, si partirono; e
avendo prospero vento, tosto in Cicilia pervennero, dove con tanta festa da
Arrighetto tutti parimente, è fi gliuoli e le donne, furono in Palermo
ricevuti, che dire non si potrebbe giammai: dove poi molto tempo si crede che
essi tutti felicemente vivessero, e, come conoscenti del ricevuto beneficio,
amici di Messer Domeneddio.
NOVELLA SETTIMA
Il soldano di Babilonia
ne manda una sua figliuola a marito al re del Garbo, la quale per diversi
accidenti in spazio di quattro anni alle mani di nove uomini perviene in
diversi luoghi; ultimamente, restituita al padre per pulcella, ne va al re del
Garbo, come prima faceva, per moglie.
Forse non molto più si
sarebbe la novella d'Emilia distesa, che la compassione avuta dalle giovani
donne a' casi di madama Beritola loro avrebbe condotte a lagrimare. Ma, poi che
a quella fu posta fine, piacque alla reina che Panfilo seguitasse, la sua
raccontando; per la qual cosa egli, che ubidientissimo era, incominci.
Malagevolmente, piacevoli donne, si può da noi conoscer quello che per noi si
faccia, per ci che, se come assai volte s'è potuto vedere, molti estimando, se
essi ricchi divenissero, senza sollecitudine e sicuri poter vivere, quello non
solamente con prieghi a Dio addomandarono, ma sollecitamente, non recusando
alcuna fatica o pericolo, d'acquistarlo cercarono; e, come che loro venisse
fatto, trovarono chi per vaghezza di così ampia eredità gli uccise, li quali
avanti che arricchiti fossero amavan la vita loro. Altri di basso stato per
mille pericolose battaglie, per mezzo il sangue de' fratelli e degli amici loro
saliti all'altezza de' regni, in quegli somma felicità esser credendo, senza le
infinite sollecitudini e paure di che piena la videro e sentirono, conobbero,
non senza la morte loro, che nell'oro alle mense reali si beveva il veleno.
Molti furono che la forza corporale e la bellezza, e certi gli ornamenti, con
appetito ardentissimo disiderarono, né prima d'aver mal disiderato s'avvidero,
che essi quelle cose loro di morte essere o di dolorosa vita cagione. E acciò
che io partitamente di tutti gli umani disideri non parli, affermo niuno
poterne essere con pieno avve dimento, sì come sicuro da' fortunosi casi, che
da' viventi si possa eleggere; per che, se dirittamente operar volessimo, a
quello prendere e possedere ci dovremmo disporre che Colui ci donasse, il quale
sol ciò che ci fa bisogno conosce e puolci dare. Ma per ciò che, come che gli
uomini in varie cose pecchino disiderando, voi, graziose donne, sommamente
peccate in una, cioè nel disiderare d'esser belle, in tanto che, non bastandovi
le bellezze che dalla natura concedute vi sono, ancora con maravigliosa arte
quelle cercate d'accrescere, mi piace di raccontarvi quanto sventuratamente
fosse bella una saracina, alla quale in forse quattro anni avvenne per la sua
bellezza di fare nuove nozze da nove volte. Già è buon tempo passato che di
Babilonia fu un soldano, il quale ebbe nome Beminedab, al quale ne' suoi dì
assai cose secondo il suo piacere avvennero. Aveva costui, tra gli altri suoi
molti figliuoli e maschi e femine, una figliuola chiamata Alatiel, la quale,
per quello che ciascuno che la vedeva dicesse, era la più bella femina che si
vedesse in quei tempi nel mondo; e per ciò che in una grande sconfitta, la
quale aveva data ad una gran moltitudine d'arabi che addosso gli eran venuti,
l'aveva maravigliosamente aiutato il re del Garbo, a lui, domandandogliele egli
di grazia speziale, l'aveva per moglie data, e lei con onorevole compagnia e
d'uomini e di donne e con molti nobili e ricchi arnesi fece sopra una nave bene
armata e ben corredata montare, e a lui mandandola, l'accomandò a Dio.
I marinari, come videro
il tempo ben disposto, diedero le vele a' venti e del porto d'Alessandria si
partirono e più giorni felicemente navigarono; e già avendo la Sardigna
passata, parendo loro alla fine del loro cammino esser vicini, si levarono
subitamente un giorno diversi venti, li quali, essendo ciascuno oltre modo
impetuoso, sì faticarono la nave dove la donna era e' marinari, che più volte
per perduti si tennero. Ma pure, come valenti uomini, ogni arte e ogni forza
operando, essendo da infinito mare combattuti, due dì sostennero; e surgendo
già dalla tempesta cominciata la terza notte, e quella non cessando ma
crescendo tutta fiata, non sappiendo essi dove si fossero né potendolo per
estimazion marinaresca comprendere né per vista, per ciò che oscurissimo di
nuvoli e di buia notte era il cielo, essendo essi non guari sopra Maiolica,
sentirono la nave sdrucire.
Per la qual cosa, non
veggendovi alcun rimedio al loro scampo, avendo a mente ciascun sè medesimo e
non altrui, in mare gittarono un paliscalmo, e sopra quello più tosto di
fidarsi disponendo, che sopra la isdrucita nave, si gittarono i padroni; a'
quali appresso or l'uno or l'altro di quanti uomini erano nella nave,
quantunque quelli che prima nel paliscalmo eran discesi colle coltella in mano
il contradicessero, tutti si gittarono; e, credendosi la morte fuggire, in
quella incapparono; per ciò che non potendone per la contrarietà del tempo
tanti reggere il paliscalmo, andato sotto, tutti quanti perirono. E la nave,
che da impetuoso vento era sospinta, quantunque sdrucita fosse e già presso che
piena d'acqua (non essendovi su rimasa altra persona che la donna e le sue
femine, e quelle tutte per la tempesta del mare e per la paura vinte su per
quella quasi morte giacevano), velocissimamente correndo, in una piaggia
dell'isola di Maiolica percosse; e fu tanta e sì grande la foga di quella, che
quasi tutta si ficcò nella rena vicina al lito forse una gittata di pietra; e
quivi dal mar combattuta, la notte, senza poter più dal vento esser mossa, si
stette.
Venuto il giorno chiaro
e alquanto la tempesta acchetata, la donna, che quasi mezza morta era, alzò la
testa, e così debole come era cominciò a chiamare ora uno e ora un altro della
sua famiglia; ma per niente chiamava, ché i chiamati eran troppo lontani. Per
che, non sentendosi rispondere ad alcuno né alcuno veggendone, si maravigliò
molto e cominciò ad avere grandissima paura; e co me meglio potè levatasi, le
donne che in compagnia di lei erano e l'altre femine tutte vide giacere, e or
l'una e or l'altra dopo molto chiamare tentando, poche ve ne trovò che avessono
sentimento, sì come quelle che, tra per grave angoscia di stomaco e per paura
morte s'erano; di che la paura alla donna divenne maggiore. Ma nondimeno,
strignendola necessità di consiglio, per ciò che quivi tutta sola si vedeva,
non conoscendo o sappiendo dove si fosse, pure stimolò tanto quelle che vive
erano, che su le fece levare; e trovando quelle non sapere dove gli uomini
andati fossero, e veggendo la nave in terra percossa e d'acqua piena, con
quelle insieme dolorosamente cominciò a piagnere.
E già era ora di nona,
avanti che alcuna persona su per lo lito o in altra parte vedessero, a cui di
sé potessero fare venire alcuna pietà ad aiutarle. In su la nona, per avventura
da un suo luogo tornando, passò quindi un gentile uomo, il cui nome era Pericon
da Visalgo, con più suoi famigli a cavallo, il quale, veggendo la nave,
subitamente imaginò ciò che era e comandò ad un de' famigli che senza indugio
procacciasse di su montarvi e gli raccontasse ciò che vi fosse. Il famigliare,
ancora che con difficultà il facesse, pur vi montò su, e trovò la gentil
giovane, con quella poca compagnia che avea, sotto il becco della proda della
nave tutta timida star nascosa. Le quali, come costui videro, piagnendo più
volte misericordia addomandarono; ma, accorgendosi che intese non erano, né
esse lui intendevano, con atti s'ingegnarono di dimostrare la loro
disavventura.
Il famigliare, come potè
il meglio ogni cosa ragguardata, raccontò a Pericone ciò che su v'era; il
quale, prestamente fattone giù torre le donne e le più preziose cose che in
essa erano e che aver si potessono, con esse n'andò ad un suo castello; e quivi
con vivande e con riposo riconfortate le donne, comprese, per gli arnesi
ricchi, la donna che trovata avea dovere essere gran gentil donna, e lei
prestamente conobbe all'onore che vedeva dall'altre fare a lei sola. E
quantunque pallida e assai male in ordine della persona per la fatica del mare
allor fosse la donna, pur parevano le sue fattezze bellissime a Pericone; per
la qual cosa subitamente seco diliberò, se ella marito non avesse, di volerla
per moglie, e se per moglie avere non la potesse, di volere avere la sua
amistà. Era Pericone uomo di fiera vista e robusto molto; e avendo per alcun dì
la donna ottimamente fatta servire, e per questo essendo ella riconfortata
tutta, veggendola esso oltre ad ogni estimazione bellissima, dolente senza modo
che lei intendere non poteva né ella lui, e così non poter saper chi si fosse,
acceso nondimeno della sua bellezza smisuratamente, con atti piacevoli e
amorosi s'ingegnò d'inducerla a fare senza contenzione i suoi piaceri. Ma ciò
era niente: ella rifiutava del tutto la sua dimestichezza; e intanto più
s'accendeva l'ardore di Pericone. Il che la donna veggendo, e già quivi per
alcuni giorni dimorata, e per li costumi avvisando che tra cristiani era e in
parte dove, se pure avesse saputo, il farsi conoscere le montava poco,
avvisandosi che a lungo andare o per forza o per amore le converrebbe venire a
dovere i piaceri di Pericon fare, con altezza d'animo seco propose di calcare
la miseria della sua fortuna, e alle sue femine, che più che tre rimase non le
ne erano, comandò che ad alcuna persona mai manifestassero chi fossero, salvo
se in parte si trovassero dove aiuto manifesto alla lor libertà conoscessero;
oltre a questo sommamente confortandole a conservare la loro castità,
affermando sé aver seco proposto che mai di lei se non il suo marito goderebbe.
Le sue femine di ciò la commendarono, e dissero di servare al loro potere il
suo comandamento. Pericone, più di giorno in giorno accendendosi, e tanto più
quanto più vicina si vedeva la disiderata cosa e più negata, e veggendo che le
sue lusinghe non gli valevano, di spose lo 'ngegno e l'arti, riserbandosi alla fine
le forze. Ed essendosi avveduto alcuna volta che alla donna piaceva il vino, sì
come a colei che usata non n'era di bere per la sua legge che il vietava, con
quello, sì come con ministro di Venere, s'avvisò di poterla pigliare; e
mostrando di non aver cura di ciò che ella si mostrava schifa, fece una sera,
per modo di solenne festa, una bella cena, nella quale la donna venne; e in
quella, essendo di molte cose la cena lieta, ordinò con colui che a lei
serviva, che di vari vini mescolati le desse bere. Il che colui ottimamente
fece; ed ella, che di ciò non si guardava, dalla piacevolezza del beveraggio
tirata, più ne prese che alla sua onestà non sarebbe richiesto; di che ella,
ogni avversità trapassata dimenticando, divenne lieta, e veggendo alcune femine
alla guisa di Maiolica ballare, essa alla maniera alessandrina ballò.
Il che veggendo
Pericone, esser gli parve vicino a quel che egli disiderava; e continuando in
più abbondanza di cibi e di beveraggi la cena, per grande spazio di notte la
prolungò. Ultimamente, partitisi i convitati, colla donna solo se n'entrò nella
camera; la quale, più calda di vino che d'onestà temperata, quasi come se
Pericone una delle sue femine fosse, senza alcuno ritegno di vergogna, in
presenza di lui spogliatasi, se n'entrò nel letto. Pericone non diede indugio a
seguitarla; ma spento ogni lume, prestamente dall'altra parte le si coricò
allato, e in braccio recatalasi, senza alcuna contradizione di lei, con lei
incominciò amorosamente a sollazzarsi; il che poi che ella ebbe sentito, non
avendo mai davanti saputo con che corno gli uomini cozzano, quasi pentuta del
non avere alle lusinghe di Pericone assentito, senza attendere d'essere a così
dolci notti invitata, spesse volte sé stessa invitava, non colle parole, ché
non si sapea fare intendere, ma co' fatti.
A questo gran piacere di
Pericone e di lei, non essendo la fortuna contenta d'averla di moglie d'un re
fatta divenire amica d'un castellano, le si parò davanti più crudele amistà.
Aveva Pericone un
fratello d'età di venticinque anni, bello e fresco come una rosa, il cui nome
era Marato; il quale, avendo costei veduta ed essendogli sommamente piaciuta,
parendogli, secondo che per gli atti di lei poteva comprendere, essere assai
bene della grazia sua ed estimando che ciò che di lei disiderava niuna cosa
gliele toglieva se non la solenne guardia che faceva di lei Pericone, cadde in
un crudel pensiero, e al pensiero seguì senza indugio lo scelerato effetto.
Era allora per ventura
nel porto della città una nave, la quale di mercatantia era carica per andare
in Chiarenza in Romania, della quale due giovani genovesi eran padroni, e già
aveva collata la vela per doversi, come buon vento fosse, partire; colli quali
Marato convenutosi, ordinò come da loro colla donna la seguente notte ricevuto
fosse. E questo fatto, faccendosi notte, seco ciò che far doveva avendo
disposto, alla casa di Pericone, il quale di niente da lui si guardava,
sconosciutamente se n'andò con alcuni suoi fidatissimi compagni, li quali a
quello che fare intendeva richiesti aveva, e nella casa, secondo l'ordine tra
lor posto, si nascose.
E poi che parte della
notte fu trapassata, aperto a' suoi compagni, là dove Pericon colla donna
dormiva n'andarono, e quella aperta, Pericon dormente uccisono, e la donna
desta e piagnente minacciando di morte, se alcun romore facesse, presero; e con
gran parte delle più preziose cose di Pericone, senza essere stati sentiti,
prestamente alla marina n'andarono, e quivi senza indugio sopra la nave se ne
montarono Marato e la donna, e' suoi compagni se ne tornarono.
I marinari, avendo buon
vento e fresco, fecero vela al lor viaggio.
La donna amaramente e
della sua prima sciagura e di questa seconda si dolfe molto; ma Marato, col
santo Cresciinman che Iddio ci diè, la cominciò per sì fatta maniera a
consolare, che ella, già con lui dimesticatasi, Pericone dimenticato avea; e
già le pareva star bene, quando la fortuna l'apparecchiò nuova tristizia, quasi
non contenta delle passate. Per ciò che, essendo ella di forma bellissima, sì
come già più volte detto avemo, e di maniere laudevoli molto, sì forte di lei i
due giovani padroni della nave s'innamorarono che, ogn'altra cosa
dimenticatane, solamente a servirle e a piacerle intendevano, guardandosi
sempre non Marato s'accorgesse della cagione.
Ed essendosi l'uno
dell'altro di questo amore avveduto, di ciò ebbero insieme segreto
ragionamento, e convennersi di fare l'acquisto di questo amor comune, quasi
amore così questo dovesse patire, come la mercatantia o i guadagni fanno. E
veggendola molto da Marato guardata, e per ciò alla loro intenzione impediti,
andando un dì a vela velocissimamente la nave, e Marato standosi sopra la poppa
e verso il mare riguardando, di niuna cosa da loro guardandosi, di concordia
andarono e, lui prestamente di dietro preso, il gittarono in mare; e prima per
ispazio di più d'un miglio dilungati furono, che alcuno si fosse pure avveduto
Marato esser caduto in mare; il che sentendo la donna, e non veggendosi via da
poterlo ricoverare, nuovo cordoglio sopra la nave a far cominciò.
Al conforto della quale
i due amanti incontanente vennero, e con dolci parole e con promesse
grandissime, quantunque ella poco intendesse, lei, che non tanto il perduto
Marato quanto la sua sventura piagnea, s'ingegnavan di racchetare. E dopo
lunghi sermoni e una e altra volta con lei usati, parendo loro lei quasi avere
racconsolata, a ragionamento vennero tra sé medesimi, qual prima di loro la
dovesse con seco menare a giacere. E, volendo ciascuno essere il primo, né
potendosi in ciò tra loro alcuna concordia trovare, prima con parole grave e
dura riotta incominciarono, e da quella accesi nell'ira, messo mano alle
coltella, furiosamente s'andarono addosso, e più colpi (non potendo quelli che
sopra la nave erano dividergli) si diedono insieme, de' quali incontanente l'un
cadde morto e l'altro, in molte parti della persona gravemente fedito, rimase
in vita. Il che dispiacque molto alla donna, sì come a colei che quivi sola
senza aiuto o consiglio d'alcun si vedea, e temeva forte non sopra lei l'ira si
volgesse de' parenti e degli amici de' due padroni; ma i prieghi del fedito e
il prestamente pervenire a Chiarenza, dal pericolo della morte la liberarono.
Dove col fedito insieme discese in terra, e con lui dimorando in uno albergo,
subitamente corse la fama della sua gran bellezza per la città, e agli orecchi
del prenze della Morea, il quale allora era in Chiarenza, pervenne; laonde egli
veder la volle, e vedutola, e oltre a quello che la fama portava bella
parendogli, sì forte di lei subitamente s'innamorò, che ad altro non poteva
pensare.
E avendo udito in che
guisa quivi pervenuta fosse, s'avvisò di doverla potere avere. E cercando de'
modi, e i parenti del fedito sappiendolo, senza altro aspettare, prestamente
gliele mandarono; il che al prenze fu sommamente caro e alla donna altressì,
per ciò che fuor d'un gran pericolo esser le parve. Il prenze vedendola, oltre
alla bellezza, ornata di costumi reali, non potendo altramenti saper chi ella
si fosse, nobile donna dovere essere l'estimò, e per tanto il suo amore in lei
si raddoppiò; e onorevolmente molto tenendola, non a guisa d'amica, ma di sua
propia moglie la trattava. Il perché, avendo a' trapassati mali alcun rispetto
la donna e parendole assai bene stare, tutta riconfortata e lieta divenuta, in
tanto le sue bellezze fiorirono, che di niuna altra cosa pareva che tutta la
Romania avesse da favellare. Per la qual cosa al duca d'Atene, giovane e bello
e pro'della persona, amico e parente del prenze, venne disidero di vederla; e
mostrando di venirlo a visitare, come usato era talvolta di fare, con bella e
onorevole compagnia se ne venne a Chiarenza, dove onorevolmente fu ricevuto e
con gran festa.
Poi dopo alcuni dì venuti
insieme a ragionamento delle bellezze di questa donna, domandò il duca se così
era mirabil cosa come si ragionava. A cui il prenze rispose:
– Molto più; ma di ciò
non le mie parole, ma gli occhi tuoi voglio ti faccian fede.
A che sollecitando il
duca il prenze, insieme n'andarono là dove ella era; la quale costumatamente
molto e con lieto viso, avendo davanti sentita la lor venuta, gli ricevette; e
in mezzo di loro fattala sedere, non si potè di ragionar con lei prender
piacere, per ciò che essa poco o niente di quella lingua intendeva. Per che
ciascun lei, sì come maravigliosa cosa, guardava, e il duca massimamente, il
quale appena seco poteva credere lei essere cosa mortale; e non accorgendosi,
riguardandola, dell'amoroso veleno che egli con gli occhi bevea, credendosi al
suo piacer sodisfare mirandola, sé stesso miseramente impacciò, di lei
ardentissimamente innamorandosi. E poi che da lei insieme col prenze partito si
fu ed ebbe spazio di poter pensare seco stesso, estimava il prenze sopra ogni
altro felice, sì bella cosa avendo al suo piacere; e, dopo molti e vari
pensieri, pesando più il suo focoso amore che la sua onestà, diliberò, che che
avvenir se ne dovesse, di privare di questa felicità il prenze e sé a suo
potere farne felice.
E avendo l'animo al
doversi avacciare, lasciando ogni ragione e ogni giustizia dall'una delle
parti, agl'inganni tutto il suo pensier dispose; e un giorno, secondo l'ordine
malvagio da lui preso, insieme con un segretissimo cameriere del prenze, il
quale avea nome Ciuriaci, segretissimamente tutti i suoi cavalli e le sue cose
fece mettere in assetto per doversene andare; e la notte vegnente insieme con
un compagno, tutti armati, messo fu dal predetto Ciuriaci nella camera del
prenze chetamente, il quale egli vide che per lo gran caldo che era, dormendo
la donna, esso tutto ignudo si stava ad una finestra volta alla marina a
ricevere un venticello che da quella parte veniva. Per la qual cosa, avendo il
suo compagno davanti informato di quello che avesse a fare, chetamente n'andò
per la camera infino alla finestra, e quivi con un coltello ferito il prenze
per le reni, infino all'altra parte il passò e, prestamente presolo, dalla
finestra il gittò fuori. Era il palagio sopra il mare, e alto molto, e quella
finestra alla quale allora era il prenze, guardava sopra certe case dall'impeto
del mare fatte cadere, nelle quali rade volte o non mai andava persona; per che
avvenne, sì come il duca davanti avea provveduto, che la caduta del corpo del
prenze da alcuno non fu né potè esser sentita. Il compagno del duca ciò
veggendo esser fatto, prestamente un capestro da lui per ciò portato, faccendo
vista di fare carezze a Ciuriaci, gli gittò alla gola, e tirò sì che Ciuriaci
niuno romore potè fare; e sopraggiuntovi il duca, lui strangolarono, e dove il
prenze gittato avea il gittarono. E questo fatto, manifestamente conoscendo sé
non esser stati né dalla donna né da altrui sentiti, prese il duca un lume in
mano, e quello portò sopra il letto, e chetamente tutta la donna, la quale
fisamente dormiva, scoperse; e riguardandola tutta, la lodò sommamente, e se
vestita gli era piaciuta, oltre ad ogni comparazione ignuda gli piacque. Per
che, di più caldo disio accesosi, non spaventato dal ricente peccato da lui
commesso, con le mani ancor sanguinose, allato le si coricò e con lei, tutta
sonnocchiosa e credente che il prenze fosse, si giacque.
Ma poi che alquanto con
grandissimo piacere fu dimorato con lei, levatosi e fatto alquanti de' suoi
compagni quivi venire, fe' prender la donna in guisa che romo re far non
potesse, e per una falsa porta, dond'egli entrato era, trattala, e a caval
messala, quanto più potè tacitamente, con tutti i suoi entrò in cammino, e
verso Atene se ne tornò. Ma (per ciò che moglie aveva) non in Atene, ma ad un
suo bellissimo luogo, che poco di fuori dalla città sopra il mare aveva, la
donna più che altra dolorosa mise, quivi nascosamente tenendola e faccendola
onorevolmente di ciò che bisognava servire.
Avevano la seguente
mattina i cortigiani del prenze infino a nona aspettato che 'l prenze si
levasse; ma niente sentendo, sospinti gli usci delle camere, che solamente
chiusi erano, e niuna persona trovandovi, avvisando che occultamente in alcuna
parte andato fosse per istarsi alcun dì a suo diletto con quella sua bella donna,
più non si dierono impaccio.
E così standosi, avvenne
che il dì seguente un matto, entrato intra le ruine dove il corpo del prenze e
di Ciuriaci erano, per lo capestro tirò fuori Ciuriaci, e andavaselo tirando
dietro. Il quale non senza gran maraviglia fu riconosciuto da molti, li quali
con lusinghe fattisi menare al matto là, onde tratto l'avea, quivi, con
grandissimo dolore di tutta la città, quello del prenze trovarono, e
onorevolmente il sepellirono; e de' commettitori di così grande eccesso investigando,
e veggendo il duca d'Atene non esservi, ma essersi furtivamente partito,
estimarono, così come era, lui dovere aver fatto questo e menatasene la donna.
Per che prestamente in lor prenze un fratello del morto prenze sustituendo, lui
alla vendetta con ogni lor potere incitarono; il quale, per più altre cose poi
accertato così essere come imaginato avieno, richiesti e amici e parenti e
servidori di diverse parti, prestamente congregò una bella e grande e poderosa
oste, e a far guerra al duca d'Atene si dirizzò.
Il duca, queste cose
sentendo, a difesa di sé similmente ogni suo sforzo apparecchiò, e in aiuto di
lui molti signor vennero, tra' quali, mandati dallo imperadore di Costantino
poli, furono Constanzio suo figliuolo e Manovello suo nepote, con bella e con
gran gente; li quali dal duca onorevolemente ricevuti furono, e dalla duchessa
più, per ciò che loro sirocchia era.
Appressandosi di giorno
in giorno più alla guerra le cose, la duchessa, preso tempo, amenduni nella
camera se gli fece venire, e quivi con lagrime assai e con parole molte tutta
la istoria narrò, le cagioni della guerra mostrando e il dispetto a lei fatto
dal duca della femina, la quale nascosamente si credeva tenere; e forte di ciò
condogliendosi, gli pregò che allo onor del duca e alla consolazion di lei
quello compenso mettessero, che per loro si potesse il migliore.
Sapevano i giovani tutto
il fatto come stato era, e per ciò, senza troppo addomandar, la duchessa come
seppero il meglio riconfortarono e di buona speranza la riempirono; e da lei
informati dove stesse la donna, si dipartirono. E avendo molte volte udita la
donna di maravigliosa bellezza commendare, disideraron di vederla e il duca
pregarono che loro la mostrasse. Il quale, mal ricordandosi di ciò che al
prenze avvenuto era per averla mostrata a lui, promise di farlo; e fatto in un
bellissimo giardino (che nel luogo, dove la donna dimorava, era) apparecchiare
un magnifico desinare, loro la seguente mattina con pochi altri compagni a
mangiar con lei menò.
E sedendo Constanzio con
lei, la cominciò a riguardare pieno di maraviglia, seco affermando mai sì bella
cosa non aver veduta, e che per certo per iscusato si doveva avere il duca e
qualunque altro che, per avere una così bella cosa, facesse tradimento o altra
disonesta cosa; e una volta e altra mirandola, e più ciascuna commendandola,
non altramenti a lui avvenne che al duca avvenuto era. Per che, da lei
innamorato partitosi, tutto il pensiero della guerra abbandonato, si diede a
pensare come al duca torre la potesse, ottimamente a ciascuna persona il suo
amor celando.
Ma, mentre che esso in
questo fuoco ardeva, sopravenne il tempo d'uscire contro al prenze, che già
alle terre del duca s'avvicinava; per che il duca e Constanzio e gli altri
tutti, secondo l'ordine dato, d'Atene usciti, andarono a contrastare a certe
frontiere, acciò che più avanti non potesse il prenze venire. E quivi per più
dì dimorando, avendo sempre Constanzio l'animo e 'l pensiero a quella donna,
imaginando che, ora che 'l duca non l'era vicino, assai bene gli potrebbe venir
fatto il suo piacere, per aver cagione di tornarsi ad Atene si mostrò forte
della persona disagiato; per che, con licenzia del duca, commessa ogni sua
podestà in Manovello, ad Atene se ne venne alla sorella, e quivi, dopo alcun dì,
messala nel ragionare del dispetto che dal duca le pareva ricevere per la donna
la qual teneva, le disse che, dove ella volesse, egli assai bene di ciò
l'aiuterebbe, faccendola di colà ove era trarre e menarla via.
La duchessa, estimando
Constanzio questo per amore di lei e non della donna fare, disse che molto le
piacea, sì veramente dove in guisa si facesse che il duca mai non risapesse che
essa a questo avesse consentito; il che Constanzio pienamente le promise. Per
che la duchessa consentì che egli, come il meglio gli paresse, facesse.
Constanzio chetamente
fece armare una barca sottile, e, quella una sera ne mandò vicina al giardino
dove dimorava la donna, informati de' suoi che su v'erano quello che a fare
avessero, e appresso con altri n'andò al palagio dove era la donna; dove da
quegli che quivi al servigio di lei erano fu lietamente ricevuto, e ancora
dalla donna, e con esso lui da' suoi servidori accompagnata e da' compagni di
Constanzio, sì come gli piacque, se n'andò nel giardino. E quasi alla donna da
parte del duca parlar volesse con lei verso una porta che sopra il mare usciva
solo se n'andò, la quale già essendo da uno de suoi compagni aperta, e quivi
col segno dato chiamata la barca, fattala prestamente prendere e sopra la barca
porre, rivolto alla famiglia di lei disse:
– Niuno se ne muova né
faccia motto, se egli non vuol morire, per ciò che io intendo non di rubare al
duca la femina sua, ma di torre via l'onta la quale egli fa alla mia sorella.
A questo niuno ardì di
rispondere; per che Constanzio co' suoi sopra la barca montato e alla donna che
piagnea accostatosi, comandò che de' remi dessero in acqua e andasser via. Li
quali, non vogando ma volando, quasi in sul dì del seguente giorno ad Egina pervennero.
Quivi in terra discesi e riposandosi, Constanzio colla donna, che la sua
sventurata bellezza piagnea, si sollazzò; quindi, rimontati in su la barca,
infra pochi giorni pervennero a Chios, e quivi, per tema delle riprensioni del
padre e che la donna rubata non gli fosse tolta, piacque a Constanzio, come in
sicuro luogo, di rimanersi; dove più giorni la bella donna pianse la sua
disavventura; ma pur poi da Constanzio riconfortata, come l'altre volte fatto
avea, s'incominciò a prendere piacere di ciò che la fortuna avanti
l'apparecchiava.
Mentre queste cose
andavano in questa guisa, Osbech, allora re de' turchi, il quale in continua
guerra stava collo imperadore, in questo tempo venne per caso alle Smirre; e
quivi udendo come Constanzio in lasciva vita con una sua donna, la quale rubata
avea, senza alcun provedimento si stava in Chios, con alcuni legnetti armati là
andatone una notte e tacitamente colla sua gente nella terra entrato, molti
sopra le letta ne prese prima che s'accorgessero li nemici esser sopravenuti; e
ultimamente alquanti, che, risentiti, erano all'arme corsi, n'uccisero; e arsa
tutta la terra, e la preda e' prigioni sopra le navi posti, verso le Smirre si
ritornarono.
Quivi pervenuti,
trovando Osbech, che giovane uomo era, nel riveder della preda, la bella donna,
e cono scendo questa esser quella che con Constanzio era stata sopra il letto
dormendo presa, fu sommamente contento veggendola; e senza niuno indugio sua
moglie la fece e celebrò le nozze e con lei si giacque più mesi lieto.
Lo 'mperadore, il quale,
avanti che queste cose avvenissero, aveva tenuto trattato con Basano re di
Capadocia, acciò che sopra Osbech dall'una parte con le sue forze discendesse,
ed egli colle sue l'assalirebbe dall'altra, né ancora pienamente l'aveva potuto
fornire, per ciò che alcune cose le quali Basano addomandava, sì come meno
convenevoli, non aveva voluto fare, sentendo ciò che al figliuolo era avvenuto,
dolente fuor di misura, senza alcuno indugio ciò che il re di Capadocia
domandava fece, e lui quanto più potè allo scendere sopra Osbech sollecitò,
apparecchiandosi egli d'altra parte d'andargli addosso.
Osbech, sentendo questo,
il suo essercito ragunato, prima che da due potentissimi signori fosse stretto
in mezzo, andò contro al re di Capadocia, lasciata nelle Smirre a guardia d'un
suo fedel famigliare e amico la sua bella donna, e col re di Capadocia dopo
alquanto tempo affrontatosi combatté, e fu nella battaglia morto e il suo
essercito sconfitto e disperso. Per che Basano vittorioso cominciò liberamente
a venirsene verso le Smirre, e vegnendo, ogni gente a lui, sì come a vincitore,
ubbidiva.
Il famigliare d'Osbech,
il cui nome era Antioco, a cui la bella donna era a guardia rimasa, ancora che
attempato fosse, veggendola così bella, senza servare al suo amico e signor
fede, di lei s'innamorò; e sappiendo la lingua di lei (il che molto a grado
l'era, sì come a colei alla quale parecchi anni a guisa quasi di sorda e di
mutola era convenuta vivere, per lo non aver persona inteso, né essa essere stata
intesa da persona), da amore incitato, cominciò seco tanta famigliarità a
pigliare in pochi dì, che non dopo molto, non avendo riguardo al signor loro
che in arme e in guerra era, fecero la dimestichezza non solamente amichevole,
ma amorosa divenire, l'uno dell'altro pigliando sotto le lenzuola maraviglioso
piacere. Ma sentendo costoro Osbech essere vinto e morto, e Basano ogni cosa
venir pigliando, insieme per partito presero di quivi non aspettarlo; ma, presa
grandissima parte delle più care cose che quivi eran d'Osbech, insieme
nascosamente se n'andarono a Rodi; e quivi non guari di tempo dimorarono, che
Antioco infermò a morte. Col quale tornando per ventura un mercatante cipriano,
da lui molto amato e sommamente suo amico, sentendosi egli verso la fine
venire, pensò di volere e le sue cose e la sua cara donna lasciare a lui. E già
alla morte vicino, amenduni gli chiamò, così dicendo:
– Io mi veggio senza
alcun fallo venir meno; il che mi duole, per ciò che di vivere mai non mi giovò
come or faceva. È il vero che d'una cosa contentissimo muoio, per ciò che, pur
dovendo morire, mi veggio morire nelle braccia di quelle due persone le quali
io più amo che alcune altre che al mondo ne sieno, cioè nelle tue, carissimo
amico, e in quelle di questa donna, la quale io più che me medesimo ho amata
poscia che io la conobbi. È il vero che grave m'è, lei sentendo qui forestiera
e senza aiuto e senza consiglio, morendomi io, rimanere; e più sarebbe grave
ancora, se io qui non sentissi te, il quale io credo che quella cura di lei
avrai per amor di me, che di me medesimo avresti; e per ciò quanto più posso ti
priego, che s'egli avviene che io muoia, che le mie cose ed ella ti sieno
raccomandate, e quello dell'une e dell'altra facci, che credi che sia
consolazione dell'anima mia. E te, carissima donna, priego che dopo la mia
morte me non dimentichi, acciò che io di là vantar mi possa, che io di qua
amato sia dalla più bella donna che mai formata fosse dalla natura. Se di
queste due cose voi mi darete intera speranza, senza niun dubbio n'andrò
consolato. L'amico mercatante e la donna similmente, queste parole udendo,
piagnevano; e avendo egli detto, il confor tarono e promisongli sopra la lor
fede di quel fare che egli pregava, se avvenisse che el morisse. Il quale non
stette guari che trapassò e da loro fu onorevolmente fatto sepellire.
Poi, pochi dì appresso,
avendo il mercatante cipriano ogni suo fatto in Rodi spacciato e in Cipri
volendosene tornare sopra una cocca di catalani che v'era, domandò la bella
donna quello che far volesse, con ciò fosse cosa che a lui convenisse in Cipri
tornare. La donna rispose che con lui, se gli piacesse, volentieri se
n'andrebbe, sperando che per amor d'Antioco da lui come sorella sarebbe
trattata e riguardata. Il mercatante rispose che d'ogni suo piacere era
contento; e acciò che da ogni ingiuria che sopravenire le potesse avanti che in
Cipri fosser la difendesse, disse che era sua moglie. E sopra la nave montati,
data loro una cameretta nella poppa, acciò che i fatti non paressero alle parole
contrari, con lei in uno lettuccio assai piccolo si dormiva. Per la qual cosa
avvenne quello che né dell'un né dell'altro nel partir da Rodi era stato
intendimento, cioè che incitandogli il buio e l'agio e 'l caldo del letto, le
cui forze non son piccole, dimenticata l'amistà e l'amor d'Antioco morto, quasi
da iguale appetito tirati, cominciatisi a stuzzicare insieme, prima che a Baffa
giugnessero, là onde era il cipriano, insieme fecero parentado; e a Baffa
pervenuti, più tempo insieme col mercatante si stette.
Avvenne per ventura che
a Baffa venne per alcuna sua bisogna un gentile uomo, il cui nome era Antigono,
la cui età era grande, ma il senno maggiore, e la ricchezza piccola; per ciò
che in assai cose intramettendosi egli ne' servigi del re di Cipri, gli era la
fortuna stata contraria. Il quale, passando un giorno davanti la casa dove la
bella donna dimorava, essendo il cipriano mercatante andato con sua mercatantia
in Erminia, gli venne per ventura ad una finestra della casa di lei questa
donna veduta, la quale, per ciò che bellissima era, fiso cominciò a riguardare,
e cominciò seco stesso a ricordarsi di doverla avere altra volta veduta, ma il
dove in niuna maniera ricordar si poteva.
La bella donna, la quale
lungamente trastullo della fortuna era stata, appressandosi il termine nel
quale i suoi mali dovevano aver fine, come ella Antigono vide, così si ricordò
di lui in Alessandria ne' servigi del padre in non piccolo stato aver veduto;
per la qual cosa subita speranza prendendo di dover potere ancora nello stato
real ritornare per lo colui consiglio, non sentendovi il mercatante suo, come
più tosto potè, si fece chiamare Antigono. Il quale a lei venuto, ella
vergognosamente domandò se egli Antigono di Famagosta fosse, sì come ella
credeva. Antigono rispose del sì, e oltre a ciò disse:
– Madonna, a me par voi
riconoscere, ma per niuna cosa mi posso ricordar dove, per che io vi priego, se
grave non v'è, che a memoria mi riduciate chi voi siete.
La donna, udendo che
desso era, piagnendo forte gli si gittò colle braccia al collo, e dopo
alquanto, lui che forte si maravigliava domandò se mai in Alessandria veduta
l'avesse. La qual domanda udendo Antigono, incontanente riconobbe costei essere
Alatiel figliuola del soldano, la quale morta in mare si credeva che fosse, e
vollele fare la debita reverenza; ma ella nol sostenne e pregollo che seco
alquanto si sedesse. La qual cosa da Antigono fatta, egli reverentemente la
domandò come e quando e donde quivi venuta fosse, con ciò fosse cosa che per
tutta terra d'Egitto s'avesse per certo lei in mare, già eran più anni passati,
essere annegata.
A cui la donna disse:
– Io vorrei bene che
così fosse stato più tosto che avere avuta la vita la quale avuta ho, e credo
che mio padre vorrebbe il simigliante, se giammai il saprà –; e così detto
ricominciò maravigliosamente a piagnere.
Per che Antigono le
disse:
– Madonna, non vi
sconfortate prima che vi bisogni; se vi piace, narratemi i vostri accidenti e
che vita sia stata la vostra; per avventura l'opera potrà essere andata in modo
che noi ci troveremo collo aiuto di Dio buon compenso.
– Antigono, – disse la
bella donna – a me parve, come io ti vidi, vedere il padre mio, e da quello
amore e da quella tenerezza, che io a lui tenuta son di portare, mossa,
potendomiti celare, mi ti feci palese, e di poche persone sarebbe potuto
addivenire d'aver vedute, delle quali io tanto contenta fossi, quanto sono
d'aver te innanzi ad alcuno altro veduto e riconosciuto; e per ciò quello che
nella mia malvagia fortuna ho sempre tenuto nascoso, a te, sì come a padre,
paleserò. Se vedi, poi che udito l'avrai, di potermi in alcuno modo nel mio
pristino stato tornare, priegoti l'adoperi; se nol vedi, ti priego che mai ad
alcuna persona dichi d'avermi veduta o di me avere alcuna cosa sentita.
E questo detto, sempre
piagnendo, ciò che avvenuto l'era dal dì che in Maiolica ruppe infino a quel
punto, gli raccontò. Di che Antigono pietosamente a piagnere cominciò; e poi
che alquanto ebbe pensato, disse:
– Madonna, poi che
occulto è stato ne' vostri infortuni chi voi siete, senza fallo più cara che
mai vi renderò al vostro padre, e appresso per moglie al re del Garbo.
E, domandato da lei del
come, ordinatamente ciò che da far fosse le dimostrò; e acciò che altro per
indugio intervenir non potesse, di presente si tornò Antigono in Famagosta, e
fu al re, al qual disse:
– Signor mio, se a voi
aggrada, voi potete ad una ora a voi far grandissimo onore, e a me, che povero
sono per voi, grande utile senza gran vostro costo.
Il re domandò come.
Antigono allora disse:
– A Baffa è pervenuta la
bella giovane figliuola del soldano, di cui è stata così lunga fama che
annegata era, e per servare la sua onestà grandissimo disagio ha sofferto
lungamente, e al presente è in povero stato e disidera di tornarsi al padre. Se
a voi piacesse di mandargliele sotto la mia guardia questo sarebbe grande onor
di voi, e di me gran bene; né credo che mai tal servigio di mente al soldano
uscisse.
Il re, da una reale onestà
mosso, subitamente rispose che gli piacea; e onoratamente per lei mandando, a
Famagosta la fece venire, dove da lui e dalla reina con festa inestimabile e
con onor magnifico fu ricevuta. La qual poi dal re e dalla reina de' suoi casi
addomandata, secondo l'ammaestramento datole da Antigono rispose e contò tutto.
E pochi dì appresso,
addomandandolo ella, il re, con bella e onorevole compagnia d'uomini e di
donne, sotto il governo d'Antigono la rimandò al soldano; dal quale se con
festa fu ricevuta niun ne dimandi, e Antigono similmente con tutta la sua
compagnia. La quale poi che alquanto fu riposata, volle il soldano sapere come
fosse che viva fosse, e dove tanto tempo dimorata, senza mai avergli fatto di
suo stato alcuna cosa sentire. La donna, la quale ottimamente gli
ammaestramenti d'Antigono aveva tenuti a mente, appresso al padre così cominciò
a parlare:
– Padre mio, forse il
ventesimo giorno dopo la mia partita da voi, per fiera tempesta la nostra nave,
sdrucita, percosse a certe piaggie là in ponente, vicine d'un luogo chiamato
Aguamorta una notte; e che che degli uomini, che sopra la nostra nave erano,
s'avvenisse, io nol so né seppi giammai; di tanto mi ricorda che, venuto il
giorno, e io quasi di morte a vita risurgendo, essendo già la stracciata nave
da' paesani veduta ed essi a rubar quella di tutta la contrada corsi, io con
due delle mie femine prima sopra il lito poste fummo, e incontanente da'
giovani prese, chi qua con una e chi là con un'altra cominciarono a fuggire.
Che di loro si fosse io nol seppi mai; ma, avendo me contrastante due giovani
presa e per le trecce tirandomi, piagnendo io sempre forte, av venne che,
passando costoro che mi tiravano una strada per entrare in un grandissimo
bosco, quattro uomini in quella ora di quindi passavano a cavallo, li quali
come quegli che mi tiravano vidono, così lasciatami prestamente presero a
fuggire.
Li quattro uomini, li
quali nel sembiante assai autorevoli mi parevano, veduto ciò, corsero dove io
era e molto mi domandarono, e io dissi molto, ma né da loro fui intesa né io
loro intesi. Essi, dopo lungo consiglio, postami sopra uno de' lor cavalli, mi
menarono ad uno monastero di donne secondo la lor legge religiose, e quivi, che
che essi dicessero, io fui da tutte benignamente ricevuta e onorata sempre, e
con gran divozione con loro insieme ho poi servito a san Cresci in Val Cava, a
cui le femine di quel paese voglion molto bene. Ma, poi che per alquanto tempo
con loro dimorata fui, e già alquanto avendo della loro lingua apparata,
domandandomi esse chi io fossi e donde, e io conoscendo là dove io era e
temendo, se il vero dicessi, non fossi da lor cacciata sì come nemica della lor
legge, risposi che io era figliuola d'un gran gentile uomo di Cipri, il quale
mandandomene a marito in Creti, per fortuna quivi eravam corsi e rotti.
E assai volte in assai
cose, per tema di peggio, servai i lor costumi; e domandata dalla maggiore di
quelle donne, la quale elle appellan badessa, se in Cipri tornare me ne
volessi, risposi che niuna cosa tanto desiderava; ma essa, tenera del mio
onore, mai ad alcuna persona fidar non mi volle che verso Cipri venisse, se
non, forse due mesi sono, venuti quivi certi buoni uomini di Francia colle loro
donne, de' quali alcun parente v'era della badessa, e sentendo essa che in
Jerusalem andavano a visitare il Sepolcro, dove colui cui tengon per Iddio fu
sepellito poi che da' giudei fu ucciso, a loro mi raccomandò, e pregogli che in
Cipri a mio padre mi dovessero presentare.
Quanto questi gentili
uomini m'onorassono e lietamente mi ricevessero insieme colle lor donne, lunga
istoria sarebbe a raccontare. Saliti adunque sopra una nave, dopo più giorni
pervenimmo a Baffa; e quivi veggendomi pervenire, né persona conoscendomi né
sappiendo che dovermi dire a' gentili uomini che a mio padre mi volean
presentare, secondo che loro era stato imposto dalla veneranda donna,
m'apparecchiò Iddio, al qual forse di me incresceva, sopra il lito Antigono in
quella ora che noi a Baffa smontavamo; il quale io prestamente chiamai, e in
nostra lingua, per non essere da' gentili uomini né dalle lor donne intesa, gli
dissi che come figliuola mi ricevesse. Egli prestamente m'intese; e fattami la
festa grande, quegli gentili uomini e quelle donne secondo la sua povera
possibilità onorò, e me ne menò al re di Cipri, il quale con quello onor mi
ricevette e qui a voi m'ha rimandata, che mai per me raccontare non si
potrebbe. Se altro a dir ci resta, Antigono, che molte volte da me ha questa
mia fortuna udita, il racconti.
Antigono allora al
soldano rivolto disse:
– Signor mio,
ordinatissimamente sì come ella m'ha più volte detto e come quegli gentili
uomini colli quali venne mi dissero, v'ha raccontato. Solamente una parte v'ha
lasciata a dire, la quale io estimo che, per ciò che bene non sta a lei di
dirlo, l'abbia fatto; e questo è, quanto quegli gentili uomini e donne, colli
quali venne, dicessero della onesta vita la quale con le religiose donne aveva
tenuta e della sua virtù e de' suoi laudevoli costumi, e delle lagrime e del
pianto che fecero e le donne e gli uomini quando, a me restituitola, si
partiron da lei. Delle quali cose se io volessi a pien dire ciò che essi mi
dissero, non che il presente giorno, ma la seguente notte non ci basterebbe;
tanto solamente averne detto voglio che basti, che (secondo che le loro parole
mostravano e quello ancora che io n'ho potuto vedere) voi vi potete vantare
d'avere la più bella figliuola e la più onesta e la più valorosa che altro
signore che oggi corona porti. Di queste cose fece il soldano maravigliosissima
festa e più volte pregò Iddio che grazia gli concedesse di poter degni meriti
rendere a chiunque avea la figliuola onorata, e massimamente al re di Cipri,
per cui onoratamente gli era stata rimandata; e appresso alquanti dì, fatti
grandissimi doni apparecchiare ad Antigono, al tornarsi in Cipri il licenziò,
al re per lettere e per speziali ambasciadori grandissime grazie rendendo di
ciò che fatto aveva alla figliuola.
Appresso questo, volendo
che quello che cominciato era avesse effetto, cioè che ella moglie fosse del re
del Garbo, a lui ogni cosa significò pienamente, scrivendoli oltre a ciò che,
se gli piacesse d'averla, per lei si mandasse. Di ciò fece il re del Garbo gran
festa, e mandato onorevolmente per lei, lietamente la ricevette. Ed essa che
con otto uomini forse diecemilia volte giaciuta era, allato a lui si coricò per
pulcella, e fecegliele credere che così fosse; e reina con lui lietamente poi
più tempo visse. E perciò si disse: – Bocca baciata non perde ventura, anzi
rinnuova come fa la luna.
NOVELLA OTTAVA
Il conte d'Anguersa,
falsamente accusato, va in essilio e lascia due suoi figliuoli in diversi
luoghi in Inghilterra, ed egli sconosciuto tornando, lor truova in buono stato,
va come ragazzo nello essercito del re di Francia, e riconosciuto innocente, è
nel primo stato ritornato.
Sospirato fu molto dalle
donne per li vari casi della bella donna: ma chi sa che cagione moveva que'
sospiri? Forse v'eran di quelle che non meno per vaghezza di così spesse nozze
che per pietà di colei sospiravano. Ma lasciando questo stare al presente,
essendosi da loro riso per l'ultime parole da Panfilo dette, e veggendo la
reina in quelle la novella di lui esser finita, ad Elissa rivolta, impose che con
una delle sue l'ordine seguitasse. La quale, lietamente faccendolo, in
cominciò.
Ampissimo campo è quello
per lo quale noi oggi spaziando andiamo, né ce n'è alcuno, che, non che uno
aringo, ma diece non ci potesse assai leggiermente correre, sì copioso l'ha
fatto la Fortuna delle sue nuove e gravi cose; e per ciò, venendo di quelle che
infinite sono a raccontare alcuna, dico che essendo lo 'mperio di Roma da'
franceschi né tedeschi trasportato, nacque tra l'una nazione e l'altra
grandissima nimistà e acerba e continua guerra, per la quale, sì per la difesa
del suo paese e sì per l'offesa dell'altrui, il re di Francia e un suo
figliuolo, con ogni sforzo del lor regno, e appresso d'amici e di parenti, che
far poterono, ordinarono un grandissimo essercito per andare sopr'a'nimici; e
avanti che a ciò procedessero, per non lasciare il regno senza governo,
sentendo Gualtieri conte d'Anguersa gentile e savio uomo e molto lor fedele
amico e servidore, e ancora che assai ammaestrato fosse nell'arte della guerra,
per ciò che loro più alle dilicatezze atto che a quelle fatiche parea, lui in
luogo di loro sopra tutto il governo del rea me di Francia general vicario
lasciarono, e andarono al loro cammino.
Cominciò adunque
Gualtieri e con senno e con ordine l'uficio commesso, sempre d'ogni cosa colla
reina e colla nuora di lei conferendo; e benché sotto la sua custodia e
giurisdizione lasciate fossero, nondimeno come sue donne e maggiori in ciò che
per lui si poteva l'onorava. Era il detto Gualtieri del corpo bellissimo e
d'età forse di quaranta anni, e tanto piacevole e costumato, quanto alcuno
altro gentile uomo il più esser potesse; e, oltre a tutto questo, era il più
leggiadro e il più dilicato cavaliere che a quegli tempi si conoscesse, e
quegli che più della persona andava ornato.
Ora avvenne che, essendo
il re di Francia e il figliuolo nella guerra già detta, essendosi morta la
donna di Gualtieri e a lui un figliuol maschio e una femina piccoli fanciulli
rimasi di lei senza più, che costumando egli alla corte delle donne predette e
con loro spesso parlando delle bisogne del regno, che la donna del figliuol del
re gli pose gli occhi addosso e con grandissima affezione la persona di lui e i
suoi costumi considerando, d'occulto amore ferventemente di lui s'accese; e sé
giovane e fresca sentendo e lui senza alcuna donna, si pensò leggiermente
doverle il suo disidero venir fatto, e pensando niuna cosa a ciò contrastare,
se non vergogna, di manifestargliele si dispose del tutto e quella cacciar via.
Ed, essendo un giorno sola e parendole tempo, quasi d'altre cose con lui
ragionar volesse, per lui mandò. Il conte, il cui pensiero era molto lontano da
quel della donna, senza alcuno indugio a lei andò; e postosi, come ella volle,
con lei sopra un letto in una camera tutti soli a sedere, avendola il conte già
due volte domandata della cagione per che fatto l'avesse venire ed ella
taciuto, ultimamente da amor sospinta, tutta di vergogna divenuta vermiglia,
quasi piagnendo e tutta tremante, con parole rotte così cominciò a dire:
– Carissimo e dolce
amico e signor mio, voi potete, come savio uomo, agevolmente conoscere quanta
sia la fragilità e degli uomini e delle donne, e per diverse cagioni più in una
che in altra; per che debitamente dinanzi a giusto giudice un medesimo peccato
in diverse qualità di persone non dee una medesima pena ricevere. E chi sarebbe
colui che dicesse che non dovesse molto più essere da riprendere un povero uomo
o una povera femina, a' quali colla loro fatica convenisse guadagnare quello
che per la vita loro lor bisognasse, se da amore stimolati fossero e quello
seguissero, che una donna la quale fosse ricca e oziosa, e a cui niuna cosa che
a' suoi disideri piacesse mancasse? Certo io non credo niuno. Per la quale
ragione io estimo che grandissima parte di scusa debbian fare le dette cose in
servigio di colei che le possiede, se ella per avventura si lascia trascorrere
ad amare; e il rimanente debbia fare l'avere eletto savio e valoroso amadore,
se quella l'ha fatto che ama. Le quali cose con ciò sia cosa che amendune,
secondo il mio parere, sieno in me, e, oltre a queste, più altre le quali ad
amare mi debbono inducere, sì come a la mia giovanezza e la lontananza del mio
marito, ora convien che surgano in servigio di me alla difesa del mio focoso
amore nel vostro cospetto; le quali, se quel vi potranno che nella presenza de'
savi debbon potere, io vi priego che consiglio e aiuto in quello che io vi
dimanderò mi porgiate. Egli è il vero che, per la lontananza di mio marito, non
potend'io agli stimoli della carne né alla forza d'amore contrastare, le quali
sono di tanta potenzia che i fortissimi uomini, non che le tenere donne, hanno
già molte volte vinti e vincono tutto il giorno, essendo io negli agi e negli
ozi né quali voi mi vedete, a secondare li piaceri d'amore e a divenire
innamorata mi sono lasciata trascorrere; e come che tal cosa, se saputa fosse,
io conosca non essere onesta, nondimeno, essendo e stando nascosa, quasi di
niuna cosa esser disonesta la giudichi, pur m'è di tanto Amore stato grazioso, che
egli non solamente non m'ha il debito conoscimento tolto nello eleggere
l'amante, ma me n'ha molto in ciò prestato, voi degno mostrandomi da dovere da
una donna, fatta come sono io, essere amato; il quale, se 'l mio avviso non
m'inganna, io reputo il più bello, il più piacevole e 'l più leggiadro e 'l più
savio cavaliere, che nel reame di Francia trovar si possa; e sì come io senza
marito posso dire che io mi veggia, così voi ancora senza mogliere. Per che io
vi priego, per cotanto amore quanto è quello che io vi porto, che voi non
neghiate il vostro verso di me e che della mia giovanezza v'incresca, la qual
veramente come il ghiaccio al fuoco si consuma per voi.
A queste parole
sopravennero in tanta abbondanza le lagrime, che essa, che ancora più prieghi
intendeva di porgere, più avanti non ebbe poter di parlare; ma, bassato il viso
e quasi vinta, piagnendo, sopra il seno del conte si lasciò colla testa cadere.
Il conte, il quale
lealissimo cavaliere era, con gravissime riprensioni cominciò a mordere così
folle amore e a sospignerla indietro, che già al collo gli si voleva gittare; e
con saramenti ad affermare che egli prima sofferrebbe d'essere squartato, che
tal cosa contro allo onore del suo signore né in sé né in altrui consentisse.
Il che la donna udendo, subitamente dimenticato l'amore e in fiero furore
accesa, disse:
– Dunque sarò io, villan
cavaliere, in questa guisa da voi del mio disidero schernita? Unque a Dio non
piaccia, poi che voi volete me far morire, che io voi o morire o cacciar del
mondo non faccia.
E così detto, ad una ora
messesi le mani né capelli e rabbuffatigli stracciatigli tutti, e appresso nel
petto squarciandosi i vestimenti, cominciò a gridar forte:
– Aiuto aiuto, ché 'l
conte d'Anguersa mi vuol far forza. Il conte, veggendo questo e dubitando forte
più della invidia cortigiana che della sua coscienza e, temendo per quella non
fosse più fede data alla malvagità della donna che alla sua innocenzia,
levatosi come più tosto potè della camera e del palagio s'uscì e fuggissi a
casa sua, dove, senza altro consiglio prendere, pose i suoi figliuoli a
cavallo, ed egli montatovi altressì, quanto più potè, n'andò verso Calese.
Al romor della donna
corsero molti, li quali, vedutola e udita la cagione del suo gridare, non
solamente per quello dieder fede alle sue parole, ma aggiunsero la leggiadria e
la ornata maniera del conte, per potere a quel venire, essere stata da lui
lungamente usata. Corsesi adunque a furore alle case del conte per arrestarlo;
ma non trovando lui, prima le rubar tutte e appresso infino a' fondamenti le
mandar giuso.
La novella, secondo che
sconcia si diceva, pervenne nell'oste al re e al figliuolo; li quali turbati
molto a perpetuo essilio lui e i suoi discendenti dannarono, grandissimi doni
promettendo a chi o vivo o morto loro il presentasse. Il conte, dolente che
d'innocente fuggendo s'era fatto nocente, pervenuto senza farsi conoscere o
esser conosciuto co' suoi figliuoli a Calese, prestamente trapassò in
Inghilterra, e in povero abito n'andò verso Londra, nella quale prima che
entrasse, con molte parole ammaestrò i due piccioli figliuoli, e massimamente
in due cose: prima, che essi pazientemente comportassero lo stato povero nel
quale senza lor colpa la fortuna con lui insieme gli aveva recati; e appresso,
che con ogni sagacità si guardassero di mai non manifestare ad alcuno onde si
fossero né di cui figliuoli, se cara avevan la vita.
Era il figliuolo,
chiamato Luigi, di forse nove anni, e la figliuola, che nome avea Violante,
n'avea forse sette; li quali, secondo che comportava la lor tenera età, assai
ben compresero l'ammaestramento del padre loro, e per opera il mostrarono
appresso. Il che, acciò che meglio far si potesse, gli parve di dover loro i
nomi mutare, e così fece; e nominò il maschio Perotto, e Giannetta la femina; e
pervenuti poveramente vestiti in Londra, a guisa che far veggiamo a questi
paltoni franceschi, si diedono ad andar la limosina addomandando.
Ed essendo per ventura
in tal servigio una mattina ad una chiesa, avvenne che una gran dama, la quale
era moglie dell'uno de' maliscalchi del re d'Inghilterra, uscendo della chiesa,
vide questo conte e i due suoi figlioletti, che limosina addomandavano; il
quale ella domandò donde fosse e se suoi erano quegli figliuoli. Alla quale
egli rispose che era di Piccardia e che, per misfatto d'un suo maggior
figliuolo, ribaldo, con quegli due che suoi erano, gli era convenuto partire.
La dama, che pietosa
era, pose gli occhi sopra la fanciulla, e piacquele molto, per ciò che bella e
gentilesca e avvenente era, e disse:
– Valente uomo, se tu ti
contenti di lasciare appresso di me questa tua figlioletta, per ciò che buono
aspetto ha, io la prenderò volentieri; e se valente femina sarà, io la mariterò
a quel tempo che convenevole sarà in maniera che starà bene.
Al conte piacque molto
questa domanda e prestamente rispose del sì, e con lagrime gliele diede e
raccomandò molto. E così avendo la figliuola allogata e sappiendo bene a cui,
diliberò di più non dimorar quivi; e limosinando traversò l'isola e con Perotto
pervenne in Gales non senza gran fatica, sì come colui che d'andare a piè non
era uso.
Quivi era un altro de'
maliscalchi del re, il quale grande stato e molta famiglia tenea, nella corte
del quale il conte alcuna volta, ed egli è l figliuolo, per aver da mangiare,
molto si riparavano.
Ed essendo in essa alcun
figliuolo del detto maliscalco, e altri fanciulli di gentili uomini, e faccendo
cotali pruove fanciullesche sì come di correre e di saltare, Perotto
s'incominciò con loro a mescolare e a fare così destramente, o più, come alcuno
degli altri facesse, ciascuna pruova che tra lor si faceva. Il che il
maliscalco alcuna volta veggendo, e piacendogli molto la maniera è modi del
fanciullo, domandò chi egli fosse.
Fugli detto che egli era
figliuolo d'un povero uomo, il quale alcuna volta per limosina là entro veniva.
A cui il maliscalco il fece addimandare; e il conte, sì come colui che d'altro
Iddio non pregava, liberamente gliel concedette, quantunque noioso gli fosse il
da lui dipartirsi. Avendo adunque il conte il figliuolo e la figliuola acconci,
pensò di più non voler dimorare in Inghilterra; ma, come il meglio potè, se ne
passò in Irlanda, e pervenuto a Stanforda, con un cavaliere d'un conte paesano
per fante si pose, tutte quelle cose faccendo che a fante o a ragazzo possono
appartenere; e quivi, senza esser mai da alcuno conosciuto, con assai disagio e
fatica, dimorò lungo tempo.
Violante, chiamata
Giannetta, colla gentil donna in Londra venne crescendo e in anni e in persona
e in bellezza e in tanta grazia e della donna e del marito di lei e di ciascuno
altro della casa e di chiunque la conoscea, che era a veder maravigliosa cosa;
né alcuno era che a' suoi costumi e alle sue maniere riguardasse, che lei non
dicesse dovere essere degna d'ogni grandissimo bene e onore. Per la qual cosa
la gentil donna che lei dal padre ricevuta avea, senza aver mai potuto sapere
chi egli si fosse altramenti che da lui udito avesse, s'era proposta di doverla
onorevolmente, secondo la condizione della quale estimava che fosse, maritare.
Ma Iddio, giusto
riguardatore degli altrui meriti, lei nobile femina conoscendo e senza colpa
penitenzia portar dello altrui peccato, altramente dispose; e acciò che a mano
di vile uomo la gentil giovane non venisse, si dee credere che quello che
avvenne egli per sua benignità permettesse.
Aveva la gentil donna,
colla quale la Giannetta dimorava, un solo figliuolo del suo marito, il quale
ed essa e 'l padre sommamente amavano, sì perché figliuolo era e sì ancora
perché per virtù e per meriti il valeva, come colui che più che altro e
costumato e valoroso e pro' e bello della persona era. Il quale, avendo forse
sei anni più che la Giannetta, e lei veggendo bellissima e graziosa, sì forte
di lei s'innamorò, che più avanti di lei non vedeva. E per ciò che egli
imaginava lei di bassa condizion dovere essere, non solamente non ardiva
addomandarla al padre e alla madre per moglie; ma temendo non fosse ripreso che
bassamente si fosse ad amar messo, quanto poteva il suo amore teneva nascoso:
per la qual cosa troppo più che se palesato l'avesse lo stimolava. Laonde
avvenne che, per soverchio di noia, egli infermò, e gravemente. Alla cura del
quale essendo più medici richiesti, e avendo un segno e altro guardato di lui e
non potendo la sua infermità tanto conoscere, tutti comunemente si disperavano
della sua salute. Di che il padre e la madre del giovane portavano sì gran
dolore e malinconia, che maggiore non si saria potuta portare: e più volte con
pietosi prieghi il domandavano della cagione del suo male, a' quali o sospiri
per risposta dava, o che tutto si sentia consumare.
Avvenne un giorno che,
sedendosi appresso di lui un medico assai giovane, ma in scienzia profondo
molto, e lui per lo braccio tenendo in quella parte dove essi cercano il polso,
la Giannetta, la quale, per rispetto della madre di lui, lui sollicitamente
serviva, per alcuna cagione entrò nella camera nella quale il giovane giacea.
La quale come il giovane vide, senza alcuna parola o atto fare, sentì con più
forza nel cuore l'amoroso ardore, per che il polso più forte cominciò a
battergli che l'usato; il che il medico sentì incontanente e maravigliossi, e
stette cheto per vedere quanto questo battimento dovesse durare. Come la
Giannetta uscì dalla camera, e il battimento ristette; per che parte parve al
medico avere della cagione della infermità del giovane; e stato alquanto, quasi
d'alcuna cosa volesse la Giannetta addomandare, sempre tenendo per lo braccio
lo 'nfermo, la si fè chiamare. Al quale ella venne incontanente; né prima nella
camera entrò, che 'l battimento del polso ritornò al giovane; e lei partita,
cessò. Laonde, parendo al medico avere assai piena certezza, levatosi e tratti
da parte il padre e la madre del giovane, disse loro:
– La sanità del vostro
figliuolo non è nello aiuto de' medici, ma nelle mani della Giannetta dimora,
la quale, sì come io ho manifestamente per certi segni conosciuto, il giovane
focosamente ama, come che ella non se ne accorge, per quello che io vegga.
Sapete omai che a fare v'avete, se la sua vita v'è cara.
Il gentile uomo e la sua
donna, questo udendo, furon contenti, in quanto pure alcun modo si trovava al
suo scampo, quantunque loro molto gravasse che quello, di che dubitavano, fosse
desso, cioè di dover dare la Giannetta al loro figliuolo per isposa.
Essi adunque, partito il
medico, se n'andarono allo infermo, e dissegli la donna così:
– Figliuol mio, io non
avrei mai creduto che da me d'alcuno tuo disidero ti fossi guardato, e
spezialmente veggendoti tu, per non aver quello, venir meno; per ciò che tu
dovevi esser certo e dei che niuna cosa è che per contentamento di te far
potessi, quantunque meno che onesta fosse, che io come per me medesima non la
facessi; ma poi che pur fatta l'hai, è avvenuto che Domeneddio è stato
misericordioso di te più che tu medesimo, e a ciò che tu di questa infermità
non muoia, m'ha dimostrata la cagione del tuo male, la quale niuna altra cosa è
che soverchio amore, il quale tu porti ad alcuna giovane, qual che ella si sia.
E nel vero di manifestar questo non ti dovevi tu vergognare, per ciò che la tua
età il richiede, e se tu innamorato non fossi, io ti riputerei da assai poco.
Adunque, figliuol mio, non ti guardare da me, ma sicuramente ogni tuo disidero
mi scuopri; e la malinconia e il pensiero il quale hai e dal quale questa
infermità procede, gitta via e confortati e renditi certo che niuna cosa sarà
per sodisfacimento di te che tu m'imponghi, che io a mio potere non faccia, sì
come colei che te più amo che la mia vita. Caccia via la vergogna e la paura, e
dimmi se io posso intorno al tuo amore adoperare alcuna cosa; e se tu non
truovi che io a ciò sia sollicita e ad effetto tel rechi, abbimi per la più
crudel madre che mai partorisse figliuolo.
Il giovane, udendo le
parole della madre, prima si vergognò, poi, seco pensando che niuna persona
meglio di lei potrebbe al suo piacere sodisfare, cacciata via la vergogna, così
le disse:
– Madonna, niuna altra
cosa mi v'ha fatto tenere il mio amor nascoso quanto l'essermi nelle più delle
persone avveduto che, poi che attempati sono, d'essere stati giovani ricordar
non si vogliono. Ma, poi che in ciò discreta vi veggio, non solamente quello di
che dite vi siete accorta non negherò esser vero, ma ancora di cui vi farò
manifesto, con cotal patto che effetto seguirà alla vostra promessa a vostro
potere, e così mi potrete aver sano. Al quale la donna (troppo fidandosi di ciò
che non le doveva venir fatto nella forma nella qual già seco pensava)
liberamente rispose che sicuramente ogni suo disidero l'aprisse; ché ella senza
alcuno indugio darebbe opera a fare che egli il suo piacere avrebbe.
– Madama, – disse allora
il giovane – l'alta bellezza e le laudevoli maniere della nostra Giannetta, e
il non poterla fare accorgere, non che pietosa, del mio amore, e il non avere
ardito mai di manifestarlo ad alcuno, m'hanno condotto dove voi mi vedete; e se
quello che promesso m'avete o in un modo o in un altro non segue, state sicura
che la mia vita fia brieve.
La donna, a cui più
tempo da conforto che da riprensioni parea, sorridendo disse:
– Ahi, figliuol mio,
dunque per questo t'hai tu lasciato aver male? Confortati e lascia fare a me,
poi che guarito sarai.
Il giovane, pieno di
buona speranza, in brevissimo tempo di grandissimo miglioramento mostrò segni,
di che la donna contenta molto si dispose a voler tentare come quello potesse
osservare che promesso avea. E, chiamata un dì la Giannetta per via di motti
assai cortesemente la domandò se ella avesse alcuno amadore. La Giannetta,
divenuta tutta rossa, rispose:
– Madama, a povera
damigella e di casa sua cacciata, come io sono, e che all'altrui servigio
dimori, come io fo, non si richiede né sta bene l'attendere ad amore.
A cui la donna disse:
– E se voi non l'avete,
noi ve ne vogliamo donare uno, di che voi tutta giuliva viverete e più della
vostra biltà vi diletterete; per ciò che non a' convenevole che così bella
damigella, come voi siete, senza amante dimori.
A cui la Giannetta
rispose:
– Madama, voi dalla
povertà di mio padre togliendomi, come figliuola cresciuta m'avete, e per
questo ogni vostro piacer far dovrei; ma in questo io non vi piacerò già,
credendomi far bene. Se a voi piacerà di donarmi marito, colui intendo io
d'amare, ma altro no; per ciò che della eredità de' miei passati avoli niuna
cosa rimasa m'è se non l'onestà, quella intendo io di guardare e di servare
quanto la vita mi durerà.
Questa parola parve
forte contraria alla donna a quello a che di venire intendea per dovere al
figliuolo la promessa servare, quantunque, sì come savia donna, molto seco
medesima ne commendasse la damigella, e disse:
– Come, Giannetta? Se
monsignore lo re, il quale è giovane cavaliere, e tu se' bellissima damigella,
volesse del tuo amore alcun piacere, negherestigliele tu?
Alla quale essa
subitamente rispose:
– Forza mi potrebbe fare
il re, ma di mio consentimento mai da me, se non quanto onesto fosse, aver non
potrebbe.
La donna, comprendendo
qual fosse l'animo di lei, lasciò stare le parole e pensossi di metterla alla
pruova; e così al figliuol disse di fare, come guarito fosse, di metterla con
lui in una camera e ch'egli s'ingegnasse d'avere di lei il suo piacere, dicendo
che disonesto le pareva che essa, a guisa d'una ruffiana, predicasse per lo
figliuolo e pregasse la sua damigella.
Alla qual cosa il
giovane non fu contento in alcuna guisa, e di subito fieramente peggiorò: il
che la donna veggendo, aperse la sua intenzione alla Giannetta. Ma più costante
che mai trovandola, raccontato ciò che fatto avea al marito, ancora che grave
loro paresse, di pari consentimento diliberarono di dargliele per isposa,
amando meglio il figliuol vivo con moglie non convenevole a lui che morto senza
alcuna; e così, dopo molte novelle, fecero.
Di che la Giannetta fu
contenta molto e con divoto cuore ringraziò Iddio che lei non avea dimenticata;
né per tutto questo mai altro che figliuola d'un piccardo si disse.
Il giovane guerì, e fece
le nozze più lieto che altro uomo, e cominciossi a dare buon tempo con lei.
Perotto, il quale in
Gales col maliscalco del re d'lnghilterra era rimaso, similmente crescendo
venne in grazia del signor suo, e divenne di persona bellissimo e pro' quanto
alcuno altro che nell'isola fosse, intanto che né in tornei né in giostre, né
in qualunque altro atto d'arme niuno era nel paese che quello valesse che egli;
perché per tutto, chiamato da loro Perotto il piccardo, era conosciuto e
famoso.
E come Iddio la sua
sorella dimenticata non avea, così similmente d'aver lui a mente dimostrò; per
ciò che, venuta in quella contrada una pestilenziosa mortalità, quasi la metà
della gente di quella se ne portò; senza che grandissima parte del rimaso per
paura in altre contrade se ne fuggirono; di che il paese tutto pareva
abbandonato. Nella qual mortalità il maliscalco suo signore e la donna di lui e
un suo figliuolo e molti altri e fratelli e nepoti e parenti tutti morirono, né
altro che una damigella già da marito di lui rimase e, con alcuni altri
famigliari, Perotto. Il quale, cessata al quanto la pestilenza, la damigella,
per ciò che prod'uomo e valente era, con piacere e consiglio d'alquanti pochi
paesani vivi rimasi, per marito prese e di tutto ciò che a lei per eredità
scaduto era il fece signore.
Nè guari di tempo passò
che, udendo il re d'lnghilterra il maliscalco esser morto e conoscendo il valor
di Perotto il piccardo, in luogo di quello che morto era il sustituì e fecelo
suo maliscalco. E così brievemente avvenne de' due innocenti figliuoli del
corte d'Anguersa da lui per perduti lasciati.
Era già il deceottesimo
anno passato poi che il conte d'Anguersa, fuggendo, di Parigi s'era partito,
quando a lui dimorante in Irlanda, avendo in assai misera vita molte cose
patite, già vecchio veggendosi, venne voglia di sentire, se egli potesse,
quello che de' figliuoli fosse addivenuto. Per che del tutto della forma, della
quale esser solea, veggendosi trasmutato e sentendosi per lo lungo esercizio
più della persona atante che quando giovane in ozio dimorando non era,
partitosi assai povero e male in arnese da colui col quale lungamente era
stato, se ne venne in Inghilterra e là se ne andò dove Perotto avea lasciato, e
trovò lui esser maliscalco e gran signore, e videlo sano e atante e bello della
persona; il che gli aggradì forte, ma farglisi conoscere non volle infino a
tanto che saputo non avesse della Giannetta.
Per che, messosi in
cammino, prima non ristette che in Londra pervenne; e quivi, cautamente domandato
della donna alla quale la figliuola lasciata avea e del suo stato, trovò la
Giannetta moglie del figliuolo; il che forte gli piacque, e ogni sua avversità
preterita reputò piccola, poiché vivi aveva ritrovati i figliuoli e in buono
stato. E disideroso di poterla vedere, cominciò come povero uomo a ripararsi
vicino alla casa di lei. Dove un giorno, veggendol Giachetto Lamiens, che così
era chiamato il marito della Giannetta, avendo di lui compassione per ciò che
povero e vecchio il vide, comandò ad uno de' suoi famigliari che nella sua casa
il menasse e gli facesse dare da mangiar per Dio, il che il famigliare
volentier fece. Aveva la Giannetta avuti di Giachetto già più figliuoli, de'
quali il maggiore non avea oltre ad otto anni, ed erano i più belli e i più
vezzosi fanciulli del mondo. Li quali, come videro il conte mangiare, così
tutti quanti gli fur dintorno e cominciarogli a far festa, quasi da occulta
virtù mossi avesser sentito costui loro avolo essere. Il quale, suoi nepoti
cognoscendoli, cominciò loro a mostrare amore e a far carezze; per la qual cosa
i fanciulli da lui non si volean partire, quantunque colui che al governo di
loro attendea gli chiamasse. Per che la Giannetta, ciò sentendo, uscì d'una
camera e quivi venne laddove era il conte, e minacciogli forte di battergli, se
quello che il lor maestro volea non facessero. I fanciulli cominciarono a
piagnere e a dire ch'essi volevano stare appresso a quel prod'uomo, il quale
più che il lor maestro gli amava; di che e la donna e 'l conte si rise.
Erasi il conte levato,
non miga a guisa di padre ma di povero uomo, a fare onore alla figliuola sì
come a donna, e maraviglioso piacere veggendola avea sentito nell'animo. Ma
ella né allora né poi il conobbe punto, per ciò che oltre modo era trasformato
da quello che esser soleva, sì come colui che vecchio e canuto e barbuto era, e
magro e bruno divenuto, e più tosto un altro uomo pareva che il conte. E
veggendo la donna che i fanciulli da lui partir non si voleano, ma volendogli
partire piagnevano, disse al maestro che alquanto gli lasciasse stare.
Standosi adunque i
fanciulli col prod'uomo, avvenne che il padre di Giachetto tornò e dal maestro
loro sentì questo fatto; per che egli, il quale a schifo avea la Giannetta,
disse:
– Lasciagli stare colla
mala ventura che Iddio dea loro; ché essi fanno ritratto da quello onde nati
sono. Essi son per madre discesi di paltoniere, e per ciò non a' da
maravigliarsi se volentier dimoran con paltonieri.
Queste parole udì il
conte, e dolfergli forte; ma pure nelle spalle ristretto, così quella ingiuria
sofferse come molte altre sostenute avea.
Giachetto, che sentita
aveva la festa che i figliuoli al prod'uomo, cioè al conte, facevano,
quantunque gli dispiacesse, nondimeno tanto gli amava che, avanti che piagner
gli vedesse, comandò che, se 'l prod'uomo ad alcun servigio là entro dimorar
volesse, che egli vi fosse ricevuto. Il quale rispose che vi rimanea
volentieri, ma che altra cosa far non sapea che attendere a' cavalli, di che
tutto il tempo della sua vita era usato. Assegnatogli adunque un cavallo, come
quello governato avea, al trastullare i fanciulli intendea.
Mentre che la fortuna,
in questa guisa che divisata è, il conte d'Anguersa e i figliuoli menava,
avvenne che il re di Francia, molte triegue fatte con gli alamanni, morì, e in
suo luogo fu coronato il figliuolo, del quale colei era moglie per cui il conte
era stato cacciato. Costui, essendo l'ultima triegua finita, co' tedeschi
ricominciò asprissima guerra; in aiuto del quale, sì come nuovo parente, il re
d'lnghilterra mandò molta gente sotto il governo di Perotto suo maliscalco e di
Giachetto Lamiens figliuolo dell'altro maliscalco; col quale il prod'uomo, cioè
il conte, andò e, senza essere da alcuno riconosciuto, dimorò nell'oste per
buono spazio a guisa di ragazzo; e quivi, come valente uomo, e con consigli e
con fatti più che a lui non si richiedea, assai di bene adoperò.
Avvenne durante la
guerra che la reina di Francia infermò gravemente; e conoscendo ella sé
medesima venire alla morte, contrita d'ogni suo peccato, divotamente si
confessò dallo arcivescovo di Ruem, il quale da tutti era tenuto uno santissimo
e buono uomo, e tra gli altri peccati gli narrò ciò che per lei a gran torto il
conte d'Anguersa ricevuto avea. Nè solamente fu a lui contenta di dirlo, ma
davanti a molti altri valenti uomini tutto come era stato raccontò, pregandogli
che col re operassono che 'l conte, se vivo fosse, e se non, alcun de' suoi
figliuoli nel loro stato restituiti fossero; né guari poi dimorò che, di questa
vita passata, onorevolmente fu sepellita. La qual confessione al re raccontata,
dopo alcun doloroso sospiro delle ingiurie fatte al valente uomo a torto, il
mosse a fare andare per tutto l'essercito, e oltre a ciò in molte altre parti,
una grida, che chi il conte d'Anguersa o alcuno de' figliuoli gli rinsegnasse,
maravigliosamente da lui per ogn'uno guiderdonato sarebbe; con ciò fosse cosa
che egli lui per innocente di ciò per che in essilio andato era l'avesse, per
la confessione fatta dalla reina, e nel primo stato e in maggiore intendeva di
ritornarlo. Le quali cose il conte in forma di ragazzo udendo, e sentendo che
così era il vero, subitamente fu a Giachetto e il pregò che con lui insieme
fosse con Perotto, per ciò che egli voleva lor mostrare ciò che il re andava
cercando.
Adunati adunque tutti e
tre insieme, disse il conte a Perotto, che già era in pensiero di palesarsi:
– Perotto, Giachetto,
che è qui, ha tua sorella per mogliere, né mai n'ebbe alcuna dota; e per ciò,
acciò che tua sorella senza dota non sia, io intendo che egli e non altri abbia
questo benificio che il re promette così grande per te, e ti rinsegni sì come
figliuolo del conte d'Anguersa, e per la Violante tua sorella e sua mogliere, e
per me che il conte d'Anguersa e vostro padre sono.
Perotto, udendo questo e
fiso guardandolo, tantosto il riconobbe, e piagnendo gli si gittò a' piedi e
abbracciollo dicendo:
– Padre mio, voi siate
il molto ben venuto.
Giachetto, prima udendo
ciò che il conte detto avea e poi veggendo quello che Perotto faceva, fu ad
un'ora da tanta maraviglia e da tanta allegrezza soprappreso, che appena sapeva
che far si dovesse; ma pur, dando alle parole fede e vergognandosi forte di
parole ingiuriose già da lui verso il conte ragazzo usate, piagnendo gli si
lasciò cadere a' piedi e umilmente d'ogni oltraggio passato domandò perdonanza,
la quale il conte assai benignamente, in piè rilevatolo, gli diede.
E poi che i vari casi di
ciascuno tutti e tre ragionati ebbero, e molto piantosi e molto rallegratosi
insieme, volendo Perotto e Giachetto rivestire il conte, per niuna maniera il
sofferse, ma volle che, avendo prima Giachetto certezza d'avere il guiderdon
promesso, così fatto e in quello abito di ragazzo, per farlo più vergognare,
gliele presentasse.
Giachetto adunque col
conte e con Perotto appresso venne davanti al re e offerse di presentargli il
conte e i figliuoli, dove, secondo la grida fatta, guiderdonare il dovesse. Il
re prestamente per tutti fece il guiderdon venire maraviglioso agli occhi di
Giachetto, e comandò che via il portasse dove con verità il conte e i figliuoli
dimostrasse come promettea. Giachetto allora, voltatosi indietro e davanti
messosi il conte suo ragazzo e Perotto, disse:
– Monsignore, ecco qui
il padre e 'l figliuolo; la figliuola, ch'è mia mogliere, e non è qui, con
l'aiuto di Dio tosto vedrete.
Il re, udendo questo,
guardò il conte e, quantunque molto da quello che esser solea trasmutato fosse,
pur, dopo l'averlo alquanto guardato, il riconobbe; e quasi con le lagrime in
su gli occhi, lui che ginocchione stava levò in piede, e il baciò e abbracciò,
e amichevolmente ricevette Perotto, e comandò che incontanente il conte di
vestimenti, di famiglia e di cavalli e d'arnesi rimesso fosse in assetto,
secondo che alla sua nobilità si richiedea; la qual cosa tantosto fu fatta.
Oltre a questo, onorò il re molto Perotto, e volle ogni cosa sapere di tutti i
suoi preteriti casi.
E quando Giachetto prese
gli alti guiderdoni per l'avere insegnati il conte è figliuoli, gli disse il
conte:
– Prendi cotesti doni
dalla magnificenza di monsignore lo re, e ricordera'ti di dire a tuo padre che
i tuoi figliuoli, suoi e miei nepoti, non sono per madre nati di paltoniere.
Giachetto prese i doni,
e fece a Parigi venir la moglie e la suocera, e vennevi la moglie di Perotto; e
quivi in grandissima festa furon col conte, il quale il re avea in ogni suo ben
rimesso e maggior fattolo che fosse giammai. Poi ciascuno colla sua licenzia
tornò a casa sua, ed esso infino alla morte visse in Parigi più gloriosamente
che mai.
NOVELLA NONA
Bernabò da Genova, da
Ambrogiuolo ingannato, perde il suo e comanda che la moglie innocente sia
uccisa. Ella scampa, e in abito d'uomo serve il soldano; ritrova lo
'ngannatore, e Bernabò conduce in Alessandria, dove lo ngannatore punito,
ripreso abito feminile, col marito ricchi si tornano a Genova.
Avendo Elissa colla sua
compassionevole novella il suo dover fornito, Filomena reina, la quale bella e
grande era della persona, e nel viso più che altra piacevole e ridente, sopra
sé recatasi, disse:
– Servar si vogliono i
patti a Dioneo, e però, non restandoci altri che egli e io a novellare, io dirò
prima la mia, ed esso, che di grazia il chiese, l'ultimo fia che dirà –; e
questo detto, così cominciò.
Suolsi tra' volgari
spesse volte dire un cotal proverbio, che lo 'ngannatore rimane a piè dello
'ngannato; il quale non pare che per alcuna ragione si possa mostrare esser
vero, se per gli accidenti che avvengono non si mostrasse. E per ciò seguendo
la proposta, questo insiememente, carissime donne, esser vero come si dice m'è
venuto in talento di dimostrarvi; né vi dovrà esser discaro d'averlo udito,
acciò che dagli 'ngannatori guardar vi sappiate.
Erano in Parigi in uno
albergo alquanti grandissimi mercatanti italiani, qual per una bisogna e qual
per un'altra, secondo la loro usanza; e avendo una sera fra l'altre tutti
lietamente cenato, cominciarono di diverse cose a ragionare; e d'un
ragionamento in altro travalicando, pervennero a dire delle lor donne, le quali
alle lor case avevan lasciate. E motteggiando cominciò alcuno a dire:
– Io non so come la mia
si fa, ma questo so io bene, che quando qui mi viene alle mani alcuna
giovinetta che mi piaccia, io lascio stare dall'un de' lati l'amore il quale io
porto a mia mogliere, e prendo di questa qua quel piacere che io posso.
L'altro rispose:
– E io fo il
simigliante, perciò che se io credo che la mia donna alcuna sua ventura
procacci, ella il fa, e se io nol credo, sì 'l fa; e per ciò a fare a far sia;
quale asino dà in parete, tal riceve.
Il terzo quasi in questa
medesima sentenzia parlando pervenne; e brievemente tutti pareva che a questo
s'accordassero, che le donne lasciate da loro non volessero perder tempo.
Un solamente, il quale
avea nome Bernabò Lomellin da Genova, disse il contrario, affermando sé di
spezial grazia da Dio avere una donna per moglie la più compiuta di tutte
quelle virtù che donna o ancora cavaliere in gran parte o donzello dee avere,
che forse in Italia ne fosse un'altra; per ciò che ella era bella del corpo e
giovine ancora assai e destra e atante della persona, né alcuna cosa era che a
donna appartenesse, sì come di lavorar lavorii di seta e simili cose, che ella
non facesse meglio che alcun'altra. Oltre a questo niuno scudiere, o famigliar
che dir vogliamo, diceva trovarsi, il quale meglio né più accortamente servisse
ad una tavola d'un signore, che serviva ella, sì come colei che era
costumatissima savia e discreta molto. Appresso questo la commendò meglio
sapere cavalcare un cavallo, tenere uno uccello, leggere e scrivere e fare una
ragione, che se un mercatante fosse; e da questo, dopo molte altre lode,
pervenne a quello di che quivi si ragionava, affermando con saramento
niun'altra più onesta né più casta potersene trovar di lei; per la qual cosa
egli credeva certamente che, se egli diece anni o sempre mai fuor di casa
dimorasse, che ella mai a così fatte novelle non intenderebbe con altro uomo.
Era, tra questi mercatanti che così ragionavano, un giovane mercatante,
chiamato Ambrogiuolo da Piagenza, il quale di questa ultima loda che Bernabò
avea data alla sua donna cominciò a far le maggior risa del mondo, e gabbando
il domandò se lo 'mperadore gli avea questo privilegio più che a tutti gli
altri uomini conceduto. Bernabò, un poco turbatetto, disse che non lo
'mperadore ma Iddio, il quale poteva un poco più che lo 'mperadore, gli avea
questa grazia conceduta.
Allora disse Ambrogiuolo:
– Bernabò, io non dubito
punto che tu non ti creda dir vero; ma, per quello che a me paia, tu hai poco
riguardato alla natura delle cose; per ciò che, se riguardato v'avessi, non ti
sento di sì grosso ingegno che tu non avessi in quella cognosciuto cose che ti
farebbono sopra questa materia più temperatamente parlare. E per ciò che tu non
creda che noi, che molto largo abbiamo delle nostre mogli parlato, crediamo
avere altra moglie o altrimenti fatta che tu, ma da uno naturale avvedimento
mossi così abbiam detto, voglio un poco con teco sopra questa materia
ragionare.
Io ho sempre inteso
l'uomo essere il più nobile animale che tra' mortali fosse creato da Dio, e
appresso la femina; ma l'uomo, sì come generalmente si crede e vede per opere,
è più perfetto; e avendo più di perfezione, senza alcun fallo dee avere più di
fermezza e così ha, per ciò che universalmente le femine sono più mobili, e il
perché si potrebbe per molte ragioni naturali dimostrare, le quali al presente
intendo di lasciare stare. Se l'uomo adunque è di maggior fermezza e non si può
tenere che non condiscenda, lasciamo stare ad una che 'l prieghi, ma pure a non
disiderare una che gli piaccia, e oltre al disidero, di far ciò che può acciò
che con quella esser possa, e questo non una volta il mese, ma mille il giorno
avvenirgli; che speri tu che una donna naturalmente mobile, possa fare a'
prieghi, alle lusinghe, a' doni, a mille altri modi che userà uno uomo savio
che l'ami? Credi che ella si possa tenere? Certo, quantunque tu te l'affer mi,
io non credo che tu 'l creda; e tu medesimo dì che la moglie tua è femina e
ch'ella è di carne e d'ossa come sono l'altre. Per che, se così è, quegli
medesimi disideri deono essere i suoi e quelle medesime forze che nell'altre
sono a resistere a questi naturali appetiti; per che possibile è, quantunque
ella sia onestissima, che ella quello che l'altre faccia; e niuna cosa
possibile è così acerbamente da negare, o da affermare il contrario a quella,
come tu fai.
Al quale Bernabò rispose
e disse:
– Io son mercatante e
non fisofolo, e come mercatante risponderò. E dico che io conosco ciò che tu dì
potere avvenire alle stolte, nelle quali non è alcuna vergogna; ma quelle che
savie sono hanno tanta sollecitudine dello onor loro, che elle diventan forti
più che gli uomini, che di ciò non si curano, a guardarlo; e di queste così
fatte è la mia.
Disse Ambrogiuolo:
– Veramente, se per ogni
volta che elle a queste così fatte novelle attendono, nascesse loro un corno
nella fronte, il quale desse testimonianza di ciò che fatto avessero, io mi
credo che poche sarebber quelle che v'attendessero; ma, non che il corno nasca,
egli non se ne pare a quelle che savie sono né pedata né orma; e la vergogna e
'l guastamento del l'onore non consiste se non nelle cose palesi; per che,
quando possono occultamente, il fanno, o per mattezza lasciano. E abbi questo
per certo che colei sola è casta, la quale o non fu mai da alcun pregata, o se
pregò, non fu esaudita. E quantunque io conosca per naturali e vere ragioni
così dovere essere, non ne parlerei io così appieno come io fo, se io non ne
fossi molte volte e con molte stato alla pruova. E dicoti così, che se io fossi
presso a questa tua così santissima donna, io mi crederrei in brieve spazio di
tempo recarla a quello che io ho già dell'altre recate.
Bernabò turbato rispose:
– Il quistionar con
parole potrebbe distendersi troppo; tu diresti e io direi, e alla fine niente
monterebbe. Ma poi che tu dì che tutte sono così pieghevoli e che 'l tuo
ingegno è cotanto, acciò che io ti faccia certo della onestà della mia donna,
io son disposto che mi sia tagliata la testa se tu mai a cosa che ti piaccia in
cotale atto la puoi conducere; e se tu non puoi, io non voglio che tu perda
altro che mille fiorin d'oro.
Ambrogiuolo, già in su
la novella riscaldato, rispose:
– Bernabò, io non so
quello ch'io mi facessi del tuo sangue se io vincessi; ma se tu hai voglia di
vedere pruova di ciò che io ho già ragionato, metti cinquemilia fiorin d'oro
de' tuoi, che meno ti deono esser cari che la testa, contro a mille de' miei; e
dove tu niuno termine poni, io mi voglio obbligare d'andare a Genova e infra
tre mesi dal dì che io mi partirò di qui aver della tua donna fatta mia
volontà, e in segno di ciò recarne meco delle sue cose più care e sì fatti e
tanti indizi che tu medesimo confesserai esser vero; sì veramente che tu mi
prometterai sopra la tua fede infra questo termine non venire a Genova né
scrivere a lei alcuna cosa di questa materia. Bernabò disse che gli piacea
molto; e quantunque gli altri mercatanti, che quivi erano, s'ingegnassero di
sturbar questo fatto, conoscendo che gran male ne potea nascere, pure erano de'
due mercatanti sì gli animi accesi, che, oltre al voler degli altri, per belle
scritte di lor mano s'obbligarono ]'uno all'altro.
E fatta la obbligagione,
Bernabò rimase e Ambrogiuolo quanto più tosto potè se ne venne a Genova. E
dimoratovi alcun giorno e con molta cautela informatosi del nome della contrada
e de' costumi della donna, quello e più ne 'ntese che da Bernabò udito n'avea;
per che gli parve matta impresa aver fatta. Ma pure, accontatosi con una povera
femina che molto nella casa usava e a cui la donna voleva gran bene, non
potendola ad altro inducere, con denari la corruppe e a lei in una cassa
artificiata a suo modo si fece portare, non solamente nella casa, ma nella
camera della gentil donna; e quivi, come se in alcuna parte andar volesse, la
buona femina, secondo l'ordine datole da Ambrogiuolo, la raccomandò per alcun
dì.
Rimasa adunque la cassa
nella camera e venuta la notte, all'ora che Ambrogiuolo avvisò che la donna
dormisse, con certi suoi ingegni apertala, chetamente nella camera uscì, nella
quale un lume acceso avea. Per la qual cosa egli il sito della camera, le
dipinture e ogni altra cosa notabile che in quella era cominciò a ragguardare e
a fermare nella sua memoria.
Quindi, avvicinatosi al
letto e sentendo che la donna e una piccola fanciulla, che con lei era,
dormivan forte, pianamente scopertola tutta, vide che così era bella ignuda
come vestita, ma niuno segnale da potere rapportare le vide, fuori che uno
ch'ella n'avea sotto la sinistra poppa, ciò era un neo d'intorno al quale erano
alquanti peluzzi biondi come oro; e, ciò veduto, chetamente la ricoperse, come
che, così bella vedendola, in disiderio avesse di mettere in avventura la vita
sua e coricarlesi allato. Ma pure, avendo udito lei essere così cruda e
alpestra intorno a quelle novelle, non s'arrischiò; e statosi la maggior parte
della notte per la camera a suo agio, una borsa e una guarnacca d'un suo
forziere trasse e alcuno anello e alcuna cintura, e ogni cosa nella cassa sua
messa, egli altressì vi si ritornò, e così la serrò come prima stava; e in
questa maniera fece due notti, senza che la donna di niente s'accorgesse.
Vegnente il terzo dì,
secondo l'ordine dato, la buona femina tornò per la cassa sua e colà la riportò
onde levata l'avea; della quale Ambrogiuolo uscito, e contentata secondo la
promessa la femina, quanto più tosto potè con quelle cose si tornò a Parigi
avanti il termine preso. Quivi, chiamati que' mercatanti che presenti erano
stati alle parole e al metter de' pegni, presente Bernabò, disse sé aver vinto
il pegno tra lor messo, perciò che fornito aveva quello di che vantato s'era; e
che ciò fosse vero, primieramente disegnò la forma della camera e le dipinture
di quella, e appresso mostrò le cose che di lei aveva seco recate, affermando
da lei averle avute.
Confessò Bernabò così
esser fatta la camera come diceva e oltre a ciò sé riconoscere quelle cose
veramente della sua donna essere state; ma disse lui aver potuto da alcuno de'
fanti della casa sapere la qualità della camera e in simil maniera avere avute
le cose; per che, se altro non dicea, non gli parea che questo bastasse a
dovere aver vinto.
Per che Ambrogiuolo disse:
– Nel vero questo doveva
bastare; ma, poi che tu vuogli che io più avanti ancora dica, e io il dirò.
Dicoti che madonna Zinevra tua mogliere ha sotto la sinistra poppa un neo ben
grandicello, dintorno al quale son forse sei peluzzi biondi come oro.
Quando Bernabò udì
questo, parve che gli fosse dato d'un coltello al cuore, siffatto dolore sentì;
e tutto nel viso cambiato, eziandio se parola non avesse detta, diede assai
manifesto segnale ciò esser vero che Ambrogiuolo diceva, e dopo alquanto disse:
– Signori, ciò che
Ambrogiuolo dice è vero; e perciò, avendo egli vinto, venga qualor gli piace e
sì si paghi –; e così fu il dì seguente Ambrogiuolo interamente pagato.
E Bernabò, da Parigi
partitosi, con fellone animo contro alla donna verso Genova se ne venne. E
appressandosi a quella non volle in essa entrare, ma si rimase ben venti miglia
lontano ad essa ad una sua possessione; e un suo famigliare, in cui molto si
fidava, con due cavalli e con sue lettere mandò a Genova, scrivendo alla donna
come tornato era e che con lui a lui venisse; e al famiglio segretamente impose
che, come in parte fosse colla donna che migliore gli paresse, senza niuna
misericordia la dovesse uccidere e a lui tornarsene.
Giunto adunque il
famigliare a Genova e date le lettere e fatta l'ambasciata, fu dalla donna con
gran festa ricevuto, la quale la seguente mattina, montata col famigliare a
cavallo, verso la sua possessione prese il cammino. E camminando insieme e di
varie cose ragionando, pervennero in uno vallone molto profondo e solitario e
chiuso d'alte grotte e d'alberi, il quale parendo al famigliare luogo da dovere
sicuramente per sé fare il comandamento del suo signore, tratto fuori il
coltello e presa la donna per lo braccio, disse:
– Madonna, raccomandate
l'anima vostra a Dio, ché a voi, senza passar più avanti, convien morire.
La donna, vedendo il
coltello e udendo le parole, tutta spaventata disse:
– Mercè per Dio! anzi
che tu mi uccida, dimmi di che io t'ho offeso, che tu uccider mi debbi.
– Madonna, – disse il
famigliare, – me non avete offeso d'alcuna cosa; ma di che voi offeso abbiate
il vostro marito io nol so, se non che egli mi comandò che, senza alcuna
misericordia aver di voi, io in questo cammin v'uccidessi; e se io nol facessi,
mi minacciò di farmi impiccar per la gola. Voi sapete bene quant'io gli son
tenuto, e come io di cosa che egli m'imponga possa dir di no; sallo Iddio che
di voi m'incresce, ma io non posso altro. A cui la donna piagnendo disse:
– Ahi mercé per Dio! non
volere divenire micidiale di chi mai non t'offese, per servire altrui. Iddio,
che tutto conosce, sa che io non feci mai cosa per la quale io dal mio marito
debbia così fatto merito ricevere. Ma lasciamo ora star questo; tu puoi, quando
tu vogli, ad una ora piacere a Dio e al tuo signore e a me in questa maniera:
che tu prenda questi miei panni, e solamente il tuo farsetto e un cappuccio; e
con essi torni al mio e tuo signore, e dichi che tu m'abbi uccisa; e io ti
giuro, per quella salute la quale tu donata m'avrai, che io mi dileguerò e
andronne in parte che mai né a lui né a te né in queste contrade di me perverrà
alcuna novella.
Il famigliare, che mal
volentieri l'uccidea, leggiermente divenne pietoso; per che, presi i drappi
suoi e datole un suo farsettaccio e un cappuccio, e lasciatile certi denari li
quali essa avea, pregandola che di quelle contrade si dileguasse, la lasciò nel
vallone e a piè, e andonne al signor suo, al qual disse che il suo comandamento
non solamente era fornito, ma che il corpo di lei morto aveva tra parecchi lupi
lasciato.
Bernabò dopo alcun tempo
se ne tornò a Genova e, saputosi il fatto, forte fu biasimato.
La donna, rimasa sola e
sconsolata, come la notte fu venuta, contraffatta il più che potè, n'andò ad
una villetta ivi vicina, e quivi da una vecchia procacciato quello che le
bisognava, racconciò il farsetto a suo dosso, e fattol corto, e fattosi della
sua camicia un paio di pannilini, e i capelli tondutosi e trasformatasi tutta
in forma d'un matinaro, verso il mare se ne venne; dove per avventura trovò un
gentile uomo catalano, il cui nome era segner En Cararch, il quale d'una sua
nave, la quale alquanto di quivi era lontana, in Albegna disceso era a
rinfrescarsi ad una fontana. Col quale entrata in parole, con lui s'acconciò
per servidore, e salissene sopra la nave, faccendosi chiamar Sicuran da Finale.
Quivi, di miglior panni rimesso in arnese dal gentile uomo, lo 'ncominciò a
servir sì bene e sì acconciamente, che egli gli venne oltre modo a grado.
Avvenne, ivi a non gran
tempo, che questo catalano con un suo carico navicò in Alessandria e portò
certi falconi pellegrini al soldano, e presentogliele; al quale il soldano
avendo alcuna volta dato mangiare, e veduti i costumi di Sicurano, che sempre a
servir l'andava, e piaciutigli, al catalano il domandò; e quegli, ancora che
grave gli paresse, gliele lasciò.
Sicurano in poco di
tempo non meno la grazia e l'amor del soldano acquistò col suo bene adoperare,
che quella del catalano avesse fatto. Per che in processo di tempo avvenne che,
dovendosi in un certo tempo dell'anno, a guisa d'una fiera, fare una gran
ragunanza di mercatanti e cristiani e saracini in Acri, la quale sotto la
signoria del soldano era; acciò che i mercatanti e le mercatantie sicure
stessero, era il soldano sempre usato di mandarvi, oltre agli altri suoi
uficiali, alcuno de' suoi grandi uomini con gente che alla guardia attendesse.
Nella qual bisogna, sopravvegnendo il tempo, diliberò di mandare Sicurano il
quale già ottimamente la lingua sapeva; e così fece.
Venuto adunque Sicurano
in Acri signore e capitano della guardia de' mercatanti e della mercatantia, e
quivi bene e sollicitamente faccendo ciò che al suo uficio apparteneva, e
andando dattorno veggendo, e molti mercatanti e ciciliani e pisani e genovesi e
viniziani e altri italiani vedendovi, con loro volentieri si dimesticava per
rimembrarza della contrada sua.
Ora avvenne, tra l'altre
volte, che, essendo egli ad un fondaco di mercatanti viniziani smontato, gli
vennero vedute tra altre gioie una borsa e una cintura, le quali egli
prestamente riconobbe essere state sue, e maravigliossi; ma, senza altra vista
fare, piacevolmente domandò di cui fossero e se vendere si voleano.
Era quivi venuto
Ambrogiuolo da Piagenza con molta mercatantia in su una nave di viniziani, il
quale, udendo che il capitano della guardia domandava di cui fossero, si trasse
avanti e ridendo disse:
– Messere, le cose son
mie e non le vendo; ma s'elle vi piacciono, io le vi donerò volentieri.
Sicurano, vedendol
ridere, suspicò non costui in alcuno atto l'avesse raffigurato; ma pur, fermo
viso faccendo, disse:
– Tu ridi forse, perché
vedi me uom d'arme andar domandando di queste cose feminili?
Disse Ambrogiuolo:
– Messere, io non rido
di ciò, ma rido del modo ne quale io le guadagnai.
A cui Sicuran disse:
– Deh, se Iddio ti dea
buona ventura, se egli non è disdicevole, diccelo come tu le guadagnasti.
– Messere, – disse
Ambrogiuolo, – queste mi donò con alcuna altra cosa una gentil donna di Genova
chiamata madonna Zinevra, moglie di Bernabò Lomellin, una notte che io giacqui
con lei, e pregommi che per suo amore io le tenessi. Ora risi io, per ciò che
egli mi ricordò della sciocchezza di Bernabò, il qual fu di tanta follia che
mise cinquemilia fiorin d'oro contro a mille che io la sua donna non recherei
a' miei piaceri; il che io feci e vinsi il pegno; ed egli, che più tosto sé
della sua bestialità punir dovea che lei d'aver fatto quello che tutte le
femine fanno, da Parigi a Genova tornandosene, per quello che io abbia poi
sentito, la fece uccidere.
Sicurano, udendo questo,
prestamente comprese qual fosse la cagione dell'ira di Bernabò verso lei e
manifestamente conobbe costui di tutto il suo male esser cagione; e seco pensò
di non lasciargliele portare impunita. Mostrò adunque Sicurano d'aver molto
cara questa novella, e artatamente prese con costui una stretta dimestichezza,
tanto che per gli suoi conforti Ambrogiuolo, finita la fiera, con essolui e con
ogni sua cosa se n'andò in Alessandria, dove Sicurano gli fece fare un fondaco
e misegli in mano de' suoi denari assai; per che egli, util grande veggendosi,
vi dimorava volentieri.
Sicurano, sollicito a
volere della sua innocenzia far chiaro Bernabò, mai non riposò infino a tanto
che con opera d'alcuni grandi mercatanti genovesi che in Alessandria erano,
nuove cagioni trovando, non l'ebbe fatto venire; il quale, in assai povero
stato essendo, ad alcun suo amico tacitamente fece ricevere, infino che tempo
gli paresse a quel fare che di fare intendea.
Avea già Sicurano fatta
raccontare ad Ambrogiuolo la novella davanti al soldano, e fattone al soldano
prendere piacere; ma poi che vide quivi Bernabò, pensando che alla bisogna non
era da dare indugio, preso tempo convenevole, dal soldano impetrò che davanti
venir si facesse Ambrogiuolo e Bernabò, e in presenzia di Bernabò, se
agevolmente fare non si potesse, con severità da Ambrogiuolo si traesse il vero
come stato fosse quello di che egli della moglie di Bernabò si vantava.
Per la qual cosa,
Ambrogiuolo e Bernabò venuti, il soldano in presenzia di molti con rigido viso
ad Ambrogiuol comandò che il vero dicesse come a Bernabò vinti avesse
cinquemilia fiorin d'oro; e quivi era presente Sicurano, in cui Ambrogiuolo più
avea di fidanza, il quale con viso troppo più turbato gli minacciava gravissimi
tormenti se nol dicesse. Per che Ambrogiuolo, da una parte e d'altra spaventato
e ancora alquanto costretto, in presenzia di Bernabò e di molti altri, niuna
pena più aspettandone che la restituzione di fiorini cinquemilia d'oro e delle
cose, chiaramente, come stato era il fatto, narrò ogni cosa.
E avendo Ambrogiuolo
detto, Sicurano, quasi esecutore del soldano, in quello rivolto a Bernabò
disse:
– E tu che facesti per
questa bugia alla tua donna?
A cui Bernabò rispose:
– Io, vinto dalla ira
della perdita de' miei denari e dall'onta della vergogna che mi parea avere
ricevuta dalla mia donna, la feci ad un mio famigliare uccidere; e, secondo che
egli mi rapportò, ella fu prestamente divorata da molti lupi.
Queste cose così nella
presenzia del soldan dette e da lui tutte udite e intese, non sappiendo egli
ancora a che Sicurano, che questo ordinato avea e domandato, volesse riuscire,
gli disse Sicurano:
– Signor mio assai
chiaramente potete conoscere quanto quella buona donna gloriar si possa
d'amante e di marito; ché l'amante ad una ora lei priva d'onore, con bugie
guastando la fama sua, e diserta il marito di lei; e il marito, più credulo
alle altrui falsità che alla verità da lui per lunga esperienza potuta
conoscere, la fa uccidere e mangiare a' lupi; e oltre a questo tanto il bene e
l'amore che l'amico e 'l marito le porta, che, con lei lungamente dimorati,
niuno la conosce. Ma per ciò che voi ottimamente conosciate quello che ciascun
di costoro ha meritato, ove voi mi vogliate di spezial grazia fare di punire lo
'ngannatore e perdonare allo 'ngannato, io la farò qui in vostra e in loro
presenzia venire.
Il soldano, disposto in
questa cosa di volere in tutto compiacere a Sicurano, disse che gli piacea e
che facesse la donna venire. Maravigliossi forte Bernabò, il quale lei per
fermo morta credea; e Ambrogiuolo, già del suo male indovino, di peggio avea
paura che di pagar denari, né sapea che si sperare o che più temere, perché
quivi la donna venisse, ma più con maraviglia la sua venuta aspettava.
Fatta adunque la
concessione dal soldano a Sicurano, esso, piagnendo e in ginocchion dinanzi al
soldan gittatosi, quasi ad una ora la maschil voce e il più voler maschio
parere si partì, e disse:
– Signor mio, io sono la
misera sventurata Zinevra, sei anni andata tapinando in forma d'uom per lo
mondo, da questo traditor d'Ambrogiuol falsamente e reamente vituperata, e da
questo crudele e iniquo uomo data ad uccidere ad un suo fante e a mangiare a'
lupi.
E stracciando i panni
dinanzi e mostrando il petto, sé esser femina e al soldano e a ciascuno altro
fece palese; rivolgendosi poi ad Ambrogiuolo, ingiuriosamente domandandolo
quando mai, secondo che egli avanti si vantava, con lei giaciuto fosse. Il
quale, già riconoscendola, e per vergogna quasi mutolo divenuto, niente dicea.
Il soldano, il qual sempre per uomo avuta l'avea, questo vedendo e udendo,
venne in tanta maraviglia, che più volte quello che egli vedeva e udiva
credette più tosto esser sogno che vero. Ma pur, poi che la maraviglia cessò,
la verità conoscendo, con somma laude la vita e la constanzia e i costumi e la
virtù della Zinevra, infino allora stata Sicuran chiamata, commendò. E, fattili
venire onorevolissimi vestimenti femminili e donne che compagnia le tenessero,
secondo la dimanda fatta da lei, a Bernabò perdonò la meritata morte.
Il quale,
riconosciutola, a' piedi di lei si gittò piagnendo e domandando perdonanza, la
quale ella, quantunque egli maldegno ne fosse, benignamente gli diede, e in
piede il fece levare, teneramente sì come suo marito abbracciandolo. Il soldano
appresso comandò che incontanente Ambrogiuolo in alcuno alto luogo della città
fosse al sole legato ad un palo e unto di mele, né quindi mai, infino a tanto
che per sé medesimo non cadesse, levato fosse; e così fu fatto. Appresso
questo, comandò che ciò che d'Ambrogiuolo stato era fosse alla donna donato;
che non era sì poco che oltre a diecimilia dobbre non valesse; ed egli, fatta
apprestare una bellissima festa, in quella Bernabò, come marito di madonna
Zinevra, e madonna Zinevra sì come valorosissima donna, onorò, e donolle che in
gioie e che in vasellamenti d'oro e d'ariento e che in denari, quello che valse
meglio d'altre diecemilia dobbre. E, fatto loro apprestare un legno, poi che
finita fu la festa per loro fatta, gli licenziò di potersi tornare a Genova al
lor piacere; dove ricchissimi e con grande allegrezza tornarono, e con sommo onore
ricevuti furono, e spezialmente madonna Zinevra, la quale da tutti si credeva
che morta fosse; e sempre di gran virtù e da molto, mentre visse, fu reputata.
Ambrogiuolo il dì
medesimo che legato fu al palo e unto di mele, con sua grandissima angoscia dalle
mosche e dalle vespe e da' tafani, de' quali quel paese è copioso molto, fu non
solamente ucciso, ma infino all'ossa divorato; le quali bianche rimase e a'
nervi appiccate, poi lungo tempo, senza esser mosse, della sua malvagità fecero
a chiunque le vide testimonianza. E così rimase lo 'ngannatore a piè dello
'ngannato.
NOVELLA DECIMA
Paganino da Monaco ruba
la moglie a messer Ricciardo da Chinzica, il quale, sappiendo dove ella è, va e
diventa amico di Paganino. Raddomandagliele, ed egli, dove ella voglia, gliele
concede. Ella non vuol con lui tornare, e, morto messer Ricciardo, moglie di
Paganin diviene.
Ciascuno della onesta
brigata sommamente commendò per bella la novella dalla loro reina contata, e
massimamente Dioneo, al quale solo per la presente giornata restava il
novellare. Il quale, dopo molte commendazioni di quella fatte, disse.
Belle donne, una parte
della novella della reina m'ha fatto mutare consiglio di dirne una che
all'animo m'era, a doverne un'altra dire; e questa è la bestialità di Bernabò,
come che bene ne gli avvenisse, e di tutti gli altri che quello si danno a
credere che esso di creder mostrava, cioè che essi andando per lo mondo e con
questa e con quella ora una volta ora un'altra sollazzandosi, s'imaginano che
le donne a casa rimase si tengano le mani a cintola, quasi noi non conosciamo,
che tra esse nasciamo e cresciamo e stiamo, di che elle sien vaghe. La qual
dicendo, ad un'ora vi mosterrò chente sia la sciocchezza di questi cotali, e
quanto ancora sia maggiore quella di coloro li quali, sé più che la natura
possenti estimando, si credono quello con dimostrazioni favolose potere che
essi non possono, e sforzansi d'altrui recare a quello che essi sono, non
patendolo la natura di chi è tirato.
Fu dunque in Pisa un
giudice, più che di corporal forza dotato d'ingegno, il cui nome fu messer
Ricciardo di Chinzica, il qual, forse credendosi con quelle medesime opere
sodisfare alla moglie che egli faceva agli studi, essendo molto ricco, con non
piccola sollicitudine cercò d'avere bella e giovane donna per moglie; dove e
l'uno e l'altro, se così avesse saputo consigliar sé come altrui faceva, doveva
fuggire. E quello gli venne fatto, per ciò che messer Lotto Gualandi per moglie
gli diede una sua figliuola, il cui nome era Bartolomea, una delle più belle e
delle più vaghe giovani di Pisa, come che poche ve n'abbiano che lucertole
verminare non paiano. La quale il giudice menata con grandissima festa a casa
sua, e fatte le nozze belle e magnifiche, pur per la prima notte incappò una
volta per consumare il matrimonio a toccarla, e di poco fallò che egli quella
una non fece tavola; il quale poi la mattina, sì come colui che era magro e
secco e di poco spirito, convenne che con vernaccia e con confetti ristorativi
e con altri argomenti nel mondo si ritornasse. Or questo messer lo giudice,
migliore stimatore delle sue forze divenuto che stato non era avanti,
incominciò ad insegnare a costei un calendario buono da fanciulli che stanno a
leggere, e forse già stato fatto a Ravenna. Per ciò che, secondo che egli le
mostrava, niun dì era che non solamente una festa, ma molte non ne fossero; a
reverenza delle quali per diverse cagioni mostrava l'uomo e la donna doversi
astenere da così fatti congiugnimenti, sopra questi aggiugnendo digiuni e quattro
tempora e vigilie d'apostoli e di mille altri santi, e venerdì e sabati, e la
domenica del Signore e la quaresima tutta, e certi punti della luna e altre
eccezioni molte, avvisandosi forse che così feria far si convenisse con le
donne nel letto, come egli faceva talvolta piatendo alle civili. E questa
maniera (non senza grave malinconia della donna, a cui forse una volta ne
toccava il mese e appena) lungamente tenne, sempre guardandola bene, non forse
alcuno altro le 'nsegnasse conoscere li dì da lavorare, come egli l'aveva
insegnate le feste.
Avvenne che, essendo il
caldo grande, a messer Ricciardo venne disidero d'andarsi a diportare ad un suo
luogo molto bello vicino a Montenero, e quivi per pren dere aere, dimorarsi
alcun giorno, e con seco menò la sua bella donna. E quivi standosi, per darle
alcuna consolazione, fece un giorno pescare, e sopra due barchette, egli in su
una co' pescatori ed ella in su un'altra con altre donne, andarono a vedere; e
tirandogli il diletto, parecchi miglia, quasi senza accorgersene, n'andarono
infra mare.
E mentre che essi più
attenti stavano a riguardare, subito una galeotta di Paganin da Mare, allora
molto famoso corsale, sopravenne; e vedute le barche, si dirizzò a loro; le
quali non poteron sì tosto fuggire, che Paganin non giugnesse quella ove eran
le donne; nella quale veggendo la bella donna, senza altro volerne, quella,
veggente messer Ricciardo che già era in terra, sopra la sua galeotta posta,
andò via. La qual cosa veggendo messer lo giudice, il quale era sì geloso che
temeva dello aere stesso, se esso fu dolente non è da domandare. Egli senza
pro, e in Pisa e altrove, si dolfe della malvagità de' corsari, senza sapere
chi la moglie tolta gli avesse o dove portatola.
A Paganino, veggendola
così bella, parve star bene; e, non avendo moglie, si pensò di sempre tenersi
costei, e lei, che forte piagnea, cominciò dolcemente a confortare. E venuta la
notte, essendo a lui il calendaro caduto da cintola e ogni festa o feria uscita
di mente, la cominciò a confortare co' fatti, parendogli che poco fossero il dì
giovate ]e parole; e per sì fatta maniera la racconsolò, che, prima che a
Monaco giugnessero, il giudice e le sue leggi le furono uscite di mente, e
cominciò a viver più lietamente del mondo con Paganino. Il quale, a Monaco
menatala, oltre alle consolazioni che di dì e di notte le dava, onoratamente
come sua moglie la tenea. Poi a certo tempo pervenuto agli orecchi di messer
Ricciardo dove la sua donna fosse, con ardentissimo disidero, avvisandosi niun
interamente saper far ciò che a ciò bisognava, esso stesso dispose d'andar per
lei, disposto a spendere per lo riscatto di lei ogni quantità di denari; e,
messosi in mare, se n'andò a Monaco, e quivi la vide ed ella lui; la quale poi
la sera a Paganino il disse e lui della sua intenzione informò.
La seguente mattina
messer Ricciardo, veggendo Paganino, con lui s'accontò e fece in poca d'ora una
gran dimestichezza e amistà, infignendosi Paganino di conoscerlo e aspettando a
che riuscir volesse. Per che, quando tempo parve a messer Ricciardo, come
meglio seppe e il più piacevolmente, la cagione per la quale venuto era gli
discoperse, pregandolo che quello che gli piacesse prendesse e la donnagli
rendesse. Al quale Paganino con lieto viso rispose:
– Messere, voi siate il
ben venuto, e rispondendo in brieve, vi dico così: egli è vero che io ho una
giovane in casa, la qual non so se vostra moglie o d'altrui si sia, per ciò che
voi io non conosco, né lei altressì se non in tanto quanto ella è meco alcun
tempo dimorata. Se voi siete suo marito, come voi dite, io, perciò che piacevol
gentil uom mi parete, vi menerò da lei, e son certo che ella vi conoscerà bene.
Se essa dice che così sia come voi dite e vogliasene con voi venire, per amor
della vostra piacevolezza quello che voi medesimo vorrete per riscatto di lei
mi darete; ove così non fosse, voi fareste villania a torre, per ciò che io son
giovane uomo e posso così come un altro tenere una femina, e spezialmente lei
che è la più piacevole che io vidi mai.
Disse allora messer
Ricciardo:
– Per certo ella è mia
moglie, e se tu mi meni dove ella sia, tu il vedrai tosto; ella mi si gittarà
incontanente al collo; e per ciò non domando che altramenti sia se non come tu
medesimo hai divisato.
– Adunque, – disse
Paganino, – andiamo.
Andatisene adunque nella
casa di Paganino e stando in una sua sala, Paganino la fece chiamare, ed ella
vestita e acconcia uscì d'una camera e quivi venne dove messer Ricciardo con
Paganino era, né altramenti fece motto a messer Ricciardo che fatto s'avrebbe
ad un altro forestiere che con Paganino in casa sua venuto fosse. Il che
vedendo il giudice, che aspettava di dovere essere con grandissima festa
ricevuto da lei, si maravigliò forte, e seco stesso cominciò a dire: – Forse
che la malinconia e il lungo dolore che io ho avuto, poscia che io la perdei
m'ha si trasfigurato che ella non mi riconosce – Per che egli disse:
– Donna, caro mi costa
il menarti a pescare, per ciò che simil dolore non si sentì mai a quello che io
ho poscia portato che io ti perdei, e tu non pare che mi riconoschi, sì
salvaticamente motto mi fai. Non vedi tu che io sono il tuo messer Ricciardo,
venuto qui per pagare ciò che volesse questo gentile uomo, in casa cui noi
siamo, per riaverti e per menartene; ed egli, la sua mercè, per ciò che io
voglio, mi ti rende?
La donna rivolta a lui,
un cotal pocolin sorridendo, disse:
– Messere, dite voi a
me? Guardate che voi non m'abbiate colta in iscambio, chè, quanto è io, non mi
ricordo che io vi vedessi giammai.
Disse messer Ricciardo:
– Guarda ciò. che tu dì,
guatami bene; se tu ti vorrai bene ricordare, tu vedrai bene che io sono il tuo
Ricciardo di Chinzica.
La donna disse:
– Messere, voi mi
perdonerete, forse non è egli così onesta cosa a me, come voi v'imaginate, il
molto guardarvi, ma io v'ho nondimeno tanto guardato, che io conosco che io mai
più non vi vidi.
Imaginossi messer
Ricciardo che ella questo facesse per tema di Paganino, di non volere in sua
presenza confessare di conoscerlo; per che, dopo alquanto, chiese di grazia a
Paganino che in camera solo con esso lei le potesse parlare. Paganin disse che
gli piacea, sì veramente che egli non la dovesse contra suo piacere baciare; e
alla donna comandò che con lui in camera andasse e udisse ciò che egli volesse
dire, e come le piacesse gli rispondesse.
Andatisene adunque in
camera la donna e messer Ricciardo soli, come a seder si furon posti,
incominciò messer Ricciardo a dire:
– Deh, cuor del corpo
mio, anima mia dolce, speranza mia, or non riconosci tu Ricciardo tuo che t'ama
più che sé medesimo? Come può questo essere? Son io così trasfigurato? Deh,
occhio mio bello, guatami pure un poco.
La donna incominciò a
ridere e, senza lasciarlo dir più, disse:
– Ben sapete che io non
sono sì smimorata, che io non conosca che voi siete messer Ricciardo di
Chinzica mio marito; ma voi, mentre che io fu'con voi, mostraste assai male di
conoscer me, per ciò che se voi eravate savio o sete, come volete esser tenuto,
dovavate bene aver tanto conoscimento, che voi dovavate vedere che io era
giovane e fresca e gagliarda, e per conseguente conoscere quello che alle
giovani donne, oltre al vestire e al mangiar, bene che elle per vergogna nol
dicano, si richiede; il che come voi il faciavate? voi il vi sapete. E s'egli
v'era più a grado lo studio delle leggi che la moglie, voi non dovavate
pigliarla; benché a me non parve mai che voi giudice foste, anzi mi paravate un
banditore di sagre e di feste, sì ben le sapavate, e le digiune e le vigilie. E
dicovi che se voi aveste tante feste fatte fare a' lavoratori che le vostre
possessioni lavorano, quante faciavate fare a colui che il mio piccol
campicello aveva a lavorare, voi non avreste mai ricolto granello di grano.
Sonmi abbattuta a costui che ha voluto Iddio, sì come pietoso ragguardatore
della mia giovanezza, col quale io mi sto in questa camera, nella qual non si
sa che cosa festa sia (dico di quelle feste che voi, più divoto a Dio che a'
servigi delle donne, cotante celebravate), né mai dentro a quello uscio entrò
né sabato né venerdì né vigilia né quattro tempora né quaresima, ch'è così
lunga, anzi di dì e di notte ci si lavora e battecisi la lana; e poi che questa
notte sonò mattutino, so bene come il fatto andò da una volta in su. E però con
lui intendo di starmi e di lavorare mentre sarò giovane; e le feste e le
perdonanze e i digiuni serbarmi a far quando sarò vecchia; e voi colla buona
ventura sì ve n'andate il più tosto che voi potete, e senza me fate feste
quante vi piace. Messer Ricciardo, udendo queste parole, sosteneva dolore
incomportabile, e disse, poi che lei tacer vide: – Deh, anima mia dolce, che
parole son quelle che tu dì? Or non hai tu riguardo all'onore de' parenti tuoi
e al tuo? Vuo'tu innanzi star qui per bagascia di costui e in peccato mortale,
che a Pisa mia moglie? Costui, quando tu gli sarai rincresciuta, con gran
vitupero di te medesima ti caccerà via; io t'avrò sempre cara, e sempre, ancora
che io non volessi, sarai donna della casa mia. Dei tu per questo appetito
disordinato e disonesto lasciar l'onor tuo e me, che t'amo più che la vita mia?
Deh, speranza mia cara, non dir più così, voglitene venir con meco; io da
quinci innanzi, poscia che io conosco il tuo disidero, mi sforzerò; e però, ben
mio dolce, muta consiglio e vientene meco, ché mai ben non sentii poscia che tu
tolta mi fosti.
A cui la donna rispose:
– Del mio onore non
intendo io che persona, ora che non si può, sia più di me tenera; fossonne
stati i parenti miei quando mi diedero a voi! li quali se non furono allora del
mio, io non intendo d'essere al presente del loro; e se io ora sto in peccato
mortaio, io starò quando che sia in peccato pestello: non ne siate più tenero
di me. E dicovi così, che qui mi pare esser moglie di Paganino, e a Pisa mi
pareva esser vostra bagascia, pensando che per punti di luna e per isquadri di
geometria si convenivano tra voi e me congiugnere i pianeti, dove qui Paganino
tutta la notte mi tiene in braccio e strignemi e mordemi, e come egli mi conci
Iddio ve 'l dica per me. Anche dite voi che vi sforzerete: e di che? di farla
in tre pace, e rizzare a mazzata? Io so che voi siete divenuto un prò cavaliere
poscia che io non vi vidi. Andate, e sforzatevi di vivere; ché mi pare anzi che
no che voi ci stiate a pigione, sì tisicuzzo e tristanzuol mi parete. E ancor
vi dico più, che quando costui mi lascerà (ché non mi pare a ciò disposto, dove
io voglia stare), io non intendo per ciò di mai tornare a voi, di cui, tutto
premendovi, non si farebbe uno scodellin di salsa; per ciò che con mio
grandissimo danno e interesse vi stetti una volta; per che in altra parte
cercherei mia civanza. Di che da capo vi dico che qui non ha festa né vigilia;
laonde io intendo di starmi; e per ciò, come più tosto potete, v'andate con
Dio, se non che io griderò che voi mi vogliate sforzare.
Messer Ricciardo,
veggendosi a mal partito e pure allora conoscendo la sua follia d'aver moglie
giovane tolta essendo spossato, dolente e tristo s'uscì della camera e disse
parole assai a Paganino, le quali non montarono un frullo. E ultimamente, senza
alcuna cosa aver fatta, lasciata la donna, a Pisa si ritornò, e in tanta
mattezza per dolor cadde che, andando per Pisa, a chiunque il salutava o
d'alcuna cosa il domandava, niuna altra cosa rispondeva se non: – Il mal foro
non vuol festa –; e dopo non molto tempo si morì. Il che Paganin sentendo, e
conoscendo l'amore che la donna gli portava, per sua legittima moglie la sposò,
e senza mai guardar festa o vigilia o fare quaresima, quanto le gambe ne gli
poteron portare, lavorarono e buon tempo si diedono. Per la qual cosa, donne
mie care, mi pare che ser Bernabò disputando con Ambrogiuolo cavalcasse la
capra in verso il chino.
CONCLUSIONE
Questa novella diè tanto
che ridere a tutta la compagnia, che niun ve n'era a cui non dolessero le
mascelle, e di pari consentimento tutte le donne dissono che Dioneo diceva vero
e che Bernabò era stato una bestia. Ma, poi che la novella fu finita e le risa
ristate, avendo la reina riguardato che l'ora era omai tarda, e che tutti avean
novellato, e la fine della sua signoria era venuta, secondo il cominciato
ordine, trattasi la ghirlanda di capo, sopra la testa la pose di Neifile con
lieto viso dicendo: – Omai, cara compagna, di questo piccol popolo il governo
sia tuo –; e a seder si ripose.
Neifile del ricevuto
onore un poco arrossò e tal nel viso divenne qual fresca rosa d'aprile o di
maggio in su lo schiarir del giorno si mostra, con gli occhi vaghi e
scintillanti, non altramenti che mattutina stella, un poco bassi. Ma poi che
l'onesto romor de' circustanti, nel quale il favor loro verso la reina
lietamente mostravano, si fu riposato ed ella ebbe ripreso l'animo, alquanto più
alta che usata non era sedendo, disse:
– Poiché così è che io
vostra reina sono, non dilungandomi dalla maniera tenuta per quelle che davanti
a me sono state, il cui reggimento voi ubbidendo commendato avete, il parer mio
in poche parole vi farò manifesto, il quale, se dal vostro consiglio sarà
commendato, quel seguiremo.
Come voi sapete, domane
è venerdì e il seguente dì sabato, giorni, per le vivande le quali s'usano in
quegli, al quanto tediosi alle più genti; senza che 'l venerdì, avendo riguardo
che in esso Colui che per la nostra vita morì sostenne passione, è degno di
reverenza; per che giusta cosa e molto onesta reputerei, che, ad onor d'lddio,
più tosto ad orazioni che a novelle vacassimo. E il sabato appresso usanza è
delle donne di lavarsi la testa e di tor via ogni polvere, ogni sucidume che
per la fatica di tutta la passata settimana sopravenuta fosse; e sogliono
similmente assai, a reverenza del la Vergine Madre del Figliuol di Dio,
digiunare, e da indi in avanti per onor della sopravvegnente domenica da
ciascuna opera riposarsi; per che, non potendo così a pieno in quel dì l'ordine
da noi preso nel vivere seguitare, similmente stimo sia ben fatto, quel dì del
novellare ci posiamo. Appresso, per ciò che noi qui quattro dì dimorate saremo,
se noi vogliam tor via che gente nuova non ci sopravvenga, reputo opportuno di
mutarci di qui e andarne altrove, e il dove io ho già pensato e proveduto.
Quivi quando noi saremo domenica appresso dormire adunati, avendo noi oggi
avuto assai largo spazio da discorrere ragionando, sì perché più tempo da
pensare avrete, e sì perché sarà ancora più bello che un poco si ristringa del
novellare la licenzia e che sopra uno de' molti fatti della Fortuna si dica, ì
ho pensato che questo sarà, di chi alcuna cosa molto da lui disiderata con
industria acquistasse o la perduta recuperasse. Sopra che ciascun pensi di dire
alcuna cosa che alla brigata esser possa utile o almeno dilettevole, salvo
sempre il privilegio di Dioneo.
Ciascun commendò il
parlare e il diviso della reina, e così statuiron che fosse. La quale appresso
questo, fattosi chiamare il suo siniscalco, dove metter dovesse la sera le
tavole, e quello appresso che far dovesse in tutto il tempo delta sua signoria
pienamente gli divisò, e cosi fatto, in piè dirizzata colla sua brigata, a far
quello che più piacesse a ciascuno gli licenziò.
Presero adunque le donne
e gli uomini inverso un giardinetto la via, e quivi, poi che alquanto diportati
si furono, l'ora della cena venuta, con festa e con piacer cenarono e da quella
levati, come alla reina piacque, menando Emilia la carola, la seguente canzone
da Pampinea, rispondendo l'altre, fu cantata:
Qual donna canterà,
s'i'non cant'io,
che son contenta d'ogni
mio disio?
Vien dunque, Amor, cagion
d'ogni mio bene,
d'ogni speranza e d'ogni
lieto effetto;
cantiamo insieme un
poco,
non de' sospir né delle
amare pene
ch'or più dolce mi fanno
il tuo diletto,
ma sol del chiaro foco,
nel quale ardendo in
festa vivo e 'n gioco,
te adorando, come un mio
iddio.
Tu mi ponesti innanzi
agli occhi, Amore,
il primo dì ch'io nel
tuo foco entrai,
un giovinetto tale,
che di biltà, d'ardir,
né di valore
non se ne troverebbe un
maggior mai,
né pure a lui eguale:
di lui m'accesi tanto,
che aguale
lieta ne canto teco,
signor mio.
E quel che 'n questo m'è
sommo piacere,
è ch'io gli piaccio
quanto egli a me piace,
Amor, la tua merzede;
perché in questo mondo
il mio volere
posseggo, e spero
nell'altro aver pace
per quella intera fede
che io gli porto. Iddio
che questo vede,
del regno suo ancor ne
sarà pio.
Appresso questa, più
altre se ne cantarono e più danze si fecero e sonarono diversi suoni. Ma,
estimando la reina tempo esser di doversi andare a posare, co' torchi avanti
ciascuno alla sua camera se n'andò; e li due dì seguenti a quelle cose vacando
che prima la reina aveva ragionate, con disiderio aspettarono la domenica.
Finisce la seconda
giornata del Decameron.
Incomincia la terza
giornata nella quale si ragiona, sotto il reggimento di Neifile, di chi alcuna
cosa molto da lui disiderata con industria acquistasse o la perduta
ricoverasse.
GIORNATA TERZA
INTRODUZIONE
L'aurora già di
vermiglia cominciava, appressandosi il sole, a divenir rancia, quando la
domenica la reina levata e fatta tutta la sua compagnia levare, e avendo già il
siniscalco gran pezzo davanti mandato al luogo dove andar doveano assai delle
cose opportune e chi quivi preparasse quello che bisognava, veggendo già la
reina in cammino, prestamente fatta ogn'altra cosa caricare, quasi quindi il
campo levato, colla salmeria n'andò e colla famiglia rimasa appresso delle
donne e de' signori.
La reina adunque con
lento passo, accompagnata e seguita dalle sue donne e dai tre giovani, alla
guida del canto di forse venti usignuoli e altri uccelli, per una vietta non
troppo usata, ma piena di verdi erbette e di fiori, li quali per lo
sopravvegnente sole tutti s'incominciavano ad aprire, prese il cammino verso
l'occidente, e cianciando e motteggiando e ridendo colla sua brigata, senza
essere andata oltre a dumilia passi, assai avanti che mezza terza fosse ad un
bellissimo e ricco palagio, il quale alquanto rilevato dal piano sopra un
poggetto era posto, gli ebbe condotti. Nel quale entrati e per tutto andati, e
avendo le gran sale, le pulite e ornate camere compiutamente ripiene di ciò che
a camera s'appartiene, sommamente il commendarono e magnifico reputarono il
signor di quello. Poi, a basso discesi, e veduta l'ampissima e lieta corte di
quello, le volte piene d'ottimi vini e la freddissima acqua e in gran copia che
quivi surgea, più ancora il lodarono. Quindi, quasi di riposo vaghi, sopra una
loggia che la corte tutta signoreggiava, essendo ogni cosa piena di quei fiori
che concedeva il tempo e di frondi, postisi a sedere, venne il discreto siniscalco,
e loro con preziosissimi confetti e ottimi vini ricevette e riconfortò.
Appresso la qual cosa, fattosi aprire un giardino che di costa era al palagio,
in quello, che tutto era dattorno murato, se n'entrarono; e parendo loro nella
prima entrata di maravigliosa bellezza tutto insieme, più attentamente le parti
di quello cominciarono a riguardare. Esso avea dintorno da sé e per lo mezzo in
assai parti vie ampissime; tutte diritte come strale e coperte di pergolati di
viti, le quali facevan gran vista di dovere quello anno assai uve fare; e tutte
allora fiorite sì grande odore per lo giardin rendevano, che, mescolato insieme
con quello di molte altre cose che per lo giardino olivano, pareva loro essere
tra tutta la spezieria che mai nacque in oriente; le latora delle quali vie
tutte di rosai bianchi e vermigli e di gelsomini erano quasi chiuse; per le
quali cose, non che la mattina, ma qualora il sole era più alto, sotto
odorifera e dilettevole ombra, senza esser tocco da quello, vi si poteva per tutto
andare. Quante e quali e come ordinate poste fossero le piante che erano in
quel luogo, lungo sarebbe a raccontare; ma niuna n'è laudevole, la quale il
nostro aere patisca, di che quivi non sia abondevolmente. Nel mezzo del quale
(quello che è non men commendabile che altra cosa che vi fosse, ma molto più),
era un prato di minutissima erba e verde tanto che quasi nera parea, dipinto
tutto forse di mille varietà di fiori, chiuso dintorno di verdissimi e vivi
aranci e di cedri, li quali, avendo i vecchi frutti e i nuovi e i fiori ancora,
non solamente piacevole ombra agli occhi, ma ancora all'odorato facevan
piacere. Nel mezzo del qual prato era una fonte di marmo bianchissimo e con
maravigliosi intagli. Iv'entro, non so se da natural vena o da artificiosa, per
una figura la quale sopra una colonna che nel mezzo di quella diritta era,
gittava tanta acqua e sì alta verso il cielo, che poi non senza dilettevol
suono nella fonte chiarissima ricadea, che di meno avria macinato un mulino. La
qual poi (quella dico che soprabbondava al pieno della fonte) per occulta via
del pratello usciva e, per canaletti assai belli e artificiosamente fatti,
fuori di quello divenuta palese, tutto lo 'ntorniava; e quindi per canaletti
simili quasi per ogni parte del giardin discorrea, raccogliendosi ultimamente
in una parte dalla quale del bel giardino avea l'uscita, e quindi verso il pian
discendendo chiarissima, avanti che a quel divenisse, con grandissima forza e
con non piccola utilità del signore, due mulina volgea.
Il veder questo
giardino, il suo bello ordine, le piante la e la fontana co' ruscelletti
procedenti da quella, tanto piacque a ciascuna donna e a' tre giovani che tutti
cominciarono ad affermare che, se Paradiso si potesse in terra fare, non
sapevano conoscere che altra forma che quella di quel giardino gli si potesse
dare, né pensare, oltre a questo, qual bellezza gli si potesse aggiugnere.
Andando adunque contentissimi dintorno per quello, faccendosi di vari rami
d'albori ghirlande bellissime, tuttavia udendo forse venti maniere di canti
d'uccelli quasi a pruova l'un dell'altro cantare, s'accorsero d'una dilettevol
bellezza, della quale, dall'altre soprappresi, non s'erano ancora accorti; ché
essi videro il giardin pieno forse di cento varietà di belli animali, e l'uno
all'altro mostrandolo, d'una parte uscir conigli, d'altra parte correr lepri, e
dove giacer cavriuoli, e in alcuna cerbiatti giovani andar pascendo, e, oltre a
questi, altre più maniere di non nocivi animali, ciascuno a suo diletto, quasi
dimestichi, andarsi a sollazzo; le quali cose, oltre agli altri piaceri, un vie
maggior piacere aggiunsero. Ma poi che assai, or questa cosa or quella
veggendo, andati furono, fatto dintorno alla bella fonte metter le tavole, e
quivi prima sei canzonette cantate e alquanti balli fatti, come alla reina
piacque, andarono a mangiare, e con grandissimo e bello e riposato ordine
serviti, e di buone e dilicate vivande, divenuti più lieti su si levarono, e a'
suoni e a' canti e a' balli da capo si dierono, infino che alla reina, per lo
caldo sopravvegnente, parve ora che, a cui piacesse, s'andasse a dormire.
De'quali chi vi andò e chi, vinto dalla bellezza del luogo, andar non vi volle,
ma, quivi dimoratisi, chi a legger romanzi, chi a giucare a scacchi e chi a
tavole, mentre gli altri dormiron, si diede.
Ma, poi che, passata la
nona, ciascuno levato si fu, e il viso colla fresca acqua rinfrescato s'ebbero,
nel prato, sì come alla reina piacque, vicini alla fontana venutine, e in
quello secondo il modo usato postisi a sedere, ad aspettar cominciarono di
dover novellare sopra la materia dalla reina proposta. De'quali il primo a cui
la reina tal carico impose fu Filostrato, il quale cominciò in questa guisa.
NOVELLA PRIMA
Masetto da Lamporecchio
si fa mutolo e diviene ortolano di uno monistero di donne, le quali tutte
concorrono a giacersi con lui.
Bellissime donne, assai
sono di quegli uomini e di quelle femine che sì sono stolti, che credono troppo
bene che, come ad una giovane è sopra il capo posta la benda bianca e in dosso
messale la nera cocolla, che ella più non sia femina né più senta de' feminili
appetiti se non come se di pietra l'avesse fatta divenire il farla monaca; e se
forse alcuna cosa contra questa lor credenza n'odono, così si turbano come se
contra natura un grandissimo e scelerato male fosse stato commesso, non
pensando né volendo aver rispetto a sé medesimi, li quali la piena licenzia di
poter far quel che vogliono non può saziare, né ancora alle gran forze dell'ozio
e della solitudine. E similmente sono ancora di quegli assai che credono troppo
bene che la zappa e la vanga e le grosse vivande e i disagi tolgano del tutto
a' lavoratori della terra i concupiscibili appetiti e rendan loro d'intelletto
e d'avvedimento grossissimi. Ma quanto tutti coloro che così credono sieno
ingannati, mi piace, poi che la reina comandato me l'ha, non uscendo della
proposta fatta da lei, di farvene più chiare con una piccola novelletta. In
queste nostre contrade fu, ed è ancora, un monistero di donne assai famoso di
santità (il quale io non nomerò per non diminuire in parte alcuna la fama sua),
nel quale, non ha gran tempo, non essendovi allora più che otto donne con una
badessa, e tutte giovani, era un buono omicciuolo d'un loro bellissimo giardino
ortolano, il quale, non contentandosi del salario, fatta la ragion sua col
castaldo delle donne, a Lamporecchio, là ond'egli era, se ne tornò.
Quivi, tra gli altri che
lietamente il raccolsono, fu un giovane lavoratore forte e robusto e, secondo
uom di villa, con bella persona e con viso assai piacevole, il cui nome era
Masetto; e domandollo dove tanto tempo stato fosse. Il buono uomo, che Nuto
avea nome, gliele disse. Il quale Masetto domandò, di che egli il monistero
servisse. A cui Nuto rispose:
– Io lavorava un loro
giardino bello e grande e, oltre a questo, andava alcuna volta al bosco per le
legne, attigneva acqua e faceva cotali altri servigetti; ma le donne mi davano
sì poco salaro, che io non ne potevo appena pure pagare i calzari. E, oltre a
questo, elle son tutte giovani e parmi ch'elle abbiano il diavolo in corpo, ché
non si può far cosa niuna al lor modo; anzi, quand'io lavorava alcuna volta
l'orto, l'una diceva: – Pon qui questo –; e l'altra: – Pon qui quello –; e
l'altra mi toglieva la zappa di mano e diceva: – Questo non sta bene –; e
davanmi tanta seccaggine, che io lasciava stare il lavorio e uscivami
dell'orto; sì che, tra per l'una cosa e per l'altra, io non vi volli star più e
sonmene venuto. Anzi mi pregò il castaldo loro, quando io me ne venni, che, se
io n'avessi alcuno alle mani che fosse da ciò, che io gliele mandassi, e io
gliele promisi; ma tanto il faccia Dio san delle reni, quanto io o ne
procaccerò o ne gli manderò niuno. A Masetto, udendo egli le parole di Nuto,
venne nell'animo un disidero sì grande d'esser con queste monache, che tutto se
ne struggea, comprendendo per le parole di Nuto che a lui dovrebbe poter venir
fatto di quello che egli disiderava. E avvisandosi che fatto non gli verrebbe
se a Nuto ne dicesse niente, gli disse:
– Deh come ben facesti a
venirtene! Che è un uomo a star con femine? Egli sarebbe meglio a star con
diavoli: elle non sanno delle sette volte le sei quello che elle si vogliono
elleno stesse.
Ma poi, partito il lor
ragionare, cominciò Masetto a pensare che via dovesse tenere a dovere potere
esser con loro; e conoscendo che egli sapeva ben fare quegli servigi che Nuto
diceva, non dubitò di perder per quello, ma temette di non dovervi esser
ricevuto per ciò che troppo era giovane e appariscente. Per che, molte cose
divisate seco, imaginò: – Il luogo è assai lontano di qui e niuno mi vi
conosce; se io so far vista d'esser mutolo, per certo io vi sarò ricevuto –. E
in questa imaginazione fermatosi, con una sua scure in collo, senza dire ad
alcuno dove s'andasse, in guisa d'un povero uomo se n'andò al monistero; dove
pervenuto, entrò dentro e trovò per ventura il castaldo nella corte; al quale
faccendo suoi atti come i mutoli fanno, mostrò di domandargli mangiare per
l'amor di Dio e che egli, se bisognasse, gli spezzerebbe delle legne.
Il castaldo gli diè da
mangiar volentieri, e appresso questo gli mise innanzi certi ceppi che Nuto non
avea potuto spezzare, li quali costui, che fortissimo era, in poca d'ora ebbe
tutti spezzati. Il castaldo, che bisogno avea d'andare al bosco, il menò seco,
e quivi gli fece tagliate delle legne; poscia, messogli l'asino innanzi, con
suoi cenni gli fece intendere che a casa ne le recasse. Costui il fece molto
bene, per che il castaldo a far fare certe bisogne che gli eran luogo più
giorni vel tenne. De quali avvenne che uno dì la badessa il vide, e domandò il
castaldo chi egli fosse. Il quale le disse:
– Madonna, questi è un
povero uomo mutolo e sordo, il quale un di questi dì ci venne per limosina, sì
che io gli ho fatto bene, e hogli fatte fare assai cose che bisogno c'erano. Se
egli sapesse lavorar l'orto e volesseci rimanere, io mi credo che noi n'avremmo
buon servigio, per ciò che egli ci bisogna, ed egli è forte e potrebbene l'uom
fare ciò che volesse; e, oltre a questo, non vi bisognerebbe d'aver pensiero
che egli motteggiasse queste vostre giovani.
A cui la badessa disse:
– In fè di Dio tu di'il
vero. Sappi se egli sa lavorare e ingegnati di ritenercelo; dagli qualche paio
di scarpette qualche cappuccio vecchio, e lusingalo, fagli vezzi, dagli ben da
mangiare.
Il castaldo disse di
farlo.
Masetto non era guari
lontano, ma faccendo vista di spazzar la corte tutte queste parole udiva, e
seco lieto diceva: – Se voi mi mettete costà entro, io vi lavorrò sì l'orto che
mai non vi fu così lavorato.
Ora, avendo il castaldo
veduto che egli ottimamente sapea lavorare e con cenni domandatolo se egli
voleva star quivi, e costui con cenni rispostogli che far voleva ciò che egli
volesse, avendolo ricevuto, gl'impose che egli l'orto lavorasse e mostrogli
quello che a fare avesse; poi andò per altre bisogne del monistero, e lui
lasciò. Il quale lavorando l'un dì appresso l'altro, le monache incominciarono
a dargli noia e a metterlo in novelle, come spesse volte avviene che altri fa
de' mutoli, e dicevangli le più scelerate parole del mondo, non credendo da lui
essere intese; e la badessa, che forse estimava che egli così senza coda come
senza favella fosse, di ciò poco o niente si curava.
Or pure avvenne che
costui un dì avendo lavorato molto e riposandosi, due giovinette monache, che
per lo giardino andavano, s'appressarono là dove egli era, e lui che sembiante
facea di dormire cominciarono a riguardare. Per che l'una, che alquanto era più
baldanzosa, disse all'altra:
– Se io credessi che tu
mi tenessi credenza, io ti direi un pensiero che io ho avuto più volte, il
quale forse anche a te potrebbe giovare.
L'altra rispose:
– Di'sicuramente, ché
per certo io nol dirò mai a persona.
Allora la baldanzosa
incominciò:
– Io non so se tu t'hai
posto mente come noi siamo tenute strette, né che mai qua entro uomo alcuno osa
entrare, se non il castaldo ch'è vecchio e questo mutolo; e io ho più volte a
più donne, che a noi son venute, udito dire che tutte l'altre dolcezze del mondo
sono una beffa a rispetto di quella quando la femina usa con l'uomo. Per che io
m'ho più volte messo in animo, poiché con altrui non posso, di volere con
questo mutolo provare se così è. Ed egli è il miglior del mondo da ciò costui;
ché, perché egli pur volesse, egli nol potrebbe né saprebbe ridire. Tu vedi
ch'egli è un cotal giovanaccio sciocco, cresciuto innanzi al senno; volentieri
udirei quello che a te ne pare.
– Ohimè, – disse l'altra
– che è quello che tu di'? Non sai tu che noi abbiam promesso la virginità
nostra a Dio?
– O, – disse colei –
quante cose gli si promettono tutto 'l dì, che non se ne gli attiene niuna! se
noi gliele abbiam promessa, truovisi un'altra o dell'altre che gliele
attengano.
A cui la compagna disse:
– O se noi ingravidassimo,
come andrebbe il fatto?
Quella allora disse:
– Tu cominci ad aver
pensiero del mal prima che egli ti venga; quando cotesto avvenisse, allora si
vorrà pensare; egli ci avrà mille modi da fare sì che mai non si saprà, pur che
noi medesime nol diciamo.
Costei, udendo ciò,
avendo già maggior voglia che l'altra di provare che bestia fosse l'uomo,
disse:
– Or bene, come faremo?
A cui colei rispose:
– Tu vedi ch'egli è in
su la nona; io mi credo che le suore sien tutte a dormire, se non noi; guatiam
per l'orto se persona ci è, e s'egli non ci è persona, che abbiam noi a fare se
non a pigliarlo per mano e menarlo in questo capannetto, là dove egli fugge
l'acqua; e quivi l'una si stea dentro con lui e l'altra faccia la guardia? Egli
è sì sciocco, che egli s'acconcerà comunque noi vorremo. Masetto udiva tutto
questo ragionamento, e disposto ad ubidire, niuna cosa aspettava se non l'esser
preso dall'una di loro.
Queste, guardato ben per
tutto e veggendo che da niuna parte potevano esser vedute, appressandosi quella
che mosse avea le parole a Masetto, lui destò, ed egli incontanente si levò in
piè. Per che costei con atti lusinghevoli presolo per la mano, ed egli faccendo
cotali risa sciocche, il menò nel capannetto, dove Masetto senza farsi troppo
invitare quel fe ce che ella volle. La quale, sì come leale compagna, avuto
quel che volea, diede all'altra luogo, e Masetto, pur mostrandosi semplice,
faceva il lor volere. Per che avanti che quindi si dipartissono, da una volta
in su ciascuna provar volle come il mutolo sapea cavalcare; e poi, seco spesse
volte ragionando, dicevano che bene era così dolce cosa, e più, come udito
aveano; e prendendo a convenevoli ore tempo, col mutolo s'andavano a
trastullare.
Avvenne un giorno che
una lor compagna, da una finestretta della sua cella di questo fatto
avvedutasi, a due altre il mostrò. E prima tennero ragionamento insieme di
doverle accusare alla badessa; poi, mutato consiglio e con loro accordatesi,
partefici divennero del podere di Masetto. Alle quali l'altre tre per diversi
accidenti divenner compagne in vari tempi.
Ultimamente la badessa,
che ancora di queste cose non s'accorgea, andando un dì tutta sola per lo
giardino, essendo il caldo grande, trovò Masetto (il qual di poca fatica il dì,
per lo troppo cavalcar della notte, aveva assai) tutto disteso al l'ombra d'un
mandorlo dormirsi, e avendogli il vento i panni dinanzi levati indietro, tutto
stava scoperto.
La qual cosa riguardando
la donna, e sola vedendosi, in quel medesimo appetito cadde che cadute erano le
sue monacelle; e, destato Masetto, seco nella sua camera nel menò, dove
parecchi giorni, con gran querimonia dalle monache fatta che l'ortolano non
venia a lavorar l'orto, il tenne, provando e riprovando quella dolcezza la qual
essa prima all'altre solea biasimare.
Ultimamente della sua
camera alla stanza di lui rimandatolne, e molto spesso rivolendolo, e oltre a
ciò più che parte volendo da lui, non potendo Masetto sodisfare a tante,
s'avvisò che il suo esser mutolo gli potrebbe, se più stesse, in troppo gran
danno resultare. E perciò una notte colla badessa essendo, rotto lo
scilinguagnolo, cominciò a dire:
– Madonna, io ho inteso
che un gallo basta assai bene a dieci galline, ma che dieci uomini possono male
o con fatica una femina sodisfare, dove a me ne conviene servir nove, al che
per cosa del mondo io non potrei durare; anzi son io, per quello che infino a
qui ho fatto, a tal venuto che io non posso far né poco né molto; e perciò o
voi mi lasciate andar con Dio, o voi a questa cosa trovate modo.
La donna udendo costui
parlare, il quale ella teneva mutolo, tutta stordì, e disse:
– Che è questo? Io
credeva che tu fossi mutolo.
– Madonna, – disse
Masetto – io era ben così, ma non per natura, anzi per una infermità che la
favella mi tolse, e solamente da prima questa notte la mi sento essere
restituita, di che io lodo Iddio quant'io posso.
La donna sel credette, e
domandollo che volesse dir ciò che egli a nove aveva a servire. Masetto le
disse il fatto. Il che la badessa udendo, s'accorse che monaca non avea che
molto più savia non fosse di lei; per che, come discreta, senza lasciar Masetto
partire, dispose di voler colle sue monache trovar modo a questi fatti, acciò
che da Masetto non fosse il monistero vituperato. Ed essendo di que' dì morto
il lor castaldo, di pari consenatimento, apertosi tra tutte ciò che per
addietro da tutte era stato fatto, con piacer di Masetto ordinarono che le
genti circustanti credettero che, per le loro orazioni e per gli meriti del
santo in cui intitolato era il monistero, a Masetto, stato lungamente mutolo,
la favella fosse restituita, e lui castaldo fecero; e per sì fatta maniera le
sue fatiche partirono, che egli le poté comportare. Nelle quali, come che esso
assai monachin generasse, pur sì discretamente procedette la cosa che niente se
ne sentì se non dopo la morte della badessa, essendo già Masetto presso che
vecchio e disideroso di tornarsi ricco a casa; la qual cosa saputa, di leggier
gli fece venir fatto. Così adunque Masetto vecchio, padre e ricco, senza aver
fatica di nutricar figliuoli o spesa di quegli, per lo suo avvedimento avendo
saputo la sua giovanezza bene adoperare, donde con una scure in collo partito
s'era se ne tornò, affermando che così trattava Cristo chi gli poneva le corna
sopra 'l cappello.
NOVELLA SECONDA
Un pallafrenier giace
con la moglie d'Agilulf re, di che Agilulf tacitamente s'accorge; truovalo e
tondelo; il tonduto tutti gli altri tonde, e così campa della mala ventura.
Essendo la fine venuta
della novella di Filostrato, della quale erano alcuna volta un poco le donne
arrossate e alcun'altra se ne avevan riso, piacque alla reina che Pampinea
novellando seguisse. La quale, con ridente viso incominciando, disse.
Sono alcuni sì poco discreti
nel voler pur mostrare di conoscere e di sentire quello che per lor non fa di
sapere, che alcuna volta per questo riprendendo i disavveduti difetti in
altrui, si credono la loro vergogna scemare, dove essi l'accrescono in
infinito; e che ciò sia vero, nel suo contrario mostrandovi l'astuzia d'un
forse di minor valore tenuto che Masetto, nel senno d'un valoroso re, vaghe
donne, intendo che per me vi sia dimostrato. Agilulf re de' longobardi, sì come
i suoi predecessori avevan fatto, in Pavia città di Lombardia fermò il solio
del suo regno, avendo presa per moglie Teudelinga, rimasa vedova d'Autari re
stato similmente de' longobardi, la quale fu bellissima donna, savia e onesta
molto, ma male avventurata in amadore. Ed essendo alquanto per la virtù e per
lo senno di questo re Agilulf le cose de' longobardi prospere e in quiete,
avvenne che un pallafreniere della detta reina, uomo quanto a nazione di
vilissima condizione, ma per altro da troppo più che da così vil mestiere, e
della persona bello e grande così come il re fosse, senza misura della reina
s'innamorò. E per ciò che il suo basso stato non gli avea tolto che egli non
conoscesse questo suo amore esser fuor d'ogni convenienza, sì come savio, a
niuna persona il palesava, né eziandio a lei con gli occhi ardiva di scoprirlo.
E quantunque senza alcuna speranza vivesse di dover mai a lei piacere, pur seco
si gloriava che in alta parte avesse allogati i suoi pensieri; e, come colui
che tutto ardeva in amoroso fuoco, studiosamente faceva, oltre ad ogn'altro de'
suoi compagni, ogni cosa la qual credeva che alla reina dovesse piacere. Per
che interveniva che la reina, dovendo cavalcare, più volentieri il palla freno
da costui guardato cavalcava che alcuno altro; il che quando avveniva, costui
in grandissima grazia sel reputava; e mai dalla staffa non le si partiva, beato
tenendosi qualora pure i panni toccar le poteva.
Ma, come noi veggiamo
assai sovente avvenire, quanto la speranza diventa minore tanto l'amor maggior
farsi, così in questo povero pallafreniere avvenia, in tanto che gravissimo gli
era il poter comportare il gran disio così nascoso come facea, non essendo da
alcuna speranza atato; e più volte seco, da questo amor non potendo
disciogliersi, diliberò di morire. E pensando seco del modo, prese per partito
di voler questa morte per cosa per la quale apparisse lui morire per lo amore
che alla reina aveva portato e portava; e questa cosa propose di voler che tal
fosse, che egli in essa tentasse la sua fortuna in potere o tutto o parte aver
del suo disidero. Né si fece a voler dir parole alla reina o a voler per
lettere far sentire il suo amore, ché sapeva che in vano o direbbe o
scriverrebbe; ma a voler provare se per ingegno colla reina giacer potesse.
Né altro ingegno né via
c'era se non trovar modo come egli in persona del re, il quale sapea che del
continuo con lei non giacea, potesse a lei pervenire e nella sua camera
entrare.
Per che, acciò che
vedesse in che maniera e in che abito il re, quando a lei andava, andasse, più
volte di notte in una gran sala del palagio del re, la quale in mezzo era tra
la camera del re e quella della reina, si nascose; e in tra l'altre una notte
vide il re uscire della sua camera inviluppato in un gran mantello e aver
dall'una mano un torchietto acceso e dall'altra una bacchetta, e andare alla
camera della reina e senza dire alcuna cosa percuotere una volta o due l'uscio
della camera con quella bacchetta, e incontanente essergli aperto e toltogli di
mano il torchietto. La qual cosa venuta, e similmente vedutolo ritornare, pensò
di così dover fare egli altressì; e trovato modo d'avere un mantello simile a
quello che al re veduto avea e un torchietto e una mazzuola, e prima in una
stufa lavatosi bene, acciò che non forse l'odore del letame la reina noiasse o
la facesse accorgere dello inganno, con queste cose, come usato era, nella gran
sala si nascose. E sentendo che già per tutto si dormia, e tempo parendogli o
di dovere al suo disiderio dare effetto o di far via con alta cagione alla bramata
morte, fatto colla pietra e collo acciaio che seco portato avea un poco di
fuoco, il suo torchietto accese, e chiuso e avviluppato nel mantello se n'andò
all'uscio della camera e due volte il percosse colla bacchetta. La camera da
una cameriera tutta sonnochiosa fu aperta, e il lume preso e occultato; laonde
egli, senza alcuna cosa dire, dentro alla cortina trapassato e posato il
mantello, se n'entrò nel letto nel quale la reina dormiva. Egli disiderosamente
in braccio recatalasi, mostrandosi turbato (per ciò che costume del re esser
sapea che quando turbato era niuna cosa voleva udire), senza dire alcuna cosa o
senza essere a lui detta, più volte carnalmente la reina cognobbe. E come che
grave gli paresse il partire, pur temendo non la troppa stanza gli fosse
cagione di volgere l'avuto diletto in tristizia, si levò, e ripreso il suo
mantello e il lume, senza alcuna cosa dire se n'andò, e come più tosto potè si
tornò al letto suo.
Nel quale appena ancora
esser poteva, quando il re, levatosi, alla camera andò della reina, di che ella
si mara vigliò forte; ed essendo egli nel letto entrato e lietamente
salutatala, ella, dalla sua letizia preso ardire, disse:
– O signor mio, questa
che novità è stanotte? Voi vi partite pur testé da me; e oltre l'usato modo di
me avete preso piacere, e così tosto da capo ritornate? Guardate ciò che voi
fate.
Il re, udendo queste
parole, subitamente presunse la reina da similitudine di costumi e di persona
essere stata ingannata; ma, come savio, subitamente pensò, poi vide la reina
accorta non se n'era né alcuno altro, di non volernela fare accorgere. Il che
molti sciocchi non avrebbon fatto, ma avrebbon detto: – Io non ci fu'io, chi fu
colui che ci fu? come andò? chi ci venne? – Di che molte cose nate sarebbono,
per le quali egli avrebbe a torto contristata la donna e datole materia di
disiderare altra volta quello che già sentito avea; e quello che tacendo niuna
vergogna gli poteva tornare, parlando s'arebbe vitupero recato.
Risposele adunque il re,
più nella mente che nel viso o che nelle parole turbato:
– Donna, non vi sembro
io uomo da poterci altra volta essere stato e ancora appresso questa tornarci?
A cui la donna rispose:
– Signor mio, sì; ma
tuttavia io vi priego che voi guardiate alla vostra salute.
Allora il re disse:
– Ed egli mi piace di
seguire il vostro consiglio; e questa volta senza darvi più impaccio me ne vo'
tornare.
E avendo l'animo già
pieno d'ira e di mal talento, per quello che vedeva gli era stato fatto,
ripreso il suo mantello, s'uscì della camera e pensò di voler chetamente
trovare chi questo avesse fatto, imaginando lui della casa dovere essere, e
qualunque si fosse, non esser potuto di quella uscire.
Preso adunque un
picciolissimo lume in una lanternetta, se n'andò in una lunghissima casa che nel
suo palagio era sopra le stalle de' cavalli, nella quale quasi tutta la sua
famiglia in diversi letti dormiva; ed estimando che, qualunque fosse colui che
ciò fatto avesse che la donna diceva, non gli fosse ancora il polso e 'l
battimento del cuore per lo durato affanno potuto riposare, tacitamente,
cominciato dall'uno de' capi della casa, a tutti cominciò ad andare toccando il
petto per sapere se gli battesse.
Come che ciascuno altro
dormisse forte, colui che colla reina stato era non dormiva ancora; per la qual
cosa, vedendo venire il re e avvisandosi ciò che esso cercando andava, forte
cominciò a temere tanto che sopra il battimento della fatica avuta la paura
n'aggiunse un maggiore; e avvisossi fermamente che, se il re di ciò
s'avvedesse, senza indugio il facesse morire. E come che varie cose gli
andasser per lo pensiero di doversi fare, pur vedendo il re senza alcuna arme,
diliberò di far vista di dormire e d'attender quello che il re far dovesse.
Avendone adunque il re molti cerchi né alcuno trovandone il quale giudicasse
essere stato desso, pervenne a costui, e trovandogli batter forte il cuore,
seco disse: – Questi è desso –. Ma, sì come colui che di ciò che fare intendeva
niuna cosa voleva che si sentisse, niuna altra cosa gli fece se non che con un
paio di forficette, le quali portate avea, gli tondè alquanto dal l'una delle
parti i capelli, li quali essi a quel tempo portavano lunghissimi, acciò che a
quel segnale la mattina seguente il riconoscesse; e questo fatto, si dipartì, e
tornossi alla camera sua.
Costui, che tutto ciò
sentito avea, sì come colui che malizioso era, chiaramente s'avvisò per che
così segnato era stato; là onde egli senza alcuno aspettar si levò, e trovato
un paio di forficette, delle quali per avventura v'erano alcun paio per la
stalla per lo servigio de' cavalli, pianamente andando a quanti in quella casa
ne giacevano, a tutti in simil maniera sopra l'orecchie tagliò i ca pelli; e
ciò fatto, senza essere stato sentito, se ne tornò a dormire.
Il re levato la mattina,
comandò che avanti che le porti del palagio s'aprissono tutta la sua famiglia
gli venisse davanti; e così fu fatto. Li quali tutti, senza alcuna cosa in capo
davanti standogli, esso cominciò a guardare per riconoscere il tonduto da lui;
e veggendo la maggior parte di loro co' capelli ad un medesimo modo tagliati,
si maravigliò, e disse seco stesso: – Costui, il quale io vo cercando,
quantunque di bassa condizion sia, assai ben mostra d'essere d'alto senno –.
Poi, veggendo che senza romore non poteva avere quel ch'egli cercava, disposto
a non volere per piccola vendetta acquistar gran vergogna, con una sola parola
d'ammonirlo e dimostrargli che avveduto se ne fosse gli piacque; e a tutti
rivolto disse:
– Chi 'l fece nol faccia
mai più, e andatevi con Dio. Un altro gli averebbe voluti far collare,
martoriare, esaminare, e domandare; e ciò facendo, avrebbe scoperto quello che
ciascun dee andar cercando di ricoprire; ed essendosi scoperto, ancora che
intera vendetta n'avesse presa, non scemata ma molto cresciuta n'avrebbe la sua
vergogna, e contaminata l'onestà della donna sua.
Coloro che quella parola
udirono si maravigliarono e lungamente fra sé esaminarono che avesse il re
voluto per quella dire; ma niuno ve ne fu che la 'ntendesse se non colui solo a
cui toccava. Il quale, sì come savio, mai, vivente il re, non la scoperse, né
più la sua vita in sì fatto atto commise alla fortuna.
NOVELLA TERZA
Sotto spezie di
confessione e di purissima conscienza una donna innamorata d'un giovane induce
un solenne frate, senza avvedersene egli, a dar modo che 'l piacer di lei
avesse intero effetto.
Taceva già Pampinea, e
l'ardire e la cautela del pallafreniere era dà più di loro stata lodata, e
similmente il senno del re, quando la reina, a Filomena voltatasi, le 'mpose il
seguitare; per la qual cosa Filomena vezzosamente così incominciò a parlare.
Io intendo di
raccontarvi una beffe che fu da dovero fatta da una bella donna ad uno solenne
religioso, tanto più ad ogni secolar da piacere, quanto essi, il più
stoltissimi e uomini di nuove maniere e costumi, si credono più che gli altri
in ogni cosa valere e sapere, dove essi di gran lunga sono da molto meno, sì
come quegli che per viltà d'animo non avendo argomento, come gli altri uomini,
di civanzarsi, si rifuggono dove aver possano da mangiar come il porco. La
quale, o piacevoli donne, io racconterò non solamente per seguire l'ordine
imposto, ma ancora per farvi accorte che eziandio i religiosi, à quali noi,
oltre modo credule, troppa fede prestiamo, possono essere e sono alcuna volta,
non che dagli uomini, ma da alcuna di noi cautamente beffati.
Nella nostra città, più
d'inganni piena che d'amore o di fede, non sono ancora molti anni passati, fu
una gentil donna di bellezze ornata e di costumi, d'altezza d'animo e di
sottili avvedimenti quanto alcun'altra dalla natura dotata, il cui nome, né
ancora alcuno altro che alla presente novella appartenga, come che io gli
sappia, non intendo di palesare, per ciò che ancora vivono di quegli che per
questo si caricherebber di sdegno, dove di ciò sarebbe con risa da trapassare.
Costei adunque, d'alto
legnaggio veggendosi nata e maritata ad uno artefice lanaiuolo, per ciò che
ricchissimo era, non potendo lo sdegno dell'animo porre in terra, per lo quale
estimava niuno uomo di bassa condizione, quantunque ricchissimo fosse, esser di
gentil donna degno; e veggendo lui ancora con tutte le sue ricchezze da niuna
altra cosa essere più avanti che da saper divisare un mescolato o fare ordire
una tela o con una filatrice disputare del filato, propose di non volere de'
suoi abbracciamenti in alcuna maniera se non in quanto negare non gli potesse;
ma di volere a soddisfazione di sé medesima trovare alcuno, il quale più di ciò
che il lanaiuolo le paresse che fosse degno, e innamorossi d'uno assai valoroso
uomo e di mezza età, tanto che qual dì nol vedeva, non poteva la seguente notte
senza noia passare. Ma il valente uomo, di ciò non accorgendosi, niente ne
curava; ed ella, che molto cauta era, né per ambasciata di femina né per
lettera ardiva di fargliele sentire, temendo de' pericoli possibili ad
avvenire. Ed essendosi accorta che costui usava molto con un religioso, il
quale, quantunque fosse tondo e grosso uomo, nondimeno, per ciò che di
santissima vita era, quasi da tutti avea di valentissimo frate fama, estimò
costui dovere essere ottimo mezzano tra lei e il suo amante; e avendo seco
pensato che modo tener dovesse, se n'andò a convenevole ora alla chiesa dove
egli dimorava, e fattosel chiamare, disse, quando gli piacesse, da lui si volea
confessare.
Il frate, vedendola, ed
estimandola gentil donna, l'ascoltò volentieri; ed essa dopo la confessione
disse:
– Padre mio, a me
convien ricorrere a voi per aiuto e per consiglio di ciò che voi udirete. Io
so, come colei che detto ve l'ho, che voi conoscete i miei parenti e 'l mio
marito, dal quale io sono più che la vita sua amata, né alcuna cosa disidero
che da lui, sì come da ricchissimo uomo e che 'l può ben fare, io non l'abbia
incontanente, per le quali cose io più che me stessa l'amo; e, lasciamo stare
che io facessi, ma se io pur pensassi cosa niuna che contro al suo onore e
piacer fosse, niuna rea femina fu mai del fuoco degna come sarei io.
Ora uno, del quale nel
vero io non so il nome, ma per sona dabbene mi pare, e, se io non ne sono
ingannata, usa molto con voi, bello e grande della persona, vestito di panni
bruni assai onesti, forse non avvisandosi che io così fatta intenzione abbia
come io ho, pare che m'abbia posto l'assedio, né posso farmi né ad uscio né a
finestra, né uscir di casa, che egli incontanente non mi si pari innanzi; e
maravigliom'io come egli non è ora qui; di che io mi dolgo forte, per ciò che
questi così fatti modi fanno sovente senza colpa alle oneste donne acquistar
biasimo. Hommi posto in cuore di fargliele alcuna volta dire à miei fratelli;
ma poscia m'ho pensato che gli uomini fanno alcuna volta l'ambasciate per modo
che le risposte seguitan cattive, di che nascon parole e dalle parole si
perviene à fatti; per che, acciò che male e scandalo non ne nascesse, me ne son
taciuta, e diliberami di dirlo più tosto a voi che ad altrui, sì perché pare
che suo amico siate, sì ancora perché a voi sta bene di così fatte cose, non
che gli amici, ma gli strani ripigliare. Per che io vi priego per solo Iddio
che voi di ciò il dobbiate riprendere e pregare che più questi modi non tenga.
Egli ci sono dell'altre donne assai le quali per avventura son disposte a
queste cose, e piacerà loro d'esser guatate e vagheggiate da lui, là dove a me
è gravissima noia, sì come a colei che in niuno atto ho l'animo disposto a tal
materia. E detto questo, quasi lagrimar volesse, bassò la testa. Il santo frate
comprese incontanente che di colui dicesse di cui veramente diceva, e
commendata molto la donna di questa sua disposizion buona, fermamente credendo
quello esser vero che ella diceva, le promise d'operar sì e per tal modo che
più da quel cotale non le sarebbe dato noia; e conoscendola ricca molto, le
lodò l'opera della carità e della limosina, il suo bisogno raccontandole. A cui
la donna disse:
– Io ve ne priego per
Dio; e s'egli questo negasse, sicuramente gli dite che io sia stata quella che
questo v'abbia detto e siamevene doluta.
E quinci, fatta la
confessione e presa la penitenza, ricordandosi de' conforti datile dal frate
dell'opera della limosina, empiutagli nascosamente la man di denari, il pregò
che messe dicesse per l'anima dei morti suoi; e dai piè di lui levatasi, a casa
se ne tornò.
Al santo frate non dopo
molto, sì come usato era, venne il valente uomo, col quale poi che d'una cosa e
d'altra ebbero insieme alquanto ragionato, tiratol da parte, per assai cortese
modo il riprese dello intendere e del guardare che egli credeva che esso
facesse a quella donna, sì come ella gli aveva dato ad intendere. Il valente
uomo si maravigliò, sì come colui che mai guatata non l'avea e radissime volte
era usato di passare davanti a casa sua, e cominciò a volersi scusare; ma il
frate non lo lasciò dire, ma disse egli:
– Or non far vista di
maravigliarti, né perder parole in negarlo, per ciò che tu non puoi; io non ho
queste cose sapute dà vicini; ella medesima, forte di te dolendosi, me l'ha
dette. E quantunque a te queste ciance omai non ti stean bene, ti dico io di
lei cotanto, che, se mai io ne trovai alcuna di queste sciocchezze schifa, ella
è dessa; e per ciò, per onor di te e per consolazione di lei, ti priego te ne
rimanghi e lascila stare in pace.
Il valente uomo, più
accorto che 'l santo frate, senza troppo indugio la sagacità della donna
comprese, e mostrando alquanto di vergognarsi, disse di più non intramettersene
per innanzi; e dal frate partitosi, dalla casa n'andò della donna, la quale
sempre attenta stava ad una picciola finestretta per doverlo vedere, se vi
passasse. E vedendol venire, tanto lieta e tanto graziosa gli si mostrò, che
egli assai bene potè comprendere sé avere il vero compreso dalle parole del
frate; e da quel dì innanzi assai cautamente, con suo piacere e con grandissimo
diletto e consolazion della donna, faccendo sembianti che altra faccenda ne
fosse cagione, continuò di passar per quella contrada. Ma la donna, dopo
alquanto già accortasi che ella a costui così piacea come egli a lei,
disiderosa di volerlo più accendere e certificare dello amore che ella gli
portava, preso luogo e tempo, al santo frate se ne tornò, e postaglisi nella
chiesa a sedere à piedi, a piagnere incominciò.
Il frate, questo
vedendo, la domandò pietosamente che novella ella avesse.
La donna rispose:
– Padre mio, le novelle
che io ho non sono altre che di quel maledetto da Dio vostro amico, di cui io
mi vi ramaricai l'altr'ieri, per ciò che io credo che egli sia nato per mio
grandissimo stimolo e per farmi far cosa, che io non sarò mai lieta né mai
ardirò poi di più pormivi a' piedi.
– Come! – disse il frate
– non s'è egli rimaso di darti più noia?
– Certo no, – disse la
donna – anzi, poi che io mi vene dolfi, quasi come per un dispetto, avendo
forse avuto per male che io mi ve ne sia doluta, per ogni volta che passar vi
solea, credo che poscia vi sia passato sette. E or volesse Iddio che il
passarvi e il guatarmi gli fosse bastato, ma egli è stato sì ardito e sì
sfacciato, che pure ieri mi mandò una femina in casa con sue novelle e con sue
frasche, e quasi come se io non avessi delle borse e delle cintole, mi mandò
una borsa e una cintola; il che io ho avuto e ho sì forte per male, che io
credo, se io non avessi guardato al peccato, e poscia per vostro amore, io
avrei fatto il diavolo, ma pure mi son rattemperata, né ho voluto fare né dire
cosa alcuna che io non vel faccia prima assapere.
E oltre a questo, avendo
io già renduta indietro la borsa e la cintola alla feminetta che recata l'avea,
che gliele riportasse, e brutto commiato datole, temendo che ella per sé non la
tenesse e a lui; dicesse che io l'avessi ricevuta, sì com'io intendo che elle
fanno alcuna volta, la richiamai indietro e piena di stizza gliele tolsi di
mano e holla recata a voi, acciò che voi gliele rendiate e gli diciate che io
non ho bisogno di sue cose per ciò che, la mercé di Dio e del marito mio io ho
tante borse e tante cintole che io ve l'affogherei entro. E appresso questo, sì
come a padre mi vi scuso che, se egli di questo non si rimane, io il dirò al
marito mio e a' fratei miei, e avvegnane che può; ché io ho molto più caro che
egli riceva villania, se ricevere ne la dee, che io abbia biasimo per lui:
frate, bene sta.
E detto questo, tuttavia
piagnendo forte, si trasse di sotto alla guarnacca una bellissima e ricca borsa
con una leggiadra e cara cinturetta, e gittolle in grembo al frate; il quale,
pienamente credendo ciò che la donna diceva, turbato oltre misura le prese, e
disse:
– Figliuola, se tu di
queste cose ti crucci, io non me ne maraviglio né te ne so ripigliare; ma lodo
molto che tu in questo seguiti il mio consiglio. Io il ripresi l'altr'ieri, ed
egli m'ha male attenuto quello che egli mi promise: per che, tra per quello e
per questo che nuovamente fatto ha, io gli credo per sì fatta maniera riscaldare
gli orecchi; che egli più briga non ti darà; e tu colla benedizion d'Iddio non
ti lasciassi vincer tanto all'ira, che tu ad alcuno dei tuoi il dicessi, ché
gli ne potrebbe troppo di mal seguire. Né dubitar che mai di questo biasimo ti
segua, ché io sarò sempre e dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini fermissimo
testimonio della tua onestà.
La donna fece sembiante
di riconfortarsi alquanto, e lasciate queste parole, come colei che l'avarizia
sua e degli altri conoscea, disse:
– Messere, a queste
notti mi sono appariti più miei parenti, e parmi che egli sieno in grandissime
pene, e non domandino altro che limosine, e spezialmente la mamma mia, la quale
mi pare sì afflitta e cattivella, che è una pietà a vedere. Credo che ella
porti grandissime pene di vedermi in questa tribulazione di questo nemico
d'Iddio, e per ciò vorrei che voi mi diceste per l'anime loro le quaranta messe
di san Grigorio e delle vostre orazioni, acciò che Iddio gli tragga di quel
fuoco pennace –; e così detto, gli pose in mano un fiorino.
Il santo frate
lietamente il prese, e con buone parole e con molti essempli confermò la
divozion di costei e, datale la sua benedizione, la lasciò andare.
E partita la donna, non
accorgendosi ch'egli era uccellato, mandò per l'amico suo; il qual venuto, e
vedendol turbato, in contanente s'avvisò che egli avrebbe novelle dalla donna,
e aspettò che dir volesse il frate. Il quale, ripetendogli le parole altre
volte dettegli e di nuovo ingiuriosamente e crucciato parlandogli, il riprese
molto di ciò che detto gli avea la donna che egli doveva aver fatto.
Il valente uomo, che
ancor non vedea a che il frate riuscir volesse, assai tiepidamente negava sé
aver mandata la borsa e la cintura, acciò che al frate non togliesse fede di
ciò, se forse data gliele avesse la donna. Ma il frate, acceso forte, disse:
– Come il puo'tu negare,
malvagio uomo? Eccole, ché ella medesima piagnendo me l'ha recate; vedi se tu
le conosci! Il valente uomo, mostrando di vergognarsi forte, disse:
– Mai sì che io le
conosco, e confessovi che io feci male, e giurovi che, poi che io così la
veggio disposta, che mai di questo voi non sentirete più parola.
Ora le parole fur molte;
alla fine il frate montone diede la borsa e la cintura allo amico suo, e dopo
molto averlo ammaestrato e pregato che più a queste cose non attendesse, ed
egli avendogliele promesso, il licenziò. Il valente uomo, lietissimo e della
certezza che aver gli parea dello amor della donna e del bel dono, come dal
frate partito fu, in parte n'andò dove cautamente fece alla sua donna vedere
che egli avea e l'una e l'altra cosa; di che la donna fu molto contenta, e più
ancora per ciò che le parea che 'l suo avviso andasse di bene in meglio. E
niuna altra cosa aspettando se non che il marito andasse in alcuna parte per
dare all'opera compimento, avvenne che per alcuna cagione non molto dopo a
questo convenne al marito andare infino a Genova.
E come egli fu la
mattina montato a cavallo e andato via, così la donna n'andò al santo frate e
dopo molte querimonie piagnendo gli disse:
– Padre mio, or vi dico
io bene che io non posso più sofferire; ma per ciò che l'altr'ieri io vi
promisi di niuna cosa farne che io prima nol vi dicessi, son venuta ad
iscusarmivi, e acciò che voi crediate che io abbia ragione e di piagnere e di
ramaricarmi, io vi voglio dire ciò che 'l vostro amico, anzi dia volo del
ninferno, mi fece stamane poco innanzi mattutino.
Io non so qual mala
ventura gli facesse assapere che il marito mio andasse iermattina a Genova, se
non che stamane, all'ora che io v'ho detta, egli entrò in un mio giardino e
venne sene su per uno albero alla finestra della camera mia, la quale è sopra
il giardino, e già aveva la finestra aperta e voleva nella camera entrare,
quando io destatami subito mi levai, e aveva cominciato a gridare e per Dio e
per voi, dicendomi chi egli era; laonde io, udendolo, per amor di voi tacqui, e
ignuda come io nacqui corsi e serragli la finestra nel viso, ed egli nella sua
mal'ora credo che se ne andasse, perciò che poi più nol sentii. Ora, se questa
è bella cosa ed è da sofferire, vedetel voi; io per me non intendo di più
comportargliene, anzi ne gli ho io bene per amor di voi sofferte troppe. Il
frate, udendo questo, fu il più turbato uomo del mondo, e non sapeva che dirsi,
se non che più volte la domandò se ella aveva ben conosciuto che egli non fosse
stato altri.
A cui la donna rispose:
– Lodato sia Iddio, se
io non conosco ancor lui da un altro! Io vi dico ch'e'fu egli, e perche'egli il
negasse, non gliel credete.
– Figliuola, qui non ha
altro da dire, se non che questo è stato troppo grande ardire e troppo mal
fatta cosa, e tu facesti quello che far dovevi di mandarnelo come facesti. Ma
io ti voglio pregare, poscia che Iddio ti guardò di vergogna, che, come due
volte seguito hai il mio consiglio, così ancora questa volta facci, cioè che
senza dolertene ad alcuno tuo parente lasci fare a me, a vedere se io posso
raffrenare questo diavolo scatenato, che io credeva che fosse un santo; e se io
posso tanto fare che io il tolga da questa bestialità, bene sta; e se io non
potrò, infino ad ora con la mia benedizione ti do la parola che tu ne facci
quello che l'animo ti giudica che ben sia fatto.
– Ora ecco, – disse la
donna – per questa volta io non vi voglio turbare né disubidire; ma sì
adoperate che egli si guardi di più noiarmi, ché io vi prometto di non tornar
più per questa cagione a voi –; e senza più dire, quasi turbata, dal frate si
partì.
Né era appena ancor fuor
della chiesa la donna, che il valente uomo sopravenne e fu chiamato dal frate,
al quale, da parte tiratol, esso disse la maggior villania che mai ad uomo
fosse detta, disleale e spergiuro e traditor chiamandolo. Costui, che già due
altre volte conosciuto avea che montavano i mordimenti di questo frate, stando
attento, e con risposte perplesse ingegnandosi di farlo parlare, primieramente
disse:
– Perché questo cruccio,
messere? Ho io crocifisso Cristo?
A cui il frate rispose:
– Vedi svergognato! Odi
ciò ch'e'dice! Egli parla né più né meno come se uno anno o due fosser passati
e per la lunghezza del tempo avesse le sue tristizie e disonestà dimenticate.
Etti egli da stamane a mattutino in qua uscito di mente l'avere altrui
ingiuriato? Ove fostù stamane poco avanti al giorno?
Rispose il valente uomo:
– Non so io ove io mi
fui; molto tosto ve n'è giunto il messo.
– Egli è il vero, –
disse il frate – che il messo me n'è giunto; io m'avviso che tu ti credesti,
per ciò che il marito non c'era, che la gentil donna ti dovesse incontanente ricevere
in braccio. Hi meccere: ecco onesto uomo! è divenuto andator di notte, apritor
di giardini e salitor d'alberi. Credi tu per improntitudine vincere la santità
di questa donna, che le vai alle finestre su per gli alberi la notte? Niuna
cosa è al mondo che a lei dispiaccia, come fai tu; e tu pur ti vai riprovando.
In verità, lasciamo stare che ella te l'abbia in molte cose mostrato, ma tu ti
se' molto bene ammendato per li miei gastigamenti. Ma così ti vo' dire: ella ha
infino a qui, non per amore che ella ti porti ma ad instanzia de' prieghi miei,
taciuto di ciò che fatto hai; ma essa non tacerà più; conceduta l'ho la
licenzia che, se tu più in cosa alcuna le spiaci, ch'ella faccia il parer suo.
Che farai tu, se ella il dice à fratelli? Il valente uomo, avendo assai
compreso di quello che gli bisognava, come meglio seppe e potè con molte ampie
promesse racchetò il frate; e da lui partitosi, come il mattutino della
seguente notte fu, così egli nel giardino entrato e su per lo albero salito e
trovata la finestra aperta, se n'entrò nella camera, e come più tosto potè
nelle braccia della sua bella donna si mise. La quale, con grandissimo disidero
avendolo aspettato, lietamente il ricevette, dicendo:
– Gran mercé a messer lo
frate, che così bene t'insegnò la via da venirci. E appresso, prendendo l'un
dell'altro piacere, ragionando e ridendo molto della simplicità del frate
bestia, biasimando i lucignoli e' pettini e gli scardassi, insieme con gran
diletto si sollazzarono. E dato ordine à lor fatti, sì fecero, che senza aver
più a tornare a messer lo frate, molte altre notti con pari letizia insieme si
ritrovarono; alle quali io priego Iddio per la sua santa misericordia che tosto
conduca me e tutte l'anime cristiane che voglia ne hanno.
NOVELLA QUARTA
Don Felice insegna a
frate Puccio come egli diverrà beato faccendo una sua penitenzia; la quale
frate Puccio fa, e don Felice in questo mezzo con la moglie del frate si dà
buon tempo.
Poi che Filomena, finita
la sua novella, si tacque, avendo Dioneo con dolci parole molto lo 'ngegno
della donna commendato e ancora la preghiera da Filomena ultimamente fatta, la
reina ridendo guardò verso Panfilo, e disse:
– Ora appresso, Panfilo,
continua con alcuna piacevol cosetta il nostro diletto.
Panfilo prestamente rispose
che volontieri, e cominciò. Madonna, assai persone sono che, mentre che essi si
sforzano d'andarne in paradiso, senza avvedersene vi mandano altrui; il che ad
una nostra vicina, non ha ancor lungo tempo, sì come voi potrete udire,
intervenne. Secondo che io udii già dire, vicino di san Brancazio stette un
buon uomo e ricco, il quale fu chiamato Puccio di Rinieri, che poi, essendo
tutto dato allo spirito, si fece bizzoco di quegli di san Francesco, e fu
chiamato frate Puccio, e seguendo questa sua vita spirituale, per ciò che altra
famiglia non avea che una sua donna e una fante, né per questo ad alcuna arte
attender gli bisognava, usava molto la chiesa. E per ciò che uomo idiota era e
di grossa pasta, diceva suoi paternostri, andava alle prediche, stava alle
messe, né mai falliva che alle laude che cantavano i secolari esso non fosse, e
digiunava e disciplinavasi, e bucinavasi che egli era degli scopatori.
La moglie, che monna
Isabetta avea nome, giovane ancora di ventotto in trenta anni, fresca e bella e
ritondetta che pareva una mela casolana, per la santità del marito e forse per
la vecchiezza, faceva molto spesso troppo più lunghe diete che voluto non
avrebbe; e, quand'ella si sarebbe voluta dormire o forse scherzar con lui, ed
egli le raccontava la vita di Cristo e le prediche di frate Nastagio o il
lamento della Maddalena o così fatte cose.
Tornò in questi tempi da
Parigi un monaco chiamato don Felice, conventuale di san Brancazio, il quale
assai giovane e bello della persona era e d'aguto ingegno e di profonda
scienza, col qual frate Puccio prese una stretta dimestichezza. E per ciò che
costui ogni suo dubbio molto bene gli solvea, e oltre a ciò, avendo la sua
condizion conosciuta, gli si mostrava santissimo, se lo incominciò frate Puccio
a menare talvolta a casa e a dargli desinare e cena, secondo che fatto gli
venia; e la donna altressì per amor di fra Puccio era sua dimestica divenuta e
volentier gli faceva onore.
Continuando adunque il
monaco a casa di fra Puccio e veggendo la moglie così fresca e ritondetta,
s'avvisò qual dovesse essere quella cosa della quale ella patisse maggior
difetto; e pensossi, se egli potesse, per tor fatica a fra Puccio, di volerla
supplire. E, postole l'occhio addosso e una volta e altra bene astutamente,
tanto fece che egli l'accese nella mente quello medesimo disidero che aveva
egli; di che accortosi il monaco, come prima destro gli venne, con lei ragionò
il suo piacere. Ma, quantunque bene la trovasse disposta a dover dare all'opera
compimento, non si poteva trovar modo, per ciò che costei in niun luogo del
mondo si voleva fidare ad esser col monaco se non in casa sua; e in casa sua
non si potea, perché fra Puccio non andava mai fuor della terra; di che il
monaco avea gran malinconia. E dopo molto gli venne pensato un modo da dover
potere essere colla donna in casa sua senza sospetto, non ostante che fra
Puccio in casa fosse. Ed essendosi un dì andato a star con lui frate Puccio,
gli disse così:
– Io ho già assai volte
compreso, fra Puccio, che tutto il tuo disidero è di divenir santo, alla qual
cosa mi par che tu vadi per una lunga via, là dove ce n'è una che è molto
corta, la quale il papa e gli altri suoi maggior prelati, che la sanno e usano,
non vogliono che ella si mostri; per ciò che l'ordine chericato, che il più di
limosine vive, incontanente sarebbe disfatto, sì come quello al quale più i
secolari né con limosine né con altro attenderebbono. Ma, per ciò che tu se'
mio amico e ha' mi onorato molto, dove io credessi che tu a niuna persona del
mondo l'appalesassi, e volessila seguire, io la t'insegnerei. Frate Puccio,
divenuto disideroso di questa cosa, prima cominciò a pregare con grandissima
instanzia che gliele insegnasse, e poi a giurare che mai, se non quanto gli
piacesse, ad alcuno nol direbbe, affermando che, se tal fosse che esso seguir
la potesse, di mettervisi. – Poi che tu così mi prometti, – disse il monaco – e
io la ti mosterrò. Tu dei sapere che i santi dottori tengono che a chi vuol
divenir beato si convien fare la penitenzia che tu udirai; ma intendi
sanamente: io non dico, che dopo la penitenzia tu non sii peccatore come tu ti
se'; ma avverrà questo, che i peccati che tu hai infino all'ora della
penitenzia fatti, tutti si purgheranno e sarannoti per quella perdonati; e
quegli che tu farai poi non saranno scritti a tua dannazione, anzi se
n'andranno con l'acqua benedetta, come ora fanno i veniali.
Conviensi adunque l'uomo
principalmente con gran diligenzia confessare de' suoi peccati quando viene a
cominciar la penitenzia; e appresso questo li convien cominciare un digiuno e
una astinenzia grandissima, la qual convien che duri quaranta dì, ne' quali,
non che da altra femina, ma da toccare la propria tua moglie ti conviene
astenere. E oltre a questo si conviene avere nella tua propria casa alcun luogo
donde tu possi la notte vedere il cielo, e in su l'ora della compieta andare in
questo luogo, e quivi avere una tavola molto larga ordinata in guisa che,
stando tu in pie', vi possi le reni appoggiare, e tenendo gli piedi in terra
distender le braccia a guisa di crucifisso; e se tu quelle volessi appoggiare
ad alcun cavigliuolo, puoil fare; e in questa maniera guardando il cielo, star
senza muoverti punto insino a matutino. E, se tu fossi litterato, ti
converrebbe in questo mezzo dire certe orazioni che io ti darei; ma, perché non
sé, ti converrà dire trecento paternostri con trecento avemarie a reverenzia
della Trinità, e riguardando il cielo, sempre aver nella memoria Iddio essere
stato creatore del cielo e della terra, e la passion di Cristo, stando in
quella maniera che stette egli in su la croce. Poi, come matutino suona, te ne
puoi, se tu vuogli, andare e così vestito gittarti sopra 'l letto tuo e
dormire: e la mattina appresso si vuole andare alla chiesa, e quivi udire
almeno tre messe e dir cinquanta paternostri con altrettante avemarie; e
appresso questo con simplicità fare alcuni tuoi fatti, se a far n'hai alcuno, e
poi desinare, ed essere appresso al vespro nella chiesa e quivi dire certe
orazioni che io ti darò scritte, senza le quali non si può fare; e poi in su la
compieta ritornare al modo detto. E faccendo questo, sì come io feci già, spero
che anzi che la fine della penitenzia venga, tu sentirai maravigliosa cosa
della beatitudine etterna, se con divozione fatta l'avrai.
Frate Puccio disse
allora:
– Questa non è troppo
grave cosa, né troppo lunga, e deesi assai ben poter fare; e per ciò io voglio
al nome di Dio cominciar domenica.
E da lui partitosene e
andatosene a casa, ordinatamente, con sua licenzia perciò, alla moglie disse
ogni cosa. La donna intese troppo bene per lo star fermo infino a matutino
senza muoversi ciò che il monaco voleva dire; per che, parendole assai buon
modo, disse che di questo e d'ogn'altro bene, che egli per l'anima sua face va,
ella era contenta, e che, acciò che Iddio gli facesse la sua penitenzia
profittevole, ella voleva con esso lui digiunare, ma fare altro no.
Rimasi adunque in
concordia, venuta la domenica, frate Puccio cominciò la sua penitenzia, e
messer lo monaco, convenutosi colla donna, ad ora che veduto non poteva essere,
le più delle sere con lei se ne veniva a cenare, seco sempre recando e ben da
mangiare e ben da bere, poi con lei si giaceva infino all'ora del matutino, al
quale levandosi se n'andava, e frate Puccio tornava al letto.
Era il luogo, il quale
frate Puccio aveva alla sua penitenzia eletto, allato alla camera nella quale
giaceva la donna, né da altro era da quella diviso che da un sottilissimo muro;
per che, ruzzando messer lo monaco troppo colla donna alla scapestrata ed ella
con lui, parve a frate Puccio sentire alcuno dimenamento di palco della casa;
di che, avendo già detti cento de' suoi paternostri, fatto punto quivi, chiamò
la donna senza muoversi, e domandolla ciò che ella faceva.
La donna, che
motteggevole era molto, forse cavalcando allora senza sella la bestia di san
Benedetto o vero di san Giovanni Gualberto, rispose:
– Gnaffe, marito mio, io
mi dimeno quanto io posso. Disse allora frate Puccio:
– Come ti dimeni? Che
vuol dir questo dimenare?
La donna ridendo, che e
di buona aria e valente donna era, e forse avendo cagion di ridere, rispose:
– Come non sapete voi
quello che questo vuol dire? Ora io ve l'ho udito dire mille volte: chi la sera
non cena, tutta notte si dimena.
Credettesi frate Puccio
che il digiunare, il quale ella a lui mostrava di fare, le fosse cagione di non
poter dormire, e per ciò per lo letto si dimenasse, per che egli di buona fede
disse:
– Donna, io t'ho ben
detto, non digiunare; ma, poiché pur l'hai voluto fare, non pensare a ciò,
pensa di riposarti; tu dai tali volte per lo letto, che tu fai dimenar ciò che
ci è.
Disse allora la donna:
– Non ve ne caglia no;
io so ben ciò ch'i'mi fo; fate pur ben voi, ché io farò bene io, se io potrò.
Stettesi adunque cheto
frate Puccio e rimise mano à suoi paternostri; e la donna e messer lo monaco da
questa notte innanzi, fatto in altra parte della casa ordinare un letto, in
quello, quanto durava il tempo della penitenzia di frate Puccio, con
grandissima festa si stavano, e ad una ora il monaco se n'andava e la donna al
suo letto tornava, e poco stante dalla penitenzia a quello se ne venia frate
Puccio.
Continuando adunque in
così fatta maniera il frate la penitenzia e la donna col monaco il suo diletto,
più volte motteggiando disse con lui:
– Tu fai fare la
penitenzia a frate Puccio, per la quale noi abbiam guadagnato il paradiso.
E parendo molto bene
stare alla donna, sì s'avvezzò à cibi del monaco che, essendo dal marito
lungamente stata tenuta in dieta, ancora che la penitenzia di frate Puccio si
consumasse, modo trovò di cibarsi in altra parte con lui, e con discrezione
lungamente ne prese il suo piacere.
Di che, acciò che
l'ultime parole non sieno discordanti alle prime, avvenne che, dove frate
Puccio, faccendo penitenzia sé credette mettere in paradiso, egli vi mise il
monaco, che da andarvi tosto gli avea mostrata la via, e la moglie, che con lui
in gran necessità vivea di ciò che messer lo monaco, come misericordioso, gran
divizia le fece.
NOVELLA QUINTA
Il Zima dona a messer Francesco
Vergellesi un suo pallafreno, e per quello con licenzia di lui parla alla sua
donna ed, ella tacendo, egli in persona di lei si risponde, e secondo la sua
risposta poi l'effetto segue.
Aveva Panfilo, non senza
risa delle donne, finita la novella di frate Puccio, quando donnescamente la
reina ad Elissa impose che seguisse. La quale, anzi acerbetta che no, non per
malizia ma per antico costume, così cominciò a parlare.
Credonsi molti, molto
sappiendo, che altri non sappi nulla, li quali spesse volte, mentre altrui si
credono uccellare, dopo il fatto sé da altrui essere stati uccellati conoscono;
per la qual cosa io reputo gran follia quella di chi si mette senza bisogno a
tentar le forze dello altrui ingegno. Ma perché forse ogn'uomo della mia oppinione
non sarebbe, quello che ad un cavalier pistolese n'addivenisse, l'ordine dato
del ragionar seguitando, mi piace di raccontarvi.
Fu in Pistoia nella
famiglia dei Vergellesi un cavalier nominato messer Francesco, uomo molto ricco
e savio e avveduto per altro, ma avarissimo senza modo; il quale, dovendo andar
podestà di Melano, d'ogni cosa opportuna a dovere onorevolmente andare fornito
s'era, se non d'un pallafreno solamente che bello fosse per lui; né trovandone
alcuno che gli piacesse, ne stava in pensiero.
Era allora un giovane in
Pistoia, il cui nome era Ricciardo, di piccola nazione ma ricco molto, il quale
sì ornato e sì pulito della persona andava, che generalmente da tutti era
chiamato il Zima, e avea lungo tempo amata e vagheggiata infelicemente la donna
di messer Francesco, la quale era bellissima e onesta molto. Ora aveva costui
un de' più belli pallafreni di Toscana e avevalo molto caro per la sua
bellezza; ed essendo ad ogn'uom publico lui vagheggiare la moglie di messer
Francesco, fu chi gli disse che, se egli quello addimandasse, che egli
l'avrebbe per l'amore il quale il Zima alla sua donna portava.
Messer Francesco, da
avarizia tirato, fattosi chiamare il Zima, in vendita gli domandò il suo
pallafreno, acciò che il Zima gliele profferesse in dono.
Il Zima, udendo ciò, gli
piacque, e rispose al cavaliere:
- Messere, se voi mi
donaste ciò che voi avete al mondo, voi non potreste per via di vendita avere
il mio pallafreno, ma in dono il potreste voi bene avere, quando vi piacesse,
con questa condizione che io, prima che voi il prendiate, possa con la grazia
vostra e in vostra presenzia parlare alquante parole alla donna vostra, tanto
da ogn'uom separato che io da altrui che da lei udito non sia.
Il cavaliere, da
avarizia tirato e sperando di dover beffar costui, rispose che gli piacea, e
quantunque egli volesse; e lui nella sala del suo palagio lasciato, andò nella
camera alla donna, e quando detto l'ebbe come agevolmente poteva il pallafreno
guadagnare, le impose che ad udire il Zima venisse; ma ben si guardasse che a
niuna cosa che egli dicesse rispondesse né poco né molto. La donna biasimò
molto questa cosa, ma pure, convenendole seguire i piaceri del marito, disse di
farlo; e appresso al marito andò nella sala ad udire ciò che il Zima volesse
dire. Il quale, avendo col cavaliere i patti rifermati, da una parte della sala
assai lontano da ogn'uomo colla donna si pose a sedere, e così cominciò a dire:
– Valorosa donna, egli
mi pare esser certo che voi siete sì savia, che assai bene, già è gran tempo,
avete potuto comprendere a quanto amor portarvi m'abbia condotto la vostra
bellezza, la qual senza alcun fallo trapassa quella di ciascun'altra che veder
mi paresse giammai; lascio stare de' costumi laudevoli e delle virtù singolari
che in voi sono, le quali avrebbon forza di pigliare ciascuno alto animo di
qualunque uomo. E per ciò non bisogna che io vi dimostri con parole quello
essere stato il maggiore e il più fervente che mai uomo ad alcuna donna
portasse; e così senza fallo sarà mentre la mia misera vita sosterrà questi
membri, e ancor più; che', se di là come di qua s'ama, in perpetuo v'amerò. E
per questo vi potete render sicura che niuna cosa avete, qual che ella si sia o
cara o vile, che tanto vostra possiate tenere e così in ogni atto farne conto
come di me, da quanto che io mi sia, e il simigliante delle mie cose. E acciò
che voi di questo prendiate certissimo argomento, vi dico che io mi reputerei
maggior grazia che voi cosa che io far potessi che vi piacesse mi comandaste,
che io non terrei che, comandando io, tutto il mondo prestissimo m'ubbidisse.
Adunque, se così son vostro come udite che sono, non immeritamente ardirò di
porgere i prieghi miei alla vostra altezza, dalla qual sola ogni mia pace, ogni
mio bene e la mia salute venir mi puote, e non altronde; e sì come umilissimo
servidor vi priego, caro mio bene e sola speranza dell'anima mia, che nello
amoroso fuoco sperando in voi si nutrica, che la vostra benignità sia tanta e
sì ammollita la vostra passata durezza verso di me dimostrata, che vostro sono,
che io, dalla vostra pietà riconfortato, possa dire che, come per la vostra
bellezza innamorato sono, così per quella aver la vita, la quale, se à miei
prieghi l'altiero vostro animo non s'inchina, senza alcun fallo verrà meno, e
morrommi, e potrete esser detta di me micidiale. E lasciamo stare che la mia
morte non vi fosse onore, nondimeno credo che, rimordendovene alcuna volta la
conscienza, ve ne dorrebbe d'averlo fatto, e talvolta, meglio disposta, con voi
medesima direste: «Deh quanto mal feci a non aver misericordia del Zima mio! –;
e questo pentere non avendo luogo, vi sarebbe di maggior noia cagione. Per che,
acciò che ciò non avvenga, ora che sovvenir mi potete, di ciò v'incresca, e
anzi che io muoia a misericordia di me vi movete, per ciò che in voi sola il
farmi il più lieto e il più dolente uomo che viva dimora. Spero tanta essere la
vostra cortesia che non sofferrete che io per tanto e tale amore morte riceva
per guiderdone, ma con lieta risposta e piena di grazia riconforterete gli
spiriti miei, li quali spaventati tutti trieman nel vostro cospetto. E quinci
tacendo, alquante lacrime dietro a profondissimi sospiri mandate per gli occhi
fuori, cominciò ad attender quello che la gentil donna gli rispondesse. La
donna, la quale il lungo vagheggiare, l'armeggiare, le mattinate, e l'altre
cose simili a queste per amor di lei fatte dal Zima, muovere non avean potuto,
mossero le affettuose parole dette dal ferventissimo amante, e cominciò a
sentire ciò che prima mai non avea sentito, cioè che amor si fosse. E
quantunque, per seguire il comandamento fattole dal marito, tacesse, non potè
per ciò alcun sospiretto nascondere quello che volentieri, rispondendo al Zima,
avrebbe fatto manifesto.
Il Zima, avendo alquanto
atteso e veggendo che niuna risposta seguiva, si maravigliò, e poscia
s'incominciò ad accorgere dell'arte usata dal cavaliere; ma pur lei riguardando
nel viso e veggendo alcun lampeggiare d'occhi di lei verso di lui alcuna volta,
e oltre a ciò raccogliendo i sospiri li quali essa non con tutta la forza loro
del petto lasciava uscire, alcuna buona speranza prese, e da quella aiutato
prese nuovo consiglio, e cominciò in forma della donna, udendolo ella, a
rispondere a sé medesimo in cotal guisa:
– Zima mio, senza dubbio
gran tempo ha che io m'accorsi il tuo amore verso me esser grandissimo e
perfetto, e ora per le tue parole molto maggiormente il conosco, e sonne
contenta, sì come io debbo. Tutta fiata, se dura e crudele paruta ti sono, non
voglio che tu creda che io nello animo stata sia quello che nel viso mi sono
dimostrata: anzi t'ho sempre amato e avuto caro innanzi ad ogni altro uomo, ma
così m'è convenuto fare e per paura d'altrui e per servare la fama della mia
onestà. Ma ora ne viene quel tempo nel quale io ti potrò chiaramente mostrare
se io t'amo e renderti guiderdone dello amore il qual portato m'hai e mi porti;
e per ciò confortati e sta a buona speranza, per ciò che messer Francesco è per
andare in fra pochi dì a Melano per podestà, sì come tu sai, che per mio amore
donato gli hai il bel pallafreno; il quale come andato sarà, senz'alcun fallo
ti prometto sopra la mia fè e per lo buono amore il quale io ti porto, che in
fra pochi dì tu ti troverai meco e al nostro amore daremo piacevole e intero
compimento. E acciò che io non t'abbia altra volta a far parlar di questa
materia, infino ad ora quel giorno il qual tu vedrai due sciugatoi tesi alla
finestra della camera mia, la quale è sopra il nostro giardino, quella sera di
notte, guardando ben che veduto non sii, fa che per l'uscio del giardino a me
te ne venghi; tu mi troverai ivi che t'aspetterò, e insieme avrem tutta la
notte festa e piacere l'un dell'altro sì come disideriamo.
Come il Zima in persona
della donna ebbe così parlato, egli incominciò per sé a parlare e così rispose:
– Carissima donna, egli
è per soverchia letizia della vostra buona risposta sì ogni mia virtù occupata,
che appena posso a rendervi debite grazie formar la risposta; e se io pur
potessi, come io disidero, favellare, niun termine è sì lungo che mi bastasse a
pienamente potervi ringraziare come io vorrei e come a me di far si conviene; e
per ciò nella vostra discreta considerazion si rimanga a conoscer quello che io
disiderando fornir con parole non posso. Soltanto vi dico che, come imposto
m'avete, così penserò di far senza fallo; e allora forse più rassicurato di
tanto dono quanto conceduto m'avete, m'ingegnerò a mio potere di rendervi
grazie quali per me si potranno maggiori. Or qui non resta a dire al presente
altro; e però, carissima mia donna, Dio vi dea quella allegrezza e quel bene
che voi disiderate il maggiore, e a Dio v'accomando.
Per tutto questo non
disse la donna una sola parola; laonde il Zima si levò suso e verso il
cavaliere cominciò a tornare, il qual veggendolo levato, gli si fece incontro e
ridendo disse:
– Che ti pare? Hott'io
bene la promessa servata?
– Messer no, – rispose
il Zima – ché voi mi prometteste di farmi parlare colla donna vostra e voi
m'avete fatto parlar con una statua di marmo.
Questa parola piacque
molto al cavaliere, il quale, come che buona oppinione avesse della donna,
ancora ne la prese migliore, e disse:
– Omai è ben mio il
pallafreno che fu tuo.
A cui il Zima rispose:
– Messer sì; ma se io
avessi creduto trarre di questa grazia ricevuta da voi tal frutto chente tratto
n'ho, senza do mandarlavi ve l'avrei donato; e or volesse Iddio che io fatto
l'avessi, per ciò che voi avete comperato il pallafreno, e io non l'ho venduto.
Il cavaliere di questo
si rise, ed essendo fornito di pallafreno, ivi a pochi dì entrò in cammino e
verso Melano se n'andò in podesteria.
La donna, rimasa libera
nella sua casa, ripensando alle parole del Zima e all'amore il qual le portava
e al pallafreno per amor di lei donato, e veggendol da casa sua molto spesso
passare, disse seco medesima: «Che fo io? Perché perdo io la mia giovanezza?
Questi se n'è andato a Melano e non tornerà di questi sei mesi; e quando me gli
ristorerà egli giammai? quando io sarò vecchia? e oltre a questo, quando
troverò io mai un così fatto amante come è il Zima? Io son sola, né ho d'alcuna
persona paura; io non so perché io non mi prendo questo buon tempo mentre che
io posso; io non avrò sempre spazio come io ho al presente; questa cosa non
saprà mai persona, e se egli pur si dovesse risapere, si è egli meglio fare e
pentere, che starsi e pentersi. – E così seco medesima consigliata, un dì pose
due asciugatoi alla finestra del giardino, come il Zima aveva detto; li quali
il Zima vedendo, lietissimo, come la notte fu venuta, segretamente e solo se
n'andò all'uscio del giardino della donna, e quello trovò aperto, e quindi
n'andò ad un altro uscio che nella casa entrava, dove trovò la gentil donna che
l'aspettava.
La qual veggendol venire,
levataglisi incontro, con grandissima festa il ricevette; ed egli,
abbracciandola e baciandola centomilia volte, su per le scale la seguitò; e
senza alcuno indugio coricatisi, gli ultimi termini conobber d'amore. Né questa
volta, come che la prima fosse, fu però l'ultima, per ciò che, mentre il
cavalier fu a Melano, e ancor dopo la sua tornata, vi tornò con grandissimo
piacere di ciascuna delle parti il Zima molte dell'altre volte.
NOVELLA SESTA
Ricciardo Minutolo ama
la moglie di Filippello Sighinolfo, la quale sentendo gelosa, col mostrare
Filippello il dì seguente con la moglie di lui dovere essere ad un bagno, fa
che ella vi va, e credendosi col marito essere stata, si truova che con
Ricciardo è dimorata.
Niente restava più
avanti a dire ad Elissa, quando, commendata la sagacità del Zima, la reina
impose alla Fiammetta che procedesse con una. La qual tutta ridente rispose:
– Madonna, volentieri –;
e cominciò.
Alquanto è da uscire
della nostra città, la quale, come d'ogn'altra cosa è copiosa, così è
d'essempli ad ogni materia, e, come Elissa ha fatto, alquanto delle cose che
per l'altro mondo avvenute son, raccontare; e per ciò, a Napoli trapassando,
dirò come una di queste santesi, che così d'amore schife si mostrano, fosse
dallo ingegno d'un suo amante prima a sentir d'amore il frutto condotta che i
fiori avesse conosciuti; il che ad una ora a voi presterà cautela nelle cose
che possono avvenire, e daravvi diletto delle avvenute.
In Napoli, città
antichissima e forse così dilettevole, o più, come ne sia alcuna altra in
Italia, fu già un giovane per nobiltà di sangue chiaro e splendido per molte
ricchezze, il cui nome fu Ricciardo Minutolo. Il quale, non ostante che una
bellissima giovane e vaga per moglie avesse, s'innamorò d'una, la quale, secondo
l'oppinion di tutti, di gran lunga passava di bellezza tutte l'altre donne
napoletane, e fu chiamata Catella, moglie d'un giovane similmente gentile uomo,
chiamato Filippel Sighinolfo, il quale ella, onestissima, più che altra cosa
amava e aveva caro.
Amando adunque Ricciardo
Minutolo questa Catella e tutte quelle cose operando per le quali la grazia e
l'amor d'una donna si dee potere acquistare, e per tutto ciò a niuna cosa
potendo del suo disidero pervenire, quasi si disperava; e da amore o non sappiendo
o non potendo disciogliersi, né morir sapeva né gli giovava di vivere. E in
cotal disposizion dimorando, avvenne che da donne che sue parenti erano fu un
dì assai confortato che di tale amore si dovesse rimanere, per ciò che in van
si faticava, con ciò fosse cosa che Catella niuno altro bene avesse che
Filippello, del quale ella in tanta gelosia viveva, che ogni uccel che per
l'aere volava credeva gliele togliesse.
Ricciardo, udito della
gelosia di Catella, subitamente prese consiglio a' suoi piaceri e cominciò a
mostrarsi dello amor di Catella disperato, e per ciò in un'altra gentil donna
averlo posto; e per amor di lei cominciò a mostrar d'armeggiare e di giostrare
e di far tutte quelle cose le quali per Catella solea fare. Nè guari di tempo
ciò fece che quasi a tutti i napoletani, e a Catella altressì, era nell'animo
che non più Catella, ma questa seconda donna sommamente amasse; e tanto in
questo perseverò, che sì per fermo da tutti si teneva che, non ch'altri, ma
Catella lasciò una salvatichezza che con lui aveva dell'amor che portar le
solea, e dimesticamente. come vicino, andando e vegnendo il salutava come
faceva gli altri.
Ora avvenne che, essendo
il tempo caldo e molte brigate di donne e di cavalieri, secondo l'usanza dei
napoletani, andassero a diportarsi a' liti del mare e a desinarvi e a cenarvi,
Ricciardo, sappiendo Catella con sua brigata esservi andata, similmente con sua
compagnia v'andò, e nella brigata delle donne di Catella fu ricevuto,
faccendosi prima molto invitare, quasi non fosse molto vago di rimanervi. Quivi
le donne, e Catella insieme con loro, incominciarono con lui a motteggiare del
suo novello amore, del quale egli mostrandosi acceso forte, più loro di
ragionare dava materia. A lungo andare essendo l'una donna andata in qua e
l'altra in là, come si fa in que' luoghi, essendo Catella con poche rimasa
quivi dove Ricciardo era, gittò Ricciardo verso lei un motto d'un certo amore
di Filippello suo marito, per lo quale ella entrò in subita gelosia, e dentro
cominciò ad arder tutta di disidero di saper ciò che Ricciardo volesse dire. E
poi che alquanto tenuta si fu, non potendo più tenersi, pregò Ricciardo che,
per amor di quella donna la quale egli più amava, gli dovesse piacere di farla
chiara di ciò che detto aveva di Filippello.
Il quale le disse:
– Voi m'avete
scongiurato per persona, che io non oso negar cosa che voi mi domandiate; e per
ciò io son presto a dirlovi, sol che voi mi promettiate che niuna parola ne
farete mai né con lui né con altrui, se non quando per effetto vederete esser
vero quello che io vi conterò; ché, quando vogliate, v'insegnerò come vedere il
potrete.
Alla donna piacque
questo che egli addomandava, e più il credette esser vero, e giurogli di mai
non dirlo. Tirati adunque da una parte, che da altrui uditi non fossero,
Ricciardo cominciò così a dire:
– Madonna, se io
v'amassi come io già amai, io non avrei ardire di dirvi cosa che io credessi
che noiar vi dovesse; ma, per ciò che quello amore è passato, me ne curerò meno
d'aprirvi il vero d'ogni cosa. Io non so se Filippello si prese giammai onta
dello amore il quale io vi portai, o se avuto ha credenza che io mai da voi
amato fossi; ma, corne che questo sia stato o no, nella mia persona niuna cosa
ne mostrò mai. Ma ora, forse aspettando tempo quando ha creduto che io abbia
men di sospetto, mostra di volere fare a:me quello che io dubito che egli non
tema ch'io facessi a lui, cioè di volere al suo piacere avere la donna mia; e
per quello che io truovo egli l'ha da non troppo tempo in qua segretissimamente
con più ambasciate sollicitata, le quali io ho tutte da lei risapute; ed ella
ha fatte le risposte secondo che io l'ho imposto.
Ma pure stamane, anzi
che io qui venissi, io trovai con la donna mia in casa una femina a stretto
consiglio, la quale io credetti incontanente che fosse ciò che ella era, per
che io chiamai la donna mia e la dimandai quello che colei di mandasse. Ella mi
disse:
– Egli è lo stimol di
Filippello, il qual tu, con fargli risposte e dargli speranza, m'hai fatto
recare addosso, e dice che del tutto vuol sapere quello che io intendo di fare,
e che egli, quando io volessi, farebbe che io potrei essere segretamente ad un
bagno in questa terra; e di questo mi prega e grava; e se non fosse che tu m'ha'fatto,
non so perchè, tener questi mercati, io me l'avrei per maniera levato di dosso
che egli mai non avrebbe guatato là dove io fossi stata –. Allora mi parve che
questi procedesse troppo innanzi e che più non fosse da sofferire, e di
dirlovi, acciò che voi conosceste che merito riceve la vostra intera fede, per
la quale io fui già presso alla morte.
E acciò che voi non
credeste queste esser parole e favole, ma il poteste, quando voglia ve ne
venisse, apertamente e vedere e toccare, io feci fare alla donna mia, a colei
che l'aspettava, questa risposta, che ella era presta d'esser domani in su la
nona, quando la gente dorme, a questo bagno; di che la femina contentissima si
partì da lei. Ora non credo io che voi crediate che io la vi mandassi; ma, se
io fossi in vostro luogo, io farei che egli vi troverrebbe me in luogo di colei
cui trovarvi si crede; e quando alquanto con lui dimorata fossi, io il farei
avvedere con cui stato fosse, e quel lo onore che a lui se ne convenisse ne gli
farei; e questo faccendo, credo sì fatta vergogna gli fia, che ad una ora la
'ngiuria che a voi e a me far vuole vendicata sarebbe.
Catella, udendo questo,
senza avere alcuna considerazione a chi era colui che gliele dicea o a' suoi
inganni, secondo il costume de' gelosi, subitamente diede fede alle parole, e
certe cose state davanti cominciò adattare a questo fatto; e di subita ira
accesa, rispose che questo farà ella certamente, non era egli sì gran fatica a
fare; e che fermamente, se egli vi venisse, ella gli farebbe sì fatta vergogna,
che sempre che egli alcuna donna vedesse gli si girerebbe per lo capo.
Ricciardo, contento di
questo e parendogli che 'l suo consiglio fosse stato buono e procedesse, con
molte altre parole la vi confermò su e fece la fede maggiore, pregandola non
dimeno che dir non dovesse giammai d'averlo udito da lui, il che ella sopra la
sua fè gli promise. La mattina seguente Ricciardo se n'andò ad una buona
femina, che quel bagno che egli aveva a Catella detto teneva, e le disse ciò
che egli intendeva di fare, e pregolla che in ciò fosse favorevole quanto
potesse. La buona femina, che molto gli era tenuta, disse di farlo volentieri e
con lui ordinò quello che a fare o a dire avesse. Aveva costei, nella casa ove
'l bagno era, una camera oscura molto, sì come quella nella quale niuna
finestra che lume rendesse rispondea. Questa, secondo l'ammaestramento di
Ricciardo, acconciò la buona femina e fecevi entro un letto, secondo che potè
il migliore, nel quale Ricciardo, come desinato ebbe, si mise e cominciò ad aspettare
Catella.
La donna, udite le
parole di Ricciardo e a quelle data più fede che non le bisognava, piena di
sdegno tornò la sera a casa, dove per avventura Filippello pieno d'altro
pensiero similmente tornò, né le fece forse quella dimestichezza che era usato
di fare. Il che ella vedendo, entrò in troppo maggior sospetto che ella non
era, seco medesima dicendo: – Veramente costui ha l'animo a quella donna con la
qual domane si crede aver piacere e diletto, ma ferma mente questo non avverrà
–; e sopra cotal pensiero, e imaginando come dir gli dovesse quando con lui
stata fosse, quasi tutta la notte dimorò. Ma che più? Venuta la nona, Catella
prese sua com pagnia e senza mutare altramente consiglio se n'andò a quel bagno
il quale Ricciardo le aveva insegnato; e quivi trovata la buona femina, la
dimandò se Filippello stato vi fosse quel dì. A cui la buona femina ammaestrata
da Ricciardo disse:
– Sete voi quella donna
che gli dovete venire a parlare?
Catella rispose:
– Sì sono.
– Adunque, – disse la
buona femina – andatevene da lui.
Catella, che cercando
andava quello che ella non avrebbe voluto trovare, fattasi alla camera menare
dove Ricciardo era, col capo coperto in quella entrò e dentro serrossi.
Ricciardo, vedendola
venire, lieto si levò in piè e, in braccio ricevutala, disse pianamente:
– Ben vegna l'anima mia.
Catella, per mostrarsi
ben d'essere altra che ella non era, abbracciò e baciò lui e fecegli la festa
grande senza dire alcuna parola, temendo, se parlasse, non fosse da lui
conosciuta.
La camera era
oscurissima, di che ciascuna delle parti era contenta; né per lungamente
dimorarvi riprendevan gli occhi più di potere. Ricciardo la condusse in su il
letto, e quivi, senza favellare in guisa che iscorger si potesse la voce, per
grandissimo spazio con maggior diletto e piacere dell'una parte che dell'altra
stettero.
Ma poi che a Catella
parve tempo di dovere il conceputo sdegno mandar fuori, così di fervente ira
accesa cominciò a parlare:
– Ahi quanto è misera la
fortuna delle donne e come è male impiegato l'amor di molte ne' mariti! Io,
misera me!, già sono otto anni, t'ho più che la mia vita amato, e tu, come io
sentito ho, tutto ardi e consumiti nello amore d'una donna strana, reo e
malvagio uom che tu se'. Or con cui ti credi tu essere stato? Tu séstato con
colei la quale otto anni t'è giaciuta a lato, tu se' stato con colei la qual
con false lusinghe tu hai, già è assai, ingannata mostrandole amore ed essendo
altrove innamorato. Io son Catella, non son la moglie di Ricciardo, traditor disleale
che tu se'; ascolta se tu riconosci la voce mia, io son ben dessa; e parmi
mille anni che noi siamo al lume, che io ti possa svergognare come m sédegno,
sozzo cane vituperato che tu se'. Ohimè, misera me! a cui ho io cotanti anni
portato cotanto amore? A questo can disleale, che, credendosi in braccio avere
una donna strana, m'ha più di carezze e d'amorevolezze fatte in questo poco di
tempo che qui stata son con lui, che in tutto l'altro rimanente che stata son
sua.
Tu sé bene oggi, can
rinnegato, stato gagliardo, che a casa ti suogli mostrare così debole e vinto e
senza possa. Ma, lodato sia Iddio, che il tuo campo, non l'altrui, hai
lavorato, come tu ti credevi. Non maraviglia che stanotte tu non mi ti
appressasti: tu aspettavi di scaricar le some altrove, e volevi giugnere molto
fresco cavaliere alla battaglia; ma, lodato sia Iddio e il mio avvedimento,
l'acqua è pur corsa all'in giù, come ella doveva. Ché non rispondi, reo uomo?
Ché non di'qualche cosa? Se'tu divenuto mutolo udendomi? In fè di Dio io non so
a che io mi tengo, che io non ti ficco le mani negli occhi e traggogliti.
Credesti molto celatamente saper fare questo tradimento; per Dio! tanto sa
altri quanto altri, non t'è venuto fatto; io t'ho avuti miglior bracchi alla
coda che tu non credevi.
Ricciardo in sé medesimo
godeva di queste parole, e senza rispondere alcuna cosa l'abbracciava e baciava
e più che mai le faceva le carezze grandi. Per che ella, seguendo il suo
parlar, diceva:
– Sì, tu mi credi ora
con tue carezze infinte lusingare, can fastidioso che tu se', e rappacificare e
racconsolare; tu se' errato; io non sarò mai di questa cosa consolata, infino a
tanto che io non te ne vitupero in presenzia di quanti parenti e amici e vicini
noi abbiamo. Or non sono io, malvagio uomo, così bella come sia la moglie di
Ricciardo Minutolo? Non son io così gentil donna? Ché non rispondi, sozzo cane?
Che ha colei più di me? Fatti in costà, non mi toccare, che tu hai troppo fatto
d'arme per oggi. Io so bene che oggi mai, poscia che tu conosci chi io sono,
che tu ciò che tu fa cessi faresti a forza; ma, se Dio mi dea la grazia sua, io
te ne farò ancor patir voglia; e non so a che io mi tengo che io non mando per
Ricciardo, il qual più che sé m'ha amata e mai non potè vantarsi che io il
guatassi pure una volta; e non so che male si fosse a farlo. Tu hai creduto
avere la moglie qui, ed è come se avuta l'avessi, in quanto per te non è
rimaso; dunque, se io avessi lui, non mi potresti con ragione biasimare.
Ora le parole furono
assai e il rammarichio della donna grande; pure alla fine Ricciardo, pensando
che, se andar ne la lasciasse con questa credenza, molto di male ne potrebbe
seguire, diliberò di palesarsi e di trarla dello inganno nel quale era; e
recatasela in braccio e presala bene sì che partire non si poteva, disse:
– Anima mia dolce, non
vi turbate; quello che io semplicemente amando aver non potei, Amor con inganno
m'ha insegnato avere, e sono il vostro Ricciardo. Il che Catella udendo e
conoscendolo alla voce, subita mente si volle gittare del letto, ma non potè;
ond'ella volle gridare; ma Ricciardo le chiuse con l'una delle mani la bocca, e
disse:
– Madonna, egli non può
oggimai essere che quello che è stato non sia pure stato, se voi gridaste tutto
il tempo della vita vostra; e se voi griderete o in alcuna maniera fa rete che
questo si senta mai per alcuna persona, due cose ne avverranno. L'una fia (di
che non poco vi dee calere) che il vostro onore e la vostra buona fama fia
guasta, per ciò che, come che voi diciate che io qui ad inganno v'abbia fatta
venire, io dirò che non sia vero, anzi vi ci abbia fatta venire per denari e
per doni che io v'abbia promessi, li quali per ciò che così compiutamente dati
non v'ho come sperava te, vi siete turbata e queste parole e questo romor ne
fate; e voi sapete che la gente è più acconcia a credere il male che il bene; e
per ciò non fia men tosto creduto a me che a voi. Appresso questo, ne seguirà
tra vostro marito e me mortal nimistà, e potrebbe sì andare la cosa che io
ucciderei altressì tosto lui, come egli me; di che mai voi non dovreste esser
poi né lieta né contenta. E per ciò, cuor del corpo mio, non vogliate ad una
ora vituperar voi e mettere in pericolo e in briga il vostro marito e me. Voi
non siete la prima, né sarete l'ultima, la quale è ingannata, né io non v'ho
ingannata per torvi il vostro, ma per soverchio amore che io vi porto e son
disposto sempre a portarvi, e ad essere vostro umilissimo servidore. E come che
sia gran tempo che io e le mie cose e ciò che io posso e vaglio vostre state sieno
e al vostro servigio, io intendo che da quinci innanzi sien più che mai. Ora,
voi siete savia nell'altre cose, e così son certo che sarete in questa.
Catella, mentre che Ricciardo diceva queste parole, piagneva forte, e come che
molto turbata fosse e molto si rammaricasse, nondimeno diede tanto luogo la
ragione alle vere parole di Ricciardo, che ella cognobbe esser possibile ad
avvenire ciò che Ricciardo diceva, e per ciò disse:
– Ricciardo, io non so
come Domeneddio mi si concederà che io possa comportare la 'ngiuria e lo
'nganno che fatto m'hai. Non voglio gridar qui, dove la mia simplicità e
soperchia gelosia mi condusse; ma di questo vivi sicuro che io non sarò mai
lieta se in un modo o in uno altro io non mi veggio vendica di ciò che fatto
m'hai; e per ciò lasciami, non mi tener più; tu hai avuto ciò che disiderato
hai, e ha'mi straziata quanto t'è piaciuto; tempo è di lasciarmi; lasciami, io
te ne priego. Ricciardo, che conosceva l'animo suo ancora troppo turbato,
s'avea posto in cuore di non lasciarla mai se la sua pace non riavesse; per
che, cominciando con dolcissime parole a raumiliarla, tanto disse e tanto pregò
e tanto scongiurò, che ella, vinta, con lui si paceficò; e di pari volontà di
ciascuno gran pezza appresso in grandissimo diletto dimorarono insieme.
E conoscendo allora la
donna quanto più saporiti fossero i baci dello amante che quegli del marito,
voltata la sua durezza in dolce amore verso Ricciardo, tenerissimamente da quel
giorno innanzi l'amò, e savissimamente operando molte volte goderono del loro
amore. Iddio faccia noi goder del nostro.
NOVELLA SETTIMA
Tedaldo, turbato con una
sua donna, si parte di Firenze; tornavi in forma di peregrino dopo alcun tempo;
parla con la donna e falla del suo error conoscente, e libera il ma ito di lei
da morte, che lui gli era provato che aveva ucciso, e co' fratelli il pacefica;
e poi saviamente colla sua donna si gode.
Già si taceva Fiammetta
lodata da tutti, quando la reina, per non perder tempo, prestamente ad Emilia
commise il ragionare; la qual cominciò.
A me piace nella nostra
città ritornare, donde alle due passate piacque di dipartirsi, e come uno
nostro cittadino la sua donna perduta racquistasse mostrarvi.
Fu adunque in Firenze un
nobile giovane, il cui nome fu Tedaldo degli Elisei, il quale d'una donna,
monna Ermellina chiamata e moglie d'uno Aldobrandino Palermini, innamorato
oltre misura per gli suoi laudevoli costumi, meritò di godere del suo
disiderio. Al qual piacere la Fortuna, nimica de' felici, s'oppose; per ciò
che, qual che la cagion si fosse, la donna, avendo di sé a Tedaldo compiaciuto
un tempo, del tutto si tolse dal volergli più compiacere, né a non volere non
solamente alcuna sua ambasciata ascoltare ma vedere in alcuna maniera; di che
egli entrò in fiera malinconia e ispiacevole; ma sì era questo suo amor celato,
che della sua malinconia niuno credeva ciò essere la cagione.
E poiché egli in diverse
maniere si fu molto ingegnato di racquistare l'amore che senza sua colpa gli
pareva aver perduto, e ogni fatica trovando vana, a doversi dileguar del mondo,
per non far lieta colei che del suo male era cagione di vederlo consumare, si
dispose. E, presi quegli denari che aver potè, segretamente, senza far motto ad
amico o a parente, fuor che ad un suo compagno il quale ogni cosa sapea, andò
via e pervenne ad Ancona, Filippo di Sanlodeccio faccendosi chiamare; e qui vi
con un ricco mercatante accontatosi, con lui si mise per servidore e in su una
sua nave con lui insieme n'andò in Cipri. I costumi del quale e le maniere
piacquero sì al mercatante, che non solamente buon salario gli assegnò, ma il
fece in parte suo compagno, oltre a ciò gran parte de' suoi fatti mettendogli
tra le mani; li quali esso fece sì bene e con tanta sollicitudine, che esso in
pochi anni divenne buono e ricco mercatante e famoso. Nelle quali faccende,
ancora che spesso della sua crudel donna si ricordasse, e fieramente fosse da
amor trafitto e molto disiderasse di rivederla, fu di tanta constanzia che
sette anni vinse quella battaglia.
Ma avvenne che, udendo
egli un dì in Cipri cantare una canzone già da lui stata fatta, nella quale l'amore
che alla sua donna portava ed ella a lui e il piacer che di lei aveva si
raccontava, avvisando questo non dover potere essere, che ella dimenticato
l'avesse, in tanto disidero di rivederla s'accese, che, più non potendo
sofferir si dispose a tornar in Firenze. E, messa ogni sua cosa in ordine, se
ne venne con un suo fante solamente ad Ancona, dove essendo ogni sua roba
giunta, quella ne mandò a Firenze ad alcuno amico dell'ancontano suo compagno,
ed egli celatamente, in forma di peregrino che dal Sepolcro venisse, col fante
suo se ne venne appresso; e in Firenze giunti, se n'andò ad uno alberghetto di
due fratelli che vicino era alla casa della sua donna. Né prima andò in altra
parte che davanti alla casa di lei, per vederla se potesse. Ma egli vide le
finestre e le porti e ogni cosa serrata; di che egli dubitò forte che morta non
fosse o di quindi mutatasi.
Per che, forte pensoso,
verso la casa de' fratelli se n'andò, davanti la quale vide quattro suoi
fratelli tutti di nero vestiti, di che egli si maravigliò molto; e conoscendosi
in tanto trasfigurato e d'abito e di persona da quello che esser soleva quando
si partì, che di leggieri non potrebbe essere stato riconosciuto, sicuramente
s'accostò ad un calzolaio e domandollo perché di nero fossero vestiti costoro.
Al quale il calzolaio
rispose:
– Coloro sono di nero
vestiti, per ciò che e' non sono ancora quindici dì che un lor fratello, che di
gran tempo non c'era stato, che avea nome Tedaldo fu ucciso; e parmi intendere
che egli abbiano provato alla corte che uno che ha nome Aldobrandino Palermini,
il quale è preso, l'uccidesse, per ciò che egli voleva bene alla moglie ed
eraci tornato sconosciuto per esser con lei.
Maravigliossi forte
Tedaldo che alcuno in tanto il simigliasse, che fosse creduto lui; e della
sciagura d'Aldobrandino gli dolfe. E avendo sentito che la donna era viva e
sana, essendo già notte, pieno di vari pensieri se ne tornò all'albergo, e poi
che cenato ebbe insieme col fante suo, quasi nel più alto della casa fu messo a
dormire. E quivi, sì per li molti pensieri che lo stimolavano e sì per la
malvagità del letto e forse per la cena ch'era stata magra, essendo già la metà
della notte andata, non s'era ancor potuto Tedaldo addormentare; per che,
essendo desto, gli parve in su la mezza notte sentire d'in su il tetto della
casa scender nella casa persone, e appresso per le fessure dell'uscio della
camera vide là su venire un lume. Per che, chetamente alla fessura accostatosi,
cominciò a guardare che ciò volesse dire, e vide una giovane assai bella tener
questo lume, e verso lei venir tre uomini che del tetto quivi eran discesi; e
dopo alcuna festa insieme fattasi, disse l'un di loro alla giovane:
– Noi possiamo, lodato
sia Iddio, oggimai star sicuri, per ciò che noi sappiamo fermamente che la
morte di Tedaldo Elisei è stata provata da' fratelli addosso ad Aldobrandin
Palermini, ed egli l'ha confessata e già è scritta la sentenzia; ma ben si vuol
nondimeno tacere, per ciò che, se mai si risapesse che noi fossimo stati, noi
saremmo a quel medesimo pericolo che è Aldobrandino. E questo detto con la
donna, che forte di ciò si mostrò lieta, se ne sciesono e andarsi a dormire.
Tedaldo, udito questo,
cominciò a riguardare quanti e quali fossero gli errori che potevano cadere
nelle menti degli uomini, prima pensando a' fratelli che uno strano avevano
pianto e sepellito in luogo di lui, e appresso lo innocente per falsa
suspizione accusato, e con testimoni non veri averlo condotto a dover morire, e
oltre a ciò la cieca severità delle leggi e de' rettori, li quali assai volte,
quasi solliciti investigatori del vero, incrudelendo fanno il falso provare, e
sé ministri dicono della giustizia e di Dio, dove sono della iniquità e del
diavolo esecutori. Appresso questo alla salute d'Aldobrandino il pensier volse,
e seco ciò che a fare avesse compose. E come levato fu la mattina, lasciato il
suo fante, quando tempo gli parve, solo se n'andò verso la casa della sua
donna; e per ventura trovata la porta aperta, entrò dentro e vide la sua donna
sedere in terra in una saletta terrena che ivi era, ed era tutta piena di
lagrime e d'amaritudine, e quasi per compassione ne lagrimò, e avvicinatolesi
disse:
– Madonna, non vi
tribolate: la vostra pace è vicina.
La donna, udendo costui,
levò alto il viso e piagnendo disse:
– Buono uomo, tu mi pari
un peregrin forestiere; che sai tu di pace o di mia afflizione?
Rispose allora il
peregrino:
– Madonna, io son di
Costantinopoli e giungo testé qui mandato da Dio a convertire le vostre lagrime
in riso e di liberare da morte il vostro marito.
– Come, – disse la donna
– se tu di Costantinopoli sée giugni pur testé qui, sai tu chi mio marito o io
ci siamo? Il peregrino, da capo fattosi, tutta la istoria della angoscia
d'Aldobrandino raccontò e a lei disse chi ella era, quanto tempo stata maritata
e altre cose assai, le quali egli molto ben sapeva de' fatti suoi; di che la
donna si maravigliò forte, e avendolo per uno profeta, gli s'inginocchiò a'
piedi, per Dio pregandolo che, se per la salute d'Aldobrandino era venuto, che
egli s'avacciasse, per ciò che il tempo era brieve.
Il peregrino,
mostrandosi molto santo uomo, disse:
– Madonna, levate su e
non piagnete, e attendete bene a quello che io vi dirò, e guardatevi bene di
mai ad alcun non dirlo. Per quello che Iddio mi riveli, la tribulazione la qual
voi avete v'è per un peccato, il qual voi commetteste già, avvenuta, il quale
Domeneddio ha voluto in parte purgare con questa noia, e vuole del tutto che
per voi s'ammendi; se non, sì ricadereste in troppo maggiore affanno.
Disse allora la donna:
– Messere, io ho peccati
assai, né so qual Domeneddio più un che un altro si voglia che io m'ammendi; e
per ciò, se voi il sapete, ditelmi, e io ne farò ciò che io potrò per
ammendarlo.
– Madonna, – disse allora
il peregrino – io so bene quale egli è, né ve ne domanderò per saperlo meglio,
ma per ciò che voi medesima dicendolo n'abbiate più rimordimento. Ma vegnamo al
fatto. Ditemi, ricordavi egli che voi mai aveste alcuno amante?
La donna, udendo questo,
gittò un gran sospiro e maravigliossi forte, non credendo che mai alcuna
persona saputo l'avesse, quantunque di que' dì, che ucciso era stato colui che
per Tedaldo fu sepellito, se ne bucinasse per certe parolette non ben
saviamente usate dal compagno di Tedaldo che ciò sapea, e rispose:
– Io veggio che Iddio vi
dimostra tutti i segreti degli uomini, e per ciò io son disposta a non celarvi
i miei. Egli il è vero che nella mia giovanezza io amai sommamente lo
sventurato giovane la cui morte è apposta al mio marito; la qual morte io ho
tanto pianta, quanto dolent'è a me; per ciò che, quantunque io rigida e
salvatica verso lui mi mostrassi anzi la sua partita, né la sua parti ta, né la
sua lunga dimora, né ancora la sventurata morte me l'hanno potuto trarre del
cuore.
A cui il peregrin disse:
– Lo sventurato giovane
che fu morto non amaste voi mai, ma Tedaldo Elisei sì. Ma ditemi: qual fu la
cagione per la quale voi con lui vi turbaste? Offesevi egli giammai?
A cui la donna rispose:
– Certo no, che egli non
mi offese mai; ma la cagione del cruccio furono le parole d'un maladetto frate,
dal quale io una volta mi confessai; per ciò che, quando io gli dissi l'amore
il quale io a costui portava e la dimestichezza che io aveva seco, mi fece un
romore in capo che ancor mi spaventa, dicendomi che, se io non me ne rimanessi,
io n'andrei in bocca del diavolo nel profondo del ninferno e sarei messa nel
fuoco pennace. Di che sì fatta paura m'entrò, che io del tutto mi disposi a non
voler più la dimestichezza di lui; e per non averne cagione, né sua lettera né
sua ambasciata più volli ricevere; come che io credo, se più fosse perseverato,
come (per quello che io presuma) egli se n'andò disperato, veggendolo io
consumare come si fa la neve al sole, il mio duro proponimento si sarebbe
piegato, per ciò che niun disidero al mondo maggiore avea.
Disse allora il
peregrino:
– Madonna, questo è sol
quel peccato che ora vi tribola. Io so fermamente che Tedaldo non vi fece forza
alcuna; quando voi di lui v'innamoraste, di vostra propria volontà il faceste,
piacendovi egli; e, come voi medesima voleste, a voi venne e usò la vostra
dimestichezza, nella quale e con parole e con fatti tanta di piacevolezza gli
mostraste che, se egli prima v'amava, in ben mille doppi faceste l'amor
raddoppiare. E se così fu (che so che fu), qual cagion vi dovea poter muovere a
torglivi così rigidamente? Queste cose si volean pensare innanzi tratto, e se
credevate dovervene, come di mal far, pentere, non farle. Così, come egli divenne
vostro, così diveniste voi sua. Che egli non fosse vostro potavate voi fare ad
ogni vostro piacere, sì come del vostro, ma il voler tor voi a lui, che sua
eravate, questa era ruberia e sconvenevole cosa, dove sua volontà stata non
fosse.
Or voi dovete sapere che
io son frate, e per ciò li loro costumi io conosco tutti; e se io ne parlo
alquanto largo ad utilità di voi, non mi si disdice come farebbe ad un altro,
ed egli mi piace di parlarne, acciò che per innanzi meglio li conosciate che
per addietro non pare che abbiate fatto.
Furon già i frati
santissimi e valenti uomini, ma quegli che oggi frati si chiamano e così
vogliono esser tenuti, niuna altra cosa hanno di frate se non la cappa, né
quella altressì è di frate, per ciò che, dove dagl'inventori de' frati furono
ordinate strette e misere e di grossi panni e dimostratrici dello animo, il
quale le temporali cose disprezzate avea quando il corpo in così vile abito
avviluppava, essi oggi le fanno larghe e doppie e lucide e di finissimi panni,
e quelle in forma hanno recate leggiadria e pontificale, in tanto che
paoneggiar con esse nelle chiese e nelle piazze, come con le loro robe i
secolari fanno, non si vergognano; e quale col giacchio il pescatore d'occupare
nel fiume molti pesci ad un tratto, così costoro colle fimbrie ampissime
avvolgendosi, molte pinzochere, molte vedove, molte altre sciocche femine e
uomini d'avvilupparvi sotto s'ingegnano, ed è lor maggior sollicitudine che
d'altro esercizio. E per ciò, acciò ch'io più vero parli, non le cappe de'
frati hanno costoro, ma solamente i colori delle cappe. E dove gli antichi la
salute disideravan degli uomini, quegli d'oggi disiderano le femine e le
ricchezze; e tutto il loro studio hanno posto e pongono in ispaventare con
romori e con dipinture le menti delli sciocchi e in mostrare che con limosine i
peccati si purghino e colle messe, acciò che a loro, che per viltà, non per
divozione, sono rifuggiti a farsi frati, e per non durar fatica, porti questi
il pane, colui mandi il vino, quello altro faccia la pietanza per l'anima de'
lor passati.
E certo egli è il vero
che le elimosine e le orazion purgano i peccati; ma se coloro che le fanno
vedessero a cui le fanno o il conoscessero, più tosto o a sé il guarderieno o
dinanzi ad altrettanti porci il gitterieno. E per ciò che essi conoscono,
quanti meno sono i possessori d'una gran ricchezza, tanto più stanno ad agio,
ogn'uno con romori e con ispaventamenti s'ingegna di rimuovere altrui da quello
a che esso di rimaner solo disidera. Essi sgridano contra gli uomini la
lussuria, acciò che, rimovendosene gli sgridati, agli sgridatori rimangano le
femine; essi dannan l'usura e i malvagi guadagni, acciò che, fatti restitutori
di quegli, si possano fare le cappe più larghe, procacciare i vescovadi e
l'altre prelature maggiori, di ciò che mostrato hanno dover menare a perdizione
chi l'avesse.
E quando di queste cose
e di molte altre che sconce fanno ripresi sono, l'avere risposto: – Fate quello
che noi diciamo e non quello che noi facciamo –, estimano che sia degno scaricamento
d'ogni grave peso, quasi più alle pecore sia possibile l'esser costanti e di
ferro che a' pastori. E quanti sien quegli a' quali essi fanno cotal risposta,
che non la intendono per lo modo che essi la dicono, gran parte di loro il
sanno.
Vogliono gli odierni
frati che voi facciate quello che dicono, cioè che voi empiate loro le borse di
denari, fidiate loro i vostri segreti, serviate castità, siate pazienti,
perdoniate le 'ngiurie, guardiatevi del maldire, cose tutte buone, tutte
oneste, tutte sante; ma questo perché? Perché essi possano fare quello che, se
i secolari faranno, essi fare non potranno. Chi non sa che senza denari la
poltroneria non può durare? Se tu ne' tuoi diletti spenderai i denari, il frate
non potrà poltroneggiare nell'ordine; se tu andrai alle femine dattorno, i
frati non avranno lor luogo; se tu non sarai paziente o perdonator d'ingiurie,
il frate non ardirà di venirti a casa a contaminare la tua famiglia. Perché vo
io dietro ad ogni cosa? Essi s'accusano quante volte nel cospetto
degl'intendenti fanno quella scusa. Perché non si stanno eglino innanzi a casa,
se astinenti e santi non si credono potere essere? O se pure a questo dar si
vogliono, perché non seguitano quella altra santa parola dello Evangelio: – In
cominciò Cristo a fare e ad insegnare –? Facciano in prima essi, poi ammaestrin
gli altri. Io n'ho de' miei dì mille veduti vagheggiatori, amatori, visitatori,
non solamente delle donne secolari, ma de' monisteri; e pur di quegli che
maggior romor fanno in su i pergami. A quegli adunque così fatti andrem dietro?
Chi 'l fa, fa quel ch'e'vuole, ma Iddio sa se egli fa saviamente. Ma, posto pur
che in questo sia da concedere ciò che il frate che vi sgridò vi disse, cioè
che gravissima colpa sia rompere la matrimonial fede, non è molto maggiore il
rubare uno uomo? Non è molto maggiore l'ucciderlo o il mandarlo in essilio
tapinando per lo mondo? Questo concederà ciascuno. L'usare la dimestichezza
d'uno uomo una donna è peccato naturale; il rubarlo o l'ucciderlo o il discacciarlo
da malvagità di mente procede. Che voi rubaste Tedaldo già di sopra v'è
dimostrato, togliendoli voi, che sua di vostra spontanea volontà eravate
divenuta. Appresso dico che, in quanto in voi fu, voi l'uccideste, per ciò che
per voi non rimase, mostrandovi ogn'ora più crudele, che egli non s'uccidesse
colle sue mani; e la legge vuole che colui che è cagione del male che si fa sia
in quella medesima colpa che colui che 'l fa. E che voi del suo essilio e dello
essere andato tapin per lo mondo sette anni non siate cagione, questo non si
può negare. Sì che molto maggiore peccato avete commesso in qualunque s'è l'una
di queste tre cose dette, che nella sua dimestichezza non commettavate. Ma
veggiamo: forse che Tedaldo meritò queste cose? Certo non fece: voi medesima
già confessato l'avete; senza che io so che egli più che sé v'ama.
Niuna cosa fu mai tanto
onorata, tanto esaltata, tanto magnificata quanto eravate voi sopra ogn'altra
donna da lui, se in parte si trovava dove onestamente e senza generar sospetto
di voi potea favellare. Ogni suo bene, ogni suo onore, ogni sua libertà, tutta
nelle vostre mani era da lui rimessa. Non era egli nobile giovane? Non era egli
tra gli altri suoi cittadin bello? Non era egli valoroso in quelle cose che a'
giovani s'appartengono? Non amato? Non avuto caro? Non volentier veduto da
ogn'uomo? Né di questo direte di no.
Adunque come, per detto
d'un fraticello pazzo bestiale e invidioso, poteste voi alcun proponimento
crudele pigliare contro a lui? Io non so che errore s'è quello delle donne, le
quali gli uomini schifano e prezzangli poco; dove esse, pensando a quello che
elle sono e quanta e qual sia la nobiltà da Dio oltre ad ogn'altro animale data
all'uomo, si dovrebbon gloriare quando da alcuno amate sono, e colui aver
sommamente caro e con ogni sollicitudine ingegnarsi di compiacergli, acciò che
da amarla non si rimovesse giammai. Il che come voi faceste, mossa dalle parole
d'un frate, il qual per certo doveva esser alcun brodaiuolo manicator di torte,
voi il vi sapete; e forse disiderava egli di porre sé in quello luogo, onde
egli s'ingegnava di cacciar altrui.
Questo peccato adunque è
quello, che la divina giustizia, la quale con giusta bilancia tutte le sue
operazion mena ad effetto, non ha voluto lasciare impunito; e così come voi
senza ragione v'ingegnaste di tor voi medesima a Tedaldo, così il vostro marito
senza ragione per Tedaldo è stato ed è ancora in pericolo, e voi in
tribulazione. Dalla quale se liberata esser volete, quello che a voi conviene
promettere e molto maggiormente fare, è questo: se mai avviene che Tedaldo dal
suo lungo sbandeggiamento qui torni, la vostra grazia, il vostro amore, la
vostra benivolenzia e dimestichezza gli rendiate e in quello stato il ripognate
nel quale era avanti che voi scioccamente credeste al matto frate.
Aveva il peregrino le
sue parole finite, quando la donna, che attentissimamente le raccoglieva, per
ciò che verissime le parevan le sue ragoni, e sé per certo per quel peccato, a
lui udendol dire, estimava tribolata, disse:
– Amico di Dio, assai
conosco vere le cose le quali ragionate, e in gran parte per la vostra
dimostrazione conosco chi sieno i frati, infino ad ora da me tutti santi
tenuti; e senza dubbio conosco il mio difetto essere stato grande in ciò che
contro a Tedaldo adoperai, e se per me si potesse, volentieri l'amenderei nella
maniera che detta avete; ma questo come si può fare? Tedaldo non ci potrà mai
tornare; egli è morto; e per ciò quello che non si dee poter fare non so perché
bisogni che io il vi prometta.
A cui il peregrin disse:
– Madonna, Tedaldo non è
punto morto, per quello che Iddio mi dimostri, ma è vivo e sano e in buono
stato, se egli la vostra grazia avesse.
Disse allora la donna:
– Guardate che voi
diciate; io il vidi morto davanti alla mia porta di più punte di coltello, ed
ebbilo in queste braccia e di molte mie lagrime gli bagnai il morto viso, le
quali forse furon cagione di farne parlare quel cotanto che parlato se n'è
disonestamente.
Allora disse il
peregrino:
– Madonna, che che voi
vi diciate, io v'accerto che Tedaldo è vivo; e, dove voi quello prometter
vogliate per doverlo attenere, io spero che voi il vedrete tosto.
La donna allora disse:
– Questo fo io e farò
volentieri; né cosa potrebbe avvenire che simile letizia mi fosse, che sarebbe
il vedere il mio marito libero senza danno e Tedaldo vivo.
Parve allora a Tedaldo
tempo di palesarsi e di confor tare la donna con più certa speranza del suo
marito, e disse:
– Madonna, acciò che io
vi consoli del vostro marito, un gran segreto mi vi convien dimostrare, il
quale guarderete che per la vita vostra voi mai non manifestiate.
Essi erano in parte
assai remota e soli, somma confidenzia avendo la donna presa della santità che
nel peregrino le pareva che fosse; per che Tedaldo, tratto fuori uno anello
guardato da lui con somma diligenza, il quale la donna gli avea donato l'ultima
notte che con lei era stato, e mostrando gliele disse:
– Madonna, conoscete voi
questo?
Come la donna il vide,
così il riconobbe, e disse:
– Messer sì, io il donai
già a Tedaldo.
Il peregrino allora,
levatosi in piè e prestamente la schiavina gittatasi di dosso e di capo il
cappello, e fiorentino parlando disse:
– E me conoscete voi?
Quando la donna il vide,
conoscendo lui esser Tedaldo, tutta stordì, così di lui temendo come de' morti
corpi, se poi veduti andare come vivi, si teme; e non come Tedaldo venuto di
Cipri a riceverlo gli si fece incontro, ma come Tedaldo dalla sepoltura quivi
tornato fosse, fuggir si volle temendo.
A cui Tedaldo disse:
– Madonna, non dubitate,
io sono il vostro Tedaldo vivo e sano, e mai né mori'né fu'morto? che che voi e
i miei fratelli si credano.
La donna, rassicurata
alquanto e tenendo la sua voce e alquanto più riguardatolo e seco affermando
che per certo egli era Tedaldo, piagnendo gli si gittò al collo e baciollo,
dicendo:
– Tedaldo mio dolce, tu
sii il ben tornato.
Tedaldo, baciata e
abbracciata lei, disse:
– Madonna, egli non è or
tempo da fare più strette accoglienze; io voglio andare a fare che Aldobrandino
vi sia sano e salvo renduto, della qual cosa spero che avanti che doman sia
sera voi udirete novelle che vi piaceranno; sì veramente, se io l'ho buone,
come io credo, della sua salute, io voglio stanotte poter venir da voi e
contarlevi per più agio che al presente non posso.
E rimessasi la schiavina
e 'l cappello, baciata un'altra volta la donna e con buona speranza
riconfortatala, da lei si partì e colà se n'andò dove Aldobrandino in prigione
era, più di paura della soprastante morte pensoso che di speranza di futura
salute; e quasi in guisa di confortatore col piacere dei prigionieri a lui se
n'entrò, e postosi con lui a sedere, gli disse:
– Aldobrandino, io sono
un tuo amico a te mandato da Dio per la tua salute, al quale per la tua
innocenzia è di te venuta pietà; e per ciò, se a reverenza di lui un picciol
dono che io ti domanderò conceder mi vuoli, senza alcun fallo avanti che doman
sia sera, dove tu la sentenzia della morte attendi, quella della tua
assoluzione udirai.
A cui Aldobrandin
rispose:
– Valente uomo, poi che
tu della mia salute sésollicito, come che io non ti conosca né mi ricordi mai
più averti veduto, amico dei essere come tu di'. E nel vero il peccato per lo
quale uom dice che io debbo essere a morte giudicato, io nol commisi giammai;
assai degli altri ho già fatti, li quali forse a que sto condotto m'hanno. Ma
così ti dico a reverenza di Dio, se egli ha al presente misericordia di me,
ogni gran cosa, non che una picciola, farei volentieri, non che io promettessi;
e però quello che ti piace addomanda, ché senza fallo, ov'egli avvenga che io
scampi, io lo serverò fermamente.
Il peregrino allora
disse:
– Quello che io voglio
niun'altra cosa è se non che tu perdoni a' quattro fratelli di Tedaldo l'averti
a questo punto condotto, te credendo nella morte del lor fratello esser
colpevole, e abbigli per fratelli e per amici, dove essi di questo ti dimandin
perdono.
A cui Aldobrandin
rispose:
– Non sa quanto dolce
cosa si sia la vendetta, né con quanto ardor si disideri, se non chi riceve
l'offese; ma tuttavia, acciò che Iddio alla mia salute intenda, volentieri loro
perdonerò e ora loro perdono; e se io quinci esco vivo e scampo, in ciò fare
quella maniera terrò che a grado ti fia.
Questo piacque al
peregrino, e senza volergli dire altro, sommamente il pregò che di buon cuore
stesse, ché per certo che, avanti che il seguente giorno finisse, egli udirebbe
novella certissima della sua salute. E da lui partitosi, se n'andò alla
signoria, e in segreto ad un cavaliere che quella tenea disse così:
– Signor mio, ciascun
dee volentieri faticarsi in far che la verità delle cose si conosca, e
massimamente coloro che tengono il luogo che voi tenete, acciò che coloro non
portino le pene che non hanno il peccato commesso e i peccatori sien puniti. La
qual cosa acciò che avvenga, in onor di voi e in male di chi meritato l'ha, io
son qui venuto a voi. Come voi sapete, voi avete rigidamente contro Aldobrandin
Palermini proceduto, e parvi aver trovato per vero lui essere stato quello che
Tedaldo Elisei uccise, e siete per condannarlo; il che è certissimamente falso,
sì come io credo avanti che mezza notte sia, dandovi gli ucciditori di quel
giovane nelle mani, avervi mostrato.
Il valoroso uomo, al
quale d'Aldobrandino increscea, volentier diede orecchi alle parole del
peregrino; e molte cose da lui sopra ciò ragionate, per sua introduzione in su
'l primo sonno i due fratelli albergatori e il lor fante a man salva prese; e
lor volendo, per rinvenire come stata fosse la cosa, porre al martorio, nol
soffersero, ma ciascun per sé e poi tutti insieme apertamente confessarono sé
essere stati coloro che Tedaldo Elisei ucciso aveano, non conoscendolo.
Domandati della cagione, dissero per ciò che egli alla moglie dell'un di loro,
non essendovi essi nello albergo, aveva molta noia data e volutola sforzare a
fare il voler suo.
Il peregrino, questo
avendo saputo, con licenzia del gentile uomo si partì, e occultamente alla casa
di madonna Ermellina se ne venne, e lei sola, essendo ogn'altro della casa
andato a dormire, trovò che l'aspettava, parimente disiderosa d'udire buone
novelle del marito e di riconciliarsi pienamente col suo Tedaldo. Alla qual
venuto, con lieto viso disse:
– Carissima donna mia,
rallegrati, ché per certo tu riavrai domane qui sano e salvo il tuo
Aldobrandino –; e per darle di ciò più intera credenza, ciò che fatto avea
pienamente le raccontò.
La donna di due così
fatti accidenti e così subiti, cioè di riaver Tedaldo vivo, il quale veramente
credeva aver pianto morto, e di veder libero dal pericolo Aldobrandino, il
quale fra pochi dì si credeva dover piagner morto, tanto lieta quanto altra ne
fosse mai, affettuosamente abbracciò e baciò il suo Tedaldo; e andatisene
insieme al letto, di buon volere fecero graziosa e lieta pace, l'un dell'altro
prendendo dilettosa gioia.
E come il giorno
s'appressò, Tedaldo levatosi, avendo già alla donna mostrato ciò che fare
intendeva e da capo pregatola che occultissimo fosse, pure in abito peregrino
si uscì del la casa della donna, per dovere, quando ora fosse, attendere a'
fatti d'Aldobrandino.
La signoria, venuto il
giorno, e parendole piena informazione avere dell'opera, prestamente
Aldobrandino liberò, e pochi dì appresso a' malfattori, dove commesso avevan
l'omicidio, fece tagliar la testa. Essendo adunque libero Aldobrandino, con
gran letizia di lui e della sua donna e di tutti i suoi amici e parenti, e
conoscendo manifestamente ciò essere per opera del peregrino avvenuto, lui alla
lor casa condussero per tanto quanto nella città gli piacesse di stare; e quivi
di fargli onore e festa non si potevano veder sazi, e spezialmente la donna,
che sapeva a cui farlosi. Ma parendogli dopo alcun dì tempo di dovere i
fratelli riducere a concordia con Aldobrandino, li quali esso sentiva non
solamente per lo suo scampo scornati, ma armati per tema, domandò ad
Aldobrandino la promessa. Aldobrandino liberamente rispose sé essere
apparecchiato. A cui il peregrino fece per lo seguente dì apprestare un bel
convito, nel quale gli disse che voleva che egli co' suoi parenti e colle sue
donne ricevesse i quattro fratelli e le lor donne, aggiugnendo che esso
medesimo andrebbe incontanente ad invitargli alla sua pace e al suo convito da
sua parte. Ed essendo Aldobrandino di quanto al peregrino piaceva contento il
peregrino tantosto n'andò a' quattro fratelli, e con loro assai delle parole
che intorno a tal materia si richiedeano usate, al fine con ragioni
irrepugnabili assai agevolmente gli condusse a dovere, domandando perdono,
l'amistà d'Aldobrandino racquistare; e questo fatto, loro e le lor donne a
dover desinare la seguente mattina con Aldobrandino gl'invitò; ed essi
liberamente, della sua fè sicurati, tennero lo 'nvito.
La mattina adunque
seguente, in su l'ora del mangiare, primieramente i quattro fratelli di
Tedaldo, così vestiti di nero come erano, con alquanti loro amici vennero a
casa Aldobrandino, che gli attendeva; e quivi, davanti a tutti coloro che a
fare lor compagnia erano stati da Aldobrandino invitati, gittate l'armi in terra,
nelle mani d'Aldobrandino si rimisero, perdonanza domandando di ciò che contro
a lui avevano adoperato.
Aldobrandino lagrimando
pietosamente gli ricevette; e tutti baciandogli in bocca, con poche parole
spacciandosi, ogni ingiuria ricevuta rimise. Appresso costoro le sirocchie e le
mogli loro, tutte di bruno vestite, vennero, e da madonna Ermellina e
dall'altre donne graziosamente ricevute furono. Ed essendo stati magnificamente
serviti nel convito gli uomini parimente e le donne, né avendo avuto in quello
cosa alcuna altro che laudevole, se non una, la taciturnità stata per lo fresco
dolore rappresentato ne' vestimenti oscuri de' parenti di Tedaldo (per la qual
cosa da alquanti il diviso e lo 'nvito del peregrino era stato biasimato ed
egli se n'era accorto), come seco disposto avea, venuto il tempo da torla via,
si levò in piè, mangiando ancora gli altri le frutte, e disse:
– Niuna cosa è mancata a
questo convito a doverlo far lieto, se non Tedaldo; il quale, poi che avendolo
avuto continuamente con voi non lo avete conosciuto, io il vi voglio mostrare.
E di dosso gittatasi la
schiavina e ogni abito peregrino, in una giubba di zendado verde rimase, e non
senza grandissima maraviglia di tutti guatato e riconosciuto fu lungamente,
avanti che alcun s'arrischiasse a credere ch'el fosse desso. Il che Tedaldo
vedendo, assai de' lor parentadi, delle cose tra loro avvenute, de' suoi
accidenti raccontò. Per che i frategli e gli altri uomini, tutti di lagrime
d'allegrezza pieni, ad abbracciare il corsero, e il simigliante appresso fecer
le donne, così le non parenti come le parenti, fuor che monna Ermellina.
Il che Aldobrandino
veggendo disse:
– Che è questo,
Ermellina? Come non fai tu, come l'altre donne, festa a Tedaldo?
A cui, udenti tutti, la
donna rispose:
– Niuna ce n'è che più
volentieri gli abbia fatto festa e faccia, che farei io, sì come colei che più
gli è tenuta che al cuna altra, considerato che per le sue opere io t'abbia
riavuto; ma le disoneste parole dette ne' dì che noi piagnemmo colui che noi
credevam Tedaldo, me ne fanno stare.
A cui Aldobrandin disse:
– Va via, credi tu che
io creda agli abbaiatori? Esso, procacciando la mia salute, assai bene
dimostrato ha quello essere stato falso, senza che io mai nol credetti; tosto
leva su, va abbraccialo.
La donna, che altro non
desiderava, non fu lenta in questo ad ubbidire il marito; per che, levatasi,
come l'altre avevan fatto, così ella abbracciandolo gli fece lieta festa.
Questa liberalità d'Aldobrandino piacque molto ai fratelli di Tedaldo, e a
ciascuno uomo e donna che quivi era; e ogni rugginuzza, che fosse nata nelle
menti d'alcuni dalle parole state, per que sto si tolse via.
Fatta adunque da ciascun
festa a Tedaldo, esso medesimo stracciò li vestimenti neri in dosso a' fratelli
e i bruni alle sirocchie e alle cognate; e volle che quivi altri vestimenti si
facessero venire. Li quali poi che rivestiti furono, canti e balli e altri
sollazzi vi si fecero assai; per la qual cosa il convito, che tacito principio
avuto avea, ebbe sonoro fine. E con grandissima allegrezza, così come eran,
tutti a casa di Tedaldo n'andarono, e quivi la sera cenarono; e più giorni
appresso, questa maniera tegnendo, la festa continuarono.
Li fiorentini più giorni
quasi come un uomo risuscitato e maravigliosa cosa riguardaron Tedaldo; e a
molti, e a' fratelli ancora, n'era un cotal dubbio debole nell'animo se fosse
desso o no, e nol credevano ancor fermamente, né forse avrebber fatto a pezza,
se un caso avvenuto non fosse che fe' lor chiaro chi fosse stato l'ucciso; il
quale fu questo.
Passavano un giorno
fanti di Lunigiana davanti a casa loro, e vedendo Tedaldo gli si fecero
sirocchie dicendo:
– Ben possa stare
Faziuolo.
A'quali Tedaldo in
presenzia de' fratelli rispose:
– Voi m'avete colto in
iscambio.
Costoro, udendol
parlare, si vergognarono, e chiesongli perdono dicendo:
– In verità che voi
risomigliate, più che uomo che noi vedessimo mai risomigliare un altro, un
nostro compagno, il quale si chiama Faziuolo da Pontremoli, che venne, forse
quindici dì o poco più fa, qua, né mai potemmo poi sapere che di lui si fosse.
Bene è vero che noi ci maravigliavamo dello abito, per ciò che esso era, sì
come noi siamo, masnadiere.
Il maggior fratel di
Tedaldo, udendo questo, si fece innanzi e domandò di che fosse stato vestito
quel Faziuolo. Costoro il dissero, e trovossi appunto così essere stato come
costor dicevano; di che, tra per questi e per gli altri segni, riconosciuto fu colui
che era stato ucciso essere stato Faziuolo e non Tedaldo; laonde il sospetto di
lui uscì a' fratelli e a ciascun altro.
Tedaldo adunque, tornato
ricchissimo, perseverò nel suo amare, e, senza più turbarsi la donna,
discretamente operando, lungamente goderon del loro amore. Iddio faccia noi
goder del nostro.
NOVELLA OTTAVA
Ferondo, mangiata certa
polvere, è sotterrato per morto; e dall'abate, che la moglie di lui si gode,
tratto della sepoltura, è messo in prigione e fattogli credere che egli è in purgatoro;
e poi risuscitato, per suo nutrica un figliuolo dello abate nella moglie di lui
generato.
Venuta era la fine della
lunga novella d'Emilia, non per ciò dispiaciuta ad alcuno per la sua lunghezza,
ma da tutti tenuto che brievemente narrata fosse stata, avendo rispetto alla
quantità e alla varietà de' casi in essa raccontati; per che la reina, alla
Lauretta con un sol cenno mostrato il suo disio, le diè cagione di così
cominciare. Carissime donne, a me si para davanti a doversi far raccontare una
verità che ha, troppo più che di quello che ella fu, di menzogna sembianza, e
quella nella mente m'ha ritornata l'avere udito un per un altro essere stato
pianto e sepellito. Dico adunque come un vivo per morto sepellito fosse, e come
poi per risuscitato, e non per vivo, egli stesso e molti altri lui credessero
essere della sepoltura uscito, colui di ciò essendo per santo adorato che come
colpevole ne dovea più tosto essere condannato. Fu adunque in Toscana una
badia, e ancora è, posta, sì come noi ne veggiam molte, in luogo non troppo
frequentato dagli uomini, nella quale fu fatto abate un monaco, il quale in
ogni cosa era santissimo fuor che nell'opera delle femine; e questo sapeva sì
cautamente fare che quasi niuno, non che il sapesse, ma né suspicava, per che
santissimo e giusto era tenuto in ogni cosa. Ora avvenne che, essendosi molto
collo abate dimesticato un ricchissimo villano, il quale avea nome Ferondo,
uomo materiale e grosso senza modo (né per altro la sua dimestichezza piaceva
allo abate, se non per alcune recreazioni le quali talvolta pigliava delle sue
simplicità), e in questa dimestichezza s'accorse l'abate Ferondo avere una
bellissima donna per moglie, della quale esso sì ferventemente s'innamorò che
ad altro non pensava né dì né notte. Ma udendo che, quantunque Ferondo fosse in
ogni altra cosa semplice e dissipito, in amare questa sua moglie e guardarla
bene era savissimo, quasi se ne disperava. Ma pure, come molto avveduto, recò a
tanto Ferondo, che egli insieme colla sua donna a prendere alcuno diporto nel
giardino della badia venivano alcuna volta; e quivi con loro della beatitudine
di vita etterna e di santissime opere di molti uomini e donne passate ragionava
modestissimamente loro, tanto che alla donna venne disidero di confessarsi da lui
e chiesene la licenzia da Ferondo ed ebbela.
Venuta adunque a
confessarsi la donna allo abate, con grandissimo piacer di lui e a piè
postaglisi a sedere, anzi che adire altro venisse, incominciò:
– Messere, se Iddio
m'avesse dato marito o non me lo avesse dato, forse mi sarebbe agevole co'
vostri ammaestramenti d'entrare nel cammino che ragionato n'avete che mena
altrui a vita etterna; ma io, considerato chi è Ferondo e la sua stultizia, mi
posso dir vedova, e pur maritata sono, in quanto, vivendo esso, altro marito
aver non posso; ed egli, così matto come egli è, senza alcuna cagione è sì
fuori d'ogni misura geloso di me, che io, per questo, altro che in tribulazione
e in mala ventura con lui viver non posso. Per la qual cosa, prima che io ad
altra confession venga, quanto più posso umilmente vi priego che sopra questo
vi piaccia darmi alcun consiglio, per ciò che, se quinci non comincia la
cagione del mio ben potere adoperare, il confessarmi o altro bene fare poco mi
gioverà.
Questo ragionamento con
gran piacere toccò l'animo dello abate, e parvegli che la fortuna gli avesse al
suo maggior disidero aperta la via, e disse:
– Figliuola mia, io
credo che gran noia sia ad una bella e dilicata donna, come voi siete, aver per
marito un mentecatto, ma molto maggiore la credo essere l'avere un geloso; per
che, avendo voi e l'uno e l'altro, agevolmente ciò che della vostra
tribolazione dite vi credo. Ma a questo, brievemente parlando, niuno né
consiglio né rimedio veggo fuor che uno, il quale è che Ferondo di questa
gelosia si guarisca. La medicina da guarirlo so io troppo ben fare, purché a
voi dea il cuore di segreto temere ciò che io vi ragionerò.
La donna disse:
– Padre mio, di ciò non
dubitate, per ciò che io mi lascierei innanzi morire che io cosa dicessi ad
altrui che voi mi diceste che io non dicessi; ma come si potrà far questo?
Rispose l'abate:
– Se noi vogliamo che
egli guarisca, di necessità convien che egli vada in purgatoro.
– E come, – disse la
donna – vi potrà egli andare vivendo? Disse l'abate:
– Egli convien
ch'e'muoia, e così v'andrà; e quando tanta pena avrà sofferta che egli di
questa sua gelosia sarà gastigato, noi con certe orazioni pregheremo Iddio che
in questa vita il ritorni, ed egli il farà.
– Adunque, – disse la
donna – debbo io rimaner vedova?
– Sì, – rispose l'abate
– per un certo tempo, nel quale vi converrà molto ben guardare che voi ad
altrui non vi lasciate rimaritare, per ciò che Iddio l'avrebbe per male, e,
tornandoci Ferondo, vi converrebbe a lui tornare, e sarebbe più geloso che mai.
La donna disse:
– Purché egli di questa
mala ventura guarisca, che egli non mi convenga sempre stare in prigione, io
son contenta; fate come vi piace.
Disse allora l'abate:
– E io il farò; ma che
guiderdon debbo io aver da voi di così fatto servigio?
– Padre mio, – disse la
donna – ciò che vi piace, purché io possa; ma che puote una mia pari, che ad un
così fatto uomo, come voi siete, sia convenevole?
A cui l'abate disse:
– Madonna, voi potete
non meno adoperar per me che sia quello che io mi metto a far per voi; per ciò
che, sì come io mi dispongo a far quello che vostro bene e vostra consolazion
dee essere, così voi potete far quello che fia salute e scampo della vita mia.
Disse allora la donna:
– Se così è, io sono
apparecchiata.
– Adunque, – disse
l'abate – mi donerete voi il vostro amore e faretemi contento di voi, per la
quale io ardo tutto e mi consumo.
La donna, udendo questo,
tutta sbigottita rispose:
– Ohimè, padre mio, che
è ciò che voi domandate? Io mi credeva che voi foste un santo; or conviensi
egli a' santi uomini di richieder le donne, che a lor vanno per consiglio, di
così fatte cose?
A cui l'abate disse:
– Anima mia bella, non
vi maravigliate, ché per questo la santità non diventa minore, per ciò che ella
dimora nell'anima e quello che io vi domando è peccato del corpo. Ma, che che
si sia, tanta forza ha avuta la vostra vaga bellezza, che amore mi costrigne a
così fare. E dicovi che voi della vostra bellezza più che altra donna gloriar
vi potete, pensando che ella piaccia a' santi, che sono usi di vedere quelle
del cielo. E oltre a questo, come che io sia abate, io sono uomo come gli
altri, e, come voi vedete, io non sono ancor vecchio. E non vi dee questo esser
grave a dover fare, anzi il dovete disiderare, per ciò che, mentre che Ferondo
starà in purgatoro, io vi darò, faccendovi la notte compagnia, quella
consolazion che vi dovrebbe dare egli; né mai di questo persona niuna
s'accorgerà, credendo ciascun di me quello, e più, che voi poco avante ne
credevate. Non rifiutate la grazia che Iddio vi manda, ché assai sono di quelle
che quello disiderano che voi potete avere, e avrete, se savia crederete al mio
consiglio. Oltre a questo, io ho di belli gioielli e di cari, li quali io non
intendo che d'altra persona sieno che vostri. Fate adunque, dolce speranza mia,
per me quello che io fo per voi volentieri.
La donna teneva il viso
basso, né sapeva come negarlo, e il concedergliele non le pareva far bene; per
che l'abate, veggendola averlo ascoltato e dare indugio alla risposta, parendo
gliele avere già mezza convertita, con molte altre parole alle prime
continuandosi, avanti che egli ristesse l'ebbe nel capo messo che questo fosse
ben fatto; per che essa vergognosamente disse sé essere apparecchiata ad ogni
suo comando, ma prima non potere che Ferondo andato fosse in purgatoro. A cui
l'abate contentissimo disse:
– E noi faremo che egli
v'andrà incontanente; farete pure che domane o l'altro dì egli qua con meco se
ne venga a dimorare –; e detto questo, postole celatamente in mano un
bellissimo anello, la licenziò. La donna lieta del dono e attendendo d'aver
degli altri, alle compagne tornata, maravigliose cose cominciò a raccontare
della santità dello abate e con loro a casa se ne tornò. Ivi a pochi dì Ferondo
se n'andò alla badia, il quale come l'abate vide, così s'avvisò di mandarlo in
purgatoro. E ritrovata una polvere di maravigliosa virtù, la quale nelle parti
di Levante avuta avea da un gran principe, il quale affermava quella solersi
usare per lo Veglio della Montagna, quando alcun voleva dormendo mandare nel
suo paradiso o trarlone, e che ella, più e men data, senza alcuna lesione
faceva per sì fatta maniera più e men dormire colui che la prendeva, che,
mentre la sua virtù durava, alcuno non avrebbe mai detto colui in sé aver vita;
e di questa tanta presane che a fare dormir tre giorni sufficiente fosse, e in
un bicchier di vino non ben chiaro, ancora nella sua cella, senza avvedersene
Ferondo, gliele diè bere, e lui appresso menò nel chiostro, e con più altri de'
suoi monaci di lui cominciarono e delle sue sciocchezze a pigliar diletto. Il
quale non durò guari che, lavorando la polvere, a costui venne un sonno subito
e fiero nella testa, tale che stando ancora in piè s'addormentò e addormentato
cadde.
L'abate, mostrando di
turbarsi dello accidente, fattolo scignere e fatta recare acqua fredda e
gittargliele nel viso, e molti suoi altri argomenti fatti fare, quasi da alcuna
fumosità di stomaco o d'altro che occupato l'avesse gli volesse la smarrita
vita e 'l sentimento rivocare; veggendo l'abate e' monaci che per tutto questo
egli non si risentiva, toccandogli il polso e niun sentimento trovandogli,
tutti per constante ebbero ch'e'fosse morto; per che, mandatolo a dire alla moglie
e a' parenti di lui, tutti quivi prestamente vennero, e avendolo la moglie
colle sue parenti alquanto pianto, così vestito come era il fece l'abate
mettere in uno avello.
La donna si tornò a
casa, e da un piccol fanciullin che di lui aveva disse che non intendeva
partirsi giammai; e così, rimasasi nella casa, il figliuolo e la ricchezza, che
stata era di Ferondo, cominciò a governare.
L'abate con un monaco
bolognese, di cui egli molto si confidava e che quel dì quivi da Bologna era
venuto, levatosi la notte tacitamente, Ferondo trassero della sepoltura, e lui
in una tomba, nella quale alcun lume non si vedea e che per prigione de' monaci
che fallissero era stata fatta, nel portarono; e trattigli i suoi vestimenti e
a guisa di monaco vestitolo, sopra un fascio di paglia il posero e lasciaronlo
stare tanto ch'egli si risentisse. In questo mezzo il monaco bolognese, dallo
abate informato di quello che avesse a fare, senza saperne alcuna altra persona
niuna cosa, cominciò ad attender che Ferondo si risentisse.
L'abate il dì seguente
con alcun de' suoi monaci per modo di visitazion se n'andò a casa della donna,
la quale di nero vestita e tribolata trovò, e confortatala alquanto, pianamente
la richiese della promessa. La donna, veggendosi libera e senza lo 'mpaccio di
Ferondo o d'altrui, avendogli veduto in dito un altro bello anello, disse che
era apparecchiata; e con lui compose che la seguente notte v'andasse.
Per che, venuta la
notte, l'abate, travestito de' panni di Ferondo e dal suo monaco accompagnato,
v'andò e con lei infino al matutino con grandissimo diletto e piacere si
giacque, e poi si ritornò alla badia, quel camino per così fatto servigio
faccendo assai sovente; e da alcuni e nello andare e nel tornare alcuna volta
essendo scontrato, fu creduto che fosse Ferondo che andasse per quella contrada
penitenza faccendo; e poi molte novelle tra la gente grossa della villa
contatone, e alla moglie ancora, che ben sapeva ciò che era, più volte fu
detto. Il monaco bolognese, risentito Ferondo e quivi trovandosi senza saper
dove si fosse, entrato dentro con una voce orribile, con certe verghe in mano,
presolo, gli diede una gran battitura.
Ferondo, piangendo e
gridando, non faceva altro che domandare:
– Dove sono io?
A cui il monaco rispose:
– Tu sé in purgatoro.
– Come! – disse Ferondo
– dunque sono io morto?
Disse il monaco:
– Mai sì –; per che
Ferondo sé stesso e la sua donna e 'l suo figliuolo cominciò a piagnere, le più
nuove cose del mondo dicendo.
Al quale il monaco portò
alquanto da mangiare e da bere. Il che veggendo Ferondo, disse:
– O mangiano i morti?
Disse il monaco:
– Sì; e questo che io ti
reco è ciò che la donna, che fu tua, mandò stamane alla chiesa a far dir messe
per l'anima tua, il che Domeneddio vuole che qui rappresentato ti sia.
Disse allora Ferondo:
– Domine, dalle il buono
anno. Io le voleva ben gran bene anzi che io morissi, tanto che io me la teneva
tutta notte in braccio e non faceva altro che baciarla e anche faceva altro
quando voglia me ne veniva.
E poi, gran voglia
avendone, cominciò a mangiare e a bere; e non parendogli il vino troppo buono,
disse:
– Domine, falla trista,
ché ella non diede al prete del vino della botte di lungo il muro.
Ma poi che mangiato
ebbe, il monaco da capo il riprese e con quelle medesime verghe gli diede una
gran battitura. A cui Ferondo, avendo gridato assai, disse:
– Deh. questo perché mi
fai tu?
Disse il monaco:
– Per ciò che così ha
comandato Domeneddio che ogni dì due volte ti sia fatto.
– E per che cagione? –
disse Ferondo.
Disse il monaco:
– Perché tu fosti
geloso, avendo la miglior donna che fosse nelle tue contrade per moglie.
– Ohimè, – disse Ferondo
– tu di'vero, e la più dolce; ella era più melata che 'l confetto, ma io non
sapeva che Domeneddio avesse per male che l'uomo fosse geloso, ché io non sarei
stato.
Disse il monaco:
– Di questo ti dovevi tu
avvedere mentre eri di là, e ammendartene; e se egli avviene che tu mai vi
torni, fa che tu abbi sì a mente quello che io fo ora, che tu non sii mai più
geloso.
Disse Ferondo:
– O ritornavi mai chi
muore?
Disse il monaco:
– Sì, chi Dio vuole.
– Oh, – disse Ferondo –
se io vi torno mai, io sarò il miglior marito del mondo; mai non la batterò,
mai non le dirò villania, se non del vino che ella ci ha mandato stamane, e
anche non ci ha mandato candela niuna, ed emmi convenuto mangiare al buio.
Disse il monaco:
– Sì fece bene, ma elle
arsero alle messe.
– Oh, – disse Ferondo –
tu dirai vero; e per certo se io vi torno, io la lascerò fare ciò che ella
vorrà. Ma dimmi chi sétu che questo mi fai?
Disse il monaco:
– Io sono anche morto, e
fui di Sardigna, e perché io lodai già molto ad un mio signore l'esser geloso,
sono stato dannato da Dio a questa pena, che io ti debba dare mangiare e bere e
queste battiture, infino a tanto che Iddio di libererà altro di te e di me.
Disse Ferondo:
– Non c'è egli più
persona che noi due?
Disse il monaco:
– Sì, a migliaia, ma tu
non gli puoi né vedere né udire, se non come essi te.
Disse allora Ferondo:
– O quanto siam noi di
lungi dalle nostre contrade?
– Ohioh! – disse il
monaco – sevvi di lungi delle miglia più di ben la cacheremo.
– Gnaffe! cotesto è bene
assai; – disse Ferondo – e per quel che mi paia, noi dovremmo essere fuor del
mondo, tanta ci ha.
Ora in così fatti
ragionamenti e in simili, con mangiare e con battiture, fu tenuto Ferondo da
dieci mesi in fra li quali assai sovente l'abate bene avventurosamente visitò
la bella donna e con lei si diede il più bel tempo del mondo.
Ma, come avvengono le
sventure, la donna ingravidò, e prestamente accortasene, il disse all'abate;
per che ad amenduni parve che senza indugio Ferondo fosse da dovere essere di
purgatoro rivocato a vita e che a lei si tornasse, ed ella di lui dicesse che
gravida fosse.
L'abate adunque la
seguente notte fece con una voce contraffatta chiamar Ferondo nella prigione, e
dirgli:
- Ferondo, confortati,
ché a Dio piace che tu torni al mondo; dove tornato, tu avrai un figliuolo
della tua donna, il quale farai che tu nomini Benedetto, per ciò che per gli
prieghi del tuo santo abate e della tua donna e per amor di san Benedetto ti fa
questa grazia.
Ferondo, udendo questo,
fu forte lieto e disse:
– Ben mi piace. Dio gli
dea il buono anno a messer Domeneddio e allo abate e a san Benedetto e alla
moglie mia caciata, melata, dolciata.
L'abate, fattogli dare
nel vino che egli gli mandava di quella polvere tanta che forse quattro ora il
facesse dormire, rimessigli i panni suoi, insieme col monaco suo tacitamente il
tornarono nello avello nel quale era stato sepellito. La mattina in sul far del
giorno Ferondo si risentì e vide per alcuno pertugio dello avello lume, il
quale egli veduto non avea ben dieci mesi: per che, parendogli esser vivo,
cominciò a gridare: – Apritemi, apritemi – ed egli stesso a pontar col capo nel
coperchio dello avello sì forte, che ismossolo, per ciò che poca ismovitura
avea, lo 'ncominciava a mandar via; quando i monaci, che detto avean matutino,
corson colà e conobbero la voce di Ferondo e viderlo già del monimento uscir
fuori; di che, spaventati tutti per la novità del fatto, cominciarono a fuggire
e allo abate n'andarono.
Il quale, sembianti
faccendo di levarsi d'orazione, disse:
– Figliuoli, non abbiate
paura, prendete la croce e l'acqua santa e appresso di me venite, e veggiamo
ciò che la potenzia di Dio ne vuol mostrare –; e così fece.
Era Ferondo tutto
pallido, come colui che tanto tempo era stato senza vedere il cielo, fuor dello
avello uscito. Il quale, come vide l'abate, così gli corse a' piedi e disse:
– Padre mio, le vostre
orazioni, secondo che revelato mi fu, e quelle di san Benedetto e della mia
donna, m'hanno delle pene del purgatoro tratto e tornato in vita, di che io
priego Iddio che vi dea il buono anno e le buone calendi, oggi e tuttavia.
L'abate disse:
– Lodata sia la potenza
di Dio. Va dunque, figliuolo, poscia che Iddio t'ha qui rimandato, e consola la
tua donna, la qual sempre, poi che tu di questa vita passasti, è stata in
lagrime, e sii da quinci innanzi amico e servidore di Dio.
Disse Ferondo:
– Messere, egli m'è ben
detto così; lasciate far pur me, ché come io la troverò, così la bacerò, tanto
bene le voglio. L'abate rimaso co' monaci suoi, mostrò d'avere di questa cosa
una grande ammirazione, e fecene divotamente cantare il Miserere.
Ferondo tornò nella sua
villa, dove chiunque il vedeva fuggiva, come far si suole delle orribili cose,
ma egli, richiamandogli, affermava sé essere risuscitato. La moglie similmente
aveva di lui paura.
Ma poi che la gente
alquanto si fu rassicurata con lui e videro che egli era vivo, domandandolo di
molte cose, quasi savio ritornato, a tutti rispondeva e diceva loro novelle
dell'anime de' parenti loro, e faceva da sé medesimo le più belle favole del
mondo de' fatti purgatoro, e in pien popolo raccontò la revelazione statagli
fatta per la bocca del Ragnolo Braghiello avanti che risuscitasse. Per la qual
cosa in casa colla moglie tornatosi e in possessione rientrato de' suoi beni,
la 'ngravidò al suo parere, e per ventura venne che a convenevole tempo,
secondo l'oppinione degli sciocchi che credono la femina nove mesi appunto
portare i figliuoli, la donna partorì un figliuol maschio, il qual fu chiamato
Benedetto Ferondi.
La tornata di Ferondo e
le sue parole, credendo quasi ogn'uomo che risuscitato fosse, acrebbero senza
fine la fama della santità dello abate. E Ferondo, che per la sua gelosia molte
battiture ricevute avea, sì come di quella guerito, secondo la promessa dello
abate fatta alla donna, più geloso non fu per innanzi; di che la donna
contenta, onestamente, come soleva, con lui si visse, sì veramente che, quando
acconciamente poteva, volentieri col santo abate si ritrovava, il quale bene e
diligentemente ne' suoi maggior bisogni servita l'avea.
NOVELLA NONA
Giletta di Nerbona
guerisce il re di Francia d'una fistola; domanda per marito Beltramo di
Rossiglione, il quale, contra sua voglia sposatala, a Firenze se ne va per
isdegno, dove vagheggiando una giovane, in persona di lei Giletta giacque con
lui ed ebbene due figliuoli; per che egli poi, avutola cara, per moglie la
tenne.
Restava, non volendo il
suo privilegio rompere a Dioneo, solamente a dire alla reina, con ciò fosse
cosa che già finita fosse la novella di Lauretta. Per la qual cosa essa, senza
aspettar d'essere sollicitata da' suoi, così tutta vaga cominciò a parlare.
Chi dirà novella omai
che bella paia, avendo quella di Lauretta udita? Certo vantaggio ne fu che ella
non fu la primiera, ché poche poi dell'altre ne sarebbon piaciute, e così spero
che avverrà di quelle che per questa giornata sono a raccontare. Ma pure,
chente che ella si sia, quella che alla proposta materia m'occorre vi conterò.
Nel reame di Francia fu un gentile uomo, il quale chiamato fu Isnardo, conte di
Rossiglione, il quale, per ciò che poco sano era, sempre appresso di sé teneva
un medico, chiamato maestro Gerardo di Nerbona. Aveva il detto conte un suo
figliuol piccolo senza più, chiamato Beltramo, il quale era bellissimo e
piacevole, e con lui altri fanciulli della sua età s'allevavano, tra' quali era
una fanciulla del detto medico, chiamata Giletta; la quale infinito amore e
oltre al convenevole della tenera età fervente pose a questo Beltramo. Al
quale, morto il conte e lui nelle mani del re lasciato, ne convenne andare a
Parigi; di che la giovinetta fieramente rimase sconsolata; e non guari
appresso, essendosi il padre di lei morto, se onesta cagione avesse potuta
avere, volentieri a Parigi per veder Beltramo sarebbe andata; ma essendo molto
guardata, per ciò che ricca e sola era rimasa, onesta via non vedea.
Ed essendo ella già
d'età da marito, non avendo mai potuto Beltramo dimenticare, molti, a' quali i
suoi parenti l'avevan voluta maritare, rifiutati n'avea senza la cagion
dimostrare.
Ora avvenne che, ardendo
ella dello amor di Beltramo più che mai, per ciò che bellissimo giovane udiva
ch'era divenuto, le venne sentita una novella, come al re di Francia, per una
nascenza che avuta avea nel petto ed era male stata curata, gli era rimasa una
fistola, la quale di grandissima noia e di grandissima angoscia gli era, né s'era
ancor potuto trovar medico, come che molti se ne fossero esperimentati, che di
ciò l'avesse potuto guerire, ma tutti l'avean peggiorato, per la qual cosa il
re, disperatosene, più d'alcun non voleva né consiglio né aiuto. Di che la
giovane fu oltremodo contenta, e pensossi non solamente per questo aver
ligittima cagione d'andar a Parigi, ma, se quella infermità fosse che ella
credeva, leggiermente poterle venir fatto d'aver Beltram per marito. Laonde, sì
come colei che già dal padre aveva assai cose apprese, fatta sua polvere di
certe erbe utili a quella infermità che avvisava che fosse, montò a cavallo e a
Parigi n'andò. Né prima altro fece che ella s'ingegnò di veder Beltramo; e
appresso nel cospetto del re venuta, di grazia chiese che la sua infermità gli
mostrasse. Il re veggendola bella giovane e avvenente, non gliele seppe
disdire, e mostrogliele. Come costei l'ebbe veduta, così incontanente si
confortò di doverlo guerire, e disse:
– Monsignore, quando vi
piaccia, senza alcuna noia o fatica di voi, io ho speranza in Dio d'avervi in
otto giorni di questa infermità renduto sano.
Il re si fece in sé
medesimo beffe delle parole di costei dicendo:
– Quello che i maggiori
medici del mondo non hanno potuto né saputo, una giovane femina come il
potrebbe sapere? –
Ringraziolla adunque
della sua buona volontà e rispose che proposto avea seco di più consiglio di
medico non seguire.
A cui la giovane disse:
– Monsignore, voi
schifate la mia arte, perché giovane e femina sono; ma io vi ricordo che io non
medico colla mia scienzia, anzi collo aiuto d'lddio e colla scienzia del
maestro Gerardo nerbonese, il quale mio padre fu e famoso medico mentre visse.
Il re allora disse seco:
– Forse m'è costei mandata da Dio; perché non pruovo io ciò che ella sa fare,
poi dice senza noia di me in picciol tempo guerirmi? – E accordatosi di
provarlo, disse:
– Damigella, e se voi
non ci guerite, faccendoci rompere il nostro proponimento, che volete voi che
ve ne segua?
– Monsignore, – rispose
la giovane – fatemi guardare; e se io infra otto giorni non vi guerisco, fatemi
bruciare; ma se io vi guerisco, che merito me ne seguirà?
A cui il re rispose:
– Voi ne parete ancor
senza marito; se ciò farete, noi vi mariteremo bene e altamente.
Al quale la giovane
disse:
– Monsignore, veramente
mi piace che voi mi maritiate, ma io voglio un marito tale quale io vi
domanderò, senza dovervi domandare alcun de' vostri figliuoli o della casa
reale.
Il re tantosto le
promise di farlo.
La giovane cominciò la
sua medicina, e in brieve anzi il termine l'ebbe condotto a sanità. Di che il
re, guerito sentendosi, disse:
– Damigella, voi avete
ben guadagnato il marito.
A cui ella rispose:
– Adunque, monsignore,
ho io guadagnato Beltramo di Rossiglione, il quale infino nella mia puerizia io
cominciai ad amare e ho poi sempre sommamente amato.
Gran cosa parve al re
dovergliele dare; ma, poi che promesso l'avea, non volendo della sua fè
mancare, se 'l fece chiamare e sì gli disse:
– Beltramo, voi siete
omai grande e fornito. Noi vogliamo che voi torniate a governare il vostro
contado e con voi ne meniate una damigella, la qual noi v'abbiamo per moglie
data.
Disse Beltramo:
– E chi è la damigella,
monsignore?
A cui il re rispose:
– Ella è colei la qual
n'ha con le sue medicine sanità renduta.
Beltramo, il quale la
conosceva e veduta l'avea, quantunque molto bella gli paresse, conoscendo lei
non esser di legnaggio che alla sua nobiltà bene stesse, tutto sdegnoso disse:
– Monsignore, dunque mi
volete voi dar medica per mogliere? Già a Dio non piaccia che io sì fatta
femina prenda giammai.
A cui il re disse:
– Dunque volete voi che
noi vegniamo meno di nostra fede, la qual noi per riaver sanità donammo alla
damigella, che voi in guiderdon di ciò domandò per marito?
– Monsignore, – disse
Beltramo – voi mi potete torre quant'io tengo, e donarmi, sì come vostro uomo,
a chi vi piace; ma di questo vi rendo sicuro che mai io non sarò di tal
maritaggio contento.
– Sì sarete, – disse il
re – per ciò che la damigella è bella e savia e amavi molto; per che speriamo
che molto più lieta vita con lei avrete che con una donna di più alto legnaggio
non avreste.
Beltramo si tacque, e il
re fece fare l'apparecchio grande per la festa delle nozze. E venuto il giorno
a ciò determinato, quantunque Beltramo mal volentieri il facesse, nella
presenzia del re la damigella sposò, che più che sé l'amava. E questo fatto,
come colui che seco già pensato avea quello che far dovesse, dicendo che al suo
contado tornar si voleva e quivi consumare il matrimonio, chiese commiato al
re; e montato a cavallo, non nel suo contado se n'andò, ma se ne venne in
Toscana. E saputo che i fiorentini guerreggiavano co' sanesi, ad essere in lor
favore si dispose; dove, lietamente ricevuto e con onore, fatto di certa
quantità di gente capitano e da loro avendo buona provisione, al loro servigio
si rimase e fu buon tempo.
La novella sposa, poco
contenta di tal ventura, sperando di doverlo, per suo bene operare, rivocare al
suo contado, se ne venne a Rossiglione, dove da tutti come lor donna fu
ricevuta. Quivi trovando ella, per lo lungo tempo che senza conte stato v'era,
ogni cosa guasta e scapestrata, sì come savia donna, con gran diligenzia e
sollicitudine ogni cosa rimise in ordine; di che i suggetti si contentaron
molto e lei ebbero molto cara e poserle grande amore, forte biasimando il conte
di ciò ch'egli di lei non si contentava.
Avendo la donna tutto
racconcio il paese, per due cavalieri al conte il significò, pregandolo che, se
per lei stesse di non venire al suo contado, gliele significasse, ed ella per
compiacergli si partirebbe. Alli quali esso durissimo disse:
– Di questo faccia ella
il piacer suo; io per me vi tornerò allora ad esser con lei che ella questo
anello avrà in dito, e in braccio figliuol di me acquistato.
Egli aveva l'anello
assai caro, né mai da sé il partiva, per alcuna virtù che stato gli era dato ad
intendere ch'egli avea.
I cavalieri intesero la
dura condizione posta nelle due quasi impossibili cose; e veggendo che per loro
parole dal suo proponimento nol potevan rimovere, si tornarono alla donna e la
sua risposta le raccontarono. La quale, dolorosa molto, dopo lungo pensiero
diliberò di voler sapere se quelle due cose potesser venir fatt'e dove, acciò
che per conseguente il marito suo riavesse. E avendo quello che far dovesse
avvisato, ragunati una parte de' maggiori e de' migliori uomini del suo
contado, loro assai ordinatamente e con pietose parole raccontò ciò che già
fatto avea per amor del conte, e mostrò quello che di ciò seguiva; e
ultimamente disse che sua intenzion non era che per la sua dimora quivi il
conte stesse in perpetuo essilio, anzi intendeva di consumare il rimanente
della sua vita in peregrinaggi e in servigi misericordiosi per la salute
dell'anima sua; e pregogli che la guardia e il governo del contado prendessero
e al conte significassero lei avergli vacua ed espedita lasciata la
possessione, e dileguatasi con intenzione di mai in Rossiglione non tornare.
Quivi, mentre ella parlava, furon lagrime sparte assai dai buoni uomini e a lei
porti molti prieghi che le piacesse di mutar consiglio e di rimanere; ma niente
montarono. Essa, accomandati loro a Dio, con un suo cugino e con una sua
cameriera in abito di peregrini, ben forniti a denari e care gioie, senza
sapere alcuno ove ella s'andasse, entrò in cammino, né mai ristette sì fu in
Firenze; e quivi per avventura arrivata in uno alberghetto, il quale una buona
donna vedova teneva, pianamente a guisa di povera peregrina si stava,
disiderosa di sentire novelle del suo signore.
Avvenne adunque che il
seguente dì ella vide davanti allo albergo passare Beltramo a cavallo con sua
compagnia, il quale quantunque ella molto ben conoscesse, nondimeno domandò la
buona donna dello albergo chi egli fosse. A cui l'albergatrice rispose:
– Questi è un gentile
uom forestiere, il quale si chiama il conte Beltramo, piacevole e cortese e
molto amato in questa città; ed è il più innamorato uom del mondo d'una nostra
vicina, la quale è gentil femina, ma è povera. Vero è che onestissima giovane
è, e per povertà non si marita ancora, ma con una sua madre, savissima e buona
donna, si sta; e forse, se questa sua madre non fosse, avrebbe ella già fatto
di quello che a questo conte fosse piaciuto.
La contessa, queste
parole intendendo, raccolse bene; e più tritamente essaminando vegnendo ogni
particularità, e bene ogni cosa compresa fermò il suo consiglio; e apparata la
casa e 'l nome della donna e della sua figliuola dal conte amata, un giorno
tacitamente in abito peregrino là se n'andò; e la donna e la sua figliuola
trovate assai poveramente, salutatele, disse alla donna, quando le piacesse, le
volea parlare.
La gentil donna,
levatasi, disse che apparecchiata era d'udirla; ed entratesene sole in una sua
camera e postesi a sedere, cominciò la contessa:
– Madonna, e' mi pare
che voi siate delle nimiche della fortuna, come sono io; ma, dove voi voleste,
per avventura voi potreste voi e me consolare.
La donna rispose che
niuna cosa disiderava quanto di consolarsi onestamente.
Seguì la contessa:
– A me bisogna la vostra
fede, nella quale se io mi rimetto e voi m'ingannaste, voi guastereste i vostri
fatti e i miei.
– Sicuramente, – disse
la gentil donna – ogni cosa che vi piace mi dite, ché mai da me non vi
troverete ingannata.
Allora la contessa,
cominciatasi dar suo primo innamoramento, chi ell'era e ciò che intervenuto
l'era infino a quel giorno le raccontò per sì fatta maniera, che la gentil
donna, dando fede alle sue parole, sì come quella che già in parte udite
l'aveva da altrui, cominciò di lei ad aver compassione. E la contessa, i suoi
casi raccontati, seguì:
– Udite adunque avete
tra l'altre mie noie quali sieno quelle due cose che aver mi convien, se io
voglio avere il mio marito, le quali niuna altra persona conosco che far me le
possa aver, se non voi, se quello è vero che io intendo, cioè che 'l conte mio
marito sommamente ami vostra figliuola.
A cui la gentil donna
disse:
– Madonna, se il conte
ama mia figliuola io nol so, ma egli ne fa gran sembianti; ma che poss'io per
ciò in questo adoperare che voi disiderate?
– Madonna, – rispose la
contessa – io il vi dirò; ma primieramente vi voglio mostrar quello che io
voglio che ve ne segua, dove voi mi serviate. Io veggio vostra figliuola bella
e grande da marito, e per quello che io abbia inteso e comprender mi paia, il
non aver ben da maritarla ve la fa guardare in casa. Io intendo che, in merito
del servigio che mi farete, di darle prestamente de' miei denari quella dote
che voi medesima a maritarla onorevolmente stimerete che sia convenevole.
Alla donna, sì come
bisognosa, piacque la profferta, ma tuttavia, avendo l'animo gentil, disse:
– Madonna, ditemi quello
che io posso per voi operare, e, se egli sarà onesto a me, io il farò
volentieri, e voi appresso farete quello che vi piacerà.
Disse allora la
contessa:
– A me bisogna che voi,
per alcuna persona di cui voi vi fidiate, facciate al conte mio marito dire che
vostra figliuola sia presta a fare ogni suo piacere, dove ella possa esser
certa che egli così l'ami come dimostra; il che ella non crederà mai, se egli
non le manda l'anello il quale egli porta in mano e che ella ha udito ch'egli
ama cotanto; il quale se egli 'l vi manda, voi 'l mi donerete. E appresso gli
manderete a dire vostra figliuola essere apparecchiata di fare il piacer suo, e
qui il farete occultamente venire e nascosamente me in iscambio di vostra
figliuola gli metterete al lato. Forse mi farà Iddio grazia d'ingravidare; e
così appresso, avendo il suo anello in dito e il figliuolo in braccio da lui
generato, io il racquisterò e con lui dimorerò come moglie dee dimorar con
marito, essendone voi stata cagione.
Gran cosa parve questa
alla gentil donna, temendo non forse biasimo ne seguisse alla figliuola; ma pur
pensando che onesta cosa era il dare opera che la buona donna riavesse il suo
marito e che essa ad onesto fine a far ciò si mettea, nella sua buona e onesta
affezion confidandosi, non solamente di farlo promise alla contessa, ma infra
pochi giorni con segreta cautela, secondo l'ordine dato da lei, ed ebbe
l'anello (quantunque gravetto paresse al conte) e lei in iscambio della
figliuola a giacer col conte maestrevolmente mise.
Ne' quali primi
congiugnimenti affettuosissimamente dal conte cercati, come fu piacer di Dio,
la donna ingravidò in due figliuoli maschi, come il parto al suo tempo venuto
fece manifesto. Né solamente d'una volta contentò la gentil donna la contessa
degli abbracciamenti del marito, ma molte, sì segretamente operando, che mai
parola non se ne seppe; credendosi sempre il conte non con la moglie, ma con
colei la quale egli amava essere stato. A cui, quando a partir si venia la
mattina, avea parecchi belle e care gioie donate, le quali tutte diligentemente
la contessa guardava.
La quale, sentendosi
gravida, non volle più la gentil donna gravare di tal servigio, ma le disse:
– Madonna, la Dio mercé
e la vostra, io ho ciò che io disiderava, e per ciò tempo è che per me si
faccia quello che v'aggraderà, acciò che io poi me ne vada.
La gentil donna le disse
che, se ella aveva cosa che l'aggradisse, che le piaceva; ma che ciò ella non
avea fatto per alcuna speranza di guiderdone, ma perché le pareva doverlo fare
a voler ben fare. A cui la contessa disse:
– Madonna, questo mi
piace bene, e così d'altra parte io non intendo di donarvi quello che voi mi
domanderete per guiderdone, ma per far bene, ché mi pare che si debba così
fare.
La gentil donna allora,
da necessità costretta, con grandissima vergogna cento lire le domandò per
maritar la figliuola. La contessa, cognoscendo la sua vergogna e udendo la sua
cortese domanda, le ne donò cinquecento e tanti belli e cari gioielli, che
valevano per avventura altrettanto; di che la gentil donna vie più che
contenta, quelle grazie che maggiori potè alla contessa rendè, la quale da lei
partitasi se ne tornò allo albergo.
La gentil donna, per
torre materia a Beltramo di più né mandare né venire a casa sua, insieme con la
figliuola se n'andò in contado a casa di suoi parenti; e Beltramo ivi a poco
tempo da' suoi uomini richiamato, a casa sua, udendo che la contessa s'era
dileguata, se ne tornò. La contessa, sentendo lui di Firenze partito e tornato
nel suo contado, fu contenta assai, e tanto in Firenze dimorò che 'l tempo del
parto venne, e partorì due figliuoli maschi simigliantissimi al padre loro, e
quegli fe' dilingentemente nudrire. E quando tempo le parve, in cammino
messasi, senza essere da alcuna persona conosciuta con essi a Monpolier se ne
venne; e quivi più giorni riposata, e del conte e dove fosse avendo spiato, e
sentendo lui il dì d'Ognissanti in Rossiglione dover fare una gran festa di
donne e di cavalieri, pure in forma di peregrina, come usata n'era, là se
n'andò.
E sentendo le donne e'
cavaleri nel palagio del conte adunati per dovere andare a tavola, senza mutare
abito, con questi suoi figlioletti in braccio salita in su la sala, tra uomo e
uomo là se n'andò dove il conte vide, e gittataglisi a' piedi disse piagnendo:
– Signor mio, io sono la
tua sventurata sposa, la quale, per lasciar te tornare e stare in casa tua, lungamente
andata son tapinando. Io ti richieggo per Dio che le condizioni postemi per li
due cavalieri che io ti mandai, tu le mi osservi; ed ecco nelle mie braccia non
un sol figliuol di te, ma due, ed ecco qui il tuo anello. Tempo è adunque che
io debba da te, sì come moglie esser ricevuta secondo la tua promessa.
Il conte, udendo questo,
tutto misvenne, e riconobbe l'anello e i figliuoli ancora, sì simili erano a
lui; ma pur disse:
– Come può questo essere
intervenuto?
La contessa, con gran
meraviglia del conte e di tutti gli altri che presenti erano, ordinatamente ciò
che stato era, e come, raccontò. Per la qual cosa il conte, conoscendo lei dire
il vero e veggendo la sua perseveranza e il suo senno e appresso due così
be'figlioletti; e per servar quello che promesso avea e per compiacere a tutti
i suoi uomini e alle donne, che tutti pregavano che lei come sua ligittima
sposa dovesse omai raccogliere e onorare, pose giù la sua ostinata gravezza e
in piè fece levar la contessa, e lei abbracciò e baciò e per sua ligittima
moglie riconobbe, e quegli per suoi figliuoli. E fattala di vestimenti a lei
convenevoli rivestire, con grandissimo piacere di quanti ve n'erano e di tutti
gli altri suoi vassalli che ciò sentirono, fece, non solamente tutto quel dì ma
più altri grandissima festa; e da quel dì innanzi, lei sempre come sua sposa e
moglie onorando, l'amò e sommamente ebbe cara.
NOVELLA DECIMA
Alibech diviene romita,
a cui Rustico monaco insegna rimettere il diavolo in inferno; poi, quindi
tolta, diventa moglie di Neerbale.
Dioneo, che
diligentemente la novella della reina ascoltata avea, sentendo che finita era e
che a lui solo restava il dire, senza comandamento aspettare, sorridendo
cominciò a dire.
Graziose donne, voi non
udiste forse mai dire come il diavolo si rimetta in inferno; e per ciò, senza
partirmi guari dallo effetto che voi tutto questo dì ragionato avete, io il vi
vo' dire; forse ancora ne potrete guadagnare l'anima avendolo apparato, e
potrete anche conoscere che, quantunque Amore i lieti palagi e le morbide
camere più volentieri che le povere capanne abiti, non è egli per ciò che
alcuna volta esso fra'folti boschi e fra le rigide alpi e nelle diserte
spelunche non faccia le sue forze sentire; il perché comprender si può alla sua
potenza essere ogni cosa suggetta.
Adunque, venendo al
fatto, dico che nella città di Capsa in Barberia fu già un ricchissimo uomo, il
quale tra alcuni altri suoi figliuoli aveva una figlioletta bella e gentilesca,
il cui nome fu Alibech. La quale, non essendo cristiana e udendo a molti
cristiani che nella città erano molto commendare la cristiana fede e il servire
a Dio, un dì ne domandò alcuno in che maniera e con meno impedimento a Dio si
potesse servire. Il quale le rispose che coloro meglio a Dio servivano che più
delle cose del mondo fuggivano, come coloro facevano che nelle solitudini de'
diserti di Tebaida andati se n'erano.
La giovane, che
semplicissima era e d'età forse di quattordici anni, non da ordinato disidero
ma da un cotal fanciullesco appetito mossa, senza altro farne ad al cuna
persona sentire, la seguente mattina ad andar verso il diserto di Tebaida
nascosamente tutta sola si mise; e con gran fatica di lei, durando l'appetito,
dopo alcun dì a quelle solitudini pervenne; e veduta di lontano una casetta, a
quella n'andò, dove un santo uomo trovò sopra l'uscio, il quale,
maravigliandosi di quivi vederla, la domandò quello che ella andasse cercando.
La quale rispose, che, spirata da Dio andava cercando d'essere al suo servigio,
e ancora chi le 'nsegnasse come servire gli si conveniva.
Il valente uomo,
veggendola giovane e assai bella, temendo non il demonio, se egli la ritenesse,
lo 'ngannasse, le commendò la sua buona disposizione; e dandole alquanto da
mangiare radici d'erbe e pomi salvatichi e datteri e bere acqua, le disse:
– Figliuola mia, non
guari lontan di qui è un santo uomo, il quale di ciò che tu vai cercando è
molto migliore maestro che io non sono; a lui te n'andrai –; e misela nella
via.
Ed ella, pervenuta a lui
e avute da lui queste medesime parole, andata più avanti, pervenne alla cella
d'uno romito giovane, assai divota persona e buona, il cui nome era Rustico, e
quella dimanda gli fece che agli altri aveva fatta. Il quale, per volere fare
della sua fermezza una gran pruova, non come gli altri la mandò via o più
avanti, ma seco la ritenne nella sua cella; e venuta la notte, un lettuccio di
frondi di palma le fece da una parte e sopra quello le disse si riposasse.
Questo fatto, non preser
guari d'indugio le tentazioni a dar battaglia alle forze di costui; il quale,
trovandosi di gran lunga ingannato da quelle, senza troppi assalti voltò le
spalle e rendessi per vinto; e lasciati stare dall'una delle parti i pensier
santi e l'orazioni e le discipline, a recarsi per la memoria la giovinezza e la
bellezza di costei 'ncominciò, e oltre a questo a pensar che via e che modo
egli dovesse con lei tenere, acciò che essa non s'accorgesse lui come uomo
dissoluto pervenire a quello che egli di lei disiderava. E tentato
primieramente con certe domande, lei non aver mai uomo conosciuto conobbe e
così essere semplice come parea; per che s'avvisò come, sotto spezie di servire
a Dio, lei dovesse recare a' suoi piaceri. E primieramente con molte parole le
mostrò quanto il diavolo fosse nemico di Domeneddio; e appresso le diede ad
intendere che quello servigio che più si poteva far grato a Dio si era
rimettere il diavolo in inferno, nel quale Domeneddio l'aveva dannato. La
giovinetta il domandò, come questo si facesse. Alla quale Rustico disse:
– Tu il saprai tosto, e
perciò farai quello che a me far vedrai –; e cominciossi a spogliare quegli
pochi vestimenti che aveva, e rimase tutto ignudo, e così ancora fece la
fanciulla, e posesi ginocchione a guisa che adorar volesse e dirimpetto a sé
fece star lei.
E così stando, essendo
Rustico più che mai nel suo disidero acceso per lo vederla così bella, venne la
resurrezion della carne, la quale riguardando Alibech e maravigliatasi, disse:
– Rustico, quella che
cosa è che io ti veggio che così si pigne in fuori, e non l'ho io?
– O figliuola mia, –
disse Rustico – questo è il diavolo di che io t'ho parlato. E vedi tu? ora egli
mi dà grandissima molestia, tanta che io appena la posso sofferire.
Allora disse la giovane:
– Oh lodato sia Iddio,
ché io veggio che io sto meglio che non stai tu, ché io non ho cotesto diavolo
io.
Disse Rustico:
– Tu di'vero, ma tu hai
un'altra cosa che non la ho io, e haila in iscambio di questo.
Disse Alibech: – O che?
A cui Rustico disse:
– Hai il ninferno; e
dicoti che io mi credo che Iddio t'abbia qui mandata per la salute della anima
mia, per ciò che se questo diavolo pur mi darà questa noia, ove tu vogli aver
di me tanta pietà e sofferire che io in inferno il rimetta, tu mi darai
grandissima consolazione e a Dio farai grandissimo piacere e servigio, se tu
per quello fare in queste parti venuta sé, che tu di'.
La giovane di buona fede
rispose:
– O padre mio, poscia
che io ho il ninferno, sia pure quando vi piacerà.
Disse allora Rustico:
– Figliuola mia,
benedetta sia tu; andiamo dunque, e rimettiamlovi sì che egli poscia mi lasci
stare.
E così detto, menata la
giovane sopra uno de' loro letticelli, le 'nsegnò come star si dovesse a dovere
incarcerare quel maladetto da Dio.
La giovane, che mai più
non aveva in inferno messo diavolo alcuno, per la prima volta sentì un poco di
noia, per che ella disse a Rustico:
– Per certo, padre mio,
mala cosa dee essere questo diavolo, e veramente nimico di Dio, ché ancora al
ninferno, non che altrui, duole quando egli v'è dentro rimesso.
Disse Rustico:
– Figliuola, egli non
avverrà sempre così.
E per fare che questo
non avvenisse, da sei volte, anzi che di su il letticel si movessero, ve 'l
rimisero, tanto che per quella volta gli trasser sì la superbia del capo, che
egli si stette volentieri in pace.
Ma, ritornatagli poi nel
seguente tempo più volte, e la giovane ubbidiente sempre a trargliele si
disponesse, avvenne che il giuoco le cominciò a piacere, e cominciò a dire a
Rustico:
– Ben veggio che il ver
dicevano que' valentuomini in Capsa, che il servire a Dio era così dolce cosa;
e per certo io non mi ricordo che mai alcuna altra ne facessi che di tanto
diletto e piacer mi fosse, quanto è il rimetter il diavolo in inferno; e per
ciò io giudico ogn'altra persona, che ad altro che a servire a Dio attende,
essere una bestia.
Per la qual cosa essa
spesse volte andava a Rustico, e gli dicea:
– Padre mio, io son qui
venuta per servire a Dio e non per istare oziosa; andiamo a rimettere il
diavolo in inferno.
La qual cosa faccendo,
diceva ella alcuna volta:
– Rustico, io non so
perché il diavolo si fugga del ninferno; ché, s'egli vi stesse così volentieri
come il ninferno il riceve e tiene, egli non se ne uscirebbe mai.
Così adunque invitando
spesso la giovane Rustico e al servigio di Dio confortandolo, sì la bambagia
del farsetto tratta gli avea, che egli a tal ora sentiva freddo che un altro
sarebbe sudato; e per ciò egli incominciò a dire alla giovane che il diavolo
non era da gastigare né da rimettere in inferno se non quando egli per superbia
levasse il capo: – E noi per la grazia di Dio l'abbiamo sì sgannato, che egli
priega Iddio di starsi in pace –; e così alquanto impose di silenzio alla
giovane.
La qual, poi che vide
che Rustico più non la richiedeva a dovere il diavolo rimettere in inferno, gli
disse un giorno:
– Rustico, se il diavolo
tuo è gastigato e più non ti dà noia, me il mio ninferno non lascia stare; per
che tu farai bene che tu col tuo diavolo aiuti attutare la rabbia al mio
ninferno, com'io col mio ninferno ho aiutato a trarre la superbia al tuo
diavolo.
Rustico, che di radici
d'erba e d'acqua vivea, poteva male rispondere alle poste; e dissele che troppi
diavoli vorrebbono essere a potere il ninferno attutare, ma che egli ne farebbe
ciò che per lui si potesse; e così alcuna volta le sodisfaceva, ma sì era di
rado, che altro non era che gittare una fava in bocca al leone; di che la
giovane, non parendole tanto servire a Dio quanto voleva, mormorava anzi che
no.
Ma, mentre che tra il
diavolo di Rustico e il ninferno d'Alibech era, per troppo disiderio e per men
potere, questa quistione, avvenne che un fuoco s'apprese in Capsa, il quale
nella propria casa arse il padre d'Alibech con quanti figliuoli e altra
famiglia avea; per la qual cosa Alibech d'ogni suo bene rimase erede. Laonde un
giovane chiamato Neerbale, avendo in cortesia tutte le sue facultà spese,
sentendo costei esser viva, messosi a cercarla e ritrovatala avanti che la
corte i beni stati del padre, sì come d'uomo senza erede morto, occupasse, con
gran piacere di Rustico e contra al volere di lei la rimenò in Capsa e per
moglie la prese, e con lei insieme del gran patrimonio divenne erede. Ma,
essendo ella domandata dalle donne di che nel diserto servisse a Dio, non
essendo ancor Neerbale giaciuto con lei, rispose che il serviva di rimettere il
diavolo in inferno, e che Neerbale aveva fatto gran peccato d'averla tolta da
così fatto servigio. Le donne domandarono:
- Come si rimette il
diavolo in inferno?
La giovane, tra con
parole e con atti, il mostrò loro. Di che esse fecero sì gran risa che ancor
ridono, e dissono:
– Non ti dar malinconia,
figliuola, no, ché egli si fa bene anche qua; Neerbale ne servirà bene con esso
teco Domeneddio.
Poi l'una all'altra per
la città ridicendolo, vi ridussono in volgar motto che il più piacevol servigio
che a Dio si facesse era il rimettere il diavolo in inferno; il qual motto
passato di qua da mare ancora dura.
E per ciò voi, giovani
donne, alle quali la grazia di Dio bisogna, apparate a rimettere il diavolo in
inferno, per ciò che egli è forte a grado a Dio e piacer delle parti, e molto
bene ne può nascere e seguire.
CONCLUSIONE
Mille fiate o più aveva
la novella di Dioneo a rider mosse l'oneste donne, tali e sì fatte loro parevan
le sue parole. Per che, venuto egli al conchiuder di quella, conoscendo la
reina che il termine della sua signoria era venuto, levatasi la laurea di capo,
quella assai piacevolmente pose sopra la testa a Filostrato, e disse:
– Tosto ci avvedremo se
il lupo saprà meglio guidare le pecore, che le pecore abbiano i lupi guidati.
Filostrato, udendo
questo, disse ridendo:
– Se mi fosse stato
creduto, i lupi avrebbono alle pecore insegnato rimettere il diavolo in
inferno, non peggio che Rustico facesse ad Alibech, e perciò non ne chiamate
lupi, dove voi state pecore non siete; tuttavia, secondo che conceduto mi fia,
io reggerò il regno commesso. A cui Neifile rispose:
– Odi, Filostrato, voi
avreste, volendo a noi insegnare, potuto apparar senno, come apparò Masetto da
Lamporecchio dalle monache e riavere la favella a tale ora che l'ossa senza
maestro avrebbono apparato a sufolare. Filostrato, conoscendo che falci si
trovavano non meno che egli avesse strali, lasciato stare il motteggiare, a
darsi al governo del regno commesso cominciò. E, fattosi il siniscalco
chiamare, a che punto le cose fossero tutte volle sentire; e oltre a questo,
secondo che avviso che bene stesse e che dovesse sodisfare alla compagnia, per
quanto la sua signoria dovea durare, discretamente ordinò; e quindi alle donne
rivolto, disse:
– Amorose donne, per la
mia disavventura, poscia che io ben da mal conobbi, sempre per la bellezza
d'alcuna di voi stato sono ad Amor suggetto, né l'essere umile né l'essere
ubbidiente né il seguirlo in ciò che per me s'è conosciuto alla seconda in
tutti i suoi costumi, m'è valuto, ch'io prima per altro abbandonato e poi non
sia sempre di male in peggio andato, e così credo che io andrò di qui alla
morte; e per ciò non d'altra materia domane mi piace che si ragioni se non di
quella che a' miei fatti è più conforme, cioè di coloro li cui amori ebbero
infelice fine, per ciò che io a lungo andar l'aspetto infelicissimo, né per
altro il nome, per lo quale voi mi chiamate, da tale che seppe ben che si dire
mi fu imposto – e così detto, in piè levatosi, per infino all'ora della cena
licenziò ciascuno. Era sì bello il giardino e sì dilettevole, che alcuno non vi
fu che eleggesse di quello uscire per più piacere altrove dover sentire. Anzi,
non faccendo il sol già tiepido alcuna noia a seguire, i cavriuoli e i conigli
e gli altri animali che erano per quello e che a lor sedenti forse cento volte
per mezzo lor saltando eran venuti a dar noia, si dierono alcune a seguitare.
Dioneo e la Fiammetta cominciarono a cantare di Messer Guiglielmo e della Dama
del Vergiù; Filomena e Panfilo si diedono a giucare a scacchi; e così chi una
cosa e chi altra faccendo, fuggendosi il tempo, l'ora della cena appena
aspettata sopravvenne; per che, messe le tavole d'intorno alla bella fonte,
quivi con grandissimo diletto cenaron la sera. Filostrato, per non uscir del
camin tenuto da quelle che reine avanti a lui erano state, come levate furono
le tavole, così comandò che la Lauretta una danza prendesse e dicesse una
canzone. La qual disse:
– Signor mio, delle
altrui canzoni io non so, né delle mie alcuna n'ho alla mente che sia assai
convenevole a così lieta brigata; se voi di quelle che io ho volete, io ne dirò
volentieri.
Alla quale il re disse:
– Niuna tua cosa
potrebbe essere altro che bella e piacevole; e per ciò tale qual tu l'hai,
cotale la di'.
Lauretta allora con voce
assai soave, ma con maniera alquanto pietosa, rispondendo l'altre, cominciò
così:
Niuna sconsolata
da dolersi ha quant'io,
che 'nvan sospiro,
lassa!, innamorata
Colui che muove il cielo
e ogni stella,
mi fece a suo diletto
vaga, leggiadra,
graziosa e bella,
per dar qua giù ad
ogn'alto intelletto
alcun segno di quella
biltà, che sempre a lui
sta nel cospetto:
e il mortal difetto,
come mal conosciuta,
non m'aggradisce, anzi
m'ha dispregiata.
Già fu chi m'ebbe cara,
e volentieri
giovinetta mi prese
nelle sue braccia e
dentro a' suoi pensieri
e de' miei occhi tututto
s'accese;
e 'l tempo, che leggieri
sen vola, tutto in
vagheggiarmi spese;
e io, come cortese,
di me il feci degno;
ma or ne son, dolente a
me!, privata.
Femmisi innanzi poi
presuntuoso
un giovinetto fiero,
sé nobil reputando e
valoroso,
e presa tienmi, e con
falso pensiero
divenuto è geloso;
laond'io, lassa!, quasi
mi dispero,
cognoscendo per vero,
per ben di molti al
mondo
venuta, da uno essere
occupata.
Io maladico la mia
isventura,
quando, per mutar vesta,
sì dissi mai; sì bella
nella oscura
mi vidi già e lieta,
dove in questa
io meno vita dura,
vie men che prima
reputata onesta
O dolorosa festa,
morta foss'io avanti
che io t'avessi in tal
caso provata!
O caro amante, del qual
prima fui
più che altra contenta,
che or nel ciel
sédavanti a Colui
che ne creò, deh pietoso
diventa
di me, che per altrui
te obliar non posso; fa
ch'io senta
che quella fiamma spenta
non sia, che per me
t'arse,
e costà su m'impetra la
tornata.
Qui fece fine la
Lauretta alla sua canzone, la quale notata da tutti, diversamente da diversi fu
intesa; ed ebbevi di quegli che intender vollono alla melanese, che fosse
meglio un buon porco che una bella tosa. Altri furono di più sublime e migliore
e più vero intelletto, del quale al presente recitare non accade.
Il re, dopo questa, su
l'erba e 'n su'fiori avendo fatti molti doppieri accendere, ne fece più altre
cantare infin che già ogni stella a cader cominciò che salia. Per che, ora parendogli
da dormire, comandò che con la buona notte ciascuno alla sua camera si
tornasse.
Finisce la terza
giornata del Decameron.
Incomincia la quarta
giornata nella quale, sotto il reggimento di Filostrato, si ragiona di coloro
li cui amori ebbero infelice fine.
GIORNATA QUARTA
INTRODUZIONE
Carissime donne, sì per
le parole de' savi uomini udite e sì per le cose da me molte volte e vedute e
lette, estimava io che lo 'mpetuoso vento e ardente della invidia non dovesse
percuotere se non l'alte torri o le più levate cime degli alberi; ma io mi
truovo dalla mia estimazione ingannato. Per ciò che, fuggendo io e sempre
essendomi di fuggire ingegnato il fiero impeto di questo rabbioso spirito, non
solamente pe' piani, ma ancora per le profondissime valli tacito e nascoso mi
sono ingegnato d'andare. Il che assai manifesto può apparire a chi le presenti
novellette riguarda, le quali, non solamente in fiorentin volgare e in prosa
scritte per me sono e senza titolo, ma ancora in istilo umilissimo e rimesso
quanto il più possono. Né per tutto ciò l'essere da cotal vento fieramente
scrollato, anzi presso che diradicato e tutto da' morsi della invidia esser
lacerato, non ho potuto cessare. Per che assai manifestamente posso comprendere
quel lo esser vero che sogliono i savi dire, che sola la miseria è senza
invidia nelle cose presenti.
Sono adunque, discrete
donne, stati alcuni che, queste novellette leggendo, hanno detto che voi mi
piacete troppo e che onesta cosa non è che io tanto diletto prenda di piacervi
e di consolarvi, e alcuni han detto peggio, di commendarvi, come io fo. Altri,
più maturamente mostrando di voler dire, hanno detto che alla mia età non sta
bene l'andare omai dietro a queste cose, cioè a ragionar di donne o a compiacer
loro. E molti, molto teneri della mia fama mostrandosi, dicono che io farei più
saviamente a starmi con le Muse in Parnaso che con queste ciance mescolarmi tra
voi.
E son di quegli ancora
che, più dispettosamente che saviamente parlando, hanno detto che io farei più
discretamente a pensare dond'io dovessi aver del pane che dietro a queste
frasche andarmi pascendo di vento. E certi altri in altra guisa essere state le
cose da me raccontate che come io le vi porgo, s'ingegnano, in detrimento della
mia fatica, di dimostrare.
Adunque da cotanti e da
così fatti soffiamenti, da così atroci denti, da così aguti, valorose donne,
mentre io ne' vostri servigi milito, sono sospinto, molestato e infino nel vivo
trafitto. Le quali cose io con piacevole animo, sallo Iddio, ascolto e intendo;
e quantunque a voi in ciò tutta appartenga la mia difesa, nondimeno io non
intendo di risparmiar le mie forze; anzi, senza rispondere quanto si
converrebbe, con alcuna leggiera risposta tormegli dagli orecchi, e questo far
senza indugio. Per ciò che, se già, non essendo io ancora al terzo della lo mia
fatica venuto, essi sono molti e molto presummono, io avviso che avanti che io
pervenissi alla fine essi potrebbono in guisa esser multiplicati, non avendo
prima avuta alcuna repulsa, che con ogni piccola lor fatica mi metterebbono in
fondo, né a ciò, quantunque elle sien grandi, resistere varrebbero le forze
vostre.
Ma avanti che io venga a
far la risposta ad alcuno, mi piace in favor di me raccontare non una novella
intera (acciò che non paia che io voglia le mie novelle con quelle di così
laudevole compagnia, qual fu quella che dimostrata v'ho, mescolare), ma parte
d'una, acciò che il suo difetto stesso sè mostri non esser di quelle; e a' miei
assalitori favellando, dico che nella nostra città, già è buon tempo passato,
fu un cittadino, il qual fu nominato Filippo Balducci, uomo di condizione assai
leggiere, ma ricco e bene inviato ed esperto nelle cose quanto lo stato suo
richiedea; e aveva una sua donna moglie, la quale egli sommamente amava, ed
ella lui, e insieme in riposata vita si stavano, a niun'altra cosa tanto studio
ponendo quanto in piacere interamente l'uno all'altro. Ora avvenne, sì come di
tutti avviene, che la buona donna passò di questa vita, né altro di sè a
Filippo lasciò che un solo figliuolo di lui conceputo, il quale forse d'età di
due anni era.
Costui per la morte
della sua donna tanto sconsolato rimase, quanto mai alcuno altro amata cosa
perdendo rimanesse. E veggendosi di quella compagnia la quale egli più amava
rimaso solo, del tutto si dispose di non volere più essere al mondo, ma di
darsi al servigio di Dio, e il simigliante fare del suo piccol figliuolo. Per
che, data ogni sua cosa per Dio, senza indugio se n'andò sopra Monte Asinaio, e
quivi in una piccola celletta si mise col suo figliuolo, col quale di limosine
in digiuni e in orazioni vivendo, sommamente si guardava di non ragionare là
dove egli fosse d'alcuna temporal cosa né di lasciarnegli alcuna vedere, acciò
che esse da così fatto servigio nol traessero, ma sempre della gloria di vita
etterna e di Dio e de' santi gli ragionava, nulla altro che sante orazioni
insegnandoli; e in questa vita molti anni il tenne, mai della cella non
lasciandolo uscire, né alcuna altra cosa che sè dimostrandogli.
Era usato il valente
uomo di venire alcuna volta a Firenze, e quivi secondo le sue opportunità dagli
amici di Dio sovvenuto, alla sua cella tornava.
Ora avvenne che, essendo
già il garzone d'età di diciotto anni e Filippo vecchio, un dì il domandò
ov'egli andava. Filippo gliele disse. Al quale il garzon disse:
– Padre mio, voi siete
oggimai vecchio e potete male durare fatica; perché non mi menate voi una volta
a Firenze, acciò che, faccendomi cognoscere gli amici e divoti di Dio e vostri,
io che son giovane e posso meglio faticar di voi, possa poscia pe' nostri
bisogni a Firenze andare quando vi piacerà, e voi rimanervi qui?
Il valente uomo,
pensando che già questo suo figliuolo era grande, ed era sì abituato al
servigio di Dio che malagevolmente le cose del mondo a sè il dovrebbono omai
poter trarre, seco stesso disse: – Costui dice bene – Per che, avendovi ad
andare, seco il menò. Quivi il giovane veggendo i palagi, le case, le chiese e
tutte l'altre cose delle quali tutta la città piena si vede, sì come colui che
mai più per ricordanza vedute non n'avea, si cominciò forte a maravigliare, e
di molte domandava il padre che fossero e come si chiamassero.
Il padre gliele diceva;
ed egli, avendolo udito, rimaneva contento e domandava d'una altra. E così
domandando il figliuolo e il padre rispondendo, per avventura si scontrarono in
una brigata di belle giovani donne e ornate, che da un paio di nozze venieno; le
quali come il giovane vide, così domandò il padre che cosa quelle fossero. A
cui il padre disse:
– Figliuol mio, bassa
gli occhi in terra, non le guatare, ch'elle son mala cosa.
Disse allora il
figliuolo:
– O come si chiamano?
Il padre, per non
destare nel concupiscibile appetito del giovane alcuno inchinevole disiderio
men che utile, non le volle nominare per lo proprio nome, cioè femine, ma
disse:
– Elle si chiamano
papere.
Maravigliosa cosa a
udire! Colui che mai più alcuna veduta non n'avea, non curatosi de' palagi, non
del bue, non del cavallo, non dell'asino, non de' danari né d'altra cosa che
veduta avesse, subitamente disse:
– Padre mio, io vi
priego che voi facciate che io abbia una di quelle papere.
– Ohimè, figliuol mio, –
disse il padre – taci: elle son mala cosa.
A cui il giovane
domandando disse:
– O son così fatte le
male cose?
– Sì – disse il padre.
Ed egli allora disse:
– Io non so che voi vi
dite, né perché queste siano mala cosa; quanto è a me, non m'è ancora paruta
vedere alcuna così bella né così piacevole, come queste sono. Elle son più
belle che gli agnoli dipinti che voi m'avete più volte mostrati. Deh! se vi cal
di me, fate che noi ce ne meniamo una colà su di queste papere, e io le darò
beccare. Disse il padre:
– Io non voglio; tu non
sai donde elle s'imbeccano –: e sentì incontanente più aver di forza la natura
che il suo ingegno; e pentessi d'averlo menato a Firenze. Ma avere infino a qui
detto della presente novella voglio che mi basti, e a coloro rivolgermi alli
quali l'ho raccontata. Dicono adunque alquanti de' miei riprensori che io fo
male, o giovani donne, troppo ingegnandomi di piacervi, e che voi troppo
piacete a me. Le quali cose io apertissimamente confesso, cioè che voi mi
piacete e che io m'ingegno di piacere a voi; e domandogli se di questo essi si
maravigliano, riguardando, lasciamo stare l'aver conosciuti gli amorosi baciari
e i piacevoli abbracciari e i congiugnimenti dilettevoli che di voi, dolcissime
donne, sovente si prendono; ma solamente ad aver veduto e veder continuamente
gli ornati costumi e la vaga bellezza e l'ornata leggiadria e oltre a ciò la
vostra donnesca onestà, quando colui che nutrito, allevato, accresciuto sopra
un monte salvatico e solitario, infra li termini di una piccola cella, senza
altra compagnia che del padre, come vi vide, sole da lui disiderate foste, sole
addomandate, sole con l'affezion seguitate.
Riprenderannomi,
morderannomi, lacerrannomi costoro se io, il corpo del quale il ciel produsse
tutto atto ad amarvi, e io dalla mia puerizia l'anima vi disposi sentendo la
virtù della luce degli occhi vostri, la soavità delle parole melliflue e la
fiamma accesa da' pietosi sospiri, se voi mi piacete o se io di piacervi
m'ingegno, e spezialmente guardando che voi prima che altro piaceste ad un
romitello, ad un giovinetto senza sentimento, anzi ad uno animal salvatico? Per
certo chi non v'ama, e da voi non disidera d'essere amato, sì come persona che
i piaceri né la virtù della naturale affezione né sente né conosce, così mi
ripiglia, e io poco me ne curo.
E quegli che contro alla
mia età parlando vanno, mostra mal che conoscano che, perché il porro abbia il
capo bianco, che la coda sia verde. A'quali lasciando stare il motteggiare
dall'un de' lati, rispondo che io mai a me vergogna non reputerò infino nello
estremo della mia vita di dover compiacere a quelle cose alle quali Guido
Cavalcanti e Dante Alighieri già vecchi, e messer Cino da Pistoia vecchissimo,
onor si tennono e fu lor caro il piacer loro. E se non fosse che uscir sarebbe
del modo usato del ragionare, io producerei le istorie in mezzo, e quelle tutte
piene mosterrei d'antichi uomini e valorosi, ne' loro più maturi anni
sommamente avere studiato di compiacere alle donne: il che se essi non sanno,
vadino e sì l'apparino.
Che io con le Muse in
Parnaso mi debbia stare, affermo che è buon consiglio, ma tuttavia né noi
possiam dimorare con le Muse né esse con esso noi; se quando avviene che l'uomo
da lor si parte, dilettarsi di veder cosa che le somigli, questo non è cosa da
biasimare. Le Muse son donne, e benché le donne quello che le Muse vagliono non
vagliano, pure esse hanno nel primo aspetto simiglianza di quelle; sì che,
quando per altro non mi piacessero, per quello mi dovrebber piacere. Senza che le
donne già mi fur cagione di comporre mille versi, dove le Muse mai non mi furon
di farne alcun cagione. Aiutaronmi elle bene e mostraronmi comporre que' mille;
e forse a queste cose scrivere, quantunque sieno umilissime, si sono elle
venute parecchie volte a starsi meco, in servigio forse e in onore della
simiglianza che le donne hanno ad esse; per che, queste cose tessendo, né dal
monte Parnaso né dalle Muse non mi allontano, quanto molti per avventura
s'avvisano.
Ma che direm noi a
coloro che della mia fame hanno tanta compassione che mi consigliano che io
procuri del pane? Certo io non so; se non che, volendo meco pensare qual
sarebbe la loro risposta se io per bisogno loro ne dimandassi, m'avviso che
direbbono: – Va cercane tra le favole –. E già più ne trovarono tra le lor
favole i poeti, che molti ricchi tra' lor tesori. E assai già, dietro alle lor
favole andando, fecero la loro età fiorire, dove in contrario molti nel cercar
d'aver più pane che bisogno non era loro, perirono acerbi. Che più? Caccinmi
via questi cotali qualora io ne domando loro; non che, la Dio mercé, ancora non
mi bisogna; e, quando pur sopravenisse il bisogno, io so, secondo l'Apostolo,
abbondare e necessità sofferire; e per ciò a niun caglia più di me che a me.
Quegli che queste cose così non essere state dicono, avrei molto caro che essi
recassero gli originali, li quali, se a quel che io scrivo discordanti fossero,
giusta direi la loro riprensione e d'amendar me stesso m'ingegnerei; ma infino
che altro che parole non apparisce, io gli lascerò con la loro oppinione,
seguitando la mia, di loro dicendo quello che essi di me dicono.
E volendo per questa
volta assai aver risposto, dico che dallo aiuto di Dio e dal vostro,
gentilissime donne, nel quale io spero, armato, e di buona pazienza, con esso
procederò avanti, dando le spalle a questo vento e lasciandol soffiare; per ciò
che io non veggio che di me altro possa avvenire, che quello che della minuta
polvere avviene, la quale, spirante turbo, o egli di terra non la muove, o se
la muove, la porta in alto, e spesse volte sopra le teste degli uomini, sopra
le corone dei re e degli imperadori, e talvolta sopra gli alti palagi e sopra
le eccelse torri la lascia; delle quali se ella cade, più giù andar non può che
il luogo onde levata fu.
E se mai con tutta la
mia forza a dovervi in cosa alcuna compiacere mi disposi, ora più che mai mi vi
disporrò; per ciò che io conosco che altra cosa dir non potrà alcuna con
ragione, se non che gli altri e io, che vi amiamo, naturalmente operiamo. Alle cui
leggi, cioè della natura, voler contastare, troppe gran forze bisognano, e
spesse volte non solamente in vano ma con grandissimo danno del faticante
s'adoperano. Le quali forze io confesso che io non l'ho né d'averle disidero in
questo; e se io l'avessi, più tosto ad altrui le presterrei che io per me
l'adoperassi. Per che tacciansi i morditori, e se essi riscaldar non si
possono, assiderati si vivano, e ne lori diletti, anzi appetiti corrotti
standosi, me nel mio, questa brieve vita che posta n'è, lascino stare. Ma da
ritornare è, per ciò che assai vagati siamo, o belle donne, là onde ci
dipartimmo, e l'ordine cominciato seguire.
Cacciata aveva il sole
del cielo già ogni stella e della terra l'umida ombra della notte, quando
Filostrato, levatosi, tutta la sua brigata fece levare; e nel bel giardino
andatisene, quivi s'incominciarono a diportare; e l'ora del mangiar venuta,
quivi desinarono dove la passata sera cenato aveano. E da dormire, essendo il
sole nella sua maggior sommità, levati, nella maniera usata vicini alla bella
fonte si posero a sedere. Là dove Filostrato alla Fiammetta comandò che
principio desse alle novelle; la quale, senza più aspettare che detto le fosse,
donnescamente così cominciò.
NOVELLA PRIMA
Tancredi prenze di
Salerno uccide l'amante della figliuola e mandale il cuore in una coppa d'oro;
la quale, messa sopr'esso acqua avvelenata, quella si bee, e così muore.
Fiera materia di
ragionare n'ha oggi il nostro re data, pensando che, dove per rallegrarci
venuti siamo, ci convenga raccontare l'altrui lagrime, le quali dir non si
possono, che chi le dice e chi l'ode non abbia compassione. Forse per temperare
alquanto la letizia avuta li giorni passati l'ha fatto; ma, che che se l'abbia
mosso, poi che a me non si conviene di mutare il suo piacere, un pietoso
accidente, anzi sventurato e degno delle nostre lagrime, racconterò.
Tancredi principe di
Salerno fu signore assai umano e di benigno ingegno; se egli nello amoroso
sangue nella sua vecchiezza non s'avesse le mani bruttate; il quale in tutto lo
spazio della sua vita non ebbe che una figliuola, e più felice sarebbe stato se
quella avuta non avesse. Costei fu dal padre tanto teneramente amata, quanto
alcuna altra figliuola da padre fosse giammai; e per questo tenero amore,
avendo ella di molti anni avanzata l'età del dovere avere avuto marito, non
sappiendola da sè partire, non la maritava; poi alla fine ad un figliuolo del
duca di Capova datala, poco tempo dimorata con lui, rimase vedova e al padre
tornossi. Era costei bellissima del corpo e del viso quanto alcun'altra femina
fosse mai, e giovane e gagliarda e savia più che a donna per avventura non si
richiedea. E dimorando col tenero padre, sì come gran donna, in molte
dilicatezze, e veggendo che il padre, per l'amor che egli le portava, poca cura
si dava di più maritarla, né a lei onesta cosa pareva il richiedernelo, si
pensò di volere avere, se esser potesse, occultamente un valoroso amante.
E veggendo molti uomini
nella corte del padre usare, gentili e altri, sì come noi veggiamo nelle corti,
e considerate le maniere e i costumi di molti, tra gli altri un giovane
valletto del padre, il cui nome era Guiscardo, uom di nazione assai umile ma
per virtù e per costumi nobile, più che altro le piacque, e di lui tacitamente,
spesso vedendolo, fieramente s'accese, ogn'ora più lodando i modi suoi. E il
giovane, il quale ancora non era poco avveduto, essendosi di lei accorto,
l'aveva per sì fatta maniera nel cuore ricevuta, che da ogni altra cosa quasi
che da amar lei aveva la mente rimossa. In cotal guisa adunque amando l'un
l'altro segretamente, niuna altra cosa tanto disiderando la giovane quanto di
ritrovarsi con lui, né volendosi di questo amore in alcuna persona fidare, a
dovergli significare il modo seco pensò una nuova malizia. Essa scrisse una
lettera, e in quella ciò che a fare il dì seguente avesse per esser con lei gli
mostrò; e poi quella messa in un bucciuol di canna, sollazzando la diede a
Guiscardo, dicendo:
– Fara'ne questa sera un
soffione alla tua servente, col quale ella raccenda il fuoco.
Guiscardo il prese, e
avvisando costei non senza cagione dovergliele aver donato e così detto,
partitosi, con esso se ne tornò alla sua casa, e guardando la canna e quella
veggendo fessa, l'aperse, e dentro trovata la lettera di lei e lettala, e ben
compreso ciò che a fare avea, il più contento uom fu che fosse giammai, e
diedesi a dare opera di dovere a lei andare, secondo il modo da lei
dimostratogli. Era allato al palagio del prenze una grotta cavata nel monte, di
lunghissimi tempi davanti fatta, nella qual grotta dava alquanto lume uno
spiraglio fatto per forza nel monte, il quale, per ciò che abbandonata era la
grotta, quasi da pruni e da erbe di sopra natevi era riturato; e in questa
grotta per una segreta scala, la quale era in una delle camere terrene del
palagio, la quale la donna teneva, si poteva andare, come che da un fortissimo
uscio serrata fosse. Ed era sì fuori delle menti di tutti questa scala, per ciò
che di grandissimi tempi davanti usata non s'era, che quasi niuno che ella vi
fosse si ricordava; ma Amore, agli occhi del quale niuna cosa è sì segreta che
non pervenga, l'aveva nella memoria tornata alla innamorata donna.
La quale, acciò che
niuno di ciò accorger si potesse, molti dì con suoi ingegni penato avea, anzi
che venir fatto le potesse d'aprir quell'uscio; il quale aperto, e sola nella
grotta discesa e lo spiraglio veduto, per quello aveva a Guiscardo mandato a
dire che di venire s'ingegnasse, avendogli disegnata l'altezza che da quello
infino in terra esser poteva. Alla qual cosa fornire Guiscardo, prestamente
ordinata una fune con certi nodi e cappi da potere scendere e salire per essa,
e sè vestito d'un cuoio che da' pruni il difendesse, senza farne alcuna cosa
sentire ad alcuno, la seguente notte allo spiraglio n'andò, e accomandato ben
l'uno de' capi della fune ad un forte bronco che nella bocca dello spiraglio
era nato, per quello si collò nella grotta ed attese la donna. La quale il
seguente dì, faccendo sembianti di voler dormire, mandate via le sue damigelle
e sola serratasi nella camera, aperto l'uscio, nella grotta discese, dove
trovato Guiscardo, insieme maravigliosa festa si fecero; e nella sua camera
insieme venutine, con grandissimo piacere gran parte di quel giorno si
dimorarono; e, dato discreto ordine alli loro amori acciò che segreti fossero,
tornatosi nella grotta Guiscardo ed ella serrato l'uscio, alle sue damigelle se
ne venne fuori.
Guiscardo poi, la notte
vegnente su per la sua fune salendo, per lo spiraglio donde era entrato se
n'uscì fuori e tornossi a casa. E avendo questo cammino appreso, più volte poi
in processo di tempo vi ritornò. Ma la fortuna, invidiosa di così lungo e di
così gran diletto, con doloroso avvenimento la letizia dei due amanti rivolse
in tristo pianto.
Era usato Tancredi di
venirsene alcuna volta tutto solo nella camera della figliuola, e quivi con lei
dimorarsi e ragionare alquanto, e poi partirsi. Il quale un giorno dietro
mangiare laggiù venutone essendo la donna, la quale Ghismonda aveva nome, in un
suo giardino con tutte le sue damigelle, in quella, senza essere stato da
alcuno veduto o sentito, entratosene, non volendo lei torre dal suo diletto,
trovando le finestre della camera chiuse e le cortine del letto abbattute, a
piè di quello in un canto sopra un carello si pose a sedere; e appoggiato il
capo al letto e tirata sopra sè la cortina quasi come se studiosamente si fosse
nascoso quivi, s'addormentò.
E così dormendo egli,
Ghismonda, che per isventura quel dì fatto aveva venir Guiscardo, lasciate le
sue damigelle nel giardino, pianamente se n'entrò nella camera, e quella
serrata, senza accorgersi che alcuna persona vi fosse, aperto l'uscio a
Guiscardo che l'attendeva e andatisene in su 'l letto, sì come usati erano, e
insieme scherzando e sollazzandosi, avvenne che Tancredi si svegliò e sentì e
vide ciò che Guiscardo e la figliuola facevano; e dolente di ciò oltre modo,
prima gli volle sgridare, poi prese partito di tacersi e di starsi nascoso, se
egli potesse, per potere più cautamente fare e con minore sua vergogna quello
che già gli era caduto nell'animo di dover fare.
I due amanti stettero
per lungo spazio insieme, sì come usati erano, senza accorgersi di Tancredi; e
quando tempo lor parve, discesi del letto, Guiscardo se ne tornò nella grotta
ed ella s'uscì della camera. Della quale Tancredi, ancora che vecchio fosse, da
una finestra di quella si calò nel giardino, e senza essere da alcuno veduto,
dolente a morte, alla sua camera si tornò.
E per ordine da lui
dato, all'uscir dello spiraglio la seguente notte in su 'l primo sonno,
Guiscardo, così come era nel vestimento del cuoio impacciato, fu preso da due,
e segretamente a Tancredi menato. Il quale, come il vide, quasi piagnendo
disse:
– Guiscardo, la mia
benignità verso te non avea meritato l'oltraggio e la vergogna la quale nelle
mie cose fatta m'hai, sì come io oggi vidi con gli occhi miei.
Al quale Guiscardo niuna
altra cosa disse se non questo:
– Amor può troppo più
che né voi né io possiamo.
Comandò adunque Tancredi
che egli chetamente in alcuna camera di là entro guardato fosse, e così fu
fatto. Venuto il dì seguente, non sappiendo Ghismonda nulla di queste cose,
avendo seco Tancredi varie e diverse novità pensate, appresso mangiare, secondo
la sua usanza, nella camera n'andò della figliuola, dove fattalasi chiamare e
serratosi dentro con lei, piagnendo le cominciò a dire:
– Ghismonda, parendomi
conoscere la tua virtù e la tua onestà, mai non mi sarebbe potuto cader
nell'animo, quantunque mi fosse stato detto, se io co' miei occhi non lo avessi
veduto, che tu di sottoporti ad alcuno uomo, se tuo marito stato non fosse,
avessi, non che fatto, ma pur pensato; di che io in questo poco di rimanente di
vita che la mia vecchiezza mi serba sempre sarò dolente, di ciò ricordandomi.
E or volesse Iddio che,
poi che a tanta disonestà conducere ti dovevi avessi preso uomo che alla tua
nobiltà decevole fosse stato; ma tra tanti che nella mia corte n'usano,
eleggesti Guiscardo, giovane di vilissima condizione, nella nostra corte quasi
come per Dio da picciol fanciullo infino a questo dì allevato; di che tu in
grandissimo affanno d'animo messo m'hai, non sappiendo io che partito di te mi
pigliare. Di Guiscardo, il quale io feci stanotte prendere quando dello
spiraglio usciva, e hollo in prigione, ho io già meco preso partito che farne;
ma di te, sallo Iddio che io non so che farmi. Dall'una parte mi trae l'amore,
il quale io t'ho sempre più portato che alcun padre portasse a figliuola, e
d'altra mi trae giustissimo sdegno, preso per la tua gran follia; quegli vuole
che io ti perdoni, e questi vuole che contro a mia natura in te incrudelisca;
ma prima che io partito prenda, disidero d'udire quello che tu a questo dei
dire. – E questo detto bassò il viso, piagnendo sì forte come farebbe un
fanciul ben battuto.
Ghismonda, udendo il
padre e conoscendo non solamente il suo segreto amore esser discoperto, ma
ancora esser preso Guiscardo, dolore inestimabile sentì, e a mostrarlo con
romore e con lagrime, come il più le femine fanno, fu assai volte vicina; ma
pur, questa viltà vincendo il suo animo altiero, il viso suo con maravigliosa
forza fermò, e seco, avanti che a dovere alcun priego per sè porgere, di più non
stare in vita dispose, avvisando già esser morto il suo Guiscardo.
Per che, non come
dolente femina o ripresa del suo fallo, ma come non curante e valorosa, con
asciutto viso e aperto e da niuna parte turbato, così al padre disse:
– Tancredi, né a negare
né a pregare son disposta, per ciò che né l'un mi varrebbe né l'altro voglio
che mi vaglia; e oltre a ciò in niuno atto intendo di rendermi benivola la tua
mansuetudine e 'l tuo amore; ma, il ver confessando, prima con vere ragioni
difender la fama mia e poi con fatti fortissimamente seguire la grandezza dello
animo mio. Egli è il vero che io ho amato e amo Guiscardo, e quanto io viverò,
che sarà poco, l'amerò; e se appresso la morte s'ama, non mi rimarrò d'amarlo;
ma a questo non mi indusse tanto la mia feminile fragilità, quanto la tua poca
sollecitudine del maritarmi e la virtù di lui. Esser ti dovea, Tancredi,
manifesto, essendo tu di carne, aver generata figliuola di carne e non di
pietra o di ferro; e ricordarti dovevi e dei, quantunque tu ora sia vecchio,
chenti e quali e con che forza vengano le leggi della giovanezza; e, come che
tu uomo in parte ne' tuoi migliori anni nell'armi esercitato ti sii, non dovevi
di meno conoscere quello che gli ozi e le dilicatezze possano ne' vecchi non
che ne' giovani. Sono adunque, sì come da te generata, di carne, e sì poco
vivuta, che ancor son giovane; e per l'una cosa e per l'altra piena di
concupiscibile disidero, al quale maravigliosissime forze hanno date l'aver
già, per essere stata maritata, conosciuto qual piacer sia a così fatto
disidero dar compimento. Alle quali forze non potendo io resistere, a seguir
quello a che elle mi tiravano, sì come giovane e femina, mi disposi e
innamora'mi. E certo in questo opposi ogni mia virtù di non volere né a te né a
me di quello a che natural peccato mi tirava, in quanto per me si potesse
operare, vergogna fare. Alla qual cosa e pietoso Amore e benigna Fortuna assai
occulta via m'avean trovata e mostrata, per la quale, senza sentirlo alcuno, io
a' miei disideri perveniva; e questo, chi che ti se l'abbi mostrato o come che
tu il sappi, io nol nego. Guiscardo non per accidente tolsi, come molte fanno,
ma con diliberato consiglio elessi innanzi ad ogn'altro, e con avveduto
pensiero a me lo'ntrodussi, e con savia perseveranza di me e di lui lungamente
goduta sono del mio disio. Di che egli pare, oltre allo amorosamente aver
peccato, che tu, più la volgare oppinione che la verità seguitando, con più
amaritudine mi riprenda, dicendo (quasi turbato esser non ti dovessi, se io
nobile uomo avessi a questo eletto) che io con uom di bassa condizione mi son
posta. In che non ti accorgi che non il mio peccato ma quello della Fortuna
riprendi, la quale assai sovente li non degni ad alto leva, a basso lasciando i
dignissimi. Ma lasciamo or questo, e riguarda alquanto a' principii delle cose:
tu vedrai noi d'una massa di carne tutti la carne avere, e da uno medesimo
creatore tutte l'anime con iguali forze, con iguali potenzie, con iguali virtù
create. La virtù primieramente noi, che tutti nascemmo e nasciamo iguali, ne
distinse; e quegli che di lei maggior parte avevano e adoperavano nobili furon
detti, e il rimanente rimase non nobile. E benché contraria usanza poi abbia
questa legge nascosa, ella non è ancor tolta via né guasta dalla natura né da'
buon costumi; e per ciò colui che virtuosamente adopera apertamente si mostra
gentile, e chi altramenti il chiama, non colui che è chiamato ma colui che
chiama, commette difetto. Raguarda tra tutti i tuoi nobili uomini ed esamina la
lor virtù, i lor costumi e le loro maniere, e d'altra parte quelle di Guiscardo
raguarda: se tu vorrai senza animosità giudicare, tu dirai lui nobilissimo e
questi tuoi nobili tutti esser villani. Delle virtù e del valore di Guiscardo
io non credetti al giudicio d'alcuna altra persona che a quello delle tue
parole e de' miei occhi. Chi il commendò mai tanto, quanto tu 'l commendavi in
tutte quelle cose laudevoli che valoroso uomo dee essere commendato? E certo
non a torto; ché se i miei occhi non m'ingannarono, niuna laude da te data gli
fu, che io lui operarla, e più mirabilmente che le tue parole non potevano
esprimere, non vedessi; e se pure in ciò alcuno inganno ricevuto avessi, da te
sarei stata ingannata. Dirai dunque che io con uomo di bassa condizione mi sia
posta? Tu non dirai il vero; ma per avventura, se tu dicessi con povero, con
tua vergogna si potrebbe concedere, che così hai saputo un valente uomo tuo
servidore mettere in buono stato; ma la povertà non toglie gentilezza ad
alcuno, ma sì avere. Molti re, molti gran principi furon già poveri; e molti di
quegli che la terra zappano e guardan le pecore già ricchissimi furono e sonne.
L'ultimo dubbio che tu movevi, cioè che di me far ti dovessi, caccial del tutto
via. Se tu nella tua estrema vecchiezza a far quello che giovane non usasti,
cioè ad incrudelir, sédisposto, usa in me la tua crudeltà, la quale ad alcun
priego porgerti disposta non sono, sì come in prima cagion di questo peccato,
se peccato è; per ciò che io t'accerto che quello che di Guiscardo fatto avrai
o farai, se di me non fai il simigliante, le mie mani medesime il faranno. Or
via, va con le femine a spander le tue lagrime, e incrudelendo con un medesimo
colpo altrui e me, se così ti par che meritato abbiamo, uccidi.
Conobbe il prenze la
grandezza dell'animo della sua figliuola; ma non credette per ciò in tutto lei
sì fortemente disposta a quello che le parole sue sonavano, come diceva. Per
che, da lei partitosi e da sè rimosso di volere in alcuna cosa nella persona di
lei incrudelire, pensò con gli altrui danni raffreddare il suo fervente amore,
e comandò a' due che Guiscardo guardavano che senza alcun romore lui la
seguente notte strangolassono, e, trattogli il cuore, a lui il recassero; li
quali, così come loro era stato comandato, così operarono.
Laonde, venuto il dì
seguente, fattasi il prenze venire una grande e bella coppa d'oro e messo in
quella il cuor di Guiscardo, per un suo segretissimo famigliare il mandò alla
figliuola e imposegli che, quando gliele desse, dicesse: – Il tuo padre ti manda
questo, per consolarti di quella cosa che tu più ami, come tu hai lui consolato
di ciò che egli più amava.
Ghismonda, non smossa
dal suo fiero proponimento, fattesi venire erbe e radici velenose, poi che
partito fu il padre, quelle stillò e in acqua ridusse, per presta averla se
quello di che elle temeva avvenisse. Alla quale venuto il famigliare e col
presente e con le parole del prenze, con forte viso la coppa prese, e quella
scoperchiata, come il cuor vide e le parole intese, così ebbe per certissimo quello
essere il cuor di Guiscardo.
Per che, levato il viso
verso il famigliare, disse:
– Non si conveniva
sepoltura men degna che d'oro a così fatto cuore chente questo è; discretamente
in ciò ha il mio padre adoperato.
E così detto,
appressatoselo alla bocca, il baciò, e poi disse:
– In ogni cosa sempre e
infino a questo estremo della vita mia ho verso me trovato tenerissimo del mio
padre l'amore, ma ora più che giammai; e per ciò l'ultime grazie, le quali
render gli debbo giammai, di così gran presente da mia parte gli renderai.
Questo detto, rivolta
sopra la coppa la quale stretta teneva, il cuor riguardando disse:
– Ahi! dolcissimo
albergo di tutti i miei piaceri, mala detta sia la crudeltà di colui che con
gli occhi della fronte or mi ti fa vedere! Assai m'era con quegli della mente
riguardarti a ciascuna ora. Tu hai il tuo corso fornito, e di tale chente la
fortuna tel concedette ti se' spacciato; venuto séalla fine alla qual ciascun
corre; lasciate hai le miserie del mondo e le fatiche, e dal tuo nemico
medesimo quella sepoltura hai che il tuo valore ha meritata. Niuna cosa ti
mancava ad aver compiute esequie, se non le lagrime di colei la qual tu vivendo
cotanto amasti; le quali acciò che tu l'avessi, pose Iddio nel l'animo al mio
dispietato padre che a me ti mandasse, e io le ti darò, come che di morire con
gli occhi asciutti e con viso da niuna cosa spaventato proposto avessi; e
dateleti, senza alcuno indugio farò che la mia anima si congiugnerà con quella,
adoperandol tu, che tu già cotanto cara guardasti. E con qual compagnia ne
potre'io andar più contenta o meglio si cura ai luoghi non conosciuti che con
lei? Io son certa che ella è ancora quincentro e riguarda i luoghi de' suoi
diletti e de' miei; e come colei che ancor son certa che m'ama, aspetta la mia,
dalla quale sommamente è amata.
E così detto, non
altramenti che se una fonte d'acqua nella testa avuta avesse, senza fare alcun
feminil romore, sopra la coppa chinatasi, piagnendo cominciò a versare tante
lagrime, che mirabile cosa furono a riguardare, baciando infinite volte il
morto cuore.
Le sue damigelle, che
dattorno le stavano, che cuore questo si fosse o che volesson dire le parole di
lei non intendevano; ma da compassion vinte tutte piagnevano e lei pietosamente
della cagion del suo pianto domandavano invano, e molto più, come meglio
sapevano e potevano, s'ingegnavano di confortarla.
La qual, poi che quanto
le parve ebbe pianto, alzato il capo e rasciuttosi gli occhi, disse:
– O molto amato cuore,
ogni mio uficio verso te è fornito; né più altro mi resta a fare se non di
venire con la mia anima a fare alla tua compagnia
E questo detto, si fe'
dare l'orcioletto nel quale era l'acqua che il dì avanti aveva fatta, la qual
mise nella coppa ove il cuore era da molte delle sue lagrime lavato, e senza
alcuna paura postavi la bocca, tutta la bevve, e bevutala, con la coppa in mano
se ne salì sopra il suo letto, e quanto più onestamente seppe compose il corpo
suo sopra quello, e al suo cuore accostò quello del morto amante, e senza dire
alcuna cosa aspettava la morte. Le damigelle sue, avendo queste cose e vedute e
udite, come che esse non sapessero che acqua quella fosse la quale ella bevuta
aveva, a Tancredi ogni cosa avean mandata a dire; il quale, temendo di quello
che sopravvenne, presto nella camera scese della figliuola, nella qual giunse
in quella ora che essa sopra il suo letto si pose; e tardi con dolci parole
levatosi a suo conforto, veggendo i termini ne' quali era, cominciò
dolorosamente a piagnere.
Al quale la donna disse:
– Tancredi, serbati
coteste lagrime a meno disiderata fortuna che questa, né a me le dare, che non
le disidero. Chi vide mai alcuno, altro che te, piagnere di quello che egli ha
voluto? Ma pure, se niente di quello amore che già mi portasti ancora in te
vive, per ultimo dono mi concedi che, poi che a grado non ti fu che io
tacitamente e di nascoso con Guiscardo vivessi, che 'l mio corpo col suo, dove
che tu te l'abbi fatto gittar morto, palese stea.
L'angoscia del pianto
non lasciò rispondere al prenze. Laonde la giovane, al suo fine esser venuta
sentendosi strignendosi al petto il morto cuore, disse:
– Rimanete con Dio, ché
io mi parto.
E velati gli occhi, e
ogni senso perduto, di questa dolente vita si dipartì.
Così doloroso fine ebbe
l'amor di Guiscardo e di Ghismonda, come udito avete; li quali Tancredi dopo
molto pianto, e tardi pentuto della sua crudeltà, con general dolore di tutti i
salernetani, onorevolmente amenduni in un medesimo sepolcro gli fe' sepellire.
NOVELLA SECONDA
Frate Alberto dà a
vedere ad una donna che l'Agnolo Gabriello è di lei innamorato, in forma del
quale più volte si giace con lei; poi, per paura de' parenti di lei della casa
gittatosi, in casa d'uno povero uomo ricovera, il quale in forma d'uomo
salvatico il dì seguente nella piazza il mena, dove, riconosciuto, è da' suoi
frati preso e incarcerato.
Aveva la novella dalla
Fiammetta raccontata le lagrime più volte tirate insino in su gli occhi alle
sue compagne, ma quella già essendo compiuta, il re con rigido viso disse:
– Poco prezzo mi
parrebbe la vita mia a dover dare per la metà diletto di quello che con
Guiscardo ebbe Ghismonda, né se ne dee di voi maravigliare alcuna, con ciò sia
cosa che io, vivendo, ogni ora mille morti sento, né per tutte quelle una sola
particella di diletto m'è data. Ma, lasciando al presente li miei fatti ne'
loro termini stare, voglio che ne' fieri ragionamenti, e a' miei accidenti in
parte simili, Pampinea ragionando seguisca; la quale se, come Fiammetta ha
cominciato, andrà appresso, senza dubbio alcuna rugiada cadere sopra il mio
fuoco comincerò a sentire.
Pampinea, a sé sentendo
il comandamento venuto, più per la sua affezione cognobbe l'animo delle
compagne che quello del re per le sue parole, e per ciò, più disposta a dovere
al quanto recrear loro che a dovere, fuori che del comandamento solo, il re
contentare, a dire una novella, senza uscir del proposto, da ridere si dispose,
e cominciò.
Usano i volgari un così
fatto proverbio: – Chi è reo e buono è tenuto, può fare il male e non è creduto
–. Il quale ampia materia a ciò che m'è stato proposto mi presta di favellare,
e ancora a dimostrare quanta e quale sia la ipocresia de' religiosi, li quali,
co' panni larghi e lunghi e co' visi artificialmente pallidi e con le voci
umili e mansuete nel domandar l'altrui, e altissime e rubeste in mordere negli
altri li loro medesimi vizi e nel mostrare sé per torre e altri per lor donare
venire a salvazione, e oltre a ciò, non come uomini che il paradiso abbiano a
procacciare come noi, ma quasi come possessori e signori di quello, danti a
ciaschedun che muore, secondo la quantità de' danari loro lasciata da lui, più
e meno eccellente luogo, con questo prima sé medesimi, se così credono, e
poscia coloro che in ciò alle loro parole dan fede, sforzansi d'ingannare.
De'quali, se quanto si convenisse fosse licito a me di mostrare, tosto
dichiarerei a molti semplici quello che nelle lor cappe larghissime tengon
nascoso. Ma ora fosse piacer di Dio che così delle lor bugie a tutti intervenisse,
come ad un frate minore, non miga giovane, ma di quelli che de' maggior ch'ha
Ascesi era tenuto a Vinegia; del quale sommamente mi piace di raccontare, per
alquanto gli animi vostri, pieni di compassione per la morte di Ghismonda,
forse con risa e con piacere rilevare.
Fu adunque, valorose
donne, in Imola uno uomo di scelerata vita e di corrotta, il qual fu chiamato
Berto della Massa; le cui vituperose opere molto dagli imolesi conosciute a
tanto il recarono che, non che la bugia, ma la verità non era in Imola chi gli
credesse; per che, accorgendosi quivi più le sue gherminelle non aver luogo,
come disperato, a Vinegia d'ogni bruttura ricevitrice si trasmutò, e quivi
pensò di trovare altra maniera al suo malvagio adoperare che fatto non avea in
altra parte. E, quasi da conscienzia rimorso delle malvagie opere nel preterito
fatte da lui, da somma umiltà soprapreso mostrando si, e oltre ad ogni altro
uomo divenuto catolico, andò e sì si fece frate minore, e fecesi chiamare frate
Alberto da Imola; e in tale abito cominciò a far per sembianti una aspra vita e
a commendar molto la penitenzia e l'astinenzia, né mai carne mangiava né bevea
vino, quando non n'avea che gli piacesse.
Né se ne fu appena
avveduto alcuno, che di ladrone, di ruffiano, di falsario, d'omicida,
subitamente fu un gran predicatore divenuto, senza aver per ciò i predetti vizi
abbandonati, quando nascosamente gli avesse potuti mettere in opera. E oltre a
ciò fattosi prete, sempre all'altare, quando celebrava, se da molti veduto era,
piagneva la passione del Salvatore, sì come colui al quale poco costavano le
lagrime quando le volea. E in brieve, tra colle sue prediche e le sue lagrime,
egli seppe in sì fatta guisa li viniziani adescare, che egli quasi d'ogni
testamento che vi si faceva era fedecommessario e dipositario, e guardatore di
denari di molti, confessore e consigliatore quasi della maggior parte degli
uomini e delle donne; e così faccendo, di lupo era divenuto pastore, ed era la
sua fama di santità in quelle parti troppo maggior che mai non fu di san
Francesco ad Ascesi.
Ora avvenne che una
giovane donna bamba e sciocca, che chiamata fu madonna Lisetta da ca'Quirino,
moglie d'un gran mercatante che era andato con le galee in Fiandra, s'andò con
altre donne a confessar da questo santo frate. La quale essendogli a' piedi, sì
come colei che viniziana era, ed essi son tutti bergoli, avendo parte detta de'
fatti suoi, fu da frate Alberto addomandata se alcuno amadore avesse.
Al quale ella con un mal
viso rispose:
– Deh, messere lo frate,
non avete voi occhi in capo? Paionvi le mie bellezze fatte come quelle di
queste altre? Troppi n'avrei degli amadori, se io ne volessi; ma non sono le
mie bellezze da lasciare amare né da tale né da quale. Quante ce ne vedete voi,
le cui bellezze sien fatte come le mie, che sarei bella nel paradiso?
E oltre a ciò, disse
tante cose di questa sua bellezza, che fu un fastidio ad udire.
Frate Alberto conobbe
incontanente che costei sentia dello scemo e, parendogli terreno da' ferri
suoi, di lei subitamente e oltre modo s'innamorò; ma, riserbandosi in più
comodo tempo le lusinghe, pur, per mostrarsi santo, quella volta cominciò a
volerla riprendere e a dirle che questa era vanagloria, e altre sue novelle;
per che la donna gli disse che egli era una bestia e che egli non conosceva che
si fosse più una bellezza che un'altra. Per che frate Alberto, non volendola
troppo turbare, fattale la confessione, la lasciò andar via con l'altre. E
stato alquanti dì, preso un suo fido compagno, n'andò a casa madonna Lisetta, e
trattosi da una parte in una sala con lei e non potendo da altri esser veduto,
le si gittò davanti ginocchione e disse:
– Madonna, io vi priego
per Dio che voi mi perdoniate di ciò che io domenica, ragionandomi voi della
vostra bellezza, vi dissi, per ciò che sì fieramente la notte seguente
gastigato ne fui, che mai poscia da giacere non mi son potuto levar se non
oggi.
Disse allora donna
Mestola:
– E chi ve ne gastigò
così?
Disse frate Alberto:
– Io il vi dirò.
Standomi io la notte in orazione, sì come io soglio star sempre, io vidi
subitamente nella mia cella un grande splendore, né prima mi pote'volgere per
veder che ciò fosse, che io mi vidi sopra un giovane bellissimo con un grosso
bastone in mano, il quale, presomi per la cappa e tiratomisi a' piè, tante mi
diè che tutto mi ruppe. Il quale io appresso domandai perché ciò fatto avesse,
ed egli rispose: – Per ciò che tu presummesti oggi di riprendere le celestiali
bellezze di madonna Lisetta, la quale io amo, da Dio in fuori, sopra ogni altra
cosa –. E io allora domandai: – Chi siete voi? – A cui egli rispose che era
l'agnolo Gabriello. – O signor mio –, dissi io – io vi priego che voi mi
perdoniate –. E egli allora disse:, – E io ti perdono per tal convenente, che
tu a lei vada come tu prima potrai, e facciti perdonare; e dove ella non ti
perdoni, io ci tornerò e darottene tante che io ti farò tristo per tutto il
tempo che tu ci viverai –. Quello che egli poi mi dicesse, io non ve l'oso
dire, se prima non mi perdonate.
Donna Zucca al vento, la
quale era anzi che no un poco dolce di sale, godeva tutta udendo queste parole
e verissime tutte le credea, e dopo alquanto disse:
– Io vi diceva bene,
frate Alberto, che le mie bellezze eran celestiali; ma, se Dio m'aiuti, di voi
m'incresce, e in fino ad ora, acciò che più non vi sia fatto male, io vi
perdono, sì veramente che voi mi diciate ciò che l'agnolo poi vi disse.
Frate Alberto disse:
– Madonna, poi che
perdonato m'avete, io il vi dirò volentieri; ma una cosa vi ricordo, che cosa
che io vi dica voi vi guardiate di non dire ad alcuna persona che sia nel
mondo, se voi non volete guastare i fatti vostri, che siete la più avventurata
donna che oggi sia al mondo. Questo agnol Gabriello mi disse che io vi dicessi
che voi gli piacevate tanto, che più volte a starsi con voi venuto la notte
sarebbe, se non fosse per non spaventarvi. Ora vi manda egli dicendo per me,
che a voi vuol venire una notte e dimorarsi una pezza con voi; e per ciò che
egli è agnolo e venendo in forma d'agnolo voi nol potreste toccare, dice che
per diletto di voi vuol venire in forma d'uomo, e per ciò dice che voi gli
mandiate a dire quando volete che egli venga, e in forma di cui ed egli ci
verrà; di che voi, più che altra donna che viva, tener vi potete beata.
Madonna Baderla allora
disse che molto le piaceva se l'agnolo Gabriello l'amava; per ciò che ella
amava ben lui, né era mai che una candela d'un mattapan non gli accendesse
davanti dove dipinto il vedeva; e che, quale ora egli volesse a lei venire,
egli fosse il ben venuto, ché egli la troverebbe tutta sola nella sua camera,
ma con questo patto, che egli non dovesse lasciar lei per la Vergine Maria, che
l'era detto che egli le voleva molto bene, e anche si pareva, ché in ogni luogo
che ella il vedeva, le stava ginocchione innanzi; e oltre a questo, che a lui
stesse di venire in qual forma volesse, purché ella non avesse paura.
Allora disse frate
Alberto:
– Madonna, voi parlate
saviamente; e io ordinerò ben con lui quello che voi mi dite. Ma voi mi potete
fare una gran grazia, e a voi non costerà niente; e la grazia è questa, che voi
vogliate che egli venga con questo mio corpo. E udite in che voi mi farete grazia:
che egli mi trarrà l'anima mia di corpo e metteralla in paradiso, ed egli
enterrà in me, e quanto egli starà con voi, tanto si starà l'anima mia in
paradiso.
Disse allora donna
Pocofila:
– Ben mi piace; io
voglio che, in luogo delle busse le quali egli vi diede a mie cagioni, che voi
abbiate questa consolazione.
Allora disse frate
Alberto:
– Or farete che questa
notte egli truovi la porta della vostra casa per modo che egli possa entrarci,
per ciò che vegnendo in corpo umano, come egli verrà, non potrebbe entrare se
non per l'uscio.
La donna rispose che
fatto sarebbe. Frate Alberto si partì, ed ella rimase faccendo sì gran galloria
che non le toccava il cul la camicia, mille anni parendole che l'agnolo
Gabriello a lei venisse.
Frate Alberto, pensando
che cavaliere, non agnolo, esser gli convenia la notte, con confetti e altre
buone cose s'incominciò a confortare, acciò che di leggier non fosse da caval
gittato. E avuta la licenzia, con uno compagno, come notte fu, se n'entrò in
casa d'una sua amica, dalla quale altra volta aveva prese le mosse quando
andava a correr le giumente; e di quindi, quando tempo gli parve, trasformato
se n'andò a casa la donna, e in quella entrato, con sue frasche che portate
avea, in agnolo si trasfigurò, e salitosene suso, se n'entrò nella camera della
donna.
La quale, come questa
cosa così bianca vide, gli s'inginocchiò innanzi, e l'agnolo la benedisse e
levolla in piè e fecele segno che a letto s'andasse. Il che ella, volenterosa
d'ubbidire, fece prestamente, e l'agnolo appresso colla sua divota si coricò.
Era frate Alberto bello
uomo del corpo e robusto, e stavangli troppo bene le gambe in su la persona;
per la qual cosa con donna Lisetta trovandosi, che era fresca e morbida, altra
giacitura faccendole che il marito, molte volte la notte volò senza ali, di che
ella forte si chiamò per contenta; e oltre a ciò molte cose le disse della
gloria celestiale. Poi, appressandosi il dì, dato ordine al ritornare, co' suoi
arnesi fuor se n'uscì e tornossi al compagno suo, al quale, acciò che paura non
avesse dormendo solo, aveva la buona femina della casa fatta amichevole
compagnia.
La donna, come desinato
ebbe, presa sua compagnia, se n'andò a frate Alberto e novelle gli disse dello
agnolo Gabriello e ciò che da lui udito avea della gloria di vita etterna, e
come egli era fatto, aggiugnendo oltre a questo maravigliose favole.
A cui frate Alberto
disse:
– Madonna, io non so
come voi vi steste con lui; so io bene che stanotte, vegnendo egli a me e io
avendogli fatta la vostra ambasciata, egli ne portò subitamente l'anima mia tra
tanti fiori e tra tante rose, che mai non se ne videro di qua tante, e stettimi
in uno de' più dilettevoli luoghi che fosse mai infino a stamane a matutino;
quello che il mio corpo si divenisse, io non so.
– Non ve 'l dich'io? –
disse la donna – il vostro corpo stette tutta notte in braccio mio con l'agnol
Gabriello; e se voi non mi credete, guateretevi sotto la poppa manca là dove io
diedi un grandissimo bacio all'agnolo, tale che egli vi si parrà il segnale
parecchi dì.
Disse allora frate
Alberto:
– Ben farò oggi una cosa
che io non feci già è gran tempo più, che io mi spoglierò per vedere se. voi
dite il vero.
E dopo molto cianciare
la donna se ne tornò a casa; alla quale in forma d'agnolo frate Alberto andò
poi molte volte senza alcuno impedimento ricevere.
Pure avvenne un giorno
che, essendo madonna Lisetta con una sua comare e insieme di bellezze
quistionando, per porre la sua innanzi ad ogn'altra, sì come colei che poco sale
aveva in zucca, disse:
– Se voi sapeste a cui
la mia bellezza piace, in verità voi tacereste dell'altre.
La comare, vaga d'udire,
sì come colei che ben la conoscea, disse:
– Madonna, voi potreste
dir vero, ma tuttavia, non sappiendo chi questi si sia, altri non si
rivolgerebbe così di leggiero.
Allora la donna, che
piccola levatura avea, disse:
– Comare, egli non si
vuol dire, ma lo 'ntendimento mio è l'agnolo Gabriello, il quale più che sé
m'ama, sì come la più bella donna, per quello che egli mi dica, che sia nel
mondo o in maremma.
La comare ebbe allora
voglia di ridere, ma pur si tenne per farla più avanti parlare, e disse:
– In fè di Dio, madonna,
se l'agnolo Gabriello è vostro intendimento e dicevi questo, egli dee bene
esser così; ma io non credeva che gli agnoli facesson queste cose.
Disse la donna:
– Comare, voi siete
errata; per le plaghe di Dio, egli il fa meglio che mio marido, e dicemi che
egli si fa anche colassù; ma, per ciò che io gli paio più bella che niuna che
ne sia in cielo, s'è egli innamorato di me e viensene a star meco bene spesso;
mo vedì vu?
La comare, partita da
madonna Lisetta, le parve mille anni che ella fosse in parte ove ella potesse
queste cose ridire; e ragunatasi ad una festa con una gran brigata di donne,
loro ordinatamente raccontò la novella. Queste donne il dissero a' mariti e ad
altre donne, e quelle a quell'altre, e così in meno di due dì ne fu tutta
ripiena Vinegia. Ma tra gli altri a' quali questa cosa venne agli orecchi
furono i cognati di lei, li quali, senza alcuna cosa dirle, si posero in cuore
di trovare questo agnolo e di sapere se egli sapesse volare; e più notti
stettero in posta. Avvenne che di questo fatto alcuna novelluzza ne venne a
frate Alberto agli orecchi; il quale, per riprender la donna, una notte
andatovi, appena spogliato s'era, che i cognati di lei, che veduto l'avevan
venire, furono all'uscio della sua camera per aprirlo. Il che frate Alberto
sentendo, e avvisato ciò che era, levatosi, non veggendo altro rifugio, aperse
una finestra la qual sopra il maggior canal rispondea, e quindi si gittò
nell'acqua. Il fondo v'era grande ed egli sapeva ben notare, sì che male alcun
non si fece; e, notato dall'altra parte del canale, in una casa che aperta
v'era prestamente se n'entrò, pregando un buono uomo che dentro v'era che per
l'amor di Dio gli scampasse la vita, sue favole dicendo perché quivi a quella
ora e ignudo fosse. Il buono uomo, mosso a pietà, convenendogli andare a far
sue bisogne, nel suo letto il mise, e dissegli che quivi infino alla sua
tornata si stesse; e dentro serratolo, andò a fare i fatti suoi.
I cognati della donna
entrati nella camera trovarono che l'agnolo Gabriello, quivi avendo lasciate
l'ali, se n'era volato; di che quasi scornati grandissima villania dissero alla
donna, e lei ultimamente sconsolata lasciarono stare e a casa lor tornarsi con
gli arnesi dello agnolo. In questo mezzo, fattosi il dì chiaro, essendo il
buono uomo in sul Rialto, udì dire come l'agnolo Gabriello era la notte andato
a giacere con madonna Lisetta e da' cognati trovatovi, s'era per paura gittato
nel canale, né si sapeva che divenuto se ne fosse; per che prestamente s'avvisò
colui che in casa avea esser desso. E là venutosene e riconosciutolo, dopo
molte novelle, con lui trovò modo che, s'egli non volesse che a' cognati di lei
il desse, gli facesse venire cinquanta ducati; e così fu fatto. E appresso
questo, disiderando frate Alberto d'uscir di quindi, gli disse il buono uomo:
– Qui non ha modo
alcuno, se già in uno non voleste. Noi facciamo oggi una festa, nella quale chi
mena uno uomo vestito a modo d'orso e chi a guisa d'uom salvatico, e chi d'una
cosa e chi d'un'altra, e in su la piazza di San Marco si fa una caccia, la qual
fornita, è finita la festa; e poi ciascun va, con quel che menato ha, dove gli
piace. Se voi volete, anzi che spiar si possa che voi siate qui, che io in
alcun di questi modi vi meni, io vi potrò menare dove voi vorrete; altramenti
non veggio come uscirci possiate che conosciuto non siate; e i cognati della
donna, avvisando che voi in alcun luogo quincentro siate, per tutto hanno messe
le guardie per avervi. Come che duro paresse a frate Alberto l'andare in cotal
guisa, pur per la paura che aveva de' parenti della donna vi si condusse, e
disse a costui dove voleva esser menato, e come il menasse era contento.
Costui, avendol già tutto unto di mele ed empiuto di sopra di penna matta, e
messagli una catena in gola e una maschera in capo, e datogli dall'una mano un
gran bastone e dall'altra due gran cani, che dal macello avea menati, mandò uno
al Rialto, che bandisse che chi volesse veder l'agnolo Gabriello andasse in su
la piazza di San Marco: e fu lealtà viniziana questa.
E questo fatto, dopo
alquanto il menò fuori e miseselo innanzi, e andandol tenendo per la catena di
dietro, non senza gran romore di molti, che tutti diceano: – Che xè quel? che
xè quel? – il condusse in su la piazza, dove tra quegli che venuti gli eran
dietro e quegli ancora che, udito il bando, da Rialto venuti v'erano, erano
gente senza fine. Questi là pervenuto, in luogo rilevato e alto legò il suo
uomo salvatico ad una colonna, sembianti faccendo d'attendere la caccia; al
quale le mosche e' tafani, per ciò che di mele era unto, davan grandissima
noia.
Ma poi che costui vide
piazza ben piena, faccendo sembianti di volere scatenare il suo uom salvatico,
a frate Alberto trasse la maschera dicendo:
– Signori, poi che il
porco non viene alla caccia, e non si fa, acciò che voi non siate venuti in
vano, io voglio che voi veggiate l'agnolo Gabriello, il quale di cielo in terra
discende la notte a consolare le donne viniziane.
Come la maschera fu
fuori, così fu frate Alberto incontanente da tutti conosciuto; contro al quale
si levaron le grida di tutti, dicendogli le più vituperose parole e la maggior
villania che mai ad alcun ghiotton si dicesse, e oltre a questo per lo viso
gettandogli chi una lordura e chi un'altra; e così grandissimo spazio il
tennero, tanto che per ventura la novella a' suoi frati pervenuta, infino a sei
di loro mossisi quivi vennero, e gittatagli una cappa in dosso e scatenatolo,
non senza grandissimo romor dietro, infino a casa loro nel menarono, dove,
incarceratolo, dopo misera vita si crede che egli morisse.
Così costui, tenuto
buono e male adoperando non essendo creduto, ardì di farsi l'agnolo Gabriello,
e di questo in un uom salvatico convertito, a lungo andare, come meritato avea,
vituperato senza pro pianse i peccati commessi. Così piaccia a Dio che a tutti
gli altri possa intervenire.
NOVELLA TERZA
Tre giovani amano tre
sorelle e con loro si fuggono in Creti. La maggiore per gelosia il suo amante
uccide; la seconda, concedendosi al duca di Creti, scampa da morte la prima,
l'amante della quale l'uccide e con la prima si fugge: ènne incolpato il terzo
amante con la terza sirocchia; e presi il confessano e per tema di morire con
moneta la guardia corrompono, e fuggonsi poveri a Rodi e in povertà quivi
muoiono.
Filostrato, udita la
fine del novellar di Pampinea, sovra sé stesso alquanto stette e poi disse
verso di lei:
– Un poco di buono e che
mi piacque fu nella fine della vostra novella; ma troppo più vi fu innanzi a
quella da ridere, il che avrei voluto che stato non vi fosse. Poi alla Lauretta
voltato disse:
– Donna, seguite
appresso con una migliore, se esser può.
La Lauretta ridendo
disse:
– Troppo siete contro
agli amanti crudele, se pure malvagio fine disiderate di loro; e io, per
ubidirvi, ne racconterò una di tre li quali igualmente mal capitarono, poco del
loro amore essendo goduti –; e così detto, incominciò. Giovani donne, sì come
voi apertamente potete conoscere, ogni vizio può in gravissima noia tornar di
colui che l'usa e molte volte d'altrui; e tra gli altri che con più abbandonate
redine ne' nostri pericoli ne trasporta, mi pare che l'ira sia quello; la quale
niuna altra cosa è che un movimento subito e inconsiderato, da sentita
tristizia sospinto, il quale, ogni ragion cacciata e gli occhi della mente
avendo di tenebre offuscati, in ferventissimo furore accende l'anima nostra. E
come che questo sovente negli uomini avvenga, e più in uno che in uno altro,
nondimeno già con maggior danni s'è nelle donne veduto, per ciò che più
leggiermente in quelle s'accende e ardevi con fiamma più chiara e con meno
rattenimento le sospigne. Né è di ciò maraviglia, per ciò che, se ragguardar
vorremo, vedremo che il fuoco di sua natura più tosto nelle leggieri e morbide
cose s'apprende che nelle dure e più gravanti; e noi pur siamo (non l'abbiano
gli uomini a male) più delicate che essi non sono e molto più mobili. Laonde, veggendoci
naturalmente a ciò inchinevoli, e appresso ragguardato come la nostra
mansuetudine e benignità sia di gran riposo e di piacere agli uomini co' quali
a costumare abbiamo, e così l'ira e il furore essere di gran noia e di
pericolo, acciò che da quella con più forte petto ci guardiamo, l'amor di tre
giovani e d'altrettante donne, come di sopra dissi, per l'ira d'una di loro di
felice essere divenuto infelicissimo, intendo con la mia novella mostrarvi.
Marsilia, sì come voi
sapete, è in Provenza sopra la marina posta, antica e nobilissima città, e già
fu di ricchi uomini e di gran mercatanti più copiosa che oggi non si vede.
Tra'quali ne fu un chiamato N'Arnald Civada, uomo di nazione infima, ma di
chiara fede e leal mercatante, senza misura di possessioni e di denari ricco,
il quale d'una sua donna avea più figliuoli, de' quali tre n'erano femine ed
eran di tempo maggiori che gli altri che maschi erano. Delle qua li le due,
nate ad un corpo, erano d'età di quindici anni, la terza aveva quattordici; né
altro s'attendeva per li loro parenti a maritarle, che la tornata di N'Arnald
il quale con sua mercatantia era andato in Ispagna. Erano i nomi delle due
prime, dell'una Ninetta e dell'altra Maddalena; la terza era chiamata Bertella.
Della Ninetta era un giovane gentile uomo, avvegna che povero fosse, chiamato
Restagnone, innamorato quanto più potea, e la giovane di lui; e sì avevan
saputo adoperare, che, senza saperlo alcuna persona del mondo, essi godevano
del loro amore; e già buona pezza goduti n'erano, quando avvenne che due
giovani compa gni, de' quali l'uno era chiamato Folco e l'altro Ughetto, morti
i padri loro ed essendo rimasi ricchissimi, l'un della Maddalena e l'altro
della Bertella s'innamorarono. Della qual cosa avvedutosi Restagnone, essendogli
stato dalla Ninetta mostrato, pensò di potersi ne' suoi difetti adagiare per lo
costoro amore. E con lor presa dimestichezza, or l'uno e or l'altro e talvolta
amenduni gli accompagnava a vedere le lor donne e la sua; e quando dimestico
assai e amico di costoro esser gli parve, un giorno in casa sua chiamatigli,
disse loro:
– Carissimi giovani, la
nostra usanza vi può aver renduti certi quanto sia l'amore che io vi porto, e
che io per voi adopererei quello che io per me medesimo adoperassi; e per ciò
che io molto v'amo, quello che nello animo caduto mi sia intendo di
dimostrarvi, e voi appresso con meco insieme quel partito ne prenderemo che vi
parrà il migliore. Voi, se le vostre parole non mentono, e per quello ancora
che ne' vostri atti e di dì e di notte mi pare aver compreso, di grandissimo
amore delle due giovani amate da voi ardete, e io della terza loro sorella; al
quale ardore, ove voi vi vogliate accordare, mi dà il cuore di trovare assai
dolce e piacevole rimedio, il quale è questo. Voi siete ricchissimi giovani,
quello che non sono io. Dove voi vogliate recare le vostre ricchezze in uno e
me far terzo posseditore con voi insieme di quelle e diliberare in che parte
del mondo noi vogliamo andare a vivere in lieta vita con quelle, senza alcun fallo
mi dà il cuor di fare che le tre sorelle, con gran parte di quello del padre
loro, con esso noi, dove noi andar ne vorremo ne verranno; e quivi ciascun con
la sua, a guisa di tre fratelli, viver potremo li più contenti uomini che altri
che al mondo sieno. A voi omai sta il prender partito in volervi di ciò
consolare, o lasciarlo.
Li due giovani, che
oltre modo ardevano, udendo che le lor giovani avrebbono, non penar troppo a
diliberarsi, ma dissero, dove questo seguir dovesse, che essi erano
apparecchiati di così fare. Restagnone, avuta questa risposta da' giovani, ivi
a pochi giorni si trovò con la Ninetta, alla quale non senza gran malagevolezza
andar poteva; e poi che alquanto con lei fu dimorato, ciò che co' giovani detto
aveale ragionò, e con molte ragion s'ingegnò di farle questa impresa piacere.
Ma poco malagevole gli fu, per ciò che essa molto più di lui disiderava di
poter con lui esser senza sospetto; per che essa liberamente rispostogli che le
piaceva e che le sorelle, e massimamente in questo, quel farebbono che ella
volesse, gli disse che ogni cosa opportuna intorno a ciò, quanto più tosto
potesse, ordinasse. Restagnone a' due giovani tornato, li quali molto ciò che
ragionato avea loro il sollicitavano, disse loro, che dalla parte delle lor donne
l'opera era messa in assetto. E fra sé diliberati di doverne in Creti andar,
vendute alcune possessioni le quali avevano, sotto titolo di voler con denari
andar mercatando, e d'ogn'altra lor cosa fatti denari, una saettia comperarono
e quella segretamente armarono di gran vantaggio, e aspettarono il termine
dato. D'altra parte la Ninetta, che del disiderio delle sorelle sapeva assai,
con dolci parole in tanta volontà di questo fatto l'accese che esse non
credevano tanto vivere che a ciò pervenissero. Per che, venuta la notte che
salire sopra la saettia dovevano, le tre sorelle, aperto un gran cassone del
padre loro, di quello grandissima quantità di denari e di gioie trassono, e con
esse di casa tutte e tre tacitamente uscite secondo l'ordine dato, li lor tre
amanti che l'aspettavano trovarono; con li quali senza alcuno indugio sopra la
saettia montate, dier de' remi in acqua e andar via; e senza punto rattenersi
in alcuno luogo, la seguente sera giunsero a Genova, dove i novelli amanti
gioia e piacere primieramente presero del loro amore. E rinfrescatisi di ciò
che avean bisogno, andaron via, e d'un porto in uno altro, anzi che l'ottavo dì
fosse senza alcuno impedimento pervennero in Creti, dove grandis sime e belle
possessioni comperarono, alle quali assai vicini di Candia fecero bellissimi
abituri e dilettevoli e quivi con molta famiglia, con cani e con uccelli e con
cavalli, in conviti e in festa e in gioia colle lor donne i più contenti uomini
del mondo a guisa di baroni cominciarono a vivere.
E in tal maniera
dimorando, avvenne (sì come noi veggiamo tutto il giorno avvenire che,
quantunque le cose molto piacciano, avendone soperchia copia rincrescono) che a
Restagnone, il qual molto amata avea la Ninetta, potendola egli senza alcun
sospetto ad ogni suo piacere avere, gl'incominciò a rincrescere e per
conseguente a mancar verso lei l'amore. Ed essendogli ad una festa sommamente
piaciuta una giovane del paese, bella e gentil donna, e quella con ogni studio
seguitando, cominciò per lei a far maravigliose cortesie e feste; di che la
Ninetta accorgendosi, entrò di lui in tanta gelosia, che egli non poteva andare
un passo che ella nol risapesse, e appresso con parole e con crucci lui e sé
non ne tribolasse. Ma così come la copia delle cose genera fastidio, così
l'esser le disiderate negate moltiplica l'appetito, così i crucci della Ninetta
le fiamme del nuovo amore di Restagnone accrescevano; e come che in processo di
tempo s'avvenisse, o che Restagnone l'amistà della donna amata avesse o no, la
Ninetta, chi che gliele rapportasse, l'ebbe per fermo; di che ella in tanta
tristizia cadde, e di quella in tanta ira e per conseguente in tanto furor
trascorse, che, rivoltato l'amore il quale a Restagnon portava in acerbo odio,
accecata dalla sua ira, s'avvisò colla morte di Restagnone l'onta che ricever
l'era paruta vendicare. E avuta una vecchia greca gran maestra di compor
veleni, con promesse e con doni a fare un'acqua mortifera la condusse, la quale
essa, senza altramenti consigliarsi, una sera a Restagnon riscaldato e che di
ciò non si guardava diè bere. La potenzia di quella fu tale che, avanti che il
mattutin venisse, l'ebbe ucciso. La cui morte sentendo Folco e Ughetto e le lor
donne, senza saper che di veleno fosse morto, insieme con la Ninetta amaramente
piansero e onorevolmente il fecero sepellire. Ma non dopo molti giorni avvenne
che per altra malvagia opera fu presa la vecchia che alla Ninetta l'acqua
avvelenata composta avea, la quale tra gli altri suoi mali, martoriata,
confessò questo, pienamente mostrando ciò che per quello avvenuto ne fosse; di
che il duca di Creti, senza alcuna cosa dirne, tacitamente una notte fu
d'intorno al palagio di Folco, e senza romore o contradizione alcuna, presa ne
menò la Ninetta. Dalla quale senza alcun martorio prestissimamente ciò che udir
volle ebbe della morte di Restagnone.
Folco e Ughetto
occultamente dal duca avean sentito, e da loro le lor donne, perché presa la
Ninetta fosse, il che forte dispiacque loro; e ogni studio ponevano in far che
dal fuoco la Ninetta dovesse campare, al quale avvisavano che giudicata
sarebbe, sì come colei che molto ben guadagnato l'avea; ma tutto pareva niente,
per ciò che il duca pur fermo a volerne fare giustizia stava. La Maddalena, la
quale bella giovane era e lungamente stata vagheggiata dal duca senza mai aver
voluta far cosa che gli piacesse, imaginando che piacendogli potrebbe la
sirocchia dal fuoco sottrarre, per un cauto ambasciadore gli significò sé esser
ad ogni suo comandamento, dove due cose ne dovesser seguire: la prima, che ella
la sua sorella salva e libera dovesse riavere; l'altra che questa cosa fosse
segreta. Il duca, udita l'ambasciata e piaciutagli, lungamente seco pensò se
fare il volesse, e alla fine vi s'accordò e disse ch'era presto. Fatto adunque
di consentimento della donna, quasi da loro informar si volesse del fatto,
sostenere una notte Folco e Ughetto, ad albergare se n'andò segretamente colla
Maddalena. E fatto prima sembiante d'avere la Ninetta messa in un sacco e
doverla quella notte stessa farla in mare mazzerare, seco la rimenò alla sua
sorella e per prezzo di quella notte gliele donò, la mattina nel dipartirsi
pregandola che quella notte, la qual prima era stata nel loro amore, non fosse
l'ultima; e oltre a questo le 'mpose che via ne mandasse la colpevole donna,
acciò che a lui non fosse biasimo o non gli convenisse da capo contro di lei
incrudelire.
La mattina seguente
Folco e Ughetto, avendo udito la Ninetta la notte essere stata mazzerata, e
credendolo, furon liberati; e alla lor casa, per consolar le lor donne della
morte della sorella, tornati, quantunque la Maddalena s'ingegnasse di
nasconderla molto, pur s'accorse Folco che ella v'era; di che egli si
maravigliò molto, e subitamente suspicò (già avendo sentito che il duca aveva
la Maddalena amata), e domandolla come questo esser potesse che la Ninetta
quivi fosse.
La Maddalena ordì una
lunga favola a volergliele mostrare, poco da lui, che malizioso era, creduta,
il quale, a doversi dire il vero la costrinse; la quale dopo molte parole
gliele disse. Folco, da dolor vinto e in furor montato, tirata fuori una spada,
lei invano mercé addomandante uccise; e temendo l'ira e la giustizia del duca,
lei lasciata nella camera morta, se n'andò colà ove la Ninetta era, e con viso
infintamente lieto le disse:
– Tosto andianne là dove
diterminato è da tua sorella che io ti meni, acciò che più non venghi alle mani
del duca.
La qual cosa la Ninetta
credendo e come paurosa disiderando di partirsi, con Folco, senza altro
commiato chiedere alla sorella, essendo già notte, si mise in via, e con que'
denari a' quali Folco potè por mani, che furon pochi; e alla marina andatisene,
sopra una barca montarono, né mai si seppe dove arrivati si fossero.
Venuto il dì seguente ed
essendosi la Maddalena trovata uccisa, furono alcuni che per invidia e odio che
ad Ughetto portavano, subitamente al duca l'ebbero fatto sentire; per la qual
cosa il duca, che molto la Maddalena amava, focosamente alla casa corso,
Ughetto prese e la sua donna e loro, che di queste cose niente ancor sapeano,
cioè della partita di Folco e della Ninetta, costrinse a confessar sé insieme
con Folco esser della morte della Maddalena colpevoli.
Per la qual confessione
costoro meritamente della morte temendo, con grande ingegno coloro che gli
guardavano corruppono, dando loro una certa quantità di denari, li quali nella
lor casa nascosti per li casi opportuni guardavano e con le guardie insieme,
senza avere spazio di potere alcuna lor cosa torre, sopra una barca montati, di
notte se ne fuggirono a Rodi, dove in povertà e in miseria vissero non gran
tempo.
Adunque a così fatto
partito il folle amore di Restagnone e l'ira della Ninetta sé condussero e
altrui.
NOVELLA QUARTA
Gerbino, contra la fede
data dal re Guglielmo suo avolo, combatte una nave del re di Tunisi per torre
una sua figliuola, la quale uccisa da quegli che su v'erano, loro uccide, e a
lui è poi tagliata la testa.
La Lauretta, finita la
sua novella, taceva, e fra la brigata chi con un chi con un altro della
sciagura degli amanti si dolea; e chi l'ira della Ninetta biasimava, e chi una
cosa e chi altra diceva, quando il re, quasi da profondo pensier tolto, alzò il
viso e ad Elissa fe' segno che appresso dicesse, la quale umilmente incominciò.
Piacevoli donne, assai son coloro che credono Amor solamente dagli occhi acceso
le sue saette mandare, coloro schernendo che tener vogliono che alcuno per
udita si possa innamorare; li quali essere ingannati assai manifestamente
apparirà in una novella la qual dire intendo. Nella quale non solamente ciò la
fama, senza aversi veduto giammai, avere operato vedrete, ma ciascuno a misera
morte aver condotto vi fia manifesto.
Guiglielmo secondo re di
Cicilia, come i ciciliani vogliono, ebbe due figliuoli, l'uno maschio e
chiamato Ruggieri, e l'altro femina, chiamata Gostanza. Il quale Ruggieri, anzi
che il padre morendo, lasciò un figliuolo nominato Gerbino; il quale, dal suo
avolo con diligenza allevato, divenne bellissimo giovane e famoso in prodezza e
in cortesia.
Né solamente dentro a'
termini di Cicilia stette la sua fama racchiusa, ma in varie parti del mondo
sonando, in Barberia era chiarissima, la quale in que' tempi al re di Cicilia
tributaria era. E tra gli altri alli cui orecchi la magnifica fama delle virtù
e della cortesia del Gerbin venne, fu ad una figliuola del re di Tunisi, la
qual, secondo che ciascun che veduta l'avea ragionava, era una delle più belle
creature che mai dalla natura fosse stata formata, e la più costumata e con
nobile e grande animo. La quale, volentieri de' valorosi uomini ragionare
udendo, con tanta affezione le cose valorosamente operate dal Gerbino da uno e
da un altro raccontate raccolse, e sì le piacevano, che essa, seco stessa
imaginando come fatto esser dovesse, ferventemente di lui s'innamorò, e più
volentieri che d'altro di lui ragionava e chi ne ragionava ascoltava.
D'altra parte era, sì
come altrove, in Cicilia pervenuta la grandissima fama della bellezza parimente
e del valor di lei, e non senza gran diletto né in vano gli orecchi del Gerbino
aveva tocchi; anzi, non meno che di lui la giovane infiammata fosse, lui di lei
aveva infiammato. Per la qual cosa infino a tanto che con onesta cagione dallo
avolo d'andare a Tunisi la licenzia impetrasse, disideroso oltre modo di
vederla, ad ogni suo amico che là andava imponeva che a suo potere il suo
segreto e grande amor facesse, per quel modo che miglior gli paresse, sentire e
di lei novelle gli recasse. De'quali alcuno sagacissimamente il fece, gioie da
donne portandole, come i mercatanti fanno, a vedere; e interamente l'ardore del
Gerbino apertole, lui e le sue cose a' suoi comandamenti offerse apparecchiate.
La quale con lieto viso e l'ambasciadore e l'ambasciata ricevette, e
rispostogli che ella di pari amore ardeva, una delle sue più care gioie in
testimonianza di ciò gli mandò. La quale il Gerbino con tanta allegrezza
ricevette, con quanta qualunque cara cosa ricever si possa, e a lei per costui
medesimo più volte scrisse e mandò carissimi doni, con lei certi trattati
tenendo da doversi, se la fortuna conceduto lo avesse, vedere e toccare.
Ma andando le cose in
questa guisa e un poco più lunghe che bisognato non sarebbe, ardendo d'una
parte la giovane e d'altra il Gerbino, avvenne che il re di Tunisi la maritò al
re di Granata; di che ella fu crucciosa oltre modo, pensando che non solamente
per lunga distanzia al suo amante s'allontanava, ma che quasi del tutto tolta
gli era; e se modo veduto avesse, volentieri, acciò che questo avvenuto non
fosse, fuggita si sarebbe dal padre e venutasene al Gerbino.
Similmente il Gerbino,
questo maritaggio sentendo, senza misura ne viveva dolente, e seco spesso
pensava, se modo veder potesse, di volerla torre per forza, se avvenisse che
per mare a marito n'andasse.
Il re di Tunisi,
sentendo alcuna cosa di questo amore e del proponimento del Gerbino, e del suo
valore e della potenzia dubitando, venendo il tempo che mandar ne la dovea, al
re Guiglielmo mandò significando ciò che fare in tendeva, e che, sicurato da
lui che né dal Gerbino né da altri per lui in ciò impedito sarebbe, lo
'ntendeva di fa re. Il re Guiglielmo, che vecchio signore era né dello
innamoramento del Gerbino aveva alcuna cosa sentita, non imaginandosi che per
questo addomandata fosse tal sicurtà, liberamente la concedette e in segno di
ciò mandò al re di Tunisi un suo guanto. Il quale, poi che la sicurtà ricevuta
ebbe, fece una grandissima e bella nave nel porto di Cartagine apprestare, e
fornirla di ciò che bisogno aveva a chi su vi doveva andare, e ornarla e
acconciarla per su mandarvi la figliuola in Granata, né altro aspettava che
tempo.
La giovane donna, che
tutto questo sapeva e vedeva, occultamente un suo servidore mandò a Palermo e
imposegli che il bel Gerbino da sua parte salutasse e gli dicesse come ella in
fra pochi dì era per andarne in Granata; per che ora si parrebbe se così fosse
valente uomo come si diceva e se cotanto l'amasse quanto più volte significato
l'avea.
Costui, a cui imposta
fu, ottimamente fe' l'ambasciata e a Tunisi ritornossi. Gerbino questo udendo e
sappiendo che il re Guiglielmo suo avolo data avea la sicurtà al re di Tunisi,
non sapeva che farsi; ma pur, da amor sospinto, avendo le parole della donna
intese e per non parer vile, andatosene a Messina, quivi prestamente fece due
galee sottili armare, e messivi su di valenti uomini, con esse sopra la
Sardigna n'andò, avvisando quindi dovere la nave della donna passare.
Né fu di lungi l'effetto
al suo avviso; per ciò che pochi dì quivi fu stato, che la nave con poco vento
non guari lontana al luogo dove aspettandola riposto s'era sopravenne. La qual
veggendo Gerbino, a' suoi compagni disse:
– Signori, se voi così
valorosi siete come io vi tegno, niun di voi senza aver sentito o sentire amore
credo che sia, senza il quale, sì come io meco medesimo estimo, niun mortal può
alcuna virtù o bene in sé avere; e se innamorati stati siete o sete, leggier
cosa vi fia comprendere il mio disio. Io amo, e amor m'indusse a darvi la
presente fatica; e ciò che io amo nella nave che qui davanti ne vedete dimora,
la quale, insieme con quella cosa che io più disidero, è piena di grandissime
ricchezze, le quali, se valorosi uomini siete, con poca fatica, virilmente
combattendo, acquistar possiamo. Della qual vittoria io non cerco che in parte
mi venga se non una donna, per lo cui amore i'muovo l'arme; ogni altra cosa sia
vostra libera mente infin da ora. Andiamo adunque, e bene avventurosa mente
assagliamo la nave; Iddio, alla nostra impresa favorevole, senza vento
prestarle la ci tien ferma. Non erano al bel Gerbino tante parole bisogno, per
ciò che i messinesi che con lui erano, vaghi della rapina, già con l'animo
erano a far quello di che il Gerbino gli confortava con le parole. Per che,
fatto un grandissimo romore nella fine del suo parlare che così fosse, le
trombe sonarono; e prese l'armi, dierono de' remi in acqua e alla nave
pervennero.
Coloro che sopra la nave
erano, veggendo di lontan venir le galee, non potendosi partire, s'apprestarono
alla difesa.
Il bel Gerbino, a quella
pervenuto, fe' comandare che i padroni di quella sopra le galee mandati
fossero, se la battaglia non voleano.
I saracini, certificati
chi erano e che domandassero, dissero sé essere contro alla fede lor data dal
re da loro assaliti; e in segno di ciò mostrarono il guanto del re Guiglielmo e
del tutto negaron di mai, se non per battaglia vinti, arrendersi o cosa che
sopra la nave fosse lor dare. Gerbino, il qual sopra la poppa della nave veduta
aveva la donna troppo più bella assai che egli seco non estimava, infiammato
più che prima, al mostrar del guanto rispose che quivi non avea falconi al
presente perché guanto v'avesse luogo; e per ciò, ove dar non volesser la
donna, a ricever la battaglia s'apprestassero. La qual senza più attendere, a
saettare e a gittar pietre l'un verso l'altro fieramente incominciarono, e
lungamente con danno di ciascuna delle parti in tal guisa combatterono.
Ultimamente, veggendosi Gerbino poco util fare, preso un legnetto che di
Sardigna menato aveano, e in quel messo fuoco, con amendue le galee quello
accostò alla nave. Il che veggendo i saracini e conoscendo sé di necessità o
doversi arrendere o morire, fatto sopra coverta la figliola del re venire, che
sotto coverta piagnea, e quella menata alla proda della nave e chiamato il
Gerbino, presente agli occhi suoi lei gridante mercé e aiuto svenarono, e in
mar gittandola dissono:
– Togli, noi la ti diamo
qual noi possiamo e chente la tua fede l'ha meritata.
Gerbino, veggendo la
crudeltà di costoro, quasi di morir vago, non curando di saetta né di pietra,
alla nave si fece accostare; e quivi su, malgrado di quanti ve n'eran, montato,
non altramenti che un leon famelico nell'armento di giuvenchi venuto or questo
or quello svenando prima co' denti e con l'unghie la sua ira sazia che la fame,
con una spada in mano or questo or quel tagliando de' saracini crudelmente
molti n'uccise Gerbino; e, già crescente il fuoco nella accesa nave, fattone a'
marinari trarre quello che si potè per appagamento di loro, giù se ne scese con
poco lieta vittoria de' suoi avversari avere acquistata.
Quindi, fatto il corpo
della bella donna ricoglier di mare, lungamente e con molte lagrime il pianse,
e in Cicilia tornandosi, in Ustica, piccioletta isola quasi a Trapani
dirimpetto, onorevolmente il fe' sepellire, e a casa più doloroso che altro
uomo si tornò.
Il re di Tunisi, saputa
la novella, suoi ambasciadori di nero vestiti al re Guiglielmo mandò, dogliendosi
della fede che gli era stata male osservata, e raccontarono il come. Di che il
re Guiglielmo turbato forte, né vedendo via da poter lor giustizia negare (ché
la dimandavano), fece prendere il Gerbino; ed egli medesimo, non essendo alcun
de' baron suoi che con prieghi da ciò si sforzasse di rimuoverlo, il condannò
nella testa e in sua presenzia gliele fece tagliare, volendo avanti senza
nepote rimanere che esser tenuto re senza fede.
Adunque così miseramente
in pochi giorni i due amanti, senza alcun frutto del loro amore aver sentito,
di mala morte morirono, com'io v'ho detto.
NOVELLA QUINTA
I fratelli dell'Isabetta
uccidon l'amante di lei; egli l'apparisce in sogno e mostrale dove sia
sotterrato. Ella occultamente disotterra la testa e mettela in un testo di
bassilico; e quivi su piagnendo ogni dì per una grande ora, i fratelli gliele
tolgono, ed ella se ne muore di dolore poco appresso.
Finita la novella
d'Elissa, e alquanto dal re commendata, a Filomena fu imposto che ragionasse;
la quale, tutta piena di compassione del misero Gerbino e della sua donna, dopo
un pietoso sospiro incominciò. La mia novella, graziose donne, non sarà di
genti di sì alta condizione, come costoro furono de' quali Elissa ha
raccontato, ma ella per avventura non sarà men pietosa; e a ricordarmi di
quella mi tira Messina poco innanzi ricordata, dove l'accidente avvenne.
Erano adunque in Messina
tre giovani fratelli e mercatanti, e assai ricchi uomini rimasi dopo la morte
del padre loro, il qual fu da San Gimignano, e avevano una lor sorella chiamata
Lisabetta, giovane assai bella e costumata, la quale, che che se ne fosse
cagione, ancora maritata non aveano.
E avevano oltre a ciò
questi tre fratelli in uno lor fondaco un giovinetto pisano chiamato Lorenzo,
che tutti i lor fatti guidava e faceva, il quale, essendo assai bello della
persona e leggiadro molto, avendolo più volte l'Isabetta guatato, avvenne che
egli le 'ncominciò stranamente a piacere. Di che Lorenzo accortosi e una volta
e altra, similmente, lasciati suoi altri innamoramenti di fuori, incominciò a
porre l'animo a lei; e sì andò la bisogna che, piacendo l'uno all'altro
igualmente, non passò gran tempo che, assicuratisi, fecero di quello che più
disiderava ciascuno.
E in questo continuando
e avendo insieme assai di buon tempo e di piacere, non seppero sì segretamente
fare che una notte, andando l'Isabetta là dove Lorenzo dormiva, che il maggior
de' fratelli, senza accorgersene ella, non se ne accorgesse. Il quale, per ciò
che savio giovane era, quantunque molto noioso gli fosse a ciò sapere, pur
mosso da più onesto consiglio, senza far motto o dir cosa alcuna, varie cose
fra sé rivolgendo intorno a questo fatto, infino alla mattina seguente
trapassò. Poi, venuto il giorno, a' suoi fratelli ciò che veduto avea la
passata notte dell'Isabetta e di Lorenzo raccontò, e con loro insieme, dopo
lungo consiglio, diliberò di questa cosa, acciò che né a loro né alla sirocchia
alcuna infamia ne seguisse, di passarsene tacitamente e d'infignersi del tutto
d'averne alcuna cosa veduta o saputa infino a tanto che tempo venisse nel qua
le essi, senza danno o sconcio di loro, questa vergogna, avanti che più andasse
innanzi, si potessero torre dal viso. E in tal disposizion dimorando, così
cianciando e ridendo con Lorenzo come usati erano avvenne che, sembianti
faccendo d'andare fuori della città a diletto tutti e tre, seco menarono
Lorenzo; e pervenuti in un luogo molto solitario e rimoto, veggendosi il
destro, Lorenzo, che di ciò niuna guardia prendeva, uccisono e sotterrarono in
guisa che niuna persona se ne accorse. E in Messina tornati dieder voce
d'averlo per lor bisogne mandato in alcun luogo; il che leggiermente creduto
fu, per ciò che spesse volte eran di mandarlo attorno usati. Non tornando
Lorenzo, e l'Isabetta molto spesso e sollicitamente i fratei domandandone, sì
come colei a cui la dimora lunga gravava, avvenne un giorno che, domandandone
ella molto instantemente, che l'uno de' fratelli le disse:
– Che vuol dir questo?
Che hai tu a fare di Lorenzo, ché tu ne domandi così spesso? Se tu ne
domanderai più, noi ti faremo quella risposta che ti si conviene.
Per che la giovane
dolente e trista, temendo e non sappiendo che, senza più domandarne si stava, e
assai volte la notte pietosamente il chiamava e pregava che ne venisse, e
alcuna volta con molte lagrime della sua lunga dimora si doleva e, senza punto
rallegrarsi, sempre aspettando si stava.
Avvenne una notte che,
avendo costei molto pianto Lorenzo che non tornava, ed essendosi alla fine
piagnendo addormentata, Lorenzo l'apparve nel sonno, pallido e tutto rabbuffato
e con panni tutti stracciati e fracidi indosso, e parvele che egli dicesse:
– O Lisabetta, tu non mi
fai altro che chiamare e della mia lunga dimora t'attristi, e me con le tue
lagrime fieramente accusi; e per ciò sappi che io non posso più ritornarci, per
ciò che l'ultimo dì che tu mi vedesti i tuoi fratelli m'uccisono.
E disegnatole il luogo
dove sotterrato l'aveano, le disse che più nol chiamasse né l'aspettasse, e
disparve. La giovane destatasi, e dando fede alla visione, amaramente pianse.
Poi la mattina levata, non avendo ardire di dire al cuna cosa a' fratelli,
propose di volere andare al mostrato luogo e di vedere se ciò fosse vero che
nel sonno l'era paruto. E avuta la licenza d'andare alquanto fuor della terra a
diporto, in compagnia d'una che altra volta con loro era stata e tutti i suoi
fatti sapeva, quanto più tosto potè là se n'andò; e tolte via foglie secche che
nel luogo erano, dove men dura le parve la terra quivi cavò; né ebbe guari
cavato, che ella trovò il corpo del suo misero amante in niuna cosa ancora
guasto né corrotto; per che manifestamente conobbe essere stata vera la sua
visione. Di che più che altra femina dolorosa, conoscendo che quivi non era da
piagnere, se avesse potuto volentieri tutto il corpo n'avrebbe portato per
dargli più convenevole sepoltura; ma, veggendo che ciò esser non poteva, con un
coltello il meglio che potè gli spiccò dallo 'mbusto la testa, e quella in uno
asciugatoio inviluppata e la terra sopra l'altro corpo gittata, messala in
grembo alla fante, senza essere stata da alcun veduta, quindi si partì e
tornossene a casa sua.
Quivi con questa testa
nella sua camera rinchiusasi, sopra essa lungamente e amaramente pianse, tanto
che tutta con le sue lagrime la lavò, mille baci dandole in ogni parte. Poi
prese un grande e un bel testo, di questi nei quali si pianta la persa o il
bassilico, e dentro la vi mise fasciata in un bel drappo, e poi messovi su la
terra, su vi piantò parecchi piedi di bellissimo bassilico salernetano, e
quegli di niuna altra acqua che o rosata o di fior d'aranci o delle sue lagrime
non inaffiava giammai; e per usanza avea preso di sedersi sempre a questo testo
vicina, e quello con tutto il suo disidero vagheggiare, sì come quello che il
suo Lorenzo teneva nascoso; e poi che molto vagheggiato l'avea, sopr'esso
andatasene, cominciava a piagnere, e per lungo spazio, tanto che tutto il
bassilico bagnava, piagnea.
Il bassilico, sì per lo
lungo e continuo studio, sì per la grassezza della terra procedente dalla testa
corrotta che dentro v'era, divenne bellissimo e odorifero molto. E servando la
giovane questa maniera del continuo, più volte da' suoi vicini fu veduta. Li
quali, maravigliandosi i fratelli della sua guasta bellezza e di ciò che gli
occhi le parevano della testa fuggiti, il disser loro:
– Noi ci siamo accorti,
che ella ogni dì tiene la cotal maniera.
Il che udendo i fratelli
e accorgendosene, avendonela alcuna volta ripresa e non giovando, nascosamente
da lei fecer portar via questo testo. Il quale, non ritrovandolo ella, con
grandissima instanzia molte volte richiese; e non essendole renduto, non
cessando il pianto e le lagrime, infermò, né altro che il testo suo nella
infermità domandava. I giovani si maravigliavan forte di questo addimandare e
per ciò vollero vedere che dentro vi fosse; e versata la terra, videro il
drappo e in quello la testa non ancor sì consumata che essi alla capellatura
crespa non conoscessero lei esser quella di Lorenzo. Di che essi si
maravigliaron forte e temettero non questa cosa si risapesse; e sotterrata
quella, senza altro dire, cautamente di Messina uscitisi e ordinato come di
quindi si ritraessono, se n'andarono a Napoli.
La giovane non restando
di piagnere e pure il suo testo addimandando, piagnendo si morì; e così il suo
disavventurato amore ebbe termine. Ma poi a certo tempo divenuta questa cosa
manifesta a molti, fu alcuno che compuose quel la canzone la quale ancora oggi
si canta, cioè:
Quale esso fu lo malo
cristiano,
che mi furò la grasta,
ecc.
NOVELLA SESTA
L'Andreuola ama
Gabriotto; raccontagli un sogno veduto ed egli a lei un altro; muorsi di subito
nelle sue braccia; mentre che ella con una sua fante alla casa di lui nel
portano, son prese dalla signoria, ed ella dice come l'opera sta; il podestà la
vuole sforzare; ella nol patisce; sentelo il padre di lei, e lei innocente
trovata fa liberare; la quale, del tutto rifiutando di star più al mondo, si fa
monaca.
Quella novella, che
Filomena aveva detta, fu alle donne carissima, per ciò che assai volte avevano
quella canzone udita cantare né mai avevan potuto, per domandarne, sapere qual
si fosse la cagione per che fosse stata fatta. Ma, avendo il re la fine di
quella udita, a Panfilo impose che allo ordine andasse dietro. Panfilo allora
disse:
Il sogno nella
precedente novella raccontato mi dà materia di dovervene raccontare una nella
quale di due si fa menzione, li quali di cosa che a venire era, come quello di
cosa intervenuta, furono, e appena furon finiti di dire da coloro che veduti
gli aveano, che l'effetto seguì d'amenduni. E però, amorose donne, voi dovete
sapere che general passione è di ciascuno che vive il veder varie cose nel
sonno, le quali, quantunque a colui che dorme, dormendo, tutte paian verissime,
e desto lui, alcune vere, alcune verisimili, e parte fuori d'ogni verità
iudichi, nondimeno molte esserne avvenute. si truovano Per la qual cosa molti a
ciascun sogno tanta fede prestano quanta presterieno a quelle cose le quali vegghiando
vedessero; e per li lor sogni stessi s'attristano e s'allegrano secondo che per
quegli o temono o sperano. E in contrario son di quegli che niuno ne credono se
non poi che nel premostrato pericolo si veggono. De'quali né l'uno né l'altro
commendo, per ciò che né sempre son veri né ogni volta falsi. Che essi non sien
tutti veri, assai volte può ciascun di noi aver conosciuto; e che essi tutti
non sien falsi, già di sopra nella novella di Filomena s'è dimostrato e nella
mia, come davanti dissi, intendo di dimostrarlo. Per che giudico che nel
virtuosamente vivere e operare di niuno contrario sogno a ciò si dee temere, né
per quello lasciare i buoni proponimenti; nelle cose perverse e malvagie,
quantunque i sogni a quelle paiano favorevoli e con seconde dimostrazioni chi
gli vede confortino, niuno se ne vuol credere; e così nel contrario a tutti dar
piena fede. Ma vegniamo alla novella. Nella città di Brescia fu già un gentile
uomo chiamato messer Negro da Ponte Carraro, il quale, tra più altri figliuoli,
una figliuola avea nominata Andreuola, giovane e bella assai e senza marito, la
qual per ventura d'un suo vicino, ch'avea nome Gabriotto, s'innamorò, uomo di
bassa condizione ma di laudevoli costumi pieno e della persona bello e
piacevole; e coll'opera e collo aiuto della fante della casa operò tanto la
giovane, che Gabriotto non solamente seppe sé esser dalla Andreuola amato, ma
ancora in un bel giardino del padre di lei più e più volte a diletto dell'una
parte e dell'altra fu menato. E acciò che niuna cagione mai, se non morte,
potesse questo lor dilettevole amor separare, marito e moglie segretamente
divennero. E così furtivamente gli lor congiugnimenti continuando, avvenne che
alla giovane una notte dormendo parve in sogno vedere sé essere nel suo giardino
con Gabriotto, e lui con grandissimo piacer di ciascuno tener nelle sue
braccia; e mentre che così dimoravan, le pareva veder del corpo di lui uscire
una cosa oscura e terribile, la forma della quale essa non poteva conoscere, e
parevale che questa cosa prendesse Gabriotto e mal grado di lei con
maravigliosa forza gliele strappasse di braccio e con esso ricoverasse
sotterra, né mai più riveder potesse né l'uno né l'altro. Di che assai dolore e
inestimabile sentiva, e per quello si destò; e desta, come che lieta fosse
veggendo che non così era come sognato avea, nondimeno l'entrò del sogno veduto
paura. E per questo, volendo poi Gabriotto la seguente notte venir da lei,
quanto potè s'ingegnò di fare che la sera non vi venisse; ma pure, il suo voler
vedendo, acciò che egli d'altro non sospecciasse, la seguente notte nel suo
giardino il ricevette. E avendo molte rose bianche e vermiglie colte, per ciò
che la stagione era, con lui a piè d'una bellissima fontana e chiara, che nel
giardino era, a starsi se n'andò. E quivi, dopo grande e assai lunga festa
insieme avuta, Gabriotto la domandò qual fosse la cagione per che la venuta gli
avea il dì dinanzi vietata. La giovane, raccontandogli il sogno da lei la notte
davanti veduto e la suspezione presa di quello, gliele contò. Gabriotto udendo
questo se ne rise, e disse che grande sciocchezza era porre ne' sogni alcuna
fede, per ciò che o per soperchio di cibo o per mancamento di quello avvenieno,
ed esser tutti vani si vedeano ogni giorno; e appresso disse:
– Se io fossi voluto
andar dietro a' sogni, io non ci sarei venuto, non tanto per lo tuo quanto per
uno che io altressì questa notte passata ne feci, il qual fu, che a me pareva
essere in una bella e dilettevol selva e in quella andar cacciando e aver presa
una cavriuola tanto bella e tanto piacevole quanto alcuna altra se ne vedesse
giammai; e pareami che ella fosse più che la neve bianca, e in brieve spazio
divenisse sì mia dimestica, che punto da me non si partiva tuttavia. A me
pareva averla sì cara che, acciò che da me non si partisse, le mi pareva nella
gola aver messo un collar d'oro, e quella con una catena d'oro tener colle
mani.
E appresso questo mi
pareva che, riposandosi questa cavriuola una volta e tenendomi il capo in seno,
uscisse non so di che parte una veltra nera come carbone, affamata e
spaventevole molto nella apparenza, e verso me se ne venisse; alla quale niuna
resistenza mi parea fare; per che egli mi pareva che ella mi mettesse il muso
in se no nel sinistro lato, e quello tanto rodesse che al cuor perveniva, il
quale pareva che ella mi strappasse per portarsel via. Di che io sentiva sì
fatto dolore che il mio sonno si ruppe, e desto colla mano subitamente corsi a
cercarmi il lato se niente v'avessi; ma mal non trovandomi, mi feci beffe di me
stesso che cercato v'avea. Ma che vuol questo per ciò dire? De'così fatti e de'
più spaventevoli assai n'ho già veduti, né per ciò cosa del mondo più né meno
me n'è intervenuto; e per ciò lasciagli andare e pensiamo di darci buon tempo.
La giovane, per lo suo
sogno assai spaventata, udendo questo divenne troppo più; ma, per non esser
cagione d'alcuno sconforto a Gabriotto, quanto più potè la sua paura nascose. E
come che con lui, abbracciandolo e baciandolo alcuna volta e da lui essendo
abbracciata e baciata, si sollazzasse, suspicando e non sappiendo che, più che
l'usato spesse volte il riguardava nel volto, e talvolta per lo giardin
riguardava se alcuna cosa nera vedesse venir d'alcuna parte.
E in tal maniera
dimorando, Gabriotto, gittato un gran sospiro, l'abbracciò e disse:
– Ohimè, anima mia,
aiutami, ché io muoio –; e così detto, ricadde in terra sopra l'erba del
pratello.
Il che veggendo la
giovane e lui caduto ritirandosi in grembio, quasi piagnendo disse:
– O signor mio dolce, o
che ti senti tu?
Gabriotto non rispose,
ma ansando forte e sudando tutto, dopo non guari spazio passò della presente
vita. Quanto questo fosse grave e noioso alla giovane, che più che sé l'amava,
ciascuna sel dee poter pensare. Ella il pianse assai e assai volte in vano il chiamò;
ma poi che pur s'accorse lui del tutto esser morto, avendolo per ogni parte del
corpo cercato e in ciascuna trovandol freddo, non sappiendo che far né che
dirsi, così lagrimosa come era e piena d'angoscia andò la sua fante a chiamare,
la quale di questo amor consapevole era, e la sua miseria e il suo dolore le
dimostrò. E poi che miseramente insieme alquanto ebber pianto sopra il morto
viso di Gabriotto disse la giovane alla fante:
– Poi che Iddio m'ha
tolto costui, io non intendo di più stare in vita; ma prima che io ad uccider
mi venga, vorre'io che noi prendessimo modo convenevole a servare il mio onore
e il segreto amor tra noi stato, e che il corpo, del quale la graziosa anima
s'è partita, fosse sepellito. A cui la fante disse:
– Figliuola mia, non dir
di volerti uccidere, per ciò che, se tu l'hai qui perduto, uccidendoti, anche
nell'altro mondo il perderesti, per ciò che tu n'andresti in inferno, là dove
io son certa che la sua anima non è andata per ciò che buon giovane fu; ma
molto meglio è a confortarti e pensare d'aiutare con orazioni e con altro bene
l'anima sua, se forse per alcun peccato commesso n'ha bisogno.
Del sepellirlo è il modo
presto qui in questo giardino, il che niuna persona saprà giammai, per ciò che
niun sa ch'egli mai ci venisse; e se così non vuogli, mettianlo qui fuori del
giardino e lascianlo stare; egli sarà domattina trovato e portatone a casa sua
e fatto sepellire da' suoi parenti.
La giovane, quantunque
piena fosse d'amaritudine e continuamente piagnesse, pure ascoltava i consigli
della sua fante; e alla prima parte non accordatasi, rispose alla seconda
dicendo:
– Già Dio non voglia che
così caro giovane e cotanto da me amato e mio marito, io sofferi che a guisa
d'un cane sia sepellito o nella strada in terra lasciato. Egli ha avute le mie
lagrime, e in quanto io potrò egli avrà quelle de' suoi parenti; e già per
l'animo mi va quello che noi abbiamo in ciò a fare.
E prestamente per una
pezza di drappo di seta, la quale aveva in un suo forziere, la mandò; e venuta
quella, in terra distesala, su il corpo di Gabriotto vi posero, e postagli la
testa sopra uno origliere e con molte lagrime chiusigli gli occhi e la bocca, e
fattagli una ghirlanda di rose e tutto dattorno delle rose che colte avevano
empiutolo, disse alla fante:
– Di qui alla porta
della sua casa ha poca via; e per ciò tu e io, così come acconcio l'abbiamo,
quivi il porteremo e dinanzi ad essa il porremo. Egli non andrà guari di tempo
che giorno fia, e sarà ricolto; e come che questo a' suoi niuna consolazion
sia, pure a me, nelle cui braccia egli è morto, sarà un piacere.
E così detto, da capo
con abbondantissime lagrime sopra il viso gli si gittò e per lungo spazio pianse.
La qual, molto dalla fante sollicitata, per ciò che il giorno se ne veniva,
dirizzatasi, quello anello medesimo col quale da Gabriotto era stata sposata
del dito suo trattosi, il mise nel dito di lui, con pianto dicendo:
– Caro mio signore, se
la tua anima ora le mie lagrime vede, e niun conoscimento o sentimento dopo la
partita di quella rimane a' corpi, ricevi benignamente l'ultimo dono di colei
la qual tu vivendo cotanto amasti –; e questo detto, tramortita addosso gli
ricadde. E dopo alquanto risentita e levatasi, colla fante insieme preso il
drappo sopra il quale il corpo giaceva, con quello del giardino uscirono e
verso la casa di lui si dirizzaro. E così andando, per caso avvenne che dalla
famiglia del podestà, che per caso andava a quella ora per alcuno accidente,
furon trovate e prese col morto corpo.
L'Andreuola, più di
morte che di vita disiderosa, conosciuta la famiglia della signoria,
francamente disse:
– Io conosco chi voi
siete e so che il volermi fuggire niente monterebbe; io son presta di venir con
voi davanti alla signoria e che ciò sia di raccontarle; ma niuno di voi sia
ardito di toccarmi, se io obbediente vi sono, né da questo corpo alcuna cosa
rimuovere, se da me non vuole essere accusato.
Per che, senza essere da
alcun tocca, con tutto il corpo di Gabriotto n'andò in palagio.
La qual cosa il podestà
sentendo, si levò, e lei nella camera avendo, di ciò che intervenuto era
s'informò; e fatto da certi medici riguardare se con veleno o altramenti fosse
stato il buono uomo ucciso, tutti affermarono del no; ma che alcuna posta
vicina al cuore gli s'era rotta, che affogato l'avea. Il qual ciò udendo e
sentendo costei in piccola cosa esser nocente, s'ingegnò di mostrar di donarle
quello che vender non le poteva, e disse, dove ella a' suoi piaceri acconsentir
si volesse, la libererebbe. Ma non valendo quelle parole, oltre ad ogni
convenevolezza, volle usar la forza. Ma l'Andreuola, da sdegno accesa e
divenuta fortissima, virilmente si difese, lui con villane parole e altiere
ributtando indietro. Ma, venuto il dì chiaro e queste cose essendo a messer
Negro contate, dolente a morte, con molti de' suoi amici a palagio n'andò, e
quivi d'ogni cosa dal podestà infornato, dolendosi domandò che la figliuola gli
fosse renduta. Il podestà, volendosi prima accusare egli della forza che fare
l'avea voluta che egli da lei accusato fosse, lodando prima la giovane e la sua
constanzia, per approvar quella venne a dire ciò che fatto avea; per la qual
cosa, vedendola di tanta buona fermezza, sommo amore l'avea posto, e, dove a
grado a lui, che suo padre era, e a lei fosse, non ostante che marito avesse
avuto di bassa condizione, volentieri per sua donna la sposerebbe. In questo
tempo che costoro così parlavano, l'Andreuola venne in cospetto del padre e
piagnendo gli si gittò innanzi e disse:
– Padre mio, io non
credo che bisogni che io la istoria del mio ardire e della mia sciagura vi
racconti, ché son certa che udita l'avete e sapetela; e per ciò, quanto più
posso, umilmente perdono vi domando del fallo mio, cioè d'avere senza vostra
saputa chi più mi piacque marito preso. E questo perdono non vi domando perché
la vita mi sia perdonata, ma per morire vostra figliuola e non vostra nimica –;
e così piagnendo gli cadde a' piedi.
Messer Negro, che antico
era oramai e uomo di natura benigno e amorevole, queste parole udendo cominciò
a piagnere, e piagnendo levò la figliuola teneramente in piè, e disse:
– Figliuola mia, io
avrei avuto molto caro che tu avessi avuto tal marito quale a te secondo il
parer mio si convenia; e se tu l'avevi tal preso quale egli ti piacea, questo
doveva anche a me piacere; ma l'averlo occultato della tua poca fidanza mi fa
dolere, e più ancora vedendotel prima aver perduto che io l'abbia saputo. Ma
pur, poi che così è, quello che io per contentarti, vivendo egli, volentieri
gli avrei fatto, cioè onore sì come a mio genero, facciaglisi alla morte –; e
volto a' figliuoli e a' suo'parenti, comandò loro che le esequie
s'apparecchiassero a Gabriotto grandi e onorevoli.
Eranvi in questo mezzo
concorsi i parenti e le parenti del giovane, che saputa avevano la novella, e
quasi donne e uomini quanti nella città n'erano. Per che, posto nel mezzo della
corte il corpo sopra il drappo della Andreuola e con tutte le sue rose, quivi
non solamente da lei e dalle parenti di lui fu pianto, ma pubblicamente quasi
da tutte le donne della città e da assai uomini; e non a guisa di plebeio ma di
signore, tratto della corte pubblica, sopra gli omeri de' più nobili cittadini
con grandissimo onore fu portato alla sepoltura.
Quindi dopo alquanti dì,
seguitando il podestà quello che addomandato avea, ragionandolo messer Negro
alla figliuola, niun cosa ne volle udire; ma, volendole in ciò compiacere il
padre, in un monistero assai famoso di santità essa e la sua fante monache si
renderono e onestamente poi in quello per molto tempo vissero.
NOVELLA SETTIMA
La Simona ama Pasquino;
sono insieme in uno orto; Pasquino si frega a' denti una foglia di salvia e
muorsi; è presa la Simona, la quale, volendo mostrare al giudice come morisse
Pasquino, fregatasi una di quelle foglie a' denti, similmente si muore.
Panfilo era della sua
novella diliberato, quando il re, nulla compassion mostrando all'Andreuola,
riguardando Emilia, sembianti le fe' che a grado li fosse che essa a coloro che
detto aveano, dicendo, si continuasse. La quale, senza al cuna dimora fare,
incominciò.
Care compagne, la
novella detta da Panfilo mi tira a doverne dire una in niuna altra cosa alla
sua simile, se non che, come l'Andreuola nel giardino perdè l'amante, e così
colei di cui dir debbo; e similmente presa, come l'Andreuola fu, non con forza
né con virtù, ma con morte inoppinata si diliberò dalla corte. E come altra
volta tra noi è stato detto, quantunque Amor volentieri le case de' nobili
uomini abiti, esso per ciò non rifiuta lo 'mperio di quelle de' poveri, anzi in
quelle sì alcuna volta le sue forze dimostra, che come potentissimo signore da'
più ricchi si fa temere. Il che, ancora che non in tutto, in gran parte
apparirà nella mia novella, con la qual mi piace nella nostra città rientrare,
della quale questo dì, diverse cose diversamente parlando, per diverse parti
del mondo avvolgendoci, cotanto allontanati ci siamo. Fu adunque, non è gran
tempo, in Firenze una giovane assai bella e leggiadra secondo la sua
condizione, e di povero padre figliuola, la quale ebbe nome Simona; e
quantunque le convenisse colle proprie braccia il pan che mangiar volea
guadagnare e filando lana sua vita reggesse, non fu per ciò di sì povero animo
che ella non ardisse a ricevere amore nella sua mente, il quale con gli atti e
colle parole piacevoli d'un giovinetto di non maggior peso di lei, che dando
andava per un suo maestro lanaiuolo lana a filare, buona pezza mostrato aveva
di volervi entrare.
Ricevutolo adunque in sé
col piacevole aspetto del giovane che l'amava, il cui nome era Pasquino, forte
disiderando e non attentando di far più avanti, filando, ad ogni passo di lana
filata che al fuso avvolgeva mille sospiri più cocenti che fuoco gittava, di
colui ricordandosi che a filar gliele aveva data. Quegli dall'altra parte molto
sollicito divenuto che ben si filasse la lana del suo maestro, quasi quella
sola che la Simona filava, e non alcuna altra, tutta la tela dovesse compiere,
più spesso che l'altra era sollicitata.
Per che, l'un
sollicitando e all'altra giovando d'esser sollicitata, avvenne che l'un più
d'ardir prendendo che aver non solea e l'altra molto della paura e della
vergogna cacciando che d'avere era usata, insieme a' piaceri comuni si congiunsono.
Li quali tanto all'una parte e all'altra aggradirono che, non che l'un
dall'altro aspettasse d'esser invitato a ciò, anzi a dovervi essere si faceva
incontro l'uno all'altro invitando.
E così questo lor
piacere continuando d'un giorno in uno altro e sempre più nel continuare
accendendosi, avvenne che Pasquino disse alla Simona che del tutto egli voleva
che ella trovasse modo di poter venire ad un giardino, là dove egli menar la
voleva, acciò che quivi più adagio e con men sospetto potessero essere insieme.
La Simona disse che le piaceva; e, dato a vedere al padre una domenica dopo
mangiare che andar voleva alla perdonanza a San Gallo, con una sua compagna
chiamata la Lagina al giardino statole da Pasquino insegnato se n'andò. Dove
lui insieme con un suo compagno, che Puccino avea nome, ma era chiamato lo
Stramba, trovò; e quivi fatto uno amorazzo nuovo tra lo Stramba e la Lagina,
essi a far de' lor piaceri in una parte del giardin si raccolsero, e lo Stramba
e la Lagina lasciarono in un'altra. Era in quella parte del giardino, dove
Pasquino e la Simona andati se ne erano, un grandissimo e bel cesto di salvia;
a piè della quale postisi a sedere e gran pezza sollazzatosi insieme, e molto
avendo ragionato d'una merenda che in quello orto ad animo riposato intendevan
di fare, Pasquino, al gran cesto della salvia rivolto, di quella colse una
foglia e con essa s'incominciò a stropicciare i denti e le gengie, dicendo che
la salvia molto bene gli nettava d'ogni cosa che sopr'essi rimasa fosse dopo
l'aver mangiato.
E poi che così alquanto
fregati gli ebbe, ritornò in sul ragionamento della merenda, della qual prima
diceva. Né guari di spazio perseguì ragionando, che egli s'incominciò tutto nel
viso a cambiare, e appresso il cambiamento non istette guari che egli perde la
vista e la parola, e in brieve egli si morì.
Le quali cose la Simona
veggendo, cominciò a piagnere e a gridare e a chiamar lo Stramba e la Lagina.
Li quali prestamente là corsi, e veggendo Pasquino non solamente morto, ma già
tutto enfiato e pieno d'oscure macchie per lo viso e per lo corpo divenuto,
subitamente gridò lo Stramba:
– Ahi malvagia femina,
tu l'hai avvelenato.
E fatto il romor grande,
fu da molti, che vicini al giardino abitavano, sentito. Li quali, corsi al
romore e trovando costui morto ed enfiato, e udendo lo Stramba dolersi e
accusare la Simona che con inganno avvelenato l'avesse, ed ella, per lo dolore
del subito accidente che il suo amante tolto avesse, quasi di sé uscita, non
sappiendosi scusare, fu reputato da tutti che così fosse come lo Stramba
diceva.
Per la qual cosa
presala, piagnendo ella sempre forte, al palagio del podestà ne fu menata.
Quivi, prontando lo Stramba e l'Atticciato e 'l Malagevole, compagni di
Pasquino che sopravenuti erano, un giudice, senza dare indugio alla cosa, si
mise ad esaminarla del fatto; e non potendo comprendere costei in questa cosa
avere operata malizia né esser colpevole, volle, lei presente, vedere il morto
corpo e il luogo e 'l modo da lei raccontatogli, per ciò che per le parole di
lei nol comprendeva assai bene. Fattola adunque senza alcuno tumulto colà
menare dove ancora il corpo di Pasquino giaceva gonfiato come una botte, ed
egli appresso andatovi, maravigliatosi del morto, lei domandò come stato era.
Costei, al cesto della salvia accostatasi e ogni precedente istoria avendo
raccontata, per pienamente darli ad intendere il caso sopravenuto, così fece
come Pasquino aveva fatto, una di quelle foglie di salvia fregatasi a' denti.
Le quali cose mentre che per lo Stramba e per lo Atticciato e per gli altri
amici e compagni di Pasquino sì come frivole e vane in presenzia del giudice
erano schernite, e con più istanzia la sua malvagità accusata, niuna altra cosa
per lor domandandosi se non che il fuoco fosse di così fatta malvagità punitore,
la cattivella, che dal dolore del perduto amante e dalla paura della dimandata
pena dallo Stramba ristretta stava, per l'aversi la salvia fregata a' denti in
quel medesimo accidente cadde che prima caduto era Pasquino, non senza gran
maraviglia di quanti eran presenti.
O felici anime, alle
quali in un medesimo dì addivenne il fervente amore e la mortal vita terminare!
E più felici, se insieme ad un medesimo luogo n'andaste! E felicissime, se
nell'altra vita s'ama, e voi v'amate come di qua faceste! Ma molto più felice
l'anima della Simona innanzi tratto, quanto è al nostro giudicio, che vivi
dietro a lei rimasi siamo, la cui innocenzia non patì la fortuna che sotto la
testimonianza cadesse dello Stramba e dell'Atticciato e del Malagevole, forse
scardassieri o più vili uomini, più onesta via trovandole con pari sorte di
morte al suo amante a svilupparsi dalla loro infamia e a seguitar l'anima tanto
da lei amata del suo Pasquino. Il giudice, quasi tutto stupefatto dello
accidente insieme con quanti ve n'erano, non sappiendo che dirsi, lungamente
soprastette; poi, in miglior senno rivenuto, disse:
– Mostra che questa
salvia sia velenosa, il che della salvia non suole avvenire. Ma acciò che ella
alcuno altro offender non possa in simil modo, taglisi infino alle radici e
mettasi nel fuoco.
La qual cosa colui che
del giardino era guardiano in presenza del giudice faccendo, non prima
abbattuto ebbe il gran cesto in terra, che la cagione della morte de' due
miseri amanti apparve.
Era sotto il cesto di
quella salvia una botta di maravigliosa grandezza, dal cui venenifero fiato
avvisarono quella salvia esser velenosa divenuta. Alla qual botta non avendo
alcuno ardire d'appressarsi, fattale d'intorno una stipa grandissima, quivi
insieme colla salvia l'arsero, e fu finito il processo di messer lo giudice
sopra la morte di Pasquino cattivello. Il quale insieme con la sua Simona, così
enfiati come erano, dallo Stramba e dallo Atticciato e da Guccio Imbratta e dal
Malagevole furono nella chiesa di San Paolo sepelliti, della quale per
avventura eran popolani.
NOVELLA OTTAVA
Girolamo ama la
Salvestra; va, costretto da' prieghi della madre, a Parigi; torna e truovala
maritata; entrale di nascoso in casa e muorle allato; e portato in una chiesa,
nuore la Salvestra allato a lui.
Aveva la novella
d'Emilia il fine suo, quando per comandamento del re Neifile così cominciò.
Alcuni al mio giudicio,
valorose donne, sono, li quali più che l'altre genti si credon sapere, e sanno
meno; e per questo non solamente a' consigli degli uomini, ma ancora contra la
natura delle cose presummono d'opporre il senno loro; della quale presunzione
già grandissimi mali sono avvenuti e alcun bene non se ne vide giammai. E per
ciò che tra l'altre naturali cose quella che meno riceve consiglio o operazione
in contrario è amore, la cui natura è tale che più tosto per sé medesimo
consumar si può che per avvedimento alcuno tor via, m'è venuto nello animo di
narrarvi una novella d'una donna la quale, mentre che ella cercò d'esser più
savia che a lei non si apparteneva e che non era e ancora che non sosteneva la
cosa in che studiava mostrare il senno suo, credendo dello innamorato cuore
trarre amore, il quale forse v'avevano messo le stelle, pervenne a cacciare ad
una ora amore e l'anima del corpo al figliuolo. Fu adunque nella nostra città,
secondo che gli antichi raccontano, un grandissimo mercatante e ricco, il cui
nome fu Leonardo Sighieri, il quale d'una sua donna un figliuolo ebbe chiamato
Girolamo, appresso la natività del quale, acconci i suoi fatti ordinatamente,
passò di questa vita. I tutori del fanciullo, insieme con la madre di lui, bene
e lealmente le sue cose guidarono. Il fanciullo crescendo co' fanciulli degli
altri suoi vicini, più che con alcuno altro della contrada con una fanciulla
del tempo suo, figliuola d'un sarto, si dimesticò. E venendo più crescendo
l'età, l'usanza si convertì in amore tanto e sì fiero, che Girolamo non sentiva
ben se non tanto quanto costei vedeva; e certo ella non amava men lui che da
lui amata fosse.
La madre del fanciullo,
di ciò avvedutasi, molte volte ne gli disse male e nel gastigò. E appresso co'
tutori di lui, non potendosene Girolamo rimanere, se ne dolfe; e come colei che
si credeva per la gran ricchezza del figliuolo fare del pruno un mel rancio,
disse loro:
– Questo nostro
fanciullo, il quale appena ancora non ha quattordici anni, è sì innamorato
d'una figliuola d'un sarto nostro vicino, che ha nome la Salvestra, che, se noi
dinanzi non gliele leviamo, per avventura egli la si prenderà un giorno, senza
che alcuno il sappia, per moglie, e io non sarò mai poscia lieta; o egli si
consumerà per lei se ad altri la vedrà maritare; e per ciò mi parrebbe che, per
fuggir questo, voi il doveste in alcuna parte mandare lontano di qui ne'
servigi del fondaco; per ciò che, dilungandosi da veder costei, ella gli uscirà
dello animo e potrengli poscia dare alcuna giovane ben nata per moglie. I
tutori dissero che la donna parlava bene e che essi ciò farebbero al lor
potere; e fattosi chiamare il fanciullo nel fondaco, gl'incominciò l'uno a dire
assai amorevolmente:
- Figliuol mio, tu se'
oggimai grandicello; egli è ben fatto che tu incominci tu medesimo a vedere de'
fatti tuoi; per che noi ci contenteremmo molto che tu andassi a stare a Parigi
alquanto, dove gran parte della tua ricchezza vedrai come si traffica, senza
che tu diventerai molto migliore e più costumato e più da bene là che qui non
faresti, veggendo quei signori e quei baroni e que' gentili uomini che vi sono
assai e de' lor costumi apprendendo; poi te ne potrai qui venire.
Il garzone ascoltò
diligentemente e in brieve rispose niente volerne fare, per ciò che egli
credeva così bene come un altro potersi stare a Firenze. I valenti uomini,
udendo questo, ancora con più parole il riprovarono; ma, non potendo trarne
altra risposta, alla madre il dissero. La quale fieramente di ciò adirata, non
del non volere egli andare a Parigi, ma del suo innamoramento, gli disse una
gran villania; e poi, con dolci parole raumiliandolo, lo 'ncominciò a lusingare
e a pregare dolcemente che gli dovesse piacere di far quello che volevano i
suoi tutori; e tanto gli seppe dire che egli acconsentì di dovervi andare a
stare uno anno e non più; e così fu fatto.
Andato adunque Girolamo
a Parigi fieramente innamorato, d'oggi in domane ne verrai, vi fu due anni
tenuto. Donde più innamorato che mai tornatosene, trovò la sua Salvestra
maritata ad un buon giovane che faceva le trabacche, di che egli fu oltre
misura dolente. Ma pur, veggendo che altro esser non poteva, s'ingegnò di
darsene pace; e spiato là dove ella stesse a casa, secondo l'usanza de' giovani
innamorati incominciò a passare davanti a lei, credendo che ella non avesse lui
dimenticato, se non come egli aveva lei. Ma l'opera stava in altra guisa; ella
non si ricordava di lui se non come se mai non lo avesse veduto; e, se pure
alcuna cosa se ne ricordava, sì mostrava il contrario. Di che in assai piccolo
spazio di tempo il giovane s'accorse, e non senza suo grandissimo dolore. Ma
nondimeno ogni cosa faceva che poteva, per rientrarle nello animo; ma niente
parendogli adoperare, si dispose, se morir ne dovesse, di parlarle esso stesso.
E da alcuno vicino informatosi come la casa di lei stesse, una sera che a vegghiare
erano ella e 'l marito andati con lor vicini, nascosamente dentro v'entrò, e
nella camera di lei dietro a teli di trabacche che tesi v'erano si nascose, e
tanto aspettò che, tornati costoro e andatisene al letto, sentì il marito di
lei addormentato, e là se n'andò dove veduto aveva che la Salvestra coricata
s'era, e postale la sua mano sopra il petto, pianamente disse:
– O anima mia, dormi tu
ancora?
La giovane, che non
dormiva, volle gridare, ma il giovane prestamente disse:
– Per Dio, non gridare,
ché io sono il tuo Girolamo.
Il che udendo costei,
tutta tremante disse:
– Deh, per Dio,
Girolamo, vattene; egli è passato quel tempo che alla nostra fanciullezza non
si disdisse l'essere innamorati; io sono, come tu vedi, maritata; per la qual
cosa più non sta bene a me d'attendere ad altro uomo che al mio marito; per che
io ti priego per solo Iddio che tu te ne vada; ché se mio marito ti sentisse,
pogniamo che altro male non ne seguisse, sì ne seguirebbe che mai in pace né in
riposo con lui viver potrei, dove ora amata da lui in bene e in tranquillità
con lui mi dimoro. Il giovane, udendo queste parole, sentì noioso dolore; e
ricordatole il passato tempo e 'l suo amore mai per distanzia non menomato, e
molti prieghi e promesse grandissime mescolate, niuna cosa ottenne.
Per che, disideroso di
morire, ultimamente la pregò che in merito di tanto amore ella sofferisse che
egli allato a lei si coricasse, tanto che alquanto riscaldar si potesse, ché
era agghiacciato aspettandola; promettendole che né le direbbe alcuna cosa né
la toccherebbe e, come un poco riscaldato fosse, se n'andrebbe.
La Salvestra, avendo un
poco compassion di lui, con le condizioni date da lui il concedette. Coricossi
adunque il giovine allato a lei senza toccarla; e raccolto in un pensiere il
lungo amor portatole e la presente durezza di lei e la perduta speranza,
diliberò di più non vivere; e ristretti in sé gli spiriti, senza alcun motto
fare, chiuse le pugna, allato a lei si morì. E dopo alquanto spazio la giovane
maravigliandosi della sua contenenza, temendo non il maritò si svegliasse,
cominciò a dire:
– Deh, Girolamo, ché non
te ne vai tu?
Ma non sentendosi
rispondere, pensò lui essere addormentato; per che, stesa oltre la mano acciò
che si svegliasse, il cominciò a tentare, e toccandolo il trovò come ghiaccio
freddo, di che ella si maravigliò forte; e toccandolo con più forza e sentendo
che egli non si movea, dopo più ritoccarlo cognobbe che egli era morto; di che
oltre modo dolente, stette gran pezza senza saper che farsi. Alla fine prese
consiglio di volere in altrui persona tentar quello che il marito dicesse da
farne; e destatolo, quello che presenzialmente a lei avvenuto era, disse essere
ad un'altra intervenuto, e poi il domandò, se a lei avvenisse, che consiglio ne
prenderebbe. Il buono uomo rispose che a lui parrebbe che colui che morto fosse
si dovesse chetamente riportare a casa sua e quivi lasciarlo, senza alcuna
malavoglienza alla donna portarne, la quale fallato non gli pareva ch'avesse.
Allora la giovane disse:
– E così convien fare a
noi –; e presagli la mano, gli fece toccare il morto giovane.
Di che egli tutto
smarrito si levò su e, acceso un lume, senza entrare colla moglie in altre
novelle, il morto corpo de' suoi panni medesimi rivestito e senza alcuno
indugio, aiutandolo la sua innocenzia, levatoselo in su le spalle, alla porta
della casa di lui nel portò e quivi il pose e lasciollo stare.
E venuto il giorno, e
veduto costui davanti all'uscio suo morto, fu fatto il romor grande, e spezialmente
dalla madre; e cerco per tutto e riguardato, e non trovatoglisi né piaga né
percossa alcuna, per li medici generalmente fu creduto lui di dolore esser
morto così come era. Fu adunque questo corpo portato in una chiesa, e quivi
venne la dolorosa madre con molte altre donne parenti e vicine, e sopra lui
cominciarono dirottamente, secondo l'usanza nostra, a piagnere e a dolersi.
E mentre il corrotto
grandissimo si facea, il buono uomo, in casa cui morto era, disse alla
Salvestra:
– Deh ponti alcun mantello
in capo e va a quella chiesa dove Girolamo è stato recato e mettiti tra le
donne, e ascolterai quello che di questo fatto si ragiona, e io farò il
simigliante tra gli uomini, acciò che noi sentiamo se alcuna cosa contro a noi
si dicesse.
Alla giovane, che tardi
era divenuta pietosa, piacque, sì come a colei che morto disiderava di veder
colui a cui vivo non avea voluto d'un sol bacio piacere, e andovvi.
Maravigliosa cosa è a pensare quanto sieno difficili ad investigare le forze
d'Amore! Quel cuore, il quale la lieta fortuna di Girolamo non aveva potuto
aprire, la miseria l'aperse, e l'antiche fiamme risuscitatevi tutte subitamente
mutò in tanta pietà, come ella il viso morto vide, che sotto 'l mantel chiusa,
tra donna e donna mettendosi, non ristette prima che al corpo fu pervenuta; e
quivi, mandato fuori uno altissimo strido, sopra il morto giovane si gittò col
suo viso, il quale non bagnò di molte lagrime, per ciò che prima nol toccò che,
come al giovane il dolore la vita aveva tolta, così a costei tolse. Ma poi che,
riconfortandola le donne e dicendole che su si levasse alquanto, non
conoscendola ancora, e poi che ella non si levava, levar volendola e immobile
trovandola, pur sollevandola, ad una ora lei esser la Salvestra e morta
conobbero. Di che tutte le donne che quivi erano, vinte da doppia pietà,
ricominciarono il pianto assai maggiore.
Sparsesi fuor della
chiesa tra gli uomini la novella, la quale pervenuta agli orecchi del marito di
lei, che tra loro era, senza ascoltare consolazione o conforto da alcuno, per
lungo spazio pianse. E poi ad assai di quegli che v'erano raccontata la istoria
stata la notte di questo giovane e della moglie, manifestamente per tutti si
seppe la cagione della morte di ciascuno, il che a tutti dolfe. Presa adunque
la morta giovane e lei così ornata come s'acconciano i corpi morti, sopra quel
medesimo letto allato al giovane la posero a giacere, e quivi lungamente
pianta, in una medesima sepoltura furono sepelliti amenduni; e loro, li quali
Amor vivi non aveva potuto congiugnere, la morte congiunse con inseparabile
compagnia.
NOVELLA NONA
Messer Guiglielmo
Rossiglione dà a mangiare alla moglie sua il cuore di messer Guiglielmo
Guardastagno ucciso da lui e amato da lei; il che ella sappiendo, poi si gitta
da una alta finestra in terra e muore e col suo amante è sepellita.
Essendo la novella di
Neifile finita, non senza aver gran compassion messa in tutte le sue compagne,
il re, il qual non intendeva di guastare il privilegio di Dioneo, non essendovi
altri a dire, incominciò.
Emmisi parata dinanzi,
pietose donne, una novella alla qual, poi che così degli infortunati casi
d'amore vi duole, vi converrà non meno di compassione avere che alla passata,
per ciò che da più furono coloro a' quali ciò che io dirò avvenne, e con più
fiero accidente che quegli de' quali è parlato.
Dovete adunque sapere
che, secondo che raccontano i provenzali, in Provenza furon già due nobili
cavalieri, de' quali ciascuno e castella e vassalli aveva sotto di sé, e aveva l'uno
nome messer Guiglielmo Rossiglione e l'altro messer Guiglielmo Gardastagno; e
per ciò che l'uno e l'altro era prod'uomo molto nell'arme, s'amavano assai e in
costume avean d'andar sempre ad ogni torniamento o giostra o altro fatto d'arme
insieme e vestiti d'una assisa. E come che ciascun dimorasse in un suo castello
e fosse l'un dall'altro lontano ben diece miglia, pur avvenne che, avendo
messer Guiglielmo Rossiglione una bellissima e vaga donna per moglie, messer
Guiglielmo Guardastagno fuor di misura, non ostante l'amistà e la compagnia che
era tra loro, s'innamorò di lei e tanto, or con uno atto e or con uno altro
fece, che la donna se n'accorse; e conoscendolo per valorosissimo cavaliere, le
piacque, e cominciò a porre amore a lui, in tanto che niuna cosa più che lui
disiderava o amava, né altro atten deva che da lui esser richiesta; il che non
guari stette che avvenne, e insieme furono e una volta e altra, amandosi forte.
E men discretamente
insieme usando, avvenne che il marito se n'accorse e forte ne sdegnò, in tanto
che il grande amore che al Guardastagno portava in mortale odio convertì; ma
meglio il seppe tener nascoso che i due amanti non avevano saputo tenere il
loro amore, e seco diliberò del tutto d'ucciderlo.
Per che, essendo il
Rossiglione in questa disposizione, sopravenne che un gran torneamento si bandì
in Francia, il che il Rossiglione incontanente significò al Guardastagno, e
mandogli a dire che, se a lui piacesse, da lui venisse e insieme diliberrebbono
se andar vi volessono e come. Il Guardastagno lietissimo rispose che senza
fallo il dì seguente andrebbe a cenar con lui.
Il Rossiglione, udendo
questo, pensò il tempo esser venuto di poterlo uccidere; e armatosi il dì
seguente con alcuno suo famigliare montò a cavallo, e forse un miglio fuori del
suo castello in un bosco si ripose in agguato, donde doveva il Guardastagno
passare; e avendolo per un buono spazio atteso, venir lo vide disarmato con due
famigliari appresso disarmati, sì come colui che di niente da lui si guardava;
e come in quella parte il vide giunto dove voleva, fellone e pieno di mal
talento con una lancia sopra mano gli uscì addosso gridando:
– Traditor, tu se' morto
–; e il così dire e il dargli di questa lancia per lo petto fu una cosa.
Il Guardastagno, sena
potere alcuna difesa fare o pur dire una parola, passato di quella lancia,
cadde e poco appresso morì. I suoi famigliari, senza aver conosciuto chi ciò
fatto s'avesse, voltate le teste de' cavalli, quanto più poterono si fuggirono
verso il castello del lor signore. Il Rossiglione, smontato, con un coltello il
petto del Guardastagno aprì e colle proprie mani il cuor gli trasse, e quel
fatto avviluppare in un pennoncello di lancia, comandò ad un de' suoi
famigliari che nel portasse; e avendo a ciascun comandato che niun fosse tanto
ardito che di questo facesse parola, rimontò a cavallo, ed essendo già notte al
suo castello se ne tornò.
La donna, che udito
aveva il Guardastagno dovervi esser la sera a cena e con disidero grandissimo
l'aspettava, non vedendol venire si maravigliò forte e al marito disse:
– E come è così,
messere, che il Guardastagno non è venuto?
A cui il marito disse:
– Donna, io ho avuto da
lui che egli non ci può essere di qui domane –; di che la donna un poco
turbatetta rimase.
Il Rossiglione,
smontato, si fece chiamare il cuoco e gli disse:
– Prenderai quel cuor di
cinghiare e fa' che tu ne facci una vivandetta la migliore e la più dilettevole
a mangiar che tu sai; e quando a tavola sarò, me la manda in una scodella
d'argento.
Il cuoco, presolo e
postavi tutta l'arte e tutta la sollicitudine sua, minuzzatolo e messevi di
buone spezie assai, ne fece uno manicaretto troppo buono.
Messer Guiglielmo,
quando tempo fu, con la sua donna si mise a tavola. La vivanda venne, ma egli
per lo malificio da lui commesso, nel pensiero impedito, poco mangiò.
Il cuoco gli mandò il
manicaretto, il quale egli fece porre davanti alla donna, sé mostrando quella
sera svogliato, e lodogliele molto.
La donna, che svogliata
non era, ne cominciò a mangiare e parvele buono; per la qual cosa ella il
mangiò tutto. Come il cavaliere ebbe veduto che la donna tutto l'ebbe mangiato,
disse:
– Donna, chente v'è
paruta questa vivanda?
La donna rispose:
– Monsignore, in buona
fè ella m'è piaciuta molto.
– Se m'aiti Iddio, –
disse il cavaliere – io il vi credo, né me ne maraviglio se morto v'è piaciuto
ciò che vivo più che altra cosa vi piacque.
La donna, udito questo,
alquanto stette; poi disse:
– Come? Che cosa è
questa che voi m'avete fatta mangiare?
Il cavalier rispose:
– Quello che voi avete
mangiato è stato veramente il cuore di messer Guiglielmo Guardastagno, il qual
voi come disleal femina tanto amavate; e sappiate di certo ch'egli è stato
desso, per ciò che io con queste mani gliele strappai, poco avanti che io
tornassi, del petto.
La donna, udendo questo
di colui cui ella più che altra cosa amava, se dolorosa fu non è da domandare;
e dopo al quanto disse:
– Voi faceste quello che
disleale e malvagio cavalier dee fare; ché se io, non sforzandomi egli, l'avea
del mio amor fatto signore e voi in questo oltraggiato, non egli ma io ne
doveva la pena portare. Ma unque a Dio non piaccia che sopra a così nobil
vivanda, come è stata quella del cuore d'un così valoroso e così cortese
cavaliere come messer Guiglielmo Guardastagno fu, mai altra vivanda vada.
E levata in piè, per una
finestra la quale dietro a lei era, indietro senza altra diliberazione si
lasciò cadere. La finestra era molto alta da terra, per che, come la donna
cadde, non solamente morì, ma quasi tutta si disfece. Messer Guiglielmo,
vedendo questo, stordì forte, e parvegli aver mal fatto; e temendo egli de'
paesani e del conte di Proenza, fatti sellare i cavalli, andò via. La mattina
seguente fu saputo per tutta la contrada come questa cosa era stata: per che da
quegli del castello di messer Guiglielmo Guardastagno e da quegli ancora del
castello della donna con grandissimo dolore e pianto furono i due corpi ricolti
e nella chiesa del castello medesimo della donna in una medesima sepoltura fur
posti, e sopr'essa scritti versi significanti chi fosser quegli che dentro
sepolti v'erano e il modo e la cagione della lor morte.
NOVELLA DECIMA
La moglie d'un medico
per morto mette un suo amante adoppiato in una arca, la quale con tutto lui due
usurai se ne portano in casa. Questi si sente, è preso per ladro; la fante
della donna racconta alla signoria sé averlo esso nell'arca dagli usurieri
imbolata, laond'egli scampa dalle forche e i prestatori d'avere l'arca furata
sono condannati in denari.
Solamente a Dioneo,
avendo già il re fatto fine al suo dire, restava la sua fatica, il quale, ciò
conoscendo, e già dal re essendogli imposto, incominciò.
Le miserie degli
infelici amori raccontate, non che a voi, donne, ma a me hanno già contristati
gli occhi e 'l petto, per che io sommamente disiderato ho che a capo se ne
venisse. Ora, lodato sia Iddio, che finite sono (salvo se io non volessi a
questa malvagia derrata fare una mala giunta, di che Iddio mi guardi), senza
andar più dietro a così dolorosa materia, da alquanto più lieta e migliore
incomincerò, forse buono indizio dando a ciò che nella seguente giornata si dee
ragionare.
Dovete adunque sapere,
bellissime giovani, che ancora non è gran tempo che in Salerno fu un grandissimo
medico in cirugia, il cui nome fu maestro Mazzeo della Montagna, il quale, già
all'ultima vecchiezza vicino, avendo presa per moglie una bella e gentil
giovane della sua città, di nobili vestimenti e ricchi e d'altre gioie e tutto
ciò che ad una donna può piacere meglio che altra della città teneva fornita;
vero è che ella il più del tempo stava infreddata, sì come colei che nel letto
era mal dal maestro tenuta coperta.
Il quale, come messer
Ricciardo di Chinzica, di cui dicemmo, alla sua insegnava le feste, così costui
a costei mostrava che il giacere con una donna una volta si penava a ristorar
non so quanti dì, e simili ciance; di che ella vivea pessimamente contenta. E,
sì come savia e di grande animo, per potere quello da casa risparmiare, si dispose
di gittarsi alla strada e voler logorar dello altrui; e più e più giovani
riguardati, nella fine uno ne le fu all'animo, nel quale, ella pose tutta la
sua speranza, tutto il suo animo e tutto il ben suo. Di che il giovane
accortosi, e piacendogli forte, similmente in lei tutto il suo amor rivolse.
Era costui chiamato
Ruggieri d'Aieroli, di nazion nobile ma di cattiva vita e di biasimevole stato,
in tanto che parente né amico lasciato s'avea che ben gli volesse o che il
volesse vedere; e per tutto Salerno di ladronecci o d'altre vilissime cattività
era infamato, di che la donna poco curò, piacendole esso per altro, e con una
sua fante tanto ordinò che insieme furono. E poi che alquanto diletto preso
ebbero, la donna gli cominciò a biasimare la sua passata vita e a pregarlo che,
per amor di lei, di quelle cose si rimanesse; e a dargli materia di farlo lo
incominciò a sovvenire quando d'una quantità di denari e quando d'un'altra.
E in questa maniera
perseverando insieme assai discretamente, avvenne che al medico fu messo tra le
mani uno in fermo, il quale aveva guasta l'una delle gambe; il cui difetto
avendo il maestro veduto, disse a' suoi parenti che, dove un osso fracido il
quale aveva nella gamba non gli si cavasse, a costui si convenia del tutto o tagliare
tutta la gamba o morire; e a trargli l'osso potrebbe guerire, ma che egli altro
che per morto nol prenderebbe; a che accordatisi co loro a' quali apparteneva,
per così gliele diedero.
Il medico, avvisando che
l'infermo senza essere adoppiato non sosterrebbe la pena né si lascerebbe
medicare, dovendo attendere in sul vespro a questo servigio, fe' la mattina
d'una sua certa composizione stillare una acqua la qua e l'avesse, bevendola,
tanto a far dormire quanto esso avvisava di doverlo poter penare a curare; e
quella fattasene venire a casa, in una finestra della sua camera la pose, senza
dire ad alcuno ciò che si fosse.
Venuta l'ora del vespro,
dovendo il maestro andare a costui, gli venne un messo da certi suoi
grandissimi amici d'Amalfi, che egli non dovesse lasciar per cosa alcuna che
incontanente là non andasse, per ciò che una gran zuffa stata v'era, di che
molti v'erano stati fediti. Il medico, prolungata nella seguente mattina la
cura del la gamba, salito in su una barchetta, n'andò a Amalfi; per la qual
cosa la donna, sappiendo lui la notte non dover tornare a casa, come usata era,
occultamente si fece venire Ruggieri e nella sua camera il mise, e dentro il vi
serrò in fino a tanto che certe altre persone della casa s'andassero a dormire.
Standosi adunque
Ruggieri nella camera e aspettando la donna, avendo o per fatica il dì durata o
per cibo salato che mangiato avesse o forse per usanza una grandissima sete,
gli venne nella finestra veduta questa guastadetta d'acqua la qua le il medico
per lo 'nfermo aveva fatta e, credendola acqua da bere, a bocca postalasi,
tutta la bevve; né stette guari che un gran sonno il prese e fussi
addormentato.
La donna, come prima
potè, nella camera se ne venne, e trovato Ruggieri dormendo lo 'ncominciò a
tentare e a dire con sommessa voce che su si levasse; ma questo era niente;
egli non rispondea né si movea punto. Per che la donna alquanto turbata con più
forza il sospinse dicendo:
– Leva su, dormiglione,
ché, se tu volevi dormire, tu te ne dovevi andare a casa tua e non venir qui.
Ruggieri, così sospinto
cadde a terra d'una cassa sopra la quale era, né altra vista d'alcun sentimento
fece che avrebbe fatto un corpo morto. Di che la donna, alquanto spaventata, il
cominciò a voler rilevare e a menarlo più forte e a prenderlo per lo naso e a
tirarlo per la barba; ma tutto era nulla: egli aveva a buona caviglia legato
l'asino.
Per che la donna
cominciò a temere non fosse morto; ma pure ancora gli 'ncominciò a strignere
agramente le carni e a cuocerlo con una candela accesa, ma niente era; per che
ella, che medica non era, come che medico fosse il marito, senza alcun fallo
lui credette morto. Per che, amandolo sopra ogni altra cosa come facea, se fu
dolorosa non è da domandare; e non osando fare romore, tacitamente sopra di lui
cominciò a piagnere e a dolersi di così fatta disavventura.
Ma dopo alquanto,
temendo la donna di non aggiugnere al suo danno vergogna, pensò che senza alcun
indugio da trovare era modo come lui morto si traesse di casa; né a ciò
sappiendosi consigliare, tacitamente chiamò la sua fante, e la sua disavventura
mostratale, le chiese consiglio. La fante, maravigliandosi forte e tirandolo
ancora ella e strignendolo, e senza sentimento vedendolo, quel disse che la
donna dicea, cioè veramente lui esser morto, e consigliò che da metterlo fuor
di casa era.
A cui la donna disse:
– E dove il potrem noi
porre, che egli non si suspichi, domattina quando veduto sarà, che di qua entro
sia stato tratto?
A cui la fante rispose:
– Madonna, io vidi
questa sera al tardi dirimpetto al la bottega di questo legnaiuolo nostro
vicino una arca non troppo grande, la quale, se 'l maestro non l'ha riposta in
casa, verrà troppo in concio a' fatti nostri, per ciò che dentro ve 'l potrem
mettere e dargli due o tre colpi d'un coltello, e lasciarlo stare. Chi in
quella il troverà non so perché più di qua entro che d'altronde vi sel creda
messo; anzi si crederà, per ciò che malvagio giovane è stato, che, andando a
fare alcun male, da alcuno suo nimico sia stato ucciso e poi messo nell'arca.
Piacque alla donna il
consiglio della fante, fuor che di dargli alcuna fedita, dicendo che non le
potrebbe per cosa del mondo sofferir l'animo di ciò fare; e mandolla a vedere
se quivi fosse l'arca dove veduta l'avea; la qual tornò e disse di sì. La fante
adunque, che giovane e gagliarda era, dalla donna aiutata, sopra le spalle si
pose Ruggieri, e andando la donna innanzi a guardar se persona venisse, venute
al l'arca, dentro vel misero, e richiusala, il lasciarono stare.
Erano di quei dì
alquanto più oltre tornati in una casa due giovani, li quali prestavano ad
usura, e volenterosi di guadagnare assai e di spender poco, avendo bisogno di
masserizie, il dì davanti avean quella arca veduta, e insieme posto che, se la
notte vi rimanesse, di portarnela in casa loro.
E venuta la mezza notte,
di casa usciti, trovandola, senza entrare in altro ragguardamento, prestamente,
ancora che lor gravetta paresse, ne la portarono in casa loro e allogaronla
allato ad una camera dove lor femine dormivano senza curarsi di acconciarla
troppo appunto allora; e lasciatala stare, se n'andarono a dormire. Ruggieri,
il quale grandissima pezza dormito avea, e già aveva digesto il beveraggio e la
virtù di quel consumata, essendo vicino a matutin, si destò; e, come che rotto
fosse il sonno, e' sensi avessero la loro virtù recuperata, pur gli rimase nel
cerebro una stupefazione, la quale non solamente quella notte ma poi parecchi
dì il tenne stordito; e aperti gli occhi e non veggendo alcuna cosa e sparte le
mani in qua e in là, in questa arca trovandosi, cominciò a smemorare e a dir
seco: – Che è questo? Dove sono io? Dormo io, o son desto? Io pur mi ricordo
che questa sera io venni nella camera della mia donna, e ora mi pare essere in
una arca. Questo che vuol dire? Sarebbe il medico tornato o altro accidente
sopravenuto, per lo quale la donna dormendo io, qui m'avesse nascoso? Io il
credo, e fermamente così sarà. E per questo cominciò a star cheto e ad
ascoltare se alcuna cosa sentisse; e così gran pezza dimorato, stando anzi a
disagio che no nell'arca che era piccola, e dogliendogli il lato in sul quale
era, in su l'altro volger vogliendosi, sì destramente il fece che, dato delle
reni nell'un de' lati della arca, la quale non era stata posta sopra luogo
iguali, la fe' piegare e appresso cadere, e cadendo fece un gran romore, per lo
quale le femine che ivi allato dormivano si destarono ed ebber paura, e per
paura tacettono. Ruggieri per lo cader dell'arca dubitò forte, ma sentendola
per lo cadere aperta, volle avanti, se altro avvenisse, esserne fuori che
starvi dentro. E tra che egli non sapeva dove si fosse, e una cosa e un'altra,
cominciò ad andar brancolando per la casa, per sapere se scala o porta trovasse
donde andar se ne potesse.
Il qual brancolare
sentendo le femine che deste erano, cominciarono a dire: – Chi è là? –
Ruggieri, non conoscendo la voce non rispondea; per che le femine cominciarono
a chiamare i due giovani, li quali, per ciò che molto vegghiato aveano,
dormivan forte né sentivano d'alcuna di queste cose niente.
Laonde le femine, più
paurose divenute, levatesi e fattesi a certe finestre, cominciarono a gridare:
– Al ladro, al ladro. – Per la qual cosa per diversi luoghi più de' vicini, chi
su per lo tetto e chi per una parte e chi per un'altra, corsono ed entrar nella
casa; e i giovani similmente, desti a questo romore, si levarono.
E Ruggieri (il qual
quivi vedendosi, quasi di sé per maraviglia uscito, né da qual parte fuggir si
dovesse o potesse vedea) preso dierono nelle mani della famiglia del rettore
della terra, la qual quivi già era al romor corsa; e davanti al rettore
menatolo, per ciò che malvagissimo era da tutti tenuto, senza indugio messo al
martorio, confessò nella casa de' prestatori essere per imbolare en trato; per
che il rettor pensò di doverlo senza troppo indugio fare impiccar per la gola.
La novella fu la mattina
per tutto Salerno che Ruggieri era stato preso ad imbolare in casa de' prestatori;
il che la donna e la sua fante udendo, di tanta maraviglia e di sì nuova fur
piene, che quasi eran vicine di far credere a sé medesime che quello che fatto
avevan la notte passata non l'avesser fatto ma avesser sognato di farlo; e
oltre a questo del pericolo nel quale Ruggieri era la donna sentiva sì fatto
dolore, che quasi n'era per impazzare. Non guari appresso la mezza terza, il
medico tornato da Amalfi domandò che la sua acqua gli fosse recata, per ciò che
medicare voleva il suo infermo; e trovandosi la guasta detta vota, fece un gran
romore che niuna cosa in casa sua durar poteva in istato.
La donna, che da altro
dolore stimolata era, rispose adirata dicendo:
– Che direste voi,
maestro, d'una gran cosa, quando d'una guastadetta d'acqua versata fate sì gran
romore? Non se ne truova egli più al mondo?
A cui il maestro disse:
– Donna, tu avvisi che
quella fosse acqua chiara; non è così, anzi era una acqua lavorata da far
dormire –; e contolle per che cagion fatta l'avea.
Come la donna ebbe questo
udito, così s'avvisò che Ruggieri quella avesse beuta e per ciò loro fosse
paruto morto, e disse:
– Maestro, noi nol
sapavamo, e per ciò rifatevi dell'altra. Il maestro, veggendo che altro esser
non poteva, fece far della nuova.
Poco appresso la fante
che per comandamento della donna era andata a saper quello che di Ruggier si
dicesse, tornò e dissele:
– Madonna, di Ruggier
dice ogn'uom male, né, per quello che io abbia potuto sentire, amico né parente
alcuno è che per aiutarlo levato si sia o si voglia levare; e credesi per fermo
che domane lo straticò il farà impiccare. E oltre a questo vi vo' dire una
nuova cosa, che egli mi pare aver compreso come egli in casa de' prestatori
pervenisse, e udite come: voi sapete bene il legnaiuolo dirimpetto al quale era
l'arca dove noi il mettemmo; egli era testé con uno, di cui mostra che
quell'arca fosse, alla maggior quistion del mondo; ché colui domandava i denari
della arca sua, e il maestro rispondeva che egli non aveva venduta l'arca, anzi
gli era la notte stata imbolata. Al quale colui diceva:
- Non è così, anzi l'hai
venduta alli due giovani prestatori, sì come essi stanotte mi dissero, quando
io in casa loro la vidi allora che fu preso Ruggieri –. A cui il legnaiuolo
disse:
- Essi mentono, per ciò
che mai io non la vende'loro, ma essi que sta notte passata me l'avranno
imbolata; andiamo a loro –. E sì se ne andarono di concordia a casa i
prestatori, e io me ne son qui venuta. E, come voi potete vedere, io comprendo
che in cotal guisa Ruggieri, la dove trovato fu, trasportato fosse; ma come
quivi risuscitasse, non so vedere io. La donna allora comprendendo ottimamente
come il fatto stava, disse alla fante ciò che dal medico udito avea, e pregolla
che allo scampo di Ruggieri dovesse dare aiuto, sì come colei che, volendo, ad
una ora poteva Ruggieri scampare e servar l'onor di lei. La fante disse:
– Madonna, insegnatemi
come, e io farò volentieri ogni cosa.
La donna, sì come colei
alla quale istrignevano i cintolini, con subito consiglio avendo avvisato ciò che
da fare era, ordinatamente di quello la fante informò. La quale primieramente
se n'andò al medico, e piagnendo gli 'ncominciò a dire:
– Messere, a me conviene
domandarvi perdono d'un gran fallo, il quale verso di voi ho commesso.
Disse il maestro:
– E di che?
E la fante, non restando
di lagrimar, disse:
– Messere, voi sapete
che giovane Ruggieri d'Aieroli sia, al quale, piacendogli io, tra per paura e
per amore mi convenne uguanno divenire amica; e sappiendo egli iersera non ci
eravate, tanto mi lusingò che io in casa vostra nella mia camera a dormire meco
il menai, e avendo egli sete né io avendo ove più tosto ricorrere o per acqua o
per vino, non volendo che la vostra donna, la quale in sala era, mi vedesse,
ricordandomi che nella vostra camera una guastadetta d'acqua aveva veduta,
corsi per quella e sì gliele diedi bere e la guastada riposi donde levata
l'avea, di che io truovo che voi in casa un gran romor n'avete fatto. E certo
io confesso che io feci male; ma chi è colui che alcuna volta mal non faccia?
Io ne son molto dolente d'averlo fatto; non pertanto, per questo, e per quello
che poi ne seguì, Ruggieri n'è per perdere la persona; per che io quanto più
posso vi priego che voi mi perdoniate e mi diate licenzia che io vada ad
aiutare, in quello che per me si potrà, Ruggieri.
Il medico udendo costei,
con tutto che ira avesse, motteggiando rispose:
– Tu te n'hai data la
perdonanza tu stessa, per ciò che, dove tu credesti questa notte un giovane
avere che molto bene il pelliccion ti scotesse, avesti un dormiglione; e per
ciò va procaccia la salute del tuo amante, e per innanzi ti guarda di più in
casa non menarlo, ché io ti pagherei di questa volta e di quella.
Alla fante per la prima
broccata parendo aver ben procacciato, quanto più tosto potè se n'andò alla
prigione dove Ruggieri era, e tanto il prigionier lusingò che egli la lasciò a
Ruggieri favellare. La quale, poi che informato l'ebbe di ciò che rispondere
dovesse allo straticò, se scampar volesse, tanto fece che allo straticò andò
davanti. Il quale, prima che ascoltare la volesse, per ciò che fresca e
gagliarda era, volle una volta attaccare l'uncino alla cristianella di Dio, ed
ella, per essere meglio udita, non ne fu punto schifa; e dal macinio levatasi,
disse:
– Messere, voi avete qui
Ruggieri d'Aieroli preso per ladro, e non è così il vero.
E cominciatosi dal capo,
gli contò la storia infino alla fine, come ella, sua amica, in casa il medico
menato l'avea e come gli avea data bere l'acqua adoppiata non conoscendola, e
come per morto l'avea nell'arca messo; e appresso que sto, ciò che tra 'l
maestro legnaiuolo e il signor della arca aveva udito gli disse, per quella
mostrandogli come in casa i prestatori fosse pervenuto Ruggieri.
Lo straticò, veggendo
che leggier cosa era a ritrovare se ciò fosse vero, prima il medico domandò se
vero fosse dell'acqua e trovò che così era stato; e appresso fatti richiedere
il legnaiuolo e colui di cui stata era l'arca e' prestatori, dopo molte novelle
trovò li prestatori la notte passata aver l'arca imbolata e in casa messalasi.
Ultimamente mandò per Ruggieri, e domandatolo dove la sera dinanzi albergato
fosse, rispose che dove albergato si fosse non sapeva, ma ben si ricordava che
andato era ad albergare con la fante del maestro Mazzeo, nella camera della
quale aveva bevuto acqua per gran sete ch'avea; ma che poi di lui stato si
fosse, se non quando in casa i prestatori destandosi s'era trovato in una arca,
egli non sapeva.
Lo straticò, queste cose
udendo e gran piacer pigliandone, e alla fante e a Ruggieri e al legnaiuolo e
a' prestatori più volte ridir le fece.
Alla fine, cognoscendo
Ruggieri essere innocente, condannati i prestatori che imbolata avevan l'arca
in diece once, liberò Ruggieri. Il che quanto a lui fosse caro, niun ne
domandi; e alla sua donna fu carissimo oltre misura. La qual poi con lui
insieme e colla cara fante, che dare gli aveva voluto delle coltella, più volte
rise ed ebbe festa, il loro amore e il loro sollazzo sempre continuando di bene
in meglio; il che vorrei che così a me avvenisse, ma non d'esser messo
nell'arca.
CONCLUSIONE
Se le prime novelle li
petti delle vaghe donne avevan contristati questa ultima di Dioneo le fece ben
tanto ridere, e spezialmente quando disse lo straticò aver l'uncino attaccato
che essi si poterono della compassione avuta dell'altre ristorare.
Ma veggendo il re che il
sole cominciava a farsi giallo e il termine della sua signoria era venuto, con
assai piacevoli parole alle belle donne si scusò di ciò che fatto avea, cioè
daver fatto ragionare di materia così fiera come è quel la della infelicità
degli amanti; e fatta la scusa, in piè si levò e della testa si tolse la
laurea, e aspettando le donne a cui porre la dovesse piacevolmente sopra il
capo biondissimo della Fiammetta la pose, dicendo:
– Io pongo a te questa
corona sì come a colei la quale meglio, dell'aspra giornata di oggi, che alcuna
altra, con quella di domane queste nostre compagne racconsolar saprai.
La Fiammetta li cui
capelli eran crespi, lunghi e d'oro e sopra li candidi e dilicati omeri
ricadenti, e il viso ritondetto con un colore vero di bianchi gigli e di
vermiglie rose mescolati tutto splendido, con due occhi in testa che parevano
d'un falcon pellegrino e con una boccuccia piccolina, li cui labbri parevan due
rubinetti, sorridendo rispose:
– Filostrato, e io la
prendo volentieri; e acciò che meglio t'avveggi di quello che fatto hai, infino
da ora voglio e comando che ciascun s'apparecchi di dovere domane ragionare di
ciò che ad alcuno amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente
avvenisse.
La qual proposizione a
tutti piacque. Ed essa, fattosi il siniscalco venire, e delle cose opportune
con lui insieme avendo disposto, tutta la brigata, da seder levandosi, per
infino all'ora della cena lietamente licenziò. Costoro adunque, parte per lo
giardino, la cui bellezza non era da dover troppo tosto rincrescere, e parte
verso le mulina che fuor di quel macinavano, e chi qua e chi là, a prender
secondo i diversi appetiti diversi diletti si diedono infino all'ora della
cena.
La qual venuta, tutti
raccolti, come usati erano, appresso della bella fonte con grandissimo piacere
e ben serviti cenarono. E da quella levatisi, come usati erano, al danzare e al
cantar si diedono, e menando Filomena la danza, disse la reina:
– Filostrato, io non
intendo deviare da' miei passati, ma, sì come essi hanno fatto, così intendo
che per lo mio comandamento si canti una canzone; e per ciò che io son certa
che tali sono le tue canzoni chenti sono le tue novelle, acciò che più giorni
che questo non sieno turbati da' tuoi infortuni, vogliamo che una ne dichi qual
più ti piace.
Filostrato rispose che
volentieri; e senza indugio in cotal guisa cominciò a cantare:
Lagrimando dimostro
quanto si dolga con
ragione il core
d'esser tradito sotto
fede Amore.
Amore, allora che
primieramente
ponesti in lui colei per
cui sospiro,
senza sperar salute,
sì piena la mostrasti di
virtute,
che lieve reputava ogni
martiro,
che per te nella mente,
ch'è rimasa dolente,
fosse venuto; ma il mio
errore
ora conosco, e non senza
dolore.
Fatto m'ha conoscente
dello 'nganno
vedermi abbandonato da
colei,
in cui sola sperava;
ch'allora ch'i'più esser
mi pensava
nella sua grazia e
servidore a lei,
senza mirare al danno
del mio futuro affanno,
m'accorsi lei aver
l'altrui valore
dentro raccolto, e me
cacciato fore.
Com'io conobbi me di
fuor cacciato,
nacque nel core un
pianto doloroso,
che ancor vi dimora,
e spesso maladico il
giorno e l'ora
che pria m'apparve il
suo viso amoroso
d'alta biltate ornato,
e più che mai
'nfiammato.
La fede mia, la speranza
e l'ardore
va bestemmiando l'anima
che more.
Quanto 'l mio duol senza
conforto sia,
signor, tu puoi sentir,
tanto ti chiamo
con dolorosa voce:
e dicoti che tanto e sì
mi cuoce,
che per minor martir la
morte bramo.
Venga dunque, e la mia
vita crudele e ria
termini col suo colpo, e
'l mio furore;
ch'ove ch'io vada, il
sentirò minore.
Null'altra via, niuno
altro conforto
mi resta più che morte
alla mia doglia.
Dallami dunque omai;
pon fine, Amor, con essa
alli miei guai,
e 'l cor di vita sì
misera spoglia.
Deh fallo, poi ch'a
torto
m'è gioi tolta e
diporto.
Fa'costei lieta,
morend'io, signore,
come l'hai fatta di
nuovo amadore.
Ballata mia, se alcun
non t'appara,
io non men curo, per ciò
che nessuno,
com'io, ti può cantare.
Una fatica sola ti vo'
dare,
che tu ritruovi Amore, e
a lui sol uno,
quanto mi sia discara
la trista vita amara
dimostri a pien,
pregandol che 'n migliore
porto ne ponga per lo
suo onore.
Dimostrarono le parole di
questa canzone assai chiaro qual fosse l'animo di Filostrato, e la cagione; e
forse più dichiarato l'avrebbe l'aspetto di tal donna nella danza era, se le
tenebre della sopravvenuta notte il rossore nel viso di lei venuto non avesser
nascoso. Ma poi che egli ebbe a quella posta fine, molte altre cantate ne
furono infino a tanto che l'ora dell'andare a dormire sopravenne; per che,
comandandolo la reina, ciascuno alla sua camera si raccolse.
Finisce la quarta
giornata del Decameron.
Incomincia la quinta
giornata nella quale, sotto il reggimento di Fiammetta, si ragiona di ciò che
ad alcuno amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente
avvenisse.
GIORNATA QUINTA
INTRODUZIONE
Era già l'oriente tutto
bianco e li surgenti raggi per tutto il nostro emisperio avevan fatto chiaro,
quando Fiammetta da' dolci canti degli uccelli, li quali la prima ora del
giorno su per gli albuscelli tutti lieti cantavano, incitata, su si levò, e
tutte l'altre e i tre giovani fece chiamare; e con soave passo a' campi
discesa, per l'ampia pianura su per le rugiadose erbe, infino a tanto che
alquanto il sol fu alzato, con la sua compagnia, d'una cosa e d'altra con lor
ragionando, diportando s'andò. Ma, sentendo che già i solar raggi si
riscaldavano, verso la loro stanza volse i passi; alla qual pervenuti, con
ottimi vini e con confetti il leggiere affanno avuto fè ristorare, e per lo
dilettevole giardino infino all'ora del mangiare si diportarono. La qual venuta,
essendo ogni cosa dal discretissimo siniscalco apparecchiata, poi che alcuna
stampita e una ballatetta o due furon cantate, lietamente, secondo che alla
reina piacque, si misero a mangiare. E quello ordinatamente e con letizia
fatto, non dimenticato il preso ordine del danzare, e con gli sturmenti e con
le canzoni alquante danzette fecero. Appresso alle quali, infino a passata
l'ora del dormire la reina licenziò ciascheduno; de' quali alcuni a dormire
andarono e altri al loro sollazzo per lo bel giardino si rimasero. Ma tutti, un
poco passata la nona, quivi, come alla reina piacque, vicini alla fonte secondo
l'usato modo si ragunarono. Ed essendosi la reina a seder posta pro tribunali,
verso Panfilo riguardando, sorridendo a lui impose che principio desse alle
felici novelle. Il quale a ciò volentier si dispose, e così disse.
NOVELLA PRIMA
Cimone amando divien
savio, ed Efigenia sua donna rapisce in mare; è messo in Rodi in prigione, onde
Lisimaco il trae, e da capo con lui rapisce Efigenia e Cassandra nelle lor
nozze, fuggendosi con esse in Creti; e quindi, divenute lor mogli, con esse a
casa loro son richiamati.
Molte novelle, dilettose
donne, a dover dar principio a così lieta giornata come questa sarà, per dovere
essere da me raccontate mi si paran davanti; delle quali una più nell'animo me
ne piace, per ciò che per quella potrete comprendere non solamente il felice
fine per lo quale a ragionare incominciamo, ma quanto sien sante, quanto
poderose e di quanto ben piene le forze d'Amore, le quali molti, senza saper
che si dicano, dannano e vituperano a gran torto: il che, se io non erro, per
ciò che innamorate credo che siate, molto vi dovrà esser caro.
Adunque (sì come noi
nelle antiche istorie de' cipriani abbiam già letto) nell'isola di Cipri fu uno
nobilissimo uomo, il quale per nome fu chiamato Aristippo, oltre ad ogn'altro
paesano di tutte le temporali cose ricchissimo; e se d'una cosa sola non lo
avesse la fortuna fatto dolente, più che altro si potea contentare. E questo
era che egli, tra gli altri suoi figliuoli, n'aveva uno il quale di grandezza e
di bellezza di corpo tutti gli altri giovani trapassava, ma quasi matto era e
di perduta speranza, il cui vero nome era Galeso; ma, per ciò che mai né per
fatica di maestro né per lusinga o battitura del padre, o ingegno d'alcuno
altro, gli s'era potuto mettere nel capo né lettera né costume alcuno, anzi con
la voce grossa e deforme e con modi più convenienti a bestia che ad uomo, quasi
per ischerno da tutti era chiamato Cimone, il che nella lor lingua sonava
quanto nella nostra Bestione. La cui perduta vita il padre con gravissima noia
portava; e già essendosi ogni speranza a lui di lui fuggita, per non aver
sempre davanti la cagione del suo dolore, gli comandò che alla villa n'andasse
e quivi co' suoi lavoratori si dimorasse; la qual cosa a Cimone fu carissima,
per ciò che i costumi e l'usanze degli uomini grossi gli eran più a grado che
le cittadine.
Andatosene adunque
Cimone alla villa, e quivi nelle cose pertinenti a quella esercitandosi,
avvenne che un giorno, passato già il mezzo dì, passando egli da una
possessione ad un'altra con un suo bastone in collo, entrò in un boschetto il
quale era in quella contrada bellissimo, e, per ciò che del mese di maggio era,
tutto era fronzuto; per lo quale andando s'avvenne, sì come la sua fortuna il
vi guidò, in un pratello d'altissimi alberi circuito, nell'un de' canti del
quale era una bellissima fontana e fredda, allato alla quale vide sopra il
verde prato dormire una bellissima giovane con un vestimento in dosso tanto
sottile, che quasi niente delle candide carni nascondea, ed era solamente dalla
cintura in giù coperta d'una coltre bianchissima e sottile; e a' piè di lei
similmente dormivano due femine e uno uomo, servi di questa giovane.
La quale come Cimone
vide, non altramenti che se mai più forma di femina veduta non avesse,
fermatosi sopra il suo bastone, senza dire alcuna cosa, con ammirazione
grandissima la incominciò intentissimo a riguardare. E nel rozzo petto, nel
quale per mille ammaestramenti non era alcuna impressione di cittadinesco
piacere potuta entrare, sentì destarsi un pensiero il quale nella materiale e
grossa mente gli ragionava costei essere la più bella cosa che giammai per
alcuno vivente veduta fosse. E quinci cominciò a distinguer le parti di lei,
lodando i capelli, li quali d'oro estimava, la fronte, il naso e la bocca, la
gola e le braccia, e sommamente il petto, poco ancora rilevato; e di
lavoratore, di bellezza subitamente giudice divenuto, seco sommamente
disiderava di veder gli occhi, li quali essa, da alto sonno gravati, teneva
chiusi; e per vedergli, più volte ebbe volontà di destarla. Ma, parendogli
oltre modo più bella che l'altre femine per addietro da lui vedute, dubitava
non fosse alcuna dea; e pur tanto di sentimento avea, che egli giudicava le
divine cose esser di più reverenza degne che le mondane, e per questo si
riteneva, aspettando che da sé medesima si svegliasse; e come che lo 'ndugio
gli paresse troppo, pur, da non usato piacer preso, non si sapeva partire.
Avvenne adunque che dopo
lungo spazio la giovane, il cui nome era Efigenia, prima che alcun de' suoi si
risentì, e levato il capo e aperti gli occhi, e veggendosi sopra il suo bastone
appoggiato star davanti Cimone, si maravigliò forte e disse:
– Cimone, che vai tu a
questa ora per questo bosco cercando?
Era Cimone, sì per la
sua forma e sì per la sua rozzezza e sì per la nobiltà e ricchezza del padre,
quasi noto a ciascun del paese.
Egli non rispose alle
parole d'Efigenia alcuna cosa; ma come gli occhi di lei vide aperti, così in
quegli fiso cominciò a guardare, seco stesso parendogli che da quegli una
soavità si movesse, la quale il riempisse di piacere mai da lui non provato. Il
che la giovane veggendo, cominciò a dubitare non quel suo guardar così fiso movesse
la sua rusticità ad alcuna cosa che vergogna le potesse tornare; per che,
chiamate le sue femine, si levò su dicendo:
– Cimone, rimanti con
Dio.
A cui allora Cimon
rispose:
– Io ne verrò teco.
E quantunque la giovane
sua compagnia rifiutasse, sempre di lui temendo, mai da sé partir nol potè
infino a tanto che egli non l'ebbe infino alla casa di lei accompagnata; e di
quindi n'andò a casa il padre, affermando sé in niuna guisa più in villa voler ritornare:
il che quantun que grave fosse al padre e a' suoi, pure il lasciarono stare,
aspettando di veder qual cagion fosse quella che fatto gli avesse mutar
consiglio.
Essendo adunque a Cimone
nel cuore, nel quale niuna dottrina era potuta entrare, entrata la saetta
d'Amore per la bellezza d'Efigenia, in brevissimo tempo, d'uno in altro
pensiero pervenendo, fece maravigliare il padre e tutti i suoi e ciascuno altro
che il conoscea. Egli primieramente richiese il padre che il facesse andare di
vestimenti e d'ogni altra cosa ornato come i fratelli di lui andavano; il che
il padre contentissimo fece. Quindi usando co' giovani valorosi e udendo i modi
i quali a' gentili uomini si convenieno, e massimamente agli innamorati, prima,
con grandissima ammirazione d'ognuno, in assai brieve spazio di tempo non
solamente le prime lettere apparò, ma valorosissimo tra' filosofanti divenne; e
appresso questo (essendo di tutto ciò cagione l'amore il quale ad Efigenia
portava) non solamente la rozza voce e rustica in convenevole e cittadina
ridusse, ma di canto divenne maestro e di suono, e nel cavalcare e nelle cose
belliche, così marine come di terra, espertissimo e feroce divenne.
E in brieve (acciò che
io non vada ogni particular cosa delle sue virtù raccontando) egli non si
compiè il quarto anno dal dì del suo primiero innamoramento, che egli riuscì il
più leggiadro e il meglio costumato e con più particulari virtù che altro
giovane alcuno che nell'isola fosse di Cipri.
Che dunque, piacevoli
donne, diremo di Cimone? Certo niuna altra cosa se non che l'alte virtù dal
cielo infuse nella valorosa anima fossono da invidiosa Fortuna in picciolissima
parte del suo cuore con legami fortissimi legate e racchiuse, li quali tutti
Amor ruppe e spezzò, sì come molto più potente di lei; e come eccitatore degli
addormentati ingegni, quelle da crudele obumbrazione offuscate con la sua forza
sospinse in chiara luce, apertamente mostrando di che luogo tragga gli spiriti
a lui suggetti e in quale gli conduca co' raggi suoi.
Cimone adunque,
quantunque, amando Efigenia, in alcune cose, sì come i giovani amanti molto
spesso fanno, trasandasse, nondimeno Aristippo considerando che Amor l'avesse
di montone fatto tornare uomo, non solo pazientemente il sostenea, ma in seguir
ciò in tutti i suoi piaceri il confortava. Ma Cimone, che d'esser chiamato
Galeso rifiutava, ricordandosi che così da Efigenia era stato chiamato, volendo
onesto fine porre al suo disio, più volte fece tentare Cipseo padre d'Efigenia
che lei per moglie gli dovesse dare; ma Cipseo rispose sempre sé averla
promessa a Pasimunda nobile giovane rodiano, al quale non intendeva venirne
meno.
Ed essendo delle
pattovite nozze d'Efigenia venuto il tempo, e il marito mandato per lei, disse
seco Cimone: – Ora è tempo di mostrare, o Efigenia, quanto tu sii da me amata.
Io son per te divenuto uomo, e se io ti posso avere, io non dubito di non
divenire più glorioso che alcuno iddio; e per certo io t'avrò o io morrò –. E
così detto, tacitamente alquanti nobili giovani richiesti che suoi amici erano,
e fatto segretamente un legno armare con ogni cosa opportuna a battaglia
navale, si mise in mare, attendendo il legno sopra il quale Efigenia
trasportata doveva essere in Rodi al suo marito. La quale, dopo molto onor
fatto dal padre di lei agli amici del marito, entrata in mare, verso Rodi
dirizzaron la proda e andar via.
Cimone, il qual non
dormiva, il dì seguente col suo legno gli sopraggiunse, e d'in su la proda a
quegli che sopra il legno d'Efigenia erano forte gridò:
– Arrestatevi, calate le
vele, o voi aspettate d'esser vinti e sommersi in mare.
Gli avversari di Cimone
avevano l'armi tratte sopra coverta e di difendersi s'apparecchiavano; per che
Cimone, dopo le parole preso un rampicone di ferro, quel lo sopra la poppa de'
rodiani, che via andavano forte, gittò, e quella alla proda del suo legno per
forza congiunse, e fiero come un leone, senza altro seguito d'alcuno aspettare
sopra la nave de' rodian saltò, quasi tutti per niente gli avesse; e
spronandolo Amore, con maravigliosa forza fra'nimici con un coltello in mano si
mise, e or questo e or quello ferendo, quasi pecore gli abbattea. Il che,
vedendo i rodiani, gittando in terra l'armi, quasi ad una voce tutti si
cofessarono prigioni. Alli quali Cimon disse:
– Giovani uomini, né
vaghezza di preda né odio che io abbia contra di voi mi fece partir di Cipri a
dovervi in mezzo mare con armata mano assalire. Quello che mi mosse è a me
grandissima cosa ad avere acquistata, e a voi è assai leggiere a concederlami
con pace; e ciò è Efigenia, da me sopra ogn'altra cosa amata, la quale non
potendo io avere dal padre di lei come amico e con pace, da voi come nemico e
con l'armi m'ha costretto Amore ad acquistarla; e per ciò intendo io d'esserle
quello che esser le dovea il vostro Pasimunda; datelami, e andate con la grazia
d'Iddio.
I giovani, li quali più
forza che liberalità costrignea, piagnendo Efigenia a Cimon concedettono. Il
quale vedendola piagnere disse:
– Nobile donna, non ti
sconfortare, io sono il tuo Cimone, il quale per lungo amore t'ho molto meglio
meritata d'avere, che Pasimunda per promessa fede.
Tornossi adunque Cimone
(lei già avendo sopra la sua nave fatta portare, senza alcuna altra cosa
toccare de' rodiani) a' suoi compagni, e loro lasciò andare. Cimone adunque,
più che altro uomo contento dello acquisto di così cara preda, poi che alquanto
di tempo ebbe posto in dover lei piagnente racconsolare, diliberò co' suoi
compagni non essere da tornare in Cipri al presente; per che, di pari
diliberazion di tutti, verso Creti (dove quasi ciascuno e massimamente Cimone,
per antichi parentadi e novelli e per molta amistà si credevano insieme con
Efigenia esser si curi) dirizzaron la proda della lor nave.
Ma la Fortuna, la quale
assai lietamente l'acquisto della donna aveva conceduto a Cimone, non stabile,
subitamente in tristo e amaro pianto mutò la inestimabile letizia dello
'nnamorato giovane.
Egli non erano ancora
quattro ore compiute poi che Cimone li rodiani aveva lasciati, quando,
sopravegnente la notte, la quale Cimone più piacevole che alcuna altra sentita
giammai aspettava, con essa insieme surse un tempo fierissimo e tempestoso, il
quale il cielo di nuvoli e 'l mare di pestilenziosi venti riempiè; per la qual
cosa né poteva alcun veder che si fare o dove andarsi, né ancora sopra la nave
tenersi a dovere fare alcun servigio. Quanto Cimone di ciò si dolesse, non è da
domandare. Egli pareva che gl'iddii gli avessero conceduto il suo disio, acciò
che più noia gli fosse il morire, del quale senza esso prima si sarebbe poco curato.
Dolevansi similmente i suoi compagni, ma sopra tutti si doleva Efigenia, forte
piagnendo e ogni percossa dell'onda temendo; e nel suo pianto aspramente
maladiceva l'amor di Cimone e biasimava il suo ardire, affermando per niuna
altra cosa quella tempestosa fortuna esser nata, se non perché gl'iddii non
volevano che colui, il quale lei contra li lor piaceri voleva aver per isposa,
potesse del suo presuntuoso disiderio godere, ma vedendo lei prima morire, egli
appresso miseramente morisse. Con così fatti lamenti e con maggiori, non
sappiendo che farsi i marinari, divenendo ognora il vento più forte, senza
sapere o conoscere dove s'andassero, vicini all'isola di Rodi pervennero; né
conoscendo per ciò che Rodi si fosse quella, con ogni ingegno, per campar le
persone, si sforzarono di dovere in essa pigliar terra, se si potesse. Alla
qual cosa la Fortuna fu favorevole, e loro perdus se in un piccolo seno di
mare, nel quale poco avanti a loro li rodiani stati da Cimon lasciati erano
colla lor nave pervenuti. Né prima s'accorsero sé esser all'isola di Rodi
pervenuti che, surgendo l'aurora e alquanto rendendo il cielo più chiaro, si
videro forse per una tratta d'arco vicini alla nave il giorno davanti da lor
lasciata. Della qual cosa Cimone senza modo dolente, temendo non gli avvenisse
quello che gli avvenne, comandò che ogni forza si mettesse ad uscir quindi, e
poi dove alla Fortuna piacesse gli trasportasse; per ciò che in alcuna parte
peggio che quivi esser non poteano.
Le forze si misero
grandi a dovere di quindi uscire, ma invano: il vento potentissimo poggiava in
contrario, in tanto che, non che essi del piccolo seno uscir potessero, ma, o
volessero o no, gli sospinse alla terra. Alla quale come pervennero, dalli
marinari rodiani della lor nave discesi furono riconosciuti. De'quali
prestamente alcun corse ad una villa ivi vicina dove i nobili giovani rodiani
n'erano andati, e loro narrò quivi Cimone con Efigenia sopra la lor nave per
fortuna, sì come loro, essere arrivati.
Costoro udendo questo,
lietissimi, presi molti degli uomini della villa, prestamente furono al mare; e
Cimone che, già co' suoi disceso, aveva preso consiglio di fuggire in alcuna
selva ivi vicina, e 'nsieme tutti con Efigenia furon presi e alla villa menati.
E di quindi, venuto dalla città Lisimaco, appo il quale quello anno era il
sommo maestrato de' rodiani, con grandissima compagnia d'uomini d'arme, Cimone
è suoi compagni tutti ne menò in prigione, sì come Pasimunda, al quale le
novelle eran venute, aveva, col senato di Rodi dolendosi, ordinato. In così
fatta guisa il misero e innamorato Cimone perdè la sua Efigenia poco davanti da
lui guadagnata, senza altro averle tolto che alcun bacio.
Efigenia da molte nobili
donne di Rodi fu ricevuta e riconfortata, sì del dolore avuto della sua presura
e sì della fatica sostenuta del turbato mare; e appo quelle stette infino al
giorno diterminato alle sue nozze. A Cimone e a' suoi compagni, per la libertà
il dì davanti data a' giovani rodiani, fu donata la vita, la qual Pasimunda a
suo poter sollicitava di far lor torre, e a prigion perpetua fur dannati; nella
quale, sì come si può credere, dolorosi stavano e senza speranza mai d'alcun
piacere.
Pasimunda quanto poteva
l'apprestamento sollicitava delle future nozze; ma la Fortuna, quasi pentuta
della subita ingiuria fatta a Cimone, nuovo accidente produsse per la sua
salute. Aveva Pasimunda un fratello minor di tempo di lui, ma non di virtù, il
quale avea nome Ormisda, stato in lungo trattato di dover torre per moglie una
nobile giovane e bella della città, chiamata Cassandra, la quale Lisimaco
sommamente amava; ed erasi il matrimonio per diversi accidenti più volte
frastornato. Ora, veggendosi Pasimunda per dovere con grandissima festa
celebrare le sue nozze, pensò ottimamente esser fatto, se in questa medesima
festa, per non tornar più alle spese e al festeggiare, egli potesse far che
Ormisda similmente menasse moglie; per che co' parenti di Cassandra ricominciò
le parole e perdussele ad effetto; e insieme egli e 'l fratello con loro
diliberarono che quello medesimo dì che Pasimunda menasse Efigenia, quello
Ormisda menasse Cassandra.
La qual cosa sentendo
Lisimaco, oltre modo gli dispiacque, per ciò che si vedeva della sua speranza
privare, la quale portava che, se Ormisda non la prendesse, fermamente doverla
avere egli. Ma, sì come savio, la noia sua dentro tenne nascosa; e cominciò a
pensare in che maniera potesse impedire che ciò non avesse effetto; né alcuna
via vide possibile, se non il rapirla.
Questo gli parve agevole
per lo uficio il quale aveva, ma troppo più disonesto il reputava che se
l'uficio non avesse avuto; ma in brieve, dopo lunga diliberazione, l'onestà diè
luogo ad amore, e prese per partito, che che avvenir ne dovesse, di rapir
Cassandra. E pensando della compagnia che a far questo dovesse avere e
dell'ordine che tener dovesse, si ricordò di Cimone, il quale co' suoi compagni
in prigione avea, e imaginò niun altro compagno migliore né più fido dover
potere avere che Cimone in questa cosa.
Per che la seguente
notte occultamente nella sua camera il fe' venire, e cominciogli in cotal guisa
favellare:
- Cimone, così come
gl'iddii sono ottimi e liberali donatori delle cose agli uomini, così sono
sagacissimi provatori delle lor virtù, e coloro li quali essi truovano fermi e
costanti a tutti i casi, sì come più valorosi, di più alti meriti fanno degni.
Essi hanno della tua virtù voluta più certa esperienza che quella che per te si
fosse potuta mostrare dentro a' termini della casa del padre tuo, il quale io
conosco abondantissimo di ricchezze; e prima con le pugnenti sollicitudini
d'amore, da insensato animale, sì come io ho inteso, ti recarono ad essere
uomo; poi con dura fortuna e al presente con noiosa prigione voglion vedere se
l'animo tuo si muta da quello ch'era quando poco tempo lieto fosti della
guadagnata preda. Il quale, se quel medesimo è che già fu, niuna cosa tanto
lieta ti prestarono quanto è quella che al presente s'apparecchiano a donarti;
la quale, acciò che tu l'usate forze ripigli e divenghi animoso, io intendo di
dimostrarti. Pasimunda, lieto della tua disaventura e sollicito procuratore
della tua morte, quanto può s'affretta di celebrare le nozze della tua
Efigenia, acciò che in quelle goda della preda la qual prima lieta Fortuna
t'avea conceduta e subitamente turbata ti tolse. La qual cosa quanto ti debba
dolere, se così ami come io credo, per me medesimo il cognosco, al quale pari
ingiuria alla tua in un medesimo giorno Ormisda suo fratello s'apparecchia di
fare a me di Cassandra, la quale io sopra tutte l'altre cose amo. E a fuggire
tanta ingiuria e tanta noia della Fortuna, niuna via ci veggio da lei essere
stata lasciata aperta, se non la virtù de' nostri animi e delle nostre destre,
nelle quali aver ci convien le spade, e farci far via, a te alla seconda rapina
e a me alla prima delle due nostre donne; per che, se la tua, non vo' dir
libertà, la qual credo che poco senza la tua donna curi, ma la tua donna t'è
cara di riavere, nelle tue mani, volendo me alla mia impresa seguire, l'hanno
posta gl'iddii.
Queste parole tutto
feciono lo smarrito animo ritornare in Cimone e, senza troppo rispetto prendere
alla risposta, disse:
– Lisimaco, né più forte
né più fido compagno di me puoi avere a così fatta cosa, se quello me ne dee
seguire che tu ragioni; e per ciò quello che a te pare che per me s'abbia a
fare, impollomi, e vederati con maravigliosa forza seguire.
Al quale Lisimaco disse:
– Oggi al terzo dì le
novelle spose entreranno primieramente nelle case de' lor mariti, nelle quali
tu co' tuoi compagni armato, e io con alquanti miei né quali io mi fido assai,
in sul far della sera entreremo, e quelle del mezzo de' conviti rapite, ad una
nave, la quale io ho fatta segretamente apprestare, ne meneremo, uccidendo
chiunque ciò contrastare presummesse.
Piacque l'ordine a
Cimone, e tacito infino al tempo posto si stette in prigione. Venuto il giorno
delle nozze, la pompa fu grande e magnifica, e ogni parte della casa de' due
fratelli fu di lieta festa ripiena.
Lisimaco, ogni cosa
opportuna avendo apprestata, Cimone e i suoi compagni e similmente i suoi
amici, tutti sotto i vestimenti armati, quando tempo gli parve, avendogli prima
con molte parole al suo proponimento accesi, in tre parti divise, delle quali
cautamente l'una mandò al porto, acciò che niun potesse impedire il salire
sopra la nave quando bisognasse, e con l'altre due alle case di Pasimunda
venuti, una ne lasciò alla porta, acciò che alcun dentro non gli potesse
rinchiudere o a loro l'uscita vietare, e col rimanente insieme con Cimone montò
su per le scale. E pervenuti nella sala dove le nuove spose con molte altre
donne già a tavola erano per mangiare assettate, arditamente, fattisi innanzi e
gittate le tavole in terra, ciascun prese la sua, e nelle braccia de' compagni
messala, comandarono che alla nave apprestata le menassero di presente.
Le novelle spose
cominciarono a piagnere e a gridare, e il simigliante l'altre donne e i
servidori, e subitamente fu ogni cosa di romore e di pianto ripieno. Ma Cimone
e Lisimaco è lor compagni, tirate le spade fuori, senza alcun contasto, data
loro da tutti la via, verso le scale se ne vennero; e quelle scendendo, occorse
loro Pasimunda, il quale con un gran bastone in mano al romor traeva, cui
animosamente Cimone sopra la testa ferì, e ricisegliele ben mezza, e morto sel
fece cadere a' piedi. Allo aiuto del quale correndo il misero Ormisda,
similmente da un de' colpi di Cimone fu ucciso; e alcuni altri che appressar si
vollono, da' compagni di Lisimaco e di Cimone fediti e ributtati in dietro
furono.
Essi, lasciata piena la
casa di sangue e di romore e di pianto e di tristizia, senza alcuno
impedimento, stretti insieme con la lor rapina alla nave pervennero; sopra la
quale messe le donne e saliti essi tutti e i lor compagni, essendo già il lito
pien di gente armata che alla riscossa delle donne venia, dato de' remi in
acqua, lieti andaron pe' fatti loro. E pervenuti in Creti, quivi da molti e
amici e parenti lietamente ricevuti furono, e sposate le donne e fatta la festa
grande, lieti della loro rapina goderono. In Cipri e in Rodi furono i romori è
turbamenti grandi e lungo tempo per le costoro opere. Ultimamente,
interponendosi e nell'un luogo e nell'altro gli amici e i parenti di costoro,
trovaron modo che, dopo alcuno essilio, Cimone con Efigenia lieto si tornò in
Cipri, e Lisimaco similmente con Cassandra ritornò in Rodi, e ciascun
lietamente con la sua visse lungamente contento nella sua terra.
NOVELLA SECONDA
Gostanza ama Martuccio
Gomito, la quale, udendo che morto era, per disperata sola si mette in una
barca, la quale dal vento fu trasportata a Susa; ritruoval vivo in Tunisi,
palesaglisi, ed egli grande essendo col re per consigli dati, sposatala, ricco
con lei in Lipari se ne torna.
La reina, finita
sentendo la novella di Panfilo, poscia che molto commendata l'ebbe, ad Emilia
impose che una dicendone seguitasse; la quale così cominciò. Ciascun si dee
meritamente dilettare di quelle cose alle quali egli vede i guiderdoni secondo
le affezioni seguitare; e per ciò che amare merita più tosto diletto che
afflizione a lungo andare, con molto mio maggior piacere, della presente
materia parlando, ubbidirò la reina, che della precedente non feci il re.
Dovete adunque, dilicate
donne, sapere, che vicin di Cicilia è una isoletta chiamata Lipari, nella quale,
non è ancora gran tempo, fu una bellissima giovane chiamata Gostanza, d'assai
orrevoli genti dell'isola nata. Della quale un giovane che dell'isola era,
chiamato Martuccio Gomito, assai leggiadro e costumato e nel suo mestiere
valoroso, s'innamorò. La qual sì di lui similmente s'accese, che mai bene non
sentiva se non quanto il vedeva. E disiderando Martuccio d'averla per moglie,
al padre di lei la fece addimandare; il quale rispose lui esser povero e per
ciò non volergliele dare.
Martuccio, sdegnato di vedersi
per povertà rifiutare, con certi suoi amici e parenti armato un legnetto, giurò
di mai in Lipari non tornare se non ricco. E quindi partitosi, corseggiando
cominciò a costeggiare la Barberia, rubando ciascuno che meno poteva di lui;
nella qual cosa assai gli fu favorevole la fortuna, se egli avesse saputo por
modo alle felicità sue. Ma, non bastandogli d'essere egli è suoi compagni in
brieve tempo divenuti ricchissimi, mentre che di trasricchire cercavano,
avvenne che da certi di legni saracini, dopo lunga difesa, co' suoi compagni fu
preso e rubato, e di loro la maggior parte dà saracini mazzerati e isfondolato
il legno, esso menato a Tunisi fu messo in prigione e in lunga miseria
guardato. In Lipari tornò, non per uno o per due, ma per molte e diverse
persone, la novella che tutti quelli che con Martuccio erano sopra il legnetto
erano stati annegati. La giovane, la quale senza misura della partita di
Martuccio era stata dolente, udendo lui con gli altri esser morto, lungamente
pianse, e seco dispose di non voler più vivere; e non sofferendole il cuore di
sé medesima con alcuna violenza uccidere, pensò nuova necessità dare alla sua
morte; e uscita segretamente una notte di casa il padre e al porto venutasene,
trovò per ventura alquanto separata dall'altre navi una navicella di pescatori,
la quale (per ciò che pure allora smontati n'erano i signori di quella)
d'albero e di vela e di remi la trovò fornita. Sopra la quale prestamente
montata e co' remi alquanto in mar tiratasi, ammaestrata alquanto dell'arte
marinaresca, sì come generalmente tutte le femine in quella isola sono, fece
vela e gittò via i remi e il timone, e al vento tutta si commise avvisando
dover di necessità avvenire o che il vento barca senza carico e senza
governator rivolgesse, o ad alcuno scoglio la percotesse e rompesse, di che
ella, eziandio se campar volesse, non potesse, ma di necessità annegasse. E
avviluppatasi la testa in un mantello, nel fondo della barca piagnendo si mise
a giacere.
Ma tutto altramenti
addivenne che ella avvisato non avea; per ciò che, essendo quel vento che
traeva tramontana, e questo assai soave, e non essendo quasi mare, e ben
reggente la barca, il seguente dì alla notte che su montata v'era, in sul
vespro ben cento miglia sopra Tu nisi ad una piaggia vicina ad una città
chiamata Susa ne la portò.
La giovane d'essere più
in terra che in mare niente sentiva, sì come colei che mai per alcuno accidente
da giacere non avea il capo levato né di levare intendeva. Era allora per
avventura, quando la barca ferì sopra il lito, una povera feminetta alla
marina, la quale levava dal sole reti di suoi pescatori; la quale, vedendo la
barca, si maravigliò come colla vela piena fosse lasciata percuotere in terra.
E pensando che in quella i pescatori dormissono, andò alla barca, e niuna altra
persona che questa giovane vi vide; la quale essalei che forte dormiva, chiamò
molte volte, e alla fine fattala risentire e allo abito conosciutala che
cristiana era, parlando latino la domandò come fosse che ella quivi in quella
barca così soletta fosse arrivata.
La giovane, udendo la
favella latina, dubitò non forse altro vento l'avesse a Lipari ritornata; e
subitamente levatasi in piè riguardò attorno, e non conoscendo le contrade e
veggendosi in terra, domandò la buona femina dove ella fosse. A cui la buona
femina rispose:
– Figliuola mia, tu se'
vicina a Susa in Barberia. Il che udito la giovane, dolente che Iddio non
l'aveva voluto la morte mandare, dubitando di vergogna e non sappiendo che
farsi, a piè della sua barca a seder postasi, cominciò a piagnere.
La buona femina, questo
vedendo, ne le prese pietà, e tanto la pregò, che in una sua capannetta la
menò, e quivi tanto la lusingò che ella le disse come quivi arrivata fosse; per
che, sentendola la buona femina essere ancor digiuna, suo pan duro e alcun
pesce e acqua l'apparecchiò, e tanto la pregò ch'ella mangiò un poco.
La Gostanza appresso
domandò chi fosse la buona femina che così latin parlava; a cui ella disse che
da Trapani era e aveva nome Carapresa; e quivi serviva certi pescatori
cristiani.
La giovane, udendo dire
Carapresa, quantunque dolente fosse molto, e non sappiendo ella stessa che
cagione a ciò la si movesse, in sé stessa prese buono agurio d'aver questo nome
udito, e cominciò a sperar senza saper che e alquanto a cessare il disiderio
della morte; e, senza manifestar chi si fosse né donde, pregò caramente la
buona femina che per l'amor di Dio avesse misericordia della sua giovanezza e
che alcuno consiglio le desse per lo quale ella potesse fuggire che villania
fatta non le fosse.
Carapresa udendo costei,
a guisa di buona femina, lei nella capannetta lasciata, prestamente raccolte le
sue reti, a lei ritornò, e tutta nel suo mantello stesso chiusala, in Susa con
seco la menò, e quivi pervenuta le disse:
– Gostanza, io ti menerò
in casa d'una bonissima donna saracina, alla quale io fo molto spesso servigio
di sue bisogne, ed ella è donna antica e misericordiosa; io le ti raccomanderò
quanto io potrò il più, e certissima sono che ella ti riceverà volentieri e
come figliuola ti tratterà, e tu, con lei stando, t'ingegnerai a tuo potere,
servendola, d'acquistar la grazia sua insino a tanto che Iddio ti mandi miglior
ventura –; e come ella disse così fece.
La donna, la qual
vecchia era oramai, udita costei, guardò la giovane nel viso e cominciò a
lagrimare, e presala le baciò la fronte, e poi per la mano nella sua casa ne la
menò, nella quale ella con alquante altre femine dimorava senza alcuno uomo, e
tutte di diverse cose lavoravano di lor mano, di seta, di palma, di cuoio
diversi lavorii faccendo. De'quali la giovane in pochi dì apparò a fare alcuno,
e con loro insieme cominciò a lavorare; e in tanta grazia e buono amore venne
della buona donna e dell'altre, che fu maravigliosa cosa; e in poco spazio di
tempo, mostrandogliele esse, il lor linguaggio apparò. Dimorando adunque la
giovane in Susa, essendo già stata a casa sua pianta per perduta e per morta,
avvenne che, essendo re di Tunisi uno che si chiamava Mariabdela, un giovane di
gran parentado e di molta potenza, il quale era in Granata, dicendo che a lui
il reame di Tunisi apparteneva, fatta grandissima moltitudine di gente, sopra
il re di Tunisi se ne venne per cacciarlo del regno. Le quali cose venendo ad
orecchie a Martuccio Gomito in prigione, il qual molto bene sapeva il
barbaresco, e udendo che il re di Tunisi faceva grandissimo sforzo a sua
difesa, disse ad un di quegli li quali lui è suoi compagni guardavano:
– Se io potessi parlare
al re, e' mi dà il cuore che io gli darei un consiglio, per lo quale egli
vincerebbe la guerra sua.
La guardia disse queste
parole al suo signore, il quale al re il rapportò incontanente. Per la qual
cosa il re comandò che Martuccio gli fosse menato, e domandato da lui che
consiglio il suo fosse, gli rispose così:
– Signor mio, se io ho
bene, in altro tempo che io in queste vostre contrade usato sono, riguardato
alla maniera la qual tenete nelle vostre battaglie, mi pare che più con arcieri
che con altro quelle facciate; e per ciò, ove si trovasse modo che agli arcieri
del vostro avversario mancasse il saettamento è vostri n'avessero
abbondevolmente, io avviso che la vostra battaglia si vincerebbe. A cui il re
disse:
– Senza dubbio, se
cotesto si potesse fare, io mi crederrei esser vincitore.
Al quale Martuccio
disse:
– Signor mio, dove voi
vogliate, egli si potrà ben fare, e udite come. A voi convien far fare corde
molto più sottili agli archi de' vostri arcieri, che quelle che per tutti
comunalmente s'usano; e appresso far fare saettamento, le cocche del quale non
sieno buone se non a queste corde sottili; e questo convien che sia sì
segretamente fatto, che il vostro avversario nol sappia, per ciò che egli ci
troverebbe modo. E la cagione per che io dico questo è questa. Poi che gli
arcieri del vostro nimico avranno il suo saettamento saettato e i vostri il
suo, sapete che di quello che i vostri saettato avranno converrà, durando la
battaglia, che i vostri nimici ricolgano, e a' nostri converrà ricoglier del
loro; ma gli avversari non potranno il saettamento saettato dà vostri
adoperare, per le picciole cocche che non riceveranno le corde grosse, dove a'
vostri avverrà il contrario del saettamento de' nimici, per ciò che la sottil corda
riceverà ottimamente la saetta che avrà larga cocca; e così i vostri saranno di
saettamento copiosi, dove gli altri n'avranno difetto.
Al re, il quale savio
signore era, piacque il consiglio di Martuccio; e interamente seguitolo, per
quello trovò la sua guerra aver vinta; laonde sommamente Martuccio venne nella
sua grazia, e per conseguente in grande e ricco stato.
Corse la fama di queste
cose per la contrada; e agli orecchi della Gostanza pervenne Martuccio Gomito
esser vivo, il quale lungamente morto aveva creduto; per che l'amor di lui, già
nel cuor di lei intiepidito, con subita fiamma si riaccese e divenne maggiore,
e la morta speranza suscitò. Per la qual cosa alla buona donna con cui dimorava
interamente ogni suo accidente aperse, e le disse sé disiderare d'andare a
Tunisi, acciò che gli occhi saziasse di ciò che gli orecchi con le ricevute
voci fatti gli avean disiderosi. La quale il suo disiderio le lodò molto, e
come sua madre stata fosse, entrata in una barca, con lei insieme a Tunisi
andò, dove con la Gostanza in casa d'una sua parente fu ricevuta onorevolmente.
Ed essendo con lei
andata Carapresa, la mandò a sentire quello che di Martuccio trovar potesse; e
trovato lui esser vivo e in grande stato, e rapportogliele, piacque alla gentil
donna di volere essere colei che a Martuccio significasse quivi a lui esser
venuta la sua Gostanza. E andatasene un dì là dove Martuccio era, gli disse:
– Martuccio, in casa mia
è capitato un tuo servidore che vien da Lipari, e quivi ti vorrebbe
segretamente parlare; e per ciò, per non fidarmene ad altri, sì come egli ha
voluto, io medesima tel sono venuta a significare.
Martuccio la ringraziò,
e appresso lei alla sua casa se n'andò.
Quando la giovane il
vide, presso fu che di letizia non morì, e non potendosene tenere, subitamente
con le braccia aperte gli corse al collo e abbracciollo, e per compassione de'
passati infortuni e per la presente letizia, senza potere alcuna cosa dire,
teneramente cominciò a lagrimare.
Martuccio, veggendo la
giovane, alquanto maravigliandosi soprastette, e poi sospirando disse:
– O Gostanza mia, or
sétu viva? Egli è buon tempo che io intesi che tu perduta eri, né a casa nostra
di te alcuna cosa si sapeva –; e questo detto, teneramente lagrimando
l'abbracciò e baciò.
La Gostanza gli raccontò
ogni suo accidente, e l'onore che ricevuto avea dalla gentil donna con la quale
dimorata era. Martuccio, dopo molti ragionamenti da lei partitosi, al re suo
signore n'andò e tutto gli raccontò, cioè i suoi casi e quegli della giovane,
aggiugnendo che, con sua licenzia, intendeva secondo la nostra legge di
sposarla.
Il re si maravigliò di
queste cose; e fatta la giovane venire, e da lei udendo che così era come Martuccio
aveva detto, disse:
– Adunque l'hai tu per
marito molto ben guadagnato. E fatti venire grandissimi e nobili doni, parte a
lei ne diede e parte a Martuccio, dando loro licenzia di fare intra sé quello
che più fosse a grado a ciascheduno.
Martuccio onorata molto
la gentil donna con la quale la Gostanza dimorata era e ringraziatala di ciò
che in servigio di lei aveva adoperato e donatile doni quali a lei si
confaceano e accomandatala a Dio, non senza molte lagrime dalla Gostanza si
partì. E appresso con licenzia del re sopra un legnetto montati, e con loro
Carapresa, con prospero vento a Lipari ritornarono, dove fu sì grande la festa
che dir non si potrebbe giammai. Quivi Martuccio la sposò e grandi e belle
nozze fece, e poi appresso con lei insieme in pace e in riposo lungamente
goderono del loro amore.
NOVELLA TERZA
Pietro Boccamazza si
fugge con l'Agnolella; truova ladroni; la giovane fugge per una selva, ed è
condotta ad un castello; Pietro è preso e delle mani de' ladroni fugge, e dopo
alcuno accidente, capita a quel castello dove l'Agnolella era, e sposatala con
lei se ne torna a Roma.
Niuno ne fu tra tutti
che la novella d'Emilia non commendasse; la qual conoscendo la reina esser
finita, volta ad Elissa, che ella continuasse le 'mpose. La quale, d'ubbidire
disiderosa, incominciò.
A me, vezzose donne, si
para dinanzi una malvagia notte da due giovanetti poco discreti avuta; ma, per
ciò che ad essa seguitarono molti lieti giorni, sì come conforme al nostro
proposito, mi piace di raccontarla. In Roma, la quale, come è oggi coda, così
già fu capo del mondo, fu un giovane, poco tempo fa, chiamato Pietro
Boccamazza, di famiglia tra le romane assai onorevole, il quale s'innamorò
d'una bellissima e vaga giovane chiamata Agnolella, figliuola d'uno ch'ebbe
nome Gigliuozzo Saullo, uomo plebeio ma assai caro a' romani. E amandola, tanto
seppe operare, che la giovane cominciò non meno ad amar lui che egli amasse
lei. Pietro, da fervente amor costretto, e non parendogli più dover sofferire
l'aspra pena che il disiderio che avea di costei gli dava, la domandò per
moglie. La qual cosa come i suoi parenti seppero, tutti furono a lui e
biasimarongli forte ciò che egli voleva fare; e d'altra parte fecero dire a
Gigliuozzo Saullo che a niun partito attendesse alle parole di Pietro, per ciò
che, se 'l facesse, mai per amico né per parente l'avrebbero.
Pietro, veggendosi
quella via impedita per la qual sola si credeva potere al suo disio pervenire,
volle morir di dolore; e se Gigliuozzo l'avesse consentito, contro al piacere
di quanti parenti avea, per moglie la figliuola avrebbe presa; ma pur si mise
in cuore, se alla giovane piacesse, di far che questa cosa avrebbe effetto; e
per interposita persona sentito che a grado l'era, con lei si convenne di
doversi con lui di Roma fuggire. Alla qual cosa dato ordine, Pietro una mattina
per tempissimo levatosi, con lei insieme montò a cavallo, e presero il cammin
verso Alagna, là dove Pietro aveva certi amici de' quali esso molto si
confidava; e così cavalcando, non avendo spazio di far nozze, per ciò che
temevano d'esser seguitati, del loro amore andando insieme ragionando, alcuna
volta l'un l'altro baciava.
Ora avvenne che, non
essendo a Pietro troppo noto il cammino, come forse otto miglia da Roma
dilungati furono, dovendo a man destra tenere, si misero per una via a
sinistra. Né furono guari più di due miglia cavalcati, che essi si videro
vicini ad un castelletto, del quale, essendo stati veduti, subitamente uscirono
da dodici fanti. E già essendo loro assai vicini, la giovane gli vide, per che
gridando disse:
– Pietro, campiamo, ché
noi siamo assaliti –; e come seppe, verso una selva grandissima volse il suo
ronzino; e tenendogli gli sproni stretti al corpo, attenendosi all'arcione, il
ronzino, sentendosi pugnere, correndo per quella selva ne la portava.
Pietro, che più al viso
di lei andava guardando che al cammino, non essendosi tosto come lei de fanti
che venieno avveduto, mentre che egli senza vedergli ancora andava guardando
donde venissero, fu da loro sopraggiunto e preso e fatto del ronzino smontare;
e domandato chi egli era, e avendol detto, costor cominciaron fra loro ad aver
consiglio e a dire:
– Questi è degli amici
de' nimici nostri; che ne dobbiam fare altro, se non torgli quei panni e quel
ronzino e impiccarlo per dispetto degli Orsini ad una di queste querce? –
Ed essendosi tutti a
questo consiglio accordati, avevano a Pietro comandato che si spogliasse.
Il quale spogliandosi,
già del suo male indovino, avvenne che un guato di ben venticinque fanti
subitamente uscì addosso a costoro gridando: – Alla morte, alla morte! – Li
quali soprappresi da questo, lasciato star Pietro, si volsero alla lor difesa;
ma, veggendosi molti meno che gli assalitori, cominciarono a fuggire, e costoro
a seguirgli. La qual cosa Pietro veggendo, subitamente prese le cose sue e salì
sopra il suo ronzino e cominciò quanto poteva a fuggire per quella via donde
aveva veduto che la giovane era fuggita. Ma, non vedendo per la selva né via né
sentiero, né pedata di caval conoscendovi, poscia che a lui parve esser sicuro
e fuor delle mani di coloro che preso l'aveano e degli altri ancora da cui
quegli erano stati assaliti, non ritrovando la sua giovane, più doloroso che
altro uomo, cominciò a piagnere e ad andarla or qua or là per la selva
chiamando; ma niuna persona gli rispondeva, ed esso non ardiva a tornare
addietro, e andando innanzi non conosceva dove arrivar si dovesse; e d'altra
parte delle fiere che nelle selve sogliono abitare aveva ad una ora di sé
stesso paura e della sua giovane, la qual tuttavia gli pareva vedere o da orso
o da lupo strangolare. Andò adunque questo Pietro sventurato tutto il giorno
per questa selva gridando e chiamando, a tal ora tornando indietro che egli si
credeva innanzi andare; e già, tra per lo gridare e per lo piagnere e per la
paura e per lo lungo digiuno, era sì vinto, che più avanti non poteva. E
vedendo la notte sopravvenuta, non sappiendo che altro consiglio pigliarsi,
trovata una grandissima quercia, smontato del ronzino a quella il legò, e
appresso, per non essere dalle fiere divorato la notte, su vi montò; e poco
appresso levatasi la luna e 'l tempo essendo chiarissimo, non avendo Pietro
ardir d'addormentarsi per non cadere (come che, perché pure agio avuto
n'avesse, il dolore né i pensieri che della sua giovane avea non l'avrebbero
lasciato); per che egli, sospirando e piagnendo e seco la sua disaventura
maladicendo, vegghiava. La giovane fuggendo, come davanti dicemmo, non
sappiendo dove andarsi, se non come il suo ronzino stesso dove più gli pareva
ne la portava, si mise tanto fra la selva, che ella non poteva vedere il luogo
donde in quella entrata era; per che, non altramenti che avesse fatto Pietro,
tutto 'l dì, ora aspettando e ora andando, e piagnendo e chiamando e della sua
sciagura dolendosi, per lo salvatico luogo s'andò avvolgendo. Alla fine,
veggendo che Pietro non venia, essendo già vespro, s'abbattè ad un sentieruolo,
per lo qual messasi e seguitandolo il ronzino, poi che più di due miglia fu
cavalcata, di lontano si vide davanti una casetta, alla quale essa come più
tosto potè se n'andò, e quivi trovò un buono uomo attempato molto con una sua
moglie che similmente era vecchia.
Li quali, quando la
videro sola, dissero:
– O figliuola, che vai
tu a questa ora così sola faccendo per questa contrada?
La giovane piagnendo
rispose che aveva la sua compagnia nella selva smarrita, e domandò come presso
fosse ad Alagna.
A cui il buono uomo
rispose:
– Figliuola mia, questa
non è la via d'andare ad Alagna, egli ci ha delle miglia più di dodici.
Disse allora la giovane:
– E come ci sono
abitanze presso da potere albergare? A cui il buono uomo rispose:
– Non ci sono in niun
luogo sì presso, che tu di giorno vi potessi andare.
Disse la giovane allora:
– Piacerebbev'egli, poi
che altrove andar non posso, di qui ritenermi per l'amor di Dio istanotte?
Il buono uomo rispose:
– Giovane, che tu con
noi ti rimanga per questa sera n'è caro; ma tuttavia ti vogliam ricordare che
per queste contrade e di dì e di notte e d'amici e di nemici vanno di male
brigate assai, le quali molte volte ne fanno di gran dispiaceri e di gran
danni; e se per isciagura, essendoci tu, ce ne venisse alcuna, e veggendoti
bella e giovane come tu se', è ti farebbono dispiacere e vergogna, e noi non te
ne potremmo aiutare. Vogliantelo aver detto, acciò che tu poi, a se questo
avvenisse, non ti possi di noi ramaricare.
La giovane, veggendo che
l'ora era tarda, ancora che le parole del vecchio la spaventassero, disse:
– Se a Dio piacerà, egli
ci guarderà e voi e me di questa noia, la quale, se pur m'avvenisse, è molto
men male essere dagli uomini straziata, che sbranata per li boschi dalle fiere.
E così detto, discesa
del suo ronzino, se n'entrò nella casa del povero uomo, e quivi con essoloro di
quello che avevano poveramente cenò, e appresso tutta vestita in su un lor
letticello con loro insieme a giacer si gittò, né in tutta la notte di
sospirare né di piagnere la sua sventura e quella di Pietro, del quale non
sapea che si dovesse sperare altro che male, non rifinò.
Ed essendo già vicino al
matutino, ella sentì un gran calpestio di gente andare; per la qual cosa,
levatasi, se n'andò in una gran corte, che la piccola casetta di dietro a sé
avea, e vedendo dall'una delle parti di quella molto fieno, in quello s'andò a
nascondere, acciò che, se quella gente quivi venisse, non fosse così tosto
trovata. E appena di nasconder compiuta s'era, che coloro, che una gran brigata
di malvagi uomini era, furono alla porta della piccola casa, e fattosi aprire e
dentro entrati e trovato il ronzino della giovane ancora con tutta la sella
domandarono chi vi fosse.
Il buono uomo, non
vedendo la giovane, rispose:
– Niuna persona ci è
altro che noi; ma questo ronzino, a cui che fuggito si sia, ci capitò iersera,
e noi cel mettemmo in casa, acciò che i lupi nol manicassero.
– Adunque, – disse il
maggior della brigata – sarà egli buon per noi, poi che altro signor non ha.
Sparti adunque costoro
tutti per la piccola casa, parte n'andò nella corte, e poste giù lor lance e
lor tavolacci, avvenne che uno di loro, non sappiendo altro che farsi, gittò la
sua lancia nel fieno e assai vicin fu ad uccidere la nascosa giovane ed ella a
palesarsi, per ciò che la lancia le venne allato alla sinistra poppa, tanto che
col ferro le stracciò de' vestimenti, laonde ella fu per mettere un grande
strido temendo d'esser fedita; ma ricordandosi là dove era, tutta riscossasi,
stette cheta.
La brigata chi qua e chi
là, cotti lor cavretti e loro altra carne, e mangiato e bevuto, s'andarono pe'
fatti loro, e menaronsene il ronzino della giovane. Ed essendo già dilungati
alquanto, il buono uomo cominciò a domandar la moglie:
– Che fu della nostra
giovane che iersera ci capitò, che io veduta non la ci ho poi che noi ci
levammo?
La buona femina rispose
che non sapea, e andonne guatando.
La giovane, sentendo
coloro esser partiti, uscì del fieno; di che il buono uomo forte contento, poi
che vide che alle mani di coloro non era venuta, e faccendosi già dì, le disse:
– Omai che il dì ne
viene, se ti piace, noi t'accompagneremo infino ad un castello che è presso di
qui cinque miglia, e sarai in luogo sicuro; ma converratti venire a piè, per
ciò che questa mala gente che ora di qui si parte, se n'ha menato il ronzin
tuo.
La giovane, datasi pace
di ciò, gli pregò per Dio che al castello la menassero; per che entrati in via,
in su la mezza terza vi giunsero.
Era il castello di uno
degli Orsini, lo quale si chiamava Liello di Campo di Fiore, e per ventura v'era
una sua donna, la qual bonissima e santa donna era; e veggendo la giovane,
prestamente la riconobbe e con festa la rice vette, e ordinatamente volle
sapere come quivi arrivata fosse. La giovane gliele contò tutto.
La donna, che cognoscea
similmente Pietro, sì come amico del marito di lei, dolente fu del caso
avvenuto; e udendo dove stato fosse preso, s'avvisò che morto fosse stato.
Disse adunque alla
giovane:
– Poi che così è che di
Pietro tu non sai, tu dimorerai qui meco infino a tanto che fatto mi verrà di
potertene sicuramente mandare a Roma.
Pietro, stando sopra la
quercia quanto più doloroso esser potea, vide in sul primo sonno venir ben
venti lupi, li quali tutti, come il ronzin videro, gli furon dintorno. Il
ronzino sentendogli, tirata la testa, ruppe le cavezzine e cominciò a volersi
fuggire; ma essendo intorniato e non potendo, gran pezza co' denti e co' calci
si difese; alla fine da loro atterrato e strozzato fu e subitamente sventrato,
e tutti pascendosi, senza altro lasciarvi che l'ossa, il divorarono e andar
via. Di che Pietro, al qual pareva del ronzino avere una compagnia e un
sostegno delle sue fatiche, forte sbigottì e imaginossi di non dover mai di
quella selva potere uscire.
Ed essendo già vicino al
dì, morendosi egli sopra la quercia di freddo, sì come quegli che sempre
dattorno guardava, si vide innanzi forse un miglio un grandissimo fuoco; per
che, come fatto fu il dì chiaro, non senza paura della quercia disceso, verso
là si dirizzò, e tanto andò che a quello pervenne; dintorno al quale trovò
pastori che mangiavano e davansi buon tempo, dà quali esso per pietà fu
raccolto. E poi che egli mangiato ebbe e fu riscaldato, contata loro la sua
disaventura e come quivi solo arrivato fosse, gli domandò se in quelle parti
fosse villa o castello, dove egli andar potesse.
I pastori dissero che
ivi forse a tre miglia era un castello di Liello di Campo di Fiore, nel quale
al presente era la donna sua; di che Pietro contentissimo gli pregò che alcuno
di loro infino al castello l'accompagnasse, il che due di loro fecero
volentieri. Al quale pervenuto Pietro, e quivi avendo trovato alcun suo
conoscente, cercando di trovar modo che la giovane fosse per la selva cercata,
fu da parte della donna fatto chiamare; il quale incontanente andò a lei, e vedendo
con lei l'Agnolella, mai pari letizia non fu alla sua.
Egli si struggeva tutto
d'andarla ad abbracciare, ma per vergogna, la quale avea della donna, lasciava.
E se egli fu lieto assai, la letizia della giovane vedendolo non fu minore.
La gentil donna,
raccoltolo e fattogli festa, e avendo da lui ciò che intervenuto gli era udito,
il riprese molto di ciò che contro al piacer de' parenti suoi far voleva. Ma,
veggendo che egli era pure a questo disposto e che alla giovane aggradiva,
disse:
– In che m'affatico io?
Costor s'amano, costor si conoscono, ciascuno è parimente amico del mio marito,
e il lor desiderio è onesto; e credo che egli piaccia a Dio, poi che l'uno
dalle forche ha campato, e l'altro dalla lancia, e amenduni dalle fiere
selvatiche; e però facciasi –.
E a loro rivolta disse:
– Se pure questo v'è
all'animo di volere essere moglie e marito insieme, e a me; facciasi, e qui le
nozze s'ordinino alle spese di Liello; la pace poi tra voi è vostri parenti
farò io ben fare.
Pietro lietissimo, e
l'Agnolella più, quivi si sposarono; e come in montagna si potè, la gentil
donna fè loto onorevoli nozze, e quivi i primi frutti del loro amore
dolcissimamente sentirono.
Poi, ivi a parecchi dì,
la donna insieme con loro, montati a cavallo e bene accompagnati, se ne
tornarono a Roma; dove, trovati forte turbati i parenti di Pietro di ciò che
fatto aveva, con loro in buona pace il ritornò; ed esso con molto riposo e
piacere con la sua Agnolella infino alla lor vecchiezza si visse.
NOVELLA QUARTA
Ricciardo Manardi è
trovato da messer Lizio da Valbona con la figliuola, la quale egli sposa, e col
padre di lei rimane in buona pace.
Tacendosi Elissa, le
lode ascoltando dalle sue compagne date alla sua novella, impose la reina a
Filostrato che alcuna ne dicesse egli; il quale ridendo incominciò.
Io sono stato da tante
di voi tante volte morso, perché io materia da crudeli ragionamenti e da farvi
piagner v'imposi, che a me pare, a volere alquanto questa noia ristorare, esser
tenuto di dover dire alcuna cosa per la quale io alquanto vi faccia ridere; e
per ciò uno amore, non da altra noia che di sospiri e d'una brieve paura con
vergogna mescolata, a lieto fin pervenuto, in una novelletta assai piccola
intendo di raccontarvi.
Non è adunque, valorose
donne, gran tempo passato che in Romagna fu un cavaliere assai da bene e
costumato, il qual fu chiamato messer Lizio da Valbona, a cui per ventura
vicino alla sua vecchiezza una figliuola nacque d'una sua donna chiamata
madonna Giacomina, la quale oltre ad ogn'altra della contrada, crescendo,
divenne bella e piacevole; e per ciò che sola era al padre e alla madre rimasa,
sommamente da loro era amata e avuta cara e con maravigliosa diligenza
guardata, aspettando essi di far di lei alcun gran parentado.
Ora usava molto nella
casa di messer Lizio, e molto con lui si riteneva, un giovane bello e fresco
della persona, il quale era de' Manardi da Brettinoro, chiamato Ricciardo, del
quale niun'altra guardia messer Lizio o la sua donna prendevano, che fatto
avrebbon d'un lor figliuolo. Il quale, una volta e altra veggendo la giovane
bellissima e leggiadra, e di laudevoli maniere e costumi e già da marito, di
lei fieramente s'innamorò, e con gran diligenza il suo amore teneva occulto.
Del quale avvedutasi la giovane, senza schifar punto il colpo, lui similmente
cominciò ad amare; di che Ricciardo fu forte contento. E avendo molte volte
avuta voglia di doverle alcuna parola dire, e dubitando taciutosi, pure una,
preso tempo e ardire, le disse:
– Caterina, io ti priego
che tu non mi facci morire amando.
La giovane rispose
subito:
– Volesse Iddio che tu
non facessi più morir me.
Questa risposta molto di
piacere e d'ardire aggiunse a Ricciardo, e dissele:
– Per me non istarà mai
cosa che a grado ti sia, ma a te sta il trovar modo allo scampo della tua vita
e della mia.
La giovane allora disse:
– Ricciardo, tu vedi
quanto io sia guardata, e per ciò da me non so veder come tu a me ti potessi
venire; ma, se tu sai veder cosa che io possa senza mia vergogna fare, dillami,
e io la farò.
Ricciardo, avendo più
cose pensato, subitamente disse:
– Caterina mia dolce, io
non so alcuna via veder, se già tu non dormissi o potessi venire in su 'l
verone che è presso al giardino di tuo padre, dove se io sapessi che tu di
notte fossi, senza fallo io m'ingegnere' di venirvi, quantunque molto alto sia.
A cui la Caterina rispose:
– Se quivi ti dà il
cuore di venire, io mi credo ben far sì che fatto mi verrà di dormirvi.
Ricciardo disse di sì. E
questo detto, una volta sola si baciarono alla sfuggita, e andar via.
Il dì seguente, essendo
già vicino alla fine di maggio, la giovane cominciò davanti alla madre a
ramaricarsi che la passata notte per lo soperchio caldo non aveva potuto
dormire.
Disse la madre:
– O figliuola, che caldo
fu egli? Anzi non fu egli caldo veruno.
A cui la Caterina disse:
– Madre mia, voi
dovreste dire – a mio parere –, e forse vi direste il vero; ma voi dovreste
pensare quanto sieno più calde le fanciulle che le donne attempate.
La donna disse allora:
– Figliuola mia, così è
il vero; ma io non posso far caldo e freddo a mia posta, come tu forse
vorresti. I tempi si convengon pur sofferir fatti come le stagioni gli danno;
forse quest'altra notte sarà più fresco, e dormirai meglio.
– Ora Iddio il voglia, –
disse la Caterina – ma non suole essere usanza che, andando verso la state, le
notti si vadan rinfrescando.
– Dunque, – disse la
donna – che vuoi tu che si faccia? Rispose la Caterina:
– Quando a mio padre e a
voi piacesse, io farei volentieri fare un letticello in su 'l verone che è
allato alla sua camera e sopra il suo giardino, e quivi mi dormirei, e udendo
cantare l'usignuolo, e avendo il luogo più fresco, molto meglio starei che nella
vostra camera non fo.
La madre allora disse:
– Figliuola, confortati;
io il dirò a tuo padre, e come egli vorrà così faremo.
Le quali cose udendo
messer Lizio dalla sua donna, per ciò che vecchio era e da questo forse un poco
ritrosetto, disse:
– Che rusignuolo è
questo a che ella vuol dormire? Io la farò ancora addormentare al canto delle
cicale.
Il che la Caterina
sappiendo, più per isdegno che per caldo, non solamente la seguente notte non
dormì, ma ella non lasciò dormire la madre, pur del gran caldo dolendosi. Il
che avendo la madre sentito, fu la mattina a messer Lizio e gli disse:
– Messer, voi avete poco
cara questa giovane. Che vi fa egli perché ella sopra quel veron si dorma? Ella
non ha in tutta notte trovato luogo di caldo, e oltre a ciò maravigliatevi voi
perché egli le sia in piacere l'udir cantar l'usignuolo, che è una fanciullina?
I giovani son vaghi delle cose simiglianti a loro.
Messer Lizio udendo
questo disse:
– Via, faccialevisi un
letto tale quale egli vi cape, e fallo fasciar dattorno d'alcuna sargia, e
dormavi, e oda cantar l'usignuolo a suo senno.
La giovane, saputo
questo, prestamente vi fece fare un letto; e dovendovi la sera vegnente
dormire, tanto attese che ella vide Ricciardo, e fecegli un segno posto tra
loro, per lo quale egli intese ciò che far si dovea. Messer Lizio, sentendo la
giovane essersi andata al letto, serrato uno uscio che della sua camera andava
sopra 'l verone, similmente s'andò a dormire.
Ricciardo, come d'ogni
parte sentì le cose chete, con lo aiuto d'una scala salì sopra un muro, e poi
d'in su quel muro appiccandosi a certe morse d'un altro muro, con gran fatica e
pericolo, se caduto fosse, pervenne in sul verone, dove chetamente con
grandissima festa dalla giovane fu ricevuto; e dopo molti baci si coricarono
insieme, e quasi per tutta la notte diletto e piacer presono l'un dell'altro,
molte volte faccendo cantar l'usignuolo. Ed essendo le notti piccole e il
diletto grande, e già al giorno vicino (il che essi non credevano), e sì ancora
riscaldati e sì dal tempo e sì dallo scherzare, senza alcuna cosa addosso
s'addormentarono, avendo a Caterina col destro braccio abbracciato sotto il
collo Ricciardo, e con la sinistra mano presolo per quella cosa che voi tra gli
uomini più vi vergognate di nominare.
E in cotal guisa
dormendo, senza svegliarsi, sopravenne il giorno, e messer Lizio si levò; e
ricordandosi la fi gliuola dormire sopra 'l verone, chetamente l'uscio aprendo
disse:
– Lasciami vedere come
l'usignuolo ha fatto questa notte dormir la Caterina.
E andato oltre,
pianamente levò alta la sargia della quale il letto era fasciato e Ricciardo e
lei vide ignudi e scoperti dormire abbracciati nella guisa di sopra mostrata; e
avendo ben conosciuto Ricciardo, di quindi s'uscì, e andonne alla camera della sua
donna e chiamolla, dicendo:
– Su tosto, donna,
lievati e vieni a vedere, ché tua figliuola è stata sì vaga dell'usignuolo che
ella è stata tanto alla posta che ella l'ha preso e tienlosi in mano. Disse la
donna:
– Come può questo
essere?
Disse messer Lizio:
– Tu il vedrai se tu
vien tosto.
La donna, affrettatasi
di vestire, chetamente seguitò messer Lizio, e giunti amenduni al letto e
levata la sargia, potè manifestamente vedere madonna Giacomina come la
figliuola avesse preso e tenesse l'usignuolo, il quale ella tanto disiderava
d'udir cantare. Di che la donna, tenendosi forte di Ricciardo ingannata, volle
gridare e dirgli villania; ma messer Lizio le disse:
– Donna, guarda che per
quanto tu hai caro il mio amore tu non facci motto, ché in verità, poscia che
ella l'ha preso, egli sì sarà suo. Ricciardo è gentile uomo e ricco giovane;
noi non possiamo aver di lui altro che buon parentado; se egli si vorrà a buon
concio da me partire, egli converra che primieramente la sposi; sì ch'egli si
troverrà aver messo l'usignuolo nella gabbia sua e non nell'altrui.
Di che la donna
racconsolata, veggendo il marito non esser turbato di questo fatto, e
considerando che la figliuola aveva avuta la buona notte ed erasi ben riposata
e aveva l'usignuolo preso, si tacque.
Né guari dopo queste
parole stettero, che Ricciardo si svegliò, e veggendo che il giorno era chiaro,
si tenne morto, e chiamò la Caterina, dicendo:
– Ohimè, anima mia, come
faremo, ché il giorno è venuto e hammi qui colto?
Alle quali parole messer
Lizio, venuto oltre e levata la sargia, rispose:
– Farete bene.
Quando Ricciardo li
vide, parve che gli fosse il cuor del corpo strappato e levatosi a sedere in
sul letto disse:
– Signor mio, io vi
cheggio mercé per Dio. Io conosco, sì come disleale e malvagio uomo, aver
meritato morte, e per ciò fate di me quello che più vi piace. Ben vi priego io,
se esser può, che voi abbiate della mia vita mercè, e che io non muoia. A cui
messer Lizio disse:
– Ricciardo, questo non
meritò l'amore il quale io ti portava e la fede la quale io aveva in te; ma
pur, poi che così è e a tanto fallo t'ha trasportato la giovanezza, acciò che
tu tolga a te la morte e a me la vergogna, prima che tu ti muova, sposa per tua
legittima moglie la Caterina, acciò che, come ella è stata questa notte tua,
così sia mentre ella viverà; e in questa guisa puoi e la mia pace e la tua
salvezza acquistare; e ove tu non vogli così fare, raccomanda a Dio l'anima
tua.
Mentre queste parole si
dicevano, la Caterina lasciò l'usignuolo, e ricopertasi, cominciò fortemente a
piagnere e a pregare il padre che a Ricciardo perdonasse; e d'altra parte
pregava Ricciardo che quel facesse che messer Lizio volea, acciò che con
sicurtà e lungo tempo potessono insieme di così fatte notti avere. Ma a ciò non
furono troppi prieghi bisogno; per ciò che d'una parte la vergogna del fallo
commesso e la voglia dello emendare, e d'altra la paura del morire e il di
siderio dello scampare, e oltre a questo l'ardente amore e l'appetito del
possedere la cosa amata, liberamente e senza alcuno indugio gli fecer dire sé
esser apparecchiato a far ciò che a messer Lizio piaceva.
Per che messer Lizio,
fattosi prestare a madonna Giacomina uno de' suoi anelli, quivi, senza mutarsi,
in presenzia di loro Ricciardo per sua moglie sposò la Caterina. La qual cosa
fatta, messer Lizio e la donna partendosi dissono:
– Riposatevi oramai, ché
forse maggior bisogno n'avete che di levarvi.
Partiti costoro, i
giovani si rabbracciarono insieme, e non essendo più che sei miglia camminati
la notte, altre due anzi che si levassero ne camminarono, e fecer fine alla
prima giornata.
Poi levati, e Ricciardo
avuto più ordinato ragionamento con messer Lizio, pochi dì appresso, sì come si
convenia, in presenzia degli amici e de' parenti da capo sposò la giovane, e
con gran festa se ne la menò a casa, e fece onorevoli e belle nozze, e poi con
lei lungamente in pace e in consolazione uccellò agli usignuoli e di dì e di
notte quanto gli piacque.
NOVELLA QUINTA
Guidotto da Cremona
lascia a Giacomin da Pavia una fanciulla, e muorsi; la quale Giannol di
Severino e Minghino di Mingole amano in Faenza; azzuffansi insieme; riconoscesi
la fanciulla esser sirocchia di Giannole, e dassi per moglie a Minghino.
Aveva ciascuna donna, la
novella dell'usignolo ascoltando, tanto riso, che ancora, quantunque Filostrato
ristato fosse di novellare, non per ciò esse di ridere si potevan tenere. Ma
pur, poi che alquanto ebber riso, la reina disse:
– Sicuramente, se tu
ieri ci affliggesti, tu ci hai oggi tanto dileticate, che niuna meritamente più
di te si dee ramaricare.
E avendo a Neifile le
parole rivolte, le 'mpose che novellasse; la quale lietamente così cominciò a
parlare.
Poi che Filostrato
ragionando in Romagna è intrato, a me per quella similmente gioverà d'andare
alquanto spaziandomi col mio novellare. Dico adunque che già nella città di
Fano due lombardi abitarono, de' quali l'un fu chiamato Guidotto da Cremona e
l'altro Giacomin da Pavia, uomini omai attempati e stati nella lor gioventudine
quasi sempre in fatti d'arme e soldati. Dove, venendo a morte Guidotto, e niuno
figliuolo avendo né altro amico o parente di cui più si fidasse che di Giacomin
facea, una sua fanciulla d'età forse di dieci anni, e ciò che egli al mondo
avea, molto de' suoi fatti ragionatogli, gli lasciò, e morissi. Avvenne in
questi tempi che la città di Faenza, lungamente in guerra e in mala ventura
stata, alquanto in miglior disposizion ritornò, e fu a ciascun che ritornar vi
volesse libarerete conceduto il potervi tornare; per la qual cosa Giacomino,
che altra volta dimorato v'era, e piacendogli la stanza, là con ogni sua cosa
si tornò, e se co ne menò la fanciulla lasciatagli da Guidotto, la quale egli
come propria figliuola amava e trattava. La quale crescendo divenne bellissima
giovane quanto alcuna altra che allora fosse nella città; e così come era
bella, era costumata e onesta. Per la qual cosa da diversi fu cominciata a
vagheggiare, ma sopra tutti due giovani assai leggiadri e da bene igualmente le
posero grandissimo amore, in tanto che per gelosia insieme si 'ncominciarono ad
avere in odio fuor di modo: e chiamavasi l'un Giannole di Severino, e l'altro
Minghino di Mingole. Né era alcuno di loro, essendo ella d'età di quindici
anni, che volentieri non l'avesse per moglie presa, se dà suoi parenti fosse
stato sofferto; per che, veggendolasi per onesta cagione vietare, ciascuno a
doverla, in quella guisa che meglio potesse, avere, si diede a procacciare.
Aveva Giacomino in casa
una fante attempata e un fante che Crivello aveva nome, persona sollazzevole e
amichevole assai; col quale Giannole dimesticatosi molto, quando tempo gli
parve, ogni suo amore discoperse, pregandolo che a dovere il suo disidero
ottenere gli fosse favorevole, gran cose se ciò facesse promettendogli. Al
quale Crivello disse:
– Vedi, in questo io non
potrei per te altro adoperare se non che quando Giacomino andasse in alcuna
parte a cenare, metterti là dove ella fosse, per ciò che, volendole io dir
parole per te, ella non mi starebbe mai ad ascoltare. Questo s'el ti piace, io
il ti prometto, e farollo; fa tu poi, se tu sai, quello che tu creda che bene
stea. Giannole disse che più non volea, e in questa concordia rimase.
Minghino d'altra parte
aveva dimesticata la fante, e con lei tanto adoperato che ella avea più volte
ambasciate portate alla fanciulla, e quasi del suo amore l'aveva accesa; e
oltre a questo gli aveva promesso di metterlo con lei, come avvenisse che Giacomino
per alcuna cagione da sera fuori di casa andasse.
Avvenne adunque, non
molto tempo appresso queste parole, che, per opera di Crivello, Giacomino andò
con un suo amico a cenare; e fattolo sentire a Giannole, compose con lui che,
quando un certo cenno facesse, egli venisse e troverrebbe l'uscio aperto. La
fante d'altra parte, niente di questo sappiendo, fece sentire a Minghino che
Giacomino non vi cenava, e gli disse che presso della casa dimorasse sì, che
quando vedesse un segno ch'ella farebbe, egli venisse ed entrassesene dentro.
Venuta la sera, non sappiendo i due amanti alcuna cosa l'un dell'altro,
ciascun, sospettando dell'altro, con certi compagni armati a dovere entrare in
tenuta andò. Minghino co' suoi, a dovere il segno aspettare, si ripose in casa
d'un suo amico vicino della giovine; Giannole co' suoi alquanto dalla casa
stette lontano.
Crivello e la fante, non
essendovi Giacomino, s'ingegnavano di mandare l'un l'altro via. Crivello diceva
alla fante:
– Come non ti vai tu a
dormire oramai? Che ti vai tu pure avviluppando per casa?
E la fante diceva a lui:
– Ma tu perché non vai
per signorto? Che aspetti tu oramai qui, poi hai cenato?
E così l'uno non poteva
l'altro far mutare di luogo. Ma Crivello, conoscendo l'ora posta con Giannole
esser venuta, disse seco: – Che curo io di costei? Se ella non istarà cheta,
ella potrà aver delle sue; e fatto il segno posto andò ad aprir l'uscio, e
Giannole prestamente venuto con due compagni andò dentro, e trovata la giovane
nella sala la presono per menarla via. La giovane cominciò a resistere e a
gridar forte, e la fante similmente. Il che sentendo Minghino, prestamente co'
suoi compagni là corse; e veggendo la giovane già fuori dell'uscio tirare,
tratte le spade fuori, gridarono tutti:
– Ahi traditori, voi
siete morti; la cosa non andrà così: che forza è questa? –; e questo detto,
gl'incominciarono a ferire. E d'altra parte la vicinanza uscita fuori al romore
e con lumi e con arme, cominciarono questa cosa a biasimare e ad aiutar
Minghino. Per che, dopo lunga contesa, Minghino tolse la giovane a Giannole, e
rimisela in casa di Giacomino. Né prima si partì la mischia che i sergenti del
capitan della terra vi sopraggiunsero e molti di costoro presero; e fra gli
altri furono presi Minghino e Giannole e Crivello, e in prigione menatine. Ma
poi racquetata la cosa, e Giacomino essendo tornato; e, di questo accidente
molto malinconoso, essaminando come stato fosse e trovato che in niuna cosa la
giovane aveva colpa, alquanto si diè più pace, proponendo seco, acciò che più
simil caso non avvenisse, di doverla come più tosto potesse maritare.
La mattina venuta, i
parenti dell'una parte e dell'altra avendo la verità del fatto sentita e
conoscendo il male che a' presi giovani ne poteva seguire, volendo Giacomino
quello adoperare che ragionevolmente avrebbe potuto, furono a lui, e con dolci
parole il pregarono che alla ingiuria ricevuta dal poco senno de' giovani non
guardasse tanto, quanto all'amore e alla benivolenza la quale credevano che
egli a loro che il pregavano portasse, offerendo appresso sé medesimi e i
giovani che il male avevan fatto ad ogni ammenda che a lui piacesse di
prendere. Giacomino, il qual de' suoi dì assai cose vedute avea ed era di buon
sentimento, rispose brievemente:
- Signori, se io fossi a
casa mia come io sono alla vostra, mi tengo io sì vostro amico, che né di
questo né d'altro io non farei se non quanto vi piacesse; e oltre a questo più
mi debbo a' vostri piaceri piegare in quanto voi a voi medesimi avete offeso,
per ciò che questa giovane, forse come molti stimano, non è da Cremona né da
Pavia, anzi è faentina, come che io né ella né colui da cui io l'ebbi non
sapessimo mai di cui si fosse figliuola; per che; di quello che pregate tanto
sarà per me fatto, quanto me ne imporrete.
I valenti uomini, udendo
costei esser di Faenza, si maravigliarono; e rendute grazie a Giacomino della
sua liberale risposta, il pregarono che gli piacesse di dover lor dire come
costei alle mani venuta gli fosse, e come sapesse lei esser faentina.
A'quali Giacomin disse:
– Guidotto da Cremona fu
mio compagno e amico, e venendo a morte mi disse che quando questa città da
Federigo Imperatore fu presa, andataci a ruba ogni cosa, egli entrò co' suoi
compagni in una casa, e quella trovò di roba piena esser dagli abitanti
abbandonata, fuor solamente da questa fanciulla, la quale d'età di due anni o
in quel torno, lui sagliente su per le scale chiamò padre; per la qual cosa a
lui venuta di lei compassione, insieme con tutte le cose della casa seco ne la
portò a Fano, e quivi morendo, con ciò che egli avea costei mi lasciò,
imponendomi che, quando tempo fosse, io la maritassi e quello che stato fosse
suo le dessi in dota; e venuta nell'età da marito, non m'è venuto fatto di
poterla dare a persona che mi piaccia; fare' 'l volentieri, anzi che altro caso
simile a quel di ier sera me n'avvenisse. Era quivi intra gli altri un
Guiglielmino da Medicina, che con Guidotto era stato a questo fatto, e molto
ben sapeva la cui casa stata fosse quella che Guidotto avea rubata; e vedendolo
ivi tra gli altri, gli s'accostò e disse:
– Bernabuccio, odi tu
ciò che Giacomin dice?
Disse Bernabuccio:
– Sì; e testé vi pensava
più, per ciò ch'io mi ricordo che in quegli rimescolamenti io perdei una
figlioletta di quella età che Giacomin dice.
A cui Guiglielmino
disse:
– Per certo questa è
dessa, per ciò ch'io mi trovai già in parte ove io udii a Guidotto divisare
dove la ruberia avesse. fatta, e conobbi che la tua casa era stata; è per ciò
rammemorati se ad alcun segnale riconoscer la credessi, e fanne cercare, ché tu
troverrai fermamente che ella è tua figliuola.
Per che, pensando
Bernabuccio, si ricordò lei dovere avere una margine a guisa d'una crocetta
sopra l'orecchia sinistra, stata d'una nascenza che fatta gli avea poco davanti
a quello accidente tagliare; per che, senza alcuno indugio pigliare,
accostatosi a Giacomino che ancora era quivi, il pregò che in casa sua il
menasse e veder gli facesse questa giovane.
Giacomino il vi menò
volentieri, e lei fece venire dinanzi da lui. La quale come Bernabuccio vide,
così tutto il viso della madre di lei, che ancora bella donna era, gli parve
vedere; ma pur, non stando a questo, disse a Giacomino che di grazia voleva da
lui poterle un poco levare i capelli sopra la sinistra orecchia; di che Giacomino
fu contento.
Bernabuccio, accostatosi
a lei che vergognosamente stava, levati colla man dritta i capelli, la croce
vide; laonde, veramente conoscendo lei esser la sua figliuola, teneramente
cominciò a piagnere e ad abbracciarla, come che ella si contendesse; e volto a
Giacomin disse:
– Fratel mio, questa è
mia figliuola; la mia casa fu quella che fu da Guidotto rubata, e costei nel
furor subito vi fu dentro dalla mia donna e sua madre dimenticata, e infino a
qui creduto abbiamo che costei, nella casa che mi fu quel dì stesso arsa,
ardesse.
La giovane, udendo
questo e vedendolo uomo attempato e dando alle parole fede e da occulta virtù
mossa, sostenendo li suoi abbracciamenti, con lui teneramente cominciò a
piagnere.
Bernabuccio di presente
mandò per la madre di lei e per altre sue parenti e per le sorelle e per li
fratelli di lei, e a tutti mostratala e narrando il fatto, dopo mille
abbracciamenti fatta la festa grande, essendone Giacomino forte contento, seco
a casa sua ne la menò. Saputo questo il capitano della città, che valoroso uomo
era, e conoscendo che Giannole, cui preso tenea, figliuolo era di Bernabuccio e
fratel carnale di costei, avvisò di volersi del fallo commesso da lui
mansuetamente passare; e intromessosi in queste cose con Bernabuccio e con
Giacomino, insieme a Giannole e a Minghino fece far pace; e a Minghino, con
gran piacer di tutti i suoi parenti, diede per moglie la giovane, il cui nome
era Agnesa, e con loro insieme liberò Crivello e gli altri che impacciati
v'erano per questa cagione.
E Minghino appresso
lietissimo fece le nozze belle e grandi, e a casa menatalasi, con lei in pace e
in bene poscia più anni visse.
NOVELLA SESTA
Gian di Procida trovato
con una giovane amata da lui, e stata data al re Federigo, per dovere essere
arso con lei è legato ad un palo; riconosciuto da Ruggieri de Loria, campa e
divien marito di lei.
Finita la novella di
Neifile, assai alle donne piaciuta, comandò la reina a Pampinea che a doverne
alcuna dire si disponesse. La qual prestamente, levato il chiaro viso,
incomincio.
Grandissime forze,
piacevoli donne, son quelle d'amore, e a gran fatiche e a strabocchevoli e non
pensati pericoli gli amanti dispongono, come per assai cose raccontate e oggi e
altre volte comprender si può; ma nondimeno ancora con l'ardire d'un giovane
innamorato m'aggrada di dimostrarlo.
Ischia è una isola assai
vicina di Napoli, nella quale fu già tra l'altre una giovinetta bella e lieta
molto, il cui nome fu Restituta, e figliuola d'un gentil uom dell'isola, che
Marin Bolgaro avea nome, la quale un giovanetto, che d'una isoletta ad Ischia
vicina, chiamata Procida, era, e nominato Gianni, amava sopra la vita sua, ed
ella lui. Il quale, non che il giorno da Procida ad usare ad Ischia per vederla
venisse, ma già molte volte di notte, non avendo trovata barca, da Procida
infino ad Ischia notando era andato, per poter vedere, se altro non potesse,
almeno le mura della sua casa.
E durante questo amore
così fervente, avvenne che, essendo la giovane un giorno di state tutta soletta
alla marina, di scoglio in iscoglio andando marine conche con un coltellino
dalle pietre spiccando, s'avvenne in un luogo fra gli scogli riposto, dove sì
per l'ombra e sì per lo destro d'una fontana d'acqua freddissima che v'era, s'erano
certi giovani ciciliani, che da Napoli venivano, con una lor fregata raccolti.
Li quali, avendo la
giovane veduta bellissima e che ancor lor non vedea, e vedendola sola, fra sé
diliberarono di doverla pigliare e portarla via; e alla diliberazione seguitò
l'effetto. Essi, quantunque ella gridasse molto, presala, sopra la lor barca la
misero, e andar via; e in Calavria pervenuti, furono a ragionamento di cui la
giovane dovesse essere, e in brieve ciaschedun la volea; per che, non
trovandosi concordia fra loro, temendo essi di non venire a peggio e per costei
guastare i fatti loro, vennero a concordia di doverla donare a Federigo re di
Cicilia, il quale era allora giovane e di così fatte cose si dilettava; e a
Palermo venuti, così fecero.
Il re, veggendola bella,
l'ebbe cara; ma, per ciò che cagionevole era alquanto della persona, infino a
tanto che più forte fosse, comandò che ella fosse messa in certe case
bellissime d'un suo giardino, il quale chiamavan la Cuba, e quivi servita, e
così fu fatto.
Il romore della rapita
giovane fu in Ischia grande, e quello che più lor gravava, era che essi non
potevan sapere chi si fossero stati coloro che rapita l'avevano. Ma Gianni, al
quale più che ad alcuno altro ne calea, non aspettando di doverlo in Ischia
sentire, sappiendo verso che parte n'era la fregata andata, fattane armare una,
su vi montò, e quanto più tosto potè, discorsa tutta la marina dalla Minerva
infino alla Scalea in Calavria, e per tutto della giovane investigando nella
Scalea gli fu detto lei essere da marinari ciciliani portata via a Palermo. Là
dove Gianni, quanto più tosto potè, si fece portare, e quivi, dopo molto
cercare, trovato che la giovane era stata donata al re e per lui era nella Cuba
guardata, fu forte turbato e quasi ogni speranza perde', non che di doverla mai
riavere, ma pur vedere.
Ma pur, da amore
ritenuto, mandatane la fregata, veggendo che da niun conosciuto v'era, si
stette; e sovente dalla Cuba passando, gliele venne per ventura veduta un dì ad
una finestra ed ella vide lui, di che ciascun fu contento assai. E veggendo
Gianni che il luogo era solingo, accostatosi come potè, le parlò, e da lei
informato della maniera che a tenere avesse se più dappresso le volesse parlar,
si partì, avendo prima per tutto considerata la disposizione del luogo; e
aspettata la notte, e di quella lasciata andar buona parte, là se ne tornò, e
aggrappatosi per parti che non vi si sarebbono appiccati i picchi, nel giardin
se n'entrò, e in quello trovata una antennetta, alla finestra dalla giovane
insegnatagli l'appoggiò, e per quella assai leggiermente se ne salì. La
giovane, parendole il suo onore avere omai perduto, per la guardia del quale
ella gli era alquanto nel passato stata salvatichetta, pensando a niuna persona
più degnamente che a costui potersi donare e avvisando di poterlo inducere a
portarla via, seco aveva preso di compiacergli in ogni suo disidero; e per ciò
aveva la finestra lasciata aperta, acciò che egli prestamente dentro potesse
passare.
Trovatala adunque Gianni
aperta, chetamente se n'entrò dentro, e alla giovane, che non dormiva, allato
si corico'. La quale, prima che ad altro venissero, tutta la sua intenzion gli
aperse, sommamente del trarla quindi e via portarnela pregandolo. Alla qual
Gianni disse niuna cosa quanto questa piacergli, e che senza alcun fallo, come
da lei si partisse, in sì fatta maniera in ordine il metterebbe che, la prima
volta ch'el vi tornasse, via la menerebbe. E appresso questo, con grandissimo
piacere abbracciatisi, quello diletto presero, oltre al quale niuno maggior ne
puote Amor prestare; e poi che quello ebbero più volte reiterato, senza
accorgersene, nelle braccia l'un dell'altro s'addormentarono.
Il re, al quale costei
era molto nel primo aspetto piaciuta, di lei ricordandosi, sentendosi bene
della persona, ancora che fosse al dì vicino, diliberò d'andare a starsi
alquanto con lei; e con alcuno de' suoi servidori chetamente se n'andò alla
Cuba. E nelle case entrato, fatto pianamente aprir la camera nella qual sapeva
che dormiva la giovane, in quella con un gran doppiere acceso innanzi se
n'entrò; e sopra il letto guardando, lei insieme con Gianni ignudi e
abbracciati vide dormire. Di che egli di subito si turbò fieramente e in tanta
ira montò, senza dire alcuna cosa, che a poco si tenne che quivi, con un coltello
che allato avea, amenduni non gli uccise. Poi, estimando vilissima cosa essere
a qualunque uom si fosse, non che ad un re, due ignudi uccidere dormendo, si
ritenne, e pensò di volergli in publico e di fuoco far morire; e volto ad un
sol compagno che seco aveva, disse:
– Che ti par di questa
rea femina, in cui io già la mia speranza aveva posta? – e appresso il domandò
se il giovane conoscesse, che tanto d'ardire aveva avuto, che venuto gli era in
casa a far tanto d'oltraggio e di dispiacere. Quegli che domandato era rispose
non ricordarsi d'averlo mai veduto.
Partissi adunque il re
turbato della camera, e comandò che i due amanti, così ignudi come erano,
fosser presi e legati, e come giorno chiaro fosse, fosser menati a Palermo e in
su la piazza legati ad un palo con le reni l'uno all'altro volte e infino ad
ora di terza tenuti, acciò che da tutti potessero esser veduti, e appresso
fossero arsi, sì come avean meritato; e così detto, se ne tornò in Palermo
nella sua camera assai cruccioso.
Partito il re,
subitamente furon molti sopra i due amanti, e loro non solamente svegliarono,
ma prestamente senza alcuna pietà presero e legarono. Il che veggendo i due
giovani, se essi furon dolenti e temettero della lor vita e piansero e
ramaricaronsi, assai può esser manifesto. Essi furono, secondo il comandamento
del re, menati in Palermo e legati ad un palo nella piazza, e davanti agli
occhi loro fu la stipa e 'l fuoco apparecchiata, per dovergli ardere all'ora
comandata dal re. Quivi subitamente tutti i palermitani e uomini e donne
concorsero a vedere i due amanti: gli uomini tutti a riguardare la giovane si
traevano, e così come lei bella esser per tutto e ben fatta lodavano, così le
donne, che a riguardare il giovane tutte correvano, lui d'altra parte esser bello
e ben fatto sommamente commendavano. Ma gli sventurati amanti amenduni
vergognandosi forte, stavano con le teste basse e il loro infortunio
piagnevano, d'ora in ora la crudel morte del fuoco aspettando. E mentre così
infino all'ora determinata eran tenuti, gridandosi per tutto il fallo da lor
commesso, e pervenendo agli orecchi di Ruggier de Loria, uomo di valore
inestimabile e allora ammiraglio del re, per vedergli se n'andò verso il luogo
dove erano legati; e quivi venuto, prima riguardò la giovane e commendolla
assai di bellezza, e appresso venuto il giovane a riguardare, senza troppo
penare il riconobbe, e più verso lui fattosi il domandò se Gianni di Procida
fosse.
Gianni, alzato il viso e
riconoscendo l'ammiraglio, rispose:
– Signor mio, io fui ben
già colui di cui voi domandate, ma io sono per non esser più.
Domandollo allora
l'ammiraglio che cosa a quello l'avesse condotto; a cui Gianni rispose:
– Amore, e l'ira del re.
Fecesi l'ammiraglio più
la novella distendere; e avendo ogni cosa udita da lui come stata era e partir
volendosi, il richiamò Gianni e dissegli:
– Deh, signor mio, se
esser può, impetratemi una grazia da chi così mi fa stare.
Ruggieri domandò quale;
a cui Gianni disse:
– Io veggio che io
debbo, e tostamente, morire; voglio adunque di grazia che, come io sono con
questa giovane, la quale io ho più che la mia vita amata ed ella me, con le
reni a lei voltato ed ella a me, che noi siamo co' visi l'uno all'altro
rivolti, acciò che morendo io e vedendo il viso suo, io ne possa andar
consolato.
Ruggieri ridendo disse:
– Volentieri io farò sì
che tu la vedrai ancor tanto che ti rincrescerà.
E partitosi da lui,
comandò a coloro a' quali imposto era di dovere questa cosa mandare ad esecuzione,
che senza altro comandamento del re non dovessero più avanti fare che fatto
fosse; e senza dimorare, al re se n'andò. Al quale, quantunque turbato il
vedesse, non lasciò di dire il parer suo, e dissegli:
– Re, di che t'hanno
offeso i due giovani li quali laggiù nella piazza hai comandato che arsi sieno?
Il re gliele disse.
Seguitò Ruggieri:
– Il fallo commesso da
loro il merita bene, ma non da te; e come i falli meritan punizione, così i
benefici meritan guiderdone, oltre alla grazia e alla misericordia. Conosci tu
chi color sieno li quali tu vuogli che s'ardano?
Il re rispose di no.
Disse allora Ruggieri:
– E io voglio che tu gli
conosca, acciò che tu veggi quanto discretamente tu ti lasci agl'impeti
dell'ira transportare.
Il giovane è figliuolo
di Landolfo di Procida, fratel carnale di messer Gian di Procida, per l'opera
del quale tu se' re e signor di questa isola. La giovane è figliuola di Marin
Bolgaro, la cui potenza fa oggi che la tua signoria non sia cacciata d'Ischia.
Costoro, oltre a questo, son giovani che lungamente si sono amati insieme, e da
amor costretti, e non da volere alla tua signoria far dispetto, questo peccato
(se peccato dir si dee quel che per amor fanno i giovani) hanno fatto. Perché
dunque gli vuoi tu far morire, dove con grandissimi piaceri e doni gli dovresti
onorare?
Il re, udendo questo e
rendendosi certo che Ruggieri il ver dicesse, non solamente che egli a peggio
dovere operare procedesse, ma di ciò che fatto avea gl'increbbe; per che
incontanente mandò che i due giovani fosse ro dal palo sciolti e menati davanti
da lui; e così fu fatto. E avendo intera la lor condizion conosciuta, pensò che
con onore e con doni fosse la ingiuria fatta da compensare; e fattigli
onorevolmente rivestire, sentendo che di pari consentimento era, a Gianni fece
la giovinetta sposare, e fatti loro magnifichi doni, contenti gli rimandò a
casa loro, dove con festa grandissima ricevuti, lungamente in piacere e in
gioia poi vissero insieme.
NOVELLA SETTIMA
Teodoro, innamorato della
Violante figliuola di messere Amerigo suo signore, la 'ngravida ed è alle
forche condannato; alle quali frustandosi essendo menato, dal padre
riconosciuto e prosciolto, prende per moglie la Violante.
Le donne, le quali tutte
temendo stavan sospese ad udire se i due amanti fossero arsi, udendogli
scampati, lodando Iddio, tutte si rallegrarono; e la reina, udita la fine, alla
Lauretta lo 'ncarico impose della seguente, la quale lietamente prese a dire.
Bellissime donne, al
tempo che il buon re Guiglielmo la Cicilia reggeva, era nella isola un gentile
uomo chiamato messere Amerigo Abbate da Trapani, il quale, tra gli altri ben
temporali, era di figliuoli assai ben fornito. Per che, avendo di servidori
bisogno e venendo galee di corsari genovesi di Levante, li quali costeggiando
l'Erminia molti fanciulli avevan presi, di quegli, credendogli turchi, alcun
comperò; tra' quali, quantunque tutti gli altri paressero pastori, n'era uno il
quale gentilesco e di migliore aspetto che alcun altro pareva, ed era chiamato
Teodoro.
Il quale crescendo, come
che egli a guisa di servo trattato fosse, nella casa pur co' figliuoli di
messer Amerigo si crebbe; e traendo più alla natura di lui che all'accidente,
cominciò ad esser costumato e di bella maniera, intanto che egli piaceva sì a
messere Amerigo, che egli il fece franco; e credendo che turchio fosse, il fè
battezzare e chiamar Pietro, e sopra i suoi fatti il fece il maggiore, molto di
lui confidandosi.
Come gli altri figliuoli
di messer Amerigo, così similmente crebbe una sua figliuola chiamata Violante,
bella e dilicata giovane; la quale, soprattenendola il padre a maritare,
s'innamorò per avventura di Pietro; e amandolo e faccendo de' suoi costumi e
delle sue opere grande stima, pur si vergognava di discovrirgliele. Ma Amore
questa fatica le tolse, per ciò che, avendo Pietro più volte cautamente
guatatala, sì s'era di lei innamorato, che bene alcun non sentiva se non quanto
la vedea; ma forte temea non di questo alcun s'accorgesse, parendogli far men
che bene. Di che la giovane, che volentier lui vedeva, s'avvide; e, per dargli
più sicurtà, contentissima, sì come era, se ne mostrava. E in questo dimorarono
assai, non attentandosi di dire l'uno all'altro alcuna cosa, quantunque molto
ciascuno il disiderasse.
Ma, mentre che essi così
parimente nell'amorose fiamme accesi ardevano, la fortuna, come se diliberato
avesse questo voler che fosse, loro trovò via da cacciare la temorosa paura che
gl'impediva.
Aveva messer Amerigo,
fuor di Trapani forse un miglio, un suo molto bel luogo, al quale la donna sua
con la figliuola e con altre femine e donne era usata sovente d'andare per via
di diporto: dove essendo, un giorno che era il caldo grande, andate, e avendo
seco menato Pietro e quivi dimorando, avvenne, sì come noi veggiamo talvolta di
state avvenire, che subitamente il cielo si chiuse d'oscuri nuvoli; per la qual
cosa la donna con la sua compagnia, acciò che il malvagio tempo non le
cogliesse quivi, si misero in via per tornare in Trapani, e andavanne ratti
quanto potevano. Ma Pietro che giovane era, e la fanciulla similmente,
avanzavano nello andare la madre di lei e l'altre compagne assai, forse non
meno da amor sospinti che da paura di tempo; ed essendo già tanto entrati
innanzi alla donna e agli altri che appena si vedevano, avvenne che dopo molti
tuoni subitamente una gragnuola grossissima e spessa cominciò a venire, la
quale la donna con la sua compagnia fuggì in casa d'un lavoratore.
Pietro e la giovane, non
avendo più presto rifugio, se n'entrarono in una casetta antica e quasi tutta
caduta, nella quale persona non dimorava, e in quella sotto un poco di tetto,
che ancora rimaso v'era, si ristrinsono amenduni, e costrinseli la necessità
del poco coperto a toccarsi insieme. Il qual toccamento fu cagione di
rassicurare un poco gli animi ad aprire gli amorosi disii. E prima cominciò
Pietro a dire:
– Or volesse Iddio che
mai, dovendo io stare come io sto, questa grandine non ristesse.
E la giovane disse:
– Ben mi sarebbe caro.
E da queste parole
vennero a pigliarsi per mano e strignersi, e da questo ad abbracciarsi e poi a
baciarsi, grandinando tuttavia.
E acciò che io ogni
particella non racconti, il tempo non si racconciò prima che essi, l'ultime
dilettazioni d'amor conosciute, a dover segretamente l'un dell'altro aver
piacere ebbero ordine dato.
Il tempo malvagio cessò,
e all'entrar della città, che vicina era, aspettata la donna, con lei a casa se
ne tornarono. Quivi alcuna volta, con assai discreto ordine e segreto, con gran
consolazione insieme si ritrovarono; e sì andò la bisogna che la giovane
ingravidò, il che molto fu e all'uno e all'altro discaro; per che ella molte
arti usò per dovere, contro al corso della natura, disgravidare, né mai le poté
venir fatto.
Per la qual cosa Pietro,
della vita di sé medesimo temendo, diliberato di fuggirsi, gliele disse; la
quale udendolo disse:
– Se tu ti parti, senza
alcun fallo io m'ucciderò.
A cui Pietro, che molto
l'amava, disse:
– Come vuoi tu, donna
mia, che io qui dimori? La tua gravidezza scoprirà il fallo nostro; a te fia
perdonato leggiermente, ma io misero sarò colui a cui del tuo peccato e del mio
converrà portare la pena.
Al quale la giovane
disse:
– Pietro, il mio peccato
si saprà bene; ma sii certo che il tuo, se tu nol dirai, non si saprà mai.
Pietro allora disse:
– Poi che tu così mi
prometti, io starò, ma pensa d'osservarlomi. La giovane, che, quanto più potuto
avea, la sua pregnezza tenuta aveva nascosa, veggendo, per lo crescer che 'l
corpo facea, più non poterla nascondere, con grandissimo pianto un dì il
manifestò alla madre, lei per la sua salute pregando.
La donna, dolente senza
misura, le disse una gran villania, e da lei volle sapere come andata fosse la
cosa. La giovane, acciò che a Pietro non fosse fatto male, compose una sua
favola, in altre forme la verità rivolgendo. La donna la si credette, e per
celare il difetto della figliuola, ad una lor possessione la ne mandò. Quivi,
sopravvenuto il tempo del partorire, gridando la giovane come le donne fanno,
non avvisandosi la madre di lei che quivi messer Amerigo, che quasi mai usato
non era, dovesse venire, avvenne che, tornando egli da uccellare e passando
lunghesso la camera dove la figliuola gridava, maravigliandosi, subitamente
entrò dentro e domandò che questo fosse.
La donna, veggendo il
marito sopravenuto, dolente levatasi, ciò che alla figliuola era intervenuto
gli raccontò. Ma egli, men presto a creder che la donna non era stata, disse
ciò non dovere esser vero che ella non sapesse di cui gravida fosse, e per ciò
del tutto il voleva sapere; e dicendolo, essa potrebbe la sua grazia
racquistare; se non, pensasse senza alcuna misericordia di morire. La donna
s'ingegnò, in quanto poteva, di dovere fare star contento il marito a quello
che ella aveva creduto; ma ciò era niente. Egli, salito in furore, con la spada
ignuda in mano sopra la figliuola corse, la quale, mentre la madre di lei il
padre teneva in parole, aveva un figliuol maschio partorito, e disse:
– O tu manifesta di cui
questo parto si generasse, o tu morrai senza indugio.
La giovane, la morte
temendo, rotta la promessa fatta a Pietro, ciò che tra lui e lei stato era
tutto aperse. Il che udendo il cavaliere e fieramente divenuto fellone, appena
d'ucciderla si ritenne; ma, poi che quello che l'ira gli apparecchiava detto
l'ebbe, rimontato a cavallo, a Trapani se ne venne, e ad uno messer Currado,
che per lo re v'era capitano, la ingiuria fattagli da Pietro contatagli,
subitamente, non guardandosene egli, il fè pigliare; e messolo al martorio,
ogni cosa fatta confessò. Ed essendo dopo alcun dì dal capitano condannato che
per la terra frustato fosse e poi appiccato per la gola; acciò che una medesima
ora togliesse di terra i due amanti e il lor figliuolo, messere Amerigo, al
quale per avere a morte con dotto Pietro non era l'ira uscita, mise veleno in
un nappo con vino, e quello diede ad un suo famigliare e un coltello ignudo con
esso, e disse:
– Va con queste due cose
alla Violante, e sì le dì da mia parte che prestamente prenda qual vuole l'una
di queste due morti, o del veleno o del ferro, e ciò faccia senza indugio; se
non, che io nel cospetto di quanti cittadini ci ha la farò ardere, sì come ella
ha meritato; e fatto questo, piglierai il figliuolo pochi dì fa da lei
partorito, e percossogli il capo al muro, il gitta a mangiare a' cani.
Data dal fiero padre
questa crudel sentenzia contro alla figliuola e al nepote, il famigliare, più a
male che a ben disposto, andò via.
Pietro condennato, essendo
dà famigliari menato alle forche frustando, passò, sì come a coloro che la
brigata guida vano piacque, davanti ad uno albergo dove tre nobili uomini
d'Erminia erano, li quali dal re d'Erminia a Roma ambasciadori eran mandati a
trattar col papa di grandissime cose per un passaggio che far si dovea, e quivi
smontati per rinfrescarsi e riposarsi alcun dì, e molto stati onorati dà nobili
uomini di Trapani, e spezialmente da messere Amerigo. Costoro, sentendo passare
coloro che Pietro menavano, vennero ad una finestra a vedere.
Era Pietro dalla cintura
in su tutto ignudo e con le mani legate di dietro, il quale riguardando l'uno
de' tre ambasciadori, che uomo antico era e di grande autorità, nominato Fineo,
gli vide nel petto una gran macchia di vermiglio, non tinta, ma naturalmente
nella pelle infissa, a guisa che quelle sono che le donne qua chiamano rose. La
qual veduta, subitamente nella memoria gli corse un suo figliuolo, il quale,
già eran quindici anni passati, dà corsali gli era stato sopra la marina di
Laiazzo tolto, né mai n'avea potuto saper novella; e considerando l'età del
cattivello che frustato era, avvisò, se vivo fosse il suo figliuolo, dovere di
cotale età essere di quale colui pareva; e cominciò a sospicar per quel segno
non costui desso fosse; e pensossi, se desso fosse, lui ancora doversi del nome
suo e di quel del padre e della lingua erminia ricordare. Per che, come gli fu
vicino, chiamò:
– O Teodoro.
La qual voce Pietro
udendo, subitamente levò il capo. Al quale Fineo in erminio parlando disse:
– Onde fosti? E cui
figliuolo?
Li sergenti che il
menavano, per reverenza del valente uomo, il fermarono, sì che Pietro rispose:
– Io fui d'Erminia,
figliuolo d'uno che ebbe nome Fineo, qua picciol fanciullo trasportato da non
so che gente. Il che Fineo udendo, certissimamente conobbe lui essere il
figliuolo che perduto avea; per che, piagnendo co' suoi compagni discese giuso,
e lui tra tutti i sergenti corse ad abbracciare; e gittatogli addosso un
mantello d'un ricchissimo drappo che in dosso avea, pregò colui che a guastare
il menava, che gli piacesse d'attendere tanto quivi, che di doverlo rimenare
gli venisse il comandamento. Colui rispose che l'attenderebbe volentieri.
Aveva già Fineo saputa
la cagione per che costui era menato a morire, sì come la fama l'aveva portata
per tutto; per che prestamente co' suoi compagni e con la lor famiglia n'andò a
messer Currado, e sì gli disse:
– Messere, colui il
quale voi mandate a morire come servo, è libero uomo e mio figliuolo, ed è
presto di torre per moglie colei la qual si dice che della sua virginità ha
privata; e però piacciavi di tanto indugiare la esecuzione che saper si possa
se ella lui vuol per marito, acciò che contro alla legge, dove ella il voglia,
non vi troviate aver fatto.
Messer Currado, udendo
colui esser figliuolo di Fineo, si maravigliò; e vergognatosi alquanto del
peccato della Fortuna, confessato quello esser vero che diceva Fineo,
prestamente il fè ritornare a casa, e per messere Amerigo mandò, e queste cose
gli disse.
Messer Amerigo, che già
credeva la figliuola e 'l nepote esser morti, fu il più dolente uom del mondo
di ciò che fatto avea, conoscendo, dove morta non fosse, si potea molto bene
ogni cosa stata emendare; ma nondimeno mandò correndo là dove la figliuola era,
acciò che, se fatto non fosse il suo comandamento, non si facesse. Colui che
andò, trovò il famigliare stato da messere Amerigo mandato, che, avendole il
coltello e 'l veleno posto innanzi, perché ella così tosto non eleggeva, le
dicea villania e volevala costrignere di pigliare l'uno. Ma, udito il
comandamento del suo signore, lasciata star lei, a lui se ne ritornò e gli
disse come stava l'opera. Di che messer Amerigo contento, andatosene là dove
Fineo era, quasi piagnendo, come seppe il meglio, di ciò che intervenuto era si
scusò e domandonne perdono, affermando sé, dove Teodoro la sua figliuola per
moglie volesse, esser molto contento di dargliele.
Fineo ricevette le scuse
volentieri e rispose:
– Io intendo che mio
figliuolo la vostra figliuola prenda; e dove egli non volesse, vada innanzi la
sentenzia data di lui.
Essendo adunque e Fineo
e messer Amerigo in concordia, là ove Teodoro era ancora tutto pauroso della
morte e lieto di avere il padre ritrovato, il domandarono intorno a questa cosa
del suo volere.
Teodoro, udendo che la
Violante, dove egli volesse, sua moglie sarebbe, tanta fu la sua letizia, che
d'inferno gli parve saltare in paradiso, e disse che questo gli sarebbe
grandissima grazia, dove a ciascun di lor piacesse. Mandossi adunque alla
giovane a sentire del suo volere; la quale, udendo ciò che di Teodoro era
avvenuto ed era per avvenire, dove più dolorosa che altra femina la morte
aspettava, dopo molto, alquanta fede prestando alle parole, un poco si rallegrò
e rispose che, se ella il suo disidero di ciò seguisse, niuna cosa più lieta le
poteva avvenire che d'essere moglie di Teodoro; ma tuttavia farebbe quello che
il padre le comandasse.
Così adunque in
concordia fatta sposare la giovane, festa si fece grandissima con sommo piacere
di tutti i cittadini. La giovane, confortandosi e faccendo nudrire il suo
piccol figliuolo, dopo non molto tempo ritornò più bella che mai; e levata del
parto, e davanti a Fineo, la cui tornata da Roma s'aspettò, venuta, quella
reverenza gli fece che a padre; ed egli, forte contento di sì bella nuora, con
grandissima festa e allegrezza fatte fare le lor nozze, in luogo di figliuola
la ricevette e poi sempre la tenne. E dopo alquanti dì il suo figliuolo e lei e
il suo picciol nepote, montati in galea, seco ne menò a Laiazzo, dove con
riposo e con piacere de' due amanti, quanto la vita lor durò dimorarono.
NOVELLA OTTAVA
Nastagio degli Onesti,
amando una de' Traversari, spende le sue ricchezze senza essere amato. Vassene,
pregato da' suoi, a Chiassi; quivi vede cacciare ad un cavaliere una giovane e
ucciderla e divorarla da due cani. Invita i parenti suoi e quella donna amata
da lui ad un desinare, la quale vede questa medesima giovane sbranare; e
temendo di simile avvenimento prende per marito Nastagio.
Come Lauretta si tacque,
così, per comandamento della reina, cominciò Filomena.
Amabili donne, come in
noi è la pietà commendata, così ancora in noi è dalla divina giustizia
rigidamente la crudeltà vendicata; il che acciò che io vi dimostri e materia vi
dea di cacciarla del tutto da voi, mi piace di dirvi una novella non men di
compassion piena che dilettevole. In Ravenna, antichissima città di Romagna,
furon già assai nobili e ricchi uomini, tra' quali un giovane chiamato Nastagio
degli Onesti, per la morte del padre di lui e d'un suo zio, senza stima rimaso
ricchissimo. Il quale, sì come de' giovani avviene, essendo senza moglie,
s'innamorò d'una figliuola di messer Paolo Traversaro, giovane troppo più
nobile che esso non era, prendendo speranza con le sue opere di doverla trarre
ad amar lui; le quali, quantunque grandissime, belle e laudevoli fossero, non
solamente non gli giovavano, anzi pareva che gli nocessero, tanto cruda e dura
e salvatica gli si mostrava la giovinetta amata, forse per la sua singular
bellezza o per la sua nobiltà sì altiera e disdegnosa divenuta, che né egli né
cosa che gli piacesse le piaceva. La qual cosa era tanto a Nastagio gravosa a
comportare, che per dolore più volte, dopo molto essersi doluto, gli venne in
disidero d'uccidersi. Poi, pur tenendosene, molte volte si mise in cuore di
doverla del tutto lasciare stare, o, se potesse, d'averla in odio come ella
aveva lui. Ma invano tal proponimento prendeva, per ciò che pareva che quanto
più la speranza mancava, tanto più moltiplicasse il suo amore.
Perseverando adunque il
giovane e nello amare e nello spendere smisuratamente, parve a certi suoi amici
e parenti che egli sé e 'l suo avere parimente fosse per consumare; per la qual
cosa più volte il pregarono e consigliarono che si dovesse di Ravenna partire e
in alcuno altro luogo per alquanto tempo andare a dimorare; per ciò che, così
faccendo, scemerebbe l'amore e le spese. Di questo consiglio più volte fece
beffe Nastagio; ma pure, essendo da loro sollicitato, non potendo tanto dir di
no, disse di farlo; e fatto fare un grande apparecchiamento, come se in Francia
o in Ispagna o in alcuno altro luogo lontano andar volesse, montato a cavallo e
da suoi molti amici accompagnato di Ravenna uscì e andossene ad un luogo forse
tre miglia fuor di Ravenna, che si chiama Chiassi; e quivi, fatti venir
padiglioni e trabacche disse a coloro che accompagnato l'aveano che star si
volea e che essi a Ravenna se ne tornassono. Attendatosi adunque quivi
Nastagio, cominciò a fare la più bella vita e la più magnifica che mai si
facesse, or questi e or quegli altri invitando a cena e a desinare, come usato
s'era. Ora avvenne che uno venerdì quasi all'entrata di maggio essendo un
bellissimo tempo, ed egli entrato in pensier della sua crudel donna, comandato
a tutta la sua famiglia che solo il lasciassero, per più potere pensare a suo
piacere, piede innanzi piè sé medesimo trasportò, pensando, infino nella
pigneta. Ed essendo già passata presso che la quinta ora del giorno, ed esso
bene un mezzo miglio per la pigneta entrato, non ricordandosi di mangiare né
d'altra cosa, subitamente gli parve udire un grandissimo pianto e guai altissimi
messi da una donna; per che, rotto il suo dolce pensiero, alzò il capo per
veder che fosse, e maravigliossi nella pigneta veggendosi; e oltre a ciò,
davanti guardandosi vide venire per un boschetto assai folto d'albuscelli e di
pruni, correndo verso il luogo dove egli era, una bellissima giovane ignuda,
scapigliata e tutta graffiata dalle frasche e dà pruni, piagnendo e gridando
forte mercè; e oltre a questo le vide a' fianchi due grandi e fieri mastini, li
quali duramente appresso correndole, spesse volte crudelmente dove la
giugnevano la mordevano, e dietro a lei vide venire sopra un corsiere nero un
cavalier bruno, forte nel viso crucciato, con uno stocco in mano, lei di morte
con parole spaventevoli e villane minacciando.
Questa cosa ad una ora
maraviglia e spavento gli mise nell'animo, e ultimamente compassione della
sventurata donna, dalla qual nacque disidero di liberarla da sì fatta angoscia
e morte, se el potesse. Ma, senza arme trovandosi, ricorse a prendere un ramo
d'albero in luogo di bastone, e cominciò a farsi incontro a' cani e contro al
cavaliere. Ma il cavalier che questo vide, gli gridò di lontano:
– Nastagio, non
t'impacciare, lascia fare a' cani e a me quello che questa malvagia femina ha
meritato.
E così dicendo, i cani,
presa forte la giovane né fianchi, la fermarono, e il cavaliere sopraggiunto
smontò da cavallo.
Al quale Nastagio
avvicinatosi disse:
– Io non so chi tu ti
se', che me così cognosci; ma tanto ti dico che gran viltà è d'un cavaliere
armato volere uccidere una femina ignuda, e averle i cani alle coste messi come
se ella fosse una fiera salvatica; io per certo la difenderò quant'io potrò.
Il cavaliere allora
disse:
– Nastagio, io fui d'una
medesima terra teco, ed eri tu ancora piccol fanciullo quando io, il quale fui
chiamato messer Guido degli Anastagi, era troppo più innamorato di costei, che
tu ora non sé di quella de' Traversari, e per la sua fierezza e crudeltà andò
sì la mia sciagura, che io un dì con questo stocco, il quale tu mi vedi in
mano, come disperato m'uccisi, e sono alle pene etternali dannato. Né stette
poi guari tempo che costei, la qual della mia morte fu lieta oltre misura,
morì, e per lo peccato della sua crudeltà e della letizia avuta de' miei
tormenti, non pentendosene, come colei che non credeva in ciò aver peccato ma
meritato, similmente fu ed è dannata alle pene del ninferno. Nel quale come
ella discese, così ne fu e a lei e a me per pena dato, a lei di fuggirmi
davanti e a me, che già cotanto l'amai, di seguitarla come mortal nimica, non
come amata donna; e quante volte io la giungo, tante con questo stocco, col
quale io uccisi me, uccido lei e aprola per ischiena, e quel cuor duro e
freddo, nel qual mai né amor né pietà poterono entrare, con l'altre interiora
insieme, sì come tu vedrai incontanente, le caccia di corpo, e dolle mangiare a
questi cani. Né sta poi grande spazio che ella, sì come la giustizia e la
potenzia d'Iddio vuole, come se morta non fosse stata, risurge e da capo
incomincia la dolorosa fugga, e i cani e io a seguitarla; e avviene che ogni
venerdì in su questa ora io la giungo qui, e qui ne fo lo strazio che vedrai; e
gli altri dì non creder che noi riposiamo, ma giungola in altri luoghi né quali
ella crudelmente contro a me pensò o operò; ed essendole d'amante divenuto
nimico, come tu vedi, me la conviene in questa guisa tanti anni seguitare
quanti mesi ella fu contro a me crudele. Adunque lasciami la divina giustizia
mandare ad esecuzione, né ti volere opporre a quello che tu non potresti
contrastare. Nastagio, udendo queste parole, tutto timido divenuto e quasi non
avendo pelo addosso che arricciato non fosse, tirandosi addietro e riguardando
alla misera giovane, cominciò pauroso ad aspettare quello che facesse il
cavaliere. Il quale, finito il suo ragionare, a guisa d'un cane rabbioso, con
lo stocco in mano corse addosso alla giovane, la quale inginocchiata e dà due
mastini tenuta forte gli gridava mercè; e a quella con tutta sua forza diede
per mezzo il petto e passolla dall'altra parte. Il qual colpo come la giovane
ebbe ricevuto, così cadde boccone, sempre piagnendo e gridando; e il cavaliere,
messo mano ad un coltello, quella aprì nelle reni, e fuori trattone il cuore e
ogni altra cosa d'attorno, a' due mastini il gittò, li quali affamatissimi
incontanente il mangiarono. Né stette guari che la giovane, quasi niuna di
queste cose stata fosse, subitamente si levò in piè e cominciò a fuggire verso
il mare, e i cani appresso di lei sempre lacerandola; e il cavaliere, rimontato
a cavallo e ripreso il suo stocco, la cominciò a seguitare, e in picciola ora
si dileguarono in maniera che più Nastagio non gli potè vedere.
Il quale, avendo queste
cose vedute, gran pezza stette tra pietoso e pauroso, e dopo alquanto gli venne
nella mente questa cosa dovergli molto poter valere, poi che ogni venerdì
avvenia; per che, segnato il luogo, a' suoi famigli se ne tornò, e appresso,
quando gli parve, mandato per più suoi parenti e amici, disse loro:
– Voi m'avete lungo
tempo stimolato che io d'amare questa mia nemica mi rimanga e ponga fine al mio
spendere, e io son presto di farlo dove voi una grazia m'impetriate, la quale è
questa: che venerdì che viene voi facciate sì che messer Paolo Traversaro e la
moglie e la figliuola e tutte le donne lor parenti, e altre chi vi piacerà, qui
sieno a desinar meco. Quello per che io questo voglia, voi il vedrete allora.
A costor parve questa
assai piccola cosa a dover fare e promissongliele; e a Ravenna tornati, quando
tempo fu, coloro invitarono li quali Nastagio voleva, e come che dura cosa
fosse il potervi menare la giovane da Nastagio amata, pur v'andò con gli altri
insieme. Nastagio fece magnificamente apprestare da mangiare, e fece ]e tavole
mettere sotto i pini d'intorno a quel luogo dove veduto aveva lo strazio della
crudel donna; e fatti mettere gli uomini e le donne a tavola, sì ordinò, che
appunto la giovane amata da lui fu posta a sedere dirimpetto al luogo dove
doveva il fatto intervenire.
Essendo adunque già
venuta l'ultima vivanda, e il romore disperato della cacciata giovane da tutti
fu cominciato ad udire. Di che maravigliandosi forte ciascuno e domandando che
ciò fosse, e niun sappiendol dire, levatisi tutti diritti e riguardando che ciò
potesse essere, videro la dolente giovane e 'l cavaliere è cani; ne guari
stette che essi tutti furon quivi tra loro.
Il romore fu fatto
grande e a' cani e al cavaliere, e molti per aiutare la giovane si fecero
innanzi; ma il cavaliere, parlando loro come a Nastagio aveva parlato, non
solamente gli fece indietro tirare, ma tutti gli spaventò e riempiè di
maraviglia; e faccendo quello che altra volta aveva fatto, quante donne v'avea
(ché ve ne avea assai che parenti erano state e della dolente giovane e del cavaliere
e che si ricordavano e dell'amore e della morte di lui) tutte così miseramente
piagnevano come se a sé medesime quello avesser veduto fare.
La qual cosa al suo
termine fornita, e andata via la donna e 'l cavaliere, mise costoro che ciò
veduto aveano in molti e vari ragionamenti; ma tra gli altri che più di
spavento ebbero, fu la crudel giovane da Nastagio amata, la quale ogni cosa
distintamente veduta avea e udita, e conosciuto che a sé più che ad altra
persona che vi fosse queste cose toccavano, ricordandosi della crudeltà sempre
da lei usata verso Nastagio; per che già le parea fuggir dinanzi da lui adirato
e avere i mastini a' fianchi. E tanta fu la paura che di questo le nacque, che,
acciò che questo a lei non avvenisse, prima tempo non si vide (il quale quella
medesima sera prestato le fu) che ella, avendo l'odio in amore tramutato, una
sua fida cameriera segretamente a Nastagio mandò, la quale da parte di lei il
pregò che gli dovesse piacer d'andare a lei, per ciò ch'ella era presta di far
tutto ciò che fosse piacer di lui. Alla qual Nastagio fece rispondere che
questo gli era a grado molto, ma che, dove piacesse, con onor di lei voleva il
suo piacere, e questo era sposandola per moglie. La giovane, la qual sapeva che
da altrui che da lei rimaso non era che moglie di Nastagio stata non fosse, gli
fece risponder che le piacea. Per che, essendo ella medesima la messaggera, al
padre e alla madre disse che era contenta d'esser sposa di Nastagio, di che
essi furon contenti molto; e la domenica seguente Nastagio sposatala e fatte le
sue nozze, con lei più tempo lietamente visse.
E non fu questa paura
cagione solamente di questo bene, anzi sì tutte le ravignane donne paurose ne
divennero, che sempre poi troppo più arrendevoli a' piaceri degli uomini furono,
che prima state non erano.
NOVELLA NONA
Federigo degli Alberighi
ama e non è amato e in cortesia spendendo si consuma e rimangli un sol falcone,
il quale, non avendo altro dà a mangiare alla sua donna venutagli a casa; la
quale, ciò sappiendo, mutata d'animo, il prende per marito e fallo ricco.
Era già di parlar
ristata Filomena, quando la reina, avendo veduto che più niuno a dover dire, se
non Dioneo per lo suo privilegio, v'era rimaso, con lieto viso disse:
A me omai appartiene di
ragionare; e io, carissime donne, d'una novella simile in parte alla precedente
il farò volentieri, non acciò solamente che conosciate quanto la vostra
vaghezza possa né cuor gentili, ma perché apprendiate d'esser voi medesime,
dove si conviene, donatrici de' vostri guiderdoni, senza lasciarne sempre esser
la Fortuna guidatrice. La quale non discretamente, ma, come s'avviene,
moderatamente il più delle volte dona.
Dovete adunque sapere
che Coppo di Borghese Domenichi, il quale fu nella nostra città, e forse ancora
è, uomo di grande e di reverenda autorità né dì nostri, e per costumi e per
vertù molto più che per nobiltà di sangue chiarissimo e degno d'eterna fama,
essendo già d'anni peno, spesso volte delle cose passate co' suoi vicini e con
altri si dilettava di ragionare: la qual cosa egli meglio e con più ordine e
con maggior memoria e ornato parlare che altro uomo seppe fare. Era usato di
dire, tra l'altre sue belle cose, che in Firenze fu già un giovane chiamato
Federigo di messer Filippo Alberighi, in opera d'arme e in cortesia pregiato
sopra ogni altro donzel di Toscana. Il quale, sì come il più de' gentili uomini
avviene, d'una gentil donna chiamata monna Giovanna s'innamorò, né suoi tempi
tenuta delle più belle donne e delle più leggiadre che in Firenze fossero; e
acciò che egli l'amor di lei acquistar potesse, giostrava, armeggiava, faceva
feste e donava, e il suo senza alcun ritegno spendeva; ma ella, non meno onesta
che bella, niente di queste cose per lei fatte né di colui si curava che le
faceva. Spendendo adunque Federigo oltre a ogni suo potere molto e niente
acquistando, sì come di leggiere adiviene, le ricchezze mancarono e esso rimase
povero, senza altra cosa che un suo poderetto piccolo essergli rimasa, delle
rendite del quale strettissimamente vivea, e oltre a questo un suo falcone de'
miglior del mondo. Per che, amando più che mai né parendo gli più potere essere
cittadino come disiderava, a Campi, là dove il suo poderetto era, se n'andò a
stare. Quivi, quando poteva uccellando e senza alcuna persona richiedere,
pazientemente la sua povertà comportava.
Ora avvenne un dì che,
essendo così Federigo divenuto allo stremo, che il marito di monna Giovanna
infermò, e veggendosi alla morte venire fece testamento, e essendo ricchissimo,
in quello lasciò suo erede un suo figliuolo già grandicello e appresso questo,
avendo molto amata monna Giovanna, lei, se avvenisse che il figliuolo senza
erede legittimo morisse, suo erede substituì, e morissi. Rimasa adunque vedova
monna Giovanna, come usanza è delle nostre donne, l'anno di state con questo
suo figliuolo se n'andava in contado a una sua possessione assai vicina a
quella di Federigo. Per che avvenne che questo garzoncello s'incominciò a
dimesticare con Federigo e a dilettarsi d'uccelli e di cani; e avendo veduto
molte volte il falcon di Federigo volare e stranamente piacendogli, forte
disiderava d'averlo ma pure non s'attentava di domandarlo, veggendolo a lui
esser cotanto caro.
E così stando la cosa,
avvenne che il garzoncello in fermò: di che la madre dolorosa molto, come colei
che più non n'avea e lui amava quanto più si poteva, tutto il dì standogli
dintorno non restava di confortarlo e spesse volte il domandava se alcuna cosa
era la quale egli disiderasse, pregandolo gliele dicesse, che per certo, se possibile
fosse a avere, procaccerebbe come l'avesse. Il giovanetto, udite molte volte
queste proferte, disse:
– Madre mia, se voi fa
che io abbia il falcone di Federigo, io mi credo prestamente guerire.
La donna, udendo questo,
alquanto sopra sé stette e cominciò a pensar quello che far dovesse. Ella
sapeva che Federigo lungamente l'aveva amata, né mai da lei una sola guatatura
aveva avuta, per che ella diceva:
- Come manderò io o
andrò a domandargli questo falcone che è, per quel che io oda, il migliore che
mai volasse e oltre a ciò il mantien nel mondo? E come sarò io sì sconoscente,
che a un gentile uomo al quale niuno altro diletto è più rimaso, io questo gli
voglia torre?
E in così fatto pensiero
impacciata, come che ella fosse certissima d'averlo se 'l domandasse, senza
sapere che dover dire, non rispondeva al figliuolo ma si stava. Ultimamente
tanto la vinse l'amor del figliuolo, che ella seco dispose, per contentarlo che
che esser ne dovesse, di non mandare ma d'andare ella medesima per esso e di
recargliele e risposegli:
– Figliuol mio,
confortati e pensa di guerire di forza, ché io ti prometto che la prima cosa
che io farò domattina, io andrò per esso e sì il ti recherò.
Di che il fanciullo
lieto il dì medesimo mostrò alcun miglioramento.
La donna la mattina
seguente, presa un'altra donna in compagnia, per modo di diporto se n'andò alla
piccola casetta di Federigo e fecelo adimandare. Egli, per ciò che non era
tempo, né era stato a quei dì, d'uccellare, era in un suo orto e faceva certi
suoi lavorietti acconciare; il quale, udendo che monna Giovanna il domandava
alla porta, maravigliandosi forte, lieto là corse. La quale vedendol venire,
con una donnesca piacevolezza levataglisi incontrò, avendola già Federigo
reverentemente salutata, disse:
– Bene stea Federigo! –
e seguitò: –Io sono venuta a ristorarti de' danni li quali tu hai già avuti per
me amandomi più che stato non ti sarebbe bisogno: e il ristoro è cotale che io
intendo con questa mia compagna insieme destinar teco dimesticamente stamane.
Alla qual Federigo umilmente rispose:
– Madonna, niun danno mi
ricorda mai avere ricevuto per voi ma tanto di bene che, se io mai alcuna cosa
valsi, per lo vostro valore e per l'amore che portato v'ho adivenne. E per
certo questa vostra liberale venuta m'è troppo più cara che non sarebbe se da
capo mi fosse dato da spendere quanto per adietro ho già speso, come che a
povero oste siate venuta.
E così detto,
vergognosamente dentro alla sua casa la ricevette e di quella nel suo giardino
la condusse, e quivi non avendo a cui farle tenere compagnia a altrui, disse:
– Madonna, poi che altri
non c'è, questa buona donna moglie di questo lavoratore vi terrà compagnia
tanto che io vada a far metter la tavola.
Egli, con tutto che la
sua povertà fosse strema, non s'era ancor tanto avveduto quanto bisogno gli
facea che egli avesse fuor d'ordine spese le sue ricchezze, ma questa mattina
niuna cosa trovandosi di che potere onorar la donna, per amor della quale egli
già infiniti uomini onorati avea, il fé ravedere. E oltre modo angoscioso, seco
stesso maledicendo la sua fortuna, come uomo che fuor di sé fosse or qua e or
là trascorrendo, né denari né pegno trovandosi, essendo l'ora tarda e il
disiderio grande di pure onorar d'alcuna cosa la gentil donna e non volendo,
non che altrui, ma il lavorator suo stesso richiedere gli corse agli occhi il
suo buon falcone, il quale nel la sua saletta vide sopra la stanga per che, non
avendo a che altro ricorrere, presolo e trovatolo grasso, pensò lui esser degna
vivanda di cotal donna. E però, senza più pensare, tiratogli il collo, a una
sua fanticella il fé prestamente, pelato e acconcio, mettere in uno schedone e
arrostir diligentemente; e messa la tavola con tovaglie bianchissime, delle
quali alcuna ancora avea, con lieto viso ritornò alla donna nel suo giardino e
il desinare, che per lui far si potea, disse essere apparecchiato. Laonde la
donna con la sua compagna levatasi andarono a tavola e, senza saper che si
mangiassero, insieme con Federigo, il quale con somma fede le serviva,
mangiarono il buon falcone. E levate da tavola e alquanto con piacevoli
ragionamenti con lui dimorate, parendo alla donna tempo di dire quello per che
andata era, così benignamente verso Federigo cominciò a parlare:
– Federigo, ricordandoti
tu della tua preterita vita e della mia onestà, la quale per avventura tu hai
reputata durezza e crudeltà, io non dubito punto che tu non ti debbi
maravigliare della mia presunzione sentendo quello per che principalmente qui
venuta sono; ma se figliuoli avessi o avessi avuti, per li quali potessi
conoscere di quanta forza sia l'amor che lor si porta, mi parrebbe esser certa
che in parte m'avresti per iscusata. Ma come che tu non n'abbia, io che n'ho
uno, non posso però le leggi comuni d'altre madri fuggire; le cui forze seguir
convenendomi, mi conviene, oltre al piacer mio e oltre a ogni convenevolezza e
dovere, chiederti un dono il quale io so che sommamente t'è caro: e è ragione,
per ciò che niuno altro diletto, niuno altro diporto, niuna consolazione
lasciata t'ha la sua strema fortuna, e questo dono è il falcon tuo, del quale
il fanciul mio è sì forte invaghito, che, se io non gliene porto, io temo che
egli non aggravi tanto nella infermità la quale ha, che poi ne segua cosa per la
quale io il perda. E per ciò ti priego, non per l'amore che tu mi porti, al
quale tu di niente sé tenuto, ma per la tua nobiltà, la quale in usar cortesia
s'è maggiore che in alcuno altro mostrata, che ti debba piacere di donarlomi,
acciò che io per questo dono possa dire d'avere ritenuto in vita il mio
figliuolo e per quello averloti sempre obligato.
Federigo, udendo ciò che
la donna adomandava e sentendo che servir non ne la potea per ciò che mangiar
gliele avea dato, cominciò in presenza di lei a piagnere anzi che alcuna parola
risponder potesse. Il quale pianto la donna prima credette che da dolore di
dover da sé di partire il buon falcone divenisse più che d'altro, e quasi fu
per dire che nol volesse; ma pur sostenutasi, aspettò dopo il pianto la risposta
di Federigo, il qual così disse:
– Madonna poscia che a
Dio piacque che io in voi ponessi il mio amore, in assai cose m'ho reputata la
fortuna contraria e sonmi di lei doluto; ma tutte sono state leggieri a
rispetto di quello che ella mi fa al presente, di che io mai pace con lei aver
non debbo, pensando che voi qui alla mia povera casa venuta siete, dove, mentre
che ricca fu, venir non degnaste, e da me un picciol don vogliate, e ella abbia
sì fatto, che io donar nol vi possa: e perché questo esser non possa vi dirò
brievemente. Come io udii che voi, la vostra mercé, meco desinar volavate,
avendo riguardo alla vostra eccellenzia e al vostro valore, reputai degna e
convenevole cosa che con più cara vivanda secondo la mia possibilità io vi
dovessi onorare, che con quelle che generalmente per l'altre persone s'usano:
per che, ricordandomi del falcon che mi domandate e della sua bontà, degno cibo
da voi il reputai, e questa mattina arrostito l'avete avuto in sul tagliere, il
quale io per ottimamente allogato avea; ma vedendo ora che in altra maniera il
disideravate, m'è sì gran duolo che servire non ve ne posso, che mai pace non
me ne credo dare.
E questo detto, le penne
e i piedi e 'l becco le fe' in testimonianza di ciò gittare davanti. La qual
cosa la donna vedendo e udendo, prima il biasimò d'aver per dar mangiare a una
femina ucciso un tal falcone, e poi la grandezza dell'animo suo, la quale la
povertà non avea potuto né potea rintuzzare, molto seco medesima commendò. Poi,
rimasa fuori dalla speranza d'avere il falcone e per quello della salute del
figliuolo entrata in forse, tutta malinconosa si dipartì e tornossi al
figliuolo. Il quale, o per malinconia che il falcone aver non potea o per la
'nfermità che pure a ciò il dovesse aver condotto, non trapassar molti giorni
che egli con grandissimo dolor della madre di questa vita passò. La quale, poi
che piena di lagrime e d'amaritudine fu stata alquanto, essendo rimasa
ricchissima e ancora giovane, più volte fu dà fratelli costretta a rimaritarsi.
La quale, come che voluto non avesse, pur veggendosi infestare, ricordatasi del
valore di Federigo e della sua magnificenzia ultima, cioè d'avere ucciso un
così fatto falcone per onorarla, disse a' fratelli:
– Io volentieri, quando
vi piacesse, mi starei; ma se a voi pur piace che io marito prenda, per certo
io non ne prenderò mai alcuno altro, se io non ho Federigo degli Alberighi.
Alla quale i fratelli,
faccendosi beffe di lei, dissero:
– Sciocca, che è ciò che
tu dì? come vuoi tu lui che non ha cosa al mondo?
A'quali ella rispose:
– Fratelli miei, io so
bene che così è come voi dite, ma io voglio avanti uomo che abbia bisogno di
ricchezza che ricchezza che abbia bisogno d'uomo.
Li fratelli, udendo
l'animo di lei e conoscendo Federigo da molto, quantunque povero fosse, sì come
ella volle, lei con tutte le sue ricchezze gli donarono. Il quale così fatta
donna e cui egli cotanto amata avea per moglie vedendosi, e oltre a ciò
ricchissima, in letizia con lei, miglior massaio fatto, terminò gli anni suoi.
NOVELLA DECIMA
Pietro di Vinciolo va a
cenare altrove; la donna sua si fa venire un garzone; torna Pietro; ella il
nasconde sotto una cesta da polli; Pietro dice essere stato trovato in casa
d'Ercolano, con cui cenava, un giovane messovi dalla moglie; la donna biasima
la moglie d'Ercolano; uno asino per isciagura pon piede in su le dita di colui
che era sotto la cesta; egli grida; Pietro corre là, vedelo cognosce lo 'nganno
della moglie con la quale ultimamente rimane in concordia per la sua tristezza.
Il ragionare della reina
era al suo fine venuto, essendo lodato da tutti Iddio che degnamente avea
guiderdonato Federigo, quando Dioneo, che mai comandamento non aspettava,
incominciò.
Io non so s'io mi dica
che sia accidental vizio e per malvagità di costumi né mortali sopravenuto, o
se pure è della natura peccato, il rider più tosto delle cattive cose che delle
buone opere, e spezialmente quando quelle cotali a noi non pertengono. E per
ciò che la fatica, la quale altra volta ho impresa e ora son per pigliare, a
niuno altro fine riguarda se non a dovervi torre malinconia, e riso e
allegrezza porgervi, quantunque la materia della mia seguente novella,
innamorate giovani, sia in parte meno che onesta, però che diletto può porgere,
ve la pur dirò; e voi, ascoltandola, quello ne fate che usate siete di fare
quando né giardini entrate, che, distesa la dilicata mano, cogliete le rose e
lasciate le spine stare; il che farete, lasciando il cattivo uomo con la mala
ventura stare con la sua disonestà, e liete riderete degli amorosi inganni
della sua donna, compassione avendo all'altrui sciagure, dove bisogna.
Fu in Perugia, non è
ancora molto tempo passato, un ricco uomo chiamato Pietro di Vinciolo, il
quale, forse più per ingannare altrui e diminuire la generale oppinion di lui
avuta da tutti i perugini, che per vaghezza che egli n'avesse, prese moglie; e
fu la fortuna conforme al suo appetito in questo modo, che la moglie la quale
egli prese era un giovane compressa, di pelo rosso e accesa, la quale due
mariti più tosto che uno avrebbe voluti, là dove ella s'avvenne a uno che molto
più ad altro che a lei l'animo avea disposto.
Il che ella in processo
di tempo conoscendo, e veggendosi bella e fresca, e sentendosi gagliarda e
poderosa, prima se ne cominciò forte a turbare e ad averne col marito di sconce
parole alcuna volta, e quasi continuo mala vita; poi, veggendo che questo, suo
consumamento più tosto che ammendamento della cattività del marito potrebbe
essere, seco stessa disse:
- Questo dolente
abbandona me, per volere con le sue disonestà andare in zoccoli per l'asciutto,
e io m'ingegnerò di portare altrui in nave per lo piovoso. Io il presi per
marito e diedigli grande e buona dota, sappiendo che egli era uomo e credendol
vago di quello che sono e deono esser vaghi gli uomini; e se io non avessi
creduto ch'è fosse stato uomo, io non lo avrei mai preso. Egli che sapeva che
io era femina, perché per moglie mi prendeva se le femine contro all'animo gli
erano? Questo non è da sofferire. Se io non avessi voluto essere al mondo, io
mi sarei fatta monaca; e volendoci essere, come io voglio e sono, se io
aspetterò diletto o piacere di costui, io potrò per avventura invano aspettando
invecchiare, e quando io sarò vecchia, ravvedendomi, indarno mi dorrò d'avere
la mia giovinezza perduta, alla qual dover consolare m'è egli assai buono
maestro e dimostratore in farmi dilettare di quello che egli si diletta; il
qual diletto fia a me laudevole, dove biasimevole è forte a lui; io offenderò
le leggi sole, dove egli offende le leggi e la natura.
Avendo adunque la buona
donna così fatto pensiero avuto, e forse più d'una volta, per dare segretamente
a ciò effetto, si dimesticò con una vecchia, che pareva pur santa Verdiana che
dà beccare alle serpi; la quale sempre co' paternostri in mano andava ad ogni
perdonanza, né mai d'altro che della vita de' Santi Padri ragionava e delle
piaghe di san Francesco, e quasi da tutti era tenuta una santa. E quando tempo
le parve, l'aperse la sua intenzion compiutamente; a cui la vecchia disse:
– Figliuola mia, sallo
Iddio che sa tutte le cose, che tu molto ben fai; e quando per niuna altra cosa
il facessi, sì 'l dovresti far tu e ciascuna giovane per non perdere il tempo
della vostra giovinezza, perciò che niun dolore è pari a quello, a chi
conoscimento ha, che è d'avere il tempo perduto. E da che diavol siam noi poi,
quando noi siam vecchie, se non da guardare la cenere intorno al focolare? Se
niuna il sa o ne può rendere testimonianza, io sono una di quelle; che ora che
vecchia sono, non senza grandissime e amare punture d'animo conosco, e senza
pro, il tempo che andar lasciai; e benché io nol perdessi tutto (ché non vorrei
che tu credessi che io fossi stata una milensa), io pur non feci ciò che io avrei
potuto fare; di che quand'io mi ricordo, veggendomi fatta come tu mi vedi, che
non troverrei chi mi desse fuoco a cencio, Dio il sa che dolore io sento. Degli
uomini non avvien così: essi nascon buoni a mille cose, non pure a questa, e la
maggior parte sono da molto più vecchi che giovani; ma le femine a niuna altra
cosa che a far questo e figliuoli ci nascono, e per questo son tenute care. E
se tu non te ne avvedessi ad altro, sì te ne dei tu avvedere a questo, che noi
siam sempre apparecchiate a ciò, che degli uomini non avviene; e oltre a questo
una femina stancherebbe molti uomini, dove molti uomini non possono una femina
stancare. E per ciò che a questo siam nate, da capo ti dico che tu farai molto
bene a rendere al marito tuo pan per focaccia, sì che l'anima tua non abbia in
vecchiezza che rimproverare alle carni.
Di questo mondo ha
ciascun tanto quanto egli se ne toglie, spezialmente le femine, alle quali si
conviene troppo più d'adoperare il tempo quando l'hanno, che agli uomini, per
ciò che tu puoi vedere, quando c'invecchiamo, né marito né altri ci vuol vedere
anzi ci cacciano in cucina a dir delle favole con la gatta, e a noverare le
pentole e le scodelle; e peggio, che noi siamo messe in canzone e dicono: –
Alle giovani i buon bocconi, e alle vecchie gli stranguglioni –: e altre lor
cose assai ancora dicono.
E acciò che io non ti
tenga più in parole, ti dico infino ad ora che tu non potevi a persona del
mondo scoprire l'animo tuo che più utile ti fosse di me; per ciò che egli non è
alcun sì forbito, al quale io non ardisca di dire ciò che bisogna, né sì duro o
zotico, che io non ammorbidisca bene e rechilo a ciò che io vorrò. Fa pure che
tu mi mostri qual ti piace, e lascia poi fare a me; ma una cosa ti ricordo,
figliuola mia, che io ti sia raccomandata, per ciò che io son povera persona, e
io voglio infino ad ora che tu sii partefice di tutte le mie perdonanze e di
quanti paternostri io dirò, acciò che Iddio gli faccia lume e candela a' morti
tuoi; e fece fine.
Rimase adunque la
giovane in questa concordia colla vecchia, che se veduto le venisse un
giovinetto, il quale per quella contrada molto spesso passava, del quale tutti
i segni le disse, che ella sapesse quello che avesse a fare; e datale un pezzo
di carne salata, la mandò con Dio. La vecchia, non passar molti dì,
occultamente le mise colui, di cui ella detto l'aveva, in camera, e ivi a poco
tempo un altro, secondo che alla giovane donna ne venivan piacendo, la quale in
cosa che far potesse intorno a ciò, sempre del marito temendo, non ne lasciava
a far tratto.
Avvenne che, dovendo una
sera andare a cena il marito con un suo amico, il quale aveva nome Ercolano, la
giovane impose alla vecchia che facesse venire a lei un garzone, che era de'
più belli e de' più piacevoli di Perugia; la quale prestamente così fece. Ed
essendosi la donna col giovane posti a tavola per cenare, ed ecco Pietro chiamò
all'uscio che aperto gli fosse. La donna, questo sentendo, si tenne morta; ma
pur volendo, se potuto avesse, celare il giovane, non avendo accorgimento di
mandarlo o di farlo nascondere in altra parte, essendo una sua loggetta vicina
alla camera nella quale cenavano, sotto una cesta da polli, che v'era, il fece
ricoverare, e gittovvi suso un pannaccio d'un saccone che aveva fatto il dì
votare; e questo fatto, prestamente fece aprire al marito. Al quale entrato in
casa ella disse:
– Molto tosto l'avete
voi trangugiata questa cena.
Pietro rispose:
– Non l'abbiam noi
assaggiata.
– E come è stato così? –
disse la donna.
Pietro allora disse:
– Dirolti: essendo noi
già posti a tavola Ercolano e la moglie e io, e noi sentimmo presso di noi
starnutire, di che noi né la prima volta né la seconda ce ne curammo; ma quegli
che starnutito avea, starnutendo ancora la terza volta e la quarta e la quinta e
molte altre, tutti ci fece maravigliare; di che Ercolano, che alquanto turbato
con la moglie per ciò che gran pezza ci avea fatti stare all'uscio senza
aprirci, quasi con furia disse: – Questo che vuol dire? Chi è questi che così
starnutisce? – e levatosi da tavola andò verso una scala la quale assai vicina
v'era, sotto la quale era un chiuso di tavole vicino al piè della scala, da
riporvi, chi avesse voluto, alcuna cosa, come tutto dì veggiamo che fanno far
coloro che le lor case acconciano.
E parendogli che di
quindi venisse il suono dello starnuto, aperse un usciuolo il qual v'era, e
come aperto l'ebbe, subitamente n'uscì fuori il maggior puzzo di solfo del
mondo, benché davanti, essendocene venuto puzzo e rammaricaticene, aveva detto
la donna: – Egli è che dianzi io imbiancai miei veli col solfo, e poi la
tegghiuzza, sopra la quale sparto l'avea perché il fummo ricevessero, io la
misi sotto quella scala, sì che ancora ne viene –. E poi che Ercolano aperto
ebbe l'usciuolo e sfogato fu alquanto il puzzo, guardando dentro vide colui il
quale starnutito avea e ancora starnutiva, a ciò la forza del solfo
strignendolo; e come che egli starnutisse, gli avea già il solfo sì il petto
serrato, che poco a stare avea che né starnutito né altro non avrebbe mai.
Ercolano, vedutolo,
gridò:
- Or veggio, donna,
quello per che poco avanti, quando ce ne venimmo, tanto tenuti fuor della
porta, senza esserci aperto, fummo; ma non abbia io mai cosa che mi piaccia, se
io non te ne pago –.
Il che la donna udendo,
e vedendo che 'l suo peccato era palese, senza alcuna scusa fare, levatasi da
tavola si fuggì, né so ove se n'andasse. Ercolano, non accorgendosi che la
moglie si fuggia, più volte disse a colui che starnutiva che egli uscisse
fuori; ma quegli, che già più non poteva, per cosa che Ercolano dicesse non si
movea; laonde Ercolano, presolo per l'uno de' piedi, nel tirò fuori, e correva
per un coltello per ucciderlo; ma io, temendo per me medesimo la signoria,
levatomi, non lo lasciai uccidere né fargli alcun male, anzi gridando e
difendendolo, fui cagione che quivi de' vicini trassero, li quali, preso il già
vinto giovane, fuori della casa il portarono non so dove; per le quali cose la
nostra cena turbata, io non solamente non la ho trangugiata, anzi non l'ho pure
assaggiata, come io dissi.
Udendo la donna queste
cose, conobbe che egli erano dell'altre così savie come ella fosse, quantunque
talvolta sciagura ne cogliesse ad alcuna, e volentieri avrebbe con parole la
donna d'Ercolano difesa; ma, per ciò che col biasimare il fallo altrui le parve
dovere a' suoi far più libera via, cominciò a dire:
– Ecco belle cose; ecco
buona e santa donna che costei dee essere; ecco fede d'onesta donna, ché mi
sarei confessata da lei, sì spirital mi pareva! e peggio, che, essendo ella
oggimai vecchia, dà molto buono essemplo alle giovani. Che maladetta sia l'ora
che ella nel mondo venne, ed ella altressì che viver si lascia, perfidissima e
rea femina che ella dee essere, universal vergogna e vitupero di tutte le donne
di questa terra; la quale, gittata via la sua onestà e la fede promessa al suo
marito e l'onor di questo mondo, lui, che è così fatto uomo e così onorevole
cittadino, e che così bene la trattava, per un altro uomo non s'è vergognata di
vituperare, e sé medesima insieme con lui. Se Dio mi salvi, di così fatte
femine non si vorrebbe aver misericordia; elle si vorrebbero occidere; elle si
vorrebbon vive vive mettere nel fuoco e farne cenere.
Poi, del suo amico
ricordandosi, il quale ella sotto la cesta assai presso di quivi aveva,
cominciò a confortare Pietro che s'andasse al letto, per ciò che tempo n'era.
Pietro, che maggior voglia aveva di mangiare che di dormire, domandava pur se
da cena cosa alcuna vi fosse. A cui la donna rispondeva:
– Sì, da cena ci ha! Noi
siamo molto usate di far da cena, quando tu non ci sé! Sì, che io sono la
moglie d'Ercolano! Deh che non vai? Dormi per istasera: quanto farai meglio!
Avvenne che, essendo la
sera certi lavoratori di Pietro venuti con certe cose dalla villa, e avendo
messi gli asini loro, senza dar lor bere, in una stalletta la quale allato alla
loggetta era, l'un degli asini che grandissima sete avea, tratto il capo del
capestro, era uscito della stalla, e ogni cosa andava fiutando, se forse
trovasse dell'acqua; e così andando s'avvenne per me la cesta sotto la quale
era il giovinetto.
Il quale avendo, per ciò
che carpone gli conveniva stare, alquanto le dita dell'una mano stese in terra
fuor della cesta, tanta fu la sua ventura, o sciagura che vogliam dire, che
questo asino ve gli pose su piede; laonde egli, grandissimo dolor sentendo,
mise un grande strido. Il quale udendo Pietro si maravigliò, e avvidesi ciò
esser dentro alla casa; per che, uscito della camera, e sentendo ancora costui
rammaricarsi, non avendogli ancora l'asino levato il piè d'in su le dita, ma
premendol tuttavia forte, disse: –Chi è là? – e corso alla cesta, e quella
levata, vide il giovinetto, il quale, oltre al dolore avuto delle dita premute
dal piè dell'asino, tutto di paura tremava che Pietro alcun male non gli facesse.
Il quale essendo da Pietro riconosciuto, sì come colui a cui Pietro per la sua
cattività era andato lungamente dietro, essendo da lui domandato – che fai tu
qui? – niente a ciò gli rispose, ma pregollo che per l'amor di Dio non gli
dovesse far male.
A cui Pietro disse:
– Leva su, non dubitare
che io alcun mal ti faccia, ma dimmi, come tu se' qui e perché?
Il giovinetto gli disse
ogni cosa. Il qual Pietro, non meno lieto d'averlo trovato che la sua donna
dolente, presolo per mano, con seco nel menò nella camera nella quale la donna
con la maggior paura del mondo l'aspettava; alla quale Pietro postosi a seder
dirimpetto disse:
– Or tu maladicevi così
testé la moglie d'Ercolano e dicevi che arder si vorrebbe e che ella era
vergogna di tutte voi: come non dicevi di te medesima? O, se di te dir non
volevi, come ti sofferiva l'animo di dir di lei, sentendoti quel medesimo aver
fatto che ella fatto avea? Certo niuna altra cosa vi ti induceva, se non che
voi siete tutte così fatte, e con l'altrui colpe guatate di ricoprire i vostri
falli; che venir possa fuoco da cielo che tutte v'arda, generazion pessima che
voi siete.
La donna, veggendo che
nella prima giunta altro male che di parole fatto non l'avea, e parendole
conoscere lui tutto gogolare per ciò che per man tenea un così bel giovinetto,
prese cuore e disse:
– Io ne son molto certa
che tu vorresti che fuoco venisse da cielo che tutte ci ardesse, sì come colui
che sé così vago di noi come il can delle mazze; ma alla croce di Dio egli non
ti verrà fatto. Ma volentieri farei un poco ragione con essoteco per sapere di
che tu ti ramarichi; e certo io starei pur bene se tu alla moglie d'Ercolano mi
volessi agguagliare, la quale è una vecchia picchiapetto spigolistra e ha da
lui ciò che ella vuole, e tienla cara come si dee tener moglie, il che a me non
avviene. Ché, posto che io sia da te ben vestita e ben calzata, tu sai bene
come io sto d'altro e quanto tempo egli è che tu non giacesti con meco; e io
vorrei innanzi andar con gli stracci in dosso e scalza ed esser ben trattata da
te nel letto, che aver tutte queste cose, trattandomi come tu mi tratti. E
intendi sanamente, Pietro, che io son femina come l'altre, e ho voglia di quel
che l'altre; sì che, perché io me ne procacci, non avendone da te, non è da
dirmene male; almeno ti fo io cotanto d'onore, che io non mi pongo né con
ragazzi né con tignosi.
Pietro s'avvide che le
parole non erano per venir meno in tutta notte; per che, come colui che poco di
lei si curava, disse:
– Or non più, donna; di
questo ti contenterò io bene; farai tu gran cortesia di far che noi abbiamo da
cena qualche cosa: ché mi pare che questo garzone, altressì ben com'io, non
abbia ancor cenato.
– Certo no, – disse la
donna – che egli non ha ancor cenato, ché quando tu nella tua mala ora venisti,
ci ponavam noi a tavola per cenare.
– Or va dunque, – disse
Pietro – fa che noi ceniamo, e appresso io disporrò di questa cosa in guisa che
tu non t'avrai che ramaricare.
La donna levata su,
udendo il marito contento, prestamente fatta rimetter la tavola, fece venir la
cena la quale apparecchiata avea, e insieme col suo cattivo marito e col
giovane lietamente cenò.
Dopo la cena, quello che
Pietro si divisasse a sodisfacimento di tutti e tre, m'è uscito di mente. So io
ben cotanto che la mattina vegnente infino in su la piazza fu il giovane, non
assai certo qual più stato si fosse la notte o moglie o marito, accompagnato.
Per che così vi vo' dire, donne mie care, che chi te la fa, fagliele; e se tu
non puoi, tienloti a mente fin che tu possa, acciò che quale asin dà in parete
tal riceva.
CONCLUSIONE
Essendo adunque la
novella di Dioneo finita, meno per vergogna dalle donne risa che per poco
diletto, e la reina conoscendo che il fine del suo reggimento era venuto,
levatasi in piè e trattasi la corona dello alloro, quella piacevolmente mise in
capo ad Elissa, dicendole:
– A voi, madonna, sta
omai il comandare.
Elissa, ricevuto
l'onore, sì come per addietro era stato fatto, così fece ella; ché dato col
siniscalco primieramente ordine a ciò che bisogno facea per lo tempo della sua
signoria, con contentamento della brigata disse:
– Noi abbiamo già molte
volte udito che con be' motti e con risposte pronte o con avvedimenti presti
molti hanno già saputo con debito morso rintuzzare gli altrui denti o i
sopravegnenti pericoli cacciar via; e per ciò che la materia è bella, e può
essere utile, voglio che domane, con l'aiuto di Dio, infra questi termini si
ragioni, cioè di chi, con alcuno leggiadro motto tentato, si riscosse, o con
pronta risposta o avvedimento fuggì perdita, pericolo o scorno.
Questo fu commendato
molto da tutti; per la qual cosa la reina, levatasi in piè, loro tutti infino
all'ora della cena licenziò.
L'onesta brigata,
vedendo la reina levata, tutta si dirizzò, e, secondo il modo usato, ciascuno a
quello che più diletto gli era si diede. Ma essendo già di cantare le cicale
ristate, fatto ogn'uom richiamare, a cena andarono; la quale con lieta festa
fornita, a cantare e a sonare tutti si diedero E avendo già, con volere della
reina, Emilia una danza presa, a Dioneo fu comandato che cantasse una canzone;
il quale prestamente cominciò: «Monna Aldruda, levate la coda, ché buone
novelle vi reco». Di che tutte le donne cominciarono a ridere, e massimamente
la reina, la quale gli comandò che quella lasciasse e dicessene un'altra.
Disse Dioneo:
– Madonna, se io avessi
cembalo, io direi: «Alzatevi i panni, monna Lapa»; o «Sotto l'ulivello è
l'erba»; o voleste voi che io dicessi: «L'onda del mare mi fa sì gran male»? ma
io non ho cembalo, e per ciò vedete voi qual voi volete di queste altre.
Piacerebbevi: «Escici fuor che sia tagliato, com'un maio in su la campagna»?
Disse la reina:
– No, dinne un'altra.
– Dunque, – disse Dioneo
– dirò io; «Monna Simona imbotta imbotta è non è del mese d'ottobre».
La reina ridendo disse:
– Deh in mal'ora, dinne
una bella, se tu vogli, ché noi non vogliam cotesta.
Disse Dioneo:
– No, madonna, non ve ne
fate male; pur qual più vi piace? Io ne so più di mille. O volete: «Questo mio
nicchio s'io nol picchio»; o, «Deh fa' pian, marito mio»; o, «Io mi comperai un
gallo delle lire cento».
La reina allora un poco
turbata, quantunque tutte l'altre ridessero, disse:
– Dioneo, lascia il
motteggiare, e dinne una bella; e se non, tu potresti provare come io mi so
adirare.
Dioneo, udendo questo,
lasciate star le ciance, presta mente in cotal guisa cominciò a cantare:
Amor, la vaga luce,
che move dà begli occhi
di costei,
servo m'ha fatto di te e
di lei.
Mosse dà suoi begli
occhi lo splendore,
che pria la fiamma tua
nel cor m'accese,
per li miei trapassando;
e quanto fosse grande il
tuo valore,
il bel viso di lei mi fè
palese;
il quale immaginando,
mi sentii gir legando
ogni virtù e sottoporla
a lei,
fatta nuova cagion de'
sospir miei.
Così de' tuoi adunque
divenuto
son, signor caro, e
ubbidiente aspetto
dal tuo poter merzede;
ma non so ben se 'ntero
è conosciuto
l'alto disio che messo
m'hai nel petto,
né la mia intera fede,
da costei che possiede
sì la mia mente, che io
non torrei
pace, fuor che da essa,
né vorrei.
Per ch'io ti priego,
dolce signor mio,
che gliel dimostri, e
faccile sentire
alquanto del tuo foco
in servigio di me, ché
vedi ch'io
già mi consumo amando, e
nel martire
mi sfaccio a poco a
poco;
e poi, quando fia loco,
me raccomanda a lei,
come tu dei,
ché teco a farlo
volentier verrei.
Da poi che Dioneo,
tacendo, mostrò la sua canzone esser finita, fece la reina assai dell'altre
dire, avendo nondimeno commendata molto quella di Dioneo. Ma, poi che alquanto
della notte fu trapassata, e la reina sentendo già il caldo del dì esser vinto
dalla freschezza della notte, comandò che ciascuno infino al dì seguente a suo
piacere s'andasse a riposare.
Finisce la quinta
giornata del Decameron.
Incomincia la sesta
giornata nella quale sotto il reggimento d'Elissa, si ragiona di chi con alcuno
leggiadro motto, tentato, si riscosse, o con pronta risposta o avvedimento
fuggì perdita o pericolo o scorno.
GIORNATA SESTA
INTRODUZIONE
Aveva la luna, essendo
nel mezzo del cielo, perduti i raggi suoi, e già, per la nuova luce vegnente,
ogni parte del nostro mondo era chiara, quando la reina levatasi, fatta la sua
compagnia chiamare, alquanto con lento passo dal bel palagio, su per la rugiada
spaziandosi, s'allontanarono, d'una e d'altra cosa vari ragionamenti tenendo, e
della più bellezza e della meno delle raccontate novelle disputando, e ancora
de' vari casi recitati in quelle rinnovando le risa infino a tanto che, già più
alzandosi il sole e cominciandosi a riscaldare, a tutti parve di dover verso
casa tornare; per che, voltati i passi, là se ne vennero.
E quivi, essendo già le
tavole messe, e ogni cosa d'erbucce odorose e di be'fiori seminata, avanti che
il caldo surgesse più, per comandamento della reina si misero a mangiare. E
questo con festa fornito, avanti che altro facessero, alquante canzonette belle
e leggiadre cantate, chi andò a dormire e chi a giucare a scacchi e chi a
tavole. E Dioneo insieme con Lauretta di Troiolo e di Criseida cominciarono a
cantare.
E già l'ora venuta del
dovere a concistoro tornare, fatti tutti dalla reina chiamare, come usati
erano, dintorno alla fonte si posero a sedere. E volendo già la reina comandare
la prima novella, avvenne cosa che ancora addivenuta non v'era, cioè che per la
reina e per tutti fu un gran romore udito, che per le fanti e famigliari si
faceva in cucina. Laonde, fatto chiamare il siniscalco, e domandato qual
gridasse e qual fosse del romore la cagione, rispose che il romore era tra
Licisca e Tindaro; ma la cagione egli non sapea, sì come colui che pure allora
giugnea per fargli star cheti, quando per parte di lei era stato chiamato. Al
quale la reina comandò che incontanente quivi facesse venire la Licisca e
Tindaro; li quali venuti, domandò la reina qual fosse la cagione del loro
romore.
Alla quale volendo
Tindaro rispondere, la Licisca, che attempatetta era e anzi superba che no, e
in sul gridar riscaldata, voltatasi verso lui con un mal viso disse:
– Vedi bestia d'uom che
ardisce, dove io sia, a parlare prima di me! Lascia dir me –; e alla reina
rivolta disse:
– Madonna, costui mi
vuol far conoscere la moglie di Sicofante; e né più né meno, come se io con lei
usata non fossi, mi vuol dare a vedere che la notte prima che Sicofante giacque
con lei, messer Mazza entrasse in Monte Nero per forza e con ispargimento di
sangue; e io dico che non è vero, anzi v'entrò paceficamente e con gran piacere
di quei d'entro. Ed è ben sì bestia costui, che egli si crede troppo bene che
le giovani sieno così sciocche, che elle stieno a perdere il tempo loro, stando
alla bada del padre e dei fratelli, che delle sette volte le sei soprastanno
tre o quattro anni più che non debbono a maritarle. Frate, bene starebbono, se
elle s'indugiasser tanto! Alla fè di Cristo (ché debbo sapere quello che io mi
dico quando io giuro) io non ho vicina che pulcella ne sia andata a marito; e
anche delle maritate, so io ben quante e quali beffe elle fanno à mariti; e
questo pecorone mi vuol far conoscere le femine, come se io fossi nata ieri.
Mentre la Licisca
parlava, facevan le donne sì gran risa, che tutti i denti si sarebbero loro
potuti trarre. E la reina l'aveva ben sei volte imposto silenzio; ma niente
valea: ella non ristette mai infino a tanto che ella ebbe detto ciò che le
piacque. Ma poi che fatto ebbe alle parole fine, la reina ridendo, volta a
Dioneo, disse:
– Dioneo, questa è
quistion da te; e per ciò farai, quando finite fieno le nostre novelle che tu
sopr'essa dei sentenzia finale.
Alla qual Dioneo
prestamente rispose:
– Madonna, la sentenzia
è data senza udirne altro; e dico che la Licisca ha ragione, e credo che così
sia com'ella dice; e Tindaro è una bestia. La qual cosa la Licisca udendo,
cominciò a ridere, e a Tindaro rivolta, disse:
– Occi ben lo diceva io;
vatti con Dio; credi tu saper più di me tu, che non hai ancora rasciutti gli
occhi? Gran mercé, non ci son vivuta invano io, no.
E, se non fosse che la
reina con un mal viso le 'mpose silenzio e comandolle che più parola né romor
facesse se esser non volesse scopata, e lei e Tindaro mandò via, niuna altra
cosa avrebbero avuta a fare in tutto quel giorno che attendere a lei. Li quali
poi che partiti furono, la reina impose a Filomena che alle novelle desse
principio. La quale lietamente così cominciò.
NOVELLA PRIMA
Un cavaliere dice a
madonna Oretta di portarla con una novella a cavallo, e malcompostamente
dicendola, è da lei pregato che a piè la ponga.
Giovani donne, come né
lucidi sereni sono le stelle ornamento del cielo e nella primavera i fiori de'
verdi prati, e de' colli i rivestiti albuscelli, così de' laudevoli costumi e
de' ragionamenti belli sono i leggiadri motti, li quali, per ciò che brievi
sono, tanto stanno meglio alle donne che agli uomini, quanto più alle donne che
agli uomini il molto parlar si disdice.
È il vero che, qual si
sia la cagione, o la malvagità del nostro ingegno o inimicizia singulare che à
nostri secoli sia portata dà cieli, oggi poche o non niuna donna rimasa ci è,
la qual ne sappi né tempi opportuni dire alcuno, o, se detto l'è, intenderlo
come si conviene: general vergogna di tutte noi. Ma per ciò che già sopra
questa materia assai da Pampinea fu detto, più oltre non intendo di dirne. Ma
per farvi avvedere quanto abbiano in sé di bellezza à tempi detti, un cortese
impor di silenzio fatto da una gentil donna ad un cavaliere mi piace di
raccontarvi. Sì come molte di voi o possono per veduta sapere o possono avere
udito, egli non è ancora guari che nella nostra città fu una gentile e
costumata donna e ben parlante, il cui valore non meritò che il suo nome si
taccia. Fu adunque chiamata madonna Oretta, e fu moglie di messer Geri Spina;
la quale per avventura essendo in contado, come noi siamo, e da un luogo ad un
altro andando per via di diporto insieme con donne e con cavalieri, li quali a
casa sua il dì avuti avea a desinare, ed essendo forse la via lunghetta di là
onde si partivano a colà dove tutti a piè d'andare intendevano disse uno de'
cavalieri della brigata:
– Madonna Oretta, quando
voi vogliate, io vi porterò, gran parte della via che ad andare abbiamo, a
cavallo, con una delle belle novelle del mondo.
Al quale la donna
rispose:
– Messere, anzi ve ne
priego io molto, e sarammi carissimo. Messer lo cavaliere, al quale forse non
stava meglio la spada allato che 'l novellar nella lingua, udito questo,
cominciò una sua novella, la quale nel vero da sé era bellissima; ma egli or
tre e quattro e sei volte replicando una medesima parola, e ora indietro
tornando, e talvolta dicendo: – Io non dissi bene –; e spesso né nomi errando,
un per un altro ponendone, fieramente la guastava; senza che egli pessimamente,
secondo le qualità delle persone e gli atti che accadevano, proffereva. Di che
a madonna Oretta, udendolo, spesse volte veniva un sudore e uno sfinimento di
cuore, come se inferma fosse stata per terminare; la qual cosa poi che più
sofferir non potè, conoscendo che il cavaliere era entrato nel pecoreccio, né
era per riuscirne, piacevolmente disse:
– Messere, questo vostro
cavallo ha troppo duro trotto; per che io vi priego che vi piaccia di pormi a
piè.
Il cavaliere, il qual
per avventura era molto migliore intenditore che novellatore, inteso il motto,
e quello in festa e in gabbo preso, mise mano in altre novelle, e quella che
cominciata avea e mai seguita, senza finita lasciò stare.
NOVELLA SECONDA
Cisti fornaio con una
sola parola fa raveder messer Geri Spina d'una sua trascutata domanda.
Molto fu da ciascuna
delle donne e degli uomini il parlar di madonna Oretta lodato, il qual comandò
la reina a Pampinea che seguitasse; per che ella così cominciò: Belle donne, io
non so da me medesima vedere che più in questo si pecchi, o la natura apparecchiando
a una nobile anima un vil corpo, o la fortuna apparecchiando a un corpo dotato
d'anima nobile vil mestiero, sì come in Cisti nostro cittadino e in molti
ancora abbiamo potuto vedere avvenire; il qual Cisti, d'altissimo animo
fornito, la fortuna fece fornaio.
E certo io maladicerei e
la natura parimente e la fortuna, se io non conoscessi la natura esser
discretissima e la fortuna aver mille occhi, come che gli sciocchi lei cieca
figurino. Le quali io avviso che, sì come molto avvedute, fanno quello che i
mortali spesse volte fanno, li quali, incerti de' futuri casi, per le loro
oportunità le loro più care cose né più vili luoghi delle lor case, sì come
meno sospetti sepelliscono, e quindi né maggiori bisogni le traggono, avendole
il vil luogo più sicuramente servate che la bella camera non avrebbe. E così le
due ministre del mondo spesso le lor cose più care nascondono sotto l'ombra
dell'arti reputate più vili, acciò che di quelle alle necessità traendole più
chiaro appaia il loro splendore. Il che quanto in poca cosa Cisti fornaio il
dichiarasse, gli occhi dello 'ntelletto rimettendo a messer Geri Spina, il
quale la novella di madonna Oretta contata, che sua moglie fu, m'ha tornata
nella memoria, mi piace in una novelletta assai piccola dimostrarvi. Dico
adunque che, avendo Bonifazio papa, appo il quale messer Geri Spina fu in
grandissimo stato, mandati in Firenze certi suoi nobili ambasciadori per certe
sue gran bisogne, essendo essi in casa di messer Geri smontati, e egli con loro
insieme i fatti del Papa trattando, avvenne che, che se ne fosse cagione,
messer Geri con questi ambasciadori del Papa tutti a piè quasi ogni mattina
davanti a Santa Maria Ughi passavano, dove Cisti fornaio il suo forno aveva e
personalmente la sua arte esserceva. Al quale quantunque la fortuna arte assai
umile data avesse, tanto in quella gli era stata benigna, che egli n'era
ricchissimo divenuto, e senza volerla mai per alcuna altra abbandonare
splendidissimamente vivea, avendo tra l'altre sue buone cose sempre i migliori vini
bianchi e vermigli che in Firenze si trovassero o nel contado. Il quale,
veggendo ogni mattina davanti all'uscio suo passar messer Geri e gli
ambasciadori del Papa, e essendo il caldo grande, s'avisò che gran cortesia
sarebbe il dar lor bere del suo buon vin bianco; ma avendo riguardo alla sua
condizione e a quella di messer Geri, non gli pareva onesta cosa il presummere
d'invitarlo ma pensossi di tener modo il quale inducesse messer Geri medesimo a
invitarsi.
E avendo un farsetto
bianchissimo indosso e un grembiule di bucato innanzi sempre, li quali più
tosto mugnaio che fornaio il dimostravano, ogni mattina in su l'ora che egli
avvisava che messer Geri con gli ambasciadori dover passare si faceva davanti
all'uscio suo recare una secchia nuova e stagnata d'acqua fresca e un picciolo
orcioletto bolognese nuovo del suo buon vin bianco e due bicchieri che parevano
d'ariento, sì eran chiari: e a seder postosi, come essi passavano, e egli, poi
che una volta o due spurgato s'era, cominciava a ber sì saporitamente questo
suo vino, che egli n'avrebbe fatta venir voglia a' morti.
La qual cosa avendo
messer Geri una e due mattine veduta, disse la terza:
– Chente è, Cisti? è
buono?
Cisti, levato
prestamente in piè, rispose:
– Messer sì, ma quanto
non vi potre'io dare a intendere, se voi non assaggiaste.
Messer Geri, al quale o
la qualità o affanno più che l'usato avuto o forse il saporito bere, che a
Cisti vedeva fare, sete avea generata, volto agli ambasciadori sorridendo
disse:
– Signori, egli è buono
che noi assaggiamo del vino di questo valente uomo: forse che è egli tale, che
noi non ce ne penteremo –; e con loro insieme se n'andò verso Cisti.
Il quale, fatta di
presente una bella panca venire di fuori dal forno, gli pregò che sedessero; e
alli lor famigliari, che già per lavare i bicchieri si facevano innanzi, disse:
– Compagni, tiratevi
indietro e lasciate questo servigio fare a me, ché io so non meno ben mescere
che io sappia infornare; e non aspettaste voi d'assaggiarne gocciola!
E così detto, esso
stesso, lavati quatro bicchieri belli e nuovi e fatto venire un piccolo
orcioletto del suo buon vino diligentemente diede bere a messer Geri e a'
compagni, alli quali il vino parve il migliore che essi avessero gran tempo
davanti bevuto; per che, commendatol molto, mentre gli ambasciador vi stettero,
quasi ogni mattina con loro insieme n'andò a ber messer Geri. A' quali, essendo
espediti e partir dovendosi, messer Geri fece un magnifico convito al quale
invitò una parte de' più orrevoli cittadini, e fecevi invitare Cisti, il quale
per niuna condizione andar vi volle. Impose adunque messer Geri a uno de' suoi
famigliari che per un fiasco andasse del vin di Cisti e di quello un mezzo
bicchier per uomo desse alle prime mense.
Il famigliare, forse sdegnato
perché niuna volta bere aveva potuto del vino, tolse un gran fiasco. Il quale
come Cisti vide, disse:
– Figliuolo, messer Geri
non ti manda a me.
Il che raffermando più
volte il famigliare né potendo altra risposta avere, tornò a messer Geri e sì
gliele disse; a cui messer Geri disse:
– Tornavi e digli che sì
fo: e se egli più così sponde, domandalo a cui io ti mando.
Il famigliare tornato
disse:
– Cisti, per certo
messer Geri mi manda pure a te. Al quale Cisti rispose:
– Per certo, figliuol,
non fa.
– Adunque –, disse il
famigliare – a cui mi manda?
Rispose Cisti:
– Ad Arno.
Il che rapportando il
famigliare a messer Geri, subito gli occhi gli s'apersero dello 'ntelletto e
disse al famigliare:
– Lasciami vedere che
fiasco tu vi porti –; e vedutol disse:
– Cisti dice vero –; e
dettagli villania gli fece torre un fiasco convenevole.
Il quale Cisti vedendo
disse:
– Ora so io bene che
egli ti manda a me –, e lietamente glielo impiè.
E poi quel medesimo dì
fatto il botticello riempiere d'un simil vino e fattolo soavemente portare a
casa di messer Geri, andò appresso, e trovatolo gli disse:
– Messere, io non vorrei
che voi credeste che il gran fiasco stamane m'avesse spaventato; ma, parendomi
che vi fosse uscito di mente ciò che io a questi dì co' miei piccoli orcioletti
v'ho dimostrato, ciò questo non sia vin da famiglia, vel volli staman
raccordare. Ora, per ciò che io non intendo d'esservene più guardiano tutto ve
l'ho fatto venire: fatene per innanzi come vi piace. Messer Geri ebbe il dono
di Cisti carissimo e quelle grazie gli rendè che a ciò credette si
convenissero, e sempre poi per da molto l'ebbero e per amico.
NOVELLA TERZA
Monna Nonna de' Pulci
con una presta risposta al meno che onesto motteggiare del vescovo di Firenze
silenzio impone.
Quando Pampinea la sua
novella ebbe finita, poi che da tutte la risposta e la liberalità di Cisti
molto fu commendata, piacque alla reina che Lauretta dicesse appresso, la quale
lietamente così a dire cominciò.
Piacevoli donne, prima
Pampinea e ora Filomena assai del vero toccarono della nostra poca virtù e
della bellezza de' motti; alla quale per ciò che tornar non bisogna, oltre a
quello che de' motti è stato detto, vi voglio ricordare essere la natura de' motti
cotale, che essi come la pecora morde deono così mordere l'uditore, e non come
'l cane; per ciò che, se come il cane mordesse il motto, non sarebbe motto ma
villania. La qual cosa ottimamente fecero e le parole di madonna Oretta e la
risposta di Cisti.
È il vero che, se per
risposta si dice, e il risponditore morda come cane, essendo come da cane prima
stato morso, non par da riprendere, come, se ciò avvenuto non fosse, sarebbe; e
per ciò è da guardare e come e quando e con cui e similmente dove si motteggia.
Alle quali cose poco guardando già un nostro prelato, non minor morso ricevette
che 'l desse; il che in una piccola novella vi voglio mostrare.
Essendo vescovo di
Firenze messer Antonio d'Orso, valoroso e savio prelato, venne in Firenze un
gentile uom catalano, chiamato messer Dego della Ratta, maliscalco per lo re
Ruberto. Il quale, essendo del corpo bellissimo e vie più che grande
vagheggiatore, avvenne che fra l'altre donne fiorentine una ne gli piacque, la
quale era assai bella donna ed era nepote d'un fratello del detto vescovo.
E avendo sentito che il
marito di lei, quantunque di buona famiglia fosse, era avarissimo e cattivo,
con lui compose di dovergli dare cinquecento fiorin d'oro, ed egli una notte
con la moglie il lasciasse giacere; per che, fatti dorare popolini d'ariento,
che allora si spendevano, giaciuto con la moglie, come che contro al piacer di
lei fosse, gliele diede. Il che poi sappiendosi per tutto, rimasero al cattivo
uomo il danno e le beffe; e il vescovo, come savio, s'infinse di queste cose
niente sentire. Per che, usando molto insieme il vescovo e 'l maliscalco,
avvenne che il dì di San Giovanni, cavalcando l'uno allato all'altro, veggendo
le donne per la via onde il palio si corre, il vescovo vide una giovane, la
quale questa pestilenzia presente ci ha tolta donna, il cui nome fu monna Nonna
de' Pulci, cugina di messere Alesso Rinucci, e cui voi tutte doveste conoscere;
la quale, essendo allora una fresca e bella giovane e parlante e di gran cuore,
di poco tempo avanti in Porta San Piero a marito venutane, la mostrò al
maliscalco; e poi essendole presso, posta la mano sopra la spalla del
maliscalco, disse:
– Nonna, che ti par di
costui? Crederrestil vincere?
Alla Nonna parve che
quelle parole alquanto mordessero la sua onestà, o la dovesser contaminar negli
animi di coloro, che molti v'erano, che l'udirono. Per che, non intendendo a
purgar questa contaminazione, ma a render colpo per colpo, prestamente rispose:
– Messere, è forse non
vincerebbe me, ma vorrei buona moneta.
La qual parola udita il
maliscalco e 'l vescovo, sentendosi parimente trafitti, l'uno siccome facitore
della disonesta cosa nella nepote del fratel del vescovo, e l'altro sì come
ricevitore nella nepote del proprio fratello, senza guardar l'un l'altro,
vergognosi e taciti se n'andarono, senza più quel giorno dirle alcuna cosa.
Così adunque, essendo la
giovane stata morsa, non le si disdisse il mordere altrui motteggiando.
NOVELLA QUARTA
Chichibio, cuoco di
Currado Gianfigliazzi, con una presta parola a sua salute l'ira di Currado
volge in riso, e sé campa dalla mala ventura minacciatagli da Currado.
Tacevasi già la
Lauretta, e da tutti era stata sommamente commendata la Nonna, quando la reina
a Neifile impose che seguitasse; la qual disse.
Quantunque il pronto
ingegno, amorose donne, spesso parole presti e utili e belle, secondo gli
accidenti, à dicitori, la fortuna ancora, alcuna volta aiutatrice de' paurosi,
sopra la lor lingua subitamente di quelle pone, che mai ad animo riposato per
lo dicitor si sarebber sapute trovare; il che io per la mia novella intendo di
dimostrarvi. Currado Gianfiglia sì come ciascuna di voi e udito e veduto puote
avere, sempre della nostra città è stato nobile cittadino, liberale e
magnifico, e vita cavalleresca tenendo, continuamente in cani e in uccelli s'è
dilettato, le sue opere maggiori al presente lasciando stare. Il quale con un
suo falcone avendo un dì presso a Peretola una gru ammazata, trovandola grassa
e giovane, quella mandò ad un suo buon cuoco, il quale era chiamato Chichibio,
ed era viniziano, e sì gli mandò dicendo che a cena l'arrostisse e governassela
bene.
Chichibio, il quale come
riuovo bergolo era così pareva, acconcia la gru, la mise a fuoco e con
sollicitudine a cuocerla cominciò. La quale essendo già presso che cotta
grandissimo odor venendone, avvenne che una feminetta della contrada, la qual
Brunetta era chiamata e di cui Chichibio era forte innamorato, entrò nella cucina;
e sentendo l'odor della gru e veggendola, pregò caramente Chichibio che ne le
desse una coscia. Chichibio le rispose cantando e disse:
– Voi non l'avrì da mi,
donna Brunetta, voi non l'avrì da mi.
Di che donna Brunetta
essendo un poco turbata, gli disse:
– In fè di Dio, se tu
non la mi dai, tu non avrai mai da me cosa che ti piaccia –; e in brieve le
parole furon molte.
Alla fine Chichibio, per
non crucciar la sua donna, spiccata l'una delle cosce alla gru, gliele diede.
Essendo poi davanti a Currado e ad alcun suo forestiere messa la gru senza
coscia, e Currado maravigliandosene, fece chiamare Chichibio e domandollo che
fosse divenuta l'altra coscia della gru. Al quale il vinizian bugiardo
subitamente rispose:
– Signor mio, le gru non
hanno se non una coscia e una gamba.
Currado allora turbato
disse:
– Come diavol non hanno
che una coscia e una gamba? Non vid'io mai più gru che questa?
Chichibio seguitò:
– Egli è, messer, com'io
vi dico; e quando vi piaccia, io il vi farò veder né vivi.
Currado, per amor dei
forestieri che seco aveva, non volle dietro alle parole andare, ma disse:
– Poi che tu dì di
farmelo vedere né vivi, cosa che io mai più non vidi né udii dir che fosse, e
io il voglio veder domattina e sarò contento; ma io ti giuro in sul corpo di
Cristo, che, se altramenti sarà, che io ti farò conciare in maniera che tu con
tuo danno ti ricorderai, sempre che tu ci viverai, del nome mio.
Finite adunque per
quella sera le parole, la mattina seguente come il giorno apparve, Currado, a
cui non era per lo dormire l'ira cessata, tutto ancor gonfiato si levò e
comandò che i cavalli gli fosser menati; e fatto montar Chichibio sopra un
ronzino, verso una fiumana, alla riva della quale sempre soleva in sul far del
dì vedersi delle gru, nel menò dicendo:
– Tosto vedremo chi avrà
iersera mentito, o tu o io.
Chichibio, veggendo che
ancora durava l'ira di Currado e che far gli convenia pruova della sua bugia,
non sappiendo come poterlasi fare, cavalcava appresso a Currado con la maggior
paura del mondo, e volentieri, se potuto avesse, si sarebbe fuggito; ma non
potendo, ora innanzi e ora addietro e da lato si riguardava, e ciò che vedeva
credeva che gru fossero che stessero in due piedi.
Ma già vicini al fiume
pervenuti, gli venner prima che ad alcun vedute sopra la riva di quello ben
dodici gru, le quali tutte in un piè dimoravano, si come quando dormono soglion
fare. Per che egli prestamente mostratele a Currado, disse:
– Assai bene potete,
messer, vedere che iersera vi dissi il vero, che le gru non hanno se non una
coscia e un piè, se voi riguardate a quelle che colà stanno.
Currado vedendole disse:
– Aspettati, che io ti
mosterrò che elle n'hanno due –; e fattosi alquanto più a quelle vicino gridò:
– Ho ho –; per lo qual grido le gru, mandato l'altro piè giù, tutte dopo
alquanti passi cominciarono a fuggire. Laonde Currado rivolto a Chichibio
disse:
– Che ti par, ghiottone?
Parti ch'elle n'abbian due? Chichibio quasi sbigottito, non sappiendo egli
stesso donde si venisse, rispose:
– Messer sì, ma voi non
gridaste «ho ho» a quella di iersera; ché se così gridato aveste, ella avrebbe
così l'altra coscia e l'altro piè fuor mandata, come hanno fatto queste.
A Currado piacque tanto
questa risposta, che tutta la sua ira si convertì in festa e riso, e disse:
– Chichibio, tu hai
ragione, ben lo dovea fare.
Così adunque con la sua
pronta e sollazzevol risposta Chichibio cessò la mala ventura e paceficossi col
suo signore.
NOVELLA QUINTA
Messer Forese da Rabatta
e maestro Giotto dipintore, venendo di Mugello, l'uno la sparuta apparenza
dell'altro motteggiando morde.
Come Neifile tacque,
avendo molto le donne preso di piacere della risposta di Chichibio, così
Panfilo per voler della reina disse.
Carissime donne, egli
avviene spesso che, sì come la Fortuna sotto vili arti alcuna volta grandissimi
tesori di virtù nasconde, come poco avanti per Pampinea fu mostrato, così
ancora sotto turpissime forme d'uomini si truovano maravigliosi ingegni dalla
Natura essere stati riposti.
La qual cosa assai
apparve in due nostri cittadini, de' quali io intendo brievemente di
ragionarvi. Per ciò che l'uno, il quale messer Forese da Rabatta fu chiamato,
essendo di persona piccolo e sformato, con viso piatto e ricagnato, che a
qualunque de' Baronci più trasformato l'ebbe sarebbe stato sozzo, fu di tanto
sentimento nelle leggi, che da molti valenti uomini uno armario di ragione
civile fu reputato. E l'altro, il cui nome fu Giotto, ebbe uno ingegno di tanta
eccellenzia, che niuna cosa dà la Natura, madre di tutte le cose e operatrice
col continuo girar de' cieli, che egli con lo stile e con la penna o col
pennello non dipignesse sì simile a quella, che non simile, anzi più tosto
dessa paresse, in tanto che molte volte nelle cose da lui fatte si truova che
il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo esser vero che
era dipinto.
E per ciò, avendo egli
quella arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d'alcuni, che
più a dilettar gli occhi degl'ignoranti che a compiacere allo 'ntelletto de'
savi dipignendo intendeano, era stata sepulta, meri tamente una delle luci
della fiorentina gloria dir si puote; e tanto più, quanto con maggiore umiltà,
maestro degli altri in ciò vivendo, quella acquistò, sempre rifiutando d'esser
chiamato maestro. Il quale titolo rifiutato da lui tanto più in lui
risplendeva, quanto con maggior disidero da quegli che men sapevano di lui o dà
suoi discepoli era cupidamente usurpato. Ma, quantunque la sua arte fosse
grandissima, non era egli per ciò né di persona né d'aspetto in niuna cosa più
bello che fosse messer Forese. Ma, alla novella venendo, dico che avevano in
Mugello messer Forese e Giotto lor possessioni; ed essendo messer Forese le sue
andate a vedere, in quegli tempi di state che le ferie si celebran per le
corti, e per avventura in su un cattivo ronzino da vettura venendosene, trovò
il già detto Giotto, il qual similmente avendo le sue vedute, se ne tornava a
Firenze. Il quale, né in cavallo né in arnese essendo in cosa alcuna meglio di
lui, sì come vecchi, a pian passo venendosene, insieme s'accompagnarono.
Avvenne, come spesso di state veggiamo avvenire, che una subita piova gli
soprapprese; la quale essi, come più tosto poterono, fuggirono in casa d'un
lavoratore amico e conoscente di ciascuno di loro. Ma dopo alquanto, non
faccendo l'acqua alcuna vista di dover ristare, e costoro volendo essere il dì
a Firenze, presi dal lavoratore in prestanza due mantellacci vecchi di
romagnuolo e due cappelli tutti rosi dalla vecchiezza, per ciò che migliori non
v'erano, cominciarono a camminare. Ora, essendo essi alquanto andati, e tutti
molli veggendosi, e per gli schizzi che i ronzini fanno co' piedi in quantità
zaccherosi (le quali cose non sogliono altrui accrescer punto d'orrevolezza),
rischiarandosi alquanto il tempo, essi, che lungamente erano venuti taciti,
cominciarono a ragionare.
E messer Forese,
cavalcando e ascoltando Giotto, il quale bellissimo favellatore era, cominciò a
considerarlo e da lato e da capo e per tutto, e veggendo ogni cosa così
disorrevole e così disparuto, senza avere a sé niuna considerazione, cominciò a
ridere, e disse:
– Giotto, a che ora
venendo di qua allo 'ncontro di noi un forestiere che mai veduto non t'avesse,
credi tu che egli credesse che tu fossi il miglior dipintor del mondo, come tu
se'?
A cui Giotto prestamente
rispose:
– Messere, credo, che
egli il crederebbe allora che, guardando voi, egli crederebbe che voi sapeste
l'abicì.
Il che messer Forese
udendo, il suo error riconobbe, e videsi di tal moneta pagato, quali erano
state le derrate vendute.
NOVELLA SESTA
Pruova Michele Scalza a
certi giovani come i Baronci sono i più gentili uomini del mondo o di maremma,
e vince una cena.
Ridevano ancora le donne
della bella e presta risposta di Giotto, quando la reina impose il seguitare
alla Fiammetta, la qual così 'ncominciò a parlare.
Giovani donne, l'essere
stati ricordati i Baronci da Panfilo, li quali per avventura voi non conoscete
come fa egli, m'ha nella memoria tornata una novella, nella quale quanta sia la
lor nobiltà si dimostra, senza dal nostro proposito deviare; e per ciò mi piace
di raccontarla. Egli non è ancora guari di tempo passato che nella nostra città
era un giovane chiamato Michele Scalza, il quale era il più piacevole e il più
sollazzevole uom del mondo, e le più nuove novelle aveva per le mani; per la
qual cosa i giovani fiorentini avevan molto caro, quando in brigata si
trovavano, di poter aver lui.
Ora avvenne un giorno
che, essendo egli con alquanti a Montughi, si 'ncominciò tra loro una quistion
così fatta: quali fossero li più gentili uomini di Firenze e i più antichi.
De'quali alcuni dicevano
gli Uberti, e altri i Lamberti, e chi uno e chi un altro, secondo che
nell'animo gli capea. Li quali udendo lo Scalza, cominciò a ghignare, e disse:
– Andate via, andate,
goccioloni che voi siete, voi non sapete ciò che voi vi dite; i più gentili
uomini e i più antichi, non che di Firenze, ma di tutto il mondo o di maremma,
sono i Baronci; e a questo s'accordano tutti i fisofoli e ogn'uom che gli
conosce, come fo io; e acciò che voi non intendeste d'altri, io dico de'
Baronci vostri vicini da Santa Maria Maggiore.
Quando i giovani, che
aspettavano che egli dovesse dire altro, udiron questo, tutti si fecero beffe
di lui, e dissero:
– Tu ci uccelli, quasi
come se noi non cognoscessimo i Baronci come facci tu.
Disse lo Scalza:
– Alle guagnele non fo,
anzi mi dico il vero, e se egli ce n'è niuno che voglia metter su una cena a
doverla dare a chi vince con sei compagni quali più gli piaceranno, io la
metterò volentieri; e ancora vi farò più, che io ne starò alla sentenzia di
chiunque voi vorrete.
Tra'quali disse uno, che
si chiamava Neri Mannini: – Io sono acconcio a voler vincer questa cena –; e
accordatisi insieme d'aver per giudice Piero di Fiorentino, in casa cui erano,
e andatisene a lui, e tutti gli altri appresso, per vedere perdere lo Scalza e
dargli noia, ogni cosa detta gli raccontarono.
Piero, che discreto
giovane era, udita primieramente la ragione di Neri, poi allo Scalza rivolto,
disse:
– E tu come potrai
mostrare questo che tu affermi?
Disse lo Scalza:
– Che? Il mosterrò per
sì fatta ragione, che non che tu, ma costui che il nega, dirà che io dica il
vero. Voi sapete che, quanto gli uomini sono più antichi, più son gentili, e
così si diceva pur testé tra costoro; e i Baronci son più antichi che niuno
altro uomo, sì che son più gentili; e come essi sien più antichi mostrandovi,
senza dubbio io avrò vinta la quistione.
Voi dovete sapere che i
Baronci furon fatti da Domenedio al tempo che egli avea cominciato d'apparare a
dipignere; ma gli altri uomini furon fatti poscia che Domenedio seppe
dipignere. E che io dica di questo il vero, ponete mente à Baronci e agli altri
uomini: dove voi tutti gli altri vedrete co' visi ben composti e debitamente
proporzionati, potrete vedere i Baronci qual col viso molto lungo e stretto, e
quale averlo oltre ad ogni conve nevolezza largo, e tal v'è col naso molto
lungo, e tale l'ha corto, e alcuno col mento in fuori e in su rivolto, e con
mascelloni che paiono d'asino; ed evvi tale che ha l'uno occhio più grosso che
l'altro, e ancora chi l'un più giù che l'altro, sì come sogliono esser i visi
che fanno da prima i fanciulli che apparano a disegnare. Per che, come già
dissi, assai bene appare che Domenedio gli fece quando apparava a dipignere; sì
che essi sono più antichi che gli altri, e così più gentili.
Della qual cosa, e Piero
che era il giudice, e Neri che aveva messa la cena, e ciascun altro
ricordandosi, e avendo il piacevole argomento dello Scalza udito, tutti
cominciarono a ridere e affermare che lo Scalza aveva la ragione, e che egli
aveva vinta la cena, e che per certo i Baronci erano i più gentili uomini e i
più antichi che fossero, non che in Firenze, ma nel mondo o in maremma. E
perciò meritamente Panfilo, volendo la turpitudine del viso di messer Forese
mostrare, disse che stato sarebbe sozzo ad un de' Baronci.
NOVELLA SETTIMA
Madonna Filippa dal
marito con un suo amante trovata, chiamata in giudicio, con una pronta e
piacevol risposta sé libera e fa lo statuto modificare.
Già si tacea la
Fiammetta, e ciascun rideva ancora del nuovo argomento dallo Scalza usato a
nobilitare sopra ogn'altro i Baronci, quando la reina ingiunse a Filostrato che
novellasse; ed egli a dir cominciò.
Valorose donne, bella
cosa è in ogni parte saper ben parlare, ma io la reputo bellissima quivi
saperlo fare dove la necessità il richiede. Il che sì ben seppe fare una gentil
donna, della quale intendo di ragionarvi, che non solamente festa e riso porse
agli uditori, ma sé de' lacci di vituperosa morte disviluppò, come voi udirete.
Nella terra di Prato fu già uno statuto, nel vero non men biasimevole che
aspro, il quale, senza niuna distinzion fare, comandava che così fosse arsa
quella donna che dal marito fosse con alcuno suo amante trovata in adulterio,
come quella che per denari con qualunque altro uomo stata trovata fosse.
E durante questo statuto
avvenne che una gentil donna e bella e oltre ad ogn'altra innamorata, il cui
nome fu madonna Filippa, fu trovata nella sua propria camera una notte da
Rinaldo de' Pugliesi suo marito nelle braccia di Lazzarino de' Guazzagliotri,
nobile giovane e bello di quella terra, il quale ella quanto sé medesima amava,
ed era da lui amata. La qual cosa Rinaldo vedendo, turbato forte, appena del
correr loro addosso e di uccidergli si ritenne; e se non fosse che di sé
medesimo dubitava, seguitando l'impeto della sua ira, l'avrebbe fatto. Rattemperatosi
adunque da questo, non si potè temperar da voler quello dello statuto pratese,
che a lui non era licito di fare, cioè la morte della sua donna. E per ciò
avendo al fallo della donna provare assai convenevole testimonianza, come il dì
fu venuto, senza altro consiglio prendere, accusata la donna, la fece
richiedere. La donna, che di gran cuore era, sì come generalmente esser soglion
quelle che innamorate son da dovero, ancora che sconsigliata da molti suoi
amici e parenti ne fosse, del tutto dispose di comparire e di voler più tosto,
la verità confessando, con forte animo morire, che, vilmente fuggendo, per
contumacia in essilio vivere e negarsi degna di così fatto amante come colui
era nelle cui braccia era stata la notte passata. E assai bene accompagnata di
donne e d'uomini, da tutti confortata al negare, davanti al podestà venuta,
domandò con fermo viso e con salda voce quello che egli a lei domandasse. Il
podestà, riguardando costei e veggendola bellissima e di maniere laudevoli
molto, e, secondo che le sue parole testimoniavano, di grande animo, cominciò
di lei ad aver compassione, dubitando non ella confessasse cosa per la quale a
lui convenisse, volendo il suo onor servare, farla morire. Ma pur, non potendo
cessare di domandarla di quello che apposto l'era, le disse:
– Madonna, come voi
vedete, qui è Rinaldo vostro marito, e duolsi di voi, la quale egli dice che ha
con altro uomo trovata in adulterio; e per ciò domanda che io, secondo che uno
statuto che ci è vuole, faccendovi morire di ciò vi punisca; ma ciò far non
posso, se voi nol confessate, e per ciò guardate bene quello che voi
rispondete, e ditemi se vero è quello di che vostro marito v'accusa.
La donna, senza
sbigottire punto, con voce assai piacevole rispose:
– Messere, egli è vero
che Rinaldo è mio marito, e che egli questa notte passata mi trovò nelle
braccia di Lazzarino, nelle quali io sono, per buono e per perfetto amore che
io gli porto, molte volte stata; né questo negherei mai; ma come io son certa
che voi sapete, le leggi deono esser comuni e fatte con consentimento di coloro
a cui toccano. Le quali cose di questa non avvengono, ché essa solamente le
donne tapinelle costrigne, le quali molto meglio che gli uomini potrebbero a
molti sodisfare; e oltre a questo, non che alcuna donna, quando fatta fu, ci
prestasse consentimento, ma niuna ce ne fu mai chiamata; per le quali cose
meritamente malvagia si può chiamare. E se voi volete, in pregiudicio del mio
corpo e della vostra anima, esser di quella esecutore, a voi sta; ma, avanti
che ad alcuna cosa giudicar procediate, vi prego che una piccola grazia mi
facciate, cioè che voi il mio marito domandiate se io ogni volta e quante volte
a lui piaceva, senza dir mai di no, io di me stessa gli concedeva intera copia
o no.
A che Rinaldo, senza
aspettare che il podestà il domandasse, prestamente rispose che senza alcun
dubbio la donna ad ogni sua richiesta gli aveva di sé ogni suo piacer
conceduto.
– Adunque, – seguì
prestamente la donna – domando io voi, messer podestà, se egli ha sempre di me
preso quello che gli è bisognato e piaciuto, io che doveva fare o debbo di quel
che gli avanza? Debbolo io gittare ai cani? Non è egli molto meglio servirne un
gentile uomo che più che sé m'ama, che lasciarlo perdere o guastare? Eran quivi
a così fatta essaminazione, e di tanta e sì famosa donna, quasi tutti i pratesi
concorsi, li quali, udendo così piacevol risposta, subitamente, dopo molte
risa, quasi ad una voce tutti gridarono la donna aver ragione e dir bene; e
prima che di quivi si partissono, a ciò confortandogli il podestà, modificarono
il crudele statuto e lasciarono che egli s'intendesse solamente per quelle
donne le quali per denari a' lor mariti facesser fallo. Per la qual cosa
Rinaldo, rimaso di così matta impresa confuso, si partì dal giudicio; e la
donna lieta e libera, quasi dal fuoco risuscitata, alla sua casa se ne tornò
gloriosa.
NOVELLA OTTAVA
Fresco conforta la
nepote che non si specchi, se gli spiacevoli, come diceva, l'erano a veder
noiosi.
La novella da Filostrato
raccontata prima con un poco di vergogna punse li cuori delle donne ascoltanti,
e con onesto rossore né lor visi apparito ne dieder segno; e poi, l'una l'altra
guardando, appena del ridere potendosi astenere, sogghignando quella ascoltarono.
Ma poi che esso alla fine ne fu venuto, la reina, ad Emilia voltatasi, che ella
seguitasse le 'mpose. La quale, non altrimenti che se da dormir si levasse,
soffiando incominciò. Vaghe giovani, per ciò che un lungo pensiero molto di qui
m'ha tenuta gran pezza lontana, per ubbidire alla nostra reina, forse con molto
minor novella, che fatto non avrei se qui l'animo avessi avuto, mi passerò, lo
sciocco error d'una giovane raccontandovi, con un piacevol motto corretto da un
suo zio, se ella da tanto stata fosse che inteso l'avesse.
Uno adunque, che si
chiamò Fresco da Celatico, aveva una sua nepote chiamata per vezzi Cesca, la
quale, ancora che bella persona avesse e viso (non però di quegli angelici che
già molte volte vedemo), sé da tanto e sì nobile reputava, che per costume
aveva preso di biasimare e uomini e donne e ciascuna cosa che ella vedeva,
senza avere alcun riguardo a sé medesima, la quale era tanto più spiacevole,
sazievole e stizzosa che alcuna altra, che a sua guisa niuna cosa si poteva
fare; e tanto, oltre a tutto questo, era altiera, che se stata fosse de' reali
di Francia sarebbe stato soperchio. E quando ella andava per via sì forte le
veniva del cencio, che altro che torcere il muso non faceva, quasi puzzo le
venisse di chiunque vedesse o scontrasse.
Ora, lasciando stare
molti altri suoi modi spiacevoli e rincrescevoli, avvenne un giorno che,
essendosi ella in casa tornata là dove Fresco era, e tutta piena di smancerie
postaglisi presso a sedere, altro non faceva che soffiare; laonde Fresco
domandando le disse:
– Cesca, che vuol dir
questo che, essendo oggi festa, tu te ne sé così tosto tornata in casa?
Al quale ella tutta
cascante di vezzi rispose:
– Egli è il vero che io
me ne sono venuta tosto, per ciò che io non credo che mai in questa terra
fossero e uomini e femine tanto spiacevoli e rincrescevoli quanto sono oggi, e
non ne passa per via uno che non mi spiaccia come la mala ventura; e io non
credo che sia al mondo femina a cui più sia noioso il vedere gli spiacevoli che
è a me, e per non vedergli così tosto me ne son venuta.
Alla qual Fresco, a cui
li modi fecciosi della nepote dispiacevan fieramente, disse:
– Figliuola, se così ti
dispiaccion gli spiacevoli, come tu dì, se tu vuoi viver lieta, non ti
specchiare giammai. Ma ella, più che una canna vana e a cui di senno pareva
pareggiar Salamone, non altramenti che un montone avrebbe fatto, intese il vero
motto di Fresco; anzi disse che ella si voleva specchiar come l'altre. E così
nella sua grossezza si rimase e ancor vi si sta.
NOVELLA NONA
Guido Cavalcanti dice
con un motto onestamente villania a certi cavalier fiorentini li quali
soprappresso l'aveano.
Sentendo la reina che
Emilia della sua novella s'era diliberata e che ad altri non restava a dir che
a lei, se non a colui che per privilegio aveva il dir da sezzo, così a dir
cominciò.
Quantunque, leggiadre
donne, oggi mi sieno da voi state tolte da due in su delle novelle delle quali
io m'avea pensato di doverne una dire, nondimeno me n'è pure una rimasa da
raccontare, nella conclusione della quale si contiene un sì fatto motto, che
forse non ci se n'è alcuno di tanto sentimento contato.
Dovete adunque sapere
che né tempi passati furono nella nostra città assai belle e laudevoli usanze,
delle quali oggi niuna ve n'è rimasa, mercé dell'avarizia che in quella con le
ricchezze è cresciuta, la quale tutte l'ha discacciate. Tra le quali n'era una
cotale, che in diversi luoghi per Firenze si ragunavano insieme i gentili
uomini delle contrade e facevano lor brigate di certo numero, guardando di
mettervi tali che comportar potessono acconciamente le spese, e oggi l'uno,
doman l'altro, e così per ordine tutti mettevan tavola, ciascuno il suo dì, a
tutta la brigata; e in quella spesse volte onoravano e gentili uomini
forestieri, quando ve ne capitavano, e ancora de' cittadini; e similmente si
vestivano insieme almeno una volta l'anno, e insieme i dì più notabili cavalcavano
per la città, e talora armeggiavano, e massimamente per le feste principali o
quando alcuna lieta novella di vittoria o d'altro fosse venuta nella città.
Tra le quali brigate
n'era una di messer Betto Brunelleschi, nella quale messer Betto è compagni
s'eran molto ingegnati di tirare Guido di messer Cavalcante de' Cavalcanti, e
non senza cagione; per ciò che, oltre a quello che egli fu un de' migliori
loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale (delle quali cose poco la
brigata curava, sì fu egli leggiadrissimo e costumato e parlante uomo molto, e
ogni cosa che far volle e a gentile uom pertenente, seppe meglio che altro uom
fare; e con questo era ricchissimo, e a chiedere a lingua sapeva onorare cui
nell'animo gli capeva che il valesse. Ma a messer Betto non era mai potuto
venir fatto d'averlo, e credeva egli co' suoi compagni che ciò avvenisse per
ciò che Guido alcuna volta speculando molto astratto dagli uomini diveniva. E
per ciò che egli alquanto tenea della oppinione degli epicuri, si diceva tra la
gente volgare che queste sue speculazioni eran solo in cercare se trovar si
potesse che Iddio non fosse. Ora avvenne un giorno che, essendo Guido partito
d'Orto San Michele e venutosene per lo corso degli Adimari infino a San
Giovanni, il quale spesse volte era suo cammino, essendo quelle arche grandi di
marmo, che oggi sono in Santa Reparata, e molte altre dintorno a San Giovanni,
ed egli essendo tra le colonne del porfido che vi sono e quelle arche e la
porta di San Giovanni, che serrata era, messer Betto con sua brigata a caval
venendo su per la piazza di Santa Reparata, veggendo Guido là tra quelle
sepolture, dissero: – Andiamo a dargli briga –; e spronati i cavalli a guisa
d'uno assalto sollazzevole gli furono, quasi prima che egli se ne avvedesse,
sopra, e cominciarongli a dire:
– Guido tu rifiuti
d'esser di nostra brigata; ma ecco, quando tu arai trovato che Iddio non sia,
che avrai fatto?
A'quali Guido, da lor
veggendosi chiuso, prestamente disse:
– Signori, voi mi potete
dire a casa vostra ciò che vi piace –; e posta la mano sopra una di quelle
arche, che grandi erano, sì come colui che leggerissimo era, prese un salto e
fussi gittato dall'altra parte, e sviluppatosi da loro se n'andò.
Costoro rimaser tutti
guatando l'un l'altro, e cominciarono a dire che egli era uno smemorato e che
quello che egli aveva risposto non veniva a dir nulla, con ciò fosse cosa che
quivi dove erano non avevano essi a far più che tutti gli altri cittadini, né
Guido meno che alcun di loro.
Alli quali messer Betto
rivolto disse:
– Gli smemorati siete
voi, se voi non l'avete inteso. Egli ci ha detta onestamente in poche parole la
maggior villania del mondo; per ciò che, se voi riguardate bene, queste arche
sono le case de' morti, per ciò che in esse si pongono e dimorano i morti; le
quali egli dice che sono nostra casa, a dimostrarci che noi e gli altri uomini
idioti e non litterati siamo, a comparazion di lui e degli altri uomini
scienziati, peggio che uomini morti, e per ciò, qui essendo, noi siamo a casa nostra.
Allora ciascuno intese
quello che Guido aveva voluto dire e vergognossi né mai più gli diedero briga,
e tennero per innanzi messer Betto sottile e intendente cavaliere.
NOVELLA DECIMA
Frate Cipolla promette a
certi contadini di mostrar loro la penna dell'agnolo Gabriello; in luogo della
quale trovando carboni, quegli dice esser di quegli che arrostirono san
Lorenzo.
Essendo ciascuno della
brigata della sua novella riuscito, conobbe Dioneo che a lui toccava il dover
dire; per la qual cosa, senza troppo solenne comandamento aspettare, imposto
silenzio a quegli che il sentito motto di Guido lodavano, incominciò:
Vezzose donne,
quantunque io abbia per privilegio di poter di quel che più mi piace parlare,
oggi io non intendo di volere da quella materia separarmi della qual voi tutte
avete assai acconciamente parlato; ma, seguitando le vostre pedate, intendo di
mostrarvi quanto cautamente con subito riparo uno de' frati di santo Antonio
fuggisse uno scorno che da due giovani apparecchiato gli era. Né vi dovrà esser
grave perché io, per ben dir la novella compiuta, alquanto in parlar mi
distenda, se al sol guarderete il qual è ancora a mezzo il cielo. Certaldo,
come voi forse avete potuto udire, è un castel di Val d'Elsa posto nel nostro
contado, il quale, quantunque piccol sia, già di nobili uomini e d'agiati fu
abitato; nel quale, per ciò che buona pastura vi trovava, usò un lungo tempo
d'andare ogni anno una volta a ricoglier le limosine fatte loro dagli sciocchi
un de' frati di santo Antonio, il cui nome era frate Cipolla, forse non meno
per lo nome che per altra divozione vedutovi volontieri, con ciò sia cosa che
quel terreno produca cipolle famose per tutta Toscana.
Era questo frate Cipolla
di persona piccolo, di pelo rosso e lieto nel viso e il miglior brigante del
mondo: e oltre a questo, niuna scienzia avendo, sì ottimo parlatore e pronto
era, che chi conosciuto non l'avesse, non sola mente un gran rettorico
l'avrebbe stimato, ma avrebbe detto esser Tulio medesimo o forse Quintiliano: e
quasi di tutti quegli della contrada era compare o amico o benivogliente. Il
quale, secondo la sua usanza, del mese d'agosto tra l'altre v'andò una volta, e
una domenica mattina, essendo tutti i buoni uomini e le femine delle ville da
torno venuti alla messa nella calonica, quando tempo gli parve, fattosi innanzi
disse:
– Signori e donne, come
voi sapete, vostra usanza è di mandare ogni anno à poveri del baron messer
santo Antonio del vostro grano e delle vostre biade, chi poco e chi assai,
secondo il podere e la divozion sua, acciò ché il beato santo Antonio vi sia
guardia de' buoi e degli asini e de' porci e delle pecore vostre; e oltre a ciò
solete pagare, e spezialmente quegli che alla nostra compagnia scritti sono,
quel poco debito che ogni anno si paga una volta. Alle quali cose ricogliere io
sono dal mio maggiore, cioè da messer l'abate, stato mandato, e per ciò, con la
benedizion di Dio, dopo nona, quando udirete sonare le campanelle, verrete qui
di fuori della chiesa là dove io al modo usato vi farò la predicazione, e
bacerete la croce; e oltre a ciò, per ciò che divotissimi tutti vi conosco del
barone messer santo Antonio, di spezial grazia vi mostrerò una santissima e
bella reliquia, la quale io medesimo già recai dalle sante terre d'oltremare: e
questa è una delle penne dell'agnol Gabriello, la quale nella camera della
Vergine Maria rimase quando egli la venne ad annunziare in Nazaret.
E questo detto, si
tacque e ritornossi alla messa. Erano, quando frate Cipolla queste cose diceva,
tra gli altri molti nella chiesa due giovani astuti molto, chiamato l'uno
Giovanni del Bragoniera e l'altro Biagio Pizzini li quali, poi che alquanto tra
sé ebbero riso della reliquia di frate Cipolla, ancora che molto fossero suoi
amici e di sua brigata, seco proposero di fargli di questa penna alcuna beffa.
E avendo saputo che frate Cipolla la mattina desinava nel castello con un suo
amico, come a tavola il sentirono così se ne scesero alla strada e all'albergo
dove il frate era smontato se n'andarono con questo proponimento: che Biagio
dovesse tenere a parole il fante di frate Cipolla e Giovanni dovesse tralle
cose del frate cercare di questa penna, chente che ella si fosse, e torgliele,
per vedere come egli di questo fatto poi dovesse al popol dire.
Aveva frate Cipolla un
suo fante, il quale alcuni chiamavano Guccio Balena e altri Guccio Imbratta, e
chi gli diceva Guccio Porco: il quale era tanto cattivo, che egli non è vero
che mai Lippo Topo ne facesse alcun cotanto. Di cui spesse volte frate Cipolla
era usato di motteggiare con la sua brigata e di dire:
– Il fante mio ha in sé
nove cose tali che, se qualunque è l'una di quelle fosse in Salamone o in
Aristotile o in Seneca, avrebbe forza di guastare ogni lor vertù, ogni lor senno,
ogni lor santità. Pensate adunque che uom dee essere egli, nel quale né vertù
né senno né santità alcuna è, avendone nove.
Ed, essendo alcuna volta
domandato quali fossero queste nove cose, ed egli, avendole in rima messe,
rispondeva:
– Dirolvi: egli è tardo,
sugliardo e bugiardo; negligente, disubidente e maldicente; trascutato,
smemorato e scostumato; senza che egli ha alcune altre taccherelle con queste,
che si taccion per lo migliore. E quel che sommamente è da rider de' fatti suoi
è che egli in ogni luogo vuol pigliar moglie e tor casa a pigione; e avendo la
barba grande e nera e unta, gli par sì forte esser bello e piacevole, che egli
s'avisa che quante femine il veggano tutte di lui s'innamorino, ed essendo
lasciato, a tutte andrebbe dietro perdendo la coreggia. È il vero che egli m'è
d'un grande aiuto, per ciò che mai niun non mi vuol sì segreto parlare, che
egli non voglia la sua parte udire; e se avviene che io d'alcuna cosa sia
domandato, ha sì gran paura che io non sappia rispondere, che prestamente
risponde egli e sì e no, come giudica si convenga. A costui, lasciandolo
all'albergo, aveva frate Cipolla comandato che ben guardasse che alcuna persona
non toccasse le cose sue, e spezialmente le sue bisacce, per ciò che in quelle
erano le cose sacre.
Ma Guccio Imbratta, il
quale era più vago di stare in cucina che sopra i verdi rami l'usignolo, e
massimamente se fante vi sentiva niuna, avendone in quella dell'oste una
veduta, grassa e grossa e piccola e mal fatta, con un paio di poppe che parean
due ceston da letame e con un viso che parea de' Baronci, tutta sudata, unta e
affumicata, non altramenti che si gitti l'avoltoio alla carogna, lasciata la
camera di frate Cipolla aperta e tutte le sue cose in abbandono, là si calò. E
ancora che d'agosto fosse, postosi presso al fuoco a sedere, cominciò con
costei, che Nuta aveva nome, a entrare in parole e dirle che egli era gentile
uomo per procuratore e che egli aveva de' fiorini più di millantanove, senza
quegli che egli aveva a dare altrui, che erano anzi più che meno, e che egli
sapeva tante cose fare e dire, che domine pure unquanche. E senza riguardare a
un suo cappuccio sopra il quale era tanto untume, che avrebbe condito il
calderon d'Altopascio, e a un suo farsetto rotto e ripezzato e intorno al collo
e sotto le ditella smaltato di sucidume, con più macchie e di più colori che
mai drappi fossero tartereschi o indiani, e alle sue scarpette tutte rotte e
alle calze sdrucite, le disse, quasi stato fosse il siri di Castiglione, che
rivestir la voleva e rimetterla in arnese, e trarla di quella cattività di star
con altrui e senza gran possession d'avere ridurla in isperanza di miglior
fortuna e altre cose assai; le quali quantunque molto affettuosamente le
dicesse, tutte in vento convertite, come le più delle sue imprese facevano,
tornarono in niente.
Trovarono adunque i due
giovani Guccio Porco intorno alla Nuta occupato; della qual cosa contenti, per
ciò che mezza la lor fatica era cessata, non contradicendolo alcuno nella
camera di frate Cipolla, la quale aperta trovarono, entrati, la prima cosa che
venne lor presa per cercare fu la bisaccia nella quale era la penna; la quale
aperta, trovarono in un gran viluppo di zendado fasciata una piccola
cassettina; la quale aperta, trovarono in essa una penna di quelle della coda
d'un pappagallo, la quale avvisarono dovere esser quella che egli promessa avea
di mostrare a' certaldesi.
E certo egli il poteva a
quei tempi leggiermente far credere, per ciò che ancora non erano le morbidezze
d'Egitto, se non in piccola quantità, trapassate in Toscana, come poi in
grandissima copia con disfacimento di tutta Italia son trapassate: e dove che
elle poco conosciute fossero, in quella contrada quasi in niente erano da gli
abitanti sapute; anzi, durandovi ancora la rozza onestà degli antichi, non che
veduti avessero pappagalli ma di gran lunga la maggior parte mai uditi non gli
avean ricordare.
Contenti adunque i
giovani d'aver la penna trovata, quella tolsero e, per non lasciare la cassetta
vota, vedendo carboni in un canto della camera, di quegli la cassetta
empierono; e richiusala e ogni cosa racconcia come trovata avevano, senza
essere stati veduti, lieti se ne vennero con la penna e cominciarono a
aspettare quello che frate Cipolla, in luogo della penna trovando carboni,
dovesse dire.
Gli uomini e le femine
semplici che nella chiesa erano, udendo che veder dovevano la penna dell'agnol
Gabriello dopo nona, detta la messa, si tornarono a casa; e dettolo l'un vicino
all'altro e l'una comare all'altra, come desinato ebbero ogni uomo, tanti
uomini e tante femine concorsono nel castello, che appena vi capeano, con
desiderio aspettando di veder questa penna.
Frate Cipolla, avendo
ben desinato e poi alquanto dormito, un poco dopo nona levatosi e sentendo la
moltitudine grande esser venuta di contadini per dovere la penna vedere, mandò
a Guccio Imbratta che lassù con le campanelle venisse e recasse le sua bisacce.
Il quale, poi che con fatica dalla cucina e dalla Nuta si fu divelto, con le
cose addimandate con fatica lassù n'andò: dove ansando giunto, per ciò che il
ber dell'acqua gli avea molto fatto crescere il corpo, per comandamento di
frate Cipolla andatone in su la porta della chiesa, forte incominciò le
campanelle a sonare.
Dove, poi che tutto il
popolo fu ragunato, frate Cipolla, senza essersi avveduto che niuna sua cosa
fosse stata mossa, cominciò la sua predica, e in acconcio de' fatti suoi disse
molte parole; e dovendo venire al mostrar della penna dell'agnolo Gabriello, fatta
prima con grande solennità la confessione, fece accender due torchi, e
soavemente sviluppando il zendado, avendosi prima tratto il cappuccio, fuori la
cassetta ne trasse. E dette primieramente alcune parolette a laude e a
commendazione dell'agnolo Gabriello e della sua reliquia, la cassetta aperse.
La quale come piena di carboni vide, non sospicò che ciò che Guccio Balena gli
avesse fatto, per ciò che nol conosceva da tanto, né il maladisse del male aver
guardato che altri ciò non facesse, ma bestemmiò tacitamente sé, che a lui la
guardia delle sue cose aveva commessa, conoscendol, come faceva, negligente,
disubidente, trascurato e smemorato. Ma non per tanto, senza mutar colore,
alzato il viso e le mani al cielo, disse sì che da tutti fu udito:
– O Iddio, lodata sia
sempre la tua potenzia!
Poi richiusa la cassetta
e al popolo rivolto disse:
– Signori e donne, voi
dovete sapere che, essendo io ancora molto giovane, io fui mandato dal mio
superiore in quelle parti dove apparisce il sole, e fummi commesso con espresso
comandamento che io cercassi tanto che io trovassi i privilegi del Porcellana,
li quali, ancora che a bollar niente costassero, molto più utili sono a altrui
che a noi.
Per la qual cosa
messom'io cammino, di Vinegia partendomi e andandomene per lo Borgo de' Greci e
di quindi per lo reame del Garbo cavalcando e per Baldacca, pervenni in
Parione, donde, non senza sete, dopo alquanto per venni in Sardigna. Ma perché
vi vo io tutti i paesi cerchi da me divisando? Io capitai, passato il braccio
di San Giorgio, in Truffia e in Buffia, paesi molto abitati e con gran popoli;
e di quindi pervenni in terra di Menzogna, dove molti de' nostri frati e
d'altre religioni trovai assai, li quali tutti il disagio andavan per l'amor di
Dio schifando, poco dell'altrui fatiche curandosi, dove la loro utilità
vedessero seguitare, nulla altra moneta spendendo che senza conio per quei
paesi: e quindi passai in terra d'Abruzzi, dove gli uomini e le femine vanno in
zoccoli su pe' monti, rivestendo i porci delle lor busecchie medesime; e poco
più là trovai gente che portano il pan nelle mazze e 'l vin nelle sacca: da'
quali alle montagne de' bachi pervenni, dove tutte le acque corrono alla 'ngiù.
E in brieve tanto andai
adentro, che io pervenni mei infino in India Pastinaca, là dove io vi giuro,
per l'abito che io porto addosso che io vidi volare i pennati, cosa incredibile
a chi non gli avesse veduti; ma di ciò non mi lasci mentire Maso del Saggio, il
quale gran mercante io trovai là, che schiacciava noci e vendeva gusci a
ritaglio. Ma non potendo quello che io andava cercando trovare, perciò che da
indi in là si va per acqua, indietro tornandomene, arrivai in quelle sante
terre dove l'anno di state vi vale il pan freddo quattro denari, e il caldo v'è
per niente. E quivi trovai il venerabile padre messer Nonmiblasmete Sevoipiace,
degnissimo patriarca di Jerusalem. Il quale, per reverenzia dell'abito che io
ho sempre portato del baron messer santo Antonio, volle che io vedessi tutte le
sante reliquie le quali egli appres so di sé aveva; e furon tante che, se io ve
le volessi tutte contare, io non ne verrei a capo in parecchie miglia, ma pure,
per non lasciarvi sconsolate, ve ne dirò alquante. Egli primieramente mi mostrò
il dito dello Spirito Santo così intero e saldo come fu mai, e il ciuffetto del
serafino che apparve a san Francesco, e una dell'unghie de' Gherubini, e una
delle coste del Verbum caro fatti alle finestre, e de' vestimenti della Santa
Fé catolica, e alquanti de' raggi della stella che apparve à tre Magi in
oriente, e un ampolla del sudore di san Michele quando combatté col diavole, e
la mascella della Morte di san Lazzaro e altre.
E per ciò che io
liberamente gli feci copia delle piagge di Monte Morello in volgare e
d'alquanti capitoli del Caprezio, li quali egli lungamente era andati cercando,
mi fece egli partefice delle sue sante reliquie, e donommi uno de' denti della
santa Croce, e in una ampolletta alquanto del suono delle campane del tempio di
Salomone e la penna dell'agnol Gabriello, della quale già detto v'ho, e l'un
de' zoccoli di san Gherardo da Villamagna (il quale io, non ha molto, a Firenze
donai a Gherardo di Bonsi, il quale in lui ha grandissima divozione) e diedemi
de' carboni, co' quali fu il beatissimo martire san Lorenzo arrostito; le quali
cose io tutte di qua con meco divotamente le recai, e holle tutte.
È il vero che il mio
maggiore non ha mai sofferto che io l'abbia mostrate infino a tanto che
certificato non s'è se desse sono o no; ma ora che per certi miracoli fatti da
esse e per lettere ricevute dal Patriarca fatto n'è certo m'ha conceduta
licenzia che io le mostri; ma io, temendo di fidarle altrui, sempre le porto
meco.
Vera cosa è che io porto
la penna dell'agnol Gabriello, acciò che non si guasti, in una cassetta e i
carboni co' quali fu arrostito san Lorenzo in un'altra; le quali son sì
simiglianti l'una all'altra, che spesse volte mi vien presa l'una per l'altra,
e al presente m'è avvenuto; per ciò che, credendomi io qui avere arrecata la
cassetta dove era la penna, io ho arrecata quella dove sono i carboni. Il quale
io non reputo che stato sia errore, anzi mi pare esser certo che volontà sia
stata di Dio e che Egli stesso la cassetta de' carboni ponesse nelle mie mani,
ricordandom'io pur testé che la festa di san Lorenzo sia di qui a due dì. E per
ciò, volendo Iddio che io, col mostrarvi i carboni co' quali esso fu arrostito,
raccenda nelle vostre anime la divozione che in lui aver dovete, non la penna
che io voleva, ma i benedetti carboni spenti dall'omor di quel santissimo corpo
mi fe' pigliare. E per ciò, figliuoli benedetti, trarretevi i cappucci e qua
divotamente v'appresserete a vedergli.
Ma prima voglio che voi
sappiate che chiunque da questi carboni in segno di croce è tocco, tutto quello
anno può viver sicuro che fuoco nol cocerà che non si senta. E poi che così
detto ebbe, cantando una laude di san Lorenzo, aperse la cassetta e mostrò i
carboni; li quali poi che alquanto la stolta moltitudine ebbe con ammirazione
reverentemente guardati, con grandissima calca tutti s'appressarono a frate
Cipolla e, migliori offerte dando che usati non erano, che con essi gli dovesse
toccare il pregava ciascuno.
Per la qual cosa frate
Cipolla, recatisi questi carboni in mano, sopra li lor camisciotti bianchi e
sopra i farsetti e sopra li veli delle donne cominciò a fare le maggior croci
che vi capevano, affermando che tanto quanto essi scemavano a far quelle croci,
poi ricrescevano nella cassetta, sì come egli molte volte aveva provato.
E in cotal guisa, non
senza sua grandissima utilità avendo tutti crociati i certaldesi, per presto
accorgimento fece coloro rimanere scherniti, che lui, togliendogli la penna,
avevan creduto schernire. Li quali stati alla sua predica e avendo udito il
nuovo riparo preso da lui e quanto da lungi fatto si fosse e con che parole,
avevan tanto riso che eran creduti smascellare. E poi che partito si fu il
vulgo, a lui andatisene, con la maggior festa del mondo ciò che fatto avevan
gli discoprirono, e appresso gli renderono la sua penna; la quale l'anno
seguente gli valse non meno che quel giorno gli fosser valuti i carboni.
CONCLUSIONE
Questa novella porse
igualmente a tutta la brigata grandissimo piacere e sollazzo, e molto per tutti
fu riso di fra Cipolla e massimamente del suo pellegrinaggio e delle reliquie
così da lui vedute come recate. La quale la reina sentendo esser finita, e
similmente la sua signoria, levata in piè, la corona si trasse e ridendo la
mise in capo a Dioneo, e disse:
– Tempo è, Dioneo, che
tu alquanto pruovi che carico sia l'aver donne a reggere e a guidare; sii
dunque re, e sì fattamente ne reggi, che del tuo reggimento nella fine ci
abbiamo a lodare.
Dioneo, presa la corona,
ridendo rispose:
– Assai volte già ne
potete aver veduti, io dico delli re da scacchi, troppo più cari che io non
sono; e per certo, se voi m'ubbidiste come vero re si dee ubbidire, io vi farei
goder di quello senza il che per certo niuna festa compiutamente è lieta. Ma
lasciamo star queste parole: io reggerò come io saprò.
E fattosi, secondo il
costume usato, venire il siniscalco, ciò che a fare avesse quanto durasse la
sua signoria ordinatamente gl'impose, e appresso disse:
– Valorose donne, in
diverse maniere ci s'è della umana industria e de' casi vari ragionato, tanto
che, se donna Licisca non fosse poco avanti qui venuta, la quale con le sue
parole m'ha trovata materia à futuri ragionamenti di domane, io dubito che io
non avessi gran pezza penato a trovar tema da ragionare. Ella, come voi udiste,
disse che vicina non avea che pulcella ne fosse andata a marito; e soggiunse
che ben sapeva quante e quali beffe le maritate ancora facessero à mariti. Ma,
lasciando stare la prima parte, che è opera fanciullesca, reputo che la seconda
debbia essere piacevole a ragionarne; e per ciò voglio che domane si dica, poi
che donna Licisca data ce n'ha cagione, delle beffe, le quali, o per amore o
per salvamento di loro, le donne hanno già fatte à lor mariti, senza essersene
essi avveduti o sì.
Il ragionare di sì fatta
materia pareva ad alcuna delle donne che male a loro si convenisse, e
pregavanlo che mutasse la proposta già detta.
Alle quali il re
rispose:
– Donne, io conosco ciò
che io ho imposto non meno che facciate voi; e da imporlo non mi potè istorre
quello che voi mi volete mostrare, pensando che il tempo è tale che,
guardandosi e gli uomini e le donne d'operar disonestamente, ogni ragionare è
conceduto. Or non sapete voi che, per la perversità di questa stagione, gli
giudici hanno lasciati i tribunali; le leggi, così le divine come le umane,
tacciono; e ampia licenzia per conservar la vita è conceduta a ciascuno? Per
che, se alquanto s'allarga la vostra onestà nel favellare, non per dovere con
le opere mai alcuna cosa sconcia seguire, ma per dare diletto a voi e ad
altrui, non veggo con che argomento da concedere vi possa nello avvenire
riprendere alcuno. Oltre a questo la nostra brigata, dal primo dì infino a
questa ora stata onestissima, per cosa che detta ci si sia, non mi pare che in
atto alcuno si sia maculata, né si maculerà collo aiuto di Dio. Appresso, chi è
colui che non conosca la vostra onestà? La quale non che i ragionamenti
sollazzevoli, ma il terrore della morte non credo che potesse smagare.
E a dirvi il vero, chi
sapesse che voi vi cessaste da queste ciance ragionare alcuna volta, forse
suspicherebbe che voi in ciò non foste colpevoli, e per ciò ragionare non ne
voleste. Senza che voi mi fareste un bello onore, essendo io stato ubbidente a
tutti, e ora avendomi vostro re fatto, mi voleste la legge porre in mano, e di
quello non dire che io avessi imposto. Lasciate adunque questa suspizione più
atta à cattivi animi che à vostri, e con la buona ventura pensi ciascuna di
dirla bella. Quando le donne ebbero udito questo, dissero che così fosse come
gli piacesse; per che il re per infino all'ora della cena di fare il suo
piacere diede licenzia a ciascuno.
Era ancora il sol molto
alto, per ciò che il ragionamento era stato brieve; per che, essendosi Dioneo
con gli altri giovani messo a giucare a tavole, Elissa, chiamate l'altre donne
da una parte, disse:
– Poi che noi fummo qui,
ho io disiderato di menarvi in parte assai vicina di questo luogo, dove io non
credo che mai fosse alcuna di voi, e chiamavisi la Valle delle donne, né ancora
vidi tempo da potervi quivi menare, se non oggi, sì è alto ancora il sole; e
per ciò, se di venirvi vi piace, io non dubito punto che, quando vi sarete, non
siate contentissime d'esservi state.
Le donne risposono che
erano apparecchiate; e chiamata una delle lor fanti, senza farne alcuna cosa
sentire à giovani, si misero in via; né guari più d'un miglio furono andate,
che alla Valle delle donne pervennero. Dentro alla quale per una via assai
stretta, dall'una delle parti della quale correva un chiarissimo fiumicello, entrarono,
e viderla tanto bella e tanto dilettevole, e spezialmente in quel tempo che era
il caldo grande, quanto più si potesse divisare. E secondo che alcuna di loro
poi mi ridisse, il piano che nella valle era, così era ritondo come se a sesta
fosse stato fatto, quantunque artificio della natura e non manual paresse; ed
era di giro poco più che un mezzo miglio, intorniato di sei montagnette di non
troppa altezza, e in su la sommità di ciascuna si vedeva un palagio quasi in
forma fatto d'un bel castelletto. Le piaggie delle quali montagnette così
digradando giù verso 'l piano discendevano, come né teatri veggiamo dalla lor
sommità i gradi infino all'infimo venire successivamente ordinati, sempre
ristrignendo il cerchio loro. Ed erano queste piaggie, quante alla plaga del
mezzogiorno ne riguardavano, tutte di vigne, d'ulivi, di man dorli, di ciriegi,
di fichi e d'altre maniere assai d'alberi fruttiferi piene, senza spanna
perdersene. Quelle le quali il carro di tramontana guardava, tutte eran
boschetti di querciuoli, di frassini e d'altri alberi verdissimi e ritti quanto
più esser poteano. Il piano appresso, senza aver più entrate che quella donde
le donne venute v'erano, era pieno d'abeti, di cipressi, d'allori e d'alcuni
pini sì ben composti e sì bene ordinati, come se qualunque è di ciò il migliore
artefice gli avesse piantati; e fra essi poco sole o niente, allora che egli
era alto, entrava infino al suolo, il quale era tutto un prato d'erba
minutissima e piena di fiori porporini e d'altri.
E oltre a questo, quel
che non meno che altro di diletto porgeva, era un fiumicello, il qual d'una
delle valli, che due di quelle montagnette dividea, cadeva giù per balzi di
pietra viva, e cadendo faceva un romore ad udire assai dilettevole, e
sprizzando pareva da lungi ariento vivo che d'alcuna cosa premuta minutamente
sprizzasse; e come giù al piccol pian pervenia così quivi in un bel canaletto
raccolta infino al mezzo del piano velocissima discorreva, e ivi faceva un
picciol laghetto quale talvolta per modo di vivaio fanno né lor giardini i
cittadini che di ciò hanno destro. Ed era questo laghetto non più profondo che
sia una statura d'uomo infino al petto lunga, e senza avere in sé mistura
alcuna, chiarissimo il suo fondo mostrava esser duna minutissima ghiaia, la qual
tutta, chi altro non avesse avuto a fare, avrebbe, volendo, potuta annoverare.
Nè solamente nell'acqua riguardando vi si vedeva il fondo, ma tanto pesce in
qua e in là andar discorrendo, che oltre al diletto era una maraviglia. Nè da
altra ripa era chiuso che dal suolo del prato, tanto d'intorno a quel più
bello, quanto più dello umido sentiva di quello. L'acqua, la quale alla sua
capacità soprabbondava, un altro canaletto riceveva, per lo qual fuori del
valloncello uscendo alle parti più basse sen correva.
In questo adunque venute
le giovani donne, poi che per tutto riguardato ebbero e molto commendato il
luogo, essendo il caldo grande e vedendosi il pelaghetto chiaro davanti e senza
alcun sospetto d'esser vedute, diliberaron di volersi bagnare. E comandato alla
lor fante che sopra la via per la quale quivi s'entrava dimorasse, e guardasse
se alcun venisse, e loro il facesse sentire tutte e sette si spogliarono ed
entrarono in esso, il quale non altrimenti li lor corpi candidi nascondeva, che
farebbe una vermiglia rosa un sottil vetro. Le quali essendo in quello, né per
ciò niuna turbazion d'acqua nascendone, cominciarono come potevano ad andare in
qua in là di dietro à pesci, i quali male avevan dove nascondersi, e a volerne
con esso le mani pigliare.
E poi che in così fatta
festa, avendone presi alcuni, dimorate furono alquanto, uscite di quello, si
rivestirono, e senza poter più commendare il luogo che commendato l'avessero,
parendo lor tempo da dover tornar verso casa, con soave passo, molto della bellezza
del luogo parlando, in cammino si misero. E al palagio giunte ad assai buona
ora, ancora quivi trovarono i giovani giucando dove lasciati gli aveano. Alli
quali Pampinea ridendo disse:
– Oggi vi pure abbiam
noi ingannati.
– E come? – disse Dioneo
– cominciate voi prima a far de' fatti che a dir delle parole?
Disse Pampinea:
– Signor nostro, sì –; e
distesamente gli narrò donde venivano, e come era fatto il luogo, e quanto di
quivi distante, e ciò che fatto avevano.
Il re, udendo contare la
bellezza del luogo, disideroso di vederlo, prestamente fece comandar la cena;
la qual poi che con assai piacer di tutti fu fornita, li tre giovani colli lor
famigliari, lasciate le donne, se n'andarono a questa valle, e ogni cosa
considerata, non essendovene alcuno di loro stato mai più, quella per una delle
belle cose del mondo lodarono. E poi che bagnati si furono e rivestiti, per ciò
che troppo tardi si faceva, se ne tornarono a casa, dove trovarono le donne che
facevano una carola ad un verso che facea la Fiammetta, e con loro, fornita la
carola, entrati in ragionamenti della Valle delle donne, assai di bene e di
lode ne dissero. Per la qual cosa il re, fattosi venire il siniscalco, gli
comandò che la seguente mattina là facesse che fosse apparecchiato, e portatovi
alcun letto, se alcun volesse o dormire o giacersi di meriggiana. Appresso
questo, fatto venire de' lumi e vino e confetti, e alquanto riconfortatisi,
comandò che ogn'uomo fosse in sul ballare. E avendo per suo volere Panfilo una
danza presa, il re rivoltatosi verso Elissa le disse piacevolmente:
– Bella giovane, tu mi
facesti oggi onore della corona, e io il voglio questa sera a te fare della
canzone; e per ciò una fa che ne dichi qual più ti piace.
A cui Elissa sorridendo
rispose che volentieri, e con soave voce cominciò in cotal guisa:
Amor, s'io posso uscir
de' tuoi artigli,
appena creder posso
che alcun altro uncin
più mai mi pigli.
Io entrai giovinetta en
la tua guerra,
quella credendo somma e
dolce pace,
e ciascuna mia arme posi
in terra,
come sicuro chi si fida
face
tu, disleal tiranno,
aspro e rapace,
tosto mi fosti addosso
con le tue armi e co'
crude'roncigli.
Poi, circundata delle
tue catene,
a quel, che nacque per
la morte mia,
piena d'amare lagrime e
di pene
presa mi desti, e hammi
in sua balia;
ed è sì cruda la sua
signoria,
che giammai non l'ha
mosso
sospir né pianto alcun
che m'assottigli.
Li prieghi miei tutti
glien porta il vento,
nullo n'ascolta né ne
vuole udire;
per che ogn'ora cresce
'l mio tormento,
onde 'l viver m'è noia,
né so morire.
Deh dolgati, signor, del
mio languire,
fa tu quel ch'io non
posso;
dalmi legato dentro à
tuoi vincigli.
Se questo far non
vuogli, almeno sciogli,
i legami annodati da
speranza.
Deh! io ti priego,
signor, che tu vogli;
ché, se tu 'l fai, ancor
porto fidanza
di tornar bella qual fu
mia usanza,
e il dolor rimosso,
di bianchi fiori ornarmi
e di vermigli.
Poi che con un sospiro
assai pietoso Elissa ebbe alla sua canzon fatta fine, ancor che tutti si
maravigliasser di tali parole, niuno per ciò ve n'ebbe che potesse avvisare chi
di così cantar le fosse stato cagione. Ma il re, che in buona tempera era,
fatto chiamar Tindaro, gli comandò che fuor traesse la sua cornamusa, al suono
della quale esso fece fare molte. danze. Ma, essendo già buona parte di notte
passata, a ciascun disse ch'andasse a dormire.
Finisce la sesta
giornata del Decameron.
Incomincia la settima
giornata nella quale, sotto il reggimento di Dioneo, si ragiona delle beffe, le
quali, o per amore o per salvamento di loro, le donne hanno già fatte a' lor
mariti, senza essersene avveduti o sì.
GIORNATA SETTIMA
INTRODUZIONE
Ogni stella era già
delle parti d'oriente fuggita, se non quella sola, la qual noi chiamiamo
Lucifero, che ancor luceva nella biancheggiante aurora, quando il siniscalco
levatosi, con una gran salmeria n'andò nella Valle delle donne, per quivi
disporre ogni cosa secondo l'ordine e il comandamento avuto dal suo signore.
Appresso alla quale andata non stette guari a levarsi il re, il quale lo
strepito de' caricanti e delle bestie aveva desto, e levatosi fece le donne e'
giovani tutti parimente levare. Né ancora spuntavano li raggi del sole bene
bene, quando tutti entrarono in cammino; né era ancora lor paruto alcuna volta
tanto gaiamente cantar gli usignuoli e gli altri uccelli quanto quella mattina
pareva; da' canti de' quali accompagnati infino nella Valle delle donne
n'andarono, dove da molti più ricevuti, parve loro che essi della lor venuta si
rallegrassero. Quivi intorniando quella e riproveggendo tutta da capo, tanto
parve loro più bella che il dì passato, quanto l'ora del dì era più alla
bellezza di quella conforme. E poi che col buon vino e con confetti ebbero il
digiun rotto acciò che di canto non fossero dagli uccelli avanzati,
cominciarono a cantare, e la valle insieme con essoloro, sempre quelle medesime
canzoni dicendo che essi dicevano; alle quali tutti gli uccelli, quasi non
volessero esser vinti, dolci e nuove note aggiugnevano. Ma poi che l'ora del
mangiar fu venuta, messe le tavole sotto i vivaci allori e agli altri belli
arbori vicine al bel laghetto, come al re piacque, così andarono a sedere, e
mangiando, i pesci notar vedean per lo lago a grandissime schiere; il che, come
di riguardare, così talvolta dava cagione di ragionare. Ma poi che venuta fu la
fine del desinare, e le vivande e le tavole furon rimosse, ancora più lieti che
prima, cominciarono a cantare e dopo questo a sonare e a carolare.
Quindi, essendo in più
luoghi per la piccola valle fatti letti, e tutti dal discreto siniscalco di
sarge francesche e di capoletti intorniati e chiusi, con licenzia del re, a cui
piacque, si potè andare a dormire; e chi dormir non volle, degli altri lor
diletti usati pigliar poteva a suo piacere. Ma, venuta già l'ora che tutti
levati erano e tempo era da riducersi a novellare, come il re volle, non guari
lontano al luogo dove mangiato aveano, fatti in su l'erba tappeti distendere e
vicini al lago a seder postisi, comandò il re ad Emilia che cominciasse. La
qual lietamente così cominciò a dir sorridendo.
NOVELLA PRIMA
Gianni Lotteringhi ode
di notte toccar l'uscio suo; desta la moglie, ed ella gli fa accredere che egli
è la fantasima; vanno ad incantare con una orazione, e il picchiar si rimane.
Signor mio, a me sarebbe
stato carissimo, quando stato fosse piacere a voi, che altra persona che io
avesse a così bella materia, come è quella di che parlar dobbiamo, dato
cominciamento; ma, poi che egli v'aggrada che io tutte l'altre assicuri, e io
il farò volentieri. E ingegnerommi, carissime donne, di dir cosa che vi possa
essere utile nell'avvenire, per ciò che, se così son l'altre come io, tutte
siamo paurose, e massimamente della fantasima, la quale sallo Iddio che io non
so che cosa si sia, né ancora alcuna trovai che 'l sapesse, come che tutte ne
temiamo igualmente. A quella cacciar via, quando da voi venisse, notando bene
la mia novella, potrete una santa e buona orazione e molto a ciò valevole apparare.
Egli fu già in Firenze nella contrada di San Brancazio uno stamaiuolo, il qual
fu chiamato Gianni Lotteringhi, uomo più avventurato nella sua arte che savio
in altre cose, per ciò che, tenendo egli del semplice, era molto spesso fatto
capitano de' laudesi di Santa Maria Novella, e aveva a ritenere la scuola loro,
e altri così fatti uficietti aveva assai sovente, di che egli da molto più si
teneva; e ciò gli avvenia per ciò che egli molto spesso, sì come agiato uomo,
dava di buone pietanze a' frati. Li quali, per ciò che qual calze e qual cappa
e quale scapolare ne traevano spesso, gli insegnavano di buone orazioni e
davangli il paternostro in volgare e la canzone di santo Alesso e il lamento di
san Bernardo e la lauda di donna Matelda e cotali altri ciancioni, li quali
egli aveva molto cari, e tutti per la salute dell'anima sua se gli serbava
molto diligentemente.
Ora aveva costui una
bellissima donna e vaga per moglie, la quale ebbe nome monna Tessa e fu
figliuola di Mannuccio dalla Cuculia, savia e avveduta molto. La quale,
conoscendo la semplicità del marito, essendo innamorata di Federigo di Neri
Pegolotti, il quale bello e fresco giovane era, ed egli di lei, ordinò con una
sua fante che Federigo le venisse a parlare ad un luogo molto bello che il
detto Gianni aveva in Camerata, al quale ella si stava tutta la state; e Gianni
alcuna volta vi veniva la sera a cenare e ad albergo, e la mattina se ne
tornava a bottega e talora a' laudesi suoi.
Federigo, che ciò senza
modo disiderava, preso tempo, un dì che imposto gli fu, in su 'l vespro se
n'andò lassù, e non venendovi la sera Gianni, a grande agio e con molto piacere
cenò e albergò con la donna; ed ella, standogli in braccio, la notte gl'insegnò
da sei delle laude del suo marito.
Ma, non intendendo essa
che questa fosse così l'ultima volta come stata era la prima, né Federigo
altressì, acciò che ogni volta non convenisse che la fante avesse ad andar per
lui, ordinarono insieme a questo modo: che egli ognindì, quando andasse o
tornasse da un suo luogo che alquanto più su era, tenesse mente in una vigna la
quale allato alla casa di lei era, ed egli vedrebbe un teschio d'asino in su un
palo di quelli della vigna, il quale quando col muso volto vedesse verso
Firenze, sicuramente e senza alcun fallo la sera di notte se ne venisse a lei,
e se non trovasse l'uscio aperto, pianamente picchiasse tre volte, ed ella gli
aprirebbe; e quando vedesse il muso del teschio volto verso Fiesole, non vi
venisse, per ciò che Gianni vi sarebbe. E in questa maniera faccendo, molte
volte insieme si ritrovarono.
Ma tra l'altre volte una
avvenne che, dovendo Federigo cenar con monna Tessa, avendo ella fatti cuocere
due grossi capponi, avvenne che Gianni, che venir non vi doveva, molto tardi vi
venne; di che la donna fu molto dolente, ed egli ed ella cenarono un poco di
carne salata che da parte aveva fatta lessare; e alla fante fece portare in una
tovagliuola bianca i due capponi lessi e molte uova fresche e un fiasco di buon
vino in un suo giardino, nel quale andar si potea senza andar per la casa, e
dov'ella era usa di cenare con Federigo alcuna volta, e dissele che a piè d'un
pesco, che era allato ad un pratello, quelle cose ponesse.
E tanto fu il cruccio
che ella ebbe, che ella non si ricordò di dire alla fante che tanto aspettasse
che Federigo venisse, e dicessegli che Gianni v'era e che egli quelle cose
dell'orto prendesse. Per che, andatisi ella e Gianni al letto, e similmente la
fante, non stette guari che Federigo venne e toccò una volta pianamente la
porta, la quale sì vicina alla camera era che Gianni incontanente il sentì, e
la donna altressì; ma, acciò che Gianni nulla suspicar potesse di lei, di
dormire fece sembiante. E stando un poco, Federigo picchiò la seconda volta; di
che Gianni maravigliandosi punzecchiò un poco la donna, e disse:
– Tessa, odi tu quel
ch'io? E' pare che l'uscio nostro sia tocco.
La donna, che molto
meglio di lui udito l'avea, fece vista di svegliarsi, e disse:
– Come di'? Eh?
– Dico, – disse Gianni –
ch'e' pare che l'uscio nostro sia tocco.
Disse la donna:
– Tocco? Ohimè, Gianni
mio, or non sai tu quello ch'egli è? Egli è la fantasima, della quale io ho
avuta a queste notti la maggior paura che mai s'avesse, tale che, come io
sentita l'ho, ho messo il capo sotto né mai ho avuto ardir di trarlo fuori sì è
stato dì chiaro.
Disse allora Gianni:
– Va, donna, non aver
paura, se ciò è, ché io dissi dianzi il «Te lucis» e la «'ntemerata» e tante
altre buone orazioni, quando al letto ci andammo, e anche segnai il letto di
canto in canto al nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, che temere
non ci bisogna, ché ella non ci può, per potere ch'ella abbia, nuocere.
La donna, acciò che
Federigo per avventura altro sospetto non prendesse e con lei si turbasse,
diliberò del tutto di doversi levare e di fargli sentire che Gianni v'era, e
disse al marito:
– Bene sta, tu di' tue
parole tu, io per me non mi terrò mai salva né sicura, se noi non la
'ncantiamo, poscia che tu ci sé.
Disse Gianni:
– O come s'incanta ella?
Disse la donna:
– Ben la so io
incantare; ché l'altrieri, quando io andai a Fiesole alla perdonanza, una di
quelle romite, che è, Gianni mio, pur la più santa cosa che Iddio tel dica per
me, vedendomene così paurosa, m'insegnò una santa e buona orazione, e disse che
provata l'avea più volte avanti che romita fosse, e sempre l'era giovato. Ma
sallo Iddio che io non avrei mai avuto ardire d'andare sola a provarla; ma ora
che tu ci sé, io vo' che noi andiamo ad incantarla.
Gianni disse che molto
gli piacea; e levatisi, se ne vennero amenduni pianamente all'uscio, al quale
ancor di fuori Federigo, già sospettando, aspettava. E giunti quivi, disse la
donna a Gianni:
– Ora sputerai, quando
io il ti dirò.
Disse Gianni:
– Bene.
E la donna cominciò
l'orazione, e disse:
– Fantasima, fantasima
che di notte vai, a coda ritta ci venisti, a coda ritta te n'andrai; va
nell'orto a piè del pesco grosso, troverai unto bisunto e cento cacherelli
della gallina mia; pon bocca al fiasco e vatti via, e non far male né a me né a
Gianni mio –; e così detto, disse al marito: – Sputa, Gianni –; e Gianni sputò.
E Federigo, che di fuori
era e questo udiva, già di gelosia uscito, con tutta la malinconia, aveva si
gran voglia di ridere che scoppiava; e pianamente, quando Gianni sputava,
diceva:
– I denti.
La donna, poi che in
questa guisa ebbe tre volte la fantasima incantata, al letto se ne tornò col
marito. Federigo, che con lei di cenar s'aspettava, non avendo cenato e avendo
bene le parole della orazione intese, se n'andò nell'orto e a piè del pesco
grosso trovati i due capponi e 'l vino e l'uova, a casa se ne gli portò e cenò
a grande agio. E poi dell'altre volte, ritrovandosi con la donna, molto di
questa incantazione rise con essolei. Vera cosa è che alcuni dicono che la
donna aveva ben volto il teschio dello asino verso Fiesole, ma un lavoratore,
per la vigna passando, v'aveva entro dato d'un bastone e fattol girare intorno
intorno, ed era rimaso volto verso Firenze, e per ciò Federigo, credendo esser
chiamato, v'era venuto; e che la donna aveva fatta l'orazione in questa guisa:
– Fantasima, fantasima, vatti con Dio, che la testa dell'asino non vols'io, ma
altri fu, che tristo il faccia Iddio, e io son qui con Gianni mio –; per che,
andatosene, senza albergo e senza cena era la notte rimaso. Ma una mia vicina,
la quale è una donna molto vecchia, mi dice che l'una e l'altra fu vera,
secondo che ella aveva, essendo fanciulla, saputo; ma che l'ultimo non a Gianni
Lotteringhi era avvenuto, ma ad uno che si chiamò Gianni di Nello, che stava in
porta San Piero, non meno sofficiente lavaceci che fosse Gianni Lotteringhi. E
per ciò, donne mie care, nella vostra elezione sta di torre qual più vi piace
delle due, o volete amendune. Elle hanno grandissima virtù a così fatte cose,
come per esperienzia avete udito; apparatele, e potravvi ancor giovare.
NOVELLA SECONDA
Peronella mette un suo
amante in un doglio, tornando il marito a casa; il quale avendo il marito
venduto, ella dice che venduto l'ha ad uno che dentro v'è a vedere se saldo gli
pare. Il quale saltatone fuori, il fa radere al marito, e poi portarsenelo a
casa sua.
Con grandissime risa fu
la novella d'Emilia ascoltata e l'orazione per buona e per santa commendata da
tutti; la quale al suo fine venuta essendo, comandò il re a Filostrato che
seguitasse, il quale incominciò.
Carissime donne mie,
elle son tante le beffe che gli uomini vi fanno, e spezialmente i mariti, che,
quando alcuna volta avviene che donna niuna alcuna al marito ne faccia, voi non
dovreste solamente esser contente che ciò fosse avvenuto o di risaperlo o
d'udirlo dire ad alcuno, ma il dovreste voi medesime andare dicendo per tutto,
acciò che per gli uomini si conosca che, se essi sanno, e le donne d'altra
parte anche sanno: il che altro che utile essere non vi può; per ciò che,
quando alcun sa che altri sappia, egli non si mette troppo leggiermente a
volerlo ingannare.
Chi dubita dunque che
ciò che oggi intorno a questa materia diremo, essendo risaputo dagli uomini,
non fosse lor grandissima cagione di raffrenamento al beffarvi, conoscendo che
voi similmente, volendo, ne sapreste fare? È adunque mia intenzion di dirvi ciò
che una giovinetta, quantunque di bassa condizione fosse, quasi in un momento
di tempo, per salvezza di sé al marito facesse. Egli non è ancora guari che in
Napoli un povero uomo prese per moglie una bella e vaga giovinetta chiamata
Peronella, ed esso con l'arte sua, che era muratore, ed ella filando,
guadagnando assai sottilmente, la lor vita reggevano come potevano il meglio.
Avvenne che un giovane
de' leggiadri, veggendo un giorno questa Peronella e piacendogli molto,
s'innamorò di lei, e tanto in un modo e in uno altro la sollicitò, che con
essolei si dimesticò. E a potere essere insieme presero tra sé questo ordine:
che, con ciò fosse cosa che il marito di lei si levasse ogni mattina per tempo
per andare a lavorare o a trovar lavorio, che il giovane fosse in parte che
uscir lo vedesse fuori; ed essendo la contrada, che Avorio si chiama, molto
solitaria, dove stava, uscito lui, egli in casa di lei se n'entrasse; e così
molte volte fecero. Ma pur tra l'altre avvenne una mattina che, essendo il
buono uomo fuori uscito, e Giannello Scrignario, ché così aveva nome il
giovane, entratogli in casa e standosi con Peronella, dopo alquanto, dove in
tutto il dì tornar non soleva, a casa se ne tornò, e trovato l'uscio serrato
dentro, picchiò, e dopo il picchiare cominciò seco a dire:
– O Iddio, lodato sia tu
sempre; ché, benché tu m'abbi fatto povero, almeno m'hai tu consolato di buona
e onesta giovane di moglie. Vedi come ella tosto serrò l'uscio dentro, come io
ci uscii, acciò che alcuna persona entrar non ci potesse che noia le desse.
Peronella, sentito il
marito, ché al modo del picchiare il conobbe, disse:
– Ohimè, Giannel mio, io
son morta, ché ecco il marito mio, che tristo il faccia Iddio, che ci tornò, e
non so che questo si voglia dire, ché egli non ci tornò mai più a questa otta;
forse che ti vide egli quando tu c'entrasti. Ma, per l'amore di Dio, come che il
fatto sia, entra in cotesto doglio che tu vedi costì, e io gli andrò ad aprire,
e veggiamo quello che questo vuol dire di tornare stamane così tosto a casa.
Giannello prestamente
entrò nel doglio, e Peronella andata all'uscio aprì al marito, e con un malviso
disse:
– Ora questa che novella
è, che tu così tosto torni a casa stamane? Per quello che mi paia vedere, tu
non vuogli oggi far nulla, ché io ti veggio tornare co' ferri tuoi in mano; e,
se tu fai così, di che viverem noi? Onde avrem noi del pane? Credi tu che io
sofferi che tu m'impegni la gonnelluccia e gli altri miei pannicelli? che non
fo il dì e la notte altro che filare, tanto che la carne mi s'è spiccata
dall'unghia, per potere almeno aver tanto olio che n'arda la nostra lucerna.
Marito, marito, egli non ci ha vicina che non se ne maravigli e che non facci
beffe di me di tanta fatica quanta è quella che io duro; e tu mi torni a casa
con le mani spenzolate, quando tu dovresti esser a lavorare.
E così detto, incominciò
a piagnere e a dir da capo:
– Ohimè, lassa me,
dolente me, in che mal'ora nacqui, in che mal punto ci venni! ché avrei potuto
avere un giovane così da bene e nol volli, per venire a costui che non pensa
cui egli s'ha recata a casa. L'altre si danno buon tempo con gli amanti loro, e
non ce n'ha niuna che non n'abbia chi due e chi tre, e godono e mostrano a'
mariti la luna per lo sole; e io, misera me!, perché son buona e non attendo a
così fatte novelle, ho male e mala ventura; io non so perché io non mi pigli di
questi amanti come fanno l'altre. Intendi sanamente, marito mio, che se io
volessi far male, io troverrei ben con cui, ché egli ci son de' ben leggiadri
che m'amano e voglionmi bene e hannomi mandato proferendo di molti denari, o
voglionmi bene e hannomi mandato proferendo di molti denari, o voglio io robe o
gioie, né mai mel sofferse il cuore, per ciò che io non fui figliuola di donna
da ciò; e tu mi torni a casa quando tu dei essere a lavorare.
Disse il marito:
– Deh donna, non ti dar
malinconia, per Dio; tu dei credere che io conosco chi tu se', e pure stamane
me ne sono in parte avveduto. Egli è il vero ch'io andai per lavorare, ma egli
mostra che tu nol sappi, come io medesimo nol sapeva: egli è oggi la festa di
santo Galeone, e non si lavora, e per ciò mi sono tornato a questa ora a casa;
ma io ho nondimeno proveduto e trovato modo che noi avremo del pane per più
d'un mese, ché io ho venduto a costui che tu vedi qui con me co il doglio, il
quale tu sai che, già è cotanto, ha tenuta la casa impacciata, e dammene cinque
gigliati.
Disse allora Peronella:
– E tutto questo è del
dolor mio: tu che séuomo e vai attorno, e dovresti sapere delle cose del mondo,
hai venduto un doglio cinque gigliati, il quale io feminella che non fu'mai
appena fuor dell'uscio, veggendo lo 'mpaccio che in casa ci dava, l'ho venduto
sette ad un buono uomo, il quale, come tu qui tornasti, v'entrò dentro per
vedere se saldo era.
Quando il marito udì
questo, fu più che contento, e disse a colui che venuto era per esso:
– Buon uomo, vatti con
Dio; ché tu odi che mia mogliere l'ha venduto sette, dove tu non me ne davi
altro che cinque.
Il buono uomo disse:
– In buona ora sia –; e
andossene.
E Peronella disse al
marito:
– Vien su tu, poscia che
tu ci sé, e vedi con lui insieme i fatti nostri.
Giannello, il quale
stava con gli orecchi levati per vedere se di nulla gli bisognasse temere o
provvedersi, udite le parole di Peronella, prestamente si gittò fuor del
doglio, e quasi niente sentito avesse della tornata del marito, cominciò a
dire:
– Dove sé, buona donna?
Al quale il marito, che già veniva, disse:
– Eccomi, che domandi
tu?
Disse Giannello:
– Qual sétu? Io vorrei
la donna con la quale io feci il mercato di questo doglio.
Disse il buono uomo:
– Fate sicuramente meco,
ché io son suo marito.
Disse allora Giannello:
– Il doglio mi par ben
saldo, ma egli mi pare che voi ci abbiate tenuta entro feccia, ché egli è tutto
impiastricciato di non so che cosa sì secca, che io non ne posso levar con
l'unghie, e però nol torrei se io nol vedessi prima netto.
Disse allora Peronella:
– No, per quello non
rimarrà il mercato; mio marito il netterà tutto.
E il marito disse:
– Sì bene –; e posti giù
i ferri suoi, e ispogliatosi in camicione, si fece accendere un lume e dare una
radimadia, e fuvvi entrato dentro e cominciò a radere. E Peronella, quasi veder
volesse ciò che facesse, messo il capo per la bocca del doglio, che molto
grande non era, e oltre a questo l'un de' bracci con tutta la spalla, cominciò
a dire:
– Radi quivi, e quivi, e
anche colà –; e: – Vedine qui rimaso un micolino.
E mentre che così stava
e al marito insegnava e ricordava, Giannello, il quale appieno non aveva quella
mattina il suo disidero ancor fornito quando il marito venne, veggendo che come
volea non potea, s'argomentò di fornirlo come potesse; e a lei accostatosi, che
tutta chiusa teneva la bocca del doglio, e in quella guisa che negli ampi campi
gli sfrenati cavalli e d'amor caldi le cavalle di Partia assaliscono, ad
effetto recò il giovinil desiderio, il quale quasi in un medesimo punto ebbe
perfezione e fu raso il doglio, ed egli scostatosi, e la Peronella tratto il
capo del doglio, e il marito uscitone fuori.
Per che Peronella disse
a Giannello:
– Te'questo lume, buono
uomo, e guata se egli è netto a tuo modo.
Giannello, guardatovi
dentro, disse che stava bene, e che egli era contento; e datigli sette
gigliati, a casa sel fece portare.
NOVELLA TERZA
Frate Rinaldo si giace
colla comare; truovalo il marito in camera con lei, e fannogli credere che egli
incantava i vermini al figlioccio.
Non seppe sì Filostrato
parlare oscuro delle cavalle partice, che l'avvedute donne non lo intendessono
e alquanto non ne ridessono, sembiante faccendo di rider d'altro. Ma poi che il
re conobbe la sua novella finita, ad Elissa impose che ragionasse. La quale,
disposta ad ubbidire, incominciò.
Piacevoli donne, lo
'ncantar della fantasima d'Emilia m'ha fatto tornare alla memoria una novella
d'un'altra incantagione, la quale quantunque così bella non sia come fu quella,
per ciò che altra alla nostra materia non me ne occorre al presente, la
racconterò.
Voi dovete sapere che in
Siena fu già un giovane assai leggiadro e d'orrevole famiglia, il quale ebbe
nome Rinaldo; e amando sommamente una sua vicina e assai bella donna e moglie
d'un ricco uomo, e sperando, se modo potesse avere di parlarle senza sospetto,
dovere aver da lei ogni cosa che egli disiderasse, non vedendone alcuno ed
essendo la donna gravida, pensossi di volere suo compar divenire; e accontatosi
col marito di lei, per quel modo che più onesto gli parve gliele di se, e fu
fatto. Essendo adunque Rinaldo di madonna Agnesa divenuto compare e avendo
alquanto d'albitrio più colorato di poterle parlare, assicuratosi, quello della
sua intenzione con parole le fece conoscere che ella molto davanti negli atti
degli occhi suoi avea conosciuto; ma poco per ciò gli valse, quantunque
d'averlo udito non dispiacesse alla donna.
Addivenne non guari poi,
che che si fosse la cagione, che Rinaldo si fece frate, e chente che egli
trovasse la pastura, egli perseverò in quello. E avvegna che egli alquanto, di
que tempi che frate si fece, avesse dall'un de' lati posto l'amore che alla sua
comar portava e certe altre sue vanità, pure in processo di tempo, senza
lasciar l'abito, se le riprese, e cominciò a dilettarsi d'apparere e di vestir
di buon panni e d'essere in tutte le sue cose leggiadretto e ornato, e a fare
delle canzoni e de' sonetti e delle ballate, e a cantare, e tutto pieno d'altre
cose a queste simili.
Ma che dico io di frate
Rinaldo nostro, di cui parliamo? Quali son quegli che così non facciano? Ahi
vitupero del guasto mondo! Essi non si vergognano d'apparir grassi, d'apparir
coloriti nel viso, d'apparir morbidi ne' vestimenti e in tutte le cose loro; e
non come colombi, ma come galli tronfi, con la cresta levata, pettoruti
procedono; e, che è peggio (lasciamo stare d'aver le lor celle piene
d'alberelli di lattovari e d'unguenti colmi, di scatole di vari confetti piene,
d'ampolle e di guastadette con acque lavorate e con olii, di bottacci di
malvagìa e di greco e d'altri vini preziosissimi traboccanti, in tanto che non
celle di frati, ma botteghe di speziali o d'unguentari appaiono più tosto a'
riguardanti), essi non si vergognano che altri sappia loro esser gottosi, e
credonsi che altri non conosca e sappia che i digiuni assai, le vivande grosse
e poche e il viver sobriamente faccia gli uomini magri e sottili e il più sani;
e se pure infermi ne fanno, non almeno di gotte gl'infermano, alle quali si
suole per medicina dare la castità e ogni altra cosa a vita di modesto frate
appartenente. E credonsi che altri non conosca, oltra la sottil vita, le
vigilie lunghe, l'orare e il disciplinarsi dover gli uomini pallidi e afflitti
rendere; e che né san Domenico né san Francesco, senza aver quattro cappe per
uno, non di tintillani né d'altri panni gentili, ma di lana grossa fatte e di
natural colore, a cacciare il freddo e non ad apparere si vestissero. Alle
quali cose Iddio provegga, come all'anime de' semplici che gli nutricano fa
bisogno.
Così adunque ritornato
frate Rinaldo ne' primi appetiti, cominciò a visitare molto spesso la comare; e
cresciutagli baldanza, con più instanzia che prima non faceva la cominciò a
sollicitare a quello che egli di lei disiderava.
La buona donna,
veggendosi molto sollicitare, e parendole frate Rinaldo forse più bello che non
soleva, essendo un dì molto da lui infestata, a quello ricorse che fanno tutte
quelle che voglia hanno di concedere quello che è addimandato, e disse:
– Come! frate Rinaldo, o
fanno così fatte cose i frati? A cui frate Rinaldo rispose:
– Madonna, qualora io
avrò questa cappa fuor di dosso, che me la traggo molto agevolmente, io vi
parrò uno uomo fatto come gli altri, e non frate.
La donna fece bocca da
ridere, e disse:
– Ohimè trista, voi
siete mio compare; come si farebbe questo? Egli sarebbe troppo gran male; e io
ho molte volte udito che egli è troppo gran peccato; e per certo, se ciò non
fosse, io farei ciò che voi voleste.
A cui frate Rinaldo
disse:
– Voi siete una sciocca,
se per questo lasciate. Io non dico che non sia peccato, ma de' maggiori
perdona Iddio a chi si pente. Ma ditemi, chi è più parente del vostro
figliuolo, o io che il tenni a battesimo, o vostro marito che il generò?
La donna rispose:
– E più suo parente mio
marito.
– E voi dite il vero, –
disse il frate –; e vostro marito non si giace con voi?
– Mai sì, – rispose la
donna.
– Adunque, – disse il
frate – e io che son men parente di vostro figliuolo che non è vostro marito,
così mi debbo poter giacere con voi come vostro marito.
La donna, che loica non
sapeva e di piccola levatura aveva bisogno, o credette o fece vista di credere
che il frate dicesse vero, e rispose: – Chi saprebbe rispondere alle vostre
savie parole? –; e appresso, non ostante il comparatico, si recò a dovere fare
i suoi piaceri; né incominciarono pure una volta, ma sotto la coverta del
comparatico avendo più agio, perché la sospezione era minore, più e più volte
si ritrovarono insieme.
Ma tra l'altre una
n'avvenne che, essendo frate Rinaldo venuto a casa la donna, e vedendo quivi
niuna persona essere, altri che una fanticella della donna, assai bella e
piacevoletta, mandato il compagno suo con essolei nel palco di sopra ad
insegnarle il paternostro, egli colla donna, che il fanciullin suo avea per
mano, se n'entrarono nella camera, e dentro serratisi, sopra un lettuccio da
sedere, che in quella era, s'incominciarono a trastullare. E in questa guisa
dimorando, avvenne che il compar tornò, e senza esser sentito da alcuno, fu
all'uscio della camera, e picchiò e chiamò la donna.
Ma donna Agnesa, questo
sentendo, disse:
– Io son morta, ché ecco
il marito mio; ora si pure avvedrà egli qual sia la cagione della nostra
dimestichezza. Era frate Rinaldo spogliato, cioè senza cappa e senza scapolare,
in tonicella, il quale questo udendo disse:
– Voi dite vero: se io
fossi pur vestito, qualche modo ci avrebbe; ma, se voi gli aprite ed egli mi
truovi così, niuna scusa ci potrà essere.
La donna, da subito
consiglio aiutata, disse:
– Or vi vestite; e
vestito che voi siete, recatevi in braccio vostro figlioccio, e ascolterete
bene ciò che io gli dirò, sì che le vostre parole poi s'accordino con le mie, e
lasciate fare a me.
Il buono uomo non era
ristato appena di picchiare, che la moglie rispose:
– Io vengo a te; – e
levatasi, con un buon viso se n'andò all'uscio della camera e aperselo, e
disse:
– Marito mio, ben ti
dico che frate Rinaldo nostro compare ci si venne, e Iddio il ci mandò; ché per
certo, se venuto non ci fosse, noi avremmo oggi perduto il fanciul nostro.
Quando il bescio sanctio
udì questo, tutto svenne e disse:
– Come?
– O marito mio, – disse
la donna – e' gli venne dianzi di subito uno sfinimento, che io mi credetti
ch'e'fosse morto. e non sapeva né che mi far né che mi dire; se non che frate
Rinaldo nostro compare ci venne in quella, e recatoselo in collo disse:
– Comare, questi son
vermini che egli ha in corpo, li quali gli s'appressano al cuore e
ucciderebbonlo troppo bene; ma non abbiate paura, ché io gl'incanterò e farògli
morir tutti, e innanzi che io mi parta di qui voi vedrete il fanciul sano come
voi vedeste mai –.
E per ciò che tu ci
bisognavi per dir certe orazioni, e non ti seppe trovar la fante, sì le fece
dire al compagno suo nel più alto luogo della nostra casa, ed egli e io qua
entro ce n'entrammo. E per ciò che altri che la madre del fanciullo non può
essere a così fatto servigio, perché altri non c'impacciasse, qui ci serrammo,
e ancora l'ha egli in braccio, e credom'io che egli non aspetti se non che il
compagno suo abbia compiuto di dire l'orazioni, e sarebbe fatto, per ciò che il
fanciullo è già tutto tornato in sé.
Il santoccio credendo
queste cose, tanto l'affezion del figliuol lo strinse, che egli non pose
l'animo allo 'nganno fattogli dalla moglie, ma, gittato un gran sospiro, disse:
– Io il voglio andare a
vedere.
Disse la donna:
– Non andare, ché tu
guasteresti ciò che s'è fatto; aspettati, io voglio vedere se tu vi puoi
andare, e chiamerotti. Frate Rinaldo, che ogni cosa udito avea, ed erasi
rivestito a bello agio e avevasi recato il fanciullo in braccio, come ebbe
disposte le cose a suo modo, chiamò:
– O comare, non sento io
costà il compare?
Rispose il santoccio:
– Messer sì.
– Adunque, – disse frate
Rinaldo – venite qua.
Il santoccio andò là. Al
quale frate Rinaldo disse:
– Tenete il vostro
figliuolo per la grazia di Dio sano, dove io credetti, ora fu, che voi nol vedeste
vivo a vespro; e farete di far porre una statua di cera della sua grandezza a
laude di Dio dinanzi alla figura di messer santo Ambruogio, per li meriti del
quale Iddio ve n'ha fatta grazia.
Il fanciullo, veggendo
il padre, corse a lui e fecegli festa come i fanciulli piccoli fanno; il quale
recatoselo in braccio, lagrimando non altramenti che se della fossa il traesse,
il cominciò a baciare e a render grazie al suo compare che guerito gliele avea.
Il compagno di frate
Rinaldo, che non un paternostro, ma forse più di quattro n'aveva insegnati alla
fanticella, e donatale una borsetta di refe bianco, la quale a lui aveva donata
una monaca, e fattala sua divota, avendo udito il santoccio alla camera della
moglie chiamare, pianamente era venuto in parte della quale e vedere e udire
ciò che vi si facesse poteva; veggendo la cosa in buoni termini, se ne venne
giuso, ed entrato nella camera disse:
– Frate Rinaldo, quelle
quattro orazioni che m'imponeste, io l'ho dette tutte.
A cui frate Rinaldo
disse:
– Fratel mio, tu hai
buona lena e hai fatto bene. Io per me, quando mio compar venne, non n'aveva
dette che due; ma Domenedio tra per la tua fatica e per la mia ci ha fatta
grazia che il fanciullo è guerito.
Il santoccio fece venire
di buoni vini e di confetti, e fece onore al suo compare e al compagno di ciò
che essi avevano maggior bisogno che d'altro. Poi, con loro insieme uscito di
casa, gli accomandò a Dio; e senza alcuno indugio fatta fare la imagine di
cera, la mandò ad appiccare con l'altre dinanzi alla figura di santo Ambruogio,
ma non a quel di Melano.
NOVELLA QUARTA
Tofano chiude una notte
fuor di casa la moglie, la quale, non potendo per prieghi rientrare, fa vista
di gittarsi in un pozzo e gittavi una gran pietra. Tofano esce di casa e corre
là, ed ella in casa le n'entra e serra lui di fuori, e sgridandolo il vitupera.
Il re, come la novella
d'Elissa sentì aver fine, così senza indugio verso la Lauretta rivolto le
dimostrò che gli piacea che ella dicesse; per che essa, senza stare, così
cominciò. O Amore, chenti e quali sono le tue forze! Chenti i consigli e chenti
gli avvedimenti! Qual filosofo, quale artista mai avrebbe potuto o potrebbe
mostrare quegli argomenti, quegli avvedimenti, quegli dimostramenti che fai tu
subitamente a chi seguita le tue orme? Certo la dottrina di qualunque altro è
tarda a rispetto della tua, sì come assai bene com prender si può nelle cose
davanti mostrate. Alle quali, amorose donne, io una n'aggiugnerò da una
semplicetta donna adoperata, tale che io non so chi altri se l'avesse potuta
mostrare che Amore.
Fu adunque già in Arezzo
un ricco uomo, il quale fu Tofano nominato. A costui fu data per moglie una
bellissima donna, il cui nome fu monna Ghita, della quale egli, senza saper
perché, prestamente divenne geloso. Di che la donna avvedendosi prese sdegno, e
più volte avendolo della cagione della sua gelosia addomandato, né egli alcuna
avendone saputa assegnare, se non cotali generali e cattive, cadde nell'animo
alla donna di farlo morire del male del quale senza cagione aveva paura. Ed
essendosi avveduta che un giovane, secondo il suo giudicio molto da bene, la
vagheggiava, discretamente con lui s'incominciò ad intendere. Ed essendo già
tra lui e lei tanto le cose innanzi, che altro che dare effetto con opera alle
parole non vi mancava, pensò la donna di trovare similmente modo a questo. E
avendo già tra' costu mi cattivi del suo marito conosciuto lui dilettarsi di
bere, non solamente gliele cominciò a commendare, ma artatamente a sollicitarlo
a ciò molto spesso. E tanto ciò prese per uso, che, quasi ogni volta che a
grado l'era, infino allo inebriarsi bevendo il conducea; e quando bene ebbro il
vedea, messolo a dormire, primieramente col suo amante si ritrovò, e poi
sicuramente più volte di ritrovarsi con lui continuò. E tanto di fidanza nella
costui ebbrezza prese, che non solamente avea preso ardire di menarsi il suo
amante in casa, ma ella talvolta gran parte della notte s'andava con lui a
dimorare alla sua, la qual di quivi non era guari lontana.
E in questa maniera la
innamorata donna continuando, avvenne che il doloroso marito si venne
accorgendo che ella, nel confortare lui a bere, non beveva però essa mai; di
che egli prese sospetto non così fosse come era, cioè che la donna lui
inebriasse per poter poi fare il piacer suo mentre egli addormentato fosse. E
volendo di questo, se così fosse, far pruova, senza avere il dì bevuto, una
sera tornò a casa mostrandosi il più ebbro uomo, e nel parlare e ne' modi, che
fosse mai; il che la donna credendo né estimando che più bere gli bisognasse a
ben dormire, il mise prestamente a letto. E fatto ciò, secondo che alcuna volta
era usata di fare, uscita di casa, alla casa del suo amante se n'andò, e quivi
infino alla mezza notte dimorò.
Tofano, come la donna
non vi sentì, così si levò, e andatosene alla sua porta, quella serrò dentro e
posesi alle finestre, acciò che tornare vedesse la donna e le facesse manifesto
che egli si fosse accorto delle maniere sue; e tanto stette che la donna tornò.
La quale, tornando a casa e trovandosi serrata di fuori, fu oltre modo dolente,
e cominciò a tentare se per forza potesse l'uscio aprire. Il che poi che Tofano
alquanto ebbe sofferto, disse:
– Donna, tu ti fatichi
invano, per ciò che qua entro non potrai tu entrare. Va, tornati là dove infino
ad ora séstata, e abbi per certo che tu non ci tornerai mai, infino a tanto che
io di questa cosa, in presenza de' parenti tuoi e de' vicini, te n'avrò fatto
quello onore che ti si conviene.
La donna lo 'ncominciò a
pregar per l'amor di Dio che piacer gli dovesse d'aprirle. per ciò che ella non
veniva donde s'avvisava, ma da vegghiare con una sua vicina, per ciò che le
notti eran grandi ed ella non le poteva dormir tutte, né sola in casa
vegghiare.
Li prieghi non giovavano
nulla, per ciò che quella bestia era pur disposto a volere che tutti gli aretin
sapessero la loro vergogna, laddove niun la sapeva. La donna, veggendo che il
pregar non le valeva, ricorse al minacciare e disse:
– Se tu non m'apri, io
ti farò il più tristo uom che viva.
A cui Tofano rispose:
– E che mi potresti tu
fare?
La donna, alla quale
Amore aveva già aguzzato co' suoi consigli lo 'ngegno, rispose:
– Innanzi che io voglia
sofferire la vergogna che tu mi vuoi fare ricevere a torto, io mi gitterò in
questo pozzo che qui è vicino, nel quale poi essendo trovata morta, niuna
persona sarà che creda che altri che tu, per ebbrezza, mi v'abbia gittata; e
così o ti converrà fuggire e perdere ciò che tu hai ed essere in bando, o
converrà che ti sia tagliata la testa, sì come a micidial di me che tu
veramente sarai stato.
Per queste parole niente
si mosse Tofano dalla sua sciocca oppinione. Per la qual cosa la donna disse:
– Or ecco, io non posso
più sofferire questo tuo fastidio; Dio il ti perdoni; farai riporre questa mia
rocca che io lascio qui.
E questo detto, essendo
la notte tanto oscura che appena si sarebbe potuto veder l'un l'altro per la
via, se n'andò la donna verso il pozzo, e presa una grandissima pietra che a
piè del pozzo era, gridando: – Iddio, perdonami –, la lasciò cadere entro nel
pozzo. La pietra giugnendo nell'acqua fece un grandissimo romore; il quale come
Tofano udì, credette fermamente che essa gittata vi si fosse; per che, presa la
secchia con la fune, subitamente si gittò di casa per aiutarla, e corse al
pozzo. La donna, che presso all'uscio della sua casa nascosa s'era, come il
vide correre al pozzo, così ricoverò in casa e serrossi dentro e andossene alle
finestre e cominciò a dire:
– Egli si vuole
inacquare quando altri il bee, non poscia la notte.
Tofano, udendo costei,
si tenne scornato e tornossi all'uscio; e non potendovi entrare, le cominciò a
dire che gli aprisse.
Ella, lasciato stare il
parlar piano come infino allora aveva fatto, quasi gridando cominciò a dire:
– Alla croce di Dio,
ubriaco fastidioso, tu non c'enterrai stanotte; io non posso più sofferire questi
tuoi modi; egli convien che io faccia vedere ad ogn'uomo chi tu se' e a che ora
tu torni la notte a casa.
Tofano d'altra parte
crucciato le 'ncominciò a dir villania e a gridare; di che i vicini, sentendo
il romore, si levarono, e uomini e donne, e fecersi alle finestre e domandarono
che ciò fosse.
La donna cominciò
piagnendo a dire:
– Egli è questo reo
uomo, il quale mi torna ebbro la sera a casa, o s'addormenta per le taverne e
poscia torna a questa otta; di che io avendo lungamente sofferto e dettogli
molto male e non giovandomi, non potendo più sofferire, ne gli ho voluta fare
questa vergogna di serrarlo fuor di casa, per vedere se egli se ne ammenderà.
Tofano bestia, d'altra
parte, diceva come il fatto era stato, e minacciava forte.
La donna co' suoi vicini
diceva:
– Or vedete che uomo
egli è! Che direste voi se io fossi nella via come è egli, ed egli fosse in
casa come sono io? In fè di Dio che io dubito che voi non credeste che egli
dicesse il vero. Ben potete a questo conoscere il senno suo. Egli dice appunto
che io ho fatto ciò che io credo che egli abbia fatto egli. Egli mi credette
spaventare col gittare non so che nel pozzo; ma or volesse Iddio che egli vi si
fosse gittato da dovero e affogato, sì che il vino, il quale egli di soperchio
ha bevuto, si fosse molto bene inacquato.
I vicini, e gli uomini e
le donne, cominciaro a riprender tutti Tofano, e a dar la colpa a lui e a
dirgli villania di ciò che contro alla donna diceva; e in brieve tanto andò il
romore di vicino in vicino, che egli pervenne infino a' parenti della donna.
Li quali venuti là, e
udendo la cosa e da un vicino e da altro, presero Tofano e diedergli tante
busse che tutto il ruppono. Poi, andati in casa, presero le cose della donna e
con lei si ritornarono a casa loro, minacciando Tofano di peggio.
Tofano, veggendosi mal
parato, e che la sua gelosia l'aveva mal condotto, sì come quegli che tutto 'l
suo ben voleva alla donna, ebbe alcuni amici mezzani, e tanto procacciò che
egli con buona pace riebbe la donna a casa sua alla quale promise di mai più
non esser geloso; e oltre a ciò le diè licenza che ogni suo piacer facesse, ma
sì saviamente, che egli non se ne avvedesse. E così, a modo del villan matto,
dopo danno fe' patto. E viva amore, e muoia soldo e tutta la brigata.
NOVELLA QUINTA
Un geloso in forma di
prete confessa la moglie, al quale ella dà a vedere che ama un prete che viene
a lei ogni notte; di che mentre che il geloso nascostamente prende guardia
all'uscio, la donna per lo tetto si fa venire un suo amante, e con lui si
dimora.
Posto avea fine la
Lauretta al suo ragionamento, e avendo già ciascun commendata la donna che ella
bene avesse fatto e come a quel cattivo si conveniva, il re, per non perder
tempo, verso la Fiammetta voltatosi, piacevolmente il carico le 'mpose del
novellare; per la qual cosa ella così cominciò.
Nobilissime donne, la
precedente novella mi tira a dovere io similmente ragionar d'un geloso,
estimando che ciò che si fa loro dalle loro donne, e massimamente quando senza
cagione ingelosiscono, esser ben fatto. E se ogni cosa avessero i componitori
delle leggi guardata, giudico che in questo essi dovessero alle donne non altra
pena avere constituta che essi constituirono a colui che alcuno offende sé
difendendo; per ciò che i gelosi sono insidiatori della vita delle giovani
donne e diligentissimi cercatori della lor morte.
Esse stanno tutta la
settimana rinchiuse e attendono alle bisogne familiari e domestiche,
disiderando, come ciascun fa, d'aver poi il dì delle feste alcuna consolazione,
alcuna quiete, e di potere alcun diporto pigliare, sì come prendono i
lavoratori dei campi, gli artefici delle città e i reggitori delle corti; come
fece Iddio, che il dì settimo da tutte le sue fatiche si riposò; e come
vogliono le leggi sante e le civili, le quali, allo onor di Dio e al ben comune
di ciascun riguardando, hanno i dì delle fatiche distinti da quegli del riposo.
Alla qual cosa fare niente i gelosi consentono, anzi quegli dì che a tutte l'altre
son lieti, fanno ad esse, più serrate e più rinchiuse tenendole, esser più
miseri e più dolenti; il che quanto e qual consumamento sia delle cattivelle
quelle sole il sanno che l'hanno provato. Perché, conchiudendo, ciò che una
donna fa ad un marito geloso a torto, per certo non condennare ma commendare si
dovrebbe.
Fu adunque in Arimino un
mercatante, ricco e di possessioni e di denari assai, il quale avendo una
bellissima donna per moglie, di lei divenne oltre misura geloso: né altra
cagione a questo avea se non che, come egli molto l'amava e molto bella la
teneva e conosceva che ella con tutto il suo studio s'ingegnava di piacergli,
così estimava che ogn'uomo l'amasse, e che ella a tutti paresse bella e ancora
che ella s'ingegnasse così di piacere altrui come a lui. E così ingelosito
tanta guardia ne prendeva e sì stretta la tenea, che forse assai son di quegli
che a capital pena son dannati, che non sono da' pregionieri con tanta guardia
servati.
La donna, lasciamo stare
che a nozze o a festa o a chiesa andar potesse, o il piè della casa trarre in
alcun modo, ma ella non osava farsi ad alcuna finestra né fuor della casa
guardare per alcuna cagione; per la qual cosa la vita sua era pessima, ed essa
tanto più impaziente sosteneva questa noia, quanto meno si sentiva nocente. Per
che, veggendosi a torto fare ingiuria al marito, s'avvisò, a consolazion di sé
medesima, di trovar modo (se alcuno ne potesse trovare) di far sì che a ragione
le fosse fatto. E per ciò che a finestra far non si potea, e così modo non avea
di potersi mostrare contenta dello amore d'alcuno che atteso l'avesse per la
sua contrada passando, sappiendo che nella casa la quale era allato alla sua
aveva alcun giovane e bello e piacevole, si pensò, se pertugio alcun fosse nel
muro che la sua casa divideva da quella, di dovere per quello tante volte
guatare, che ella vedrebbe il giovane in atto da potergli parlare, e di
donargli il suo amore, se egli il volesse ricevere; e se modo vi si potesse
vedere, di ritrovarsi con lui alcuna volta, e in questa maniera trapassare la
sua malvagia vita infino a tanto che il fistolo uscisse da dosso al suo marito.
E venendo ora in una parte e ora in una altra, quando il marito non v'era, il
muro della casa guardando, vide per avventura in una parte assai segreta di
quella il muro alquanto da una fessura esser aperto; per che, riguardando per
quella, ancora che assai male discerner potesse dall'altra parte, pur s'avvide
che quivi era una camera dove capitava la fessura, e seco disse: – Se questa
fosse la camera di Filippo – (cioè del giovane suo vicino) – io sarei mezza
fornita –.E cautamente da una sua fante, a cui di lei incresceva, ne fece
spiare, e trovò che veramente il giovane in quella dormiva tutto solo; per che,
visitando la fessura spesso, e, quando il giovane vi sentiva, faccendo cader
pietruzze e cotali fuscellini, tanto fece che, per veder che ciò fosse, il
giovane venne quivi. Il quale ella pianamente chiamò; ed egli che la sua voce
conobbe, le rispose; ed ella, avendo spazio, in brieve tutto l'animo suo gli
aprì. Di che il giovane contento assai, sì fece che dal suo lato il pertugio si
fece maggiore, tuttavia in guisa faccendo che alcuno avvedere non se ne
potesse; e quivi spesse volte insieme si favellavano e toccavansi la mano, ma
più avanti per la solenne guardia del geloso non si poteva.
Ora, appressandosi la
festa del Natale, la donna disse al marito che, se gli piacesse, ella voleva
andar la mattina della pasqua alla chiesa e confessarsi e comunicarsi come
fanno gli altri cristiani.
Alla quale il geloso
disse:
– E che peccati ha'tu
fatti, che tu ti vuoi confessare?
Disse la donna:
– Come! Credi tu che io
sia santa, perché tu mi tenghi rinchiusa? Ben sai che io fo de' peccati come
l'altre persone che ci vivono, ma io non gli vo' dire a te, ché tu non séprete.
Il geloso prese di
queste parole sospetto e pensossi di voler saper che peccati costei avesse
fatti e avvisossi del modo nel quale ciò gli verrebbe fatto; e rispose che era
contento, ma che non volea che ella andasse ad altra chiesa che alla cappella
loro; e quivi andasse la mattina per tempo e confessassesi o dal cappellan loro
o da quel prete che il cappellan le desse e non da altrui, e tornasse di
presente a casa. Alla donna pareva mezzo avere inteso; ma, senza altro dire,
rispose che sì farebbe. Venuta la mattina della pasqua, la donna si levò in su
l'aurora e acconciossi e andossene alla chiesa impostale dal marito. Il geloso
d'altra parte levatosi se n'andò a quella medesima chiesa e fuvvi prima di lei;
e avendo già col prete di là entro composto ciò che far voleva, messasi
prestamente una delle robe del prete indosso con un cappuccio grande a gote,
come noi veggiamo che i preti portano, avendosel tirato un poco innanzi, si
mise a stare in coro.
La donna venuta alla chiesa
fece domandare il prete. Il prete venne, e udendo dalla donna che confessar si
volea, disse che non potea udirla, ma che le manderebbe un suo compagno; e
andatosene, mandò il geloso nella sua malora. Il quale molto contegnoso
vegnendo, ancora che egli non fosse molto chiaro il dì ed egli s'avesse molto
messo il cappuccio innanzi agli occhi, non si seppe sì occultare che egli non
fosse prestamente conosciuto dalla donna; la quale, questo vedendo, disse seco
medesima:
– Lodato sia Iddio, che
costui di geloso è divenuto prete; ma pure lascia fare, ché io gli darò quello
che egli va cercando –. Fatto adunque sembiante di non conoscerlo, gli si pose
a sedere a' piedi.
Messer lo geloso s'avea
messe alcune petruzze in bocca, acciò che esse alquanto la favella gli
'mpedissero, sì che egli a quella dalla moglie riconosciuto non fosse,
parendogli in ogn'altra cosa sì del tutto esser divisato che esser da lei
riconosciuto a niun partito credeva. Or venendo alla confessione, tra l'altre
cose che la donna gli disse, avendogli prima detto come maritata era, si fu che
ella era innamorata d'un prete, il quale ogni notte con lei s'andava a giacere.
Quando il geloso udì
questo, e' gli parve che gli fosse dato d'un coltello nel cuore; e se non fosse
che volontà lo strinse di saper più innanzi, egli avrebbe la confessione
abbandonata andatosene. Stando adunque fermo domandò la donna:
– E come? Non giace
vostro marito con voi?
La donna rispose:
– Messer sì.
– Adunque, – disse 'l
geloso – come vi puote anche il prete giacere?
– Messere, – disse la
donna – il prete con che arte il si faccia non so, ma egli non è in casa uscio
sì serrato che, come egli il tocca, non s'apra; e dicemi egli che, quando egli
è venuto a quello della camera mia, anzi che egli l'apra, egli dice certe
parole per le quali il mio marito incontanente s'addormenta, e come
addormentato il sente, così apre l'uscio e viensene dentro e stassi con meco, e
questo non falla mai.
Disse allora il geloso:
– Madonna, questo è mal
fatto, e del tutto egli ve ne conviene rimanere.
A cui la donna disse:
– Messere, questo non
crederrei io mai poter fare, per ciò che io l'amo troppo.
– Dunque, – disse il
geloso – non vi potrò io assolvere. A cui la donna disse:
– Io ne son dolente: io
non venni qui per dirvi le bugie; se io il credessi poter fare, io il vi direi.
Disse allora il geloso:
– In verità, madonna, di
voi m'incresce, ché io vi veggio a questo partito perder l'anima; ma io, in
servigio di voi, ci voglio durar fatica in far mie orazioni speziali a Dio in
vostro nome, le quali forse vi gioveranno; e sì vi manderò alcuna volta un mio
cherichetto, a cui voi direte se elle vi saranno giovate o no; e se elle vi
gioveranno, sì procederemo innanzi.
A cui la donna disse:
– Messer, cotesto non
fate voi che voi mi mandiate persona a casa, ché, se il mio marito il
risapesse, egli è sì forte geloso che non gli trarrebbe del capo tutto il mondo
che per altro che per male vi si venisse, e non avrei ben con lui di questo
anno.
A cui il geloso disse:
– Madonna, non dubitate
di questo, ché per certo io terrò sì fatto modo, che voi non ne sentirete mai
parola da lui.
Disse allora la donna:
– Se questo vi dà il
cuore di fare, io son contenta –; e fatta la confessione e presa la penitenzia,
e da' piè levataglisi, se n'andò a udire la messa.
Il geloso soffiando con
la sua mala ventura s'andò a spogliare i panni del prete, e tornossi a casa,
disideroso di trovar modo da dovere il prete e la moglie trovare insieme, per
fare un mal giuoco e all'uno e all'altro. La donna tornò dalla chiesa, e vide
bene nel viso al marito che ella gli aveva data la mala pasqua; ma egli, quanto
poteva, s'ingegnava di nasconder ciò che fatto avea e che saper gli parea.
E avendo seco stesso
diliberato di dover la notte vegnente star presso all'uscio della via ad
aspettare se il prete venisse, disse alla donna:
– A me conviene questa
sera essere a cena e ad albergo altrove, e per ciò serrerai ben l'uscio da via
e quello da mezza scala e quello della camera, e quando ti parrà t'andrai a
letto.
La donna rispose:
– In buon'ora.
E quando tempo ebbe se
n'andò alla buca e fece il cenno usato, il quale come Filippo sentì, così di
presente a quel venne. Al quale la donna disse ciò che fatto avea la mattina, e
quello che il marito appresso mangiare l'aveva detto, e poi disse:
– Io son certa che egli
non uscirà di casa, ma si metterà a guardia dell'uscio; e per ciò truova modo
che su per lo tetto tu venghi stanotte di qua, sì che noi siamo insieme.
Il giovane, contento
molto di questo fatto, disse:
– Madonna, lasciate far
me.
Venuta la notte, il
geloso con sue armi tacitamente si nascose in una camera terrena, e la donna
avendo fatti serrar tutti gli usci, e massimamente quello da mezza scala, acciò
che il geloso su non potesse venire, quando tempo le parve, il giovane per via
assai cauta dal suo lato se ne venne, e andaronsi a letto, dandosi l'un
dell'altro piacere e buon tempo; e venuto il dì, il giovane se ne tornò in casa
sua.
Il geloso, dolente e
senza cena, morendo di freddo, quasi tutta la notte stette con le sue armi
allato all'uscio ad aspettare se il prete venisse; e appressandosi il giorno,
non potendo più vegghiare, nella camera terrena si mise a dormire.
Quindi vicin di terza
levatosi, essendo già l'uscio della casa aperto faccendo sembiante di venire
altronde, se ne salì in casa sua e desinò. E poco appresso mandato un
garzonetto, a guisa che stato fosse il cherico del prete che confessata l'avea,
la mandò dimandando se colui cui ella sapeva più venuto vi fosse.
La donna, che molto bene
conobbe il messo, rispose che venuto non v'era quella notte, e che, se così
facesse, che egli le potrebbe uscir di mente, quantunque ella non volesse che
di mente l'uscisse.
Ora che vi debbo dire?
Il geloso stette molte notti per volere giugnere il prete all'entrata, e la
donna continuamente col suo amante dandosi buon tempo. Alla fine il geloso, che
più sofferir non poteva, con turbato viso domandò la moglie ciò che ella avesse
al prete detto la mattina che confessata s'era. La donna rispose che non gliele
voleva dire, per ciò che ella non era onesta cosa né convenevole.
A cui il geloso disse:
– Malvagia femina, a
dispetto di te io so ciò che tu gli dicesti; e convien del tutto che io sappia
chi è il prete di cui tu tanto séinnamorata e che teco per suoi incantesimi
ogni notte si giace, o io ti segherò le veni.
La donna disse che non
era vero che ella fosse innamorata d'alcun prete.
– Come! – disse il
geloso – non dicestù così e così al prete che ti confessò?
La donna disse:
– Non che egli te
l'abbia ridetto, ma egli basterebbe, se tu fossi stato presente, mai sì, che io
gliele dissi.
– Dunque, – disse il
geloso – dimmi chi è questo prete, e tosto.
La donna cominciò a
sorridere, e disse:
– Egli mi giova molto
quando un savio uomo è da una donna semplice menato come si mena un montone per
le corna in beccheria; benché tu non sésavio, né fosti da quella ora in qua che
tu ti lasciasti nel petto entrare il maligno spirito della gelosia, senza saper
perché; e tanto quanto tu se' più sciocco e più bestiale, cotanto ne diviene la
gloria mia minore.
Credi tu, marito mio,
che io sia cieca degli occhi della testa, come tu se' cieco di quegli della
mente? Certo no; e vedendo conobbi chi fu il prete che mi confessò, e so che tu
fosti desso tu; ma io mi puosi in cuore di darti quello che tu andavi cercando,
e dieditelo. Ma, se tu fussi stato savio come esser ti pare, non avresti per
quel modo tentato di sapere i segreti della tua buona donna, e, senza prender
vana sospezion, ti saresti avveduto di ciò che ella ti confessava così essere
il vero, senza avere ella in cosa alcuna peccato.
Io ti dissi che io amava
un prete: e non eri tu, il quale io a gran torto amo, fatto prete? Dissiti che
niuno uscio della mia casa gli si poteva tener serrato quando meco giacer
volea: e quale uscio ti fu mai in casa tua tenuto quando tu colà dove io fossi
sévoluto venire? Dissiti che il prete si giaceva ogni notte con meco: e quando
fu che tu meco non giacessi? E quante volte il tuo cherico a me mandasti, tante
sai quante tu meco non fosti, ti mandai a dire che il prete meco stato non era.
Quale smemorato altri che tu, che alla gelosia tua t'hai lasciato accecare, non
avrebbe queste cose intese? E sé ti stato in casa a far la notte la guardia
all'uscio, e a me credi aver dato a vedere che tu altrove andato sii a cena e
ad albergo. Ravvediti oggimai, e torna uomo come tu esser solevi, e non far far
beffe di te a chi conosce i modi tuoi come fo io, e lascia star questo solenne
guardar che tu fai; ché io giuro a Dio, se voglia me ne venisse di porti le
corna, se tu avessi cento occhi come tu n'hai due, e' mi darebbe il cuore di
fare i piacer miei in guisa che tu non te ne avvedresti. Il geloso cattivo, a cui
molto avvedutamente pareva avere il segreto della donna sentito, udendo questo,
si tenne scornato; e senza altro rispondere, ebbe la donna per buona e per
savia; e quando la gelosia gli bisognava del tutto se la spogliò, così come,
quando bisogno non gli era, se l'aveva vestita. Per che la savia donna, quasi
licenziata ai suoi piaceri, senza far venire il suo amante su per lo tetto,
come vanno le gatte, ma pur per l'uscio, discretamente operando, poi più volte
con lui buon tempo e lieta vita si diede.
NOVELLA SESTA
Madonna Isabella con
Leonetto standosi, amata da un messer Lambertuccio, è da lui visitata; e
tornando il marito di lei, messer Lambertuccio con un coltello in mano fuor di
casa ne manda, e il marito di lei poi Leonetto accompagna.
Maravigliosamente era
piaciuta a tutti la novella della Fiammetta, affermando ciascuno ottimamente la
donna aver fatto, e quel che si convenia al bestiale uomo; ma poi che finita
fu, il re a Pampinea impose che seguitasse. La quale incominciò a dire.
Molti sono, li quali,
semplicemente parlando, dicono che Amore trae altrui del senno e quasi chi ama
fa divenire smemorato. Sciocca oppinione mi pare; e assai le già dette cose
l'hanno mostrato; e io ancora intendo di dimostrarlo.
Nella nostra città,
copiosa di tutti i beni, fu già una giovane donna e gentile e assai bella, la
qual fu moglie d'un cavaliere assai valoroso e da bene. E come spesso avviene
che s sempre non può l'uomo usare un cibo, ma talvolta disidera di variare; non
soddisfaccendo a questa donna molto il suo marito, s'innamorò d'un giovane, il
quale Leonetto era chiamato, assai piacevole e costumato, come che di gran
nazion non fosse, ed egli similmente s'innamorò di lei; e come voi sapete che
rade volte è senza effetto quello che vuole ciascuna delle parti, a dare al
loro amor compimento molto tempo non si interpose. Ora avvenne che, essendo
costei bella donna e avvenevole, di lei un cavalier chiamato messer
Lambertuccio s'innamorò forte, il quale ella, per ciò che spiacevole uomo e
sazievole le parea, per cosa del mondo ad amar lui disporre non si potea. Ma
costui con ambasciate sollicitandola molto, e non valendogli, essendo possente
uomo, la mandò minacciando di vituperarla se non facesse il piacer suo. Per la
qual cosa la donna, temendo e conoscendo come fatto era, si condusse a fare il
voler suo. Ed essendosene la donna, che madonna Isabella avea nome, andata,
come nostro costume è di state, a stare ad una sua bellissima possessione in
contado, avvenne, essendo una mattina il marito di lei cavalcato in alcun luogo
per dovere stare alcun giorno, che ella mandò per Leonetto che si venisse a
star con lei, il quale lietissimo incontanente v'andò.
Messer Lambertuccio,
sentendo il marito della donna essere andato altrove, tutto solo montato a
cavallo, a lei se n'andò e picchiò alla porta.
La fante della donna,
vedutolo, n'andò incontanente a lei, che in camera era con Leonetto, e
chiamatala le disse:
– Madonna, messer
Lambertuccio è qua giù tutto solo.
La donna, udendo questo,
fu la più dolente femina del mondo; ma, temendol forte, pregò Leonetto che
grave non gli fosse il nascondersi alquanto dietro alla cortina del letto, in
fino a tanto che messer Lambertuccio se n'andasse.
Leonetto, che non minor
paura di lui avea che avesse la donna, vi si nascose; ed ella comandò alla
fante che andasse ad aprire a messer Lambertuccio: la quale apertogli, ed egli
nella corte smontato d'un suo pallafreno e quello appiccato ivi ad uno arpione,
se ne salì suso. La donna, fatto buon viso e venuta infino in capo della scala,
quanto più potè in parole lietamente il ricevette e domandollo quello che egli
andasse faccendo. Il cavaliere, abbracciatala e baciatala, disse:
– Anima mia, io intesi
che vostro marito non c'era, sì ch'io mi son venuto a stare alquanto con
essovoi. – E dopo queste parole, entratisene in camera e serratisi dentro,
cominciò messer Lambertuccio a prender diletto di lei.
E così con lei standosi,
tutto fuori della credenza della donna, avvenne che il marito di lei tornò; il
quale quando la fante alquanto vicino al palagio vide, così subitamente corse
alla camera della donna e disse:
– Madonna, ecco messer
che torna: io credo che egli sia già giù nella corte.
La donna, udendo questo
e sentendosi aver due uomini in casa, e conosceva che il cavaliere non si
poteva nascondere per lo suo pallafreno che nella corte era, si tenne morta.
Nondimeno, subitamente gittatasi del letto in terra, prese partito, e disse a
messer Lambertuccio:
– Messere, se voi mi
volete punto di bene e voletemi da morte campare, farete quello che io vi dirò.
Voi vi recherete in mano il vostro coltello ignudo, e con un mal viso e tutto
turbato ve n'andrete giù per le scale, e andrete dicendo: – Io fo boto a Dio
che io il coglierò altrove–; e se mio marito vi volesse ritenere o di niente vi
domandasse, non dite altro che quello che detto v'ho, e montato a cavallo, per
niuna cagione seco ristate.
Messer Lambertuccio
disse che volentieri; e tirato fuori i coltello, tutto infocato nel viso tra
per la fatica durata e per l'ira avuta della tornata del cavaliere, come la
donna gl'impose così fece. Il marito della donna, già nella corte smontato,
maravigliandosi del pallafreno e volendo su salire, vide messer Lambertuccio
scendere, e maravigliossi e delle parole e del viso di lui, e disse:
– Che è questo messere?
Messer Lambertuccio,
messo il piè nella staffa e montato su, non disse altro, se non:
– Al corpo di Dio, io il
giugnerò altrove –; e andò via.
Il gentile uomo montato
su trovò la donna sua in capo della scala tutta sgomentata e piena di paura,
alla quale egli disse:
– Che cosa è questa? Cui
va messer Lambertuccio così adirato minacciando?
La donna, tiratasi verso
la camera, acciò che Leonetto l'udisse, rispose:
– Messere, io non ebbi
mai simil paura a questa. Qua entro si fuggì un giovane, il quale io non
conosco e che esser Lambertuccio col coltello in man seguitava, e trovò per
ventura questa camera aperta, e tutto tremante disse: – Madonna, per Dio
aiutatemi, ché io non sia nelle braccia vostre morto –. Io mi levai diritta, e
come il voleva domandare chi fosse e che avesse, ed ecco messer Lambertuccio
venir su dicendo: – Dove sé, traditore? – Io mi parai in su l'uscio della
camera, e volendo egli entrar dentro, il ritenni, ed egli in tanto fu cortese
che, come vide che non mi piaceva che egli qua entro entrasse, dette molte
parole, se ne venne giù come voi vedeste. Disse allora il marito:
– Donna, ben facesti:
troppo ne sarebbe stato gran biasimo, se persona fosse stata qua entro uccisa;
e messer Lambertuccio fece gran villania a seguitar persona che qua entro
fuggita fosse.
Poi domandò dove fosse
quel giovane.
La donna rispose:
– Messere, io non so
dove egli si sia nascoso. Il cavaliere allora disse:
– Ove sé tu? Esci fuori
sicuramente.
Leonetto che ogni cosa
udita avea, tutto pauroso, come colui che paura aveva avuta da dovero, uscì
fuori del luogo dove nascoso s'era.
Disse allora il cavaliere:
– Che hai tu a fare con
messer Lambertuccio?
Il giovane rispose:
– Messer, niuna cosa che
sia in questo mondo; e per ciò io credo fermamente che egli non sia in buon
senno, o che egli m'abbia colto in iscambio; per ciò che, come poco lontano da
questo palagio nella strada mi vide, così mise mano al coltello, e disse: –
Traditor, tu se' morto –. Io non mi posi a domandare per che cagione, ma quanto
potei cominciai a fuggire e qui me ne venni dove, mercé di Dio e di questa
gentil donna, scampato sono. Disse allora il cavaliere:
– Or via, non aver paura
alcuna; io ti porrò a casa tua sano e salvo, e tu poi sappi far cercar quello
che con lui hai a fare.
E, come cenato ebbero,
fattol montare a cavallo, a Firenze il ne menò, e lasciollo a casa sua. Il
quale, secondo l'ammaestramento della donna avuto, quella sera medesima parlò
con messer Lambertuccio occultamente, e sì con lui ordinò, che quantunque poi
molte parole ne fossero, mai per ciò il cavalier non s'accorse della beffa
fattagli dalla moglie.
NOVELLA SETTIMA
Lodovico discuopre a
madonna Beatrice l'amore il quale egli le porta; la qual manda Egano suo marito
in un giardino in forma di sé, e con Lodovico si giace; il quale poi levatosi,
va e bastona Egano nel giardino.
Questo avvedimento di
madonna Isabella da Pampinea raccontato fu da ciascun della brigata tenuto
maraviglioso. Ma Filomena, alla quale il re imposto aveva che secondasse,
disse.
Amorose donne, se io non
ne sono ingannata, io ve ne credo uno non men bello raccontare, e prestamente.
Voi dovete sapere che in Parigi fu già un gentile uomo fiorentino, il quale per
povertà divenuto era mercatante, ed eragli sì bene avvenuto della mercatantia,
che egli ne era fatto ricchissimo, e avea della sua donna un figliuol senza
più, il quale egli aveva nominato Lodovico. E perché egli alla nobiltà del
padre e non alla mercatantia si traesse, non l'aveva il padre voluto mettere ad
alcun fondaco, ma l'avea messo ad essere con altri gentili uomini al servigio
del re di Francia, là dove egli assai di be'costumi e di buone cose aveva
apprese. E quivi dimorando, avvenne che certi cavalieri, li quali tornati erano
dal Sepolcro, sopravvenendo ad un ragionamento di giovani, nel quale Lodovico
era, e udendogli fra sé ragionare delle belle donne di Francia e d'Inghilterra
e d'altre parti del mondo, cominciò l'un di loro a dir che per certo di quanto
mondo egli aveva cerco e di quante donne vedute aveva mai, una simigliante alla
moglie d'Egano de' Galluzzi di Bologna, madonna Beatrice chiamata, veduta non
avea di bellezza; a che tutti i compagni suoi, che con lui insieme in Bologna
l'avean veduta, s'accordarono.
Le quali cose ascoltando
Lodovico, che d'alcuna ancora innamorato non s'era, s'accese in tanto disidero
di doverla vedere, che ad altro non poteva tenere il suo pensiere; e del tutto
disposto d'andare infino a Bologna a vederla, e quivi ancora dimorare, se ella
gli piacesse, fece veduto al padre che al Sepolcro voleva andare; il che con
grandissima malagevolezza ottenne.
Postosi adunque nome
Anichino, a Bologna pervenne, e, come la fortuna volle, il dì seguente vide
questa donna ad una festa, e troppo più bella gli parve assai che stimato non
avea; per che, innamoratosi ardentissimamente di lei, propose di mai di Bologna
non partirsi se egli il suo amore non acquistasse. E seco divisando che via
dovesse a ciò tenere, ogn'altro modo lasciando stare, avvisò che, se divenir
potesse famigliar del marito di lei, il qual molti ne teneva, per avventura gli
potrebbe venir fatto quel che egli disiderava.
Venduti adunque i suoi
cavalli, e la sua famiglia acconcia in guisa che stava bene, avendo lor
comandato che sembiante facessero di non conoscerlo, essendosi accontato con
l'oste suo, gli disse che volentier per servidore d'un signore da bene, se
alcun ne potesse trovare, starebbe. Al quale l'oste disse:
– Tu sédirittamente
famiglio da dovere esser caro ad un gentile uomo di questa terra che ha nome
Egano, il quale molti ne tiene, e tutti li vuole appariscenti come tu se': io
ne gli parlerò.
E come disse così fece;
e avanti che da Egano si partisse, ebbe con lui acconcio Anichino; il che
quanto più poté esser gli fu caro. E con Egano dimorando e avendo copia di
vedere assai spesso la sua donna, tanto bene e sì a grado cominciò a servire
Egano, che egli gli pose tanto amore, che senza lui niuna cosa sapeva fare; e
non solamente di sé, ma di tutte le sue cose gli aveva commesso il governo.
Avvenne un giorno che,
essendo andato Egano ad uccellare e Anichino rimaso a casa, madonna Beatrice,
che dello amor di lui accorta non s'era ancora quantunque seco, lui e' suoi
costumi guardando, più volte molto commendato l'avesse e piacessele, con lui si
mise a giucare a' scacchi; e Anichino, che di piacerle disiderava, assai
acconciamente faccendolo, si lasciava vincere, di che la donna faceva
maravigliosa festa. Ed essendosi da vedergli giucare tutte le femine della
donna partite, e soli giucando lasciatigli, Anichino gittò un grandissimo
sospiro. La donna guardatolo disse:
– Che avesti, Anichino?
Duolti così che io ti vinco?
– Madonna, – rispose
Anichino – troppo maggior cosa che questa non è fu cagion del mio sospiro.
Disse allora la donna:
– Deh dilmi per quanto
ben tu mi vuogli.
Quando Anichino si sentì
scongiurare – per quanto ben tu mi vuogli – a colei la quale egli sopra
ogn'altra cosa amava, egli ne mandò fuori un troppo maggiore che non era stato
il primo; per che la donna ancor da capo il ripregò che gli piacesse di dirle
qual fosse la cagione de' suoi sospiri. Alla quale Anichino disse:
– Madonna, io temo forte
che egli non vi sia noia, se io il vi dico; e appresso dubito che voi ad altra
persona nol ridiciate.
A cui la donna disse:
– Per certo egli non mi
sarà grave, e renditi sicuro di questo, che cosa che tu mi dica, se non quanto
ti piaccia, io non dirò mai ad altrui.
Allora disse Anichino:
– Poi che voi mi
promettete così, e io il vi dirò –; e quasi colle lagrime in sugli occhi le
disse chi egli era, quel che di lei aveva udito e dove e come di lei s'era
innamorato e come venuto e perché per servidor del marito di lei postosi; e
appresso umilemente, se esser potesse, la pregò che le dovesse piacere d'aver
pietà di lui, e in questo suo segreto e sì fervente disidero di compiacergli; e
che, dove questo far non volesse, che ella, lasciandolo star nella forma nella
qual si stava, fosse contenta che egli l'amasse.
O singular dolcezza del
sangue bolognese! Quanto sétu stata sempre da commendare in così fatti casi!
Mai né di lagrime né di sospir fosti vaga, e continuamente a' prieghi
pieghevole e agli amorosi disideri arrendevol fosti. Se io avessi degne lode da
commendarti, mai sazia non se ne vedrebbe la voce mia!
La gentil donna,
parlando Anichino, il riguardava, e dando piena fede alle sue parole, con sì
fatta forza ricevette per li prieghi di lui il suo amore nella mente, che essa
altressì cominciò a sospirare, e dopo alcun sospiro rispose:
– Anichino mio dolce,
sta di buon cuore; né doni né promesse né vagheggiare di gentile uomo né di
signore né d'alcuno altro (ché sono stata e sono ancor vagheggiata da molti)
mai potè muovere l'animo mio tanto che io alcuno n'amassi; ma tu m'hai fatta in
così poco spazio, come le tue parole durate sono, troppo più tua divenir che io
non son mia. Io giudico che tu ottimamente abbi il mio amor guadagnato, e per
ciò io il ti dono, e sì ti prometto che io te ne farò godente avanti che questa
notte che viene tutta trapassi. E acciò che questo abbia effetto, farai che in
su la mezza notte tu venghi alla camera mia; io lascerò l'uscio aperto; tu sai
da qual parte del letto io dormo; verrai là, e, se io dormissi, tanto mi tocca
che io mi svegli, e io ti consolerò di così lungo disio come avuto hai; e acciò
che tu questo creda, io ti voglio dare un bacio per arra –; e gittatogli il
braccio in collo, amorosamente il baciò, e Anichin lei.
Queste cose dette,
Anichin, lasciata la donna, andò a fare alcune sue bisogne, aspettando con la
maggior letizia del mondo che la notte sopravvenisse. Egano tornò da uccellare,
e come cenato ebbe, essendo stanco, s'andò a dormire, e la donna appresso, e,
come promesso avea, lasciò l'uscio della camera aperto.
Al quale, all'ora che
detta gli era stata, Anichin venne, e pianamente entrato nella camera e l'uscio
riserrato dentro, dal canto donde la donna dormiva se n'andò, e postale la mano
in sul petto, lei non dormente trovò; la quale come sentì Anichino esser
venuto, presa la sua mano con amendune le sue e tenendol forte, volgendosi per
lo letto tanto fece che Egano che dormiva destò, al quale ella disse:
– Io non ti volli
iersera dir cosa niuna, per ciò che tu mi parevi stanco; ma dimmi, se Dio ti
salvi, Egano, quale hai tu per lo migliore famigliare e per lo più leale e per
colui che più t'ami, di quegli che tu in casa hai?
Rispose Egano:
– Che è ciò, donna, di
che tu mi domandi? Nol conosci tu? Io non ho, né ebbi mai alcuno, di cui io
tanto mi fidassi o fidi o ami, quant'io mi fido e amo Anichino; ma perché me ne
domandi tu?
Anichino, sentendo desto
Egano e udendo di sé ragionare, aveva più volte a sé tirata la mano per
andarsene, temendo forte non la donna il volesse ingannare; ma ella l'aveva sì
tenuto e teneva, che egli non s'era potuto partire né poteva.
La donna rispose ad
Egano e disse:
– Io il ti dirò. Io mi
credeva che fosse ciò che tu di'e che egli più fede che alcuno altro ti
portasse; ma me ha egli sgannata, per ciò che, quando tu andasti oggi ad
uccellare, egli rimase qui, e quando tempo gli parve, non si vergognò di
richiedermi che io dovessi, a' suoi piaceri acconsentirmi; e io, acciò che
questa cosa non mi bisognasse con troppe pruove mostrarti e per farlati toccare
e vedere, risposi che io era contenta e che stanotte, passata mezzanotte, io
andrei nel giardino nostro e a piè del pino l'aspetterei. Ora io per me non
intendo d'andarvi; ma, se tu vuogli la fedeltà del tuo famiglio cognoscere, tu
puoi leggiermente, mettendoti indosso una delle guarnacche mie e in capo un
velo, e andare laggiuso ad aspettare se egli vi verrà, ché son certa del sì.
Egano udendo questo
disse:
– Per certo io il
convengo vedere –; e levatosi, come meglio seppe al buio, si mise una guarnacca
della donna e un velo in capo, e andossen nel giardino e a piè d'un pino
cominciò ad attendere Anichino. La donna, come sentì lui levato e uscito della
camera, così si levò e l'uscio di quella dentro serrò.
Anichino, il quale la
maggior paura che avesse mai avuta avea, e che quanto potuto avea s'era
sforzato d'uscire delle mani della donna e centomila volte lei e il suo amore e
sé che fidato se n'era avea maladetto, sentendo ciò che alla fine aveva fatto,
fu il più contento uomo che fosse mai; ed essendo la donna tornata nel letto,
come ella volle, con lei si spogliò, e insieme presero piacere e gioia per un
buono spazio di tempo. Poi, non parendo alla donna che Anichino dovesse più
stare, il fece levar suso e rivestire, e sì gli disse:
– Bocca mia dolce, tu
prenderai un buon bastone e andra'tene al giardino, e faccendo sembianti
d'avermi richiesta per tentarmi, come se io fossi dessa, dirai villania ad
Egano e sonera'mel bene col bastone, per ciò che di questo ne seguirà
maraviglioso diletto e piacere. Anichino levatosi e nel giardino andatosene con
un pezzo di saligastro in mano, come fu presso al pino e Egano il vide venire,
così levatosi come con grandissima festa riceverlo volesse, gli si faceva
incontro. Al quale Anichin disse:
– Ahi malvagia femina,
dunque ci sévenuta, e hai creduto che io volessi o voglia al mio signor far
questo fallo? Tu sii la mal venuta per le mille volte! –; e alzato il bastone,
lo incominciò a sonare.
Egano, udendo questo e
veggendo il bastone, senza dir parola cominciò a fuggire, e Anichino appresso
sempre dicendo:
– Via, che Dio vi metta
in malanno, rea femina, ché io il dirò domatina ad Egano per certo.
Egano avendone avute
parecchie delle buone, come più tosto poté, se ne tornò alla camera; il quale
la donna domandò se Anichin fosse al giardin venuto. Egano disse:
– Così non fosse egli,
per ciò che, credendo esso che io fossi te, m'ha con un bastone tutto rotto, e
dettami la maggior villania che mai si dicesse a niuna cattiva femina; e per
certo io mi maravigliava forte di lui che egli con animo di far cosa che mi
fosse vergogna t'avesse quelle parole dette; ma, per ciò che così lieta e
festante ti vede, ti volle provare.
Allora disse la donna:
– Lodato sia Iddio, che
egli ha me provata con parole e te con fatti, e credo che egli possa dire che
io comporti con più pazienzia le parole che tu i fatti non fai. Ma poi che
tanta fede ti porta, si vuole aver caro e fargli onore.
Egano disse:
– Per certo tu di'il
vero.
E, da questo prendendo
argomento, era in oppinione d'avere la più leal donna e il più fedel servidore
che mai avesse alcun gentile uomo. Per la qual cosa, come che poi più volte con
Anichino ed egli e la donna ridesser di questo fatto, Anichino e la donna
ebbero assai più agio, di quello per avventura che avuto non avrebbono, a far
di quello che loro era diletto e piacere, mentre ad Anichin piacque di dimorar
con Egano in Bologna.
NOVELLA OTTAVA
Un diviene geloso della
moglie, ed ella, legandosi uno spago al dito la notte, sente il suo amante
venire a lei. Il marito se n'accorge, e mentre seguita l'amante, la donna mette
in luogo di sé nel letto un'altra femina, la quale il marito batte e tagliale
le trecce, e poi va per li fratelli di lei, li quali, trovando ciò non esser
vero, gli dicono villania.
Stranamente pareva a
tutti madonna Beatrice essere stata maliziosa in beffare il suo marito, e
ciascuno affermava dovere essere stata la paura d'Anichino grandissima, quando,
tenuto forte dalla donna, l'udì dire che egli d'amore l'aveva richesta; ma poi
che il re vide Filomena tacersi, verso Neifile voltosi, disse:
– Dite voi.
La qual, sorridendo
prima un poco, cominciò. Belle donne, gran peso mi resta se io vorrò con una
bella novella contentarvi, come quelle che davanti hanno detto contentate
v'hanno; del quale con l'aiuto di Dio io spero assai bene scaricarmi. Dovete
dunque sapere che nella nostra città fu già un ricchissimo mercatante chiamato
Arriguccio Berlinghieri, il quale scioccamente, sì come ancora oggi fanno tutto
'l dì i mercatanti pensò di volere ingentilire per moglie, e prese una giovane
gentil donna male a lui convenientesi, il cui nome fu monna Sismonda. La quale,
per ciò che egli, sì come i mercatanti fanno, andava molto dattorno e poco con
lei dimorava, s'innamorò d'un giovane chiamato Ruberto, il quale lungamente
vagheggiata l'avea.
E avendo presa sua
dimestichezza e quella forse men discretamente usando, per ciò che sommamente
le dilettava, avvenne o che Arriguccio alcuna cosa ne sentisse, o come che
s'andasse, egli ne diventò il più geloso uom del mondo, e lascionne stare
l'andar dattorno e ogni al tro suo fatto, e quasi tutta la sua sollicitudine
aveva posta in guardar ben costei; né mai addormentato si sarebbe, se lei
primieramente non avesse sentita entrar nel letto; per la qual cosa la donna
sentiva gravissimo dolore, per ciò che in guisa niuna col suo Ruberto esser
poteva. Or pure, avendo molti pensieri avuti a dover trovare alcun modo d'esser
con essolui, e molto ancora da lui essendone sollicitata, le venne pensato di
tenere questa maniera: che, con ciò fosse cosa che la sua camera fosse lungo la
via, ed ella si fosse molte volte accorta che Arriguccio assai ad addormentarsi
penasse, ma poi dormiva saldissimo, avvisò di dover far venire Ruberto in su la
mezza notte all'uscio della casa sua e d'andargli ad aprire e a starsi alquanto
con essolui mentre il marito dormiva forte. E a fare che ella il sentisse
quando venuto fosse, in guisa che persona non se ne accorgesse, divisò di
mandare uno spaghetto fuori della finestra della camera, il quale con l'un de'
capi vicino alla terra aggiugnesse, e l'altro capo mandatol basso infin sopra
'l palco e conducendolo al letto suo, quello sotto i panni mettere, e quando
essa nel letto fosse, legarlosi al dito grosso del piede.
E appresso, mandato
questo a dire a Ruberto, gl'impose che, quando venisse, dovesse lo spago
tirare, ed ella, se il marito dormisse, il lascerebbe andare e andrebbegli ad
aprire; e s'egli non dormisse, ella il terrebbe fermo e tirerebbelo a sé, acciò
che egli non aspettasse: la qual cosa piacque a Ruberto, e assai volte
andatovi, alcuna gli venne fatto d'esser con lei, e alcuna no. Ultimamente,
continuando costoro questo artificio così fatto, avvenne una notte che,
dormendo la donna e Arriguccio stendendo il piè per lo letto, gli venne questo
spago trovato; per che, postavi la mano e trovatolo al dito della donna legato,
disse seco stesso: – Per certo questo dee essere qualche inganno –. E
avvedutosi poi che lo spago usciva fuori per la finestra, l'ebbe per fermo; per
che, pianamente tagliatolo dal dito della donna, al suo il legò, e stette
attento per vedere quel che questo volesse dire.
Né stette guari che
Ruberto venne, e tirato lo spago, come usato era, Arriguccio si sentì, e non
avendoselo ben saputo legare, e Ruberto avendo tirato forte ed essendogli lo
spago in man venuto, intese di doversi aspettare, e così fece.
Arriguccio, levatosi
prestamente e prese sue armi, corse all'uscio, per dover vedere chi fosse
costui, e per fargli male. Ora era Arriguccio, con tutto che fosse mercatante,
un fiero e un forte uomo; e giunto all'uscio e non aprendolo soavemente come
soleva far la donna, e Ruberto che aspettava sentendolo, s'avvisò esser quello
che era, cioè che colui che l'uscio apriva fosse Arriguccio; per che
prestamente cominciò a fuggire, e Arriguccio a seguitarlo.
Ultimamente, avendo
Ruberto un gran pezzo fuggito e colui non cessando di seguitarlo, essendo
altressì Ruberto armato, tirò fuori la spada e rivolsesi, e incominciarono
l'uno a volere offendere e l'altro a difendersi. La donna, come Arriguccio aprì
la camera, svegliatasi e trovatosi tagliato lo spago dal dito, incontanente
s'accorse che 'l suo inganno era scoperto; e sentendo Arriguccio esser corso
dietro a Ruberto, prestamente levatasi, avvisandosi ciò che doveva potere
avvenire, chiamò la fante sua, la quale ogni cosa sapeva, e tanto la predicò,
che ella in persona di sé nel suo letto la mise, pregandola che, senza farsi
conoscere, quel le busse pazientemente ricevesse che Arriguccio le desse, per
ciò che ella ne le renderebbe sì fatto merito, che ella non avrebbe cagione
donde dolersi. E spento il lume che nella camera ardeva, di quella s'uscì, e
nascosa in una parte della casa cominciò ad aspettare quello che dovesse
avvenire.
Essendo tra Arriguccio e
Ruberto la zuffa, i vicini della contrada, sentendola e levatisi, cominciarono
loro a dir male; e Arriguccio, per tema di non esser conosciuto, senza aver potuto
sapere chi il giovane si fosse o d'alcuna cosa offenderlo, adirato e di mal
talento, lasciatolo stare, se ne tornò verso la casa sua; e pervenuto nella
camera adiratamente cominciò a dire:
– Ove sétu, rea femina?
Tu hai spento il lume perché io non ti truovi, ma tu l'hai fallita.
E andatosene al letto,
credendosi la moglie pigliare, prese la fante, e quanto egli potè menare le
mani e' piedi, tante pugna e tanti calci le diede, che tutto il viso l'ammaccò;
e ultimamente le tagliò i capegli, sempre dicendole la maggior villania che mai
a cattiva femina si dicesse.
La fante piagneva forte,
come colei che aveva di che; e ancora che ella alcuna volta dicesse: – Ohimè,
mercé per Dio; oh, non più –; era sì la voce dal pianto rotta, e Arriguccio
impedito dal suo furore, che discerner non poteva più quella esser d'un'altra
femina che della moglie Battutala adunque di santa ragione e tagliatile i
capegli, come dicemmo, disse:
– Malvagia femina, io
non intendo di toccarti altramenti, ma io andrò per li tuoi fratelli e dirò
loro le tue buone opere; e appresso che essi vengan per te e faccianne quello
che essi credono che loro onor sia, e menintene; ché per certo in questa casa
non starai tu mai più.
E così detto, uscito
della camera, la serrò di fuori e andò tutto sol via.
Come monna Sismonda, che
ogni cosa udita aveva, sentì il marito essere andato via, così, aperta la
camera e racceso il lume, trovò la fante sua tutta pesta che piagneva forte; la
quale, come poté il meglio, racconsolò, e nella camera di lei la rimise, dove
poi chetamente fattala servire e governare, sì di quello d'Arriguccio medesimo
la sovvenne che ella si chiamò per contenta. E come la fante nella sua camera
rimessa ebbe, così prestamente il letto della sua rifece, e quella tutta
racconciò e rimise in ordine, come se quella notte niuna persona giaciuta vi
fosse, e raccese la lampana e sé rivestì e racconciò, come se ancora al letto
non si fosse andata; e accesa una lucerna e presi suoi panni, in capo della
scala si pose a sedere, e cominciò a cucire e ad aspettare quello a che il
fatto dovesse riuscire.
Arriguccio, uscito di
casa sua, quanto più tosto potè n'andò alla casa de' fratelli della moglie, e
quivi tanto picchiò che fu sentito e fugli aperto. Li fratelli della donna, che
eran tre, e la madre di lei, sentendo che Arriguccio era, tutti si levarono, e
fatto accendere de' lumi vennero a lui e domandaronlo quello che egli a quella
ora e così solo andasse cercando.
A' quali Arriguccio, cominciandosi
dallo spago che trovato aveva legato al dito del piè di monna Sismonda, infino
all'ultimo di ciò che trovato e fatto avea, narrò loro; e per fare loro intera
testimonianza di ciò che fatto avesse, i capelli che alla moglie tagliati aver
credeva lor pose in mano, aggiugnendo che per lei venissero e quel ne facessero
che essi credessero che al loro onore appartenesse, per ciò che egli non
intendeva di mai più in casa tenerla.
I fratelli della donna,
crucciati forte di ciò che udito avevano e per fermo tenendolo, contro a lei
inanimati, fatti accender de' torchi, con intenzione di farle un mal giuoco,
con Arriguccio si misero in via e andaronne a casa sua. Il che veggendo la
madre di loro, piagnendo gl'incominciò a seguitare, or l'uno e or l'altro pregando
che non dovessero queste cose così subitamente credere, senza vederne altro o
saperne; per ciò che il marito poteva per altra cagione esser crucciato con lei
e averle fatto male, e ora apporle questo per iscusa di sé; dicendo ancora che
ella si maravigliava forte come ciò potesse essere avvenuto, per ciò che ella
conosceva ben la sua fi gliuola, sì come colei che infino da piccolina l'aveva
allevata; e molte altre parole simiglianti.
Pervenuti adunque a casa
d'Arriguccio ed entrati dentro, cominciarono a salir le scale. Li quali monna
Sismonda sentendo venire, disse:
– Chi è là?
Alla quale l'un de'
fratelli rispose:
– Tu il saprai bene, rea
femina, chi è.
Disse allora monna
Sismonda:
– Ora che vorrà dir
questo? Domine, aiutaci. – E levatasi in piè disse:
– Fratelli miei, voi
siate i benvenuti; che andate voi cercando a questa ora quincentro tutti e tre?
Costoro, avendola veduta
a sedere e cucire e senza alcuna vista nel viso d'essere stata battuta, dove
Arriguccio aveva detto che tutta l'aveva pesta, alquanto nella prima giunta si
maravigliarono e rifrenarono l'impeto della loro ira, e domandaronla come stato
fosse quello di che Arriguccio di lei si doleva, minacciandola forte se ogni
cosa non dicesse loro.
La donna disse:
– Io non so ciò che io
mi vi debba dire, né di che Arriguccio di me vi si debba esser doluto.
Arriguccio, vedendola,
la guatava come smemorato, ricordandosi che egli l'aveva dati forse mille
punzoni per lo viso e graffiatogliele e fattole tutti i mali del mondo, e ora la
vedeva come se di ciò niente fosse stato. In brieve i fratelli le dissero ciò
che Arriguccio loro aveva detto, e dello spago e delle battiture e di tutto. La
donna, rivolta ad Arriguccio, disse:
– Ohimè, marito mio, che
è quel ch'io odo? Perché fai tu tener me rea femina con tua gran vergogna, dove
io non sono, e te malvagio uomo e crudele di quello che tu non sé? E quando
fostù questa notte più in questa casa, non che con meco? O quando mi battesti
tu? Io per me non me ne ricordo.
Arriguccio cominciò a
dire:
– Come, rea femina, non
ci andammo noi iersera al letto insieme? Non ci tornai io, avendo corso dietro
all'amante tuo? Non ti diedi io di molte busse, e taglia'ti i capegli?
La donna rispose:
– In questa casa non ti
coricasti tu iersera. Ma lasciamo stare di questo, ché non ne posso altra
testimonianza fare che le mie vere parole, e veniamo a quello che tu di', che
mi battesti e tagliasti i capegli. Me non battestù mai, e quanti n'ha qui e tu
altressì mi ponete mente se io ho segno alcuno per tutta la persona di
battitura; né ti consiglierei che tu fossi tanto ardito che tu mano addosso mi
ponessi, ché, alla croce di Dio, io ti sviserei. Né i capegli altressì mi
tagliasti, che io sentissi o vedessi; ma forse il facesti che io non me
n'avvidi: lasciami vedere se io gli ho tagliati o no.
E, levatisi suoi veli di
testa, mostrò che tagliati non gli avea, ma interi.
Le quali cose e vedendo
e udendo i fratelli e la madre, cominciarono verso d'Arriguccio a dire:
– Che vuoi tu dire,
Arriguccio? Questo non è già quello che tu ne venisti a dire che avevi fatto; e
non sappiam noi come tu ti proverrai il rimanente.
Arriguccio stava come
trasognato e voleva pur dire; ma, veggendo che quello ch'egli credea poter
mostrare non era così, non s'attentava di dir nulla.
La donna, rivolta verso
i fratelli, disse:
– Fratei miei, io veggio
che egli è andato cercando che io faccia quello che io non volli mai fare, cioè
ch'io vi racconti le miserie e le cattività sue, e io il farò. Io credo
fermamente che ciò che egli v'ha detto gli sia intervenuto e abbial fatto; e
udite come.
Questo valente uomo, al
qual voi nella mia mala ora per moglie mi deste, che si chiama mercatante e che
vuole esser creduto e che dovrebbe esser più temperato che uno religioso e più
onesto che una donzella, son poche sere che egli non si vada inebbriando per le
taverne, e or con questa cattiva femina e or con quella rimescolando; e a me si
fa infino a mezza notte e talora infino a matutino aspettare, nella maniera che
mi trovaste. Son certa che, essendo bene ebbro, si mise a giacere con alcuna
sua trista, e a lei destandosi trovò lo spago al piede e poi fece tutte quelle
sue gagliardie che egli dice, e ultimamente tornò a lei e battella e tagliolle
i capegli; e non essendo ancora ben tornato in sé, si credette, e son certa che
egli crede ancora, queste cose aver fatte a me; e se voi il porrete ben mente
nel viso, egli è ancora mezzo ebbro. Ma tuttavia, che che egli s'abbia di me
detto, io non voglio che voi il vi rechiate se non come da uno ubriaco; e
poscia che io gli perdono io, gli perdonate voi altressì.
La madre di lei, udendo
queste cose, cominciò a fare romore e a dire:
– Alla croce di Dio,
figliuola mia, cotesto non si votrebbe fare; anzi si vorrebbe uccidere questo
can fastidioso e sconoscente, ché egli non ne fu degno d'avere una figliuola
fatta come sétu. Frate, bene sta!; Basterebbe se egli t'avesse ricolta del
fango. Col malanno possa egli essere oggimai, se tu dei stare al fracidume
delle parole di un mercantuzzo di feccia d'asino, che venutici di contado e
usciti delle troiate, vestiti di romagnuolo, con le calze a campanile e con ]a
penna in culo, come egli hanno tre soldi, vogliono le figliuole de' gentili
uomini e delle buone donne per moglie, e fanno arme e dicono:
–I' son de' cotali – e –
quei di casa mia fecer così. – Ben vorrei che'miei figliuoli n'avesser seguito
il mio consiglio, ché ti potevano così orrevolmente acconciare in casa i conti
Guidi con un pezzo di pane, ed essi vollon pur darti a questa bella gioia, che,
dove tu se' la miglior figliuola di Firenze e la più onesta, egli non s'è
vergognato di mezza notte di dir che tu sii puttana, quasi noi non ti
conoscessimo; ma, alla fè di Dio, se me ne fosse creduto, se ne gli darebbe sì
fatta gastigatoia che gli putirebbe. E, rivolta a' figliuoli, disse:
– Figliuoli miei, io il
vi dicea bene che questo non doveva potere essere. Avete voi udito come il
buono vostro cognato tratta la sirocchia vostra? Mercatantuolo di quattro
denari che egli è! Ché, se io fossi come voi, avendo detto quello che egli ha
di lei e faccendo quello che egli fa, io non mi terrei mai né contenta né
appagata, se io nollo levassi di terra; e se io fossi uomo come io son femina,
io non vorrei che altri ch'io se ne 'mpacciasse. Domine, fallo tristo: ubriaco
doloroso che non si vergogna! I giovani, vedute e udite queste cose, rivoltisi
ad Arriguccio, gli dissero la maggior villania che mai a niun cattivo uom si
dicesse; e ultimamente dissero:
– Noi ti perdoniam
questa si come ad ebbro; ma guarda che per la vita tua da quinci innanzi simili
novelle noi non sentiamo più, ché per certo, se più nulla ce ne viene agli
orecchi, noi ti pagheremo di questa e di quella –; e così detto, se n'andarono.
Arriguccio, rimaso come
uno smemorato, seco stesso non sappiendo se quello che fatto avea era stato
vero o s'egli aveva sognato, senza più farne parola, lasciò la moglie in pace.
La qual, non solamente colla sua sagacità fuggì il pericol sopra stante ma
s'aperse la via a poter fare nel tempo avvenire ogni suo piacere, senza paura
alcuna più aver del marito.
NOVELLA NONA
Lidia moglie di
Nicostrato ama Pirro, il quale, acciò che credere il possa, le chiede tre cose,
le quali ella gli fa tutte; e oltre a questo in presenza di Nicostrato si
sollazza con lui, e a Nicostrato fa credere che non sia vero quello che ha
veduto.
Tanto era piaciuta la
novella di Neifile, che né di ridere né di ragionar di quella si potevano le
donne tenere, quantunque il re più volte silenzio loro avesse imposto, avendo
comandato a Panfilo che la sua dicesse. Ma pur, poi che tacquero, così Panfilo
incominciò.
Io non credo, reverende
donne, che niuna cosa sia, quantunque sia grave e dubbiosa, che a far non
ardisca chi ferventemente ama. La qual cosa quantunque in assai novelle sia stato
dimostrato, nondimeno io il mi credo molto più, con una che dirvi intendo,
mostrare, dove udirete d'una donna, alla qua le nelle sue opere fu troppo più
favorevole la fortuna, che la ragione avveduta; e per ciò non consiglierei io
alcuna che dietro alle pedate di colei, di cui dire intendo, s'arrischiasse
d'andare, per ciò che non sempre è la fortuna in un modo disposta, né sono al
mondo tutti gli uomini abbagliati igualmente. In Argo, antichissima città di
Grecia, per li suoi passati re molto più famosa che grande, fu già uno nobile
uomo, il quale appellato fu Nicostrato, a cui già vicino alla vecchiezza la
fortuna concedette per moglie una gran donna, non meno ardita che bella, detta
per nome Lidia.
Teneva costui, sì come
nobile uomo e ricco, molta famiglia e cani e uccelli, e grandissimo diletto
prendea nelle cacce; e aveva tra gli altri suoi famigliari un giovinetto
leggiadro e adorno e bello della persona e destro a qualunque cosa avesse
voluta fare, chiamato Pirro; il quale Nicostrato oltre ad ogni altro amava e
più di lui si fidava.
Di costui Lidia
s'innamorò forte, tanto che né dì né notte in altra parte che con lui aver
poteva il pensiere; del quale amore, o che Pirro non s'avvedesse o non volesse,
niente mostrava se ne curasse, di che la donna intollerabile noia portava
nell'animo. E disposta del tutto di fargliele sentire, chiamò a sé una sua
cameriera nomata Lusca, della quale ella si confidava molto, e sì le disse:
– Lusca, li benefici li
quali tu hai da me ricevuti ti debbono fare a me obediente e fedele; e per ciò
guarda che quello che io al presente ti dirò niuna persona senta giammai se non
colui al quale da me ti fia imposto. Come tu vedi, Lusca, io son giovane e
fresca donna, e piena e copiosa di tutte quelle cose che alcuna può disiderare;
e brievemente, fuor che d'una, non mi posso rammaricare, e questa è che gli
anni del mio marito son troppi, se co' miei si misurano, per la qual cosa di
quello che le giovani donne prendono più piacere io vivo poco contenta; e pur
come l'altre disiderandolo, è buona pezza che io diliberai meco di non volere,
se la fortuna m'è stata poco amica in darmi così vecchio marito, essere io
nimica di me medesima in non saper trovar modo a' miei diletti e alla mia
salute; e per avergli così compiuti in questo come nell'altre cose, ho per
partito preso di volere, sì come di ciò più degno che alcun altro, che il
nostro Pirro co' suoi abbracciamenti gli supplisca, e ho tanto amore in lui
posto, che io non sento mai bene se non tanto quanto io il veggio o di lui penso;
e se io senza indugio non mi ritruovo seco, per certo io me ne credo morire. E
per ciò, se la mia vita t'è cara, per quel modo che miglior ti parrà, il mio
amore gli significherai e sì 'l pregherai da mia parte che gli piaccia di
venire a me quando tu per lui andrai.
La cameriera disse di
farlo volentieri; e come prima tempo e luogo le parve, tratto Pirro da parte,
quanto seppe il meglio l'ambasciata gli fece della sua donna. La qual cosa
udendo Pirro, si maravigliò forte, sì come co lui che mai d'alcuna cosa
avveduto non s'era, e dubitò non la donna ciò facesse dirgli per tentarlo; per
che subito e ruvidamente rispose:
– Lusca, io non posso
credere che queste parole vengano dalla mia donna, e per ciò guarda quel che tu
parli; e se pure da lei venissero, non credo che con l'animo dir te le faccia;
e se pur con l'animo dir le facesse, il mio signore mi fa più onore che io non
vaglio; io non farei a lui sì fatto oltraggio per la vita mia; e però guarda
che tu più di sì fatte cose non mi ragioni.
La Lusca, non sbigottita
per lo suo rigido parlare, gli disse:
– Pirro, e di queste e
d'ogn'altra cosa che la mia donna m'imporrà ti parlerò io quante volte ella il
mi comanderà, o piacere o noia ch'egli ti debbia essere; ma tu se' una bestia.
E turbatetta con le
parole di Pirro se ne tornò alla donna, la quale udendole disiderò di morire, e
dopo alcun giorno riparlò alla cameriera e disse:
– Lusca, tu sai che per
lo primo colpo non cade la quercia; per che a me pare che tu da capo ritorni a
colui che in mio pregiudicio nuovamente vuol divenir leale, e, prendendo tempo
convenevole, gli mostra interamente il mio ardore e in tutto t'ingegna di far
che la cosa abbia effetto; però che, se così s'intralasciasse, io ne morrei ed
egli si crederebbe esser stato tentato; e dove il suo amor cerchiamo, ne
seguirebbe odio. La cameriera confortò la donna, e cercato di Pirro, il trovò
lieto e ben disposto, e sì gli disse:
– Pirro, io ti mostrai,
pochi dì sono, in quanto fuoco la tua donna e mia stea per l'amor che ella ti
porta, e ora da capo te ne rifò certo, che, dove tu in su la durezza che
l'altrieri dimostrasti dimori, vivi sicuro che ella viverà poco; per che io ti
priego che ti piaccia di consolarla del suo disiderio; e dove tu pure in su la tua
ostinazione stessi duro, là dove io per molto savio t'aveva, io t'avrò per uno
scioccone. Che gloria ti può egli esser maggiore che una così fatta donna, così
bella, così gentile e così ricca, te sopra ogni altra cosa ami? Appresso
questo, quanto ti puo'tu conoscere alla fortuna obligato, pensando che ella
t'abbia parata dinanzi così fatta cosa, e a' disideri della tua giovinezza
atta, e ancora un così fatto rifugio a' tuoi bisogni! Qual tuo pari conosci tu
che per via di diletto meglio stea che starai tu, se tu sarai savio? Quale
altro troverai tu che in arme, in cavalli, in robe e in denari possa star come
tu starai, volendo il tuo amor concedere a costei?
Apri adunque l'animo
alle mie parole e in te ritorna; e ricordati che una volta senza più suole avvenire
che la Fortuna si fa altrui incontro col viso lieto e col grembo aperto; la
quale chi allora non sa ricevere, poi, trovandosi povero e mendico, di sé e non
di lei s'ha a rammaricare. E oltre a questo non si vuol quella lealtà tra'
servidori usare e' signori, che tra gli amici e pari si conviene; anzi gli
deono così i servidori trattare, in quel che possono, come essi da loro
trattati sono. Speri tu, se tu avessi o bella moglie o madre o figliuola o
sorella che a Nicostrato piacesse, che egli andasse la lealtà ritrovando che tu
servar vuoi a lui della sua donna? Sciocco sé se tu 'l credi: abbi di certo, se
le lusinghe e' prieghi non bastassono, che che ne dovesse a te parere, e' vi si
adoperrebbe la forza. Trattiamo adunque loro e le lor cose come essi noi e le
nostre trattano. Usa il beneficio della Fortuna; non la cacciare, falleti
incontro e lei vegnente ricevi, ché per certo, se tu nol fai, lasciamo stare la
morte la quale senza fallo alla tua donna ne seguirà, ma tu ancora te ne
penterai tante volte che tu ne vorrai morire.
Pirro, il qual più fiate
sopra le parole che la Lusca dette gli avea avea ripensato, per partito avea
preso che, se ella più a lui ritornasse, di fare altra risposta e del tutto
recarsi a compiacere alla donna, dove certificar si potesse che tentato non
fosse; e per ciò rispose:
– Vedi, Lusca, tutte le
cose che tu mi di'io le conosco vere, ma io conosco d'altra parte il mio
signore molto savio e molto avveduto, e ponendomi tutti i suoi fatti in mano,
io temo forte che Lidia con consiglio e voler di lui questo non faccia per
dovermi tentare; e per ciò, dove tre cose ch'io domanderò voglia fare a
chiarezza di me, per certo niuna cosa mi comanderà poi che io prestamente non
faccia. E quelle tre cose che io voglio son queste: primieramente che in
presenzia di Nicostrato ella uccida il suo buono sparviere; appresso ch'ella mi
mandi una ciocchetta della barba di Nicostrato; e ultimamente un dente di
quegli di lui medesimo de' migliori. Queste cose parvono alla Lusca gravi e
alla donna gravissime; ma pure Amore, (che è buono confortatore e gran maestro
di consigli, le fece diliberar di farlo, e per la sua cameriera gli mandò
dicendo che quello che egli aveva addimandato pienamente fornirebbe, e tosto; e
oltre a ciò, per ciò che egli così savio reputava Nicostrato, disse che in
presenzia di lui con Pirro si sollazzerebbe e a Nicostrato farebbe credere che
ciò non fosse vero. Pirro adunque cominciò ad aspettare quello che far dovesse
la gentil donna; la quale, avendo ivi a pochi dì Nicostrato dato un gran
desinare, sì come usava spesse volte di fare, a certi gentili uomini, ed
essendo già levate le tavole, vestita d'uno sciamito verde e ornata molto, e
uscita della sua camera, in quella sala venne dove costoro erano, e veggente
Pirro e ciascuno altro, se n'andò alla stanga sopra la quale lo sparviere era
cotanto da Nicostrato tenuto caro, e scioltolo, quasi in mano sel volesse
levare, e presolo per li geti, al muro il percosse e ucciselo. E gridando verso
lei Nicostrato: – Ohimè, donna, che hai tu fatto? – niente a lui rispose; ma,
rivolta a' gentili uomini che con lui avevan mangiato, disse:
– Signori, mal prenderei
vendetta d'un re che mi facesse dispetto, se d'uno sparvier non avessi ardir di
pigliarla. Voi dovete sapere che questo uccello tutto il tempo da dover essere
prestato dagli uomini al piacer delle donne lungamente m'ha tolto; per ciò che,
sì come l'aurora suole apparire, così Nicostrato s'è levato, e salito a cavallo
col suo sparviere in mano n'è andato alle pianure aperte a vederlo volare; e
io, qual voi mi vedete, sola e mal contenta nel letto mi sono rimasa; per la
qual cosa ho più volte avuta voglia di far ciò che io ho ora fatto, né altra
cagione m'ha di ciò ritenuta se non l'aspettar di farlo in presenzia d'uomini
che giusti giudici sieno alla mia querela, sì come io credo che voi sarete.
I gentili uomini che
l'udivano, credendo non altramente esser fatta la sua affezione a Nicostrato
che sonasser le parole, ridendo ciascuno e verso Nicostrato rivolti che turbato
era cominciarono a dire:
– Deh! come la donna ha
ben fatto a vendicare la sua ingiuria con la morte dello sparviere! – e con
diversi motti sopra così fatta materia, essendosi già la donna in camera
ritornata, in riso rivolsero il cruccio di Nicostrato.
Pirro, veduto questo,
seco medesimo disse:
- Alti principii ha dati
la donna a' miei felici amori; faccia Iddio che ella perseveri.
Ucciso adunque da Lidia
lo sparviere, non trapassar molti giorni che, essendo ella nella sua camera
insieme con Nicostrato, faccendogli carezze, con lui cominciò a cianciare, ed
egli per sollazzo alquanto tiratala per li capelli, le diè cagione di mandare ad
effetto la seconda cosa a lei domandata da Pirro; e prestamente lui per un
picciolo lucignoletto preso della sua barba e ridendo, sì forte il tirò che
tutto del mento gliele divelse. Di che ramaricandosi Nicostrato, ella disse:
– Or che avesti, che fai
cotal viso per ciò che io t'ho tratti forse sei peli della barba? Tu non
sentivi quel ch'io, quando tu mi tiravi testeso i capelli.
E così d'una parola in
una altra continuando il lor sollazzo, la donna cautamente guardò la ciocca
della barba che tratta gli avea, e il dì medesimo la mandò al suo caro amante.
Della terza cosa entrò
la donna in più pensiero; ma pur, sì come quella che era d'alto ingegno e Amor
la faceva vie più, s'ebbe pensato che modo tener dovesse a darle compimento.
E avendo Nicostrato due
fanciulli datigli da' padri loro acciò che in casa sua, per ciò che gentili
uomini erano, apparassono alcun costume, dei quali, quando Nicostrato mangiava,
l'uno gli tagliava innanzi e l'altro gli dava bere, fattigli chiamare amenduni,
fece lor vedere che la bocca putiva loro e ammaestrogli che quando a Nicostrato
servissono, tirassono il capo indietro il più che potessono, né questo mai
dicessero a persona. I giovanetti, credendole, cominciarono a tenere quella
maniera che la donna aveva lor mostrata. Per che ella una volta domandò
Nicostrato:
– Se'ti tu accorto di
ciò che questi fanciulli fanno quando ti servono?
Disse Nicostrato:
– Mai sì, anzi gli ho io
voluti domandare perché il facciano. A cui la donna disse:
– Non fare, ché io il ti
so dire io, e holti buona pezza taciuto per non fartene noia; ma ora che io
m'accorgo che altri comincia ad avvedersene, non è più da celarloti. Questo non
ti avviene per altro, se non che la bocca ti pute fieramente, e non so qual si
sia la cagione, per ciò che ciò non soleva essere; e questa è bruttissima cosa,
avendo tu ad usare con gentili uomini; e per ciò si vorrebbe veder modo di
curarla.
Disse allora Nicostrato:
– Che potrebbe ciò
essere? Avrei io in bocca dente niun guasto?
A cui Lidia disse:
– Forse che sì –; e
menatolo ad una finestra, gli fece aprire la bocca, e poscia che ella ebbe
d'una patte e d'altra riguardato, disse:
– O Nicostrato, e come
il puoi tu tanto aver patito? Tu n'hai uno da questa parte, il quale, per quel
che mi paia, non solamente è magagnato, ma egli è tutto fracido, e fermamente,
se tu il terrai guari in bocca, egli guasterà quegli che son da lato; per che
io ti consiglierei che tu nel cacciassi fuori, prima che l'opera andasse più
innanzi. Disse allora Nicostrato:
– Da poi che egli ti
pare, ed egli mi piace; mandisi senza più indugio per un maestro il qual mel
tragga. Al quale la donna disse:
– Non piaccia a Dio che
qui per questo venga maestro; e' mi pare che egli stea in maniera, che senza
alcun maestro io medesima tel trarrò ottimamente. E d'altra parte questi
maestri son sì crudeli a far questi servigi, che il cuore nol mi patirebbe per
niuna maniera di vederti o di sentirti tra le mani a niuno; e per ciò del tutto
io voglio fare io medesima; ché almeno, se egli ti dorrà troppo, ti lascerò io
incontanente, quello che il maestro non farebbe.
Fattisi adunque venire i
ferri da tal servigio e mandato fuori della camera ogni persona, solamente seco
la Lusca ritenne; e dentro serratesi, fece distender Nicostrato sopra un desco,
e messegli le tanaglie in bocca, e preso uno de' denti suoi, quantunque egli
forte per dolor gridasse, tenuto fermamente dall'una, fu dall'altra per viva
forza un dente tirato fuori; e quel serbatosi, e presone un altro il quale
sconciamente magagnato Lidia aveva in mano, a lui doloroso e quasi mezzo morto
il mostrarono, dicendo:
– Vedi quello che tu hai
tenuto in bocca già è cotanto. Egli credendoselo, quantunque gravissima pena
sostenuta avesse e molto se ne ramaricasse, pur, poi che fuor n'era, gli parve
esser guarito; e con una cosa e con altra riconfortato, essendo la pena
alleviata, s'uscì della camera.
La donna, preso il
dente, tantosto al suo amante il mandò; il quale già certo del suo amore, sé ad
ogni suo piacere offerse apparecchiato. La donna, disiderosa di farlo più
sicuro, e parendole ancora ogn'ora mille che con lui fosse, volendo quello che
profferto gli avea attenergli, fatto sembiante d'essere inferma ed essendo un
dì appresso mangiare da Nicostrato visitata, non veggendo con lui altri che
Pirro, il pregò per alleggiamento della sua noia, che aiutar la dovessero ad
andare infino nel giardino.
Per che Nicostrato
dall'un de' lati e Pirro dall'altro presala, nel giardin la portarono e in un
pratello a piè d'un bel pero la posarono; dove stati alquanto sedendosi, disse
la donna, che già aveva fatto informar Pirro di ciò che avesse a fare:
– Pirro, io ho gran
disiderio d'aver di quelle pere, e però montavi suso e gittane giù alquante.
Pirro, prestamente
salitovi, cominciò a gittar giù delle pere; e mentre le gittava cominciò a
dire:
– Eh, messere, che è ciò
che voi fate? E voi, madonna, come non vi vergognate di sofferirlo in mia
presenza? Credete voi che io sia cieco? Voi eravate pur testé così forte
malata; come siete voi così tosto guerita che voi facciate tai cose? Le quali
se pur far volete, voi avete tante belle camere; perché non in alcuna di quelle
a far queste cose ve n'andate? E' sarà più onesto che farlo in mia presenza.
La donna, rivolta al
marito, disse:
– Che dice Pirro?
Farnetica egli?
Disse allora Pirro:
– Non farnetico no,
madonna; non credete voi che i veggia?
Nicostrato si
maravigliava forte, e disse:
– Pirro, veramente io
credo che tu sogni.
Al quale Pirro rispose:
– Signor mio, non sogno
né mica, né voi anche non sognate; anzi vi dimenate ben sì che, se così si
dimenasse questo pero, egli non ce ne rimarrebbe su niuna.
Disse la donna allora:
– Che può questo essere?
Potrebbe egli esser vero che gli paresse ver ciò ch'e'dice? Se Dio mi salvi, se
io fossi sana come io fu'già, che io vi sarrei suso, per vedere che maraviglie
sien queste che costui dice che vede.
Pirro d'in sul pero pur
diceva, e continuava queste novelle; al qual Nicostrato disse:
– Scendi giù –; ed egli
scese; a cui egli disse: – Che di' tu che vedi?
Disse Pirro:
– Io credo che voi
m'abbiate per smemorato o per trasognato; vedeva voi addosso alla donna vostra,
poi pur dir mel conviene; e poi discendendo io vi vidi levare e porvi così dove
voi siete a sedere.
– Fermamente, – disse Nicostrato
– eri tu in questo smemorato, ché noi non ci siamo, poi che in sul pero
salisti, punto mossi, se non come tu vedi.
Al qual Pirro disse:
– Perché ne facciam noi
quistione? Io vi pur vidi; e se io vi vidi, io vi vidi in sul vostro.
Nicostrato più ogn'ora
si maravigliava, tanto che egli disse:
– Ben vo' vedere se
questo pero è incantato, e che chi v'è su vegga le maraviglie –; e montovvi su.
Sopra il quale come egli fu, la donna insieme con Pirro s'incominciarono a
sollazzare; il che Nicostrato veggendo cominciò a gridare:
– Ahi rea femina, che è
quel che tu fai? E tu Pirro, di cui io più mi fidava? – e così dicendo cominciò
a scendere del pero.
La donna e Pirro
dicevano:
– Noi ci seggiamo – e
lui veggendo discendere, a seder si tornarono in quella guisa che lasciati gli
avea. Come Nicostrato fu giù e vide costoro dove lasciati gli avea, così lor
cominciò a dir villania. Al quale Pirro disse:
– Nicostrato, ora
veramente confesso io che, come voi diciavate davanti, che io falsamente
vedessi mentre fui sopra 'l pero; né ad altro il conosco se non a questo, che
io veggio e so che voi falsamente avete veduto. E che io dica il vero,
niun'altra cosa vel mostri, se non l'aver riguardo e pensare a che ora la
vostra donna, la quale è onestissima e più savia che altra volendo di tal cosa
farvi oltraggio, si recherebbe a farlo davanti agli occhi vostri. Di me non vo'
dire, che mi lascerei prima squartare che io il pur pensassi, non che io il
venissi a fare in vostra presenza. Per che di certo la magagna di questo
transvedere dee procedere dal pero; per ciò che tutto il mondo non m'avrebbe
fatto discredere che voi qui non foste colla donna vostra carnalmente giaciuto,
se io non udissi dire a voi che egli vi fosse paruto che io facessi quello che
io so certissimamente che io non pensai, non che io facessi mai.
La donna appresso, che
quasi tutta turbata s'era levata in piè, cominciò a dire:
– Sia con la mala
ventura, se tu m'hai per sì poco sentita, che, se io volessi attendere a queste
tristezze che tu di'che vedevi, io le venissi a fare dinanzi agli occhi tuoi.
Sii certo di questo che qualora volontà me ne venisse, io non verrei qui, anzi
mi crederrei sapere essere in una delle nostre camere, in guisa e in maniera
che gran cosa mi parrebbe che tu il risapessi giammai.
Nicostrato, al qual vero
parea ciò che dicea l'uno e l'altro che essi quivi dinanzi a lui mai a tale
atto non si dovessero esser condotti, lasciate stare le parole e le riprensioni
di tal maniera, cominciò a ragionar della novità del fatto e del miracolo della
vista che così si cambiava a chi su vi montava.
Ma la donna, che della
oppinione che Nicostrato mostrava d'avere avuta di lei si mostrava turbata,
disse:
– Veramente questo pero
non ne farà mai più niuna, né a me né ad altra donna, di queste vergogne, se io
potrò; e perciò, Pirro, corri e va e reca una scure, e ad una ora te e me
vendica tagliandolo, come che molto meglio sarebbe a dar con essa in capo a
Nicostrato, il quale senza considerazione alcuna così tosto si lasciò abbagliar
gli occhi dello 'ntelletto; ché, quantunque a quegli che tu hai in testa
paresse ciò che tu di, per niuna cosa dovevi nel giudicio della tua mente
comprendere o consentire che ciò fosse.
Pirro prestissimo andò
per la scure e tagliò il pero; il quale come la donna vide caduto, disse verso
Nicostrato:
– Poscia che io veggio
abbattuto il nimico della mia onestà, la mia ira è ita via –; e a Nicostrato,
che di ciò la pregava, benignamente perdonò, imponendogli che più non gli
avvenisse di presummere, di colei che più che sé l'amava, una così fatta cosa
giammai.
Così il misero marito
schernito con lei insieme e col suo amante nel palagio se ne tornarono, nel
quale poi molte volte Pirro di Lidia, ed ella di lui, con più agio presero
piacere e di letto. Dio ce ne dea a noi.
NOVELLA DECIMA
Due sanesi amano una
donna comare dell'uno; muore il, compare e torna al compagno secondo la
promessa fattagli, e raccontagli come di là si dimori.
Restava solamente al re
il dover novellare, il quale, poi che vide le donne racchetate, che del pero
tagliato che colpa non avea si dolevano, incominciò. Manifestissima cosa è che
ogni giusto re primo servatore dee essere delle leggi fatte da lui, e se altro
ne fa, servo degno di punizione, e non re, si dee giudicare; nel quale peccato
e riprensione a me, che vostro re sono, quasi costretto cader con viene. Egli è
il vero che io ieri la legge diedi a' nostri ragionamenti fatti oggi, con
intenzione di non voler questo dì il mio privilegio usare; ma soggiacendo con
voi insieme a quella, di quello ragionare che voi tutti ragionato avete; ma
egli non s solamente è stato raccontato quello che io imaginato avea di
raccontare ma sonsi sopra quello tante altre cose e molto più belle dette, che
io per me, quantunque la memoria ricerchi, rammentar non mi posso né conoscere
che io intorno a sì fatta materia dir potessi cosa che alle dette
s'appareggiasse; e per ciò, dovendo peccare nella legge da me medesimo fatta,
sì come degno di punizione, infino ad ora ad ogni ammenda che comandata mi fia
mi proffero apparecchiato, e al mio privilegio usitato mi tornerò.
E dico che la novella
detta da Elissa del compare e della comare, e appresso la bessaggine de'
sanesi, hanno tanta forza, carissime donne, che, lasciando stare le beffe agli
sciocchi mariti fatte dalle lor savie mogli, mi tirano a dovervi con tare una
novelletta di loro, la quale, ancora che in sé abbia assai di quello che creder
non si dee, nondimeno sarà in parte piacevole ad ascoltare. Furono adunque in
Siena due giovani popolari, de' quali l'uno ebbe nome Tingoccio Mini e l'altro
fu chiamato Meuccio di Tura, e abitavano in porta Salaia, e quasi mai non
usavano se non l'un con l'altro, e per quello che paresse s'amavan molto; e
andando, come gli uomini vanno, alle chiese e alle prediche, più volte udito
avevano della gloria e della miseria che all'anime di coloro che morivano era,
secondo li lor meriti, conceduta nell'altro mondo. Delle quali cose disiderando
di saper certa novella, né trovando il modo, insieme si promisero che qual
prima di lor morisse, a colui che vivo fosse rimaso, se potesse, ritornerebbe,
e direbbegli novelle di quello che egli desiderava; e questo fermarono con
giuramento. Avendosi adunque questa promession fatta, e insieme continuamente
usando, come è detto, avvenne che Tingoccio divenne compare d'uno Ambruogio
Anselmini, che stava in Camporeggi, il qual d'una sua donna chiamata monna Mita
aveva avuto un figliuolo.
Il qual Tingoccio,
insieme con Meuccio visitando alcuna volta questa sua comare, la quale era una
bellissima e vaga donna, non ostante il comparatico, s'innamorò di lei; e
Meuccio similmente, piacendogli ella molto e molto udendola commendare a
Tingoccio, se ne innamorò. E di questo amore l'un si guardava dall'altro, ma
non per una medesima cagione: Tingoccio si guardava di scoprirlo a Meuccio per
la cattività che a lui medesimo pareva fare d'amare la comare, e sarebbesi
vergognato che alcun l'avesse saputo; Meuccio non se ne guardava per questo. ma
perché già avveduto s'era che ella piaceva a Tingoccio. Laonde egli diceva:
- Se io questo gli
discuopro, egli prenderà gelosia di me; e potendole ad ogni suo piacere
parlare, sì come compare, in ciò che egli potrà le mi metterà in odio, e così
mai cosa che mi piaccia di lei io non avrò.
Ora, amando questi due
giovani, come detto è, avven ne che Tingoccio, al quale era più destro il
potere alla donna aprire ogni suo disiderio, tanto seppe fare, e con atti e con
parole, che egli ebbe di lei il piacere suo; di che Meuccio s'accorse bene; e
quantunque molto gli dispiacesse, pure, sperando di dovere alcuna volta
pervenire al fine del suo disidero, acciò che Tingoccio non avesse materia né
cagione di guastargli o d'impedirgli alcun suo fatto, faceva pur vista di non
avvedersene. Così amando i due compagni, l'uno più felicemente che l'altro,
avvenne che, trovando Tingoccio nelle possessioni della comare il terren dolce,
tanto vangò e tanto lavorò che una infermità ne gli sopravenne, la quale dopo alquanti
dì sì l'aggravò forte che, non potendola sostenere, trapassò di questa vita.
E trapassato, il terzo
dì appresso (ché forse prima non aveva potuto) se ne venne, secondo la
promession fatta, una notte nella camera di Meuccio, e lui, il qual forte dormiva,
chiamò.
Meuccio destatosi disse:
– Qual sé tu?
A cui egli rispose:
– Io son Tingoccio, il
qual, secondo la promession che io ti feci, sono a te tornato a dirti novelle
dell'altro mondo.
Alquanto si spaventò
Meuccio veggendolo, ma pure rassicurato disse:
– Tu sia il ben venuto,
fratel mio –; e poi il domandò se egli era perduto. Al qual Tingoccio rispose:
– Perdute son le cose
che non si ritruovano; e come sarei io in mei chi, se io fossi perduto?
– Deh, – disse Meuccio –
io non dico così; ma io ti domando se tu se' tra l'anime dannate nel fuoco
pennace di ninferno.
A cui Tingoccio rispose:
– Costetto no, ma io son
bene, per li peccati da me commessi, in gravissime pene e angosciose molto.
Domandò allora Meuccio particularmente Tingoccio che pene si dessero di là per
ciascun de' peccati che di qua si commettono; e Tingoccio gliele disse tutte.
Poi gli domandò Meuccio s'egli avesse di qua per lui a fare alcuna cosa. A cui
Tingoccio rispose di sì, e ciò era che egli facesse per lui dir delle messe e
delle orazioni e fare delle limosine per ciò che queste cose molto giovavano a
quei di là, a cui Meuccio disse di farlo volentieri. E partendosi Tingoccio da
lui, Meuccio si ricordò della comare, e sollevato alquanto il capo disse:
– Ben che mi ricorda, o
Tingoccio: della comare, con la quale tu giacevi quando eri di qua, che pena
t'è di là data?
A cui Tingoccio rispose:
– Fratel mio, come io
giunsi di là, sì fu uno, il qual pareva che tutti i miei peccati sapesse a
mente, il quale mi comandò che io andassi in quel luogo nel quale io purgo in
grandissima pena le colpe mie, dove io trovai molti compagni a quella medesima
pena condennati che io; e stando io tra loro, e ricordandomi di ciò che già
fatto avea con la comare e aspettando per quello troppo maggior pena che quella
che data m'era, quantunque io fossi in un gran fuoco e molto ardente, tutto di
paura tremava. Il che sentendo un che m'era dal lato, mi disse: – Che hai tu
più che gli altri che qui sono, che triemi stando nel fuoco? –, – Oh, – diss'io
– amico mio, io ho gran paura del giudicio che io aspetto d'un gran peccato che
io feci già –. Quegli allora mi domandò che peccato quel fosse. A cui io dissi:
– Il peccato fu cotale, che io mi giaceva con una mia comare, e giacquivi tanto
che io me ne scorticai –. Ed egli allora, faccendosi beffe di ciò, mi disse:
– Va, sciocco, non
dubitare; ché di qua non si tiene ragione alcuna delle comari –; il che io
udendo tutto mi rassicurai.
E detto questo, appressandosi
il giorno, disse:
– Meuccio, fatti con
Dio, ché io non posso più esser con teco –; e subitamente andò via.
Meuccio, avendo udito
che di là niuna ragione si teneva delle comari, cominciò a far beffe della sua
sciocchezza, per ciò che già parecchie n'avea risparmiate; per che, lasciata
andar la sua ignoranza, in ciò per innanzi divenne savio. Le quali cose se
frate Rinaldo avesse saputo, non gli sarebbe stato bisogno d'andare
sillogizzando quando convertì a' suoi piaceri la sua buona comare.
CONCLUSIONE
Zeffiro era levato per
lo sole che al ponente s'avvicinava, quando il re, finita la sua novella né
alcuno altro restandogli a dire, levatasi la corona di testa, sopra il capo la
pose alla Lauretta, dicendo:
– Madonna, io vi corono
di voi medesima reina della nostra brigata; quello omai che crederete che
piacer sia di tutti e consolazione, sì come donna, comanderete –; e riposesi a
sedere.
La Lauretta, divenuta
reina, si fece chiamare il siniscalco, al quale impose che ordinasse che nella
piacevole valle alquanto a migliore ora che l'usato si mettesser le tavole,
acciò che poi adagio si potessero al palagio tornare; e appresso ciò che a fare
avesse, mentre il suo reggimento durasse, gli divisò.
Quindi, rivolta alla
compagnia, disse:
– Dioneo volle ieri che
oggi si ragionasse delle beffe che le donne fanno a' mariti; e, se non fosse
ch'io non voglio mostrare d'essere di schiatta di can botolo che incontanente
si vuol vendicare, io direi che domane si dovesse ragionare delle beffe che gli
uomini fanno alle lor mogli. Ma, lasciando star questo, dico che ciascun pensi
di dire di quelle beffe che tutto il giorno, o donna ad uomo, o uomo a donna, o
l'uno uomo all'altro si fanno; e credo che in questo sarà non men di piacevol
ragionare, che stato sia questo giorno –; e così detto, levatasi in piè, per
infino ad ora di cena licenziò la brigata.
Levaronsi adunque le
donne e gli uomini parimente, de' quali alcuni scalzi per la chiara acqua
cominciarono ad andare, e altri tra' belli e diritti alberi sopra il verde
prato s'andavano diportando.
Dioneo e la Fiammetta
gran pezza cantarono insieme d'Arcita e di Palemone; e così, vari e diversi
diletti pigliando, il tempo infino all'ora della cena con grandissi mo piacer
trapassarono. La qual venuta e lungo al pelaghetto a tavola postisi, quivi al
canto di mille uccelli, rinfrescati sempre da un'aura soave che da quelle
montagnette dattorno nasceva, senza alcuna mosca, riposatamente e con letizia
cenarono.
E levate le tavole, poi
che alquanto la piacevol valle ebber circuita, essendo ancora il sole alto a
mezzo vespro, sì come alla loro reina piacque, in verso la loro usata dimora
con lento passo ripresero il cammino; e motteggiando e cianciando di ben mille
cose, così di quelle che il dì erano state ragionate come d'altre, al bel
palagio assai vicino di notte pervennero. Dove con freschissimi vini e con
confetti la fatica del picciol cammin cacciata via, intorno della bella fontana
di presente furono in sul danzare, quando al suono della cornamusa di Tindaro e
quando d'altri suoni carolando. Ma alla fine la reina comandò a Filomena che
dicesse una canzone, la quale così incominciò:
Deh lassa la mia vita!
Sarà giammai ch'io possa
ritornare
donde mi tolse noiosa
partita?
Certo io non so, tanto è
'l disio focoso
che io porto nel petto,
di ritrovarmi ov'io
lassa già fui.
O caro bene, o solo mio
riposo,
che 'l mio cuor tien
distretto,
deh dilmi tu, ché
domandarne altrui
non oso, né so cui,
deh, signor mio, deh
fammelo sperare
sì ch'io conforti
l'anima smarrita.
I' non so ben ridir qual
fu 'l piacere
che sì m'ha infiammata,
ché io non trovo dì né
notte loco,
perché l'udire e 'l
sentire e 'l vedere,
con forza non usata,
ciascun per sé accese
novo foco;
nel qual tutta mi coco,
né mi può altri che tu
confortare,
o ritornar la virtù
sbigottita.
Deh dimmi s'esser dee, e
quando fia,
ch'io ti trovi giammai,
dov'io baciai quegli
occhi che m'han morta.
Dimmel, caro mio bene,
anima mia
quando tu vi verrai, e,
col dir – tosto –, alquanto mi
conforta.
Sia la dimora corta
d'ora al venire, e poi
lunga allo stare,
ch'io non men curo, sì
m'ha Amor ferita.
Se egli avvien che io
mai più ti tenga,
non so s'io sarò
sciocca,
com'io or fui, a
lasciarti partire.
Io ti terrò, e che può
sì n'avvenga;
e della dolce bocca
convien ch'io sodisfaccia
al mio disire.
D'altro non voglio or
dire.
Dunque vien tosto,
vienmi ad abbracciare
che 'l pur pensarlo di
cantar m'invita.
Estimar fece questa
canne a tutta la brigata che nuovo e piacevole amore Filomena strignesse; e per
ciò che per le parole di quella pareva che ella più avanti che la vista sola
n'avesse sentito, tenendonela più felice, invidia per tali vi furono le ne fu
avuta. Ma poi che la sua canzon fu finita, ricordandosi la reina che il dì
seguente era venerdì, così a tutti piacevolmente disse:
– Voi sapete, nobili
donne e voi giovani, che domane è quel dì che alla passione del nostro Signore
è consecra to, il qual, se ben vi ricorda, noi divotamente celebrammo, essendo
reina Neifile, e a' ragionamenti dilettevoli demmo luogo, e il simigliante
facemmo del sabato susseguente. Per che, volendo il buono essemplo datone da
Neifile seguitare, estimo che onesta cosa sia, che domane e l'altro dì, come i
passati giorni facemmo, dal nostro dilettevole novellare ci asteniamo, quello a
memoria riducendoci che in così fatti giorni per la salute delle nostre anime
addivenne.
Piacque a tutti il
divoto parlare della loro reina, dalla quale licenziati, essendo già buona
pezza di notte passata, tutti s'andarono a riposare.
Finisce la settima
giornata del Decameron.
Comincia l'ottava
giornata, nella quale, sotto il reggimento di Lauretta, si ragiona di quelle
beffe che tutto il giorno o donna ad uomo, o uomo a donna, o l'uno uomo
all'altro si fanno.
GIORNATA OTTAVA
INTRODUZIONE
Già nella sommità de'
più alti monti apparivano la domenica mattina i raggi della surgente luce e,
ogni ombra partitasi, manifestamente le cose si conosceano, quando la reina
levatasi con la sua compagnia, primieramente alquanto su per le rugiadose
erbette andarono, e poi in su la mezza terza una chiesetta lor vicina visitata,
in quella il divino officio ascoltarono; e a casa tornatisene, poi che con
letizia e con festa ebber mangiato, cantarono e danzarono alquanto, e appresso,
licenziati dalla reina, chi volle andare a riposarsi potè. Ma, avendo il sol
già passato il cerchio di meriggio, come alla reina piacque, al novellare usato
tutti appresso la bella fontana a seder posti, per comandamento della reina
così Neifile cominciò.
NOVELLA PRIMA
Gulfardo prende da
Guasparruolo denari in prestanza, e con la moglie di lui accordato di dover
giacer con lei per quegli, sì gliele dà, e poi in presenzia di lei a
Guasparruolo dice che a lei gli diede, ed ella dice che è il vero.
Se così ha disposto
Iddio che io debba alla presente giornata dare con la mia novella
cominciamento, ed el mi piace. E per ciò, amorose donne, con ciò sia cosa che
molto detto si sia delle beffe fatte dalle donne agli uomini, una fattane da
uno uomo ad una donna mi piace di raccontarne, non già perché io intenda in
quella di biasimare ciò che l'uom fece o di dire che alla donna non fosse bene
investito, anzi per commendar l'uomo e biasimare la donna, e per mostrare che
anche gli uomini sanno beffare chi crede loro, come essi da cui egli credono
son beffati; avvegna che, chi volesse più propriamente parlare, quello che io
dir debbo non si direbbe beffa, anzi si direbbe merito; per ciò che, con ciò
sia cosa che ciascuna donna debba essere onestissima e la sua castità come la
sua vita guardare, né per alcuna cagione a contaminarla conducersi; e questo
non potendosi così appieno tuttavia, come si converrebbe, per la fragilità
nostra; affermo colei esser degna del fuoco la quale a ciò per prezzo si
conduce; dove chi per amore, conoscendo le sue forze grandissime, perviene, da
giudice non troppo rigido merita perdono, come, pochi dì son passati, ne mostrò
Filostrato essere stato in madonna Filippa osservato in Prato.
Fu adunque già in Melano
un tedesco al soldo, il cui nome fu Gulfardo, pro'della persona e assai leale a
coloro ne' cui servigi si mettea, il che rade volte suole de' tedeschi a
venire; e per ciò che egli era nelle prestanze de' denari che fatte gli erano
lealissimo renditore, assai mercatanti avrebbe trovati che per piccolo utile
ogni quantità di denari gli avrebber prestata.
Pose costui, in Melan
dimorando, l'amor suo in una donna assai bella, chiamata madonna Ambruogia,
moglie d'un ricco mercatante, che aveva nome Guasparruol Cagastraccio, il quale
era assai suo conoscente e amico; e amandola assai discretamente, senza
avvedersene il marito né altri, le mandò un giorno a parlare, pregandola che le
dovesse piacere d'essergli del suo amor cortese, e che egli era dalla sua parte
presto a dover far ciò che ella gli comandasse.
La donna, dopo molte
novelle, venne a questa conclusione, che ella era presta di far ciò che a
Gulfardo piacesse, dove due cose ne dovesser seguire: l'una, che questo non
dovesse mai per lui esser manifestato ad alcuna persona; l'altra, che, con ciò
fosse cosa che ella avesse per alcuna sua cosa bisogno di fiorini dugento
d'oro, voleva che egli, che ricco uomo era, gliele donasse, e appresso sempre
sarebbe al suo servigio. Gulfardo, udendo la 'ngordigia di costei, sdegnato per
la viltà di lei, la quale egli credeva che fosse una valente donna, quasi in
odio trasmutò il fervente amore, e pensò di doverla beffare, e mandolle dicendo
che molto volentieri e quello e ogn'altra cosa, che egli potesse, che le
piacesse; e per ciò mandassegli pure a dire quando ella volesse che egli
andasse a lei, ché egli gliele porterebbe, né che mai di questa cosa alcun
sentirebbe, se non un suo compagno di cui egli si fidava molto e che sempre in
sua compagnia andava in ciò che faceva.
La donna, anzi cattiva
femina, udendo questo, fu contenta, e mandogli dicendo che Guasparruolo suo
marito doveva ivi a pochi dì per sue bisogne andare infino a Genova, e allora
ella gliele farebbe assapere e manderebbe per lui.
Gulfardo, quando tempo
gli parve, se n'andò a Guasparruolo e sì gli disse:
– Io son per fare un mio
fatto, per lo quale mi bisognano fiorini dugento d'oro, li quali io voglio che
tu mi presti con quello utile che tu mi suogli prestare degli altri.
Guasparruolo disse che volentieri, e di presente gli annoverò i denari.
Ivi a pochi giorni
Guasparruolo andò a Genova, come la donna aveva detto; per la qual cosa la
donna mandò a Gulfardo che a lei dovesse venire e recare li dugento fiorin
d'oro. Gulfardo, preso il compagno suo, se n'andò a casa della donna, e
trovatala che l'aspettava, la prima cosa che fece, le mise in mano questi
dugento fiorin d'oro, veggente il suo compagno, e sì le disse:
– Madonna, tenete questi
denari, e daretegli a vostro marito quando serà tornato.
La donna gli prese, e
non s'avvide perché Gulfardo dicesse così; ma si credette che egli il facesse,
acciò che 'l compagno suo non s'accorgesse che egli a lei per via di prezzo gli
desse. Per che ella disse:
– Io il farò volentieri,
ma io voglio vedere quanti sono–; e versatigli sopra una tavola e trovatigli
esser dugento, seco forte contenta, gli ripose, e tornò a Gulfardo, e lui nella
sua camera menato, non solamente quella volta, ma molte altre, avanti che 'l
marito tornasse da Genova, della sua persona gli sodisfece.
Tornato Guasparruolo da
Genova, di presente Gulfardo, avendo appostato che insieme con la moglie era,
[preso il compagno suo], se n'andò a lui, e in presenza di lei disse:
– Guasparruolo, i
denari, cioè li dugento fiorin d'oro che l'altrier mi prestasti, non m'ebber
luogo, per ciò che io non pote'fornir la bisogna per la quale gli presi; e per
ciò io gli recai qui di presente alla donna tua, e sì gliele diedi; e per ciò
dannerai la mia ragione.
Guasparruolo, volto alla
moglie, la domandò se avuti gli avea. Ella, che quivi vedeva il testimonio, nol
seppe negare, ma disse:
– Mai sì che io gli
ebbi, né me n'era ancora ricordata di dirloti.
Disse allora
Guasparruolo:
– Gulfardo, io son
contento; andatevi pur con Dio, che io acconcerò bene la vostra ragione.
Gulfardo partitosi, e la
donna rimasa scornata diede al marito il disonesto prezzo della sua cattività;
e così il sagace amante senza costo godé della sua avara donna.
NOVELLA SECONDA
Il Prete da Varlungo si
giace con monna Belcolore; lasciale pegno un suo tabarro; e accattato da lei un
mortaio, il rimanda e fa domandare il tabarro lasciato per ricordanza; rendelo
proverbiando la buona donna.
Commendavano igualmente
e gli uomini e le donne ciò che Gulfardo fatto aveva alla 'ngorda melanese,
quando la reina a Panfilo voltatasi, sorridendo gl'impose ch'el seguitasse; per
la qual cosa Panfilo incominciò. Belle donne, a me occorre di dire una
novelletta contro a coloro li quali continuamente n'offendono senza poter da
noi del pari essere offesi, cioè contro a' preti, li quali sopra le nostre
mogli hanno bandita la croce, e par loro non altramenti aver guadagnato il
perdono di colpa e di pena, quando una se ne possono metter sotto, che se
d'Alessandria avessero il soldano menato legato a Vignone. Il che i secolari
cattivelli non possono a lor fare; come che nelle madri, nelle sirocchie,
nell'amiche e nelle figliuole con non meno ardore, che essi le lor mogli
assaliscano, vendichino l'ire loro. E per ciò io intendo raccontarvi uno
amorazzo contadino, più da ridere per la conclusione che lungo di parole, del
quale ancora potrete per frutto cogliere che a' preti non sia sempre ogni cosa
da credere.
Dico adunque che a
Varlungo, villa assai vicina di qui, come ciascuna di voi o sa o puote avere
udito, fu un valente prete e gagliardo della persona ne' servigi delle donne,
il quale, come che legger non sapesse troppo, pur con molte buone e sante
parolozze la domenica a piè dell'olmo ricreava i suoi popolani; e meglio le lor
donne, quando essi in alcuna parte andavano, che altro prete che prima vi fosse
stato, visitava, portando loro della festa e dell'acqua benedetta e alcun
moccolo di candela talvolta infino a casa, dando loro la sua benedizione. Ora
avvenne che, tra l'altre sue popolane che prima gli eran piaciute, una sopra
tutte ne gli piacque, che aveva nome monna Belcolore, moglie d'un lavoratore
che si facea chiamare Bentivegna del Mazzo, la qual nel vero era pure una
piacevole e fresca foresozza, brunazza e ben tarchiata, e atta a meglio saper
macinare che alcuna altra. E oltre a ciò era quella che meglio sapeva sonare il
cembalo e cantare: L'acqua corre la borrana, e menare la ridda e il ballonchio,
quando bisogno faceva, che vicina che ella avesse, con bel moccichino e gentile
in mano. Per le quali cose messer lo prete ne 'nvaghì sì forte, che egli ne
menava smanie; e tutto 'l dì andava aiato per poterla vedere; e quando la
domenica mattina la sentiva in chiesa, diceva un Kyrie e un Sanctus sforzandosi
ben di mostrarsi un gran maestro di canto, che pareva uno asino che ragghiasse,
dove, quando non la vi vedeva, si passava assai leggermente; ma pure sapeva sì
fare che Bentivegna del Mazzo non se ne avvedeva, né ancora vicino che egli
avesse.
E per potere più avere
la dimestichezza di monna Belcolore, a otta a otta la presentava, e quando le
mandava un mazzuol d'agli freschi, che egli aveva i più belli della contrada in
un suo orto che egli lavorava a sue mani, e quando un canestruccio di baccelli,
e talora un mazzuol di cipolle maligie o di scalogni; e, quando si vedeva
tempo, guatatala un poco in cagnesco, per amorevolezza la rimorchiava, ed ella
cotal salvatichetta, faccendo vista di non avvedersene, andava pure oltre in
contegno; per che messer lo prete non ne poteva venire a capo. Ora avvenne un
dì che, andando il prete di fitto meriggio per la contrada or qua or là
zazzeato, scontrò Bentivegna del Mazzo con uno asino pien di cose innanzi; e
fattogli motto, il domandò dov'egli andava. A cui Bentivegna rispose:
– Gnaffe, sere, in buona
verità io vo infino a città per alcuna mia vicenda, e porto queste cose a ser
Bonaccorri da Ginestreto, che m'aiuti di non so che m'ha fatto richiedere per
una comparigione del parentorio per lo pericolator suo il giudice del dificio.
Il prete lieto disse:
– Ben fai, figliuolo; or
va con la mia benedizione, e torna tosto; e se ti venisse veduto Lapuccio o
Naldino, non t'esca di mente di dir lor che mi rechino quelle combine per li
coreggiati miei.
Bentivegna disse che
sarebbe fatto; e venendosene verso Firenze, si pensò il prete che ora era tempo
d'andare alla Bel colore e di provare sua ventura; e messasi la via tra' piedi,
non ristette sì fu a casa di lei, ed entrato dentro disse:
– Dio ci mandi bene, chi
è di qua?
La Belcolore, ch'era
andata in balco, udendol disse:
– O sere, voi siate il
ben venuto; che andate voi zacconato per questo caldo?
Il prete rispose:
– Se Dio mi dea bene,
che io mi vengo a star con teco un pezzo, per ciò che io trovai l'uom tuo che
andava a città.
La Belcolore, scesa giù,
si pose a sedere, e cominciò nettar sementa di cavolini, che il marito avea
poco innanzi trebbiati.
Il prete le cominciò a
dire:
– Bene, Belcolore, de'
mi tu far sempre mai morire questo modo?
La Belcolore cominciò a
ridere e a dire:
– O che ve fo io?
Disse il prete:
– Non mi fai nulla, ma
tu non mi lasci fare a te quei ch'io vorrei e che Iddio comandò.
Disse la Belcolore:
– Deh! andate, andate: o
fanno i preti così fatte cose?
Il prete rispose:
– Sì facciam noi meglio
che gli altri uomini; o perché no? E dicoti più, che noi facciamo vie miglior
lavorio; e sai perché? Perché noi maciniamo a raccolta; ma in verità bene a tuo
uopo, se tu stai cheta e lascimi fare.
Disse la Belcolore:
– O che bene a mio uopo
potrebbe esser questo, ché siete tutti quanti più scarsi che 'l fistolo?
Allora il prete disse:
– Io non so, chiedi pur
tu: o vuogli un paio di scarpette, o vuogli un frenello, o vuogli una bella
fetta di stame, o ciò che tu vuogli.
Disse la Belcolore:
– Frate, bene sta! Io me
n'ho di coteste cose; ma se voi mi volete cotanto bene, ché non mi fate voi un
servigio, e io farò ciò che voi vorrete?
Allora disse il prete:
– Di'ciò che tu vuogli,
e io il farò volentieri.
La Belcolore allora
disse:
– Egli mi conviene andar
sabato a Firenze a render lana che io ho filata e a far racconciare il filatoio
mio; e se voi mi prestate cinque lire, che so che l'avete, io ricoglierò
dall'usuraio la gonnella mia del perso e lo scaggiale dai dì delle feste, che io
recai a marito, ché vedete che non ci posso andare a santo né in niun buon
luogo, perché io non l'ho; e io sempre mai poscia farò ciò che voi vorrete.
Rispose il prete:
– Se Dio mi dea il buono
anno, io non gli ho allato; ma credimi che, prima che sabato sia, io farò che
tu gli avrai molto volentieri.
– Sì, – disse la
Belcolore – tutti siete così gran promettitori, e poscia non attenete altrui
nulla; credete voi fare a me come voi faceste alla Biliuzza, che se n'andò col
ceteratoio? Alla fè di Dio non farete, ché ella n'è divenuta femina di mondo
pur per ciò; se voi non gli avete, e voi andate per essi.
– Deh! – disse il prete
– non mi fare ora andare infino a casa; ché vedi che ho così ritta la ventura
testè che non c'è persona, e forse quand'io tornassi ci sarebbe chi che sia che
c'impaccerebbe; e io non so quando e' mi si venga così ben fatto come ora.
Ed ella disse:
– Bene sta; se voi
volete andar, sì andate; se non, sì ve ne durate.
Il prete, veggendo che
ella non era acconcia a far cosa che gli piacesse, se non a salvum me fac, ed
egli volea fare sine custodia, disse:
– Ecco, tu non mi credi
che io te gli rechi; acciò che tu mi creda, io ti lascerò pegno questo mio
tabarro di sbiavato.
La Belcolore levò alto
il viso e disse:
– Sì, cotesto tabarro, o
che vale egli?
Disse il prete:
– Come, che vale? Io
voglio che tu sappi che egli è di duagio infino in treagio, e hacci di quegli
nel popolo nostro che il tengon di quattragio, e non è ancora quindici dì che
mi costò da Lotto rigattiere delle lire ben sette, ed ebbine buon mercato de
soldi ben cinque, per quel che mi dice Buglietto d'Alberto, che sai che si
conosce così bene di questi panni sbiavati.
– O, sié? – disse la
Belcolore – se Dio m'aiuti, io non l'averei mai creduto; ma datemelo in prima.
Messer lo prete,
ch'aveva carica la balestra, trattosi il tabarro, gliele diede; ed ella, poi
che riposto l'ebbe, disse:
– Sere, andiancene qua
nella capanna, che non vi vien mai persona –; e così fecero.
E quivi il prete,
dandole i più dolci baciozzi del mondo e faccendola parente di messer
Domenedio, con lei una gran pezza si sollazzò; poscia, partitosi in gonnella,
che pareva che venisse da servire a nozze, se ne tornò al santo.
Quivi, pensando che
quanti moccoli ricoglieva in tutto l'anno d'offerta non valevan la metà di
cinque lire, gli parve aver mal fatto, e pentessi d'aver lasciato il tabarro e
cominciò a pensare in che modo riavere lo potesse senza costo.
E per ciò che alquanto
era maliziosetto, s'avvisò troppo bene come dovesse fare a riaverlo, e vennegli
fatto; per ciò che il dì seguente, essendo festa, egli mandò un fanciul d'un
suo vicino in casa questa monna Belcolore, e mandolla pregando che le piacesse
di prestargli il mortaio suo della pietra, però che desinava la mattina con lui
Binguccio dal Poggio e Nuto Buglietti, sì che egli voleva far della salsa.
La Belcolore gliele
mandò. E come fu in su l'ora del desinare, e 'l prete appostò quando Bentivegna
del Mazzo e la Belcolor manicassero, e chiamato il chierico suo, gli disse:
– Togli quel mortaio e
riportalo alla Belcolore, e di': «Dice il sere che gran mercè, e che voi gli
rimandiate il tabarro che 'l fanciullo vi lasciò per ricordanza». Il cherico
andò a casa della Belcolore con questo mortaio e trovolla insieme con
Bentivegna a desco che desinavano. Quivi, posto giù il mortaio, fece
l'ambasciata del prete.
La Belcolore, udendosi
richiedere il tabarro, volle rispondere; ma Bentivegna con un mal viso disse:
– Dunque toi tu
ricordanza al sere? Fo boto a Cristo, che mi vien voglia di darti un gran
sergozzone; va, rendigliel tosto, che canciola te nasca; e guarda che di cosa
che voglia mai, io dico s'e'volesse l'asino nostro, non ch'altro, non gli sia
detto di no.
La Belcolore brontolando
si levò, e andatasene al soppidiano, ne trasse il tabarro e diello al cherico e
disse:
– Dirai così al sere da
mia parte: «La Belcolore dice che fa prego a Dio che voi non pesterete mai più
salsa in suo mortaio, non l'avete voi sì bello onor fatto di questa». Il
cherico se n'andò col tabarro e fece l'ambasciata al sere, a cui il prete
ridendo disse:
– Dira'le, quando tu la
vedrai, che s'ella non ci presterà il mortaio, io non presterrò a lei il
pestello; vada l'un per Bentivegna si credeva che la moglie quelle parole dicesse
perché egli l'aveva garrita, e non se ne curò. Ma la Belcolore, rimasa
scornata, venne in iscrezio col sere, e tennegli favella insino a vendemmia;
poscia, avendola minacciata il prete di farnela andare in bocca del Lucifero
maggiore, per bella paura entro, col mosto e con le castagne calde si
rappattumò con lui, e più volte insieme fecer poi gozzoviglia.
E in iscambio delle
cinque lire le fece il prete rincartare il cembal suo e appiccarvi un
sonagliuzzo, ed ella fu contenta.
NOVELLA TERZA
Calandrino, Bruno e
Buffalmacco giù per lo Mugnone vanno cercando di trovar l'elitropia, e
Calandrino se la crede aver trovata; tornasi a casa carico di pietre; la moglie
il proverbia, ed egli turbato la batte, e a' suoi compagni racconta ciò che
essi sanno meglio di lui.
Finita la novella di
Panfilo, della quale le donne avevano tanto riso che ancor ridono, la reina ad
Elissa commise che seguitasse, la quale ancora ridendo incominciò. Io non so,
piacevoli donne, se egli mi si verrà fatto di farvi con una mia novelletta, non
men vera che piacevole, tanto ridere quanto ha fatto Panfilo con la sua, ma io
me ne 'ngegnerò.
Nella nostra città, la
qual sempre di varie maniere e di nuove genti è stata abondevole, fu, ancora
non è gran tempo, un dipintore chiamato Calandrino, uom semplice e di nuovi
costumi, il quale il più del tempo con due altri dipintori usava, chiamati l'un
Bruno e l'altro Buffalmacco, uomini sollazzevoli molto, ma per altro avveduti e
sagaci, li quali con Calandrino usavan per ciò che de' modi suoi e della sua
simplicità sovente gran festa prendevano. Era similmente allora in Firenze un
giovane di maravigliosa piacevolezza, in ciascuna cosa che far voleva astuto e
avvenevole, chiamato Maso del Saggio; il quale, udendo alcune cose della simplicità
di Calandrino, propose di voler prender diletto de' fatti suoi col fargli
alcuna beffa, o fargli credere alcuna nuova cosa. E per avventura trovandolo un
dì nella chiesa di San Giovanni, e vedendolo stare attento a riguardar le
dipinture e gl'intagli del tabernacolo il quale è sopra l'altare della detta
chiesa, non molto tempo davanti postovi, pensò essergli dato luogo e tempo alla
sua intenzione; e informato un suo compagno di ciò che fare intendeva, insieme
s'accostarono là dove Calandrino solo si sedeva, e faccendo vista di non
vederlo, insieme cominciarono a ragionare delle virtù di diverse pietre, delle
quali Maso così efficacemente parlava come se stato fosse un solenne e gran
lapidario.
A'quali ragionamenti
Calandrino posto orecchie, e dopo alquanto levatosi in piè, sentendo che non
era credenza, si congiunse con loro; il che forte piacque a Maso; il quale,
seguendo le sue parole, fu da Calandrin domandato dove queste pietre così
virtuose si trovassero. Maso rispose che le più si trovavano in Berlinzone,
terra de' Baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si
legano le vigne con le salsicce, e avevasi un'oca a denaio e un papero giunta,
ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale
stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e
cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne
pigliava più se n'aveva; e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della
migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciol d'acqua.
– Oh, – disse Calandrino
– cotesto è buon paese; ma dimmi, che si fa de' capponi che cuocon coloro?
Rispose Maso:
– Mangiansegli i Baschi
tutti.
Disse allora Calandrino:
– Fostivi tu mai?
A cui Maso rispose:
– Di'tu se io vi fu'mai?
Sì vi sono stato così una volta come mille.
Disse allora Calandrino:
– E quante miglia ci ha?
Maso rispose:
– Haccene più di
millanta, che tutta notte canta.
Disse Calandrino:
– Dunque dee egli essere
più là che Abruzzi.
– Sì bene, – rispose
Maso – si è cavelle.
Calandrino semplice,
veggendo Maso dir queste parole con un viso fermo e senza ridere, quella fede
vi dava che dar si può a qualunque verità più manifesta, e così l'aveva per
vere, e disse:
– Troppo ci è di lungi
a' fatti miei, ma se più presso ci fosse, ben ti dico che io vi verrei una
volta con essoteco, pur per veder fare il tomo a quei maccheroni, e tormene una
satolla. Ma dimmi, che lieto sie tu, in queste contrade non se ne truova niuna
di queste pietre così virtuose?
A cui Maso rispose:
– Sì, due maniere di
pietre ci si truovano di grandissima virtù: l'una sono i macigni da Settignano
e da Montici, per virtù de' quali, quando son macine fatti, se ne fa la farina;
e per ciò si dice egli in que' paesi di là, che da Dio vengono le grazie e da
Montici le macine; ma ecci di questi macigni sì gran quantità, che appo noi è
poco prezzata, come appo loro gli smeraldi, de' quali v'ha maggior montagne che
monte Morello che rilucon di mezza notte vatti con Dio. E sappi che chi facesse
le macine belle e fatte legare in anella, prima che elle si forassero, e
portassele al soldano, n'avrebbe ciò che volesse. L'altra si è una pietra, la
quale noi altri lapidari appelliamo elitropia, pietra di troppo gran virtù, per
ciò che qualunque persona la porta sopra di sè, mentre la tiene, non è da
alcuna altra persona veduto dove non è.
Allora Calandrin disse:
– Gran virtù son queste;
ma questa seconda dove si truova?
A cui Maso rispose, che
nel Mugnone se ne solevan trovare.
Disse Calandrino:
– Di che grossezza è
questa pietra? O che colore è il suo?
Rispose Maso:
– Ella è di varie
grossezze, ché alcuna n'è più e alcuna meno, ma tutte son di colore quasi come
nero.
Calandrino, avendo tutte
queste cose seco notate, fatto sembiante d'avere altro a fare, si partì da
Maso, e seco propose di voler cercare di questa pietra; ma diliberò di non
volerlo fare senza saputa di Bruno e di Buffalmacco, li quali spezialissimamente
amava. Diessi adunque a cercar di costoro, acciò che senza indugio e prima che
alcuno altro n'andassero a cercare, e tutto il rimanente di quella mattina
consumò in cercargli. Ultimamente, essendo già l'ora della nona passata,
ricordandosi egli che essi lavoravano nel monistero delle donne di Faenza,
quantunque il caldo fosse grandissimo, lasciata ogni altra sua faccenda, quasi
correndo n'andò a costoro, e chiamatigli, così disse loro:
– Compagni, quando voi
vogliate credermi, noi possiamo divenire i più ricchi uomini di Firenze, per
ciò che io ho inteso da uomo degno di fede che in Mugnone si truova una pietra,
la qual chi la porta sopra non è veduto da niun'altra persona; per che a me
parrebbe che noi senza alcuno indugio, prima che altra persona v'andasse,
v'andassimo a cercare. Noi la troveremo per certo, per ciò che io la conosco; e
trovata che noi l'avremo, che avrem noi a fare altro se non mettercela nella
scarsella e andare alle tavole de' cambiatori, le quali sapete che stanno
sempre cariche di grossi e di fiorini, e torcene quanti noi ne vorremo? Niuno
ci vedrà; e così potremo arricchire subitamente, senza avere tutto dì a
schiccherare le mura a modo che fa la lumaca.
Bruno e Buffalmacco,
udendo costui, fra sé medesimi cominciarono a ridere, e guatando l'un verso
l'altro fecer sembianti di maravigliarsi forte, e lodarono il consiglio di
Calandrino; ma domandò Buffalmacco, come questa pietra avesse nome. A
Calandrino, che era di grossa pasta, era già il nome uscito di mente, per che
egli rispose:
– Che abbiam noi a far
del nome, poi che noi sappiam la virtù? A me parrebbe che noi andassimo a
cercare senza star più.
– Or ben, – disse Bruno
– come è ella fatta?
Calandrin disse:
– Egli ne son d'ogni
fatta, ma tutte son quasi nere; per che a me pare che noi abbiamo a ricogliere
tutte quelle che noi vederem nere, tanto che noi ci abbattiamo ad essa; e per
ciò non perdiamo tempo, andiamo.
A cui Brun disse:
– Or t'aspetta; – e
volto a Buffalmacco disse:
– A me pare che
Calandrino dica bene; ma non mi pare che questa sia ora da ciò, per ciò che il
sole è alto e dà per lo Mugnone entro e ha tutte le pietre rasciutte, per che
tali paion testé bianche delle pietre che vi sono, che la mattina, anzi che il
sole l'abbia rasciutte, paion nere; e oltre a ciò molta gente per diverse
cagioni è oggi, che è dì di lavorare, per lo Mugnone, li quali vedendoci si
potrebbono indovinare quello che noi andassimo faccendo, e forse farlo essi
altressì, e potrebbe venire alle mani a loro, e noi avremmo perduto il trotto
per l'ambiadura. A me pare, se pare a voi, che questa sia opera da dover fare
da mattina, che si conoscon meglio le nere dalle bianche, e in dì di festa, che
non vi sarà persona che ci vegga.
Buffalmacco lodò il
consiglio di Bruno, e Calandrino vi s'accordò, e ordinarono che la domenica
mattina vegnente tutti e tre fossero insieme a cercar di questa pietra; ma
sopra ogn'altra cosa gli pregò Calandrino che essi non dovesser questa cosa con
persona del mondo ragionare, per ciò che a lui era stata posta in credenza. E
ragionato questo, disse loro ciò che udito avea della contrada di Bengodi, con
saramenti affermando che così era. Partito Calandrino da loro, essi quello che
intorno a questo avessero a fare ordinarono fra sé medesimi. Calandrino con
disidero aspettò la domenica mattina; la qual venuta, in sul far del dì si
levò, e chiamati i compagni, per la porta a San Gallo usciti e nel Mugnon
discesi, cominciarono ad andare in giù, della pietra cercando. Calandrino
andava, come più volenteroso, avanti, e prestamente or qua e or là saltando,
dovunque alcuna pietra nera vedeva, si gittava, e quella ricogliendo si metteva
in seno. I compagni andavano appresso, e quando una e quando un'altra ne
ricoglievano; ma Calandrino non fu guari di via andato, che egli il seno se n'ebbe
pieno; per che, alzandosi i gheroni della gonnella, che all'analda non era, e
faccendo di quegli ampio grembo, bene avendogli alla coreggia attaccati d'ogni
parte, non dopo molto gli empié, e similmente, dopo alquanto spazio, fatto del
mantello grembo, quello di pietre empiè.
Per che, veggendo
Buffalmacco e Bruno che Calandrino era carico e l'ora del mangiare
s'avvicinava, secondo l'ordine da sé posto, disse Bruno a Buffalmacco:
– Calandrino dove è?
Buffalmacco, che ivi
presso sel vedeva, volgendosi intorno e or qua e or là riguardando, rispose:
– Io non so, ma egli era
pur poco fa qui dinanzi da noi.
Disse Bruno:
– Ben che fa poco! a me
par egli esser certo che egli è ora a casa a desinare, e noi ha lasciati nel farnetico
d'andar cercando le pietre nere giù per lo Mugnone.
– Deh come egli ha ben
fatto, – disse allora Buffalmacco – d'averci beffati e lasciati qui, poscia che
noi fummo sì sciocchi che noi gli credemmo. Sappi! chi sarebbe stato sì stolto
che avesse creduto che in Mugnone si dovesse trovare una così virtuosa pietra,
altri che noi? Calandrino, queste parole udendo, imaginò che quella pietra alle
mani gli fosse venuta e che per la virtù d'essa coloro, ancor che lor fosse
presente, nol vedessero. Lieto adunque oltre modo di tal ventura, senza dir
loro alcuna cosa, pensò di tornarsi a casa; e volti i passi indietro, se ne
cominciò a venire.
Vedendo ciò, Buffalmacco
disse a Bruno:
– Noi che faremo? Ché
non ce ne andiam noi?
A cui Bruno rispose:
– Andianne; ma io giuro
a Dio che mai Calandrino non me ne farà più niuna; e se io gli fossi presso,
come stato sono tutta mattina, io gli darei tale di questo ciotto nelle
calcagna, che egli si ricorderebbe forse un mese di questa beffa –; e il dir le
parole e l'aprirsi e 'l dar del ciotto nel calcagna a Calandrino fu tutto uno.
Calandrino, sentendo il duolo, levò alto il piè e cominciò a soffiare, ma pur
si tacque e andò oltre.
Buffalmacco, recatosi in
mano uno de' ciottoli che raccolti avea, disse a Bruno:
– Deh! vedi bel codolo,
così giugnesse egli testé nelle reni a Calandrino! – e lasciato andare, gli diè
con esso nelle reni una gran percossa. E in brieve in cotal guisa or con una
parola, e or con una altra su per lo Mugnone infino alla porta a San Gallo il vennero
lapidando. Quindi, in terra gittate le pietre che ricolte aveano, alquanto con
le guardie de' gabellieri si ristettero; le quali, prima da loro informate,
faccendo vista di non vedere, lasciarono andar Calandrino con le maggior risa
del mondo. Il quale senza arrestarsi se ne venne a casa sua, la quale era
vicina al Canto alla Macina; e in tanto fu la fortuna piacevole alla beffa,
che, mentre Calandrino per lo fiume ne venne e poi per la città, niuna persona
gli fece motto, come che pochi ne scontrasse, per ciò che quasi a desinare era
ciascuno.
Entrossene adunque
Calandrino così carico in casa sua.
Era per avventura la
moglie di lui, la quale ebbe nome monna Tessa, bella e valente donna, in capo
della scala; e alquanto turbata della sua lunga dimora, veggendol venire,
cominciò proverbiando a dire:
– Mai, frate, il diavol
ti ci reca! ogni gente ha già desinato quando tu torni a desinare.
Il che udendo
Calandrino, e veggendo che veduto era, pieno di cruccio e di dolore cominciò a
gridare: – Ohimè, malvagia femina, o eri tu costì? Tu m'hai diserto; ma in fè
di Dio io te ne pagherò –; e salito in una sua saletta e quivi scaricate le
molte pietre che recate avea, niquitoso corse verso la moglie, e presala per le
treccie la si gittò a' piedi, e quivi, quanto egli poté menar le braccia e'
piedi, tanto le diè per tutta la persona pugna e calci, senza lasciarle in capo
capello o osso addosso che macero non fosse, niuna cosa valendole il chieder
mercé con le mani in croce.
Buffalmacco e Bruno, poi
che co' guardiani della porta ebbero alquanto riso, con lento passo
cominciarono alquanto lontani a seguitar Calandrino, e giunti a piè dell'uscio
di lui, sentirono la fiera battitura la quale alla moglie dava, e faccendo
vista di giugnere pure allora, il chiamarono. Calandrino tutto sudato, rosso e
affannato si fece alla finestra, e pregogli che suso a lui dovessero andare.
Essi, mostrandosi alquanto turbati, andaron suso e videro la sala piena di
pietre, e nell'un de' canti la donna scapigliata, stracciata, tutta livida e
rotta nel viso dolorosamente piagnere, e d'altra parte Calandrino scinto e
ansando a guisa d'uom lasso sedersi. Dove come alquanto ebbero riguardato,
dissero:
– Che è questo,
Calandrino? Vuoi tu murare, che noi veggiamo qui tante pietre? –
E oltre a questo
soggiunsero:
– E monna Tessa che ha?
E' par che tu l'abbi battuta; che novelle son queste?
Calandrino, faticato dal
peso delle pietre e dalla rabbia con la quale la donna aveva battuta, e dal
dolore della ventura la quale perduta gli pareva avere, non poteva raccogliere
lo spirito a formare intera la parola alla risposta. Per che soprastando,
Buffalmacco ricominciò:
– Calandrino, se tu
aveva altra ira, tu non ci dovevi perciò straziare come fatto hai; ché, poi
sodotti ci avesti a cercar teco della pietra preziosa, senza dirci a Dio né a
diavolo, a guisa di due becconi nel Mugnon ci lasciasti, e venistitene, il che
noi abbiamo forte per male; ma per certo questa fia la sezzaia che tu ci farai
mai.
A queste parole
Calandrino sforzandosi rispose:
– Compagni, non vi
turbate, l'opera sta altramenti che voi non pensate. Io, sventurato! avea
quella pietra trovata; e volete udire se io dico il vero? Quando voi
primieramente di me domandaste l'un l'altro, io v'era presso a men di diece
braccia; e veggendo che voi ve ne venavate e non mi vedavate, v'entrai innanzi,
e continuamente poco innanzi a voi me ne son venuto.
E, cominciandosi dall'un
de' capi, infino la fine raccontò loro ciò che essi fatto e detto aveano, e
mostrò loro il dosso e le calcagna come i ciotti conci gliel'avessero, e poi
seguitò:
– E dicovi che, entrando
alla porta con tutte queste pietre in seno che voi vedete qui, niuna cosa mi fu
detta, ché sapete quanto esser sogliano spiacevoli e noiosi que' guardiani a
volere ogni cosa vedere; e oltre a questo ho trovati per la via più miei
compari e amici, li quali sempre mi soglion far motto e invitarmi a bere, né
alcun fu che parola mi dicesse né mezza, sì come quegli che non mi vedeano.
Alla fine, giunto qui a casa, questo diavolo di questa femina maladetta mi si
parò dinanzi ed ebbemi veduto, per ciò che, come voi sapete, le femine fanno
perder la virtù ad ogni cosa: di che io, che mi poteva dire il più avventurato
uom di Firenze, sono rimaso il più sventurato; e per questo l'ho tanto battuta
quant'io ho potuto menar le mani, e non so a quello che io mi tengo che io non
le sego le veni; che maladetta sia l'ora che io prima la vidi e quand'ella mi
venne in questa casa! E raccesosi nell'ira, si voleva levar. per tornare a
batterla da capo.
Buffalmacco e Bruno,
queste cose udendo, facevan vista di maravigliarsi forte e spesso affermavano
quello che Calandrino diceva, e avevano sì gran voglia di ridere che quasi
scoppiavano; ma, vedendolo furioso levare per battere un'altra volta la moglie,
levatiglisi allo 'ncontro il ritennero, dicendo di queste cose niuna colpa aver
la donna, ma egli che sapeva che le femine facevano perdere la virtù alle cose
e non le aveva detto che ella si guardasse d'apparirgli innanzi quel giorno: il
quale avvedimento Iddio gli aveva tolto o per ciò che la ventura non doveva
esser sua, o perch'egli aveva in animo d'ingannare i suoi compagni, a' quali,
come s'avvedeva d'averla trovata, il doveva palesare.
E dopo molte parole, non
senza gran fatica, la dolente donna riconciliata con essolui, e lasciandol
malinconoso colla casa piena di pietre, si partirono.
NOVELLA QUARTA Il
proposto di Fiesole ama una donna vedova; non è amato da lei, e credendosi
giacer con lei, giace con una sua fante, e i fratelli della donna vel fanno
trovare al vescovo suo.
Venuta era Elissa alla
fine della sua novella, non senza gran piacere di tutta la compagnia avendola
raccontata, quando la reina, ad Emilia voltatasi, le mostrò voler che ella
appresso d'Elissa la sua raccontasse, la quale prestamente così cominciò.
Valorose donne, quanto i
preti e' frati e ogni cherico sieno sollecitatori delle menti nostre, in più
novelle dette mi ricorda essere mostrato; ma per ciò che dir non se ne potrebbe
tanto che ancora più non ne fosse, io, oltre a quelle, intendo di dirvene una
d'un proposto, il quale, malgrado di tutto il mondo, voleva che una gentil
donna vedova gli volesse bene o volesse ella o no; la quale, si come molto
savia, il trattò sì come egli era degno. Come ciascuna di voi sa, Fiesole, il
cui poggio noi possiamo di quinci vedere, fu già antichissima città e grande,
come che oggi tutta disfatta sia, né per ciò è mai cessato che vescovo avuto non
abbia, e ha ancora. Quivi vicino alla maggior chiesa ebbe già una gentil donna
vedova, chiamata monna Piccarda, un suo podere con una casa non troppo grande;
e per ciò che la più agiata donna del mondo non era, quivi la maggior parte
dell'anno dimorava e con lei due suoi fratelli, giovani assai dabbene e
cortesi. Ora avvenne che, usando questa donna alla chiesa maggiore ed essendo
ancora assai giovane e bella e piacevole, di lei s'innamorò sì forte il
proposto della chiesa, che più qua né più là non vedea. E dopo alcun tempo fu
di tanto ardire, che egli medesimo disse a questa donna il piacer suo, e
pregolla che ella dovesse esser contenta del suo amore e d'amar lui come egli
lei amava. Era questo proposto d'anni già vecchio, ma di senno giovanissimo, baldanzoso
e altiero, e di sè ogni gran cosa presummeva, con suoi modi e costumi pieni di
scede e di spiacevolezze, e tanto sazievole e rincrescevole che niuna persona
era che ben gli volesse; e se alcuno ne gli voleva poco, questa donna era
colei, ché non solamente non ne gli voleva punto, ma ella l'aveva più in odio
che il mal del capo.
Per che ella, sì come
savia, gli rispose:
– Messere, che voi
m'amiate mi può esser molto caro, e io debbo amar voi e amerovvi volentieri; ma
tra 'l vostro amore e 'l mio niuna cosa disonesta dee cader mai. Voi siete mio
padre spirituale e siete prete, e già v'appressate molto bene alla vecchiezza,
le quali cose vi debbono fare e onesto e casto; e d'altra parte io non son
fanciulla, alla quale questi innamoramenti steano oggimai bene, e son vedova;
ché sapete quanta onestà nelle vedove si richiede; e per ciò abbiatemi per
iscusata, che al modo che voi mi richiedete io non v'amerò mai, né così voglio
essere amata da voi.
Il proposto, per quella
volta non potendo trarre da lei altro, non fece come sbigottito o vinto al
primo colpo, ma, usando la sua trascutata prontezza, la sollicitò molte volte e
con lettere e con ambasciate, e ancora egli stesso quando nella chiesa la
vedeva venire. Per che, parendo questo stimolo troppo grave e troppo noioso
alla donna, si pensò di volerlosi levar da dosso per quella maniera la quale
egli meritava, poscia che altramenti non poteva; ma cosa alcuna far non volle,
che prima co' fratelli no 'l ragionasse. E detto loro ciò che il proposto verso
lei operava, e quello ancora che ella intendeva di fare, e avendo in ciò piena
licenza da loro, ivi a pochi giorni andò alla chiesa come usata era. La quale
come il proposto vide, così se ne venne verso lei e, come far soleva, per un
modo parentevole seco entrò in parole.
La donna, vedendol
venire, e verso lui riguardando, gli fece lieto viso, e da una parte tiratisi,
avendole il proposto molte parole dette al modo usato, la donna dopo un gran
sospiro disse:
– Messere, io ho udito
assai volte che egli non è alcun castello sì forte che, essendo ogni dì
combattuto, non venga fatto d'esser preso una volta, il che io veggo molto bene
in me essere avvenuto. Tanto, ora con dolci parole e ora con una piacevolezza e
ora con un'altra, mi siete andato d'attorno, che voi m'avete fatto rompere il
mio proponimento, e son disposta, poscia che io così vi piaccio, a volere esser
vostra.
Il proposto tutto lieto
disse:
– Madonna, gran mercè; e
a dirvi il vero, io mi son forte maravigliato come voi vi siete tanto tenuta,
pensando che mai più di niuna non m'avvenne; anzi ho io alcuna volta detto: –
Se le femine fossero d'ariento, elle non varrebbon denaio, per ciò che niuna se
ne terrebbe a martello –. Ma lasciamo andare ora questo: quando e dove potrem
noi essere insieme?
A cui la donna rispose:
– Signor mio dolce, il
quando potrebbe essere qual ora più ci piacesse, perciò che io non ho marito a
cui mi convenga render ragion delle notti, ma io non so pensare il dove.
Disse il proposto:
– Come no? O in casa
vostra?
Rispose la donna:
– Messer, voi sapete che
io ho due fratelli giovani, li quali e di dì e di notte vengono in casa con lor
brigate, e la casa mia non è troppo grande, e per ciò esser non vi si potrebbe,
salvo chi non volesse starvi a modo di mutolo, senza far motto o zitto alcuno e
al buio a modo di ciechi; vogliendo far così, si potrebbe, per ciò che essi non
s'impacciano nella camera mia; ma è la loro sì allato alla mia, che paroluzza
sì cheta non si può dire che non si senta.
Disse allora il
proposto:
– Madonna, per questo
non rimanga per una notte per due, intanto che io pensi dove noi possiamo
essere in altra parte con più agio.
La donna disse:
– Messere, questo stea
pure a voi; ma d'una cosa vi priego: che questo stea segreto, che mai parola
non se ne sappia.
Il proposto disse
allora:
– Madonna, non dubitate
di ciò, e se esser puote, fate che istasera noi siamo insieme.
La donna disse:
– Piacemi –; e datogli
l'ordine come e quando venir dovesse, si partì e tornossi a casa.
Aveva questa donna una
sua fante, la qual non era però troppo giovane, ma ella aveva il più brutto
viso e il più contrafatto che si vedesse mai; ché ella aveva il naso
schiacciato forte e la bocca torta e le labbra grosse e i denti mal composti e
grandi, e sentiva del guercio, né mai era senza mal d'occhi, con un color verde
e giallo, che pareva che non a Fiesole ma a Sinigaglia avesse fatta la state; e
oltre a tutto questo era sciancata e un poco monca dal lato destro; e il suo
nome era Ciuta; e perché così cagnazzo viso avea, da ogn'uomo era chiamata
Ciutazza. E benché ella fosse contrafatta della persona, ella era pure alquanto
maliziosetta.
La quale la donna chiamò
a sè e dissele:
– Ciutazza, se tu mi
vuoi fare un servigio stanotte, io ti donerò una bella camicia nuova.
La Ciutazza, udendo
ricordar la camicia, disse:
– Madonna, se voi mi
date una camicia, io mi gitterò nel fuoco, non che altro.
– Or ben, – disse la
donna – io voglio che tu giaccia stanotte con uno uomo entro il letto mio, e
che tu gli faccia carezze, e guarditi ben di non far motto, sì che tu non fossi
sentita da' fratei miei, ché sai che ti dormono allato; e poscia io ti darò la
camicia.
La Ciutazza disse:
– Sì dormirò io con sei,
non che con uno, se bisognerà. Venuta adunque la sera, messer lo proposto
venne, come ordinato gli era stato, e i due giovani, come la donna composto
avea, erano nella camera loro e facevansi ben sentire; per che il proposto, tacitamente
e al buio nella camera della donna entratosene, se n'andò, come ella gli disse,
al letto, e dall'altra parte la Ciutazza, ben dalla donna informata di ciò che
a far avesse.
Messer lo proposto,
credendosi aver la donna sua allato, si recò in braccio la Ciutazza, e
cominciolla a baciar senza dir parola, e la Ciutazza lui; e cominciossi il
proposto a sollazzar con lei, la possession pigliando de' beni lungamente
disiderati.
Quando la donna ebbe
questo fatto, impose a' fratelli che facessero il rimanente di ciò che ordinato
era; li quali, chetamente della camera usciti, n'andarono verso la piazza, e fu
lor la fortuna in quello che far volevano più favorevole che essi medesimi non
dimandavano; per ciò che, essendo il caldo grande, aveva domandato il vescovo
di questi due giovani, per andarsi infino a casa lor diportando e ber con loro.
Ma come venir gli vide, così detto loro il suo disidero, con loro si mise in
via, e in una lor corticella fresca entrato, dove molti lumi accesi erano, con
gran piacer bevve d'un loro buon vino.
E avendo bevuto, dissono
i giovani:
– Messer, poi che tanta
di grazia n'avete fatto, che degnato siete di visitar questa nostra piccola
casetta, alla quale noi venavamo ad invitarvi, noi vogliam che vi piaccia di
voler vedere una cosetta che noi vi vogliam mostrare.
Il vescovo rispose che
volentieri; per che l'un de' giovani, preso un torchietto acceso in mano e
messosi innanzi, seguitandolo il vescovo e tutti gli altri, si dirizzò verso la
camera dove messer lo proposto giaceva con la Ciutazza. Il quale, per giugner
tosto, s'era affrettato di cavalcare, ed era, avanti che costor quivi
venissero, cavalcato già delle miglia più di tre; per che istanchetto, avendo,
non ostante il caldo, la Ciutazza in braccio, si riposava. Entrato adunque con
lume in mano il giovane nella camera, e il vescovo appresso e poi tutti gli
altri, gli fu mostrato il proposto con la Ciutazza in braccio. In questo
destatosi messer lo proposto, e veduto il lume e questa gente dattornosi,
vergognandosi forte e temendo, mise il capo sotto i panni. Al quale il vescovo
disse una gran villania, e fecegli trarre il capo fuori e vedere con cui
giaciuto era.
Il proposto, conosciuto
lo 'nganno della donna, sì per quello e sì per lo vituperio che aver gli parea,
subito divenne il più doloroso uomo che fosse mai; e per comandamento del
vescovo rivestitosi, a patir gran penitenza del peccato commesso con buona
guardia ne fu mandato alla chiesa. Volle il vescovo appresso sapere come questo
fosse avvenuto, che egli quivi con la Ciutazza fosse a giacere andato. I
giovani gli dissero ordinatamente ogni cosa. Il che il vescovo udito, commendò
molto la donna e i giovani altressì, che, senza volersi del sangue de' preti
imbrattar le mani, lui sì come egli era degno avean trattato.
Questo peccato gli fece
il vescovo piagnere quaranta dì, ma amore e isdegno gliele fecero piagnere più
di quarantanove, senza che, poi ad un gran tempo, egli non poteva mai andar per
via che egli non fosse da' fanciulli mostrato a dito, li quali dicevano:
– Vedi colui che giacque
con la Ciutazza –; il che gli era sì gran noia, che egli ne fu quasi in su lo
'mpazzare. E in così fatta guisa la valente donna si tolse da dosso la noia
dello impronto proposto; e la Ciutazza guadagnò la camicia.
NOVELLA QUINTA
Tre giovani traggono le
brache ad un giudice marchigiano in Firenze, mentre che egli, essendo al banco,
teneva ragione.
Fatto aveva Emilia fine
al suo ragionamento, essendo stata la vedova donna commendata da tutti, quando
la reina, a Filostrato guardando, disse:
– A te viene ora il
dover dire.
Per la qual cosa egli
prestamente rispose sè essere apparecchiato, e cominciò.
Dilettose donne, il
giovane che Elissa poco avanti nominò, cioè Maso del Saggio, mi farà lasciare
stare una novella la quale io di dire intendeva, per dirne una di lui e
d'alcuni suoi compagni, la quale ancora che disonesta non sia, per ciò che
vocaboli in essa s'usano che voi d'usar vi vergognate, nondimeno è ella tanto
da ridere, che io la pur dirò.
Come voi tutte potete
avere udito, nella nostra città vengono molto spesso rettori marchigiani, li
quali generalmente sono uomini di povero cuore e di vita tanto strema e tanto
misera, che altro non pare ogni lor fatto che una pidocchieria; e per questa
loro innata miseria e avarizia, menan seco e giudici e notai, che paion uomini
levati più tosto dallo aratro o tratti dalla calzoleria, che delle scuole delle
leggi.
Ora, essendovene venuto
uno per podestà, tra gli altri molti giudici che seco menò, ne menò uno il
quale si facea chiamare messer Niccola da San Lepidio, il qual pareva più tosto
un magnano che altro a vedere, e fu posto costui tra gli altri giudici ad udire
le quistion criminali. E come spesso avviene che, bene che i cittadini non
abbiano a fare cosa del mondo a Palagio, pur talvolta vi vanno, avvenne che
Maso del Saggio una mattina, cercando d'un suo amico, v'andò; e venutogli
guardato là dove questo messer Niccola sedeva, parendogli che fosse un nuovo
uccellone, tutto il venne considerando. E, come che egli gli vedesse il vaio
tutto affumicato in capo e un pennaiuolo a cintola, e più lunga la gonnella che
la guarnacca, e assai altre cose tutte strane da ordinato e costumato uomo, tra
queste una, ch'è più notabile che alcuna dell'altre, al parer suo, ne gli vide,
e ciò fu un paio di brache, le quali, sedendo egli e i panni per istrettezza
standogli aperti dinanzi, vide che il fondo loro in fino a mezza gamba gli
aggiugnea. Per che, senza star troppo a guardarle, lasciato quello che andava
cercando, incominciò a far cerca nuova, e trovò due suoi compagni, de' quali
l'uno aveva nome Ribi e l'altro Matteuzzo, uomini ciascun di loro non meno
sollazzevoli che Maso, e disse loro:
– Se vi cal di me,
venite meco infino a Palagio, ché io vi voglio mostrare il più nuovo
squasimodeo che voi vedeste mai.
E con loro andatosene in
Palagio, mostrò loro questo giudice e le brache sue. Costoro dalla lungi
cominciarono a ridere di questo fatto, e fattisi più vicini alle panche sopra
le quali messer lo giudice stava, vider che sotto quelle panche molto
leggiermente si poteva andare, e oltre a ciò videro rotta l'asse sopra la quale
messer lo giudicio teneva i piedi, tanto che a grand'agio vi si poteva mettere
la mano e 'l braccio.
E allora Maso disse a'
compagni:
– Io voglio che noi gli
traiamo quelle brache del tutto, per ciò che si può troppo bene.
Aveva già ciascun de'
compagni veduto come: per che, fra sè ordinato che dovessero fare e dire, la
seguente mattina vi ritornarono; ed essendo la corte molto piena d'uomini,
Matteuzzo, che persona non se ne avvide, entrò sotto il banco e andossene
appunto sotto il luogo dove il giudice teneva i piedi. Maso dall'un de' lati
accostatosi a messer lo giudice, il prese per lo lembo della guarnacca, e Ribi
accostatosi dall'altro e fatto il simigliante, incominciò Maso a dire:
– Messer, o messere; io
vi priego per Dio, che, innanzi che cotesto ladroncello, che v'è costì dallato,
vada altrove, che voi mi facciate rendere un mio paio d'uose le quali egli m'ha
imbolate, e dice pur di no, e io il vidi, non è ancora un mese, che le faceva
risolare.
Ribi dall'altra parte
gridava forte:
– Messere, non gli
credete, ché egli è un ghiottoncello, e perché egli sa che io son venuto a
richiamarmi di lui d'una valigia la quale egli m'ha imbolata, ed egli è testè
venuto e dice dell'uose, che io m'aveva in casa infin vie l'altrieri, e se voi
non mi credeste, io vi posso dare per testimonia la trecca mia dallato, e la
Grassa ventraiuola, e un che va raccogliendo la spazzatura da Santa Maria a
Verzaia, che 'l vide quando egli tornava di villa. Maso d'altra parte non
lasciava dire a Ribi, anzi gridava, e Ribi gridava ancora. E mentre che il giudice
stava ritto e loro più vicino per intendergli meglio, Matteuzzo, preso tempo,
mise la mano per lo rotto dell'asse, e pigliò il fondo delle brache del
giudice, e tirò giù forte. Le brache ne venner giuso incontanente, per ciò che
il giudice era magro e sgroppato. Il quale, questo fatto sentendo e non
sappiendo che ciò si fosse, volendosi tirare i panni dinanzi e ricoprirsi e
porsi a sedere, Maso dall'un lato e Ribi dall'altro pur tenendolo e gridando
forte:
– Messer, voi fate
villania a non farmi ragione, e non volermi udire, e volervene andare altrove;
di così piccola cosa, come questa è, non si dà libello in questa terra –; e
tanto in queste parole il tennero per li panni, che quanti nella corte n'erano
s'accorsero essergli state tratte le brache. Ma Matteuzzo, poi che alquanto
tenute l'ebbe, lasciatele, se n'uscì fuori e andossene senza esser veduto.
Ribi, parendogli di aver assai fatto, disse:
– Io fo boto a Dio
d'aiutarmene al sindacato.
E Maso dall'altra parte,
lasciatagli la guarnacca disse:
– No, io ci pur verrò
tante volte, che io vi troverrò così impacciato come voi siete paruto stamane
–; e l'uno in qua e l'altro in là, come più tosto poterono, si partirono.
Messer lo giudice, tirate in su le brache in presenza d'ogni uomo, come se da
dormir si levasse accorgendosi pure allora del fatto, domandò dove fossero
andati quegli che dell'uose e della valigia avevan quistione; ma, non
ritrovandosi, cominciò a giurare per le budella di Dio che e' gli conveniva
cognoscere e saper se egli s'usava a Firenze di trarre le brache a' giudici,
quando sedevano al banco della ragione.
Il podestà d'altra
parte, sentitolo, fece un grande schiamazzio; poi per suoi amici mostratogli
che questo non gli era fatto se non per mostrargli che i fiorentini conoscevano
che, dove egli doveva aver menati giudici, egli aveva menati becconi per averne
miglior mercato, per lo miglior si tacque, né più avanti andò la cosa per
quella volta.
NOVELLA SESTA
Bruno e Buffalmacco
imbolano un porco a Calandrino; fannogli fare la sperienzia da ritrovarlo con
galle di gengiovo e con vernaccia, e a lui ne danno due, l'una dopo l'altra, di
quelle del cane confettate in aloè, e pare che l'abbia avuto egli stesso;
fannolo ricomperare, se egli non vuole che alla moglie il dicano.
Non ebbe prima la
novella di Filostrato fine, della quale molto si rise, che la reina a Filomena
impose che seguitando dicesse; la quale incominciò.
Graziose donne, come
Filostrato fu dal nome di Maso tirato a dover dire la novella la quale da lui
udita avete, così né più né men son tirata io da quello di Calandrino e de'
compagni suoi a dirne un'altra di loro, la qual, sì come io credo, vi piacerà.
Chi Calandrino, Bruno e
Buffalmacco fossero non bisogna che io vi mostri, ché assai l'avete di sopra
udito; e per ciò, più avanti faccendomi, dico che Calandrino aveva un suo
poderetto non guari lontano da Firenze, che in dote aveva avuto della moglie,
del quale tra l'altre cose che su vi ricoglieva, n'aveva ogn'anno un porco, ed
era sua usanza sempre colà di dicembre d'andarsene la moglie ed egli in villa,
e ucciderlo e quivi farlo salare. Ora avvenne una volta tra l'altre che, non
essendo la moglie ben sana, Calandrino andò egli solo ad uccidere il porco; la
qual cosa sentendo Bruno e Buffalmacco, e sappiendo che la moglie di lui non
v'andava, se n'andarono ad un prete loro grandissimo amico, vicino di
Calandrino, a starsi con lui alcun dì.
Aveva Calandrino, la
mattina che costor giunsero il dì, ucciso il porco, e vedendogli col prete, gli
chiamò e disse:
– Voi siate i ben
venuti. Io voglio che voi veggiate che massaio io sono; e menatigli in casa,
mostrò loro questo porco.
Videro costoro il porco
esser bellissimo, e da Calandrino intesero che per la famiglia sua il voleva salare.
A cui Brun disse:
– Deh! come tu se'
grosso! Vendilo, e godianci i denari; e a mogliata dì che ti sia stato
imbolato.
Calandrino disse:
– No, ella nol
crederrebbe, e caccerebbemi fuor di casa; non v'impacciate, ché io nol farei
mai.
Le parole furono assai,
ma niente montarono. Calandrino gl'invitò a cena cotale alla trista, sì che
costoro non vi vollon cenare, e partirsi da lui.
Disse Bruno a
Buffalmacco:
– Vogliangli noi
imbolare stanotte quel porco?
Disse Buffalmacco:
– O come potremmo noi?
Disse Bruno:
– Il come ho io ben
veduto, se egli nol muta di là ove egli era testé.
– Adunque, – disse
Buffalmacco – faccianlo; perché nol faremo noi? E poscia cel goderemo qui
insieme col domine.
Il prete disse che gli
era molto caro. Disse allora Bruno:
– Qui si vuole usare un
poco d'arte: tu sai, Buffalmacco, come Calandrino è avaro e come egli bee
volentieri quando altri paga; andiamo e meniallo alla taverna, e quivi il prete
faccia vista di pagare tutto per onorarci e non lasci pagare a lui nulla; egli
si ciurmerà, e verracci troppo ben fatto poi, per ciò che egli è solo in casa.
Come Brun disse, così fecero. Calandrino, veggendo che il prete nol lasciava
pagare, si diede in sul bere, e benché non ne gli bisognasse troppo, pur si caricò
bene; ed essendo già buona ora di notte quando dalla taverna si partì, senza
volere altramenti cenare, se n'entrò in casa, e credendosi aver serrato
l'uscio, il lasciò aperto e andossi al letto.
Buffalmacco e Bruno se
n'andarono a cenare col prete, e, come cenato ebbero, presi loro argomenti per
entrare in casa Calandrino là onde Bruno aveva divisato, là chetamente
n'andarono; ma, trovando aperto l'uscio, entrarono dentro, e ispiccato il
porco, via a casa del prete nel portarono, e ripostolo, se n'andarono a
dormire. Calandrino, essendogli il vino uscito del capo, si levò la mattina, e,
come scese giù, guardò e non vide il porco suo, e vide l'uscio aperto; per che,
domandato questo e quell'altro se sapessero chi il porco s'avesse avuto, e non
trovandolo, incominciò a fare il romore grande: ohisé, dolente sé, che il porco
gli era stato imbolato. Bruno e Buffalmacco levatisi, se n'andarono verso
Calandrino, per udir ciò che egli del porco dicesse. Il qual, come gli vide,
quasi piagnendo chiamatigli, disse:
– Ohimè, compagni miei,
che il porco mio m'è stato imbolato.
Bruno, accostatoglisi,
pianamente gli disse:
– Maraviglia, che
séstato savio una volta.
– Ohimè, – disse
Calandrino – ché io dico da dovero.
– Così di', – diceva
Bruno – grida forte sì, che paia bene che sia stato cosi.
Calandrino gridava
allora più forte e diceva:
– Al corpo di Dio, che
io dico da dovero che egli m'è stato imbolato.
E Bruno diceva:
– Ben di', ben di': e'
si vuol ben dir così, grida forte fatti ben sentire, sì che egli paia vero.
Disse Calandrino:
– Tu mi faresti dar
l'anima al nimico. Io dico che tu non mi credi, se io non sia impiccato per la
gola, che egli m'è stato imbolato.
Disse allora Bruno:
– Deh! come dee potere
esser questo? Io il vidi pure ieri costì. Credimi tu far credere che egli sia
volato?
Disse Calandrino:
– Egli è come io ti
dico.
– Deh! – disse Bruno –
può egli essere?
– Per certo, – disse
Calandrino – egli è così, di che io son diserto e non so come io mi torni a
casa: mogliema nol mi crederà, e se ella il mi pur crede, io non avrò uguanno
pace con lei.
Disse allora Bruno:
– Se Dio mi salvi,
questo è mal fatto, se vero è; ma tu sai, Calandrino, che ieri io t'insegnai
dir così: io non vorrei che tu ad un'ora ti facessi beffe di moglieta e di noi.
Calandrino incominciò a
gridare e a dire:
– Deh perché mi farete
disperare e bestemmiare Iddio e' santi e ciò che v'è? Io vi dico che il porco
m'è stato sta notte imbolato.
Disse allora
Buffalmacco:
– Se egli è pur così,
vuolsi veder via, se noi sappiamo, di riaverlo.
– E che via – disse
Calandrino – potrem noi trovare? Disse allora Buffalmacco:
– Per certo egli non c'è
venuto d'India niuno a torti il porco; alcuno di questi tuoi vicini dee essere
stato; e per ciò, se tu gli potessi ragunare, io so fare la esperienza del pane
e del formaggio e vederemmo di botto chi l'ha avuto. – Sì, – disse Bruno ben
farai con pane e con formaggio a certi gentilotti che ci ha dattorno, ché son
certo che alcun di loro l'ha avuto, e avvederebbesi del fatto, e non ci
vorrebber venire.
– Come è dunque da fare?
– disse Buffalmacco.
Rispose Bruno:
– Vorrebbesi fare con
belle galle di gengiovo e con bella vernaccia, e invitargli a bere. Essi non
sel penserebbono e verrebbono; e così si possono benedire le galle del
gengiovo, come il pane e 'l cacio.
Disse Buffalmacco:
– Per certo tu di'il
vero; e tu, Calandrino, che di'? Vogliallo fare?
Disse Calandrino:
– Anzi ve ne priego io
per l'amor di Dio; ché, se io sapessi pur chi l'ha avuto, sì mi parrebbe esser
mezzo consolato.
– Or via, – disse Bruno
– io sono acconcio d'andare infino a Firenze per quelle cose in tuo servigio,
se tu mi dai i denari.
Aveva Calandrino forse
quaranta soldi, li quali egli gli diede.
Bruno, andatosene a
Firenze ad un suo amico speziale, comperò una libbra di belle galle di
gengiovo, e fecene far due di quelle del cane, le quali egli fece confettare in
uno aloè patico fresco; poscia fece dar loro le coverte del zucchero, come
avevan l'altre, e per non ismarrirle o scambiarle, fece lor fare un certo
segnaluzzo per lo quale egli molto bene le conoscea, e comperato un fiasco
d'una buona vernaccia, se ne tornò in villa a Calandrino e dissegli:
– Farai che tu inviti
domattina a ber con teco tutti coloro di cui tu hai sospetto; egli è festa,
ciascun verrà volentieri, e io farò stanotte insieme con Buffalmacco la
'ncantagione sopra le galle, e recherolleti domattina a casa, e per tuo amore io
stesso le darò, e farò e dirò ciò che fia da dire e da fare.
Calandrino così fece.
Ragunata adunque una
buona brigata tra di giovani fiorentini, che per la villa erano, e di
lavoratori, la mattina vegnente, dinanzi alla chiesa intorno all'olmo, Bruno e
Buffalmacco vennono con una scatola di galle e col fiasco del vino, e fatti
stare costoro in cerchio, disse Bruno:
- Signori, e' mi vi
convien dir la cagione per che voi siete qui, acciò che, se altro avvenisse che
non vi piacesse, voi non v'abbiate a ramaricar di me. A Calandrino, che qui è,
fu ier notte tolto un suo bel porco, né sa tro vare chi avuto se l'abbia; e per
ciò che altri che alcun di noi che qui siamo non gliele dee potere aver tolto,
esso, per ritrovar chi avuto l'ha, vi dà a mangiar queste galle una per uno, e
bere. E infino da ora sappiate che chi avuto avrà il porco, non potrà mandar
giù la galla, anzi gli parrà più amara che veleno, e sputeralla; e per ciò,
anzi che questa vergogna gli sia fatta in presenza di tanti, è forse il meglio che
quel cotale che avuto l'avesse, in penitenzia il dica al sere, e io mi rimarrò
di questo fatto.
Ciascun che v'era disse
che ne voleva volentier mangiare; per che Bruno, ordinatigli e messo Calandrino
tra loro, cominciatosi all'un de' capi, cominciò a dare a ciascun la sua, e,
come fu per mei Calandrino, presa una delle canine, gliele pose in mano.
Calandrino prestamente la si gittò in bocca e cominciò a masticare; ma sì tosto
come la lingua sentì l'aloè, così Calandrino, non potendo l'amaritudine sostenere,
la sputò fuori. Quivi ciascun guatava nel viso l'uno all'altro, perveder chi la
sua sputasse; e non avendo Bruno ancora compiuto di darle, non faccendo
sembianti d'intendere a ciò, s'udì dir dietro: – Eja, Calandrino, che vuol dir
questo? – per che prestamente rivolto, e veduto che Calandrino la sua aveva
sputata, disse:
– Aspettati, forse che
alcuna altra cosa gliele fece sputare: tenne un'altra –; e presa la seconda,
gliele mise in bocca, e fornì di dare l'altre che a dare aveva.
Calandrino, se la prima
gli era paruta amara, questa gli parve amarissima; ma pur vergognandosi di
sputarla, alquanto masticandola la tenne in bocca, e tenendola cominciò a
gittar le lagrime che parevan nocciuole, sì eran grosse; e ultimamente, non
potendo più, la gittò fuori come la prima aveva fatto.
Buffalmacco faceva dar
bere alla brigata, e Bruno; li quali, insieme con gli altri questo vedendo,
tutti dissero che per certo Calandrino se l'aveva imbolato egli stesso; e
furonvene di quegli che aspramente il ripresono. Ma pur, poi che partiti si
furono, rimasi Bruno e Buffalmacco con Calandrino, gl'incominciò Buffalmacco a
dire:
– Io l'aveva per lo
certo tuttavia che tu te l'avevi avuto tu, e a noi volevi mostrare che ti fosse
stato imbolato, per non darci una volta bere de' denari che tu n'avesti.
Calandrino, il quale ancora non aveva sputata l'amaritudine dello aloè,
incominciò a giurare che egli avuto non l'avea.
Disse Buffalmacco:
– Ma che n'avesti,
sozio, alla buona fè? Avestine sei?
Calandrino, udendo
questo, s'incominciò a disperare. A cui Brun disse:
– Intendi sanamente,
Calandrino, che egli fu tale nella brigata che con noi mangiò e bevve, che mi
disse che tu avevi quinci su una giovinetta che tu tenevi a tua posta, e davile
ciò che tu potevi rimedire, e che egli aveva per certo che tu l'avevi mandato
questo porco. Tu sì hai apparato ad esser beffardo! Tu ci menasti una volta giù
per lo Mugnone ricogliendo pietre nere, e quando tu ci avesti messo in galea
senza biscotto, e tu te ne venisti; e poscia ci volevi far credere che tu
l'avessi trovata; e ora similmente ti credi co' tuoi giuramenti far credere
altressì che il porco, che tu hai donato o ver venduto, ti sia stato imbolato.
Noi sì siamo usi delle tue beffe e conoscialle; tu non ce ne potresti far più;
e per ciò, a dirti il vero, noi ci abbiamo durata fatica in far l'arte, per che
noi intendiamo che tu ci doni due paia di capponi, se non che noi diremo a
monna Tessa ogni cosa. Calandrino, vedendo che creduto non gli era, parendogli
avere assai dolore, non volendo anche il riscaldamento della moglie, diede a
costoro due paia di capponi. Li quali, avendo essi salato il porco, portatisene
a Firenze, lasciaron Calandrino col danno e con le beffe.
NOVELLA SETTIMA
Uno scolare ama una
donna vedova, la quale, innamorata d'altrui, una notte di verno il fa stare
sopra la neve ad aspettarsi; la quale egli poi, con un suo consiglio, di mezzo
luglio ignuda tutto un dì la fa stare in su una torre alle mosche e a' tafani e
al sole.
Molto avevan le donne
riso del cattivello di Calandrino, e più n'avrebbono ancora, se stato non fosse
che loro in crebbe di vedergli torre ancora i capponi, a color che tolto gli
aveano il porco. Ma poi che la fine fu venuta, la reina a Pampinea impose che
dicesse la sua; ed essa prestamente così cominciò.
Carissime donne, spesse
volte avviene che l'arte è dall'arte schernita, e per ciò è poco senno il
dilettarsi di schernire altrui.
Noi abbiamo per più
novellette dette riso molto delle beffe state fatte, delle quali niuna vendetta
esserne stata fatta s'è raccontato; ma io intendo di farvi avere alquanta
compassione d'una giusta retribuzione ad una nostra cittadina renduta, alla
quale la sua beffa presso che con morte, essendo beffata, ritornò sopra il
capo. E questo udire non sarà senza utilità di voi, per ciò che meglio di
beffare altrui vi guarderete, e farete gran senno. Egli non sono ancora molti
anni passati, che in Firenze fu una giovane del corpo bella e d'animo altiera e
di legnaggio assai gentile, de' beni della fortuna convenevolmente abondante e
nominata Elena; la quale rimasa del suo marito vedova, mai più rimaritar non si
volle, essendosi ella d'un giovinetto bello e leggiadro a sua scelta
innamorata; e da ogni altra sollicitudine sviluppata, con l'opera d'una sua
fante, di cui ella si fidava molto, spesse volte con lui con maraviglioso
diletto si dava buon tempo. Avvenne che in questi tempi un giovane chiamato
Rinieri, nobile uomo della nostra città, avendo lungamente studiato a Parigi,
non per vender poi la sua scienzia a minuto, come molti fanno, ma per sapere la
ragion delle cose e la cagion d'esse (il che ottimamente sta in gentile uomo),
tornò da Parigi a Firenze; e quivi onorato molto sì per la sua nobiltà e sì per
la sua scienzia, cittadinescamente viveasi. Ma, come spesso avviene, coloro ne'
quali è più l'avvedimento delle cose profonde più tosto da amore essere
incapestrati, avvenne a questo Rinieri. Al quale, essendo egli un giorno per
via di diporto andato ad una festa, davanti agli occhi si parò questa Elena,
vestita di nero sì come le nostre vedove vanno, piena di tanta bellezza al suo
giudicio e di tanta piacevolezza, quanto alcuna altra ne gli fosse mai paruta
vedere; e seco estimò colui potersi beato chiamare, al quale Iddio grazia facesse
lei potere ignuda nelle braccia tenere. E una volta e altra cautamente
riguardatala, e conoscendo che le gran cose e care non si possono senza fatica
acquistare, seco diliberò del tutto di porre ogni pena e ogni sollicitudine in
piacere a costei, acciò che per lo piacerle il suo amore acquistasse, e per
questo il potere aver copia di lei. La giovane donna, la quale non teneva gli
occhi fitti in inferno, ma, quello e più tenendosi che ella era,
artificiosamente movendogli si guardava dintorno, e prestamente conosceva chi
con diletto la riguardava, accortasi di Rinieri, in sé stessa ridendo disse: –
Io non ci sarò oggi venuta in vano, ché, se io non erro, io avrò preso un
paolin per lo naso –. E cominciatolo con la coda dell'occhio alcuna volta a
guardare, in quanto ella poteva, s'ingegnava di dimostrar gli che di lui le
calesse; d'altra parte, pensandosi che quanti più n'adescasse e prendesse col
suo piacere, tanto di maggior pregio fosse la sua bellezza, e massimamente a
colui al quale ella insieme col suo amore l'aveva data.
Il savio scolare,
lasciati i pensier filosofici da una par te, tutto l'animo rivolse a costei; e,
credendosi doverle piacere, la sua casa apparata, davanti v'incominciò a
passare, con varie cagioni colorando l'andate. Al qual la donna, per la cagion
già detta di ciò seco stessa vanamente gloriandosi, mostrava di vederlo assai
volentieri; per la qual cosa lo scolare, trovato modo, s'accontò con la fante
di lei, e il suo amor le scoperse, e la pregò che con la sua donna operasse sì
che la grazia di lei potesse avere.
La fante promise
largamente e alla sua donna il raccontò, la quale con le maggior risa del mondo
l'ascoltò, e disse:
– Hai veduto dove costui
è venuto a perdere il senno che egli ci ha da Parigi recato? Or via, diangli di
quello ch'e'va cercando. Dira'gli, qualora egli ti parla più, che io amo molto
più lui che egli non ama me; ma che a me si convien di guardar l'onestà mia, sì
che io con l'altre donne possa andare a fronte scoperta, di che egli, se così è
savio come si dice, mi dee molto più cara avere. Ahi cattivella, cattivella,
ella non sapeva ben, donne mie, che cosa è il mettere in aia con gli scolari!
La fante, trovatolo,
fece quello che dalla donna sua le fu imposto.
Lo scolar lieto
procedette a più caldi prieghi e a scriver lettere e a mandar doni, e ogni cosa
era ricevuta, ma in dietro non venivan risposte se non generali; e in questa
guisa il tenne gran tempo in pastura.
Ultimamente, avendo ella
al suo amante ogni cosa scoperta ed egli essendosene con lei alcuna volta
turbato e alcuna gelosia presane, per mostrargli che a torto di ciò di lei
sospicasse, sollicitandola lo scolare molto, la sua fante gli mandò, la quale
da sua parte gli disse che ella tempo mai non aveva avuto da poter fare cosa
che gli piacesse poi che del suo amore fatta l'aveva certa, se non che per le
feste del Natale che s'appressava ella sperava di potere esser con lui; e per
ciò la seguente sera alla festa, di notte, se gli piacesse, nella sua corte se
ne venisse, dove ella per lui, come prima potesse, andrebbe. Lo scolare, più
che altro uom lieto, al tempo impostogli andò alla casa della donna, e messo
dalla fante in una corte e dentro serratovi, quivi la donna cominciò ad
aspettare.v La donna, avendosi quella sera fatto venire il suo amante e con lui
lietamente avendo cenato, ciò che fare quella notte intendeva gli ragionò,
aggiugnendo:
– E potrai vedere quanto
e quale sia l'amore, il quale io ho portato e porto a colui del quale
scioccamente hai gelosia presa.
Queste parole ascoltò
l'amante con gran piacer d'animo disideroso di vedere per opera ciò che la
donna con parole gli dava ad intendere. Era per avventura il dì davanti a
quello nevicato forte, e ogni cosa di neve era coperta; per la qual cosa lo
scolare fu poco nella corte dimorato, che egli cominciò a sentir più freddo che
voluto non avrebbe; ma, aspettando di ristorarsi, pur pazientemente il
sosteneva.
La donna al suo amante
disse dopo alquanto:
– Andiancene in camera,
e da una finestretta guardiamo ciò che colui, di cui tu se' divenuto geloso,
fa, e quello che egli risponderà alla fante, la quale io gli ho mandata a
favellare.
Andatisene adunque
costoro ad una finestretta, e veggendo senza esser veduti, udiron la fante da
un'altra favellare allo scolare e dire:
– Rinieri, madonna è la
più dolente femina che mai fosse, per ciò che egli ci è stasera venuto uno de'
suoi fratelli e ha molto con lei favellato, e poi volle cenar con lei, e ancora
non se n'è andato; ma io credo che egli se n'andrà tosto; e per questo non è
ella potuta venire a te, ma tosto verrà oggimai; ella ti priega che non ti
incresca l'aspettare.
Lo scolare, credendo
questo esser vero, rispose:
– Dirai alla mia donna
che di me niun pensier si dea in fino a tanto che ella possa con suo acconcio
per me venire; ma che questo ella faccia come più tosto può.
La fante, dentro
tornatasi se n'andò a dormire. La donna allora disse al suo amante:
– Ben, che dirai? Credi
tu che io, se quel ben gli volessi che tu temi, sofferissi che egli stesse là
giù ad agghiacciare? – e questo detto, con l'amante suo, che già in parte era
contento, se n'andò a letto, e grandissima pezza stettero in festa e in
piacere, del misero iscolare ridendosi e faccendosi beffe.
Lo scolare, andando per
la corte, sé esercitava per riscaldarsi, né aveva dove porsi a sedere né dove
fuggire il sereno, e maladiceva la lunga dimora del fratel con la donna; e ciò
che udiva credeva che uscio fosse che per lui dalla donna s'aprisse; ma invano
sperava. Essa infino vicino della mezza notte col suo amante sollazzatasi, gli
disse:
– Che ti pare, anima
mia, dello scolare nostro? Qual ti par maggiore o il suo senno o l'amore ch'io
gli porto? Faratti il freddo che io gli fo patire uscir del petto quello che
per li miei motti vi t'entrò l'altrieri?
L'amante rispose:
– Cuor del corpo mio,
sì, assai conosco che così come tu se' il mio bene e il mio riposo e il mio
diletto e tutta la mia speranza, così sono io la tua.
– Adunque, – diceva la
donna – or mi bacia ben mille volte, a veder se tu di'vero. – Per la qual cosa
l'amante, abbracciandola stretta, non che mille, ma più di cento milia la
baciava. E poi che in cotale ragionamento stati furono alquanto, disse la
donna:
– Deh! levianci un poco,
e andiamo a vedere se 'l fuoco è punto spento, nel quale questo mio novello
amante tutto il dì mi scrivea che ardeva.
E levati, alla
finestretta usata n'andarono, e nella corte guardando, videro lo scolare fare
su per la neve una carola trita al suon d'un batter di denti, che egli faceva
per troppo freddo, sì spessa e ratta, che mai simile veduta non aveano.
Allora disse la donna:
– Che dirai, speranza
mia dolce? Parti che io sappia far gli uomini carolare senza suono di trombe o
di cornamusa?
A cui l'amante ridendo
rispose:
– Diletto mio grande,
sì.
Disse la donna:
– Io voglio che noi
andiamo infin giù all'uscio: tu ti starai cheto e io gli parlerò, e udirem
quello che egli dirà; e per avventura n'avrem non men festa che noi abbiam di
vederlo.
E aperta la camera
chetamente, se ne scesero all'uscio, e quivi, senza aprir punto, la donna con
voce sommessa da un pertugetto che v'era il chiamò. Lo scolare, udendosi
chiamare, lodò Iddio, credendosi troppo bene entrar dentro; e accostatosi
all'uscio disse:
– Eccomi qui, madonna:
aprite per Dio, ché io muoio di freddo.
La donna disse:
– O sì che io so che tu
se' uno assiderato; e anche è il freddo molto grande, perché costì sia un poco
di neve! Già so io che elle sono molto maggiori a Parigi. Io non ti posso ancora
aprire, per ciò che questo mio maladetto fratello, che ier sera ci venne meco a
cenare, non se ne va ancora; ma egli se n'andrà tosto, e io verrò incontanente
ad aprirti. Io mi son testé con gran fatica scantonata da lui, per venirti a
confortare che l'aspettar non t'incresca.
Disse lo scolare:
– Deh! madonna, io vi
priego per Dio che voi m'apriate, acciò che io possa costì dentro stare al
coperto, per ciò che da poco in qua s'è messa la più folta neve del mondo, e
nevica tuttavia; e io v'attenderò quanto vi sarà a grado.
Disse la donna:
– Ohimè, ben mio dolce,
che io non posso ché questo uscio fa sì gran romore quando s'apre, che
leggermente sarei sentita da fratelmo, se io t'aprissi; ma io voglio andare a
dirgli che se ne vada, acciò che io possa poi tornare ad aprirti.
Disse lo scolare:
– Ora andate tosto; e
priegovi che voi facciate fare un buon fuoco, acciò che, come io enterrò
dentro, io mi possa riscaldare, ché io son tutto divenuto sì freddo che appena
sento di me.
Disse la donna:
– Questo non dee potere
essere, se quello è vero che tu m'hai più volte scritto, cioè che tu per l'amor
di me ardi tutto; ma io son certa che tu mi beffi. Ora io vo: aspettati, e sia
di buon cuore.
L'amante, che tutto
udiva e aveva sommo piacere, con lei nel letto tornatosi, poco quella notte
dormirono, anzi quasi tutta in lor diletto e in farsi beffe dello scolare
consumarono.
Lo scolare cattivello
(quasi cicogna divenuto, sì forte batteva i denti) accorgendosi d'esser
beffato, più volte tentò l'uscio se aprir lo potesse, e riguardò se altronde ne
potesse uscire; né vedendo il come, faccendo le volte del leone, maladiceva la
qualità del tempo, la malvagità della donna e la lunghezza della notte, insieme
con la sua simplicità; e sdegnato forte verso di lei, il lungo e fervente amor
portatole subitamente in crudo e acerbo odio transmutò, seco gran cose e varie
volgendo a trovar modo alla vendetta, la quale ora molto più disiderava, che
prima d'esser con la donna non avea disiato. La notte, dopo molta e lunga dimoranza,
s'avvicinò al dì, e cominciò l'alba ad apparire. Per la qual cosa la fante
della donna ammaestrata, scesa giù, aperse la corte, e mostrando d'aver
compassion di costui, disse:
– Mala ventura possa
egli avere che iersera ci venne. Egli n'ha tutta notte tenute in bistento, e te
ha fatto agghiacciare; ma sai che è? Portatelo in pace, ché quello che stanotte
non è potuto essere sarà un'altra volta; so io bene che cosa non potrebbe
essere avvenuta, che tanto fosse dispiaciuta a madonna.
Lo scolare sdegnoso, sì
come savio, il quale sapeva niun'altra cosa le minacce essere che arme del
minacciato, serrò dentro al petto suo ciò che la non temperata volontà
s'ingegnava di mandar fuori, e con voce sommessa, senza punto mostrarsi
crucciato, disse:
– Nel vero io ho avuta
la piggior notte che io avessi mai, ma bene ho conosciuto che di ciò non ha la
donna alcuna colpa, per ciò che essa medesima, sì come pietosa di me, infin
quaggiù venne a scusar sé e a confortar me; e come tu di', quello che stanotte
non è stato sarà un'altra volta; raccomandalemi e fatti con Dio.
E quasi tutto
rattrappato, come potè a casa sua se ne tornò; dove, essendo stanco e di sonno
morendo, sopra il letto si gittò a dormire, donde tutto quasi perduto delle
braccia e delle gambe si destò. Per che, mandato per alcun medico e dettogli il
freddo che avuto avea, alla sua salute fe' provedere.
Li medici con
grandissimi argomenti e con presti aiutandolo, appena dopo alquanto di tempo il
poterono de' nervi guerire e far sì che si distendessero; e se non fosse che
egli era giovane e sopravveniva il caldo, egli avrebbe avuto troppo da
sostenere. Ma ritornato sano e fresco, dentro il suo odio servando, vie più che
mai si mostrava innamorato della vedova sua.
Ora avvenne, dopo certo
spazio di tempo, che la fortuna apparecchiò caso da poter lo scolare al suo
disiderio sodisfare; per ciò che, essendosi il giovane che dalla vedova era
amato (non avendo alcun riguardo all'amore da lei portatogli), innamorato di
un'altra donna, e non volendo né poco né molto dire né far cosa che a lei fosse
a piacere, essa in lagrime e in amaritudine si consumava. Ma la sua fante, la
qual gran compassion le portava, non trovando modo da levar la sua donna dal
dolor preso per lo perduto amante, vedendo lo scolare al modo usato per la
contrada passare, entrò in uno sciocco pensiero, e ciò fu che l'amante della
donna sua ad amarla come far solea si dovesse poter riducere per alcuna
nigromantica operazione, e che di ciò lo scolare dovesse essere gran maestro, e
disselo alla sua donna.
La donna poco savia,
senza pensare che, se lo scolare saputo avesse nigromantia, per sé adoperata
l'avrebbe, pose l'animo alle parole della sua fante, e subitamente le disse che
da lui sapesse se fare il volesse, e sicuramente gli promettesse che per merito
di ciò, ella farebbe ciò che a lui piacesse.
La fante fece
l'ambasciata bene e diligentemente, la quale udendo lo scolare, tutto lieto
seco medesimo disse:
– Iddio lodato sie tu:
venuto è il tempo che io farò col tuo aiuto portar pena alla malvagia femina
della ingiuria fattami in premio del grande amore che io le portava–.
E alla fante disse:
– Dirai alla mia donna
che di questo non stea in pensiero, che, se il suo amante fosse in India, io
gliele farò prestamente venire e domandar mercé di ciò che contro al suo
piacere avesse fatto; ma il modo che ella abbia a tenere intorno a ciò, attendo
di dire a lei, quando e dove più le piacerà; e così le di', e da mia parte la
conforta.
La fante fece la
risposta, e ordinossi che in Santa Lucia del Prato fossero insieme.
Quivi venuta la donna e
lo scolare, e soli insieme parlando, non ricordandosi ella che lui quasi alla
morte condotto avesse, gli disse apertamente ogni suo fatto e quello che
disiderava, e pregollo per la sua salute. A cui lo scolar disse:
– Madonna, egli è il
vero che tra l'altre cose che io apparai a Parigi si fu nigromantia, della
quale per certo io so ciò che n'è, ma per ciò che ella è di grandissimo
dispiacer di Dio, io avea giurato di mai né per me né per altrui adoperarla. E
il vero che l'amore il quale io vi porto è di tanta forza, che io non so come
io mi nieghi cosa che voi vogliate che io faccia; e per ciò, se io ne dovessi
per questo solo andare a casa del diavolo, sì son presto di farlo, poi che vi
piace. Ma io vi ricordo che ella è più malagevole cosa a fare che voi per
avventura non v'avvisate; e massimamente quando una donna vuole rivocare uno
uomo ad amar sé o l'uomo una donna, per ciò che questo non si può far se non
per la propria persona a cui appartiene; e a far ciò convien che chi 'l fa sia
di sicuro animo, per ciò che di notte si convien fare e in luoghi solitari e
senza compagnia; le quali cose io non so come voi vi siate a far disposta.
A cui la donna, più
innamorata che savia, rispose:
– Amor mi sprona per sì
fatta maniera, che niuna cosa è la quale io non facessi per riaver colui che a
torto m'ha abbandonata; ma tuttavia, se ti piace, mostrami in che mi convenga
esser sicura.
Lo scolare, che di mal
pelo avea taccata la coda, disse:
– Madonna, a me converrà
fare una imagine di stagno in nome di colui il qual voi disiderate di
racquistare, la quale quando io v'arò mandata, converrà che voi, essendo la
luna molto scema, ignuda in un fiume vivo, in sul primo sonno e tutta sola,
sette volte con lei vi bagniate; e appresso, così ignuda, n'andiate sopra ad un
albero, o sopra una qualche casa disabitata; e, volta a tramontana con la
imagine in mano, sette volte diciate certe parole che io vi darò scritte; le
quali come dette avrete, verranno a voi due damigelle delle più belle che voi
vedeste mai, e sì vi saluteranno e piacevolmente vi domanderanno quel che voi
vogliate che si faccia. A queste farete che voi diciate bene e pienamente i
disideri vostri; e guarda tevi che non vi venisse nominato un per un altro; e
come detto l'avrete, elle si partiranno, e voi ve ne potrete scendere al luogo
dove i vostri panni avrete lasciati e rivestirvi e tornarvene a casa. E per
certo, egli non sarà mezza la seguente notte, che il vostro amante piagnendo vi
verrà a dimandar mercé e misericordia; e sappiate che mai da questa ora innanzi
egli per alcuna altra non vi lascierà.
La donna, udendo queste
cose e intera fede prestandovi, parendole il suo amante già riaver nelle
braccia, mezza lieta divenuta disse:
– Non dubitare, che
queste cose farò io troppo bene, e ho il più bel destro da ciò del mondo; ché
io ho un podere verso il Vai d'Arno di sopra, il quale è assai vicino alla riva
del fiume, ed egli è testé di luglio, che sarà il bagnarsi dilettevole. E
ancora mi ricorda esser non guari lontana dal fiume una torricella disabitata,
se non che per cotali scale di castagnuoli che vi sono, salgono alcuna volta i
pastori sopra un battuto che v'è, a guardar di lor bestie smarrite (luogo molto
solingo e fuor di mano), sopra la quale io salirò, e quivi il meglio del mondo
spero di fare quello che m'imporrai.
Lo scolare, che
ottimamente sapeva e il luogo della donna e la torricella, contento d'esser
certificato della sua intenzion, disse:
– Madonna, io non fu'mai
in coteste contrade, e per ciò non so il podere né la torricella; ma, se così
sta come voi dite, non può essere al mondo migliore. E per ciò, quando tempo
sarà, vi manderò la imagine e l'orazione; ma ben vi priego che, quando il
vostro disiderio avrete e conoscerete che io v'avrò ben servita, che vi ricordi
di me e d'attenermi la promessa.
A cui la donna disse di
farlo senza alcun fallo; e preso da lui commiato, se ne tornò a casa. Lo scolar
lieto di ciò che il suo avviso pareva dovere avere effetto, fece una imagine
con sue cateratte, e scrisse una sua favola per orazione; e, quando tempo gli
parve, la mandò alla donna e mandolle a dire che la notte vegnente senza più
indugio dovesse far quello che detto l'avea; e appresso segretamente con un suo
fante se n'andò a casa d'un suo amico che assai vicino stava alla torricella,
per dovere al suo pensiero dare effetto. La donna d'altra parte con la sua
fante si mise in via e al suo podere se n'andò; e come la notte fu venuta,
vista faccendo d'andarsi al letto, la fante ne mandò a dormire, e in su l'ora
del primo sonno, di casa chetamente uscita, vicino alla torricella sopra la
riva d'Arno se n'andò, e molto dattorno guatatosi, né veggendo né sentendo
alcuno, spogliatasi e i suoi panni sotto un cespuglio nascosi, sette volte con
la imagine si bagnò, e appresso, ignuda con la imagine in mano, verso la
torricella n'andò. Lo scolare, il quale in sul fare della notte, col suo fante
tra salci e altri alberi presso della torricella nascoso s'era, e aveva tutte
queste cose vedute, e passandogli ella quasi allato così ignuda, ed egli
veggendo lei con la bianchezza del suo corpo vincere le tenebre della notte, e
appresso riguardandole il petto e l'altre parti del corpo, e vedendole belle e
seco pensando quali infra piccol termine dovean divenire, sentì di lei alcuna
compassione; e d'altra parte lo stimolo della carne l'assalì subitamente e fece
tale in piè levare che si giaceva, e con fortavalo che egli da guato uscisse e
lei andasse a prendere e il suo piacer ne facesse; e vicin fu ad essere tra
dall'uno e dal l'altro vinto. Ma nella memoria tornandosi chi egli era, e qual
fosse la 'ngiuria ricevuta, e perché e da cui, e per ciò nel lo sdegno
raccesosi, e la compassione e il carnale appetito cacciati, stette nel suo
proponimento fermo, e lasciolla andare.
La donna, montata in su
la torre e a tramontana rivolta, cominciò a dire le parole datele dallo
scolare; il quale, poco appresso nella torricella entrato, chetamente a poco a
poco levò quella scala che saliva in sul battuto dove la donna era, e appresso
aspettò quello che ella dovesse dire e fare.
La donna, detta sette volte
la sua orazione, cominciò ad aspettare le due damigelle, e fu sì lungo
l'aspettare (senza che fresco le faceva troppo più che voluto non avrebbe) che
ella vide l'aurora apparire; per che, dolente che avvenuto non era ciò che lo
scolare detto l'avea, seco disse:
– Io temo che costui non
m'abbia voluto dare una notte chente io diedi a lui; ma, se per ciò questo m'ha
fatto, mal s'è saputo vendicare, ché questa non è stata lunga per lo terzo che
fu la sua, senza che il I freddo fu d'altra qualità –.
E perché il giorno quivi
non la cogliesse, cominciò a volere smontare della torre, ma ella trovò non
esservi la scala.
Allora, quasi come se il
mondo sotto i piedi venuto le fosse meno, le fuggì l'animo, e vinta cadde sopra
il battuto della torre. E poi che le forze le ritornarono, miseramente cominciò
a piagnere e a dolersi; e assai ben conoscendo questa dovere essere stata opera
dello scolare, s'incominciò a ramaricare d'avere altrui offeso, e appresso
d'essersi troppo fidata di colui, il quale ella doveva meritamente creder
nimico; e in ciò stette lunghissimo spazio. Poi, riguardando se via alcuna da
scender vi fosse e non veggendola, ricominciato il pianto, entrò in uno amaro
pensiero, a sé stessa dicendo:, – O sventurata, che si dirà da' tuoi fratelli,
da' parenti e da' vicini, e generalmente da tutti i fiorentini, quando si saprà
che tu sii qui trovata ignuda? La tua onestà, stata cotanta, sarà conosciuta
essere stata falsa; e se tu volessi a queste ce avrebbe, il maladetto scolare,
che tutti i fatti tuoi sa, non ti lascerà mentire. Ahi misera te, che ad una
ora avrai perduto il male amato giovane e il tuo onore! – E dopo questo venne
in tanto dolore, che quasi fu per gittarsi della torre in terra. Ma, essendosi
già levato il sole ed ella alquanto più dall'una delle parti più al muro
accostatasi della torre, guardando se alcuno fanciullo quivi colle bestie
s'accostasse cui essa potesse mandare per la sua fante, avvenne che lo scolare,
avendo a piè d'un cespuglio dormito alquanto, destandosi la vide ed ella lui.
Alla quale lo scolare disse:
– Buon dì, madonna; sono
ancor venute le damigelle?
La donna, vedendolo e
udendolo, ricominciò a piagner forte e pregollo che nella torre venisse, acciò
che essa potesse parlargli. Lo scolare le fu di questo assai cortese. La donna,
postasi a giacer boccone sopra il battuto, il capo solo fece alla cateratta di
quello, e piagnendo disse:
– Rinieri, sicuramente,
se io ti diedi la mala notte, tu ti se' ben di me vendicato, per ciò che,
quantunque di luglio sia, mi sono io creduta questa notte, stando ignuda,
assiderare; senza che io ho tanto pianto e lo 'nganno che io ti feci e la mia
sciocchezza che ti credetti, che maraviglia è come gli occhi mi sono in capo
rimasi. E per ciò io ti priego, non per amor di me, la qual tu amar non dei, ma
per amor di te, che ségentile uomo, che ti basti, per vendetta della ingiuria
la quale io ti feci, quello che infino a questo punto fatto hai, e faccimi i
miei panni recare, e che io possa di quassù discendere, e non mi voler tor
quello che tu poscia vogliendo render non mi potresti, cioè l'onor mio; ché, se
io tolsi a te l'esser con meco quella notte, io, ognora che a grado ti fia, te
ne posso render molte per quella una. Bastiti adunque questo, e come a valente
uomo, sieti assai l'esserti potuto vendicare e l'averlomi fatto conoscere; non
volere le tue forze contro ad una femina esercitare; niuna gloria è ad una
aquila l'aver vinta una colomba; dunque, per l'amor di Dio e per onor di te,
t'incresca di me.
Lo scolare, con fiero
animo seco la ricevuta ingiuria rivolgendo, e veggendo piagnere e pregare, ad
una ora aveva piacere e noia nello animo; piacere della vendetta, la quale più
che altra cosa disiderata avea; e noia sentiva, movendolo la umanità sua a
compassion della misera. Ma pur, non potendo la umanità vincere la fierezza
dello appetito, rispose:
– Madonna Elena, se i
miei prieghi (li quali nel vero io non seppi bagnare di lagrime né far melati
come tu ora sai porgere i tuoi) m'avessero impetrato, la notte che io nella tua
corte di neve piena moriva di freddo, di potere essere stato messo da te pure
un poco sotto il coperto, leggier cosa mi sarebbe al presente i tuoi esaudire;
ma se cotanto or più che per lo passato del tuo onor ti cale, ed etti grave il
costà su ignuda dimorare, porgi cotesti prieghi a colui nelle cui braccia non
t'increbbe, quella notte che tu stessa ricordi, ignuda stare, me sentendo per
la tua corte andare i denti battendo e scalpitando la neve, e a lui ti fa
aiutare, a lui ti fa i tuoi panni recare, a lui ti fa por la scala per la qual
tu scenda, in lui t'ingegna di mettere tenerezza del tuo onore, per cui quel
medesimo, e ora e mille altre volte, non hai dubitato di mettere in periglio.
Come nol chiami tu che ti venga ad aiutare? E a cui appartiene egli più che a lui?
Tu sésua: e quali cose guarderà egli o aiuterà, se egli non guarda e aiuta te?
Chiamalo, stolta che tu se', e prova se l'amore il quale tu gli porti e il tuo
senno col suo ti possono dalla mia sciocchezza liberare, la qual, sollazzando
con lui, domandasti quale gli pareva maggiore o la mia sciocchezza o l'amor che
tu gli portavi. Né essere a me ora cortese di ciò che io non disidero, né
negare il mi puoi se io il disiderassi; al tuo amante le tue notti riserba, se
egli avviene che tu di qui viva ti parti; tue sieno e di lui; io n'ebbi troppo
d'una, e bastimi d'essere stato una volta schernito. E ancora, la tua astuzia
usando nel favellare, t'ingegni col commendarmi la mia benivolenzia acquistare,
e chiamimi gentile uomo e valente, e tacitamente, che io come magnanimo mi
ritragga dal punirti della tua malvagità, t'ingegni di fare; ma le tue lusinghe
non m'adombreranno ora gli occhi dello 'ntelletto, come già fecero le tue
disleali promessioni; io mi conosco, né tanto di me stesso apparai mentre
dimorai a Parigi, quanto tu in una sola notte delle tue mi facesti conoscere.
Ma, presupposto che io pur magnammo fossi, non sétu di quelle in cui la
magnanimità debba i suoi effetti mostrare; la fine della penitenzia, nelle
salvatiche fiere come tu se', e similmente della vendetta, vuole esser la
morte, dove negli uomini quel dee bastare che tu dicesti. Per che, quatunque io
aquila non sia, te non colomba, ma velenosa serpe conoscendo, come antichissimo
nimico con ogni odio e con tutta la forza di perseguire intendo, con tutto che
questo che io ti fo non si possa assai propiamente vendetta chiamare, ma più
tosto gastigamento, in quanto la vendetta dee trapassare l'offesa, e questo non
v'aggiugnerà; per ciò che se io vendicar mi volessi, riguardando a che partito
tu ponesti l'anima mia, la tua vita non mi basterebbe, togliendolati, né cento
altre alla tua simiglianti, per ciò che io ucciderei una vile e cattiva e rea
feminetta. E da che diavol (togliendo via cotesto tuo pochetto di viso, il
quale pochi anni guasteranno riempiendolo di crespe) sétu più che qualunque
altra dolorosetta fante? Dove per te non rimase di far morire un valente uomo,
come tu poco avanti mi chiamasti, la cui vita ancora potrà più in un dì essere
utile al mondo, che centomilia tue pari non potranno mentre il mondo durar dee.
Insegnerotti adunque con questa noia che tu sostieni che cosa sia lo schernir
gli uomini che hanno alcun sentimento, e che cosa sia lo schernir gli scolari;
e darotti materia di giammai più in tal follia non cader, se tu campi. Ma, se
tu n'hai così gran voglia di scendere, ché non te ne gitti tu in terra? E ad
una ora con lo aiuto di Dio fiaccandoti tu il collo, uscirai della pena nella
quale es ser ti pare, e me farai il più lieto uomo del mondo. Ora io non ti vo'
dir più; io seppi tanto fare che io costà su ti feci salire; sappi tu ora tanto
fare che tu ne scenda, come tu mi sapesti beffare.
Parte che lo scolare
questo diceva, la misera donna piagneva continuo, e il tempo se n'andava,
sagliendo tuttavia il sol più alto. Ma poi che ella il sentì tacer, disse:
– Deh! crudele uomo, se
egli ti fu tanto la maladetta notte grave e parveti il fallo mio così grande
che né ti posson muovere a pietate alcuna la mia giovane bellezza, le amare
lagrime né gli umili prieghi, almeno muovati alquanto e la tua severa rigidezza
diminuisca questo solo mio atto, l'essermi di te nuovamente fidata e l'averti
ogni mio segreto scoperto col quale ho dato via al tuo disidero in potermi fare
del mio peccato conoscente; con ciò sia cosa che, senza fidarmi io di te, niuna
via fosse a te a poterti di me vendicare, il che tu mostri con tanto ardore
aver disiderato. Deh! lascia l'ira tua e perdonami omai: io sono, quando tu
perdonar mi vogli e di quinci farmi discendere, acconcia d'abbandonar del tutto
il disleal giovane e te solo aver per amadore e per signore, quantunque tu
molto la mia bellezza biasimi, brieve e poco cara mostrandola; la quale, chente
che ella, insieme con quella dell'altre, si sia, pur so che, se per altro non
fosse da aver cara, si è per ciò che vaghezza e trastullo e diletto è della
giovanezza degli uomini; e tu non sévecchio. E quantunque io crudelmente da te
trattata sia, non posso per ciò credere che tu volessi vedermi fare così
disonesta morte, come sarebbe il gittarmi a guisa di disperata quinci giù
dinanzi agli occhi tuoi, a' quali, se tu bugiardo non eri come sei diventato,
già piacqui cotanto. Deh! increscati di me per Dio e per pietà: il sole
s'incomincia a riscaldar troppo, e come il troppo freddo questa notte m'offese,
così il caldo m'incomincia a far grandissima noia.
A cui lo scolare, che a
diletto la teneva a parole, rispose:
– Madonna, la tua fede
non si rimise ora nelle mie mani per amor che tu mi portassi, ma per
racquistare quello che tu perduto avevi; e per ciò niuna cosa merita altro che
maggior male; e mattamente credi, se tu credi questa sola via senza più essere,
alla disiderata vendetta da me, opportuna stata. Io n'aveva mille altre, e
mille lacciuoli, col mostrar d'amarti, t'aveva tesi intorno a' piedi, né guari
di tempo era ad andare, che di necessità, se questo avvenuto non fosse, ti
convenia in uno incappare; né potevi incappare in alcuno, che in maggior pena e
vergogna che questa non ti fia caduta non fossi; e questo presi non per
agevolarti, ma per esser più tosto lieto. E dove tutti mancati mi fossero, non
mi fuggiva la penna, con la quale tante e sì fatte cose di te scritte avrei e
in sì fatta maniera, che, avendole tu risapute (ché l'avresti), avresti il dì
mille volte disiderato di mai non esser nata. Le forze della penna sono troppo
maggiori che coloro non estimano che quelle con conoscimento provate non hanno.
Io giuro a Dio (e se egli di questa vendetta, che io di te prendo, mi faccia
allegro infin la fine, come nel cominciamento m'ha fatto) che io avrei di te
scritte cose che, non che dell'altre persone, ma di te stessa vergognandoti,
per non poterti vedere t'avresti cavati gli occhi; e per ciò non rimproverare
al mare d'averlo fatto crescere il piccolo ruscelletto. Del tuo amore, o che tu
sii mia, non ho io, come già dissi, alcuna cura; sieti pur di colui di cui
stata sé, se tu puoi, il quale, come io già odiai, così al presente amo,
riguardando a ciò che egli ha ora verso te operato. Voi v'andate innamorando e
disiderate l'amor de' giovani, per ciò che alquanto con le carni più vive e con
le barbe più nere gli vedete, e sopra sé andare e carolare e giostrare; le
quali cose tutte ebber coloro che più alquanto attempati sono, e quel sanno che
coloro hanno ad imparare. E oltre a ciò, gli stimate miglior cavalieri e far di
più miglia le lor giornate che gli uomini più maturi. Certo io confesso che
essi con maggior forza scuotono i pilliccioni, ma gli attempati, sì come
esperti, sanno meglio i luoghi dove stanno le pulci; e di gran lunga è da
eleggere più tosto il poco e saporito che il molto e insipido; e il trottar
forte rompe e stanca altrui, quantunque sia giovane, dove il soavemente andare,
ancora che alquanto più tardi altrui meni allo albergo, egli il vi conduce
almen riposato. Voi non v'accorgete, animali senza intelletto, quanto di male
sotto quella poca di bella apparenza stea nascoso. Non sono i giovani d'una
contenti, ma quante ne veggono tante ne disiderano, di tante par loro esser
degni; per che essere non può stabile il loro amore; e tu ora ne puoi per
pruova esser verissima testimonia. E par loro esser degni d'essere reveriti e
careggiati dalle loro donne; né altra gloria hanno maggiore che il vantarsi di
quelle che hanno avute; il qual fallo già sotto a' frati, che nol ridicono, ne
mise molte. Benché tu dichi che mai i tuoi amori non seppe altri che la tua
fante e io, tu il sai male, e mal credi se così credi. La sua contrada quasi di
niun'altra cosa ragiona, e la tua; ma le più volte è l'ultimo, a cui cotali
cose agli orecchi pervengono, colui a cui elle appartengono. Essi ancora vi
rubano, dove dagli attempati v'è donato. Tu adunque, che male eleggesti, sieti
di colui a cui tu ti desti, e me, il quale schernisti, lascia stare ad altrui,
ché io ho trovata donna da molto più che tu non sé, che meglio n'ha conosciuto
che tu non facesti. E acciò che tu del disidero degli occhi miei possi maggior
certezza nell'altro mondo portare che non mostra che tu in questo prenda dalle
mie parole, gittati giù pur tosto, e l'anima tua, sì come io credo, già ricevuta
nel le braccia del diavolo, potrà vedere se gli occhi miei d'averti veduta
strabocchevolmente cadere si saranno turbati o no. Ma per ciò che io credo che
di tanto non mi vorrai far lieto, ti dico che, se il sole ti comincia a
scaldare, ricorditi del freddo che tu a me facesti patire, e se con cotesto
caldo il mescolerai, senza fallo il sol sentirai temperato.
La sconsolata donna,
veggendo che pure a crudel fine riuscivano le parole dello scolare, ricominciò
a piagnere e disse:
– Ecco, poi che niuna
mia cosa di me a pietà ti muove, muovati l'amore, il qual tu porti a quella
donna che più savia di me di'che hai trovata, e da cui tu di'che séamato, e per
amor di lei mi perdona e i miei panni mi reca, ché io rivestir mi possa, e
quinci mi fa smontare. Lo scolare allora cominciò a ridere; e veggendo che già
la terza era di buona ora passata, rispose:
– Ecco, io non so ora
dir di no, per tal donna me n'hai pregato; insegnamegli, e io andrò per essi e
farotti di costà su scendere.
La donna, ciò credendo,
alquanto si confortò, e insegnogli il luogo dove aveva i panni posti. Lo
scolare, della torre uscito, comandò al fante suo che di quindi non si
partisse, anzi vi stesse vicino, e a suo poter guardasse che alcun non
v'entrasse dentro infino a tanto che egli tornato fosse; e questo detto, se
n'andò a casa del suo amico, e quivi a grande agio desinò, e appresso, quando
ora gli parve, s'andò a dormire.
La donna, sopra la torre
rimasa, quantunque da sciocca speranza un poco riconfortata fosse, pure oltre
misura dolente si dirizzò a sedere, e a quella parte del muro dove un poco
d'ombra era s'accostò, e cominciò accompagnata da amarissimi pensieri ad
aspettare; e ora pensando e ora piagnendo, e ora sperando e or disperando della
tornata dello scolare co' panni, e d'un pensiero in altro saltando, sì come
quella che dal dolore era vinta, e che niente la notte passata aveva dormito,
s'addormentò. Il sole, il quale era ferventissimo, essendo già al mezzo giorno
salito, feriva alla scoperta e al diritto sopra il tenero e dilicato corpo di
costei e sopra la sua testa, da niuna cosa coperta, con tanta forza, che non
solamente le cosse le carni tanto quanto ne vedea, ma quelle minuto minuto
tutte l'aperse; e fu la cottura tale, che lei che profondamente dormiva constrinse
a destarsi. E sentendosi cuocere e alquanto movendosi, parve nel muoversi che
tutta la cotta pelle le s'aprisse e ischiantasse, come veggiamo avvenire d'una
carta di pecora abbruciata, se altri la tira; e oltre a questo le doleva sì
forte la testa, che pareva che le si spezzasse, il che niuna maraviglia era. E
il battuto della torre era fervente tanto, che ella né co' piedi né con altro
vi poteva trovar luogo; per che, senza star ferma, or qua or là si tramutava
piagnendo. E oltre a questo, non faccendo punto di vento, v'erano mosche e
tafani in grandissima quantità abondanti, li quali, ponendolesi sopra le carni
aperte, sì fieramente la stimolavano, che ciascuna le pareva una puntura d'uno
spontone per che ella di menare le mani attorno non restava niente, sé, la sua
vita, il suo amante e lo scolare sempre maladicendo.
E così essendo dal caldo
inestimabile, dal sole, dalle mosche e da' tafani, e ancor dalla fame, ma molto
più dalla sete, e per aggiunta da mille noiosi pensieri angosciata e stimolata
e trafitta, in piè dirizzata, cominciò a guardare se vicin di sé o vedesse o
udisse alcuna persona, disposta del tutto, che che avvenire ne le dovesse, di
chiamarla e di domandare aiuto.
Ma anche questo l'aveva
la sua nimica fortuna tolto. I lavoratori eran tutti partiti de' campi per lo
caldo, avvegna che quel dì niuno ivi appresso era andato a lavorare, sì come
quegli che allato alle lor case tutti le lor biade battevano; per che niuna
altra cosa udiva che cicale, e vedeva Arno, il qual, porgendole disiderio delle
sue acque, non iscemava la sete ma l'accresceva. Vedeva ancora in più luoghi
boschi e ombre e case, le quali tutte similmente l'erano angoscia disiderando.
Che direm più della
sventurata vedova? Il sol di sopra e il fervor del battuto di sotto e le trafitture
delle mosche e de' tafani da lato sì per tutto l'avean concia, che ella, dove
la notte passata con la sua bianchezza vinceva le tenebre, allora rossa
divenuta come robbia, e tutta di sangue chiazata, sarebbe paruta, a chi veduta
l'avesse, la più brutta cosa del mondo.
E così dimorando costei,
senza consiglio alcuno o speranza, più la morte aspettando che altro, essendo
già la mezza nona passata, lo scolare, da dormir levatosi e della sua donna
ricordandosi, per veder che di lei fosse se ne tornò alla torre, e il suo
fante, che ancora era digiuno, ne mandò a mangiare; il quale avendo la donna
sentito, debole e della grave noia angosciosa, venne sopra la cateratta, e
postasi a sedere, piagnendo cominciò a dire:
– Rinieri, ben ti se'
oltre misura vendico, ché se io feci te nella mia corte di notte agghiacciare,
tu hai me di giorno sopra questa torre fatta arrostire, anzi ardere, e oltre a
ciò di fame e di sete morire; per che io ti priego per solo Iddio che qua su
salghi, e poi che a me non soffera il cuore di dare a me stessa la morte,
dallami tu, ché io la disidero più che altra cosa, tanto e tale è il tormento
che io sento. E se tu questa grazia non mi vuoi fare, almeno un bicchier
d'acqua mi fa venire, che io possa bagnarmi la bocca, alla quale non bastano le
mie lagrime, tanta è l'asciugaggine e l'arsura la quale io v'ho dentro.
Ben conobbe lo scolare
alla voce la sua debolezza, e ancor vide in parte il corpo suo tutto riarso dal
sole, per le quali cose e per gli umili suoi prieghi un poco di compassione gli
venne di lei; ma non per tanto rispose:
– Malvagia donna, delle
mie mani non morrai tu già, tu morrai pur delle tue, se voglia te ne verrà; e
tanta ac qua avrai da me a sollevamento del tuo caldo, quanto fuoco io ebbi da
te ad alleggiamento del mio freddo. Di tanto mi dolgo forte, che la 'nfermità
del mio freddo col caldo del letame puzzolente si convenne curare, ove quella
del tuo caldo col freddo della odorifera acqua rosa si curerà; e dove io per
perdere i nervi e la persona fui, tu da questo caldo scorticata, non altramenti
rimarrai bella che faccia la serpe lasciando il vecchio cuoio.
– O misera me!, – disse
la donna – queste bellezze in così fatta guisa acquistate dea Iddio a quelle
persone che mal mi vogliono; ma tu, più crudele che ogni altra fiera, come hai
potuto sofferire di straziarmi a questa maniera? Che più doveva io aspettar da
te o da alcuno altro, se io tutto il tuo parentado sotto crudelissimi tormenti
avessi uccisi? Certo io non so qual maggior crudeltà si fosse potuta usare in
un traditore che tutta una città avesse messa ad uccisione, che quella alla
qual tu m'hai posta a farmi arrostire al sole e manicare alle mosche; e oltre a
questo non un bicchier d'acqua volermi dare, che a' micidiali dannati dalla ragione,
andando essi alla morte, è dato ber molte volte del vino, pur che essi ne
domandino. Ora ecco, poscia che io veggo te star fermo nella tua acerba
crudeltà, né poterti la mia passione in parte alcuna muovere, con pazienzia mi
disporrò alla morte ricevere, acciò che Iddio abbia misericordia della anima
mia, il quale io priego che con giusti occhi questa tua operazion riguardi.
E queste parole dette,
si trasse con gravosa sua pena verso il mezzo del battuto, disperandosi di
dovere da così ardente caldo campare; e non una volta ma mille, oltre agli
altri suoi dolori, credette di sete ispasimare, tuttavia piagnendo forte e
della sua sciagura dolendosi. Ma essendo già vespro e parendo allo scolare
avere assai fatto, fatti prendere i panni di lei e inviluppare nel mantello del
fante, verso la casa della misera donna se n'andò, e quivi sconsolata e trista
e senza consiglio la fante di lei trovò sopra la porta sedersi, alla quale egli
disse:
– Buona femina, che è
della donna tua?
A cui la fante rispose:
– Messere, io non so; io
mi credeva stamane trovarla nel letto dove iersera me l'era paruta vedere
andare; ma io non la trovai né quivi né altrove, né so che si sia divenuta, di
che io vivo con grandissimo dolore; ma voi, messere, saprestemene dir niente?
A cui lo scolar rispose:
– Così avess'io avuta te
con lei insieme là dove io ho lei avuta, acciò che io t'avessi della tua colpa
così punita come io ho lei della sua! Ma fermamente tu non mi scapperai dalle
mani, che io non ti paghi sì dell'opere tue che mai di niuno uomo farai beffe
che di me non ti ricordi. – E questo detto, disse al suo fante:
– Dalle cotesti panni e
dille che vada per lei, s'ella vuole.
Il fante fece il suo
comandamento; per che la fante, presigli e riconosciutigli, udendo ciò che
detto l'era, temette forte non l'avessero uccisa, e appena di gridar si
ritenne; e subitamente, piagnendo, essendosi già lo scolar partito, con quegli
verso la torre n'andò correndo.
Aveva per isciagura uno
lavoratore di questa donna quel dì due suoi porci smarriti, e andandoli
cercando, poco dopo la partita dello scolare a quella torricella pervenne, e
andando guatando per tutto se i suoi porci vedesse, sentì il miserabile pianto
che la sventurata donna faceva, per che salito su quanto potè, gridò:
– Chi piagne là su?
La donna conobbe la voce
del suo lavoratore, e chiamatol per nome gli disse:
– Deh! vammi per la mia
fante, e fa sì che ella possa qua su a me venire.
Il lavoratore,
conosciutala, disse:
– Ohimè! madonna: o chi
vi portò costà su? La fante vostra v'è tutto dì oggi andata cercando; ma chi
avrebbe mai pensato che voi doveste essere stata qui? E presi i travicelli
della scala, la cominciò a dirizzar come star dovea e a legarvi con ritorte i
bastoni a traverso.
E in questo la fante di
lei sopravenne, la quale, nella torre entrata, non potendo più la voce tenere,
battendosi a palme cominciò a gridare:
– Ohimè, donna mia
dolce, ove siete voi?
La donna udendola, come
più forte potè, disse:
– O sirocchia mia, io son
qua su; non piagnere, ma recami tosto i panni miei.
Quando la fante l'udì
parlare, quasi tutta riconfortata, salì su per la scala già presso che
racconcia dal lavoratore, e aiutata da lui in sul battuto pervenne; e vedendo
la donna sua, non corpo umano ma più tosto un cepperello innarsicciato parere,
tutta vinta, tutta spunta, e giacere in terra ignuda, messesi l'unghie nel viso
cominciò a piagnere sopra di lei, non altramenti che se morta fosse. Ma la
donna la pregò per Dio che ella tacesse e lei rivestire aiutasse. E avendo da
lei saputo che niuna persona sapeva dove ella stata fosse, se non coloro che i
panni portati l'aveano e il lavoratore che al presente v'era, alquanto di ciò
racconsolata, gli pregò per Dio che mai ad alcuna persona di ciò niente dicessero.
Il lavoratore dopo molte
novelle, levatasi la donna in collo, che andar non poteva, salvamente infin
fuor della torre la condusse.
La fante cattivella, che
di dietro era rimasa, scendendo meno avvedutamente, smucciandole il piè, cadde
della scala in terra e ruppesi la coscia, e per lo dolor sentito cominciò a
mugghiar che pareva un leone. Il lavoratore, posata la donna sopra ad uno
erbaio, andò a vedere che avesse la fante, e trovatala con la coscia rotta,
similmente nello erbaio la recò, e allato alla donna la pose. La quale veggendo
questo a giunta degli altri suoi mali avvenuto, e colei avere rotta la coscia
da cui ella sperava essere aiutata più che da altrui, dolorosa senza modo
ricominciò il suo pianto tanto miseramente, che non solamente il lavoratore non
la potè racconsolare, ma egli altressì cominciò a piagnere.
Ma, essendo già il sol
basso, acciò che quivi non gli cogliesse la notte, come alla sconsolata donna
piacque, n'andò alla casa sua, e quivi chiamati due suoi fratelli e la moglie,
e là tornati con una tavola, su v'acconciarono la fante e alla casa ne la
portarono; e riconfortata la donna con un poco d'acqua fresca e con buone
parole, levatalasi il lavoratore in collo, nella camera di lei la portò. La
moglie del lavoratore, datole mangiar pan lavato e poi spogliatala, nel letto
la mise, e ordinarono che essa e la fante fosser la notte portate a Firenze; e
così fu fatto. Quivi la donna, che aveva a gran divizia lacciuoli, fatta una
sua favola tutta fuor dell'ordine delle cose avvenute, sì di sé e sì della sua
fante fece a' suoi fratelli e alle sirocchie e ad ogn'altra persona credere che
per indozzamenti di demoni questo loro fosse avvenuto.
I medici furon presti, e
non senza grandissima angoscia e affanno della donna che tutta la pelle più
volte appiccata lasciò alle lenzuola, lei d'una fiera febbre e degli altri
accidenti guerirono, e similmente la fante della coscia. Per la qual cosa la
donna, dimenticato il suo amante, da indi innanzi e di beffare e d'amare si
guardò saviamente. E lo scolare, sentendo alla fante la coscia rotta,
parendogli avere assai intera vendetta, lieto, senza altro dirne, se ne passò.
Così adunque alla stolta
giovane addivenne delle sue beffe, non altramente con uno scolare credendosi
frascheggiare che con un altro avrebbe fatto; non sappiendo bene che essi, non
dico tutti ma la maggior parte, sanno dove il diavolo tien la coda.
E per ciò guardatevi,
donne, dal beffare, e gli scolari spezialmente.
NOVELLA OTTAVA
Due usano insieme; l'uno
con la moglie dell'altro si giace; l'altro, avvedutosene, fa con la sua moglie
che l'uno è serrato in una cassa, sopra la quale, standovi l'un dentro, l'altro
con la moglie dell'un si giace.
Gravi e noiosi erano
stati i casi d'Elena ad ascoltare alle donne; ma per ciò che in parte
giustamente avvenutigli gli estimavano, con più moderata compassion gli avean
trapassati, quantunque rigido e costante fieramente, anzi crudele, riputassero
lo scolare. Ma essendo Pampinea venutane alla fine, la reina alla Fiammetta
impose che seguitasse, la quale, d'ubidire disiderosa, disse. Piacevoli donne,
per ciò che mi pare che alquanto trafitto v'abbia la severità dello offeso
scolare, estimo che convenevole sia con alcuna cosa più dilettevole
rammorbidire gl'innacerbiti spiriti; e per ciò intendo di dirvi una novelletta
d'un giovane, il quale con più mansueto animo una ingiuria ricevette, e quella
con più moderata operazion vendicò. Per la quale potrete comprendere che assai
dee bastare a ciascuno, se quale asino dà in parete tal riceve, senza volere,
soprabondando oltre la convenevoleza della vendetta, ingiuriare, dove l'uomo si
mette alla ricevuta ingiuria vendicare.
Dovete adunque sapere
che in Siena, sì come io intesi già, furon due giovani assai agiati e di buone
famiglie popolane, de' quali l'uno ebbe nome Spinelloccio Tavena e l'altro ebbe
nome Zeppa di Mino, e amenduni eran vicini a casa in Cammollia. Questi due
giovani sempre usavano insieme, e per quello che mostrassono, così s'amavano, o
più, come se stati fosser fratelli, e ciascun di loro avea per moglie una donna
assai bella. Ora avvenne che Spinelloccio, usando molto in casa del Zeppa, ed
essendovi il Zeppa e non essendovi, per sì fatta maniera con la moglie del
Zeppa si dimesticò, che egli incominciò a giacersi con essolei; e in questo
continuarono una buona pezza avanti che persona se n'avvedesse. Pure al lungo
andare, essendo un giorno il Zeppa in casa e non sappiendolo la donna,
Spinelloccio venne a chiamarlo. La donna disse che egli non era in casa; di che
Spinelloccio prestamente andato su e trovata la donna nella sala, e veggendo
che altri non v'era, abbracciatala la cominciò a baciare, ed ella lui. Il
Zeppa, che questo vide, non fece motto, ma nascoso si stette a veder quello a
che il giuoco dovesse riuscire; e brievemente egli vide la sua moglie e
Spinelloccio così abbracciati andarsene in camera e in quella serrarsi, di che
egli si turbò forte. Ma conoscendo che per far romore né per altro la sua
ingiuria non diveniva minore, anzi ne cresceva la vergogna, si diede a pensar
che vendetta di questa cosa dovesse fare, che, senza sapersi dattorno, l'animo
suo rimanesse contento; e dopo lungo pensiero, parendogli aver trovato il modo,
tanto stette nascoso quanto Spinelloccio stette con la donna.
Il quale come andato se
ne fu, così egli nella camera se n'entrò, dove trovò la donna che ancora non
s'era compiuta di racconciare i veli in capo, li quali scherzando Spinelloccio
fatti l'aveva cadere, e disse:
– Donna, che fai tu?
A cui la donna rispose:
– Nol vedi tu?
Disse il Zeppa:
– Sì bene, sì, ho io
veduto anche altro che io non vorrei–; e con lei delle cose state entrò in
parole, ed essa con grandissima paura dopo molte novelle quello avendogli
confessato che acconciamente della sua dimestichezza con Ispinelloccio negar non
potea, piagnendo gl'incominciò a chieder perdono.
Alla quale il Zeppa
disse:
– Vedi, donna, tu hai
fatto male, il quale se tu vuogli che io ti perdoni, pensa di fare
compiutamente quello che io t'imporrò, il che è questo. Io voglio che tu dichi
a Spinelloccio che domattina in su l'ora della terza egli truovi qualche
cagione di partirsi da me e venirsene qui a te; e quando egli ci sarà, io
tornerò, e come tu mi senti, cosi il fa entrare in questa cassa e serracel
dentro; poi, quando questo fatto avrai, e io ti dirò il rimanente che a fare
avrai; e di far questo non aver dottanza niuna, ché io ti prometto che io non
gli farò male alcuno.
La donna, per
sodisfargli, disse di farlo, e così fece. Venuto il dì seguente, essendo il
Zeppa e Spinelloccio insieme in su la terza, Spinelloccio, che promesso aveva
alla donna d'andare a lei a quella ora, disse al Zeppa:
– Io debbo stamane
desinare con alcuno amico, al quale io non mi voglio fare aspettare, e per ciò
fatti con Dio.
Disse il Zeppa:
– Egli non è ora di
desinare di questa pezza.
Spinelloccio disse:
– Non fa forza; io ho
altressì a parlar seco d'un mio fatto, sì che egli mi vi convien pure essere a
buona ora.
Partitosi adunque
Spinelloccio dal Zeppa, data una sua volta, fu in casa con la moglie di lui; ed
essendosene entrati in camera, non stette guari che il Zeppa tornò; il quale
come la donna sentì, mostratasi paurosa molto, lui fece ricoverare in quella cassa
che il marito detto l'avea e serrollovi entro, e uscì della camera. Il Zeppa,
giunto suso, disse:
– Donna, è egli otta di
desinare?
La donna rispose:
– Sì, oggimai.
Disse allora il Zeppa:
– Spinelloccio è andato
a desinare stamane con un suo amico e ha la donna sua lasciata sola; fatti alla
finestra e chiamala, e dì che venga a desinar con essonoi.
La donna, di sé stessa
temendo e per ciò molto ubbidiente divenuta, fece quello che il marito le
'mpose. La moglie di Spinelloccio, pregata molto dalla moglie del Zeppa, vi
venne, udendo che il marito non vi doveva desinare. E quando ella venuta fu, il
Zeppa, faccendole le carezze grandi e presala dimesticamente per mano, comandò
pianamente alla moglie che in cucina n'andasse, e quella seco ne menò in camera,
nella quale come fu, voltatosi addietro, serrò la camera dentro. Quando la
donna vide serrar la camera dentro, disse:
– Ohimè, Zeppa, che vuol
dire questo? Dunque mi ci avete voi fatta venir per questo? Ora, è questo
l'amor che voi portate a Spinelloccio e la leale compagnia che voi gli fate?
Alla quale il Zeppa,
accostatosi alla cassa dove serrato era il marito di lei e tenendola bene,
disse:
– Donna, imprima che tu
ti ramarichi, ascolta ciò che io ti vo' dire: io ho amato e amo Spinelloccio
come fratello, e ieri, come che egli nol sappia, io trovai che la fidanza la
quale io ho di lui avuta era pervenuta a questo, che egli con la mia donna così
si giace come con teco; ora, per ciò che io l'amo, non intendo di voler di lui
pigliare altra vendetta, se non quale è stata l'offesa: egli ha la mia donna
avuta, e io intendo d'aver te. Dove tu non vogli, per certo egli converrà che
io il ci colga, e per ciò che io non intendo di lasciare questa ingiuria
impunita, io gli farò giuoco che né tu né egli sarete mai lieti.
La donna, udendo questo
e dopo molte riconfermazioni fattelene dal Zeppa, credendol, disse:
– Zeppa mio, poi che
sopra me dee cadere questa vendetta, e io son contenta, sì veramente che tu mi
facci, di questo che far dobbiamo, rimanere in pace con la tua donna, come io,
non ostante quello che ella m'ha fatto, intendo di rimaner con lei.
A cui il Zeppa rispose:
– Sicuramente io il
farò; e oltre a questo ti donerò un così caro e bello gioiello, come niun altro
che tu n'abbi – e così detto, abbracciatala e cominciatala a baciare, la
distese sopra la cassa, nella quale era il marito di lei serrato e quivi su,
quanto gli piacque, con lei si sollazzò, ed ella con lui.
Spinelloccio, che nella
cassa era e udite aveva tutte le parole dal Zeppa dette e la risposta della sua
moglie, e poi aveva sentita la danza trivigiana che sopra il capo fatta gli
era, una grandissima pezza sentì tal dolore che parea che morisse; e se non
fosse che egli temeva del Zeppa, egli avrebbe detta alla moglie una gran
villania così rinchiuso come era. Poi, pur ripensandosi che da lui era la
villania incominciata e che il Zeppa aveva ragione di far ciò che egli faceva,
e che verso di lui umanamente e come compagno s'era portato, seco stesso disse
di volere esser più che mai amico del Zeppa, quando volesse. Il Zeppa, stato
con la donna quanto gli piacque, scese della cassa, e domandando la donna il
gioiello promesso, aperta la camera fece venir la moglie, la quale niun'altra
cosa disse, se non:
– Madonna, voi m'avete renduto
pan per focaccia –; e questo disse ridendo.
Alla quale il Zeppa
disse:
– Apri questa cassa –;
ed ella il fece; nella quale il Zeppa mostrò alla donna il suo Spinelloccio. E
lungo sarebbe a dire qual più di lor due si vergognò, o Spinelloccio vedendo il
Zeppa e sappiendo che egli sapeva ciò che fatto aveva, o la donna vedendo il
suo marito e conoscendo che egli aveva e udito e sentito ciò che ella sopra il
capo fatto gli aveva. Alla quale il Zeppa disse:
– Ecco il gioiello il
quale io ti dono.
Spinelloccio, uscito
della cassa, senza far troppe novelle, disse:
– Zeppa, noi siam pari
pari; e per ciò è buono, come tu dicevi dianzi alla mia donna, che noi siamo
amici come solavamo; e non essendo tra noi due niun'altra cosa che le mogli
divisa, che noi quelle ancora comunichiamo. Il Zeppa fu contento; e nella
miglior pace del mondo tutti e quattro desinarono insieme. E da indi innanzi
ciascuna di quelle donne ebbe due mariti, e ciascun di loro ebbe due mogli,
senza alcuna quistione o zuffa mai per quello insieme averne.
NOVELLA NONA
Maestro Simone medico,
da Bruno e da Buffalmacco, per esser fatto d'una brigata che va in corso, fatto
andar di notte in alcun luogo, è da Buffalmacco gittato in una fossa di
bruttura e lasciatovi.
Poi che le donne alquanto
ebber cianciato dello accomunar le mogli fatto da' due sanesi, la reina, alla
qual sola restava a dire, per non fare ingiuria a Dioneo, incominciò. Assai
bene, amorose donne, si guadagnò Spinelloccio la beffa che fatta gli fu dal
Zeppa; per la qual cosa non mi pare che agramente sia da riprendere, come
Pampinea volle poco innanzi mostrare, chi fa beffa alcuna a colui che la va
cercando o che la si guadagna. Spinelloccio la si guadagnò; e io intendo di
dirvi d'uno che se l'andò cercando; estimando che quegli che gliele fecero, non
da biasimare ma da com mendar sieno. E fu colui a cui fu fatta un medico, che a
Firenze da Bologna, essendo una pecora, tornò tutto coperto di pelli di vai. Sì
come noi veggiamo tutto il dì i nostri cittadini da Bologna ci tornano qual
giudice e qual medico e qual notaio, co' panni lunghi e larghi, e con gli
scarlatti e co' vai, e con altre assai apparenze grandissime, alle quali come
gli effetti succedano anche veggiamo tutto giorno. Tra'quali un maestro Simone
da Villa, più ricco di ben paterni che di scienza, non ha gran tempo, vestito
di scarlatto e con un gran batalo, dottor di medicine, secondo che egli
medesimo diceva, ci ritornò, e prese casa nella via la quale noi oggi chiamiamo
la Via del Cocomero. Questo maestro Simone novellamente tornato, sì come è
detto, tra gli altri suoi costumi notabili aveva in costume di domandare chi
con lui era chi fosse qualunque uomo veduto avesse per via passare; e quasi
degli atti degli uomini dovesse le medicine che dar doveva a'suoi infermi
comporre, a tutti poneva mente e raccoglievali.
E intra gli altri, alli
quali con più efficacia gli vennero gli occhi addosso posti, furono due
dipintori dei quali s'è oggi qui due volte ragionato, Bruno e Buffalmacco, la
compagnia de'quali era continua, ed eran suoi vicini. E parendogli che costoro
meno che alcuni altri del mondo curassero e più lieti vivessero, sì come essi
facevano, più persone domandò di lor condizione; e udendo da tutti costoro
essere poveri uomini e dipintori, gli entrò nel capo non dover potere essere
che essi dovessero così lietamente vivere della lor povertà, ma s'avvisò, per
ciò che udito avea, che astuti uomini erano, che d'alcuna altra parte non
saputa da gli uomini dovesser trarre profitti grandissimi; e per ciò gli venne in
disidero di volersi, se esso potesse con amenduni, o con l'uno almeno,
dimesticare; e vennegli fatto di prendere dimestichezza con Bruno. E Bruno,
conoscendo, in poche di volte che con lui stato era, questo medico essere uno
animale, cominciò di lui ad avere il più bel tempo del mondo con sue nuove
novelle, e il medico similmente cominciò di lui a prendere maraviglioso
piacere. E avendolo alcuna volta seco invitato a desinare e per questo
credendosi dimesticamente con lui poter ragionare, gli disse la maraviglia che
egli si faceva di lui e di Buffalmacco, che, essendo poveri uomini, così
lietamente viveano; e pregollo che gli 'nsegnasse come facevano. Bruno, udendo
il medico, e parendogli la domanda dell'altre sue sciocche e dissipite,
cominciò a ridere, e pensò di rispondergli secondo che alla sua pecoraggine si
convenia, e disse:
- Maestro, io nol direi
a molte persone come noi facciamo, ma di dirlo a voi, perché siete amico e so
che ad altrui nol direte, non mi guarderò. Egli è il vero che il mio compagno e
io viviamo così lietamente e così bene come vi pare e più; né di nostra arte né
d'altro frutto, che noi d'alcune possessioni traiamo, avremmo da poter pagar
pur l'acqua che noi logoriamo; né voglio per ciò che voi crediate che noi
andiamo ad imbolare, ma noi andiamo in corso, e di questo ogni cosa che a noi è
di diletto o di bisogno, senza alcun danno d'altrui, tutto traiamo, e da questo
viene il nostro viver lieto che voi vedete.
Il medico udendo questo
e, senza saper che si fosse, credendolo, si maravigliò molto; e subitamente
entrò in disidero caldissimo di sapere che cosa fosse l'andare in corso; e con
grande instanzia il pregò che gliel dicesse, affermandogli che per certo mai a
niuna persona il direbbe.
- Ohmè! - disse Bruno -
maestro, che mi domandate voi? Egli è troppo gran segreto quello che voi volete
sapere, ed è cosa da disfarmi e da cacciarmi del mondo; anzi da farmi mettere
in bocca del Lucifero da San Gallo, se altri il risapesse; ma sì è grande l'amor
che io porto alla vostra qualitativa mellonaggine da Legnaia, e la fidanza la
quale ho in voi, che io non posso negarvi cosa che voi vogliate; e per ciò io
il vi dirò con questo patto, che voi per la croce a Montesone mi giurerete che
mai, come promesso avete, a niuno il direte. Il maestro affermò che non
farebbe.
- Dovete adunque, -
disse Bruno - maestro mio dolciato, sapere che egli non è ancora guari che in
questa città fu un gran maestro in nigromantia, il quale ebbe nome Michele
Scotto, per ciò che di Scozia era, e da molti gentili uomini, de'quali pochi
oggi son vivi, ricevette grandissimo onore; e volendosi di qui partire, ad
istanzia de'prieghi loro ci lasciò due suoi soffficienti discepoli, a'quali
impose che ad ogni piacere di questi cotali gentili uomini, che onorato
l'aveano, fossero sempre presti.
Costoro adunque
servivano i predetti gentili uomini di certi loro innamoramenti e d'altre
cosette liberamente; poi, piacendo lor la città e i costumi degli uomini, ci si
disposero a voler sempre stare, e preserci di grandi e di strette amistà con
alcuni, senza guardare chi essi fossero, più gentili che non gentili, o più
ricchi che poveri, solamente che uomini fossero conformi a' lor costumi. E per
compiacere a questi così fatti loro amici ordinarono una brigata forse di
venticinque uomini, li quali due volte almeno il mese insieme si dovessero
ritrovare in alcun luogo da loro ordinato; e qui vi essendo, ciascuno a costoro
il suo disidero dice, ed essi prestamente per quella notte il forniscono. Co'quali
due avendo Buffalmacco e io singulare amistà e dimestichezza, da loro in cotal
brigata fummo messi, e siamo. E dicovi così che, qualora egli avvien che noi
insieme ci raccogliamo, è maravigliosa cosa a vedere i capoletti intorno alla
sala dove mangiamo, e le tavole messe alla reale, e la quantità de' nobili e
belli servidori, così femine come maschi, al piacer di ciascuno che è di tal
compagnia, e i bacini, gli urciuoli, i fiaschi e le coppe e l'altro
vasellamento d'oro e d'argento, ne' quali noi mangiamo e beiamo; e oltre a
questo le molte e varie vivande, secondo che ciascun disidera, che recate ci
sono davanti ciascheduna a suo tempo. Io non vi potrei mai divisare chenti e
quanti sieno i dolci suoni d'infiniti istrumenti e i canti pieni di melodia che
vi s'odono; né vi potrei dire quanta sia la cera che vi s'arde a queste cene,
né quanti sieno i confetti che vi si con sumano e come sieno preziosi i vini
che vi si beono. E non vorrei, zucca mia da sale, che voi credeste che noi
stessimo là in questo abito o con questi panni che ci vedete: egli non ve n'è
niuno sì cattivo che non vi paresse uno imperadore, sì siamo di cari vestimenti
e di belle cose ornati.
Ma sopra tutti gli altri
piaceri che vi sono, si è quello delle belle donne, le quali subitamente, purché
l'uom voglia, di tumo il mondo vi son recate. Voi vedreste quivi la donna dei
Barbanicchi, la reina de' Baschi, la moglie del soldano, la imperadrice
d'Osbech, la ciancianfe ra di Norrueca, la semistante di Berlinzone e la
scalpedra di Narsia. Che vivo io annoverando? E' vi sono tutte le reine del
mondo, io dico infino alla schinchimurra del Presto Giovanni, che ha per me' 'l
culo le corna: or vedete oggimai voi! Dove, poi che hanno bevuto e confettato,
fatta una danza o due, ciascuna con colui a cui stanzia v'è fatta venire se ne
va nel la sua camera. E sappiate che quelle camere paiono un paradiso a veder,
tanto son belle; e sono non meno odorifere che sieno i bossoli delle spezie
della bottega vostra, quando voi fate pestare il comino, e havvi letti che vi
parrebber più belli che quello del doge di Vinegia, e in quegli a riposar se ne
vanno. Or che menar di calcole e di tirar le casse a sè per fare il panno
serrato faccian le tessitrici, lascerò io pensare pure a voi! Ma tra gli altri
che meglio stanno, secondo il parer mio, siam Buffalmacco e io, per ciò che
Buffalmacco le più delle volte vi fa venir per sè la reina di Francia, e io per
me quella d'Inghilterra, le quali son due pur le più belle donne del mondo; e
sì abbiamo saputo fare che elle non hanno altro occhio in capo che noi. Per che
da voi medesimo pensar potete se noi possiamo e dobbiamo vivere e andare più
che gli altri uomini lieti, pensando che noi abbiamo l'amor di due così fatte
reine; senza che, quando noi vogliamo un mille o un dumilia fiorini da loro,
noi non gli abbiamo prestamente. E questa cosa chiamiam noi vulgarmente
l'andare in corso; per ciò che sì come i corsari tolgono la roba d'ogn'uomo, e
così facciam noi; se non che di tanto siam differenti da loro, che eglino mai
non la rendono, e noi la rendiamo come adoperata l'abbiamo.
Ora avete, maestro mio
da bene, inteso ciò che noi diciamo l'andare in corso; ma quanto questo voglia
esser segreto voi il vi potete vedere, e per ciò più nol vi dico né ve ne
priego.
Il maestro, la cui
scienzia non si stendeva forse più oltre che il medicare i fanciulli del
lattime, diede tanta fede alle parole di Bruno quanta si saria convenuta a
qualunque verità; e in tanto disiderio s'accese di volere essere in questa
brigata ricevuto, quanto di qualunque altra cosa più disiderabile si potesse
essere acceso. Per la qual cosa a Bruno rispose che fermamente maraviglia non
era se lieti andavano; e a gran pena si temperò in riservarsi di richiederlo
che essere il vi facesse, infino a tanto che, con più onor fattogli, gli
potesse con più fidanza porgere i prieghi suoi.
Avendoselo adunque
riservato, cominciò più a continuare con lui l'usanza e ad averlo da sera e da
mattina a mangiar seco e a mostrargli smisurato amore; ed era sì grande e sì
continua questa loro usanza, che non parea che senza Bruno il maestro potesse
né sapesse vivere. Bruno, parendogli star bene, acciò che ingrato non paresse
di questo onor fattogli dal medico, gli aveva dipinto nella sala sua la
quaresima e uno agnus dei all'entrar della camera e sopra l'uscio della via uno
orinale, acciò che coloro che avessero del suo consiglio bisogno il sapessero
riconoscere dagli altri; e in una sua loggetta gli aveva dipinta la battaglia
dei topi e delle gatte, la quale troppo bella cosa pareva al medico. E oltre a
questo diceva alcuna volta al maestro, quando con lui non avea cenato:
– Stanotte fu'io alla
brigata, ed essendomi un poco la reina d'Inghilterra rincresciuta, mi feci
venire la gumedra del gran Can d'Altarisi.
Diceva il maestro:
– Che vuol dire gumedra?
Io non gli intendo questi nomi.
– O maestro mio, –
diceva Bruno – io non me ne maraviglio, ché io ho bene udito dire che
Porcograsso e Vannaccena non ne dicon nulla.
Disse il maestro:
– Tu vuoi dire Ipocrasso
e Avicenna.
Disse Bruno:
– Gnaffe! io non so; io
m'intendo così male de' vostri nomi come voi de' miei; ma la gumedra in quella
lingua del gran Cane vuol tanto dire quanto imperadrice nella nostra. O ella vi
parrebbe la bella feminaccia! Ben vi so dire che ella vi farebbe dimenticare le
medicine e gli argomenti e ogni impiastro.
E così dicendogli alcuna
volta per più accenderlo, avvenne che, parendo a messer lo maestro una sera a
vegghiare, parte che il lume teneva a Bruno che la battaglia de' topi e delle
gatte dipignea, bene averlo co' suoi onori preso, che egli si dispose
d'aprirgli l'animo suo; e soli essendo, gli disse:
– Bruno, come Iddio sa,
egli non vive oggi alcuna persona per cui io facessi ogni cosa come io farei
per te; e per poco, se tu mi dicessi che io andassi di qui a Peretola, io credo
che io v'andrei; e per ciò non voglio che tu ti maravigli se io te
dimesticamente e a fidanza richiederò. Come tu sai, egli non è guari che tu mi
ragionasti de' modi della vostra lieta brigata, di che sì gran disiderio
d'esserne m'è venuto, che mai niuna altra cosa si disiderò tanto. E. questo non
è senza cagione, come tu vedrai se mai avviene che io ne sia; ché infino ad ora
voglio io che tu ti facci beffe di me se io non vi fo venire la più bella fante
che tu vedessi già è buona pezza, che io vidi pur l'altr'anno a Cacavincigli, a
cui io voglio tutto il mio bene; e per lo corpo di Cristo che io le volli dare
dieci bolognini grossi, ed ella mi s'acconsentisse, e non volle. E però quanto
più posso ti priego che m'insegni quello che io abbia a fare per dovervi potere
essere, e che tu ancora facci e adoperi che io vi sia; e nel vero voi avrete di
me buono e fedel compagno e orrevole. Tu vedi innanzi innanzi come io sono
bello uomo e come mi stanno bene le gambe in su la persona, e ho un viso che
pare una rosa, e oltre a ciò son dottore di medicine, che non credo che voi ve
n'abbiate niuno; e so di molte belle cose e di belle canzonette, e vo' tene
dire una –; e di botto incominciò a cantare.
Bruno aveva sì gran
voglia di ridere che egli in sè medesimo non capeva; ma pur si tenne. E finita
la canzone, e 'l maestro disse:
– Che te ne pare?
Disse Bruno:
– Per certo con voi
perderieno le cetere de' sagginali, sì artagoticamente stracantate.
Disse il maestro:
– Io dico che tu non
l'avresti mai creduto, se tu non m'avessi udito.
– Per certo voi dite
vero, – disse Bruno.
Disse il maestro:
– Io so bene anche
dell'altre, ma lasciamo ora star questo. Così fatto come tu mi vedi, mio padre
fu gentile uomo, benché egli stesse in contado, e io altressì son nato per
madre di quegli da Vallecchio; e, come tu hai potuto vedere, io ho pure i più
be'libri e le più belle robe che medico di Firenze. In fè di Dio, io ho roba
che costò, contata ogni cosa, delle lire presso a cento di bagattini, già è
degli anni più di dieci. Per che quanto più posso ti priego che facci che io ne
sia; e in fè di Dio, se tu il fai, sie pure infermo se tu sai, che mai di mio
mestiere io non ti torrò un denaio.
Bruno, udendo costui, e
parendogli, sì come altre volte assai paruto gli era, un lavaceci, disse:
– Maestro, fate un poco
il lume più qua, e non v'incresca infin tanto che io abbia fatte le code a
questi topi, e poi vi risponderò.
Fornite le code, e Bruno
faccendo vista che forte la petizion gli gravasse, disse:
– Maestro mio, gran cose
son quelle che per me fareste, e io il conosco; ma tuttavia quella che a me
addimandate, quantunque alla grandezza del vostro cervello sia piccola, pure è
a me grandissima, né so alcuna perso na del mondo per cui io potendo la mi facessi,
se io non la facessi per voi, sì perché v'amo quanto si conviene, e sì per le
parole vostre le quali son condite di tanto senno che trarrebbono le pinzochere
degli usatti, non che me del mio proponimento; e quanto più uso con voi, più mi
parete savio. E dicovi ancora così, che se altro non mi vi facesse voler bene,
sì vi vo' bene perché veggio che innamorato siete di così bella cosa come
diceste. Ma tanto vi vo' dire: io non posso in queste cose quello che voi
avvisate, e per questo non posso per voi quello che bisognerebbe adoperare; ma,
ove voi mi promettiate sopra la vostra grande e calterita fede di tenerlomi
credenza, io vi darò il modo che a tenere avrete; e parmi esser certo che,
avendo voi così be'libri e l'altre cose che di sopra dette m'avete, che egli vi
verrà fatto.
A cui il mastro disse:
– Sicuramente di': io
veggio che tu non mi conosci bene e non sai ancora come io so tenere segreto.
Egli erano poche cose che messer Guasparruolo da Saliceto facesse, quando egli
era giudice della podestà di Forlimpopoli, che egli non me le mandasse a dire,
perché mi trovava così buon segretaro. E vuoi vedere se io dico vero? Io fui il
primaio uomo a cui egli dicesse che egli era per isposare la Bergamina: vedi
oggimai tu!
– Or bene sta dunque, –
disse Bruno – se cotestui se ne fidava, ben me ne posso fidare io. Il modo che
voi avrete a tener fia questo. Noi sì abbiamo a questa nostra brigata un
capitano con due consiglieri, li quali di sei in sei mesi si mutano; e senza
fallo a calendi sarà capitano Buffalmacco e io consigliere, e così è fermato; e
chi è capitano può molto in mettervi e far che messo vi sia chi egli vuole; e
per ciò a me parrebbe che voi, in quanto voi poteste, prendeste la
dimestichezza di Buffalmacco e facestegli onore. Egli è uomo che, veggendovi
così savio, s'innamorerà di voi incontanente, e quando voi l'avrete col senno
vostro e con queste buone cose che avete un poco dimesticato, voi il potrete
richiedere: egli non vi saprà dir di no. Io gli ho già ragionato di voi, e
vuolvi il meglio del mondo; e quando voi avrete fatto così, lasciate far me con
lui.
Allora disse il maestro:
– Troppo mi piace ciò
che tu ragioni; e se egli è uomo che si diletti de' savi uomini, e favellami
pure un poco, io farò ben che egli m'andrà sempre cercando, per ciò che io n'ho
tanto del senno, che io ne potrei fornire una Città. e rimarrei savissimo.
Ordinato questo, Bruno
disse ogni cosa a Buffalmacco per ordine; di che a Buffalmacco parea mille anni
di dovere essere a far quello che questo maestro Scipa andava cercando.
Il medico che oltre modo
disiderava d'andare in corso, non mollò mai che egli divenne amico di
Buffalmacco, il che agevolmente gli venne fatto;, – e cominciogli a dare le più
belle cene e i più belli desinari del mondo, e a Bruno con lui, – altressì; ed
essi si carapinavano, come que' signori, li quali sentendogli bonissimi vini e
di grossi capponi ed altre buone cose assai, gli si tenevano assai di presso, e
senza troppi inviti, dicendo sempre che con uno altro ciò non farebbono, si
rimanevan con lui. Ma pure, quando tempo parve al maestro, sì come Bruno aveva
fatto, così Buffalmacco richiese. Di che Buffalmacco si mostrò molto turbato e
fece a Bruno un gran romore in testa, dicendo:
– Io fo boto all'alto
Dio da Passignano che io mi tengo a poco che lo non ti do tale in su la testa,
che il naso ti caschi nelle calcagna traditor che tu se', ché altri che tu non
ha queste cose manifestate al maestro.
Ma il maestro lo scusava
forte, dicendo e giurando sè averlo d'altra parte saputo; e dopo molte delle
sue savie parole pure il paceficò. Buffalmacco rivolto al maestro disse:
– Maestro mio, egli si
par bene che voi siete stato a Bologna, e che voi infino in questa terra
abbiate recata la bocca chiusa; e ancora vi dico più, che voi non apparaste miga
l'abbiccì in su la mela, come molti sciocconi voglion fare, anzi l'apparaste
bene in sul mellone, ch'è così lungo; e se io non m'inganno, voi foste
battezzato in domenica. E come che Bruno m'abbia detto che voi studiaste là in
medicine, a me pare che voi studiaste in apparare a pigliar uomini; il che voi,
meglio che altro uomo che io vidi mai, sapete fare con vostro senno e con
vostre novelle.
Il medico, rompendogli
la parola in bocca, verso Bruno disse:
– Che cosa è a favellare
e ad usare co' savi! Chi avrebbe così tosto ogni particularità compresa del mio
sentimento, come ha questo valente uomo? Tu non te ne avvedesti miga così tosto
tu di quel che io valeva, come ha fatto egli; ma di'almeno quello che io ti
dissi quando tu mi dicesti che Buffalmacco si dilettava de' savi uomini: parti
che io l'abbia fatto?
Disse Bruno:
– Meglio.
Allora il maestro disse
a Buffalmacco:
– Altro avresti detto se
tu m'avessi veduto a Bologna, dove non era niuno grande né piccolo, né dottore
né scolare, che non mi volesse il meglio del mondo, sì tutti gli sapeva
appagare col mio ragionare e col senno mio. E dirotti più, che io. non vi dissi
mai parola che io non facessi ridere ogn'uomo, sì forte piaceva loro; e quando
io me ne partii, fecero tutti il maggior pianto del mondo, e volevano tutti che
io vi pur rimanessi; e fu a tanto la cosa perch'io vi stessi, che vollono
lasciare a me solo che io leggessi, a quanti scolari v'aveva, le medicine; ma
io non volli, ché io era pur disposto a venir qua a grandissime eredità che io
ci ho, state sempre di quei di casa mia, e così feci.
Disse allora Bruno a
Buffalmacco:
– Che ti pare? Tu nol mi
credevi, quando io il ti diceva. Alle guagnele! Egli non ha in questa terra
medico che s'intenda d'orina d'asino a petto a costui, e fermamente tu non ne
troverresti un altro di qui alle porti di Parigi de' così fatti. Va, tienti
oggimai tu di non fare ciò ch'e'vuole!
Disse il medico:
– Brun dice il vero, ma
io non ci sono conosciuto. Voi siete anzi gente grossa che no; ma io vorrei che
voi mi vedeste tra' dottori, come io soglio stare. Allora disse Buffalmacco:
– Veramente, maestro,
voi le sapete troppo più che io non avrei mai creduto; di che io, parlandovi
come si vuole parlare a' savi come voi siete, frastagliatamente vi dico che io
procaccerò senza fallo che voi di nostra brigata sarete.
Gli onori dal medico
fatti a costoro appresso questa promessa multiplicarono; laonde essi, godendo,
gli facevan cavalcar la capra delle maggiori sciocchezze del mondo, e impromisongli
di dargli per donna la contessa di Civillari, la quale era la più bella cosa
che si trovasse in tutto il culattario dell'umana generazione. Domandò il
medico chi fosse questa contessa; al quale Buffalmacco disse:
– Pinca mia da seme,
ella è una troppo gran donna, e poche case ha per lo mondo, nelle quali ella
non abbia alcuna giurisdizione; e non che altri, ma i frati minori a suon di
nacchere le rendon tributo. E sovvi dire, che quando ella va dattorno, ella si
fa ben sentire, benché ella stea il più rinchiusa; ma non ha per ciò molto che
ella vi passò innanzi all'uscio, una notte che andava ad Arno a lavarsi i piedi
e per pigliare un poco d'aria; ma la sua più continua dimora è in Laterina. Ben
vanno per ciò de' suoi sergenti spesso dattorno, e tutti a dimostrazion della
maggioranza di lei portano la verga e 'l piombino. De'suoi baron si veggon per
tutto assai, sì come è il Ta magnin del la porta, don Meta, Manico di Scopa, lo
Squacchera e altri, li quali vostri dimestici credo che sieno, ma ora non ve ne
ricordate. A così gran donna adunque, lasciata star quella da Cacavincigli, se
'l pensier non c'inganna, vi metteremo nelle dolci braccia.
Il medico, che a Bologna
nato e cresciuto era, non intendeva i vocaboli di costoro, per che egli della
donna si chiamò per contento. Nè guari dopo queste novelle gli recarono i
dipintori che egli era per ricevuto. E venuto il dì che la notte seguente si
dovean ragunare, il maestro gli ebbe amenduni a desinare, e desinato ch'egli
ebbero, gli domandò che modo gli conveniva tenere a venire a questa brigata.
Al quale Buffalmacco
disse:
– Vedete, maestro, a voi
conviene esser molto sicuro, per ciò che, se voi non foste molto sicuro, voi
potreste ricevere impedimento e fare a noi grandissimo danno; e quello a che egli
vi conviene esser molto sicuro, voi l'udirete. A voi si convien trovar modo che
voi siate stasera in sul primo sonno in su uno di quegli avelli rilevati che
poco tempo ha si fecero di fuori a Santa Maria Novella, con una delle più belle
vostre robe in dosso, acciò che voi per la prima volta compariate orrevole
dinanzi alla brigata, e sì ancora per ciò che (per quello che detto ne fosse,
ché non vi fummo noi poi), per ciò che voi siete gentile uomo, la contessa
intende di farvi cavaliere bagnato alle sue spese; e quivi v'aspettate tanto,
che per voi venga colui che noi manderemo. E acciò che voi siate d'ogni cosa
informato, egli verrà per voi una bestia nera e cornuta, non molto grande, e
andrà faccendo per la piazza dinanzi da voi un gran sufolare e un gran saltare
per ispaventarvi; ma poi, quando vedrà che voi non vi spaventiate, ella vi
s'accosterà pianamente; quando accostata vi si sarà, e voi allora senza alcuna
paura scendete giù dello avello, e, senza ricordare o Iddio o'santi, vi salite
suso, e come suso vi siete acconcio, così, a modo che se steste cortese, vi
recate le mani al petto, senza più toccar la bestia. Ella allora soavemente si
moverà e recherravverle a noi; ma infino ad ora, se voi ricordaste o Iddio
o'santi, o aveste paura, vi dich'io che ella vi potrebbe gittare o percuotere
in parte che vi putirebbe; e per ciò, se non vi dà il cuore d'esser ben sicuro,
non vi venite, ché voi fareste danno a voi, senza fare a noi pro veruno.
Allora il medico disse:
– Voi non mi conoscete
ancora; voi guardate forse per ché io porto i guanti in mano e' panni lunghi.
Se voi sapeste quello che io ho già fatto di notte a Bologna, quando io andava
talvolta co' miei compagni alle femine, voi vi maravigliereste. In fè di Dio
egli fu tal notte che, non volendone una venir con noi (ed era una
tristanzuola, ch'è peggio, che non era alta un sommesso), io le diedi in prima
di molte pugna, poscia, presala di peso, credo che io la portassi presso ad una
balestrata, e pur convenne, sì feci, che ella ne venisse con noi. E un'altra
volta mi ricorda che io, senza esser meco altri che un mio fante, colà un poco
dopo l'avemaria passai allato al cimitero de' frati minori, ed eravi il dì
stesso stata sotterrata una femina, e non ebbi paura niuna; e per ciò di questo
non vi sfidate; ché sicuro e gagliardo son io troppo. E dicovi che io, per
venirvi bene orrevole, mi metterò la roba mia dello scarlatto con la quale io
fui con ventato, e vedrete se la brigata si rallegrerà quando mi vedrà, e se io
sarò fatto a mano a man capitano. Vedrete pure come l'opera andrà quando io vi
sarò stato, da che, non avendomi ancor quella contessa veduto, ella s'è sì
innamorata di me che ella mi vol fare cavalier bagnato; e forse che la
cavalleria mi starà così male, e saprolla così mal mantenere o pur bene?
Lascerete pur far me!
Buffalmacco disse:
– Troppo dite bene, ma
guardate che voi non ci faceste la beffa, e non vi veniste o non vi foste
trovato quan do per voi manderemo; e questo dico per ciò che egli fa freddo, e
voi signor medici ve ne guardate molto.
– Non piaccia a Dio, –
disse il medico – io non sono di questi assiderati; io non curo freddo; poche
volte è mai che io mi levi la notte così per bisogno del corpo, come l'uom fa
talvolta, che io mi metta altro che il pilliccione mio sopra il farsetto; e per
ciò io vi sarò fermamente. Partitisi adunque costoro, come notte si venne
faccendo, il maestro trovò sue scuse in casa con la moglie, e trattane
celatamente la sua bella roba, come tempo gli parve, messalasi in dosso, se
n'andò sopra uno de' detti avelli; e sopra quegli marmi ristrettosi, essendo il
freddo grande, cominciò ad aspettar la bestia.
Buffalmacco, il quale
era grande e atante della persona, ordinò d'avere una di queste maschere che
usare si soleano a certi giuochi li quali oggi non si fanno, e messosi in dosso
un pilliccion nero a rovescio, in quello s'acconciò in guisa che pareva pure
uno orso; se non che la maschera aveva viso di diavolo ed era cornuta. E così
acconcio, venendoli Bruno appresso per vedere come l'opera andasse, se n'andò
nella piazza nuova di Santa Maria Novella. E come egli si fu accorto che messer
lo maestro v'era, così cominciò a saltabellare e a fare un nabissare
grandissimo su per la piazza, e a sufolare e ad urlare e a stridere a guisa che
se imperversato fosse. Il quale come il maestro sentì e vide, così tutti i peli
gli s'arricciarono addosso, e tutto cominciò a tremare, come colui che era più
che una femina pauroso; e fu ora che egli vorrebbe essere stato innanzi a casa
sua che quivi. Ma non per tanto pur, poi che andato v'era, si sforzò
d'assicurar si, tanto il vinceva il disidero di giugnere a vedere le maraviglie
dettegli da costoro. Ma poi che Buffalmacco ebbe alquanto imperversato, come è
detto, faccendo sembianti di rappacificarsi, s'accostò allo avello sopra il
quale era il maestro, e stette fermo. Il maestro, sì come quegli che tutto
tremava di paura, non sapeva che farsi, se su vi salisse o se si stesse.
Ultimamente, temendo non gli facesse male se su non vi salisse, con la seconda
paura cacciò la prima, e sceso dello avello, pianamente dicendo, – Iddio
m'aiuti –, su vi salì, e acconciossi molto bene, e sempre tremando tutto si
recò con le mani a star cortese, come detto gli era stato. Allora Buffalmacco
pianamente s'incominciò a dirizzare verso Santa Maria della Scala, e andando
carpone infin presso le donne di Ripole il condusse.
Erano allora per quella
contrada fosse, nelle quali i lavoratori di que' campi facevan votare la
contessa di Civillari, per ingrassare i campi loro. Alle quali come Buffalmacco
fu vicino, accostatosi alla proda d'una e preso tempo, messa la mano sotto
all'un de' piedi del medico e con essa sospintolsi da dosso, di netto col capo
innanzi il gittò in essa, e cominciò a ringhiare forte e a saltare e ad
imperversare e ad andarsene lungo Santa Maria della Scala verso il prato
d'Ognissanti, dove ritrovò Bruno che per non poter tener le risa fuggito s'era;
e amenduni festa faccendosi, di lontano si misero a veder quello che il medico
impastato facesse.
Messer lo medico,
sentendosi in questo luogo così abominevole, si sforzò di rilevare e di volersi
aiutare per uscirne, e ora in qua e ora in là ricadendo, tutto dal capo al piè
impastato, dolente e cattivo, avendone alquante dramme ingozzate, pur n'uscì
fuori e lasciovvi il cappuccio; e, spastandosi con le mani come poteva il
meglio, non sappiendo che altro consiglio pigliarsi, se ne tornò a casa sua, e
picchiò tanto che aperto gli fu. Nè prima, essendo egli entrato dentro così
putente, fu l'uscio riserrato, che Bruno e Buffalmacco furono ivi, per udire
come il maestro fosse dalla sua donna raccolto. Li qua li stando ad udir,
sentirono alla donna dirgli la maggior villania che mai si dicesse a niun
tristo, dicendo:
– Deh, come ben ti sta!
Tu eri ito a qualche altra femina, e volevi comparire molto orrevole con. la
roba dello scarlatto. Or non ti bastava io? Frate, io sarei sofficiente ad un
popolo, non che a te. Deh, or t'avessono essi affogato, come essi ti gittarono
là dove tu eri degno d'esser gittato. Ecco medico onorato, aver moglie e andar
la notte alle femine altrui!
E con queste e con altre
assai parole, faccendosi il medico tutto lavare, infino alla mezza notte non
rifinò la donna di tormentarlo.
Poi la mattina vegnente
Bruno e Buffalmacco, avendosi tutte le carni dipinte soppanno di lividori a
guisa che far sogliono le battiture, se ne vennero a casa del medico, e
trovaron lui già levato; ed entrati dentro a lui, sentirono ogni cosa putirvi;
ché ancora non s'era sì ogni cosa potuta nettare, che non vi putisse. E
sentendo il medico costor venire a lui, si fece loro incontro, dicendo che
Iddio desse loro il buon dì. Al quale Bruno e Buffalmacco, sì come proposto
aveano, risposero con turbato viso:
– Questo non diciam noi
a voi, anzi preghiamo Iddio che vi dea tanti malanni che voi siate morto a
ghiado, sì come il più disleale e il maggior traditor che viva; per ciò che
egli non è rimaso per voi, ingegnandoci noi di farvi onore e piacere, che noi
non siamo stati morti come cani. E per la vostra dislealtà abbiamo stanotte
avute tante busse, che di meno andrebbe uno asino a Roma; senza che noi siamo
stati a pericolo d'essere stati cacciati della compagnia nella quale noi
avavamo ordinato di farvi ricevere. E se voi non ci credete, ponete mente le
carni nostre come elle stanno. – E ad un cotal barlume apertisi i panni
dinanzi, gli mostrarono i petti loro tutti dipinti, e richiusongli senza
indugio.
Il medico si volea
scusare e dir delle sue sciagure, e come e dove egli era stato gittato. Al
quale Buffalmacco disse:
– Io vorrei che egli
v'avesse gittato dal ponte in Arno: perché ricordavate voi o Dio o'santi? Non
vi fu egli detto dinanzi?
Disse il medico:
– In fè di Dio non
ricordava.
– Come, – disse
Buffalmacco, – non ricordavate! Voi ve ne ricordate molto, ché ne disse il
messo nostro che voi tremavate come verga, e non sapavate dove voi vi foste. Or
voi ce l'avete ben fatta; ma mai più persona non la ci farà, e a voi ne faremo
ancora quello onore che vi se ne conviene.
Il medico cominciò a
chieder perdono, e a pregargli per Dio che nol dovessero vituperare; e con le
miglior parole che egli potè, s'ingegnò di pacificargli. E per paura che essi
questo suo vitupero non palesassero, se da indi a dietro onorati gli avea,
molto più gli onorò e careggiò con conviti e altre cose da indi innanzi.
Così adunque, come udito
avete, senno s'insegna a chi tanto non n'apparò a Bologna.
NOVELLA DECIMA
Una ciciliana
maestrevolmente toglie ad un mercatante ciò che in Palermo ha portato; il
quale, sembiante faccendo d'esservi tornato con molta più mercatantia che
prima, da lei accattati denari, le lascia acqua e capecchio.
Quanto la novella della
reina in diversi luoghi facesse le donne ridere, non è da domandare: niuna ve
n'era a cui per soperchio riso non fossero dodici volte le lagrime venute in su
gli occhi. Ma poi che ella ebbe fine, Dioneo, che sapeva che a lui toccava la
volta, disse. Graziose donne, manifesta cosa è tanto più l'arti piacere, quanto
più sottile artefice è per quelle artificiosamente beffato. E per ciò,
quantunque bellissime cose tutte raccontate abbiate, io intendo di raccontarne
una? tanto più che alcuna altra dettane da dovervi aggradire, quanto colei che
beffata fu era maggior maestra di beffare altrui, che alcuno altro beffato
fosse di quegli o di quelle che avete contate.
Soleva essere, e forse
che ancora oggi è, una usanza in tutte le terre marine che hanno porto, così
fatta, che tutti i mercatanti che in quelle con mercatantie capitano,
faccendole scaricare, tutte in un fondaco il quale in molti luoghi è chiamato
dogana, tenuta per lo comune o per lo signor della terra, le portano. E quivi,
dando a coloro che sopra ciò sono per iscritto tutta la mercatantia e il pregio
di quella, è dato per li detti al mercatante un magazzino, nel quale esso la
sua mercatantia ripone e serralo con la chiave; e li detti doganieri poi
scrivono in sul libro della dogana a ragione del mercatante tutta la sua
mercatantia, faccendosi poi del lor diritto pagare al mercatante, o per tutta o
per parte della mercatantia che egli della dogana traesse. E da questo libro
della dogana assai volte s'informano i sensali e delle qualità e delle quantità
delle mercatantie che vi sono, e ancora chi sieno i mercatanti che l'hanno, con
li quali poi essi, secondo che lor cade per mano, ragionano di cambi, di
baratti e di vendite e d'altri spacci.
La quale usanza, sì come
in molti altri luoghi, era in Palermo in Cicilia, dove similmente erano e ancor
sono assai femine del corpo bellissime, ma nimiche della onestà; le quali, da
chi non le conosce, sarebbono e son tenute grandi e onestissime donne. Ed
essendo, non a radere, ma a scorticare uomini date del tutto, come un
mercatante forestiere riveggono, così dal libro della dogana s'informano di ciò
che egli v'ha e di quanto può fare; e appresso con lor piacevoli e amorosi atti
e con parole dolcissime questi cotali mercatanti s'ingegnano d'adescare e di
trarre nel loro amore; e già molti ve n'hanno tratti, a' quali buona parte
della lor mercatantia hanno delle mani tratta, e d'assai tutta; e di quelli vi
sono stati che la mercatantia e 'navilio e le polpe e l'ossa lasciate v'hanno,
sì ha soavemente la barbiera saputo menare il rasoio.
Ora, non è ancora molto
tempo, avvenne che quivi, da' suoi maestri mandato, arrivò un giovane nostro
fiorentino detto Nicolò da Cignano, come che Salabaetto fosse chiamato, con
tanti pannilani che alla fiera di Salerno gli erano avanzati, che potevan
valere un cinquecento fiorin d'oro; e dato il legaggio di quegli a' doganieri,
gli mise in un magazzino, e senza mostrar troppo gran fretta dello spaccio,
s'incominciò ad andare alcuna volta a sollazzo per la terra.
Ed essendo egli bianco e
biondo e leggiadro molto, e standogli ben la vita, avvenne che una di queste
barbiere, che si faceva chiamare madonna Jancofiore, avendo alcuna cosa sentita
de' fatti suoi, gli pose l'occhio addosso. Di che egli accorgendosi, estimando
che ella fosse una gran donna, s'avvisò che per la sua bellezza le piacesse, e
pensossi di volere molto cautamente menar questo amore; e senza dirne cosa
alcuna a persona, incomin ciò a far le passate dinanzi alla casa di costei. La
quale accortasene, poi che alquanti dì l'ebbe ben con gli occhi acceso,
mostrando ella di consumarsi per lui, segretamente gli mandò una sua femina la
quale ottimamente l'arte sapeva del ruffianesimo. La quale, quasi con le
lagrime in su gli occhi, dopo molte novelle, gli disse che egli con la bellezza
e con la piacevolezza sua aveva sì la sua donna presa, che ella non trovava luogo
né dì né notte; e per ciò, quando a lui piacesse, ella disiderava più che altra
cosa di potersi con lui ad un bagno segretamente trovare; e appresso questo,
trattosi uno anello dì borsa, da parte della sua donna gliele donò.
Salabaetto, udendo questo,
fu il più lieto uomo che mai fosse, e preso l'anello e fregatoselo agli occhi e
poi baciatolo sel mise in dito, e rispose alla buona femina che, se madonna
Jancofiore l'amava, che ella n'era ben cambiata, per ciò che egli amava più lei
che la sua propia vita, e che egli era disposto d'andare dovunque a lei fosse a
grado, e ad ogn'ora.
Tornata adunque la
messaggiera alla sua donna con questa risposta, a Salabaetto fu a mano a man
detto a qual bagno il dì seguente passato vespro la dovesse aspettare. Il quale,
senza dirne cosa del mondo a persona, prestamente all'ora impostagli v'andò, e
trovò il bagno per la donna esser preso. Dove egli non stette guari che due
schiave venner cariche: l'una aveva un materasso di bambagia bello e grande in
capo, e l'altra un grandissimo paniere pien di cose; e steso questo materasso
in una camera del bagno sopra una lettiera, vi miser su un paio di lenzuola
sottilissime listate di seta, e poi una coltre di bucherame cipriana
bianchissima con due origlieri lavorati a maraviglie. E appresso questo
spogliatesi ed entrate nel bagno, quello tutto lavarono e spazzarono ottima
mente.
Né stette guari che la
donna con due sue altre schiave appresso al bagno venne; dove ella, come prima
ebbe agio, fece.a Salabaetto grandissima festa; e dopo i maggiori sospiri del
mondo, poi che molto e abbracciato e baciato l'ebbe, gli disse:
– Non so chi mi s'avesse
a questo potuto conducere, altro che tu; tu m'hai miso lo foco all'arma,
toscano acanino. Appresso questo, come a lei piacque, ignudi amenduni se
n'entrarono nel bagno, e con loro due delle schiave. Quivi, senza lasciargli
por mano addosso ad altrui, ella medesima con sapone moscoleato e con
garofanato maravigliosamente e bene tutto lavò Salabaetto; e appresso sé fece e
lavare e strapicciare alle schiave. E fatto questo, recaron le schiave de
lenzuoli bianchissimi e sottili, de' quali veniva sì grande odor di rose che
ciò che v'era pareva rose; e l'una inviluppò nell'uno Salabaetto e l'altra
nell'altro la donna, e in collo levatigli, amenduni nel letto fatto ne gli
portarono. E quivi, poi che di sudare furono restati, dalle schiave fuor di
que' lenzuoli tratti, rimasono ignudi negli altri. E tratti del paniere
oricanni d'ariento bellissimi e pieni qual d'acqua rosa, qual d'acqua di fior d'aranci,
qual d'acqua di fior di gelsomino e qual d'acqua nanfa, tutti costoro di queste
acque spruzzano; e appresso tratte fuori scatole di confetti e preziosissimi
vini, alquanto si confortarono. A Salabaetto pareva essere in paradiso, e mille
volte aveva riguardata costei, la quale era per certo bellissima, e cento anni
gli pareva ciascuna ora che queste schiave se n'andassero e che egli nelle
braccia di costei si ritrovasse. Le quali poi che per comandamento della donna,
lasciato un torchietto acceso nella camera, andate se ne furono fuori, costei
abbracciò Salabaetto ed egli lei, e con grandissimo piacer di Salabaetto, al
quale pareva che costei tutta si struggesse per suo amore, dimorarono una lunga
ora.
Ma poi che tempo parve
di levarsi alla donna, fatte venire le schiave, si vestirono, e un'altra volta
bevendo e confettando si riconfortarono alquanto, e il viso e le mani di quelle
acque odorifere lavatisi e volendosi partire, disse la donna a Salabaetto:
– Quando a te fosse a
grado, a me sarebbe grandissima grazia che questa sera te ne venissi a cenare e
ad albergo meco.
Salabaetto, il qual già
e dalla bellezza e dalla artificiosa piacevolezza di costei era preso,
credendosi fermamente da lei essere come il cuor del corpo amato, rispose:
– Madonna, ogni vostro
piacere m'è sommamente a grado, e per ciò e istasera e sempre intendo di far
quello che vi piacerà e che per voi mi fia comandato. Tornatasene adunque la
donna a casa, e fatta bene di sue robe e di suoi arnesi ornar la camera sua, e
fatto splendidamente far da cena, aspettò Salabaetto. Il quale, come alquanto
fu fatto oscuro, là se n'andò, e lietamente ricevuto, con gran festa e ben
servito cenò. Poi, nella camera entratisene, sentì quivi maraviglioso odore di
legno aloè, e d'uccelletti cipriani vide il letto ricchissimo, e molte belle
robe su per le stanghe. Le quali cose tutte insieme, e ciascuna per sé, gli
fecero stimare costei dovere essere una grande e ricca donna. E quantunque in
contrario avesse della vita di lei udito bucinare, per cosa del mondo nol
voleva credere; e se pure alquanto ne credeva lei già alcuno aver beffato, per
cosa del mondo non poteva credere questo dovere a lui intervenire. Egli giacque
con grandissimo suo piacere la notte con essolei, sempre più accendendosi.
Venuta la mattina, ella gli cinse una bella e leggiadra cinturetta d'argento
con una bella bora, e sì gli disse:
– Salabaetto mio dolce,
io mi ti raccomando; e così come la mia persona è al piacer tuio, così è ciò che
ci è e ciò che per me si può è allo comando tuio. Salabaetto lieto
abbracciatala e baciatala, s'uscì di casa costei e vennesene là dove usavano
gli altri mercatanti. E usando una volta e altra con costei senza costargli
cosa del mondo, e ogni ora più invescandosi, avvenne che egli vendé i panni
suoi a contanti e guadagnonne bene; il che la buona donna non da lui, ma da
altrui sentì incontanente.
Ed essendo Salabaetto da
lei andato una sera, costei incominciò a cianciare e a ruzzare con lui, a
baciarlo e abbracciarlo, mostrandosi sì forte di lui infiammata, che pareva che
ella gli volesse d'amor morir nelle braccia; e volevagli pur donare due
bellissimi nappi d'argento che ella aveva, li quali Salabaetto non voleva
torre, sì come colui che da lei tra una volta e altra aveva avuto quello che
valeva ben trenta fiorin d'oro, senza aver potuto fare che ella da lui
prendesse tanto che valesse un grosso. Alla fine, avendol costei bene acceso
col mostrar sé accesa e liberale, una delle sue schiave, sì come ella aveva
ordinato, la chiamò; per che ella, uscita della camera e stata alquanto, tornò
dentro piagnendo, e sopra il letto gittatasi boccone, cominciò a fare il più
doloroso lamento che mai facesse femina. Salabaetto, maravigliandosi, la si
recò in braccio, e cominciò a piagner con lei e a dire:
– Deh, cuor del corpo
mio, che avete voi così subitamente? Che è la cagione di questo dolore? Deh!
ditemelo, anima mia.
Poi che la donna s'ebbe
assai fatta pregare, ed ella disse:
– Ohimè, signor mio
dolce, io non so né che mi far né che mi dire: io ho testé ricevute lettere da
Messina, e scrivemi mio fratello, che, se io dovessi vendere e impegnare ciò
che ci è, che senza alcun fallo io gli abbia fra qui e otto dì mandati mille
fiorin d'oro, se non che gli sarà tagliata la testa; e io non so quello che io
mi debba fare, che io gli possa così prestamente avere; ché, se io avessi
spazio pur quindici dì, io troverrei modo d'accivirne d'alcun luogo donde io ne
debbo avere molti più, o io venderei alcuna delle nostre possessioni; ma, non
potendo, io vorrei esser morta prima che quella mala novella mi venisse –. E
detto questo, forte mostrandosi tribolata, non restava di piagnere.
Salabaetto, al quale
l'amorose fiamme avevan gran parte del debito conoscimento tolto, credendo
quelle verissime lagrime e le parole ancor più vere, disse:
– Madonna, io non vi
potrei servire di mille, ma di cinquecento fiorin d'oro sì bene, dove voi
crediate potermegli rendere di qui a quindici dì; e questa è vostra ventura che
pure ieri mi vennero venduti i panni miei, ché, se così non fosse, io non vi
potrei prestare un grosso.
– Ohimè! – disse la
donna – dunque hai tu patito disagio di denari? O perché non me ne richiedevi
tu? Perché io non n'abbia mille, io ne aveva ben cento e anche dugento da
darti; tu m'hai tolta tutta la baldanza da dovere da te ricevere il servigio
che tu mi profferi Salabaetto, vie più che preso da queste parole, disse:
– Madonna, per questo
non voglio io che voi lasciate; ché, se fosse così bisogno a me come egli fa a voi,
io v'avrei ben richiesta.
– Ohimè! – disse la
donna, – Salabaetto mio, ben conosco che il tuo è vero e perfetto amore verso
di me, quando, senza aspettar d'esser richiesto di così gran quantità di
moneta, in così fatto bisogno liberamente mi sovvieni. E per certo io era tutta
tua senza questo, e con questo sarò molto maggior mente; né sarà mai che io non
riconosca da te la testa di mio fratello. Ma sallo Iddio che io mal volentier
gli prendo, considerando che tu se' mercatante, e i mercatanti fanno co' denari
tutti i fatti loro; ma per ciò che il bisogno mi strigne e ho ferma speranza di
tosto rendergliti, io gli pur prenderò, e per l'avanzo, se più presta via non
troverrò, impegnerò tutte queste mie cose –; e così detto lagrimando, sopra il
viso di Salabaetto si lasciò cadere.
Salabaetto la cominciò a
confortare; e stato la notte con lei, per mostrarsi bene liberalissimo suo
servidore, senza alcuna richiesta di lei aspettare, le portò cinquecento
be'fiorin d'oro, li quali ella, ridendo col cuore e piagnendo con gli occhi,
prese, attenendosene Salabaetto alla sua semplice promessione.
Come la donna ebbe i
denari, così s'incominciarono le 'ndizioni a mutare; e dove prima era libera
l'andata alla donna ogni volta che a Salabaetto era in piacere, così
incominciaron poi a sopravvenire delle cagioni, per le quali non gli veniva
delle sette volte l'una fatto il potervi entrare, né quel viso né quelle
carezze né quelle feste più gli eran fatte che prima.
E passato d'un mese e di
due il termine, non che venuto, al quale i suoi danari riaver dovea,
richiedendogli, gli eran date parole in pagamento. Laonde, avvedendosi
Salabaetto dell'arte della malvagia femina e del suo poco senno, e conoscendo
che di lei niuna cosa più che le si piacesse di questo poteva dire, sì come
colui che di ciò non aveva né scritta né testimonio, e vergognandosi di
ramarricarsene con alcuno, sì perché n'era stato fatto avveduto dinanzi, e sì
per le beffe le quali meritamente della sua bestialità n'aspettava, dolente
oltre modo, seco medesimo la sua sciocchezza piagnea. E avendo da' suoi maestri
più lettere avute che egli quegli denari cambiasse e mandassegli loro; acciò
che, non faccendolo egli, quivi non fosse il suo difetto scoperto, diliberò di
partirsi; e in su un legnetto montato, non a Pisa, come dovea, ma a Napoli se
ne venne.
Era quivi in quei tempi
nostro compar Pietro dello Canigiano, tresorier di madama la 'mperatrice di
Costantinopoli, uomo di grande intelletto e di sottile ingegno, grandissimo
amico e di Salabaetto e de' suoi; col quale, sì come con discretissimo uomo,
dopo alcuno giorno Salabaetto dolendosi, raccontò ciò che fatto aveva e il suo
misero accidente, e domandogli aiuto e consi glio in fare che esso quivi
potesse sostentar la sua vita, affermando che mai a Firenze non intendeva di
ritornare. Canigiano, dolente di queste cose, disse:
– Male hai fatto; mal ti
se' portato; male hai i tuoi maestri ubbiditi; troppi denari ad un tratto hai
spesi in dolcitudine; ma che? fatto è, vuolsi vedere altro. E, sì come avveduto
uomo, prestamente ebbe pensato quello che era da fare, e a Salabaetto il disse;
al quale piacendo il fatto, si mise in avventura di volerlo seguire. E avendo
alcun denaio, e il Canigiano avendonegli alquanti prestati, fece molte balle
ben legate e ben magliate, e comperate da venti botti da olio ed empiutele, e
caricato ogni cosa, se ne tornò in Palermo; e il legaggio delle balle dato a`
doganieri e similmente il costo delle botti, e fatto ogni cosa scrivere a sua
ragione, quelle mise ne' magazzini, dicendo che, infino che altra mercatantia
la quale egli aspettava non veniva, quelle non voleva toccare. Jancofiore,
avendo sentito questo e udendo che ben duemilia fiorin d'oro valeva o più
quello che al presente aveva recato, senza quello che egli aspettava, che
valeva più di tre milia, parendole aver tirato a pochi, pensò di restituirgli i
cinquecento, per potere avere la maggior parte de' cinque milia, e mandò per
lui.
Salabaetto divenuto
malizioso v'andò. Al quale ella faccendo vista di niente sapere di ciò che
recato s'avesse, fece maravigliosa festa e disse:
– Ecco, se tu fossi
crucciato meco perché io non ti rende'così al termine i tuoi denari...
Salabaetto cominciò a
ridere e disse:
– Madonna, nel vero egli
mi dispiacque bene un poco sì come a colui che mi trarrei il cuor per darlovi,
se io credessi piacervene; ma io voglio che voi udiate come io son crucciato
con voi. Egli è tanto e tale l'amor che io vi porto, che io ho fatto vendere la
maggior parte delle mie possessioni, e ho al presente recata qui tanta
mercatantia che vale oltre a duomilia fiorini, e aspettone di ponente tanta che
varrà oltre a tremilia, e intendo di fare in questa terra un fondaco e di
starmi qui, per esservi sempre presso, parendomi meglio stare del vostro amore
che io creda che stia alcuno innamorato dei suo.
A cui la donna disse:
– Vedi, Salabaetto, ogni
tuo acconcio mi piace forte, sì come di quello di colui il quale io amo più che
la vita mia, e piacemi forte che tu con intendimento di starci tornato ci sii,
però che spero d'avere ancora assai di buon tempo con teco; ma io mi ti voglio
un poco scusare ch'e, di quei tempi che tu te n'andasti, alcune volte ci
volesti venire e non potesti, e alcune ci venisti e non fosti così lietamente
veduto come solevi; e oltre a questo, di ciò che io al termine promesso non ti
rende'i tuoi denari. Tu dei sapere che io era allora in grandissimo dolore e in
grandissima afflizione, e chi è in così fatta disposizione, quantunque egli ami
molto altrui, non gli può far così buon viso né attendere tuttavia a lui come
colui vorrebbe; e appresso dei sapere ch'egli è molto malagevole ad una donna
il poter trovar mille fiorin d'oro, e sonci tutto il dì dette delle bugie e non
c'è attenuto quello che ci è promesso, e per questo conviene che noi altressì
mentiamo altrui; e di quinci venne, e non da altro difetto, che io i tuoi
denari non ti rendei; ma io gli ebbi poco appresso la tua partita, e se io
avessi saputo dove mandargliti, abbi per certo che io te gli avrei mandati; ma
perché saputo non l'ho, gli t'ho guardati.
E fattasi venire una
borsa dove erano quegli medesimi che esso portati l'avea, gliele pose in mano e
disse:
– Annovera se son
cinquecento. Salabaetto non fu mai sì lieto, e annoveratigli e trovatigli
cinquecento e ripostigli, disse:
– Madonna, io conosco
che voi dite vero, ma voi n'avete fatto assai; e dicovi che per questo e per lo
amore che io vi porto, voi non ne vorreste da me per niun vostro bisogno quella
quantità che io potessi fare, che io non ve ne servissi; e come io ci sarò
acconcio, voi ne potrete essere alla pruova.
E in questa guisa
reintegrato con lei l'amore in parole, rincominciò Salabaetto vezzatamente ad
usar con lei, ed ella a fargli i maggiori piaceri e i maggiori onori del mondo,
e a mostrargli il maggiore amore. Ma Salabaetto, volendo col suo inganno punire
lo 'nganno di lei, avendogli ella il dì mandato che egli a cena e ad albergo
con lei andasse, v'andò tanto malinconoso e tanto tristo, che egli pareva che
volesse morire.
Jancofiore,
abbracciandolo e baciandolo, lo 'ncominciò a domandare perché egli questa
malinconia avea. Egli, poi che una buona pezza s'ebbe fatto pregare, disse:
– Io son diserto per ciò
che il legno, sopra il quale e la mercatantia che io aspettava, è stato preso
da' corsari di Monaco e riscattasi diecimilia fiorin d'oro, de' quali ne tocca
a pagare a me mille, e io non ho un denaio, per ciò che li cinquecento che mi
rendesti incontanente mandai a Napoli ad investire in tele per far venir qui; e
se io vorrò al presente vendere la mercatantia la quale ho qui, per ciò che non
è tempo, appena che io abbia delle due derrate un denaio, e io non ci sono sì
ancora conosciuto che io ci trovassi chi di questo mi sovvenisse, e per ciò io
non so che mi fare né che mi dire; e se io non mando tosto i denari, la
mercatantia ne fia portata a Monaco; e non ne riavrò mai nulla.
La donna, forte
crucciosa di questo, sì come colei alla quale tutto il pareva perdere,
avvisando che modo ella dovesse tenere acciò che a Monaco non andasse, disse:
– Dio il sa che ben me
ne incresce per tuo amore; ma che giova il tribolarsene tanto? Se io avessi
questi denari, sallo Iddio che io gli ti presterrei incontanente; ma io non gli
ho. E il vero che egli ci è alcuna persona, il quale l'altrieri mi servì de'
cinquecento che mi mancavano, ma grossa usura ne vuole; ché egli non ne vuol
meno che a ragion di trenta per centinaio; se da questa cotal persona tu gli
volessi, converrebbesi far sicuro di buon pegno, e io per me sono acconcia
d'impegnar per te tutte queste robe e la persona per tanto quanto egli ci vorrà
su prestare, per poterti servire, ma del rimanente come il sicurerai tu?
Conobbe Salabaetto la
cagione che moveva costei a fargli questo servigio, e accorsesi che di lei
dovevan essere i denari prestati; il che piacendogli, prima la ringraziò, e
appresso disse che già per pregio ingordo non lascerebbe, strignendolo il
bisogno; e poi disse che egli il sicurerebbe della mercatantia la quale aveva
in dogana, faccendola scrivere in colui che i denar gli prestasse; ma che egli
voleva guardar la chiave de' magazzini, sì per poter mostrar la sua
mercatantia, se richiesta gli fosse, e sì acciò che niuna cosa gli potesse
esser tocca o tramutata o scambiata.
La donna disse che
questo era ben detto, ed era assai buona sicurtà. E per ciò, come il dì fu
venuto, ella mandò per un sensale di cui ella si canfidava molto, e ragionato
con lui questo fatto, gli diè mille fiorin d'oro li quali il sensale prestò a
Salabaetto, e fece in suo nome scrivere alla dogana ciò che Salabaetto dentro
v'avea; e fattesi loro scritte e contrascritte insieme, e in concordia rimasi,
attesero a' loro altri fatti.
Salabaetto, come più
tosto potè, montato in su un legnetto con mille cinquecento fiorin d'oro, a
Pietro dello Canigiano se ne tornò a Napoli, e di quindi buona e intera ragione
rimandò a Firenze a' suoi maestri che co' panni l'avevan mandato; e pagato
Pietro e ogni altro a cui alcuna cosa doveva, più di col Canigiano si diè buon
tempo dello inganno fatto alla ciciliana. Poi di quindi, non volendo più
mercatante essere, se ne venne a Ferrara. Jancofiore, non trovandosi Salabaetto
in Palermo, s'incominciò a maravigliare e divenne sospettosa; e poi che ben due
mesi aspettato l'ebbe, veggendo che non veniva, fece che 'l sensale fece
schiavare i magazzini. E primieramente tastate le botti, che si credeva che
piene d'olio fossero, trovò quelle esser piene d'acqua marina, avendo in
ciascuna forse un barile d'olio di sopra vicino al cocchiume. Poi, sciogliendo
le balle, tutte, fuor che due che panni erano, piene le trovò di capecchio; e
in brieve, tra ciò che v'era, non valeva oltre a dugento fiorini. Di che
Jancofiore tenendosi scornata, lungamente pianse i cinquecento renduti e troppo
più i mille prestati, spesse volte dicendo: – Chi ha a far con tosco, non vuole
esser losco –. E così, rimasasi col danno e colle beffe, trovò che tanto seppe
altri quanto altri.
CONCLUSIONE
Come Dioneo ebbe la sua
novella finita, così Lauretta, conoscendo il termine esser venuto oltre al quale
più regnar non dovea, commendato il consiglio di Pietro Canigiano che apparve
dal suo effetto buono, e la sagacità di Salabaetto che non fu minore a mandarlo
ad esecuzione, levatasi la laurea di capo, in testa ad Emilia la pose,
donnescamente dicendo:
– Madonna, io non so
come piacevole reina noi avrem di voi, ma bella la pure avrem noi; fate adunque
che alle vostre bellezze l'opere sien rispondenti –; e tornossi a sedere.
Emilia, non tanto dell'esser reina fatta, quanto dell'udirsi così in pubblico commendare
di ciò che le donne sogliono essere più vaghe, un pochetto si vergognò, e tal
nel viso divenne qual in su l'aurora son le novelle rose. Ma pur, poi che
avendo alquanto gli occhi tenuti bassi ebbe il rossore dato luogo, avendo col
suo siniscalco de' fatti pertinenti alla brigata ordinato, così cominciò a
parlare:
– Dilettose donne, assai
manifestamente veggiamo che, poi che i buoi per alcuna parte del giorno hanno
faticato sotto il giogo ristretti, quegli esser dal giogo alleviati e
disciolti, e liberamente, dove lor più piace, per li boschi lasciati sono
andare alla pastura; e veggiamo ancora non esser men belli, ma molto più, i
giardini di varie piante fronzuti, che i boschi ne' quali solamente querce
veggiamo; per le quali cose io estimo, avendo riguardo quanti giorni sotto
certa legge ristretti ragionato abbiamo, che, sì come a bisognosi, di vagare
alquanto, e vagando riprender forze a rientrar sotto il giogo, non sola mente
sia utile ma opportuno.
E per ciò quello che
domane, seguendo il vostro dilettevole ragionare, sia da dire, non intendo di
ristrigneni sotto alcuna spezialità, ma voglio che ciascun secondo che gli
piace ragioni, fermamente tenendo che la varietà delle cose che si diranno non
meno graziosa ne fia che l'avrete pur d'una parlato; e così avendo fatto, chi
appresso di me nel reame verrà, sì come più forti, con maggior sicurtà ne potrà
nelle usate leggi ristrignere. E detto questo, infino all'ora della cena
libertà concedette a ciascuno.
Commendò ciascun la
reina delle cose dette, sì come savia; e in piè drizzatisi, chi ad un diletto e
chi ad un altro si diede: le donne a far ghirlande e a trastullarsi, i giovani
a giucare e a cantare, e così infino all'ora della cena passarono; la quale
venuta, intorno alla bella fontana con festa e con piacer cenarono; e dopo la
cena al modo usato cantando e ballando un gran pezzo si trastullarono. Alla
fine la reina, per seguire de' suoi predecessori lo stilo, non ostanti quelle
che volontariamente da più di loro erano state dette, comandò a Panfilo che una
ne dovesse cantare. Il quale così liberamente cominciò:
Tanto è, Amore, il bene
ch'io per te sento e
l'allegrezza e 'l gioco
ch'io son felice ardendo
nel tuo foco.
L'abbondante allegrezza
ch'è nel core
dell'alta gioia e cara,
nella qual m'ha'recato,
non potendo capervi,
esce di fore,
e nella faccia chiara
mostra'l mio lieto
stato;
ché essendo innamorato
in così alto e
ragguardevol loco,
lieve mi fa lo star
dov'io mi coco.
Io non so col mio canto
dimostrare,
né disegnar col dito,
Amore, il ben ch'io
sento;
e s'io sapessi, me'l
convien celare;
ché s'el fosse sentito,
torneria in tormento;
ma io son sì contento
ch'ogni parlar sarebbe
corto e fioco,
pria n'avessi mostrato
pure un poco.
Chi potrebbe estimar che
le mie braccia
aggiugnesser giammai
là dov'io l'ho tenute,
e ch'io dovessi giunger
la mia faccia
là dov'io l'accostai
per grazia e per salute?
Non mi sarien credute
le mie fortune; ond'io
tutto m'infoco,
quel nascondendo ond'io
m'allegro e gioco.
La canzone di Panfilo
aveva fine, alla quale quantunque per tutti fosse compiutamente risposto, niun
ve n'ebbe che, con più attenta sollecitudine che a lui non apparteneva, non
notasse le parole di quella, ingegnandosi di quello volersi indovinare che egli
di convenirgli tener nascoso cantava. E quantunque vari varie cose andassero
imaginando, niun per ciò alla verità del fatto pervenne. Ma la reina, poi che
vide la canzone di Panfilo finita, e le giovani donne e gli uomini volentier
riposarsi, comandò che ciascuno se n'andasse a dormire.
Finisce l'ottava
giornata del Decameron.
Incomincia la nona
giornata nella quale sotto il reggimento d'Emilia, si ragiona ciascuno secondo
che gli piace e di quello che più gli aggrada.
GIORNATA NONA
INTRODUZIONE
La luce, il cui
splendore la notte fugge, aveva già l'ottavo cielo d'azzurrino in color
cilestro mutato tutto, e cominciavansi i fioretti per li prati a levar suso,
quando Emilia, levatasi, fece le sue compagne e i giovani parimente chiamare.
Li quali venuti, e appresso alli lenti passi della reina avviatisi, infino ad
un boschetto, non guari al palagio lontano, se n'andarono; e per quello
entrati, videro gli animali, sì come cavriuoli, cervi e altri, quasi sicuri da'
cacciatori per la sopra stante pistolenzia, non altramente aspettargli che se
senza te ma o dimestichi fossero divenuti. E ora a questo e ora a quell'altro
appressandosi, quasi giugnere gli dovessero, faccendogli correre e saltare, per
alcuno spazio sollazzo presero. Ma già inalzando il sole, parve a tutti di
ritornare. Essi eran tutti di frondi di quercia inghirlandati, con le mani
piene o d'erbe odorifere o di fiori; e chi scontrati gli avesse, niun'altra
cosa avrebbe potuto dire se non: – O costor non saranno dalla morte vinti, o
ella gli ucciderà lieti.
Così adunque, piede
innanzi piede venendosene, cantando e cianciando e motteggiando, pervennero al
palagio, do ve ogni cosa ordinatamente disposta e li lor famigliari lieti e
festeggianti trovarono. Quivi riposatisi alquanto, non prima a tavola andarono
che sei canzonette, più lieta l'una che l'altra, da' giovani e dalle donne
cantate furono; appresso alle quali, data l'acqua alle mani, tutti secondo il
piacer. della reina gli mise il siniscalco a tavola, dove le vivande. venute,
allegri tutti mangiarono; e da quello levati, al carolare e al sonare si
dierono per alquanto spazio, e poi, co mandandolo la reina, chi volle s'andò a
riposare. Ma già l'ora usitata venuta, ciascuno nel luogo usato s'adunò a
ragionare; dove la reina, a Filomena guardando, disse che principio desse alle
novelle del presente giorno, la qual sorridendo cominciò in questa guisa.
NOVELLA PRIMA
Madonna Francesca, amata
da uno Rinuccio e da uno Alessandro, e niuno amandone, col fare entrare l'un
per morto in una sepoltura, e l'altro quello trarne per morto, non potendo essi
venire al fine imposto, cautamente se gli leva da dosso.
Madonna, assai
m'aggrada, poi che vi piace, che per questo campo aperto e libero, nel quale la
vostra magnificenzia n'ha messi, del novellare, d'esser colei che corra il
primo aringo, il quale se ben farò, non dubito che quegli che appresso verranno
non facciano bene e meglio. Molte volte s'è, o vezzose donne, ne' nostri
ragionamenti mostrato quante e quali sieno le forze d'amore; né però credo che
pienamente se ne sia detto, né sarebbe ancora, se di qui ad uno anno d'altro
che di ciò non parlassimo; e per ciò che esso non solamente a vari dubbi di
dover morire gli amanti conduce, ma quegli ancora ad entrare nelle case de'
morti per morti tira, m'aggrada di ciò raccontarvi, oltre a quelle che dette
sono, una novella, nella quale non solamente la potenzia d'amore comprenderete,
ma il senno da una valorosa donna usato a torsi da dosso due che contro al suo
piacere l'amavan, cognoscerete.
Dico adunque che nella
città di Pistoia fu già una bellissima donna vedova, la quale due nostri
fiorentini, che per aver bando di Firenze a Pistoia dimoravano, chiamati l'uno
Rinuccio Palermini e l'altro Alessandro Chiarmontesi, senza sapere l'un dell'altro,
per caso di costei presi, sommamente amavano, operando cautamente ciascuno ciò
che per lui si poteva, a dover l'amor di costei acquistare.
Ed essendo questa gentil
donna, il cui nome fu madonna Francesca de' Lazzari, assai sovente stimolata da
ambasciate e da prieghi di ciascun di costoro, e avendo ella ad esse men
saviamente più volte gli orecchi porti, e volendosi saviamente ritrarre e non
potendo, le venne, acciò che la lor seccaggine si levasse da dosso, un
pensiero; e quel fu di volergli richiedere d'un servigio il quale ella pensò
niuno dovergliele fare, quantunque egli fosse possibile, acciò che, non
faccendolo essi, ella avesse onesta o colorata ragione di più non volere le
loro ambasciate udire; e 'l pensiero fu questo. Era, il giorno che questo
pensier le venne, morto in Pistoia uno, il quale, quantunque stati fossero i
suoi passati gentili uomini, era reputato il piggiore uomo che, non che in
Pistoia, ma in tutto il mondo fosse; e oltre a questo vivendo era sì
contraffatto e di sì divisato viso, che chi conosciuto non l'avesse, vedendol
da prima, n'avrebbe avuto paura; ed era stato sotterrato in uno avello fuori
della chiesa dei frati minori; il quale ella avvisò dovere in parte essere
grande acconcio del suo proponimento. Per la qual cosa ella disse ad una sua
fante:
– Tu sai la noia e
l'angoscia la quale io tutto il dì ricevo dall'ambasciate di questi due
fiorentini, da Rinuccio e da Alessandro; ora io non son disposta a dover loro
del mio amore compiacere; e per torglimi da dosso, m'ho posto in cuore, per le
grandi profferte che fanno, di volergli in cosa provare, la quale io son certa
che non faranno, e così questa seccaggine torrò via: e odi come. Tu sai che
stamane fu sotterrato al luogo de' frati minori lo Scannadio (così era chiamato
quel reo uomo di cui dl sopra dicemmo), del quale, non che morto, ma vivo, i
più sicuri uomini di questa terra, vedendolo, avevan paura; e però tu te
n'andrai segretamente prima ad Alessandro, e sì gli dirai: «Madonna Francesca
ti manda dicendo che ora è venuto il tempo che tu puoi avere il suo amore, il
qual tu hai cotanto disiderato, ed esser con lei, dove tu vogli, in questa
forma. A lei dee, per alcuna cagione che tu poi saprai, questa notte essere da
un suo parente recato a casa il corpo di Scannadio che stamane fu sepellito, ed
ella, sì come quel la che ha di lui, così morto come egli è, paura, nol vi
vorrebbe; per che ella ti priega in luogo di gran servigio, che ti debbia
piacere d'andare stasera in su il primo sonno ed entrare in quella sepoltura
dove Scannadio è sepellito, e metterti i suoi panni in dosso, e stare come se
tu desso fossi, infino a tanto che per te sia venuto, e senza alcuna cosa dire
o motto fare, di quella trarre ti lasci e recare a casa sua, dove ella ti
riceverà, e con lei poi ti starai, e a tua posta ti potrai partire, lasciando
del rimanente il pensiero a lei». E, se egli dice di volerlo fare, bene sta;
dove dicesse di non volerlo fare sì gli di'da mia parte che più dove io sia non
apparisca, e come egli ha cara la vita, si guardi che più né messo né
ambasciata mi mandi.
E appresso questo te
n'andrai a Rinuccio Palermini, e sì gli dirai: «Madonna Francesca dice che è
presta di volere ogni tuo piacer fare, dove tu a lei facci un gran servigio,
cioè che tu stanotte in su la mezza notte te ne vadi allo avello dove fu
stamane sotterrato Scannadio, e lui, senza dire alcuna parola di cosa che tu
oda o senta, tragghi di quello soavemente e rechigliele a casa. Quivi perché
ella il voglia vedrai, e di lei avrai il piacer tuo; e dove questo non ti
piaccia di fare ella infino ad ora t'impone che tu mai più non le mandi né
messo né ambasciata». La fante n'andò ad amenduni, e ordinatamente a ciascuno,
secondo che imposto le fu, disse. Alla quale risposto fu da ognuno, che non che
in una sepoltura, ma in inferno andrebber, quando le piacesse. La fante fe' la
risposta alla donna, la quale aspettò di vedere se sì fosser pazzi che essi il
facessero.
Venuta adunque la notte,
essendo già primo sonno, Alessandro Chiarmontesi spogliatosi in farsetto, uscì di
casa sua per andare a stare in luogo di Scannadio nello avello, e andando gli
venne un pensier molto pauroso nell'animo, e cominciò a dir seco: – Deh, che
bestia sono io? Dove vo io? che so io se i parenti di costei, forse avvedutisi
che io l'amo, credendo essi quel che non è, le fanno far questo per uccidermi
in quello avello? Il che se avvenisse, io m'avrei il danno, né mai cosa del
mondo se ne saprebbe che lor nocesse. che so io se forse alcun mio nimico que
sto m'ha procacciato, il quale ella forse amando, di questo il vuol servire?
E poi dicea: – Ma pognam
che niuna di queste cose sia, e che pure i suoi parenti a casa di lei portar mi
debbano io debbo credere che essi il corpo di Scannadio non vogliono per
doverlosi tenere in braccio, o metterlo in braccio a lei; anzi si dee credere
che essi ne voglian far qualche strazio, sì come di colui che forse già
d'alcuna cosa gli diservì. Costei dice che di cosa che io senta io non faccia
motto. se essi mi cacciasser gli occhi o mi traessero i denti o mozzasermi le
mani o facessermi alcuno altro così fatto giuoco, a che sare'io? Come potre'io
star cheto? E se io favello, e' mi conosceranno e per avventura mi faranno
male; ma come che essi non me ne facciano, io non avrò fatto nulla, ché essi
non mi lasceranno con la donna; e la donna dirà poi che io abbia rotto il suo
comandamento e non farà mai cosa che mi piaccia.
E così dicendo, fu tutto
che tornato a casa; ma pure il grande amore il sospinse innanzi con argomenti
contrari a questi e di tanta forza, che allo avello il condussero. Il quale
egli aperse, ed entratovi dentro e spogliato Scannadio e sé rivestito e
l'avello sopra sé richiuso e nel luogo di Scannadio postosi, gl'incominciò a
tornare a mente chi costui era stato, e le cose che già aveva udite dire che di
notte erano intervenute, non che nelle sepolture de' morti, ma ancora altrove;
e tutti i peli gli s'incominciarono ad arricciare ad dosso, e parevagli tratto
tratto che Scannadio si dovesse levar ritto e quivi scannar lui. Ma da fervente
amore aiutato, questi e gli altri paurosi pensier vincendo, stando come se egli
il morto fosse, cominciò ad aspettare che di lui dovesse intervenire. Rinuccio,
appressandosi la mezza notte, uscì di casa sua per far quello che dalla sua
donna gli era stato mandato a dire; e andando, in molti e vari pensieri entrò
delle cose possibili ad intervenirgli; sì come di poter col corpo sopra le
spalle di Scannadio venire alle mani della signoria ed esser come malioso
condennato al fuoco; o di dovere, se egli si risapesse, venire in odio de' suoi
parenti; e d'altri simili, da' quali tutto che rattenuto fu. Ma poi, rivolto,
disse: – Deh! dirò io di no della prima cosa che questa gentil donna, la quale
io ho cotanto amata e amo, m'ha richiesto, e spezialmente dovendone la sua grazia
acquistare? Non, ne dovess'io di certo morire, che io non me ne metta a fare
ciò che promesso l'ho –; e andato avanti giunse alla sepoltura e quella
leggermente aperse.
Alessandro, sentendola
aprire, ancora che gran paura avesse, stette pur cheto. Rinuccio, entrato
dentro, credendosi il corpo di Scannadio prendere, prese Alessandro pe' piedi e
lui fuor ne tirò, e in su le spalle levatoselo, verso la casa della gentil
donna cominciò ad andare; e così andando e non riguardandolo altramenti, spesse
volte il percoteva ora in un canto e ora in un altro d'alcune panche che allato
alla via erano; e la notte era sì buia e sì oscura che egli non poteva
discernere ove s'andava. Ed essendo già Rinuccio a piè dell'uscio della gentil
donna, la quale alle finestre con la sua fante stava per sentire se Rinuccio
Alessandro recasse, già da sé armata in modo da mandargli amenduni via, avvenne
che la famiglia della signoria, in quella contrada ripostasi e chetamente
standosi aspettando di dover pigliare uno sbandito, sentendo lo scalpiccio che
Rinuccio coi piè faceva, subitamente tratto fuori un lume per veder che si fare
e dove andarsi, e mossi i pavesi e le lance, gridò:
– Chi è là?
La quale Rinuccio
conoscendo, non avendo tempo da troppa lunga diliberazione, lasciatosi cadere
Alessandro, quanto le gambe nel poteron portare andò via. Alessandro, levatosi
prestamente, con tutto che i panni del morto avesse in dosso, li quali erano
molto lunghi, pure andò via altressì.
La donna, per lo lume
tratto fuori dalla famiglia, ottimamente veduto aveva Rinuccio con Alessandro
dietro alle spalle, e similmente aveva scorto Alessandro esser vestito dei
panni di Scannadio, e maravigliossi molto del grande ardire di ciascuno; ma con
tutta la maraviglia rise assai del veder gittar giuso Alessandro, e del
vedergli poscia fuggire. Ed essendo di tale accidente molto lieta e lodando
Iddio che dallo 'mpaccio di costoro tolta l'avea, se ne tornò dentro e
andossene in camera, affermando con la fante senza alcun dubbio ciascun di
costoro amarla molto, poscia quello avevan fatto, sì come appariva, che ella
loro aveva imposto.
Rinuccio, dolente e
bestemmiando la sua sventura, non se ne tornò a casa per tutto questo, ma,
partita di quella contrada la famiglia, colà tornò dove Alessandro aveva
gittato, e cominciò brancolone a cercare se egli il ritrovasse, per fornire il
suo servigio, ma non trovandolo, e avvisando la famiglia quindi averlo tolto,
dolente a casa se ne tornò.
Alessandro, non
sappiendo altro che farsi, sena aver conosciuto chi portato se l'avesse,
dolente di tale sciagura, similmente a casa sua se n'andò.
La mattina, trovata
aperta la sepoltura di Scannadio né dentro vedendovisi, perciò che nel fondo
l'aveva Alessandro voltato, tutta Pistoia ne fu in vari ragionamenti, estimando
gli sciocchi lui da' diavoli essere stato portato via.
Nondimeno ciascun de'
due amanti, significato alla donna ciò che fatto avea e quello che era
intervenuto, e con questo scusandosi se fornito non avean pienamente il suo
comandamento, la sua grazia e il suo amore addi mandava. La qual mostrando a
niun ciò voler credere, con recisa risposta di mai per lor niente voler fare,
poi che essi ciò che essa ad dimandato avea non avean fatto, se gli tolse da
dosso.
NOVELLA SECONDA
Levasi una badessa in
fretta e al buio per trovare una sua monaca, a lei accusata, col suo amante nel
letto; ed essendo con lei un prete, credendosi il saltero de' veli aver posto
in capo, le brache del prete vi si pose; le quali vedendo l'accusata e fattalane
accorgere, fu diliberata, ed ebbe agio di starsi col suo amante.
Già si tacea Filomena, e
il senno della donna a torsi da dosso coloro li quali amar non volea da tutti
era stato commendato, e così in contrario non amor ma pazzia era stata tenuta
da tutti l'ardita presunzione degli amanti, quando la reina ad Elissa
vezzosamente disse:
– Elissa, segui.
La quale prestamente
incominciò.
Carissime donne,
saviamente si seppe madonna Francesca, come detto è, liberar dalla noia sua; ma
una giovane monaca, aiutandola la fortuna, sé da un soprastante pericolo,
leggiadramente parlando, diliberò. E, come voi sapete, assai sono li quali,
essendo stoltissimi, maestri degli altri si fanno e gastigatori, li quali, sì
come voi potrete com prendere per la mia novella, la fortuna alcuna volta e
meritamente vitupera; e ciò addivenne alla badessa, sotto la cui obbedienza era
la monaca della quale debbo dire.
Sapere adunque dovete in
Lombardia essere un famosissimo monistero di santità e di religione, nel quale,
tra l'altre donne monache che v'erano, v'era una giovane di sangue nobile e di
maravigliosa bellezza dotata, la quale, Isabetta chiamata, essendo un dì ad un
suo parente alla grata venuta, d'un bel giovane che con lui era s'innamorò. Ed
esso, lei veggendo bellissima, già il suo disidero avendo con gli occhi
concetto, similmente di lei s'accese; e non senza gran pena di ciascuno questo
amore un gran tempo senza frutto sostennero. Ultimamente, essendone ciascun
sollicito, venne al giovane veduta una via da potere alla sua monaca
occultissimamente andare; di che ella contentandosi, non una volta ma molte,
con gran piacer di ciascuno, la visitò. Ma continuandosi questo, avvenne una
notte che egli da una delle donne di là entro fu veduto, senza avvedersene egli
o ella, dall'Isabetta partirsi e andarsene. Il che costei con alquante altre
comunicò. E prima ebber consiglio d'accusarla alla badessa, la quale madonna
Usimbalda ebbe nome, buona e santa donna secondo la oppinione delle donne
monache e di chiunque la conoscea; poi pensarono, acciò che la negazione non
avesse luogo, di volerla far cogliere col giovane alla badessa. E così
taciutesi, tra sé le vigilie e le guardie segretamente partirono per incoglier
costei.
Or, non guardandosi
l'Isabetta da questo, né alcuna cosa sappiendone, avvenne che ella una notte
vel fece venire; il che tantosto sepper quelle che a ciò badavano. Le quali,
quando a loro parve tempo, essendo già buona pezza di notte, in due si
divisero, e una parte se ne mise a guardia del l'uscio della cella dell'Isabetta,
e un'altra n'andò correndo alla camera della badessa; e picchiando l'uscio, a
lei che già rispondeva, dissero:
– Su, madonna, levatevi
tosto, ché noi abbiam trovato che l'Isabetta ha un giovane nella cella. Era
quella notte la badessa accompagnata d'un prete, il quale ella spesse volte in
una cassa si faceva venire.
La quale, udendo questo,
temendo non forse le monache per troppa fretta o troppo volonterose, tanto
l'uscio sospignessero che egli s'aprisse, spacciatamente si levò suso, e come il
meglio seppe si vestì al buio, e credendosi tor certi veli piegati, li quali in
capo portano e chiamanli il saltero, le venner tolte le brache del prete; e
tanta fu la fretta, che, senza avvedersene, in luogo del saltero le si gittò in
capo e uscì fuori, e prestamente l'uscio si riserrò dietro, dicendo: – Dove è
questa maladetta da Dio? – e con l'altre, che sì focose e sì attente erano a
dover far trovare in fallo l'Isabetta, che di cosa che la badessa in capo
avesse non s'avvedieno, giunse all'uscio della cella, e quello, dall'altre
aiutata, pinse in terra; ed entrate dentro, nel letto trovarono i due amanti
abbracciati, li quali, da cosi subito soprapprendimento storditi, non sappiendo
che farsi, stettero fermi.
La giovane fu
incontanente dall'altre monache presa, e per comandamento della badessa menata
in capitolo. Il giovane s'era rimaso; e vestitosi, aspettava di veder che fine
la cosa avesse, con intenzione di fare un mal giuoco a quante giugner ne
potesse, se alla sua giovane novità niuna fosse fatta, e di lei menarne con
seco. La badessa, postasi a sedere in capitolo, in presenzia di tutte le
monache, le quali solamente alla colpevole riguardavano, incominciò a dirle la
maggior villania che mai a femina fosse detta, sì come a colei la quale la santità,
l'onestà e la buona fama del monistero con le sue sconce e vituperevoli opere,
se di fuor si sapesse, contaminate avea; e dietro alla villania aggiugneva
gravissime minacce.
La giovane, vergognosa e
timida, sì come colpevole, non sapeva che si rispondere, ma tacendo, di sé
metteva compassion nell'altre; e, multiplicando pur la badessa in novelle,
venne alla giovane alzato il viso e veduto ciò che la badessa aveva in capo, e
gli usolieri che di qua e di là pendevano.
Di che ella, avvisando
ciò che era, tutta rassicurata disse:
– Madonna, se Iddio
v'aiuti, annodatevi la cuffia, e poscia mi dite ciò che voi volete.
La badessa, che non la
intendeva, disse:
– Che cuffia, rea
femina? Ora hai tu viso di motteggiare?
Parti egli aver fatta
cosa che i motti ci abbian luogo? Allora la giovane un'altra volta disse:
– Madonna, io vi priego
che voi v'annodiate la cuffia, poi dite a me ciò che vi piace. Laonde molte
delle monache levarono il viso al capo della badessa, ed ella similmente
ponendovisi le mani, s'accorsero perché l'Isabetta così diceva. Di che la
badessa, avvedutasi del suo medesimo fallo e vedendo che da tutte veduto era né
aveva ricoperta, mutò sermone, e in tutta altra guisa che fatto non avea
cominciò a parlare, e conchiudendo venne impossibile essere il potersi dagli
stimoli della carne difendere; e per ciò chetamente, come infino a quel dì
fatto s'era, disse che ciascuna si desse buon tempo quando potesse.
E liberata la giovane,
col suo prete si tornò a dormire, e l'Isabetta col suo amante. Il qual poi
molte volte, in dispetto di quelle che di lei avevano invidia, vi fe' venire.
L'altre che senza amante erano, come seppero il meglio, segretamente
procacciaron lor ventura.
NOVELLA TERZA
Maestro Simone, ad
instanzia di Bruno e di Buffalmacco e di Nello, fa credere a Calandrino che
egli è pregno; il quale per medicine dà a' predetti capponi e denari, e
guarisce della pregnezza senza partorire.
Poi che Elissa ebbe la
sua novella finita, essendo da tutte rendute grazie a Dio che la giovane monaca
aveva con lieta uscita tratta dei morsi delle invidiose compagne, la reina a
Filostrato comandò che seguitasse; il quale, senza più comandamento aspettare,
incominciò. Bellissime donne, lo scostumato giudice marchigiano, di cui ieri vi
novellai, mi trasse di bocca una novella di Calandrino, la quale io era per
dirvi. E per ciò che ciò che di lui si ragiona non può altro che multiplicare
la festa, benché di lui e de' suoi compagni assai ragionato si sia, ancor pur quella
che ieri aveva in animo vi dirò. Mostrato è di sopra assai chiaro chi Calandrin
fosse e gli altri de' quali in questa novella ragionar debbo; e per ciò, senza
più dirne, dico che egli avvenne che una zia di Calandrin si morì e lasciogli
dugento lire di piccioli con tanti; per la qual cosa Calandrino cominciò a dire
che egli voleva comperare un podere; e con quanti sensali aveva in Firenze,
come se da spendere avesse avuti diecimila fiorin d'oro, teneva mercato, il
quale sempre si guastava quando al prezzo del poder domandato si perveniva.
Bruno e Buffalmacco, che queste cose sapevano, gli avevan più volte detto che
egli farebbe il meglio a goderglisi con loro insieme, che andar comperando
terra, come se egli avesse avuto a far pallottole; ma, non che a questo, essi
non l'aveano mai potuto conducere che egli loro una volta desse mangiare.
Per che un dì
dolendosene, ed essendo a ciò sopravenuto un lor compagno, che aveva nome
Nello, dipinto re, di liberar tutti e tre di dover trovar modo da ugnersi il
grifo alle spese di Calandrino; e senza troppo indugio darvi, avendo tra sé
ordinato quello che a fare avessero, la seguente mattina appostato quando
Calandrino di casa uscisse, non essendo egli guari andato, gli si fece incontro
Nello e disse:
– Buon dì, Calandrino.
Calandrino gli rispose
che Iddio gli desse il buon dì e 'l buono anno. Appresso questo, Nello
rattenutosi un poco, lo 'ncominciò a guardar nel viso. A cui Calandrino disse:
– Che guati tu?
E Nello disse a lui:
– Haiti tu sentita sta
notte cosa niuna? Tu non mi par desso.
Calandrino incontanente
incominciò a dubitare e disse:
– Ohimè, come! Che ti
pare egli che io abbia?
Disse Nello:
– Deh! io nol dico per
ciò; ma tu mi pari tutto cambiato; fia forse altro –; e lasciollo andare.
Calandrino tutto
sospettoso, non sentendosi per ciò cosa del mondo, andò avanti. Ma Buffalmacco,
che guari non era lontano, vedendol partito da Nello, gli si fece incontro,
salutatolo il domandò se egli si sentisse niente. Calandrino rispose:
– Io non so, pur testé
mi diceva Nello che io gli pareva tutto cambiato; potrebbe egli essere che io
avessi nulla? Disse Buffalmacco:
– Sì, potrestu aver
cavelle, non che nulla: tu par mezzo morto.
A Calandrino pareva già
aver la febbre. Ed ecco Bruno sopravvenne, e prima che altro dicesse, disse:
– Calandrino, che viso è
quello? E' par che tu sia morto: che ti senti tu?
Calandrino, udendo
ciascun di costor così dire, per certissimo ebbe seco medesimo d'esser malato;
e tutto sgomentato gli domandò:
– Che fo?
Disse Bruno:
– A me pare che tu te ne
torni a casa a vaditene in su 'l letto e facciti ben coprire, e che tu mandi il
segnal tuo al maestro Simone, che è così nostra cosa come tu sai. Egli ti dirà
incontanente ciò che tu avrai a fare, e noi ne verrem teco, e se bisognerà far
cosa niuna, noi la faremo.
E con loro aggiuntosi
Nello, con Calandrino se ne tornarono a casa sua, ed egli entratosene tutto
affaticato nella camera, disse alla moglie:
– Vieni e cuoprimi bene,
ché io mi sento un gran male.
Essendo adunque a giacer
posto, il suo segnale per una fanticella mandò al maestro Simone, il quale
allora a bottega stava in Mercato Vecchio alla 'nsegna del mellone. E Bruno
disse a' compagni:
– Voi vi rimarrete qui
con lui, e io voglio andare a sapere che il medico dirà; e, se bisogno sarà, a
menarloci.
Calandrino allora disse:
– Deh! sì, compagno mio,
vavvi e sappimi ridire come il fatto sta, ché io mi sento non so che dentro.
Bruno, andatosene al
maestro Simone, vi fu prima che la fanticella che il segno portava, ed ebbe
informato maestro Simone del fatto. Per che, venuta la fanticella e il maestro
veduto il segno, disse alla fanticella:
– Vattene, e di'a
Calandrino che egli si tenga ben caldo, e io verrò a lui incontanente e dirogli
ciò che egli ha, e ciò che egli avrà a fare.
La fanticella così
rapportò: né stette guari che il maestro e Brun vennero, e postoglisi il medico
a sedere allato, gli 'ncominciò a toccare il polso, e dopo alquanto, essendo
ivi presente la moglie, disse:
– Vedi, Calandrino, a
parlarti come ad amico, tu non hai altro male se non che tu se' pregno.
Come Calandrino udì
questo, dolorosamente cominciò a gridare e a dire:
– Ohimè! Tessa, questo
m'hai fatto tu, che non vuogli stare altro che di sopra: io il ti diceva bene.
La donna, che assai
onesta persona era, udendo così dire al marito, tutta di vergogna arrossò, e
abbassata la fronte, senza risponder parola s'uscì della camera. Calandrino,
continuando il suo ramarichio, diceva:
– Ohimè, tristo me! Come
farò io? Come partorirò io questo figliuolo? Onde uscirà egli? Ben veggo che io
son morto per la rabbia di questa mia moglie, che tanto la faccia Iddio trista
quanto io voglio esser lieto; ma, così foss'io sano come io non sono, ché io mi
leverei e dare'le tante busse, che io la romperei tutta, avvegna che egli mi
stea molto bene, ché io non la doveva mai lasciar salir di sopra; ma per certo,
se io scampo di questa, ella se ne potrà ben prima morir di voglia.
Bruno e Buffalmacco e
Nello avevan sì gran voglia di ridere che scoppiavano, udendo le parole di
Calandrino, ma pur se ne tenevano; ma il maestro Scimmione rideva sì
squaccheratamente, che tutti i denti gli si sarebber potuti trarre. Ma pure al
lungo andare, raccomandandosi Calandrino al medico e pregandolo che in questo
gli dovesse dar consiglio e aiuto, gli disse il maestro:
– Calandrino, io non
voglio che tu ti sgomenti, ché, lodato sia Iddio, noi ci siamo sì tosto accorti
del fatto, che con poca fatica e in pochi dì ti dilibererò; ma conviensi un
poco spendere.
Disse Calandrino:
– Ohimè! maestro mio, sì
per l'amor di Dio. Io ho qui dugento lire di che io voleva comperare un podere;
se tutti bisognano, tutti gli togliete, purché io non abbia a partorire, ché io
non so come io mi facessi, ché io odo fare alle femine un sì gran romore quando
son per partorire, con tutto che elle abbian buon cotal grande donde farlo, che
io credo, se io avessi quel dolore, che io mi morrei prima che io partorissi.
Disse il medico:
– Non aver pensiero. Io
ti farò fare una certa bevanda stillata molto buona e molto piacevole. a bere,
che in tre mattine risolverà ogni cosa, e rimarrai più sano che pesce; ma farai
che tu sii poscia savio e più non incappi in queste sciocchezze. Ora ci bisogna
per quella acqua tre paia di buon capponi e grossi, e per altre cose che
bisognano darai ad un di costoro cinque lire di piccioli, che le comperi, e
fara'mi ogni cosa recare alla bottega, e io al nome di Dio domattina ti manderò
di quel beveraggio stillato, e comincera'ne a bere un buon bicchiere grande per
volta.
Calandrino, udito
questo, disse:
– Maestro mio, ciò siane
in voi –; e date cinque lire a Bruno e denari per tre paia di capponi, il pregò
che in suo servigio in queste cose durasse fatica.
Il medico, partitosi,
gli fece fare un poco di chiarea e mandogliele. Bruno, comperati i capponi e
altre cose necessarie al godere, insieme col medico e co' compagni suoi se li
mangiò.
Calandrino bevve tre
mattine della chiarea, e il medico venne a lui, e i suoi compagni, e toccatogli
il polso gli disse:
– Calandrino, tu se'
guerito senza fallo; e però sicuramente oggimai va a fare ogni tuo fatto, né
per questo star più in casa.
Calandrino lieto
levatosi s'andò a fare i fatti suoi, lodando molto, ovunque con persona a
parlar s'avveniva, la bella cura che di lui il maestro Simone aveva fatta,
d'averlo fatto in tre dì senza pena alcuna spregnare. E Bruno e Buffalmacco e
Nello rimaser contenti d'aver con ingegni saputo schernire l'avarizia di
Calandrino, quantunque monna Tessa, avvedendosene, molto col marito ne
brontolasse.
NOVELLA QUARTA
Cecco di messer
Fortarrigo giuoca a Buonconvento ogni sua cosa e i denari di Cecco di messer
Angiulieri, e in camicia correndogli dietro e dicendo che rubato l'avea, il fa
pigliare a' villani e i panni di lui si veste e monta sopra il pallafreno, e
lui, venendosene, lascia in camicia.
Con grandissime risa di
tutta la brigata erano state ascoltate le parole da Calandrino dette della sua
moglie; ma, tacendosi Filostrato, Neifile, sì come la reina volle, incominciò.
Valorose donne, se egli
non fosse più malagevole agli uomini il mostrare altrui il senno e la virtù
loro, che sia la sciocchezza e 'l vizio, invano si faticherebber molti in porre
freno alle lor parole; e questo v'ha assai manifestato la stoltizia di
Calandrino, al quale di niuna necessità era, a voler guerire del male che la
sua simplicità gli faceva accredere, che egli avesse i segreti diletti della
sua donna in pubblico a dimostrare. La qual cosa una a sé contraria nella mente
me n'ha recata, cioè come la malizia d'uno il senno soperchiasse d'un altro,
con grave danno e scorno del soperchiato; il che mi piace di raccontarvi.
Erano, non sono molti anni passati, in Siena due già per età compiuti uomini,
ciascuno chiamato Cecco, ma l'uno di messer Angiulieri, e l'altro di messer
Fortarrigo. Li quali quantunque in molte altre cose male insieme di costumi si
convenissero, in uno, cioè che amenduni li lor padri odiavano, tanto si
convenivano, che amici n'erano divenuti e spesso n'usavano insieme. Ma parendo
all'Angiulieri, il quale e bello e costumato uomo era, mal dimorare in Siena
della provesione che dal padre donata gli era, sentendo nella Marca d'Ancona
esser per legato del papa venuto un cardinale che molto suo signore era, si
dispose a volersene andare a lui, credendone la sua condizion migliorare. E
fatto questo al padre sentire, con lui ordinò d'avere ad una ora ciò che in sei
mesi gli dovesse dare, acciò che vestir si potesse e fornir di cavalcatura e
andare orrevole. E cercando d'alcuno, il qual seco menar potesse al suo
servigio, venne questa cosa sentita al Fortarrigo, il qual di presente fu
all'Angiulieri, e cominciò, come il meglio seppe, a pregarlo che seco il
dovesse menare, e che egli voleva es sere e fante e famiglio e ogni cosa, e
senza alcun salario sopra le spese. Al quale l'Angiulieri rispose che menar nol
voleva, non perché egli nol conoscesse bene ad ogni servigio sufficiente, ma
per ciò che egli giucava e oltre a ciò s'innebbriava alcuna volta. A che il Fortarrigo
rispose che dell'uno e dell'altro senza dubbio si guarderebbe, e con molti
saramenti gliele affermò, tanti prieghi sopraggiugnendo, che l'Angiulieri, sì
come vinto, disse che era contento. Ed entrati una mattina in cammino amenduni,
a desinar n'andarono a Buonconvento. Dove avendo l'Angiulier desinato, ed
essendo il caldo grande, fatto acconciare un letto nello albergo e spogliatosi,
dal Fortarrigo aiutato s'andò a dormire, e dissegli che come nona sonasse il
chiamasse.
Il Fortarrigo, dormendo
l'Angiulieri, se n'andò in su la taverna, e quivi, alquanto avendo bevuto,
cominciò con alcuni a giucare, li quali, in poca d'ora alcuni denari che egli
avea avendogli vinti, similmente quanti panni egli aveva in dosso gli vinsero;
onde egli, disideroso di riscuotersi, così in camicia come era, se n'andò là
dove dormiva l'Angiulieri, e vedendol dormir forte, di borsa gli trasse quanti
denari egli avea, e al giuoco tornatosi, così gli perdè come gli altri.
L'Angiulieri, destatosi,
si levò e vestissi e domandò del Fortarrigo, il quale non trovandosi, avvisò
l'Angiulieri lui in alcuno luogo ebbro dormirsi, sì come altra volta era usato
di fare. Per che, diliberatosi di lasciarlo stare, fatta mettere la sella e la
valigia ad un suo pallafreno, avvisando di fornirsi d'altro famigliare a
Corsignano, volendo, per andarsene, l'oste pagare, non si trovò danaio; di che
il rumore fu grande e tutta la casa dell'oste fu in turbazione, dicendo
l'Angiulieri che egli là entro era stato rubato e minacciando egli di farnegli
tutti presi andare a Siena. Ed ecco venire in camicia il Fortarrigo, il quale
per torre i panni, come fatto aveva i denari, veniva. E veggendo l'Angiulieri
in concio di cavalcar, disse:
– Che è questo,
Angiulieri? Vogliancene noi andare ancora? Deh aspettati un poco: egli dee
venire qui testeso uno che ha pegno il mio farsetto per trentotto soldi; son
certo, che egli cel renderà per trentacinque, pagandol testé.
E duranti ancora le
parole, sopravvenne uno il quale fece certo l'Angiulieri il Fortarrigo essere
stato colui che i suoi denar gli aveva tolti, col mostrargli la quantità di
quegli che egli aveva perduti. Per la qual cosa l'Angiulier turbatissimo disse
al Fortarrigo una grandissima villania, e se più d'altrui che di Dio temuto non
avesse, gliele avrebbe fatta; e, minacciandolo di farlo impiccar per la gola o
fargli dar bando delle forche di Siena, montò a cavallo.
Il Fortarrigo, non come
se l'Angiulieri a lui, ma ad un altro dicesse, diceva:
– Deh! Angiulieri, in
buona ora lasciamo stare ora co stette parole che non montan cavelle;
intendiamo a questo; noi il riavrem per trentacinque soldi, ricogliendol testé,
ché, indugiandosi pure di qui a domane, non ne vorrà meno di trentotto come
egli me ne prestò; e fammene questo piacere, perché io gli misi a suo senno.
Deh! perché non ci miglioriam noi questi tre soldi?
L'Angiulieri, udendol
così parlare, si disperava, e massimamente veggendosi guatare a quegli che
v'eran dintorno, li quali parea che credessono non che il Fortarrigo i denari
dello Angiulieri avesse giucati, ma che l'Angiulieri ancora avesse dei suoi, e
dicevagli:
– Che ho io a fare di
tuo farsetto? Che appiccato sia tu per la gola, che non solamente m'hai rubato
e giucato il mio, ma sopra ciò hai impedita la mia andata, e anche ti fai beffe
di me.
Il Fortarrigo stava pur
fermo come se a lui non dicesse, e diceva:
– Deh, perché non mi
vuo'tu migliorar que' tre soldi? Non credi tu che io te li possa ancor servire?
Deh, fallo, se ti cal di me: per che hai tu questa fretta? Noi giugnerem bene
ancora stasera a Torrenieri. Fa truova la borsa: sappi che io potrei cercar
tutta Siena, e non ve ne troverre'uno che così mi stesse ben come questo; e a
dire che io il lasciassi a costui per trentotto soldi! Egli vale ancor quaranta
o più, sì che tu mi piggiorresti in due modi. L'Angiulier, di gravissimo dolor
punto, veggendosi rubare da costui e ora tenersi a parole, senza più
rispondergli, voltata la testa del pallafreno, prese il cammin verso
Torrenieri. Al quale il Fortarrigo, in una sottil malizia entrato, così in
camicia cominciò a trottar dietro; ed essendo già ben due miglia andato pur del
farsetto pregando, andandone l'Angiulieri forte per levarsi quella seccaggine
dagli orecchi, venner veduti al Fortarrigo lavoratori in un campo vicino alla
strada dinanzi all'Angiulieri, ai quali il Fortarrigo, gridando forte,
incominciò a dire:
– Pigliatel, pigliatelo.
Per che essi chi con
vanga e chi con marra nella strada paratisi dinanzi all'Angiulieri, avvisandosi
che rubato avesse colui che in camincia dietro gli venia gridando, il ritennero
e presono. Al quale per dir loro chi egli fosse e come il fatto stesse, poco
giovava.
Ma il Fortarrigo, giunto
là, con un mal viso disse:
– Io non so come io non
t'uccido, ladro disleale, che ti fuggivi col mio. – E a' villani rivolto disse:
– Vedete, signori, come
egli m'aveva, nascostamente partendosi, avendo prima ogni sua cosa giucata,
lasciato nello albergo in arnese! Ben posso dire che per Dio e per voi io abbia
questo cotanto racquistato, di che io sempre vi sarò tenuto.
L'Angiulieri diceva egli
altressì, ma le sue parole non erano ascoltate. Il Fortarrigo con l'aiuto de'
villani il mise in terra del pallafreno, e spogliatolo, de' suoi panni si
rivestì, e a caval montato, lasciato l'Angiulieri in camicia e scalzo, a Siena
se ne tornò, per tutto dicendo sé il pallafreno e' panni aver vinto
all'Angiulieri.
L'Angiulieri, che ricco
si credeva andare al cardinal nella Marca, povero e in camicia si tornò a
Buonconvento, né per vergogna a que' tempi ardì di tornare a Siena, ma statigli
panni prestati, in sul ronzino che cavalcava il Fortarrigo se n'andò a' suoi
parenti a Corsignano, co' quali si stette tanto che da capo dal padre fu
sovvenuto. E così la malizia del Fortarrigo turbò il buono avviso dello
Angiulieri, quantunque da lui non fosse a luogo e a tempo lasciata impunita.
NOVELLA QUINTA
Calandrino s'innamora
d'una giovane, al quale Bruno fa un brieve, col quale come egli la tocca, ella
va con lui, e dalla moglie trovato, ha gravissima e noiosa quistione.
Finita la non lunga
novella di Neifile, senza troppo rider ne o parlarne passatasene la brigata, la
reina verso la Fiammetta rivolta, che ella seguitasse le comandò, la quale
tutta lieta rispose che volentieri, e cominciò. Gentilissime donne, sì come io credo
che voi sappiate, niuna cosa è di cui tanto si parli, che sempre più non
piaccia; dove il tempo e il luogo che quella cotal cosa richiede si sappi per
colui, che parlar ne vuole, debitamente eleggere. E per ciò, se io riguardo
quello per che noi siam qui (ché per aver festa e buon tempo, e non per altro,
ci siamo) stimo che ogni cosa che festa e piacer possa porgere qui abbia e
luogo e tempo debito; e benché mille volte ragionato ne fosse, altro che
dilettar non debbia altrettanto parlandone.
Per la qual cosa, posto
che assai volte de' fatti di Calandrino detto si sia tra noi, riguardando, sì
come poco avanti disse Filostrato, che essi son tutti piacevoli, ardirò, oltre
alle dette, di dirvene una novella, la quale, se io dalla verità del fatto mi
fossi scostare voluta o volessi, avrei ben saputo e saprei sotto altri nomi
comporla e raccontarla; ma per ciò che il partirsi dalla verità delle cose
state nel novellare è gran diminuire di diletto negli 'ntendenti, in propia
forma, dalla ragion di sopra detta aiutata, la vi dirò.
Niccolò Cornacchini fu
nostro cittadino e ricco uomo, e tra l'altre sue possessioni una bella n'ebbe
in Camerata, sopra la quale fece fare uno orrevole e bello casamento, e con
Bruno e con Buffalmacco che tutto gliele dipignessero si convenne; li quali,
per ciò che il lavorio era molto, seco aggiunsero e Nello e Calandrino, e
cominciarono a lavorare. Dove, benché alcuna camera fornita di letto e
dell'altre co se opportune fosse, e una fante vecchia dimorasse sì come
guardiana del luogo, per ciò che altra famiglia non v'era, era usato un
figliuolo del detto Niccolò, che avea nome Filippo, sì come giovane e senza
moglie, di menar talvolta alcuna femina a suo diletto, e tenervela un dì o due
e poscia mandarla via.
Ora tra l'altre volte avvenne
che egli ve ne menò una, che aveva nome la Niccolosa, la quale un tristo, che
era chiamato il Mangione, a sua posta tenendola in una casa a Camaldoli,
prestava a vettura.
Aveva costei bella
persona ed era ben vestita, e, secondo sua pari, assai costumata e ben
parlante. Ed essendo ella un dì di meriggio della camera uscita in un guarnello
bianco e co' capelli ravvolti al capo, e ad un pozzo che nella corte era del
casamento lavandosi le mani e 'l viso, avvenne che Calandrino quivi venne per
acqua, e dimesticamente la salutò.
Ella, rispostogli, il
cominciò a guatare, più perché Calandrino le pareva un nuovo uomo che per altra
vaghezza. Calandrino cominciò a guatar lei, e parendogli bella, cominciò a
trovar sue cagioni, e non tornava a' compagni con l'acqua; ma, non
conoscendola, niuna cosa ardiva di dirle. Ella, che avveduta s'era del guatar
di costui, per uccellarlo alcuna volta guatava lui, alcun sospiretto gittando;
per la qual cosa Calandrino subitamente di lei s'imbardò, né prima si partì
della corte che ella fu da Filippo nella camera richiamata.
Calandrino, tornato a
lavorare, altro che soffiare non faceva; di che Bruno accortosi, per ciò che
molto gli poneva mente alle mani, sì come quegli che gran diletto prendeva de'
fatti suoi, disse:
– Che diavolo hai tu,
sozio Calandrino? Tu non fai altro che soffiare.
A cui Calandrino disse:
– Sozio, se io avessi
chi m'aiutassi, io starei bene.
– Come? – disse Bruno.
A cui Calandrino disse:
– E' non si vuol dire a
persona: egli è una giovane quaggiù, che è più bella che una lammia, la quale è
sì forte innamorata di me, che ti parrebbe un gran fatto; io me n'avvidi testé
quando io andai per l'acqua.
– Ohimè! – disse Bruno –
guarda che ella non sia la moglie di Filippo.
Disse Calandrino:
– Io il credo, per ciò
che egli la chiamò, ed ella se n'andò a lui nella camera; ma che vuol per ciò
dir questo? Io la fregherei a Cristo di così fatte cose, non che a Filippo. Io
ti vo' dire il vero, sozio: ella mi piace tanto, che io nol ti potrei dire.
Disse allora Bruno:
– Sozio, io ti spierò
chi ella è; e se ella è la moglie di Filippo, io acconcierò i fatti tuoi in due
parole, per ciò che ella è molto mia domestica. Ma come farem noi che
Buffalmacco nol sappia? Io non le posso mai favellare ch'e'non sia meco.
Disse Calandrino:
– Di Buffalmacco non mi
curo io, ma guardianci di Nello, ché egli è parente della Tessa e guasterebbeci
ogni cosa.
Disse Bruno:
– Ben di'.
Or sapeva Bruno chi
costei era, sì come colui che veduta l'avea venire, e anche Filippo gliele
aveva detto. Per che, essendosi Calandrino un poco dal lavorio partito e andato
per vederla, Bruno disse ogni cosa a Nello e a Buffalmacco, e insieme
tacitamente ordinarono quello che fare gli dovessero di questo suo
innamoramento. E come egli ritornato fu, disse Bruno pianamente:
– Vedestila?
Rispose Calandrino:
– Ohimè! sì, ella m'ha
morto.
Disse Bruno:
– Io voglio andare a
vedere se ella è quella che io credo; e se così sarà, lascia poscia far me.
Sceso adunque Bruno
giuso, e trovato Filippo e costei, ordinatamente disse loro chi era Calandrino,
e quello che egli aveva lor detto, e con loro ordinò quello che ciascun di loro
dovesse fare e dire, per avere festa e piacere dello innamoramento di
Calandrino. E a Calandrino tornatosene disse:
– Bene è dessa; e per
ciò si vuol questa cosa molto saviamente fare, per ciò che, se Filippo se ne
avvedesse, tutta l'acqua d'Arno non ci laverebbe. Ma che vuo'tu che io le dica
da tua parte, se egli avvien che io le favelli?
Rispose Calandrino:
– Gnaffe! tu le dirai
imprima imprima che io le voglio mille moggia di quel buon bene da impregnare;
e poscia, che io son suo servigiale, e se ella vuol nulla; ha'mi bene inteso?
Disse Bruno:
– Sì, lascia far me.
Venuta l'ora della cena,
e costoro avendo lasciata opera e giù nella corte discesi, essendovi Filippo e
la Niccolosa, alquanto in servigio di Calandrino ivi si posero a stare. Dove
Calandrino incominciò a guardare la Niccolosa e a fare i più nuovi atti del
mondo, tali e tanti che se ne sarebbe avveduto un cieco. Ella d'altra parte
ogni cosa faceva per la quale credesse bene accenderlo, e secondo la
informazione avuta da Bruno, il miglior tempo del mondo prendendo de' modi di
Calandrino; Filippo con Buffalmacco e con gli altri faceva vista di ragionare e
di non avvedersi di questo fatto.
Ma pur dopo alquanto,
con grandissima noia di Calandrino, si partirono; e venendosene verso Firenze,
disse Bruno a Calandrino:
– Ben ti dico che tu la
fai struggere come ghiaccio al sole; per lo corpo di Dio, se tu ci rechi la
ribeba tua e canti un poco con essa di quelle tue canzoni innamorate, tu la
farai gittare a terra delle finestre per venire a te. Disse Calandrino:
– Parti, sozio? Parti
che io la rechi?
– Sì, – rispose Bruno.
A cui Calandrino disse:
– Tu non mi credevi
oggi, quando io il ti diceva; per certo, sozio, io m'avveggio che io so meglio
che altro uomo far ciò che io voglio. Chi avrebbe saputo, altri che io, far così
tosto innamorare una così fatta donna come è costei? A buona otta l'avrebber
saputo fare questi giovani di tromba marina, che tutto 'l dì vanno in giù e in
su, e in mille anni non saprebbero accozzare tre man di noccioli. Ora io vorrò
che tu mi vegghi un poco con la ribeba; vedrai bel giuoco! E intendi sanamente
che io non son vecchio come io ti paio, ella se n'è bene accorta ella; ma
altramenti ne la farò io accorgere se io le pongo la branca addosso; per lo
verace corpo di Cristo, che io le farò giuoco, che ella mi verrà dietro come va
la pazza al figliuolo.
– Oh, – disse Bruno – tu
te la griferai: e' mi par pur vederti morderle con cotesti tuoi denti fatti a
bischeri quella sua bocca vermigliuzza e quelle sue gote che paion due rose, e
poscia manicarlati tutta quanta.
Calandrino, udendo
queste parole, gli pareva essere a' fatti, e andava cantando e saltando tanto
lieto, che non capeva nel cuoio.
Ma l'altro dì recata la
ribeba, con gran diletto di tutta la brigata cantò più canzoni con essa. E in
brieve in tanta sista entrò dello spesso veder costei, che egli non lavorava
punto, ma mille volte il dì ora alla finestra, ora alla porta e ora nella corte
correa per veder costei; la quale astutamente secondo l'ammaestramento di Bruno
adoperando, molto bene ne gli dava cagione.
Bruno d'altra parte gli
rispondeva alle sue ambasciate e da parte di lei ne gli faceva talvolte; quando
ella non v'era, che era il più del tempo, gli faceva venir lettere da lei,
nelle quali esso gli dava grande speranza de' desideri suoi, mostrando che ella
fosse a casa di suoi parenti là dove egli allora non la poteva vedere.
E in questa guisa Bruno
e Buffalmacco, che tenevano mano al fatto, traevano de' fatti di Calandrino il
maggior piacer del mondo, faccendosi talvolta dare, sì come domandato dalla sua
donna, quando un pettine d'avorio e quando una borsa e quando un coltellino e
cotali ciance, allo 'ncontro recandogli cotali anelletti contraffatti di niun
valore, de' quali Calandrino faceva maravigliosa festa. E oltre a questo n'avevan
da lui di buone merende e d'altri onoretti, acciò che solliciti fossero a'
fatti suoi. Ora, avendol tenuto costoro ben due mesi in questa forma senza più
aver fatto, vedendo Calandrino che il lavorio si veniva finendo, e avvisando
che, se egli non recasse ad effetto il suo amore prima che finito fosse il
lavorio, mai più fatto non gli potesse venire, cominciò molto a strignere e a
sollicitare Bruno. Per la qual cosa, essendovi la giovane venuta, avendo Bruno
prima con Filippo e con lei ordinato quello che fosse da fare, disse a
Calandrino:
– Vedi, sozio, questa
donna m'ha ben mille volte promesso di dover far ciò che tu vorrai, e poscia
non ne fa nulla, e parmi che ella ci meni per lo naso; e per ciò, poscia che
ella nol fa come ella promette, noi gliele farem fare o voglia ella o no, se tu
vorrai.
Rispose Calandrino:
– Deh! sì, per l'amor di
Dio, facciasi tosto.
Disse Bruno:
– Daratti egli il cuore
di toccarla con un brieve che io ti darò?
Disse Calandrino:
– Sì bene.
– Adunque, – disse Bruno
– fa che tu mi rechi un poco di carta non nata e un vispistrello vivo e tre
granella d'incenso e una candela benedetta, e lascia far me.
Calandrino stette tutta
la sera vegnente con suoi artifici per pigliare un vispistrello, e alla fine
presolo, con l'altre cose il portò a Bruno. Il quale, tiratosi in una camera,
scrisse in su quella carta certe sue frasche con alquante cateratte, e
portogliele e disse:
Calandrino, sappi che se
tu la toccherai con questa scritta, ella ti verrà incontanente dietro e farà
quello che tu vorrai. E però, se Filippo va oggi in niun luogo, accostaleti in
qualche modo e toccala, e vattene nella casa della paglia ch'è qui dallato, che
è il miglior luogo che ci sia, per ciò che non vi bazzica mai persona; tu
vedrai che ella vi verrà; quando ella v'è, tu sai ben ciò che tu t'hai a fare.
Calandrino fu il più
lieto uomo del mondo, e presa la scritta, disse:
– Sozio, lascia far me.
Nello, da cui Calandrino
si guardava, avea di questa cosa quel diletto che gli altri, e con loro insieme
teneva mano a beffarlo; e per ciò, sì come Bruno gli aveva ordinato, se n'andò
a Firenze alla moglie di Calandrino, e dissele:
– Tessa, tu sai quante
busse Calandrino ti diè senza ragione il dì che egli ci tornò con le pietre di
Mugnone, e per ciò io intendo che tu te ne vendichi, e se tu nol fai, non
m'aver mai né per parente né per amico. Egli si s'è innamorato d'una donna
colassù, ed ella è tanto trista che ella si va rinchiudendo assai spesso con
essolui: e poco fa si dieder la posta d'essere insieme via via, e per ciò io
voglio che tu vi venga e vegghilo e castighil bene.
Come la donna udì
questo, non le parve giuoco, ma levatasi in piè cominciò a dire:
– Ohimè! ladro piuvico,
fa' mi tu questo? Alla croce di Dio, ella non andrà così, che io non te ne
paghi.
E preso suo mantello e
una feminetta in compagnia, vie più che di passo insieme con Nello lassù
n'andò. La qual come Bruno vide venire di lontano, disse a Filippo:
– Ecco l'amico nostro.
Per la qual cosa Filippo
andato colà dove Calandrino e gli altri lavoravano, disse:
– Maestri, a me conviene
andare testé a Firenze: lavorate di forza. – E partitosi, s'andò a nascondere
in parte che egli poteva, senza esser veduto, veder ciò che facesse Calandrino.
Calandrino, come
credette che Filippo alquanto dilungato fosse, così se ne scese nella corte,
dove egli trovò sola la Niccolosa, ed entrato con lei in novelle, ed ella, che
sapeva ben ciò che a fare aveva, accostataglisi, un poco di più dimestichezza
che usata non era gli fece. Donde Calandrino la toccò con la scritta; e come
tocca l'ebbe, senza dir nulla volse i passi ver so la casa della paglia, dove
la Niccolosa gli andò dietro; e, come dentro fu, chiuso l'uscio, abbracciò
Calandrino, e in su la paglia che era ivi in terra il gittò, e saligli addosso
a cavalcione, e tenendogli le mani in su gli omeri, senza lasciarlosi
appressare al viso, quasi come un suo gran disidero il guardava dicendo:
– O Calandrino mio
dolce, cuor del corpo mio, anima mia, ben mio, riposo mio, quanto tempo ho io
desiderato d'averti e di poterti tenere a mio senno! Tu m'hai con la
piacevolezza tua tratto il filo della camicia; tu m'hai aggratigliato il cuore
colla tua ribeba; può egli esser vero che io ti tenga?
Calandrino, appena potendosi
muover, diceva:
– Deh! anima mia dolce,
lasciamiti baciare.
La Niccolosa diceva:
– O tu hai la gran
fretta! lasciamiti prima vedere a mio senno; lasciami saziar gli occhi di
questo tuo viso dolce!
Bruno e Buffalmacco
n'erano andati da Filippo, e tutti e tre vedevano e udivano questo fatto. Ed
essendo già Calandrino per voler pur la Niccolosa baciare, ed ecco giugner
Nello con monna Tessa, il quale come giunse, disse:
– Io fo boto a Dio che
sono insieme –; e all'uscio della casa pervenuti, la donna, che arrabbiava,
datovi delle mani, il mandò oltre, ed entrata dentro vide la Niccolosa addosso
a Calandrino; la quale, come la donna vide, subitamente levatasi, fuggì via e
andossene là dove era Filippo. Monna Tessa corse con l'unghie nel viso a Calandrino,
che ancora levato non era, e tutto gliele graffiò e presolo per li capelli, e
in qua e in là tirandolo, cominciò a dire:
– Sozzo can vituperato,
dunque mi fai tu questo? Vecchio impazzato, che maladetto sia il ben che io
t'ho voluto; dunque non ti pare avere tanto a fare a casa tua, che ti vai
innamorando per l'altrui? Ecco bello innamorato! Or non ti conosci tu, tristo?
Non ti conosci tu, dolente, che premenloti tutto, non uscirebbe tanto sugo che
bastasse ad una salsa? Alla fè di Dio, egli non era ora la Tessa quella che ti
'mpregnava, che Dio la faccia trista chiunque ella è, che ella dee ben
sicuramente esser cattiva cosa ad aver vaghezza di così bella gioia come tu
se'.
Calandrino, vedendo
venir la moglie, non rimase né morto né vivo, né ebbe ardire di far contro di
lei difesa alcuna; ma pur così graffiato e tutto pelato e rabbuffato, ricolto
il cappuccio suo e levatosi, cominciò umilmente a pregar la moglie che non
gridasse, se ella non volesse che egli fosse tagliato tutto a pezzi, per ciò che
colei che con lui era, era moglie del signor della casa. La donna disse:
– Sia, che Iddio le dea
il mal anno.
Bruno.e Buffalmacco, che
con Filippo e con la Niccolosa avevan di questa cosa riso a lor senno, quasi al
romor venendo, colà trassero, e dopo molte novelle rappacificata la donna,
dieron per consiglio a Calandrino che a Firenze se n'andasse e più non vi
tornasse, acciò che Filippo, se niente di questa cosa sentisse, non gli facesse
male.
Così adunque Calandrino
tristo e cattivo, tutto pelato e tutto graffiato a Firenze tornatosene, più
colassù non avendo ardir d'andare, il dì e la notte molestato e afflitto dai
rimbrotti della moglie, al suo fervente amor pose fine, avendo molto dato da
ridere a' suoi compagni e alla Niccolosa e a Filippo.
NOVELLA SESTA
Due giovani albergano
con uno, de' quali l'uno si va a giacere con la figliuola, e la moglie di lui
disavvedutamente si giace con l'altro. Quegli che era con la figliuola, si
corica col padre di lei e dicegli ogni cosa, credendosi dire al compagno. Fanno
romore insieme. La donna, ravvedutasi, entra nel letto della figliuola, e
quindi con certe parole ogni cosa pacefica.
Calandrino, che altre
volte la brigata aveva fatta ridere, similmente questa volta la fece; de' fatti
del quale poscia che le donne si tacquero, la reina impose a Panfilo che
dicesse, il qual disse:
Laudevoli donne, il nome
della Niccolosa amata da Calandrino m'ha nella memoria tornata una novella
d'un'altra Niccolosa, la quale di raccontarvi mi piace, per ciò che in essa vedrete
un subito avvedimento d'una buona donna avere un grande scandalo tolto via. Nel
pian di Mugnone fu, non ha guari, un buon uomo, il quale a' viandanti dava pe'
lor danari mangiare e bere; e come che povera persona fosse e avesse piccola
casa, alcuna volta per un bisogno grande, non ogni persona, ma alcun conoscente
albergava.
Ora aveva costui una sua
moglie assai bella femina, della quale aveva due figliuoli; e l'uno era una
giovanetta bella e leggiadra, d'età di quindici o di sedici anni, che ancora marito
non avea; l'altro era un fanciul piccolino, che ancora non aveva uno anno, il
quale la madre stessa allattava.
Alla giovane aveva posto
gli occhi addosso un giovanetto leggiadro e piacevole e gentile uomo della
nostra città, il quale molto usava per la contrada, e focosamente l'amava. Ed
ella, che d'esser da un così fatto giovane amata forte si gloriava, mentre di
ritenerlo con piacevoli sembianti nel suo amor si sforzava, di lui similmente
s'innamorò; e più volte per grado di ciascuna delle parti avrebbe tale amore
avuto effetto, se Pinuccio (che così aveva nome il giovane non avesse schifato
il biasimo della giovane e 'l suo.
Ma pur, di giorno in
giorno multiplicando l'ardore, venne disidero a Pinuccio di doversi pur con
costei ritrovare, e caddegli nel pensiero di trovar modo di dover col padre
albergare, avvisando, sì come colui che la disposizion della casa della giovane
sapeva, che, se questo facesse, gli potrebbe venir fatto d'esser con lei, senza
avvedersene persona; e co me nell'animo gli venne, così senza indugio mandò ad
effetto.
Esso, insieme con un suo
fidato compagno chiamato Adriano, il quale questo amor sapeva, tolti una sera
al tardi due ronzini a vettura e postevi su due valigie, forse piene di paglia,
di Firenze uscirono, e presa una lor volta, sopra il pian di Mugnone cavalcando
pervennero, essendo già notte; e di quindi, come se di Romagna tornassero, data
la volta, verso le case se ne vennero, e alla casa del buon uom picchiarono; il
quale, sì come colui che molto era dimestico di ciascuno, aperse la porta
prestamente. Al quale Pinuccio disse:
– Vedi, a te conviene
stanotte albergarci: noi ci credemmo dover potere entrare in Firenze, e non ci
siamo sì saputi studiare, che noi non siam qui pure a così fatta ora, come tu
vedi, giunti. A cui l'oste rispose:
– Pinuccio, tu sai bene
come io sono agiato di poter così fatti uomini come voi siete albergare; ma
pur, poi che questa ora v'ha qui sopraggiunti, né tempo ci è da potere andare
altrove, io v'albergherò volentieri com'io potrò.
Ismontati adunque i due
giovani e nello alberghetto entrati, primieramente i loro ronzini adagiarono, e
appresso, avendo ben seco portato da cena, insieme con l'oste cenarono. Ora non
avea l'oste che una cameretta assai piccola, nella quale eran tre letticelli
messi come il meglio l'oste avea saputo, né v'era per tutto ciò tanto di spazio
rimaso, essendone due dall'una delle facce della camera e 'l terzo di rincontro
a quegli dall'altra, che altro che strettamente andar vi si potesse. Di questi
tre letti fece l'oste il men cattivo acconciar per li due compagni, e fecegli
coricare; poi dopo alquanto, non dormendo alcun di loro, come che di dormir
mostrassero, fece l'oste nell'un de' due che rimasi erano coricar la figliuola,
e nell'altro s'entrò egli e la donna sua; la quale allato del letto dove
dormiva pose la culla nella quale il suo piccolo figlioletto teneva.
Ed essendo le cose in
questa guisa disposte, e Pinuccio avendo ogni cosa veduta, dopo alquanto
spazio, parendogli che ogn'uomo addormentato fosse, pianamente levatosi se
n'andò al letticello dove la giovane amata da lui si giaceva, e miselesi a
giacere allato; dalla quale, ancora che paurosamente il facesse, fu lietamente
raccolto, e con essolei di quel piacere che più disideravano prendendo si stette.
E standosi così Pinuccio
con la giovane, avvenne che una gatta fece certe cose cadere, le quali la donna
destatasi sentì; per che levatasi temendo non fosse altro, così al buio come
era, se n'andò là dove sentito avea il romore. Adriano, che a ciò non avea
l'animo, per avventura per alcuna opportunità natural si levò, alla quale
espedire andando, trovò la culla postavi dalla donna, e non potendo senza
levarla oltre passare, presala la levò del luogo dove era, e posela allato al
letto dove esso dormiva; e fornito quello per che levato s'era e tornandosene,
senza della culla curarsi, nel letto se n'entrò.
La donna, avendo cerco e
trovato che quello che caduto era non era tal cosa, non si curò d'altrimenti
accender lume per vederlo, ma, garrito alla gatta, nella cameretta se ne tornò,
e a tentone dirittamente al letto dove il marito dormiva se n'andò. Ma, non
trovandovi la culla, disse se co stessa: – Ohimè, cattiva me, vedi quel che io
faceva! In fè di Dio, che io me n'andava dirittamente nel letto degli osti miei
–. E, fattasi un poco più avanti e trovando la culla, in quello letto al quale
ella era allato insieme con Adriano si coricò. credendosi col marito coricare.
Adriano, che ancora raddormentato non era, sentendo questo, la ricevette e bene
e lietamente, e senza fare altramenti motto, da una volta in su caricò l'orza
con gran piacer della donna.
E così stando, temendo
Pinuccio non il sonno con la sua giovane il soprapprendesse, avendone quel
piacer preso che egli desiderava, per tornar nel suo letto a dormire le si levò
dallato, e là venendone, trovando la culla, credette quello essere quel
dell'oste; per che, fattosi un poco più avanti insieme con l'oste si coricò, il
quale per la venuta di Pinuccio si destò. Pinuccio, credendosi essere allato ad
Adriano, disse:
– Ben ti dico che mai sì
dolce cosa non fu come è la Niccolosa: al corpo di Dio, io ho avuto con lei il
maggior diletto che mai uomo avesse con femina, e dicoti che io sono andato da
sei volte in su in villa, poscia che io mi partii quinci.
L'oste, udendo queste
novelle e non piacendogli troppo, prima disse seco stesso: – Che diavol fa
costui qui? – Poi, più turbato che consigliato, disse:
– Pinuccio, la tua è
stata una gran villania, e non so perché tu mi t'abbi a far questo; ma, per lo
corpo di Dio, io te ne pagherò.
Pinuccio, che non era il
più savio giovane del mondo, avveggendosi del suo errore, non ricorse ad
emendare come meglio avesse potuto, ma disse:
– Di che mi pagherai?
Che mi potrestu fare tu?
La donna dell'oste, che
col marito si credeva essere, disse ad Adriano:
– Ohimè! Odi gli osti
nostri che hanno non so che parole insieme.
Adriano ridendo disse:
– Lasciali fare, che
Iddio gli metta in mal anno: essi bevver troppo iersera.
La donna, parendole
avere udito il marito garrire e udendo Adriano, incontanente conobbe là dove
stata era e con cui; per che, come savia, senza alcuna parola dire, subitamente
si levò, e presa la culla del suo figlioletto, come che punto lume nella camera
non si vedesse, per avviso la portò allato al letto dove dormiva la figliuola,
e con lei si coricò; e quasi desta fosse per lo rumore del marito, il chiamò e
domandollo che parole egli avesse con Pinuccio. Il marito rispose:
– Non odi tu ciò
ch'e'dice che ha fatto stanotte alla Niccolosa?
La donna disse:
– Egli mente bene per la
gola, ché con la Niccolosa non è egli giaciuto, ché io mi ci coricai io in quel
punto, che io non ho mai poscia potuto dormire; e tu se' una bestia che egli
credi. Voi bevete tanto la sera, che poscia sognate la notte e andate in qua e
in là senza sentirvi, e parvi far maraviglie: egli è gran peccato che voi non
vi fiaccate il collo! Ma che fa egli costì Pinuccio? Perché non si sta egli nel
letto suo?
D'altra parte Adriano,
veggendo che la donna saviamente la sua vergogna e quella della figliuola
ricopriva, disse:
– Pinuccio, io te l'ho
detto cento volte che tu non va da attorno, ché questo tuo vizio del levarti in
sogno e di dire le favole che tu sogni per vere ti daranno una volta la mala
ventura: torna qua, che Dio ti dea la mala notte!
L'oste, udendo quello
che la donna diceva e quello che diceva Adriano, cominciò a creder troppo bene
che Pinuccio sognasse; per che, presolo per la spalla, lo 'ncominciò a dimenare
e a chiamar, dicendo:
– Pinuccio, destati;
tornati al letto tuo.
Pinuccio, avendo
raccolto ciò che detto s'era, cominciò a guisa d'uom che sognasse ad entrare in
altri farnetichi; di che l'oste faceva le maggior risa del mondo. Alla fine,
pur sentendosi dimenare, fece sembiante di destarsi, e chiamando Adrian, disse:
– È egli ancora dì, che
tu mi chiami?
Adriano disse:
– Sì, vienne qua.
Costui, infignendosi e
mostrandosi ben sonnocchioso, al fine si levò d'allato all'oste e tornossi al
letto con Adriano. E, venuto il giorno e levatisi, l'oste incominciò a ridere e
a farsi beffe di lui e de' suoi sogni. E così d'uno in altro motto acconci i
duo giovani i lor ronzini e messe le lor valigie e bevuto con l'oste, rimontati
a cavallo se ne vennero a Firenze, non meno contenti del modo in che la cosa
avvenuta era, che dello effetto stesso della cosa.
E poi appresso, trovati
altri modi, Pinuccio con la Niccolosa si ritrovò, la quale alla madre affermava
lui fermamente aver sognato. Per la qual cosa la donna, ricordandosi
dell'abbracciar d'Adriano, sola seco diceva d'aver vegghiato.
NOVELLA SETTIMA
Talano d'Imolese sogna
che uno lupo squarcia tutta la gola e 'l viso alla moglie; dicele che se ne
guardi; ella nol fa, e avvienle.
Essendo la novella di
Panfilo finita e l'avvedimento della donna commendato da tutti, la reina a
Pampinea disse che dicesse la sua, la quale allora cominciò: Altra volta,
piacevoli donne, delle verità dimostrate da' sogni, le quali molte
scherniscono, s'è fra noi ragionato; e però, come che detto ne sia, non lascerò
io che con una novelletta assai brieve io non vi narri quello che ad una mia
vicina, non è ancor guari, addivenne, per non crederne uno di lei dal marito
veduto.
Io non so se voi vi
conosceste Talano d'Imolese, uomo assai onorevole. Costui, avendo una giovane
chiamata Margarita, bella tra tutte l'altre, per moglie presa, ma sopra ogni
altra bizzarra, spiacevole e ritrosa, intanto che a senno di niuna persona
voleva fare alcuna cosa, né altri far la poteva a suo; il che quantunque
gravissimo fosse a comportare a Talano, non potendo altro fare, se 'l
sofferiva.
Ora avvenne una notte,
essendo Talano con questa sua Margarita in contado ad una lor possessione,
dormendo egli, gli parve in sogno vedere la donna sua andar per un bosco assai
bello, il quale essi non guari lontano alla lor casa avevano; e mentre così andar
la vedeva, gli parve che d'una parte del bosco uscisse un grande e fiero lupo,
il quale prestamente s'avventava alla gola di costei e tiravala in terra, e lei
gridante aiuto si sforzava di tirar via, e poi di bocca uscitagli, tutta la
gola e 'l viso pareva l'avesse guasto. Il quale, la mattina appresso levatosi,
disse alla moglie:
– Donna, ancora che la
tua ritrosia non abbia mai sofferto che io abbia potuto avere un buon dì con
teco, pur sarei dolente quando mal t'avvenisse; e per ciò, se tu crederrai al
mio consiglio, tu non uscirai oggi di casa –; e domandato da lei del perché,
ordinatamente le contò il sogno suo.
La donna, crollando il
capo, disse:
– Chi mal ti vuol, mal
ti sogna; tu ti fai molto di me pietoso, ma tu sogni di me quello che tu vorresti
vedere; e per certo io me ne guarderò e oggi e sempre di non farti né di questo
né d'altro mio male mai allegro.
Disse allora Talano:
– Io sapeva bene che tu
dovevi dir così, per ciò che tal grado ha chi tigna pettina; ma credi che ti
piace; io per me il dico per bene, e ancora da capo te ne consiglio, che tu
oggi ti stea in casa o almeno ti guardi d'andare nel nostro bosco.
La donna disse:
– Bene, io il farò –; e
poi seco stessa cominciò a dire: – Hai veduto come costui maliziosamente si
crede avermi messa paura d'andare oggi al bosco nostro? là dove egli per certo
dee aver data posta a qualche cattiva, e non vuol che io il vi truovi. Oh, egli
avrebbe buon manicar co' ciechi, e io sarei bene sciocca se io nol conoscessi e
se io il credessi! Ma per certo e' non gli verrà fatto: e' convien pur che io
vegga, se io vi dovessi star tutto dì, che mercatantia debba esser questa che
egli oggi far vuole.
E come questo ebbe
detto, uscito il marito da una parte della casa, ed ella uscì dall'altra, e
come più nascosamente poté, senza alcuno indugio, se n'andò nel bosco, e in
quello nella più folta parte che v'era si nascose, stando attenta e guardando
or qua or là, se alcuna persona venir vedesse.
E mentre in questa guisa
stava senza alcun sospetto di lupo, ed ecco vicino a lei uscir d'una macchia
folta un lupo grande e terribile, né poté ella, poi che veduto l'ebbe, appena
dire – Domine, aiutami –, che il lupo le si fu avventato alla gola, e presala
forte, la cominciò a portar via come se stata fosse un piccolo agnelletto. Essa
non poteva gridare, sì aveva la gola stretta, né in altra maniera aiutarsi; per
che, portandosenela il lupo, senza fallo strangolata l'avrebbe, se in certi
pastori non si fosse scontrato, li quali sgridandolo a lasciarla il
costrinsero; ed essa misera e cattiva, da' pastori riconosciuta e a casa
portatane, dopo lungo studio da' medici fu guarita, ma non sì, che tutta la
gola e una parte del viso non avesse per sì fatta maniera guasta, che, dove
prima era bella, non paresse poi sempre sozzissima e contraffatta. Laonde ella,
vergognandosi d'apparire dove veduta fosse, assai volte miseramente pianse la
sua ritrosia e il non avere, in quello che niente le costava, al vero sogno del
marito voluto dar fede.
NOVELLA OTTAVA
Biondello fa una beffa a
Ciacco d'un desinare, della quale Ciacco cautamente si vendica, faccendo lui
sconciamente battere.
Universalmente ciascuno
della lieta compagnia disse quello che Talano veduto avea dormendo non essere
stato sogno ma visione, sì appunto, senza alcuna cosa mancarne, era avvenuto.
Ma, tacendo ciascuno, impose la reina alla Lauretta che seguitasse, la qual
disse. Come costoro, soavissime donne, che oggi davanti a me hanno parlato,
quasi tutti da alcuna cosa già detta mossi sono stati a ragionare, così me
muove la rigida vendetta ieri raccontata da Pampinea, che fe' lo scolare, a
dover dire d'una assai grave a colui che la sostenne, quantunque non fosse per
ciò tanto fiera. E per ciò dico che, essendo in Firenze uno da tutti chiamato
Ciacco, uomo ghiottissimo quanto alcun altro fosse giammai, e non possendo la
sua possibilità sostenere le spese che la sua ghiottornia richiedea, essendo
per altro assai costumato e tutto pieno di belli e di piacevoli motti, si diede
ad essere, non del tutto uom di corte, ma morditore, e ad usare con coloro che
ricchi erano e di mangiare delle buone cose si dilettavano; e con questi a
desinare e a cena, ancor che chiamato non fosse ogni volta, andava assai
sovente.
Era similmente in quei
tempi in Firenze uno, il quale era chiamato Biondello, piccoletto della
persona, leggiadro molto e più pulito che una mosca, con sua cuffia in capo,
con una zazzerina bionda e per punto senza un capel torto avervi, il quale quel
medesimo mestiere usava che Ciacco.
Il quale essendo una
mattina di quaresima andato là do ve il pesce si vende, e comperando due
grossissime lamprede per messer Vieri de' Cerchi, fu veduto da Ciacco; il
quale, avvicinatosi a Biondello, disse:
– Che vuol dir questo?
A cui Biondello rispose:
– Iersera ne furono
mandate tre altre, troppo più belle che queste non sono e uno storione a messer
Corso Donati, le quali non bastandogli per voler dar mangiare a certi gentili
uomini, m'ha fatte comperare quest'altre due: non vi verrai tu?
Rispose Ciacco:
– Ben sai che io vi
verrò.
E quando tempo gli
parve, a casa messer Corso se n'andò, e trovollo con alcuni suoi vicini che
ancora non era andato a desinare. A quale egli, essendo da lui domandato che
andasse faccendo, rispose:
– Messere, io vengo a
desinar con voi e con la vostra brigata.
A cui messer Corso
disse:
– Tu sie 'l ben venuto,
e per ciò che egli è tempo, andianne. Postisi dunque a tavola, primieramente
ebbero del cece e della sorra, e appresso del pesce d'Arno fritto, senza più
Ciacco, accortosi dello 'nganno di Biondello e in sé non poco turbatosene,
propose di dovernel pagare; né passar molti dì che egli in lui si scontrò, il
qual già molti aveva fatti ridere di questa beffa.
Biondello, vedutolo, il
salutò, e ridendo il domandò chenti la fosser state le lamprede di messer
Corso; a cui Ciacco rispondendo disse:
– Avanti che otto giorni
passino tu il saprai molto meglio dir di me.
E senza mettere indugio
al fatto, partitosi da Biondello, con un saccente barattiere si convenne del
prezzo, e datogli un bottaccio di vetro, il menò vicino della loggia de'
Cavicciuli, e mostrogli in quella un cavaliere chiamato messer Filippo Argenti,
uomo grande e nerboruto e forte, sdegnoso, iracundo e bizzarro più che altro, e
dissegli:
– Tu te ne andrai a lui
con questo fiasco in mano, e dira'gli così: – Messere, a voi mi manda
Biondello, e mandavi pregando che vi piaccia d'arrubinargli questo fiasco del
vostro buon vin vermiglio, ch'e'si vuole alquanto sollazzar con suoi zanzeri –;
e sta bene accorto che egli non ti ponesse le mani addosso, per ciò che egli ti
darebbe il mal dì, e avresti guasti i fatti miei.
Disse il barattiere:
– Ho io a dire altro?
Disse Ciacco:
– No; va pure; e come tu
hai questo detto, torna qui a me col fiasco, e io ti pagherò.
Mossosi adunque il
barattiere, fece a messer Filippo l'ambasciata.
Messer Filippo, udito
costui, come colui che piccola levatura avea, avvisando che Biondello, il quale
egli conosceva, si facesse beffe di lui, tutto tinto nel viso, dicendo:
Che «arrubinatemi» e che
«zanzeri» son questi? Che nel mal anno metta Iddio te e lui –, si levò in piè e
distese il braccio per pigliar con la mano il barattiere; ma il barattiere,
come colui che attento stava, fu presto e fuggì via, e per altra parte ritornò
a Ciacco, il quale ogni cosa veduta avea, e dissegli ciò che messer Filippo
aveva detto.
Ciacco contento pagò il
barattiere, e non riposò mai ch'egli ebbe ritrovato Biondello, al quale egli
disse:
– Fostu a questa pezza
dalla loggia de' Cavicciuli?
Rispose Biondello:
– Mai no; perché me ne
domandi tu?
Disse Ciacco:
– Per ciò che io ti so
dire che messer Filippo ti fa cercare, non so quel ch'e'si vuole.
Disse allora Biondello:
– Bene, io vo verso là,
io gli farò motto.
Partitosi Biondello,
Ciacco gli andò appresso per vedere come il fatto andasse. Messer Filippo, non
avendo potuto giugnere il barattiere, era rimaso fieramente turbato e tutto in
sé medesimo si rodea, non potendo dalle parole dette dal barattiere cosa del
mondo trarre altro, se non che Biondello, ad instanzia di cui che sia, si
facesse beffe di lui. E in questo che egli così si rodeva, e Biondel venne.
Il quale come egli vide,
fattoglisi incontro, gli diè nel viso un gran punzone.
– Ohimè! messer, – disse
Biondel – che è questo?
Messer Filippo, presolo
per li capelli e stracciatagli la cuffia in capo e gittato il cappuccio per
terra e dandogli tuttavia forte, diceva:
– Traditore, tu il
vedrai bene ciò che questo è. Che «arrubinatemi» e che «zanzeri» mi mandi tu
dicendo a me? Paiot'io fanciullo da dovere essere uccellato?
E così dicendo, con le
pugna, le quali aveva che parevan di ferro, tutto il viso gli ruppe, né gli
lasciò in capo capello che ben gli volesse, e convoltolo per lo fango, tutti i
panni in dosso gli stracciò; e sì a questo fatto si studiava, che pure una
volta dalla prima innanzi non gli potè Biondello dire una parola, né domandar
perché questo gli facesse. Aveva egli bene inteso dello «arrubinatemi» e de'
«zanzeri», ma non sapeva che ciò si volesse dire.
Alla fine, avendol messer
Filippo ben battuto, ed essendogli molti dintorno, alla maggior fatica del
mondo gliele trasser di mano così rabbuffato e malconcio come era; e dissergli
perché messer Filippo questo avea fatto, riprendendolo di ciò che mandato gli
avea dicendo, e dicendogli ch'egli doveva bene oggimai cognoscer messer Filippo
e che egli non era uomo da motteggiar con lui. Biondello piagnendo si scusava e
diceva che mai a messer Filippo non aveva mandato per vino. Ma poi che un poco
si fu rimesso in assetto, tristo e dolente se ne tornò a casa, avvisando questa
essere stata opera di Ciacco. E poi che dopo molti dì, partiti i lividori del
viso, cominciò di casa ad uscire, avvenne che Ciacco il trovò, e ridendo il
domandò:
– Biondello, chente ti
parve il vino di messer Filippo?
Rispose Biondello:
– Tali fosser parute a
te le lamprede di messer Corso!
Allora disse Ciacco:
– A te sta oramai:
qualora tu mi vuogli così ben dare da mangiar come facesti, io darò a te così
ben da bere come avesti.
Biondello, che conoscea che
contro a Ciacco egli poteva più aver mala voglia che opera, pregò Iddio della
pace sua, e da indi innanzi si guardò di mai più non beffarlo.
NOVELLA NONA
Due giovani domandano
consiglio a Salamone, l'uno come possa essere amato, l'altro come gastigar
debba la moglie ritrosa. All'un risponde che ami, all'altro che vada al Ponte
all'oca.
Niuno altro che la
reina, volendo il privilegio servare a Dioneo, restava a dover novellare, la
qual, poi che le donne ebbero assai riso dello sventurato Biondello, lieta
cominciò così a parlare.
Amabili donne, se con
sana mente sarà riguardato l'ordine delle cose, assai leggiermente si conoscerà
tutta la universal moltitudine delle femine dalla natura e da' costumi e dalle
leggi essere agli uomini sottomessa, e secondo la discrezion di quegli
convenirsi reggere e governare; e per ciò ciascuna che quiete, consolazione e
riposo vuole con quegli uomini avere a' quali s'appartiene, dee essere umile,
paziente e ubidiente, oltre all'essere onesta: il che è sommo e spezial tesoro
di ciascuna savia. E quando a questo le leggi, le quali il ben comune
riguardano in tutte le cose, non ci ammaestrassono, e l'usanza o costume che
vogliam dire, le cui forze son grandissime e reverende, la natura assai
apertamente cel mostra, la quale ci ha fatte ne' corpi dilicate e morbide,
negli animi timide e paurose, nelle menti benigne e pietose, e hacci date le
corporali forze leggieri, le voci piacevoli e i movimenti de' membri soavi:
cose tutte testificanti noi avere dell'altrui governo bisogno. E chi ha bisogno
d'essere aiutato e governato ogni ragion vuol lui dovere essere ubidiente e
subietto e reverente all'aiutatore e al governator suo. E cui abbiam noi
governatori e aiutatori, se non gli uomini? Dunque agli uomini dobbiamo,
sommamente onorandogli, soggiacere; e qual da questo si parte, estimo che
degnissima sia non solamente di riprension grave, ma d'aspro gastigamento. E a
così fatta considerazione, come che altra volta avuta l'abbia, pur poco fa mi
ricondusse ciò che Pampinea della ritrosa moglie di Talano raccontò, alla quale
Iddio quel gastigamento mandò che il marito dare non aveva saputo; e però nel
mio giudicio cape tutte quelle esser degne, come già dissi, di rigido e aspro
gastigamento, che dall'esser piacevoli, benivole e pieghevoli, come la natura,
l'usanza e le leggi voglion, si partono. Per che m'aggrada di raccontarvi un
consiglio renduto da Salamone, sì come utile medicina a guerire quelle che così
son fatte da cotal male. Il quale niuna, che di tal medicina degna non sia,
reputi ciò esser detto per lei, come che gli uomini un cotal proverbio usino: –
Buon cavallo e mal cavallo vuole sprone, e buona femina e mala femina vuol
bastone –. Le quali parole chi volesse sollazzevolmente interpretare, di
leggieri si concederebbe da tutte così esser vero; ma pur vogliendole
moralmente intendere, dico che è da concedere.
Sono naturalmente le
femine tutte labili e inchinevoli, e per ciò a correggere la iniquità di quelle
che troppo fuori de' termini posti loro si lasciano andare, si conviene il
bastone che le punisca; e a sostentar la virtù dell'altre che trascorrere non
si lascino, si conviene il bastone che le sostenga e che le spaventi.
Ma, lasciando ora stare
il predicare, a quel venendo che di dire ho nello animo, dico che, essendo già
quasi per tutto il mondo l'altissima fama del miracoloso senno di Salamone
discorsa, e il suo essere di quello liberalissimo mostratore a chiunque per
esperienzia ne voleva certezza, molti di diverse parti del mondo a lui per loro
strettissimi e ardui bisogni con correvano per consiglio; e tra gli altri che a
ciò andavano, si partì un giovane, il cui nome fu Melisso, nobile e ricco
molto, della città di Laiazzo, là onde egli era e dove egli abitava. E verso
Jerusalem cavalcando, avvenne che uscendo d'Antioccia con un altro giovane
chiamato Giosefo, il qual quel medesimo cammin teneva che faceva esso, cavalcò
per alquanto spazio, e, come costume è de' camminanti, con lui cominciò ad
entrare in ragionamento. Avendo Melisso già da Giosefo di sua condizione e
donde fosse saputo, dove egli andasse e per che il domandò; al quale Giosefo
disse che a Salamone andava, per aver consiglio da lui che via tener dovesse
con una sua moglie più che altra femina ritrosa e perversa, la quale egli né
con prieghi né con lusinghe né in alcuna altra guisa dalle sue ritrosie ritrar
poteva. E appresso lui similmente, donde fosse e dove andasse e per che,
domandò; al quale Melisso rispose:
– Io son di Laiazzo, e
sì come tu hai una disgrazia, così n'ho io un'altra: io sono ricco giovane e
spendo il mio in mettere tavola e onorare i miei cittadini, ed è nuova e strana
cosa a pensare che per tutto questo io non posso trovare uom che ben mi voglia;
e per ciò io vado dove tu vai, per aver consigli come addivenir possa che io
amato sia.
Camminarono adunque i
due compagni insieme, e in Jerusalem pervenuti per introdotto d'uno de' baroni
di Salamone, davanti da lui furon messi, al qual brievemente Melisso disse la
sua bisogna. A cui Salamone rispose:
– Ama.
E detto questo
prestamente Melisso fu messo fuori, e Giosefo disse quello per che v'era. Al
quale Salamone null'altro rispose, se non: – Va al Ponte all'oca –; il che
detto, similmente Giosefo fu senza indugio dalla presenza del re levato, e
ritrovò Melisso il quale aspettava, e dissegli ciò che per risposta avea avuto.
Li quali a queste parole pensando e non potendo d'esse comprendere né
intendimento né frutto alcuno per la loro bisogna, quasi scornati, a ritornarsi
indietro entrarono in cammino. E poi che alquante giornate camminati furono,
pervennero ad un fiume sopra il quale era un bel ponte; e per ciò che una gran
carovana di some sopra muli e sopra cavalli passavano, convenne lor sofferir di
passar tanto che quelle passate fossero. Ed essendo già quasi che tutte
passate, per ventura v'ebbe un mulo il quale adombrò, sì come sovente gli
veggiam fare, né volea per alcuna maniera avanti passare; per la qual cosa un
mulattiere presa una stecca, prima assai temperata mente lo 'ncominciò a
battere perché passasse. Ma il mulo ora da questa parte della via e ora da
quella attraversandosi, e talvolta indietro tornando, per niun partito passar
volea; per la qual cosa il mulattiere oltre modo adirato gl'incominciò con la
stecca a dare i maggiori colpi del mondo, ora nella testa e ora nei fianchi e
ora sopra la groppa; ma tutto era nulla. Per che Melisso e Giosefo, li quali
questa cosa stavano a vedere, sovente dicevano al mulattiere:
– Deh! cattivo, che
farai? Vuo'l tu uccidere? Perché non t'ingegni tu di menarlo bene e pianamente?
Egli verrà più tosto che a bastonarlo come tu fai. A'quali il mulattiere
rispose:
– Voi conoscete i vostri
cavalli e io conosco il mio mulo; lasciate far me con lui. –
E questo detto
rincominciò a bastonarlo, e tante d'una parte e d'altra ne gli diè, che il mulo
passò avanti, sì che il mulattiere vinse la pruova.
Essendo adunque i due
giovani per partirsi, domandò Giosefo un buono uomo, il quale a capo del ponte
sedeva, come quivi si chiamasse. Al quale il buono uomo rispose:
– Messere, qui si chiama
il Ponte all'oca.
Il che come Giosefo ebbe
udito, così si ricordò delle parole di Salamone, e disse verso Melisso:
– Or ti dico io,
compagno, che il consiglio datomi da Salamone potrebbe esser buono e vero, per
ciò che assai manifestamente conosco che io non sapeva battere la donna mia, ma
questo mulattiere m'ha mostrato quello che io abbia a fare.
Quindi, dopo alquanti dì
divenuti ad Antioccia, ritenne Giosefo Melisso seco a riposarsi alcun dì; ed
essendo assai ferialmente dalla donna ricevuto, le disse che così facesse far
da cena come Melisso divisasse; il quale, poi vide che a Giosefo piaceva, in
poche parole se ne diliberò. La donna, sì come per lo passato era usata, non
come Melisso divisato avea, ma quasi tutto il contrario fece; il che Giosefo
vedendo, a turbato disse:
– Non ti fu egli detto
in che maniera tu facessi questa cena fare?
La donna, rivoltasi con
orgoglio, disse:
– Ora che vuol dir
questo? Deh! ché non ceni, se tu vuoi cenare? Se mi fu detto altramenti, a me
pare da far così; se ti piace, sì ti piaccia; se non, sì te ne sta.
Maravigliossi Melisso della risposta della donna, e biasimolla assai. Giosefo,
udendo questo, disse:
– Donna, ancor sétu quel
che tu suogli; ma credimi che io ti farò mutar modo. –
E a Melisso rivolto
disse:
– Amico, tosto vedremo
chente sia stato il consiglio di Salamone; ma io ti priego non ti sia grave lo
stare a vedere, e di reputare per un giuoco quello che io farò. E acciò che tu
non m'impedischi, ricorditi della risposta che ci fece il mulattiere quando del
suo mulo c'increbbe.
Al quale Melisso disse:
– Io sono in casa tua,
dove dal tuo piacere io non intendo di mutarmi.
Giosefo, trovato un
baston tondo d'un querciuolo giovane, se n'andò in camera, dove la donna, per
istizza da tavola levatasi, brontolando se n'era andata; e presala per le
treccie, la si gittò a' piedi e cominciolla fieramente a battere con questo bastone.
La donna cominciò prima
a gridare e poi a minacciare; ma veggendo che per tutto ciò Giosefo non
ristava, già tutta rotta cominciò a chiedere mercé per Dio che egli non
l'uccidesse, dicendo oltre a ciò mai dal suo piacer non partirsi.
Giosefo per tutto questo
non rifinava, anzi con più furia l'una volta che l'altra, or per lo costato, or
per l'anche e ora su per le spalle, battendola forte, l'andava le costure
ritrovando, né prima ristette che egli fu stanco; e in brieve niuno osso né
alcuna parte rimase nel dosso della buona donna, che macerata non fosse. E
questo fatto, ne venne a Melisso e dissegli: – Doman vedrem che pruova avrà
fatto il consiglio del – Va al Ponte all'oca –; e riposatosi alquanto e poi
lavatesi le mani, con Melisso cenò, e quando fu tempo, s'andarono a riposare.
La donna cattivella a
gran fatica si levò di terra, e in sul letto si gittò, dove, come potè il
meglio, riposatasi, la mattina vegnente per tempissimo levatasi, fe' domandar
Giosefo quello che voleva si facesse da desinare. Egli, di ciò insieme
ridendosi con Melisso, il divisò, e poi, quando fu ora, tornati, ottimamente
ogni cosa e secondo l'ordine dato trovaron fatta; per la qual cosa il consiglio
prima da loro male inteso sommamente lodarono. E dopo alquanti dì partitosi
Melisso da Giosefo e tornato a casa sua, ad alcun, che savio uomo era, disse
ciò che da Salamone avuto avea. Il quale gli disse:
– Niuno più vero
consiglio né migliore ti potea dare. Tu sai che tu non ami persona, e gli onori
e' servigi li quali tu fai, gli fai, non per amore che tu ad altrui porti, ma
per pompa. Ama adunque, come Salamon ti disse, e sarai amato.
Così adunque fu
gastigata la ritrosa, e il giovane amando fu amato.
NOVELLA DECIMA
Donno Gianni ad istanzia
di compar Pietro fa lo 'ncantesimo per far diventar la moglie una cavalla; e
quando viene ad appiccar la coda, compar Pietro, dicendo che non vi voleva
coda, guasta tutto lo 'ncantamento.
Questa novella dalla
reina detta diede un poco da mormorare alle donne e da ridere a' giovani; ma
poi che ristate furono, Dioneo così cominciò a parlare.
Leggiadre donne, infra
molte bianche colombe aggiugne più di bellezza uno nero corvo, che non farebbe
un candido cigno; e così tra molti savi alcuna volta un men savio è non
solamente un accrescere splendore e bellezza alla lor maturità, ma ancora
diletto e sollazzo. Per la qual cosa, essendo voi tutte discretissime e moderate,
io, il qual sento anzi dello scemo che no, faccendo la vostra virtù più lucente
col mio difetto, più vi debbo esser caro che se con più valore quella facessi
divenir più oscura; e per conseguente più largo arbitrio debbo avere in
dimostrarmi tal qual io sono, e più pazientemente dee da voi esser sostenuto
che non dovrebbe se io più savio fossi, quel dicendo che io dirò. Dirovvi
adunque una novella non troppo lunga, nella quale comprenderete quanto
diligentemente si convengano osservare le cose imposte da coloro che alcuna
cosa per forza d'incantamento fanno, e quanto piccol fallo in quelle commesso
ogni cosa guasti dallo incantator fatta.
L'altr'anno fu a
Barletta un prete, chiamato donno Gianni di Barolo, il qual, per ciò che povera
chiesa avea, per sostentar la vita sua, con una cavalla cominciò a portar
mercatantia in qua e in là per le fiere di Puglia e a comperare e a vendere. E
così andando, prese stretta dimestichezza con uno che si chiamava Pietro da
Tresanti, che quello medesimo mestiere con uno suo asino faceva, e in segno
d'amorevolezza e d'amistà, alla guisa puglie se, nol chiamava se non compar
Pietro; e quante volte in Barletta arrivava, sempre alla chiesa sua nel menava,
e quivi il teneva seco ad albergo, e come poteva l'onorava. Compar Pietro
d'altra parte, essendo poverissimo e avendo una piccola casetta in Tresanti,
appena bastevole a lui e ad una sua giovane e bella moglie e all'asino suo,
quante volte donno Gianni in Tresanti capitava tante sel menava a casa, e come
poteva, in riconoscimento dell'onor che da lui in Barletta riceveva, l'onorava.
Ma pure, al fatto dello albergo, non avendo compar Pietro se non un piccol
letticello, nel quale con la sua bella moglie dormiva, onorar nol poteva come
voleva, ma conveniva che, essendo in una sua stalletta allato all'asino suo
allogata la cavalla di donno Gianni, che egli allato a lei sopra alquanto di
paglia si giacesse. La donna, sappiendo l'onor che il prete al marito faceva a
Barletta, era più volte, quando il prete vi veniva, volutasene andare a dormire
con una sua vicina, che avea nome zita Carapresa di Giudice Leo, acciò che il
prete col marito dormisse nel letto, e avevalo molte volte al prete detto, ma
egli non aveva mai voluto; e tra l'altre volte, una le disse:
– Comar Gemmata, non ti
tribolar di me, ché io sto, bene, per ciò che quando mi piace io fo questa mia
cavalla diventare una bella zitella e stommi con essa, e poi quando voglio la
fo diventar cavalla, e perciò da lei non mi partirei.
La giovane si maravigliò
e credettelo, e al marito il disse, aggiugnendo:
– Se egli è così tuo
come tu di', ché non ti fai tu insegnare quello incantesimo, ché tu possa far
cavalla di me e fare i fatti tuoi con l'asino e con la cavalla, e guadagneremo
due cotanti, e quando a casa fossimo tornati, mi potresti rifar femina come io
sono.
Compar Pietro, che era
anzi grossetto uom che no, credette questo fatto e accordossi al consiglio, e
come meglio seppe, cominciò a sollicitar donno Gianni, che questa cosa gli
dovesse insegnare. Donno Gianni s'ingegnò assai di trarre costui di questa
sciocchezza, ma pur non potendo, disse:
– Ecco, poi che voi pur
volete, domattina ci leveremo, come noi sogliamo, anzi dì, e io vi mosterrò
come si fa. È il vero che quello che più è malagevole in questa cosa si è
l'appiccar la coda, come tu vedrai.
Compar Pietro e comar
Gemmata, appena avendo la notte dormito (con tanto desidero questo fatto
aspettavano), come vicino a dì fu, si levarono e chiamarono donno Gianni, il
quale, in camicia levatosi, venne nella cameretta di compar Pietro e disse:
– Io non so al mondo
persona a cui io questo facessi, se non a voi, e per ciò, poi che vi pur piace,
io il farò; vero è che far vi conviene quello che io vi dirò, se voi volete che
venga fatto.
Costoro dissero di far
ciò che egli dicesse. Per che donno Gianni, preso un lume, il pose in mano a
compar Pietro e dissegli:
– Guata ben come io
farò, e che tu tenghi bene a men te come io dirò, e guardati, quanto tu hai
caro di non guastare ogni cosa, che per cosa che tu oda o veggia, tu non dica
una parola sola; e priega Iddio che la coda s'appicchi bene.
Compar Pietro, preso il
lume, disse che ben lo farebbe. Appresso donno Gianni fece spogliare ignuda
nata comar Gemmata, e fecela stare con le mani e co' piedi in terra, a guisa
che stanno le cavalle, ammaestrandola similmente che di cosa che avvenisse
motto non facesse; e con le mani cominciandole a toccare il viso e la testa,
cominciò a dire: – Questa sia bella testa di cavalla –; e toccandole i capelli,
disse: – Questi sieno belli crini di cavalla –; e poi toccandole le braccia,
disse: – E queste sieno belle gambe e belli piedi di cavalla –; poi toccan dole
il petto e trovandolo sodo e tondo, risvegliandosi tale che non era chiamato e
su levandosi, disse: – E questo sia bel petto di cavalla –; e così fece alla
schiena e al ventre e alle groppe e alle coscie e alle gambe. E ultimamente,
niuna cosa restandogli a fare se non la coda, levata la camicia e preso il
piuolo col quale egli piantava gli uomini e prestamente nel solco per ciò fatto
messolo, disse: – E questa sia bella coda di cavalla. Compar Pietro, che
attentamente infino allora aveva ogni cosa guardata, veggendo questa ultima e
non parendonegli bene, disse:
– O donno Gianni, io non
vi voglio coda, io non vi voglio coda.
Era già l'umido
radicale, per lo quale tutte le piante s'appiccano, venuto, quando donno Gianni
tiratolo indietro, disse:
– Ohimè, compar Pietro,
che hai tu fatto? Non ti diss'io, che tu non facessi motto di cosa che tu
vedessi?
La cavalla era per esser
fatta, ma tu favellando hai guasto ogni cosa, né più ci ha modo di poterla
rifare oggimai. Compar Pietro disse:
– Bene sta, io non vi
voleva quella coda io. Perché non diciavate voi a me «Falla tu»? E anche
l'appiccavate troppo bassa.
Disse donno Gianni:
– Perché tu non
l'avresti per la prima volta saputa appiccar sì com'io.
La giovane, queste
parole udendo, levatasi in piè, di buona fè disse al marito:
– Deh, bestia che tu
se', perché hai tu guasti li tuoi fatti e' miei? Qual cavalla vedestu mai senza
coda? Se m'aiuti Iddio, tu se' povero, ma egli sarebbe ragione che tu fossi
molto più.
Non avendo adunque più
modo a dover fare della giovane cavalla, per le parole che dette avea compar
Pietro, ella dolente e malinconosa si rivestì, e compar Pietro con uno asino,
come usato era, attese a fare il suo mestiere antico, e con donno Gianni
insieme n'andò alla fiera di Bitonto, né mai più di tal servigio il richiese.
CONCLUSIONE
Quanto di questa novella
si ridesse, meglio dalle donne intesa che Dioneo non voleva, colei sel pensi
che ancora ne riderà. Ma, essendo le novelle finite e il sole già cominciando
ad intiepidire, e la reina, conoscendo il fine della sua signoria esser venuto,
in piè levatasi e trattasi la corona, quella in capo mise a Panfilo, il quale
solo di così fatto onore restava ad onorare; e sorridendo disse:
– Signor mio, gran
carico ti resta, sì come è l'avere il mio difetto e degli altri che il luogo
hanno tenuto che tu tieni, essendo tu l'ultimo, ad ammendare, di che Iddio ti
presti grazia, come a me l'ha prestata di farti re.
Panfilo, lietamente
l'onor ricevuto, rispose:
– La vostra virtù e
degli altri miei sudditi farà sì che io, come gli altri sono stati, sarò da
lodare –.
E secondo il costume de'
suoi predecessori col siniscalco delle cose opportune avendo disposto, alle
donne aspettanti si rivolse e disse:
– Innamorate donne, la
discrezion d'Emilia, nostra reina stata questo giorno, per dare alcun riposo
alle vostre forze, arbitrio vi diè di ragionare quel che più vi piacesse. Per
che, già riposati essendo, giudico che sia da ritornare alla legge usata; e per
ciò voglio che domane ciascuna di voi pensi di ragionare sopra questo, cioè: di
chi liberalmente ovvero magnificamente alcuna cosa operasse intorno a' fatti
d'amore o d'altra cosa. Queste cose e dicendo e udendo, senza dubbio niuno gli
animi vostri ben disposti a valorosamente adoperare accenderà; ché la vita
nostra, che altro che brieve esser non puote nel mortal corpo, si perpetuerà
nella laudevole fama; il che ciascuno che al ventre solamente, a guisa che le
bestie fanno, non serve, dee, non solamente desiderare, ma con ogni studio
cercare e operare.
La tema piacque alla
lieta brigata, la quale con licenzia del nuovo re tutta levatasi da sedere,
agli usati di letti si diede, ciascuno secondo quello a che più dal desidero
era tirato; e così fecero insino all'ora della cena. Alla quale con festa
venuti, e serviti diligentemente e con ordine, dopo la fine di quella si
levarono a' balli costumati, e forse mille canzonette più sollazzevoli di
parole che di canto maestrevoli, avendo cantate, comandò il re a Neifile che
una ne cantasse a suo nome. La quale, con voce chiara e lieta, così
piacevolmente e senza indugio incominciò:
Io mi son giovinetta, e
volentieri
m'allegro e canto en la
stagion novella,
merzé d'amore e de'
dolci pensieri.
Io vo pe' verdi prati
riguardando
i bianchi fiori e'
gialli e i vermigli
le rose in su le spine e
i bianchi gigli
e tutti quanti gli vo
somigliando
al viso di colui che me,
amando,
ha presa e terrà sempre,
come quella
ch'altro non ha in disio
ch'e'suoi piaceri.
De'quai quand'io ne
truovo alcun che sia,
al mio parer, ben simile
di lui,
il colgo e bacio e
parlomi con lui,
e com'io so, così
l'anima mia
tutta gli apro, e ciò
che 'l cor disia;
quindi con altri il
metto in ghirlandella
legato co' miei crin
biondi e leggieri.
E quel piacer, che di
natura il fiore
agli occhi porge, quel
simil mel dona
che s'io vedessi la
propia persona
che m'ha accesa del suo
dolce amore,
quel che mi faccia più
il suo odore
esprimer nol potrei con
la favella,
ma i sospir ne son
testimon veri.
Li quai non escon già
mai del mio petto,
come dell'altre donne,
aspri né gravi,
ma se ne vengon fuor
caldi e soavi,
e al mio amor sen vanno
nel cospetto,
il qual come gli sente,
a dar diletto
di sé a me si muove e
viene in quella
ch'i'son per dir: Deh
vien, ch'i'non disperi.
Assai fu e dal re e da
tutte le donne commendata la canzonetta di Neifile; appresso alla quale, per
ciò che già molta notte andata n'era, comandò il re che ciascuno per infino al
giorno s'andasse a riposare.
Finisce la nona giornata
del Decameron.
Incomincia la decima e
ultima giornata nella quale, sotto il reggimento di Panfilo, si ragiona di chi
liberalmente ovvero magnificamente alcuna cosa operasse intorno a fatti d'amore
o d'altra cosa.
GIORNATA DECIMA
INTRODUZIONE
Ancora eran vermigli
certi nuvoletti nell'occidente, essendo già quegli dello oriente nelle loro
estremità simili ad oro lucentissimi divenuti, per li solari raggi che molto
loro avvicinandosi li ferieno, quando Panfilo levatosi, le donne e' suoi
compagni fece chiamare. E venuti tutti, con loro insieme diliberato del dove
andar potessero al lor diletto, con lento passo si mise innanzi, accompagnato
da Filomena e da Fiammetta, tutti gli altri appresso seguendogli; e molte cose
della loro futura vita insieme parlando e dicendo e rispondendo, per lungo
spazio s'andaron diportando; e data una volta assai lunga, cominciando il sole
già troppo a riscaldare, al palagio si ritornarono. E quivi dintorno alla
chiara fonte fatti risciacquare i bicchieri, chi volle alquanto bevve, e poi
fra le piacevoli ombre del giardino infino ad ora di mangiare s'andarono
sollazzando. E poi ch'ebber mangiato e dormito, come far soleano, dove al re
piacque si ragunarono, e quivi il primo ragionamento comandò il re a Neifile,
la quale lietamente così cominciò.
NOVELLA PRIMA
Un cavaliere serve al re
di Spagna; pargli male esser guiderdonato, per che il re con esperienzia
certissima gli mostra non esser colpa di lui, ma della sua malvagia fortuna,
altamente donandogli poi.
Grandissima grazia,
onorabili donne, reputar mi debbo, che il nostro re me a tanta cosa, come è a
raccontar della magnificenzia, m'abbia preposta, la quale, come il sole è di
tutto il cielo bellezza e ornamento, è chiarezza e lume di ciascuna altra
virtù. Dironne adunque una novelletta, assai leggiadra al mio parere, la quale
rammemorarsi per certo non potrà esser se non utile.
Dovete adunque sapere
che, tra gli altri valorosi cavalieri che da gran tempo in qua sono stati nella
nostra città, fu un di quegli e forse il più da bene, messer Ruggieri de
Figiovanni; il quale essendo e ricco e di grande animo, e veggendo che,
considerata la qualità del vivere e de' costumi di Toscana, egli, in quella
dimorando, poco o niente potrebbe del suo valor dimostrare, prese per partito
di volere un tempo essere appresso ad Anfonso re d'Ispagna, la fama del valore
del quale quella di ciascun altro signor trapassava a que' tempi. E assai
onorevolmente in arme e in cavalli e in compagnia a lui se n'andò in Ispagna, e
graziosamente fu dal re ricevuto. Quivi adunque dimorando messer Ruggieri, e
splendidamente vivendo, e in fatti d'arme maravigliose cose faccendo, assai
tosto si fece per valoroso cognoscere. Ed essendovi già buon tempo dimorato, e
molto alle maniere del re riguardando, gli parve che esso ora ad uno e ora ad
un altro donasse castella e città e baronie assai poco discretamente, sì come
dandole a chi nol valea; e per ciò che a lui, che da quello che egli era si
teneva, niente era donato, estimò che molto ne diminuisse la fama sua; per che
di partirsi diliberò, e al re domandò commiato. Il re gliele concedette, e
donogli una delle miglior mule che mai si cavalcasse e la più bella, la quale
per lo lungo cammino che a fare avea, fu cara a messer Ruggieri.
Appresso questo, commise
il re ad un suo discreto famigliare che, per quella maniera che miglior gli
paresse, s'ingegnasse di cavalcare la prima giornata con messer Ruggieri, in
guisa che egli non paresse dal re mandato, e ogni cosa che egli dicesse di lui
raccogliesse, sì che ridire gliele sapesse, e l'altra mattina appresso gli
comandasse che egli indietro al re tornasse.
Il famigliare, stato attento,
come messer Ruggieri uscì della terra, così assai acconciamente con lui si fu
accompagnato, dandogli a vedere che egli veniva verso Italia. Cavalcando
adunque messer Ruggieri sopra la mula dal re datagli, e con costui d'una cosa e
d'altra parlando, essendo vicino ad ora di terza, disse:
– Io credo che sia ben
fatto che noi diamo stalla a queste bestie –; ed entrati in una stalla, tutte
l'altre, fuor che la mula, stallarono. Per che cavalcando avanti, stando sempre
il famiglio attento alle parole del cavaliere, vennero ad un fiume, e quivi
abbeverando le lor bestie, la mula stallò nel fiume. Il che veggendo messer
Ruggieri, disse:
– Deh! dolente ti faccia
Dio, bestia, ché tu se' fatta come il signore che a me ti donò.
Il famigliare questa
parola ricolse, e come che molte ne ricogliesse camminando tutto il dì seco,
niun'altra, se non in somma lode del re, dirne gli udì; per che la mattina
seguente, montati a cavallo e volendo cavalcare verso Toscana, il famigliare
gli fece il comandamento del re, per lo quale messer Ruggieri incontanente
tornò addietro. E avendo già il re saputo quello che egli della mula aveva
detto, fattolsi chiamar con lieto viso il ricevette, e domandollo perché lui
alla sua mula avesse assomigliato, ovvero la mula a lui.
Messer Ruggieri con
aperto viso gli disse:
– Signor mio, per ciò ve
l'assomigliai, perché, come voi donate dove non si conviene, e dove si
converrebbe non date, così ella dove si conveniva non stallò, e dove non si
convenia sì.
Allora disse il re:
– Messer Ruggieri, il
non avervi donato, come fatto ho a molti, li quali a comparazion di voi da
niente sono, non è avvenuto perché io non abbia voi valorosissimo cavalier
conosciuto e degno d'ogni gran dono, ma la vostra fortuna, che lasciato non
m'ha, in ciò ha peccato e non io; e che io dica vero, io il vi mosterrò
manifestamente.
A cui messer Ruggieri
rispose:
– Signor mio, io non mi
turbo di non aver dono ricevuto da voi, per ciò che io nol desiderava per esser
più ricco, ma del non aver voi in alcuna cosa testimonianza renduta alla mia
virtù; nondimeno io ho la vostra per buona scusa e per onesta, e son presto di
veder ciò che vi piacerà, quantunque io vi creda senza testimonio.
Menollo adunque il re in
una sua gran sala, dove, sì come egli davanti aveva ordinato, erano due gran
forzieri serrati, e in presenzia di molti gli disse:
– Messer Ruggieri,
nell'uno di questi forzieri è la mia corona, la verga reale e 'l pomo, e molte
mie belle cinture, fermagli, anella e ogn'altra cara gioia che io ho; l'altro è
pieno di terra: prendete adunque l'uno, e quello che preso avrete sì sia
vostro, e potrete vedere chi è stato verso il vostro valore ingrato, o io o la
vostra fortuna.
Messer Ruggieri, poscia
che vide così piacere al re, prese l'uno, il quale il re comandò che fosse
aperto, e trovossi esser quello che era pien di terra. Laonde il re ridendo
disse:
– Ben potete vedere,
messer Ruggieri, che quello è vero che io vi dico della fortuna; ma certo il
vostro valor merita che io m'opponga alle sue forze. Io so che voi non avete
animo di divenire spagnuolo, e per ciò non vi voglio qua donare né castel né
città, ma quel forziere che la fortuna vi tolse, quello in dispetto di lei
voglio che sia vostro, acciò che nelle vostre contrade nel possiate portare, e
della vostra virtù con la testimonianza de' miei doni meritamente gloriar vi
possiate co' vostri vicini.
Messer Ruggieri presolo,
e quelle grazie rendute al re che a tanto dono si confaceano, con esso lieto se
ne ritornò in Toscana.
NOVELLA SECONDA
Ghino di Tacco piglia
l'abate di Clignì e medicalo del male dello stomaco e poi il lascia quale,
tornato in corte di Roma, lui riconcilia con Bonifazio papa e fallo friere
dello Spedale.
Lodata era già stata da
tutti la magnificenzia del re Anfonso nel fiorentin cavaliere usata, quando il
re, al quale molto era piaciuta, ad Elissa impose che seguitasse, la quale
prestamente incominciò.
Dilicate donne, l'essere
stato un re magnifico, e l'avere la sua magnificenzia usata verso colui che
servito l'avea, non si può dire che laudevole e gran cosa non sia; ma che direm
noi se si racconterà un cherico aver mirabil magnificenzia usata verso persona
che, se inimicato l'avesse, non ne sarebbe stato biasimato da persona? Certo
non altro se non che quella del re fosse virtù, e quella del cherico miracolo,
con ciò sia cosa che essi tutti avarissimi troppo più che le femine sieno, e
d'ogni liberalità nimici a spada tratta. E quantunque ogn'uomo naturalmente
appetisca vendetta delle ricevute offese, i cherici, come si vede, quantunque
la pazienzia predichino e sommamente la remission delle offese commendino, più
focosamente che gli altri uomini a quella discorrono. La qual cosa, cioè come
un cherico magnifico fosse, nella mia seguente novella potrete conoscere
aperto. Ghino di Tacco, per la sua fierezza e per le sue ruberie uomo assai
famoso, essendo di Siena cacciato e nimico de' conti di Santa Fiore, ribellò
Radicofani alla Chiesa di Roma, e in quel dimorando, chiunque per le
circustanti parti passava rubar faceva a' suoi masnadieri. Ora, essendo
Bonifazio papa ottavo in Roma, venne a corte l'abate di Clignì, il quale si
crede essere un de' più ricchi prelati del mondo, e quivi guastatoglisi lo
stomaco, fu da' medici consigliato che egli andasse a' bagni di Siena, e
guerirebbe senza fallo. Per la qual cosa, concedutogliele il papa, senza curar
della fama di Ghino, con grandissima pompa d'arnesi e di some e di cavalli e di
famiglia entrò in cammino.
Ghino di Tacco, sentendo
la sua venuta, tese le reti, e, senza perderne un sol ragazzetto, l'abate con
tutta la sua famiglia e le sue cose in uno stretto luogo racchiuse. E questo
fatto, un de' suoi, il più saccente, bene accompagnato mandò allo abate; il
qual da parte di lui assai amorevolmente gli disse, che gli dovesse piacere d'andare
a smontare con esso Ghino al castello. Il che l'abate udendo, tutto furioso
rispose che egli non ne voleva far niente, sì come quegli che con Ghino niente
aveva a fare; ma che egli andrebbe avanti, e vorrebbe veder chi l'andar gli
vietasse.
Al quale l'ambasciadore
umilmente parlando disse:
– Messere, voi siete in
parte venuto dove, dalla forza di Dio in fuori, di niente ci si teme per noi, e
dove le scomunicazioni e gl'interdetti sono scomunicati tutti; e per ciò
piacciavi per lo migliore di compiacere a Ghino di questo.
Era già, mentre queste
parole erano, tutto il luogo di masnadieri circundato; per che l'abate, co'
suoi preso veggendosi, disdegnoso forte, con l'ambasciadore prese la via verso
il castello, e tutta la sua brigata e li suoi arnesi con lui; e smontato, come
Ghino volle, tutto solo fu messo in una cameretta d'un palagio assai oscura e
disagiata, e ogn'altro uomo secondo la sua qualità per lo castello fu assai
bene adagiato, e i cavalli e tutto l'arnese messo in salvo, senza alcuna cosa toccarne.
E questo fatto, se n'andò Ghino all'abate e dissegli:
– Messere, Ghino, di cui
voi siete oste, vi manda pregando che vi piaccia di significarli dove voi
andavate, e per qual cagione.
L'abate, che, come
savio, aveva l'altierezza giù posta, gli significò dove andasse e perché.
Ghino, udito questo, si partì, e pensossi di volerlo guerire senza bagno; e
faccendo nella cameretta sempre ardere un gran fuoco e ben guardarla, non tornò
a lui infino alla seguente mattina; e allora in una tovagliuola bianchissima
gli portò due fette di pane arrostito e un gran bicchiere di vernaccia da
Corniglia, di quella dello abate medesimo, e sì disse all'abate:
– Messer, quando Ghino
era più giovane, egli studiò in medicina, e dice che apparò niuna medicina al
mal dello stomaco esser miglior che quella che egli vi farà, della quale queste
cose che io vi reco sono il cominciamento; e per ciò prendetele e confortatevi.
L'abate, che maggior
fame aveva che voglia di motteggiare, ancora che con isdegno il facesse, si
mangiò il pane e bevve la vernaccia, e poi molte cose altiere disse e di molte
domandò e molte ne consigliò, e in ispezieltà chiese di poter veder Ghino.
Ghino, udendo quelle,
parte ne lasciò andar sì come vane, e ad alcuna assai cortesemente rispose,
affermando che come Ghino più tosto potesse il visiterebbe; e questo detto, da
lui si partì, né prima vi tornò che il seguente dì con altrettanto pane
arrostito e con altrettanta vernaccia; e così il tenne più giorni, tanto che
egli s'accorse l'abate aver mangiate fave secche, le quali egli studiosamente e
di nascoso portate v'aveva e lasciate. Per la qual cosa egli il domandò da
parte di Ghino come star gli pareva dello stomaco; al quale l'abate rispose:
– A me parrebbe star
bene, se io fossi fuori delle sue mani; e appresso questo, niun altro talento
ho maggiore che di mangiare, sì ben m'hanno le sue medicine guerito.
Ghino adunque avendogli
de' suoi arnesi medesimi e alla sua famiglia fatta acconciare una bella camera,
e fatto apparecchiare un gran convito, al quale con molti uomini del castello
fu tutta la famiglia dello abate, a lui se n'andò la mattina seguente e
dissegli:
– Messere, poi che voi
ben vi sentite, tempo è d'uscire d'infermeria –; e per la man presolo, nella
camera apparecchiatagli nel menò, e in quella co' suoi medesimi lasciatolo, a
far che il convito fosse magnifico attese. L'abate co' suoi alquanto si ricreò,
e qual fosse la sua vita stata narrò loro, dove essi in contrario tutti dissero
sé essere stati maravigliosamente onorati da Ghino. Ma l'ora del mangiar
venuta, l'abate e tutti gli altri ordinatamente e di buone vivande e di buoni
vini serviti furono, senza lasciarsi Ghino ancora all'abate conoscere. Ma poi
che l'abate alquanti dì in questa maniera fu dimorato, avendo Ghino in una sala
tutti li suoi arnesi fatti venire, e in una corte, che di sotto a quella era,
tutti i suoi cavalli in fino al più misero ronzino allo abate se n'andò e
domandollo come star gli pareva e se forte si credeva essere da cavalcare. A
cui l'abate rispose che forte era egli assai e dello stomaco ben guerito, e che
starebbe bene qualora fosse fuori delle mani di Ghino. Menò allora Ghino
l'abate nella sala dove erano i suoi arnesi e la sua famiglia tutta, e fattolo
ad una finestra accostare donde egli poteva tutti i suoi cavalli vedere, disse:
– Messer l'abate, voi
dovete sapere che l'esser gentile uomo e cacciato di casa sua e povero, e avere
molti e possenti nimici, hanno, per potere la sua vita e la sua nobiltà
difendere, e non malvagità d'animo, condotto Ghino di Tacco, il quale io sono,
ad essere rubatore delle strade e nimico della corte di Roma. Ma per ciò che
voi mi parete valente signore, avendovi io dello stomaco guerito, come io ho,
non intendo di trattarvi come un altro farei, a cui, quando nelle mie mani fosse
come voi siete, quella parte delle sue cose mi farei che mi paresse; ma io
intendo che voi a me, il mio bisogno considerato, quella parte delle vostre
cose facciate che voi medesimo volete. Elle sono interamente qui dinanzi da voi
tutte, e i vostri cavalli potete voi da cotesta finestra nella corte vedere; e
per ciò e la parte e il tutto come vi piace prendete, a da questa ora innanzi
sia e l'andare e lo stare nel piacer vostro.
Maravigliossi l'abate
che in un rubator di strada fosser parole sì libere, e piacendogli molto,
subitamente la sua ira e lo sdegno caduti, anzi in benivolenzia mutatisi, col
cuore amico di Ghino divenuto, il corse ad abbracciar dicendo:
– Io giuro a Dio che,
per dover guadagnar l'amistà d'uno uomo fatto come omai io giudico che tu sii,
io sofferrei di ricevere troppo maggiore ingiuria che quella che infino a qui
paruta m'è che tu m'abbi fatta. Maladetta sia la fortuna, la quale a sì
dannevole mestier ti costrigne!
E appresso questo, fatto
delle sue molte cose pochissime e opportune prendere, e de' cavalli similmente,
e l'altre lasciategli tutte, a Roma se ne tornò. Aveva il papa saputa la
presura dello abate e, come che molto gravata gli fosse, veggendolo il domandò
come i bagni fatto gli avesser pro. Al quale l'abate sorridendo rispose:
– Santo Padre, io trovai
più vicino che i bagni un valente medico, il quale ottimamente guerito m'ha; e
contogli il modo; di che il papa rise. Al quale l'abate, seguitando il suo
parlare, da magnifico animo mosso, domandò una grazia.
Il papa, credendo lui
dover domandare altro, liberamente offerse di far ciò che domandasse. Allora
l'abate disse:
– Santo Padre, quello
che io intendo di domandarvi è che voi rendiate la grazia vostra a Ghino di
Tacco mio medico, per ciò che tra gli altri uomini valorosi e da molto che io
accontai mai, egli è per certo un de' più; e quel male il quale egli fa, io il
reputo molto maggior peccato della fortuna che suo; la qual se voi con alcuna
cosa dandogli, donde egli possa secondo lo stato suo vivere, mutate, io non
dubito punto che in poco di tempo non ne paia a voi quello che a me ne pare.
Il papa, udendo questo,
sì come colui che di grande animo fu e vago de' valenti uomini, disse di farlo
volentieri, se da tanto fosse come diceva, e che egli il facesse sicuramente
venire.
Venne adunque Ghino
fidato, come allo abate piacque, a corte; né guari appresso del papa fu, che
egli il reputò valoroso, e riconciliatoselo gli donò una gran prioria di quelle
dello Spedale, di quello avendol fatto far cavaliere. La quale egli, amico e
servidore di santa Chiesa e dello abate di Clignì, tenne mentre visse.
NOVELLA TERZA
Mitridanes, invidioso
della cortesia di Natan, andando per ucciderlo, senza conoscerlo capita a lui,
e da lui stesso informato del modo, il truova in un boschetto, come ordinato
avea, il quale riconoscendolo si vergogna, e suo amico diviene.
Simil cosa a miracolo
per certo pareva a tutti avere udito, cioè che un cherico alcuna cosa
magnificamente avesse operata; ma riposandosene già il ragionare delle donne,
comandò il re a Filostrato che procedesse, il quale prestamente incominciò.
Nobili donne, grande fu
la magnificenzia del re di Spagna, e forse cosa più non udita giammai quella
dell'abate di Clignì; ma forse non meno maravigliosa cosa vi parrà l'udire che
uno, per liberalità usare ad un altro che il suo sangue, anzi il suo spirito,
disiderava, cautamente a dargliele si disponesse; e fatto l'avrebbe, se colui
prender l'avesse voluto, sì come io in una mia novelletta intendo di
dimostrarvi.
Certissima cosa è (se
fede si può dare alle parole d'alcuni genovesi e d'altri uomini che in quelle
contrade stati sono) che nelle parti del Cattaio fu già uno uomo di legnaggio
nobile e ricco senza comparazione, per nome chiamato Natan; il quale, avendo un
suo ricetto vicino ad una strada per la qual quasi di necessità passava
ciascuno che di Ponente verso Levante andar voleva o di Levante venire in
Ponente, e avendo l'animo grande e liberale e disideroso che fosse per opera
conosciuto, quivi, avendo molti maestri, fece in piccolo spazio di tempo fare
un de' più belli e de' maggiori e de' più ricchi palagi che mai fosse stato
veduto, e quello di tutte quelle cose che opportune erano a dovere gentili
uomini ricevere e onorare, fece ottimamente fornire; e avendo grande e bella
famiglia, con piacevolezza e con festa chiunque andava e veniva faceva ricevere
e onorare. E in tanto perseverò in questo laudevol costume, che già, non
solamente il Levante, ma quasi tutto il Ponente per fama il conoscea. Ed
essendo egli già d'anni pieno, né però del corteseggiar divenuto stanco,
avvenne che la sua fama agli orecchi pervenne d'un giovane chiamato Mitridanes,
di paese non guari al suo lontano; il quale, sentendosi non meno ricco che
Natan fosse, divenuto della sua fama e della sua virtù invidioso, seco propose
con maggior liberalità quella o annullare o offuscare. E fatto fare un palagio
simile a quello di Natan, cominciò a fare le più smisurate cortesie che mai
facesse alcuno altro, a chi andava o veniva per quindi, e senza dubbio in
piccol tempo assai divenne famoso.
Ora avvenne un giorno
che dimorando il giovane tutto g solo nella corte del suo palagio, una
feminella, entrata dentro per una delle porti del palagio, gli domandò limosina
ed ebbela; e ritornata per la seconda porta pure a lui, ancora l'ebbe, e così
successivamente insino alla duodecima; e la tredecima volta tornata, disse
Mitridanes:
– Buona femina, tu se'
assai sollicita a questo tuo dimandare –; e nondimeno le fece limosina.
La vecchierella, udita
questa parola, disse:
– O liberalità di Natan,
quanto sétu maravigliosa! ché per trentadue porti che ha il suo palagio, sì
come questo, entrata, e domandatagli limosina, mai da lui, che egli mostrasse,
riconosciuta non fui, e sempre l'ebbi; e qui non venuta ancora se non per
tredici, e riconosciuta e proverbiata sono stata –. E così dicendo, senza più
ritornarvi si dipartì.
Mitridanes, udite le
parole della vecchia, come colui che ciò che della fama di Natan udiva
diminuimento della sua estimava, in rabbiosa ira acceso, cominciò a dire:
– Ahi lasso a me! Quando
aggiugnerò io alla liberalità delle gran cose di Natan, non che io il trapassi,
come io cerco, quando nelle piccolissime io non gli mi posso avvicinare?
Veramente io mi fatico invano, se io di terra nol tolgo; la qual cosa, poscia
che la vecchiezza nol porta via, convien senza alcuno indugio che io faccia con
le mie mani.
E con questo impeto
levatosi, senza comunicare il suo consiglio ad alcuno, con poca compagnia
montato a cavallo, dopo il terzo dì dove Natan dimorava pervenne; e a' compagni
imposto che sembianti facessero di non esser con lui né di conoscerlo, e che
distanzia si procacciassero infino che da lui altro avessero, quivi adunque in
sul fare della sera pervenuto e solo rimaso, non guari lontano al bel palagio
trovò Natan tutto solo, il quale senza alcuno abito pomposo andava a suo
diporto; cui egli, non conoscendolo, domandò se insegnar gli sapesse dove Natan
dimorasse.
Natan lietamente
rispose:
– Figliuol mio, niuno è
in questa contrada che meglio di me cotesto ti sappia mostrare, e per ciò,
quando ti piaccia, io vi ti menerò.
Il giovane disse che
questo gli sarebbe a grado assai; ma che, dove esser potesse, egli non voleva
da Natan esser veduto né conosciuto. Al quale Natan disse:
– E cotesto ancora farò,
poi che ti piace.
Ismontato adunque
Mitridanes con Natan, che in piacevolissimi ragionamenti assai tosto il mise,
infino al suo bel palagio n'andò.
Quivi Natan fece ad un
de' suoi famigliari prendere il caval del giovane, e accostatoglisi agli
orecchi gl'impose che egli prestamente con tutti quegli della casa facesse che
niuno al giovane dicesse lui esser Natan; e così fu fatto.
Ma poi che nel palagio
furono, mise Mitridanes in una bellissima camera dove alcuno nol vedeva, se non
quegli che egli al suo servigio diputati avea, e sommamente faccendolo onorare,
esso stesso gli tenea compagnia. Col quale dimorando Mitridanes, ancora che in
reverenzia come padre l'avesse, pur lo domandò chi el fosse. Al quale Natan
rispose:
– Io sono un picciol
servidor di Natan, il quale dalla mia fanciullezza con lui mi sono invecchiato,
né mai ad altro che tu mi vegghi mi trasse, per che, come che ogni altro uomo
molto di lui si lodi, io me ne posso poco lodare io.
Queste parole porsero
alcuna speranza a Mitridanes di potere con più consiglio e con più salvezza
dare effetto al suo perverso intendimento. Il qual Natan assai cortesemente
domandò chi egli fosse, e qual bisogno per quindi il portasse, offerendo il suo
consiglio e il suo aiuto in ciò che per lui si potesse.
Mitridanes soprastette
alquanto al rispondere, e ultimamente diliberando di fidarsi di lui, con una
lunga circuizion di parole la sua fede richiese, e appresso il consiglio e
l'aiuto, e chi egli era e per che venuto e da che mosso, interamente gli
discoperse.
Natan, udendo il
ragionare e il fiero proponimento di Mitridanes, in sé tutto si cambiò, ma
senza troppo stare, con forte animo e con fermo viso gli rispose:
– Mitridanes, nobile
uomo fu il tuo padre, dal quale tu non vuogli degenerare, sì alta impresa
avendo fatta come hai, cioè d'essere liberale a tutti, e molto la invidia che
alla virtù di Natan porti commendo, per ciò che, se di così fatte fossero
assai, il mondo, che è miserissimo, tosto buon diverrebbe. Il tuo proponimento
mostratomi senza dubbio sarà occulto, al quale io più tosto util consiglio che
grande aiuto posso donare, il quale è questo. Tu puoi di quinci vedere forse un
mezzo miglio vicin di qui un boschetto, nel quale Natan quasi ogni mattina va
tutto solo, prendendo diporto per ben lungo spazio; quivi leggier cosa ti fia
il trovarlo e farne il tuo piacere. Il quale se tu uccidi, acciò che tu possa
senza impedimento a casa tua ritornare, non per quella via donde tu qui
venisti, ma per quella che tu vedi a sinistra uscir fuor del bosco n'andrai,
per ciò che, ancora che un poco più salvatica sia, ella è più vicina a casa tua
e per te più sicura.
Mitridanes, ricevuta la
informazione, e Natan da lui essendo partito, cautamente a' suoi compagni, che
similmente là entro erano, fece sentire dove aspettare il dovessero il dì
seguente. Ma, poi che il nuovo dì fu venuto, Natan, non avendo animo vario al
consiglio dato a Mitridanes, né quello in parte alcuna mutato, solo se n'andò
al boschetto a dover morire.
Mitridanes, levatosi e
preso il suo arco e la sua spada, ché altra arme non avea, e montato a cavallo,
n'andò al boschetto, e di lontano vide Natan tutto soletto andar passeggiando
per quello, e diliberato, avanti che l'assalisse, di volerlo vedere e d'udirlo
parlare, corse verso lui, e presolo per la benda la quale in capo avea, disse:
– Vegliardo, tu se'
morto.
Al quale niuna altra
cosa rispose Natan, se non:
– Dunque, l'ho io
meritato.
Mitridanes, udita la
voce e nel viso guardatolo, subitamente riconobbe lui esser colui che
benignamente l'avea ricevuto e familiarmente accompagnato e fedelmente
consigliato; per che di presente gli cadde il furore e la sua ira si convertì
in vergogna. Laonde egli, gittata via la spada, la qual già per ferirlo aveva
tirata fuori, da caval dismontato, piagnendo corse a' piè di Natan e disse:
– Manifestamente
conosco, carissimo padre, la vostra liberalità, riguardando con quanta cautela
venuto siate per darmi il vostro spirito, del quale io, niuna ragione avendo, a
voi medesimo disideroso mostra'mi; ma Iddio, più al mio dover sollicito che io
stesso, a quel punto che maggior bisogno è stato gli occhi m'ha aperto dello
'ntelletto, li quali misera invidia m'avea serrati. E per ciò quanto voi più
pronto stato siete a compiacermi, tanto più mi cognosco debito alla penitenzia
del mio errore; prendete adunque di me quella vendetta che convenevole estimate
al mio peccato.
Natan fece levar
Mitridanes in piede, e teneramente l'abbracciò e baciò, e gli disse:
– Figliuol mio, alla tua
impresa, chente che tu la vogli chiamare o malvagia o altrimenti, non bisogna
di domandar né di dar perdono, per ciò che non per odio la seguivi, ma per
potere essere tenuto migliore. Vivi adunque di me sicuro, e abbi di certo che
niuno altro uom vive, il quale te quant'io ami, avendo riguardo all'altezza
dello animo tuo, il quale non ad ammassar denari, come i miseri fanno, ma ad
ispender gli ammassati se' dato. Né ti vergognare d'avermi voluto uccidere per
divenir famoso, né credere che io me ne maravigli. I sommi imperadori e i
grandissimi re non hanno quasi con altra arte che d'uccidere, non uno uomo come
tu volevi fare, ma infiniti, e ardere paesi e abbattere le città, li loro regni
ampliati, e per conseguente la fama loro; per che, se tu per più farti famoso
me solo uccider volevi, non maravigliosa cosa né nuova facevi, ma molto usata.
Mitridanes, non
iscusando il suo disidero perverso, ma commendando l'onesta scusa da Natan
trovata ad esso, ragionando pervenne a dire sé oltre modo maravigliarsi come a
ciò si fosse Natan potuto disporre e a ciò dargli modo e consiglio. Al quale
Natan disse:
– Mitridanes, io non
voglio che tu del mio consiglio e della mia disposizione ti maravigli, per ciò
che, poi che io nel mio albitrio fui, e disposto a fare quello medesimo che tu
hai a fare impreso, niun fu che mai a casa mia capitasse, che io nol
contentasse a mio potere di ciò che da lui mi fu domandato. Venistivi tu vago
della mia vita, per che, sentendolati domandare, acciò che tu non fossi solo
colui che senza la sua dimanda di qui si partisse, prestamente diliberai di
donarlati, e acciò che tu l'avessi, quel consiglio ti diedi che io credetti che
buon ti fosse ad aver la mia e non perder la tua; e per ciò ancora ti dico e
priego che, s'ella ti piace, che tu la prenda e te medesimo ne sodisfaccia: io
non so come io la mi possa meglio spendere. Io l'ho adoperata già ottanta anni,
e ne' miei diletti e nelle mie consolazioni usata; e so che, seguendo il corso
della natura, come gli altri uomini fanno e generalmente tutte le cose, ella mi
può omai piccol tempo esser lasciata; per che io giudico molto meglio esser
quella donare, come io ho sempre i miei tesori donati e spesi, che tanto
volerla guardare, che ella mi sia contro a mia voglia tolta dalla natura.
Piccol dono è donare cento anni; quanto adunque è minor donarne sei o otto che
io a star ci abbia? Prendila adunque, se ella t'aggrada, io te ne priego; per
ciò che, mentre vivuto ci sono, niuno ho ancor trovato che disiderata l'abbia,
né so quando trovar me ne possa veruno, se tu non la prendi che la dimandi. E
se pure avvenisse che io ne dovessi alcun trovare, conosco che, quanto più la
guarderò, di minor pregio sarà; e però, anzi che ella divenga più vile,
prendila, io te ne priego.
Mitridanes,
vergognandosi forte, disse:
– Tolga Iddio che così
cara cosa come la vostra vita è, non che io, da voi dividendola, la prenda, ma
pur la disideri, come poco avanti faceva; alla quale non che io diminuissi gli
anni suoi, ma io l'aggiugnerei volentier de' miei, se io potessi.
A cui prestamente Natan
disse:
– E, se tu puoi,
vuo'nele tu aggiugnere, e farai a me fare verso di te quello che mai verso
alcuno altro non feci, cioè delle tue cose pigliare, che mai dell'altrui non
pigliai?
– Sì, – disse
subitamente Mitridanes.
– Adunque, – disse Natan
– farai tu come io ti dirò. Tu ti rimarrai, giovane come tu se', qui nella mia
casa, e avrai nome Natan, e io me n'andrò nella tua e farommi sempre chiamar
Mitridanes.
Allora Mitridanes
rispose:
– Se io sapessi così
bene operare come voi sapete e avete saputo, io prenderei senza troppa
diliberazione quello che m'offerete; ma per ciò che egli mi pare esser molto
certo che le mie opere sarebbon diminuimento della fama di Natan, e io non
intendo di guastare in altrui quello che in me io non acconciare nol prenderò.
Questi e molti altri
piacevoli ragionamenti stati tra Natan e Mitridanes, come a Natan piacque,
insieme verso il palagio se ne tornarono, dove Natan più giorni sommamente
onorò Mitridanes, e lui con ogni ingegno e saper confortò nel suo alto e grande
proponimento. E volendosi Mitridanes con la sua compagnia ritornare a casa,
avendogli Natan assai ben fatto conoscere che mai di liberalità nol potrebbe
avanzare, il licenziò.
NOVELLA QUARTA
Messer Gentil de'
Carisendi, venuto da Modona, trae della sepoltura una donna amata da lui,
sepellita per morta, la quale riconfortata partorisce un figliuol maschio, e
Messer Gentile lei e 'l figliuolo restituisce a Niccoluccio Caccianimico,
marito di lei.
Maravigliosa cosa parve
a tutti che alcuno del propio sangue fosse liberale; e veramente affermaron
Natan aver quella del re di Spagna e dello abate di Clignì trapassata. Ma poi
che assai e una cosa e altra detta ne fu, il re, verso Lauretta riguardando, le
dimostrò che egli desiderava che ella dicesse; per la qual cosa Lauretta
prestamente incominciò.
Giovani donne,
magnifiche cose e belle sono state le raccontate, né mi pare che alcuna parte
restata sia a noi che abbiamo a dire, per la qual novellando vagar possiamo, sì
son tutte dall'altezza delle magnificenzie raccontate occupate, se noi ne'
fatti d'amore già non mettessimo mano, li quali ad ogni materia prestano
abbondantissima copia di ragionare; e per ciò, sì per questo e sì per quello a
che la nostra età principalmente ci dee inducere, una magnificenzia da uno
innamorato fatta mi piace di raccontarvi, la quale, ogni cosa considerata, non
vi parrà per avventura minore che alcune delle mostrate, se quello è vero che i
tesori si donino, le inimicizie si dimentichino, e pongasi la propia vita,
l'onore e la fama, ch'è molto più, in mille pericoli, per potere la cosa amata
possedere.
Fu adunque in Bologna,
nobilissima città di Lombardia, un cavaliere per virtù e per nobiltà di sangue
ragguardevole assai, il qual fu chiamato messer Gentil Carisendi, il qual
giovane d'una gentil donna chiamata madonna Catalina, moglie d'un Niccoluccio
Caccianimico, s'innamorò; e perché male dello amor della donna era, quasi
disperatosene, podestà chiamato di Modona, v'andò.
In questo tempo, non
essendo Niccoluccio a Bologna, e la donna ad una sua possessione, forse tre
miglia alla terra vicina, essendosi, per ciò che gravida era, andata a stare,
avvenne che subitamente un fiero accidente la soprapprese, il quale fu tale e
di tanta forza, che in lei spense ogni segno di vita, e per ciò eziandio da
alcun medico morta giudicata fu; e per ciò che le sue più congiunte parenti
dicevan sé avere avuto da lei non essere ancora di tanto tempo gravida, che
perfetta potesse essere la creatura, senza altro impaccio darsi, quale ella
era, in uno avello d'una chiesa ivi vicina dopo molto pianto la sepellirono.
La qual cosa subitamente
da un suo amico fu significata a messer Gentile, il qual di ciò, ancora che
della sua grazia fosse poverissimo, si dolfe molto, ultimamente seco dicendo:
– Ecco, madonna
Catalina, tu se' morta; io, mentre che vivesti, mai un solo sguardo da te aver
non potei; per che, ora che difender non ti potrai, convien per certo che, così
morta come tu se' io alcun bacio li tolga.
E questo detto, essendo
già notte, dato ordine come la sua andata occulta fosse, con un suo famigliare
montato a cavallo, senza ristare colà pervenne dove sepellita era la donna, e
aperta la sepoltura, in quella diligentemente entrò, e postolesi a giacere
allato, il suo viso a quello della donna accostò, e più volte con molte lagrime
piagnendo il baciò. Ma, sì come noi veggiamo l'appetito degli uomini a niun
termine star contento, ma sempre più avanti desiderare, e spezialmente quello
degli amanti, avendo costui seco diliberato di più non starvi, disse:
– Deh! perché non le
tocco io, poi che io son qui, un poco il petto? Io non la debbo mai più
toccare, né mai più la toccai.
Vinto adunque da questo
appetito, le mise la mano in seno, e per alquanto spazio tenutalavi, gli parve
sentire alcuna cosa battere il cuore a costei. Il quale, poi che ogni paura
ebbe cacciata da sé, con più sentimento cercando, trovò costei per certo non
esser morta, quantunque poca e debole estimasse la vita; per che soavemente
quanto più potè, dal suo famigliare aiutato, del monimento la trasse, e davanti
al caval messalasi, segretamente in casa sua la condusse in Bologna.
Era quivi la madre di
lui, valorosa e savia donna, la qual, poscia che dal figliuolo ebbe
distesamente ogni cosa udita, da pietà mossa, chetamente con grandissimi fuochi
e con alcun bagno in costei rivocò la smarrita vita. La quale come rivenne,
così la donna gittò un gran sospiro e disse:
– Ohimè! ora ove sono
io?
A cui la valente donna
rispose:
– Confortati, tu se' in
buon luogo.
Costei, in sé tornata e
dintorno guardandosi, non bene conoscendo dove ella fosse e veggendosi davanti
messer Gentile, piena di maraviglia la madre di lui pregò che le dicesse in che
guisa ella quivi venuta fosse; alla quale messer Gentile ordinatamente contò
ogni cosa. Di che ella, dolendosi, dopo alquanto quelle grazie gli rendè che
ella potè e appresso il pregò per quello amore il quale egli l'aveva già
portato, e per cortesia di lui, che in casa sua ella da lui non ricevesse cosa
che fosse meno che onor di lei e del suo marito, e come il dì venuto fosse,
alla sua propria casa la lasciasse tornare. Alla quale messer Gentile rispose:
– Madonna, chente che il
mio disiderio si sia stato ne' tempi passati, io non intendo al presente né mai
per innanzi (poi che Iddio m'ha questa grazia conceduta che da morte a vita mi
v'ha renduta, essendone cagione l'amore che io v'ho per addietro portato) di
trattarvi né qui né altrove, se non come cara sorella; ma questo mio beneficio,
operato in voi questa notte, merita alcun guiderdone; e per ciò io voglio che
voi non mi neghiate una grazia la quale io vi domanderò.
Al quale la donna
benignamente rispose sé essere apparecchiata, solo che ella potesse, e onesta
fosse. Messer Gentile allora disse:
– Madonna, ciascun
vostro parente e ogni bolognese credono e hanno per certo voi esser morta, per
che niuna persona è la quale più a casa v'aspetti; e per ciò io voglio di
grazia da voi, che vi debbia piacere di dimorarvi tacitamente qui con mia madre
infino a tanto che io da Modona torni, che sarà tosto. E la cagione per che io
questo vi cheggio è per ciò che io intendo di voi, in presenzia de' migliori
cittadini di questa terra, fare un caro e uno solenne dono al vostro marito.
La donna, conoscendosi
al cavaliere obbligata, e che la domanda era onesta, quantunque molto
disiderasse di rallegrare della sua vita i suoi parenti, si dispose a far
quello che messer Gentile domandava; e così sopra la sua fede gli promise.
E appena erano le parole
della sua risposta finite, che ella sentì il tempo del partorire esser venuto;
per che, teneramente dalla madre di messer Gentile aiutata, non molto stante
partorì un bel figliuol maschio; la qual cosa in molti doppi moltiplicò la
letizia di messer Gentile e di lei. Messer Gentile ordinò che le cose opportune
tutte vi fossero, e che così fosse servita costei come se sua propia moglie
fosse, e a Modona segretamente se ne tornò. Quivi fornito il tempo del suo
uficio e a Bologna dovendosene tornare, ordinò, quella mattina che in Bologna
entrar doveva, di molti e gentili uomini di Bologna, tra' quali fu Niccoluccio
Caccianimico, un grande e bel convito in casa sua; e tornato e ismontato e con
lor trovatosi, avendo similmente la donna ritrovata più bella e più sana che
mai, e il suo figlioletto star bene, con allegrezza incomparabile i suoi
forestieri mise a tavola, e quegli fece di più vivande magnificamente servire.
Ed essendo già vicino alla sua fine il mangiare, avendo egli prima alla donna
detto quello che di fare intendeva e con lei ordinato il modo che dovesse
tenere, così cominciò a parlare:
– Signori, io mi ricordo
avere alcuna volta inteso in Persia essere, secondo il mio giudicio, una
piacevole usanza, la quale è che, quando alcuno vuole sommamente onorare il suo
amico, egli lo 'nvita a casa sua e quivi gli mostra quella cosa, o moglie o
amica o figliuola o che che si sia, la quale egli ha più cara, affermando che,
se egli potesse, così come questo gli mostra, molto più volentieri gli
mosterria il cuor suo; la quale io intendo di volere osservare in Bologna. Voi,
la vostra mercé, avete onorato il mio convito, e io intendo onorar voi alla
persesca, mostrandovi la più cara cosa che io abbia nel mondo o che io debbia
aver mai. Ma prima che io faccia questo, vi priego mi diciate quello che
sentite d'un dubbio il quale io vi moverò. Egli è alcuna persona la quale ha in
casa un suo buono e fedelissimo servidore, il quale inferma gravemente; questo
cotale, senza attendere il fine del servo infermo, il fa portare nel mezzo
della strada, né più ha cura di lui; viene uno strano, è mosso a compassione
dello 'nfermo, e sel reca a casa, e con gran sollicitudine e con ispesa il
torna nella prima sanità. Vorrei io ora sapere se, tenendolsi e usando i suoi
servigi, il primo signore si può a buona equità dolere o ramaricare del
secondo, se egli, raddomandandolo, rendere nol volesse.
I gentili uomini, fra sé
avuti vari ragionamenti, e tutti in una sentenzia concorrendo, a Niccoluccio
Caccianimico, per ciò che bello e ornato favellatore era, commisero la
risposta. Costui, commendata primieramente l'usanza di Persia, disse sé con gli
altri insieme essere in questa oppinione, che il primo signore niuna ragione
avesse più nel suo servidore, poi che in sì fatto caso non solamente
abbandonato, ma gittato l'avea; e che, per li benefici del secondo usati,
giustamente parea di lui il servidore divenuto, per che, tenendolo, niuna noia,
niuna forza, niuna ingiuria faceva al primiero. Gli altri tutti che alle tavole
erano, ché v'avea di valenti uomini, tutti insieme dissono sé tener quello che
da Niccoluccio era stato risposto.
Il cavaliere, contento
di tal risposta e che Niccoluccio l'avesse fatta, affermò sé essere in quella
oppinione altressì, e appresso disse:
– Tempo è omai che io
secondo la promessa v'onori. – E chiamati due de' suoi famigliari, gli mandò
alla donna, la quale egli egregiamente avea fatta vestire e ornare, e mandolla
pregando che le dovesse piacere di venire a far lieti i gentili uomini della
sua presenzia. La qual, preso in braccio il figliolin suo bellissimo, da' due
famigliari accompagnata, nella sala venne, e come al cavalier piacque, appresso
ad un valente uomo si pose a sedere; ed egli disse:
– Signori, questa è
quella cosa che io ho più cara e intendo d'avere, che alcun'altra; guardate se
egli vi pare che io abbia ragione.
I gentili uomini,
onoratola e commendatola molto, e al cavaliere affermato che cara la doveva
avere, la cominciarono a riguardare; e assai ve n'eran che lei avrebbon detto
colei chi ella era, se lei per morta non avessero avuta. Ma sopra tutti la
riguardava Niccoluccio, il quale, essendosi alquanto partito il cavaliere, sì
come colui che ardeva di sapere chi ella fosse, non potendosene tenere, la
domandò se bolognese fosse o forestiera.
La donna, sentendosi al
suo marito domandare, con fatica di risponder si tenne; ma pur, per servare
l'ordine postole, tacque. Alcun altro la domandò se suo era quel figlioletto, e
alcuno se moglie fosse di messer Gentile, o in altra maniera sua parente; a'
quali niuna risposta fece. Ma, sopravvegnendo messer Gentile, disse alcun de'
suoi forestieri:
– Messere, bella cosa è
questa vostra, ma ella ne par mutola; è ella così?
– Signori, – disse
messer Gentile – il non avere ella al presente parlato è non piccolo argomento
della sua virtù.
– Diteci adunque voi, –
seguitò colui – chi ella è.
Disse il cavaliere:
– Questo farò io
volentieri, sol che voi mi promettiate, per cosa che io dica, niuno doversi
muovere del luogo suo fino a tanto che io non ho la mia novella finita. Al
quale avendol promesso ciascuno, ed essendo già levate le tavole, messer
Gentile allato alla donna sedendo, disse:
– Signori, questa donna
è quel leale e fedel servo, del quale io poco avanti vi fe' la dimanda; la
quale da' suoi poco avuta cara, e così come vile e più non utile nel mezzo
della strada gittata, da me fu ricolta, e con la mia sollicitudine e opera
delle mani la trassi alla morte, e Iddio, alla mia buona affezion riguardando,
di corpo spaventevole così bella divenir me l'ha fatta. Ma acciò che voi più
apertamente intendiate come questo avvenuto mi sia, brievemente vel farò
chiaro.
E cominciatosi dal suo
innamorarsi di lei, ciò che avvenuto era infino allora distintamente narrò con
gran maraviglia degli ascoltanti, e poi soggiunse:
– Per le quali cose, se
mutata non avete sentenzia da poco in qua, e Niccoluccio spezialmente, questa
donna meritamente è mia, né alcuno con giusto titolo me la può raddomandare.
A questo niun rispose,
anzi tutti attendevan quello che egli più avanti dovesse dire. Niccoluccio e
degli altri che v'erano e la donna, di compassion lagrimavano; ma messer
Gentile, levatosi in piè e preso nelle sue braccia il picciol fanciullino e la
donna per la mano, e andato verso Niccoluccio, disse:
– Leva su, compare, io
non ti rendo tua mogliere, la quale i tuoi parenti e suoi gittarono via; ma io
ti voglio donare questa donna mia comare con questo suo figlioletto, il quale
io son certo che fu da te generato, e il quale io a battesimo tenni e nomina'lo
Gentile; e priegoti che, perch'ella sia nella mia casa vicin di tre mesi stata,
che ella non ti sia men cara; ché io ti giuro per quello Iddio, che forse già
di lei innamorar mi fece acciò che il mio amore fosse, sì come stato è, cagion
della sua salute, che ella mai o col padre o con la madre o con teco più
onestamente non visse, che ella appresso di mia madre ha fatto nella mia casa.
E questo detto, si
rivolse alla donna e disse:
– Madonna, omai da ogni
promessa fatami io v'assolvo, e libera vi lascio di Niccoluccio –; e rimessa la
donna e 'l fanciul nelle braccia di Niccoluccio, si tornò a sedere. Niccoluccio
disiderosamente ricevette la sua donna e 'l figliuolo, tanto più lieto quanto
più n'era di speranza lontano, e, come meglio potè e seppe, ringraziò il
cavaliere; e gli altri che tutti di compassion lagrimavano, di questo il
commendaron molto, e commendato fu da chiunque l'udì.
La donna con
maravigliosa festa fu in casa sua ricevuta, e quasi risuscitata con ammirazione
fu più tempo guatata da' bolognesi; e messer Gentile sempre amico visse di
Niccoluccio e de' suoi parenti e di quei della donna.
Che adunque qui, benigne
donne, direte? Estimerete l'aver donato un re lo scettro e la corona, e uno
abate senza suo costo aver riconciliato un malfattore al papa, o un vecchio
porgere la sua gola al coltello del nimico, essere stato da agguagliare al
fatto di messer Gentile? Il quale giovane e ardente, e giusto titolo parendogli
avere in ciò che la traccutaggine altrui aveva gittato via ed egli per la sua
buona fortuna aveva ricolto, non solo temperò onestamente il suo fuoco, ma
liberalmente quello che egli soleva con tutto il pensier disiderare e cercar di
rubare, avendolo, restituì. Per certo niuna delle già dette a questa mi par
simigliante.
NOVELLA QUINTA
Madonna Dianora domanda
a messer Ansaldo un giardino di gennaio bello come di maggio. Messer Ansaldo
con l'obligarsi ad uno nigromante gliele dà. Il marito le concede che ella
faccia il piacere di messer Ansaldo, il quale, udita la liberalità del marito,
l'assolve della promessa, e il nigromante, senza volere alcuna cosa del suo,
assolve messer Ansaldo Per ciascuno della lieta brigata era già stato messer
Gentile con somme lode tolto infino al cielo, quando il re impose ad Emilia che
seguisse, la qual baldanzosamente, quasi di dire disiderosa, così cominciò.
Morbide donne, niun con
ragione dirà messer Gentile non aver magnificamente operato, ma il voler dire
che più non si possa, il più potersi non fia forse malagevole a mostrarsi; il
che io avviso in una mia novelletta di raccontarvi. In Frioli, paese,
quantunque freddo, lieto di belle montagne, di più fiumi e di chiare fontane, è
una terra chiamata Udine, nella quale fu già una bella e nobile donna, chiamata
madonna Dianora, e moglie d'un gran ricco uomo nominato Gilberto, assai
piacevole e di buona aria. E meritò questa donna per lo suo valore d'essere
amata sommamente da un nobile e gran barone, il quale aveva nome messer Ansaldo
Gradense, uomo d'alto affare, e per arme e per cortesia conosciuto per tutto.
Il quale, ferventemente amandola e ogni cosa faccendo che per lui si poteva per
essere amato da lei, e a ciò spesso per sue ambasciate sollicitandola, invano
si faticava. Ed essendo alla donna gravi le sollicitazioni del cavaliere, e
veggendo che, per negare ella ogni cosa da lui domandatole, esso per ciò
d'amarla né di sollicitarla si rimaneva, con una nuova e al suo giudicio
impossibil domanda si pensò di volerlosi torre da dosso. E ad una femina che a
lei da parte di lui spesse volte veniva, disse un dì così:
– Buona femina, tu m'hai
molte volte affermato che messer Ansaldo sopra tutte le cose m'ama e
maravigliosi doni m'hai da sua parte proferti, li quali voglio che si rimangano
a lui, per ciò che per quegli mai ad amar lui né a compiacergli mi recherei; e
se io potessi esser certa che egli cotanto m'amasse quanto tu di', senza fallo
io mi recherei ad amar lui e a far quello che egli volesse; e per ciò, dove di
ciò mi volesse far fede con quello che io domanderò, io sarei a' suoi
comandamenti presta.
Disse la buona femina:
– Che è quello, madonna,
che voi disiderate che el faccia?
Rispose la donna:
– Quello che io disidero
è questo. Io voglio del mese di gennaio che viene, appresso di questa terra un
giardino pieno di verdi erbe, di fiori e di fronzuti albori, non altrimenti
fatto che se di maggio fosse; il quale dove egli non faccia, né te né altri mi
mandi mai più; per ciò che, se più mi stimolasse, come io infino a qui del
tutto al mio marito e a' miei parenti tenuto ho nascoso, così dolendomene loro,
di levarlomi da dosso m'ingegnerei.
Il cavaliere, udita la
domanda e la proferta della sua donna, quantunque grave cosa e quasi
impossibile a dover fare gli paresse e conoscesse per niun'altra cosa ciò
essere dalla donna addomandato, se non per torlo dalla sua speranza, pur seco
propose di voler tentare quantunque fare se ne potesse; e in più parti per lo
mondo mandò cercando se in ciò alcun si trovasse che aiuto o consiglio gli
desse; e vennegli uno alle mani il quale, dove ben salariato fosse, per arte
nigromantica profereva di farlo. Col quale messer Ansaldo per grandissima
quantità di moneta convenutosi, lieto aspettò il tempo postogli. Il qual
venuto, essendo i freddi grandissimi e ogni cosa piena di neve e di ghiaccio,
il valente uomo in un bellissimo prato vicino alla città con sue arti fece sì,
la notte alla quale il calendi gennaio seguitava, che la mattina apparve, secondo
che color che 'l vedevan testimoniavano, un de' più be'giardini che mai per
alcun fosse stato veduto, con erbe e con alberi e con frutti d'ogni maniera. Il
quale come messere Ansaldo lietissimo ebbe veduto, fatto cogliere de' più
be'frutti e de più be'fior che v'erano, quegli occultamente fe' presentare alla
sua donna, e lei invitare a vedere il giardino da lei addomandato, acciò che
per quel potesse lui amarla conoscere, e ricordarsi della promission fattagli e
con saramento fermata, e come leal donna poi procurar d'attenergliele. La
donna, veduti i fiori e' frutti, e già da molti del maraviglioso giardino
avendo udito dire, s'incominciò a pentere della sua promessa. Ma, con tutto il
pentimento, sì come vaga di veder cose nuove, con molte altre donne della città
andò il giardino a vedere, e non senza maraviglia commendatolo assai, più che
altra femina dolente a casa se ne tornò, a quel pensando a che per quello era
obbligata. E fu il dolore tale, che non potendol ben dentro nascondere,
convenne che, di fuori apparendo, il marito di lei se n'accorgesse, e volle del
tutto da lei di quello saper la cagione. La donna per vergogna il tacque molto;
ultimamente, costretta, ordinatamente gli aperse ogni cosa.
Gilberto primieramente,
ciò udendo, si turbò forte; poi, considerata la pura ìntenzion della donna, con
miglior consiglio, cacciata via l'ira. disse:
– Dianora, egli non è
atto di savia né d'onesta donna d'ascoltare alcuna ambasciata delle così fatte
né di pattovire sotto alcuna condizione con alcuno la sua castità. Le parole
per gli orecchi dal cuore ricevute hanno maggior forza che molti non stimano, e
quasi ogni cosa diviene agli amanti possibile. Male adunque facesti prima ad
ascoltare e poscia a pattovire; ma per ciò che io conosco la purità dello animo
tuo, per solverti dal legame della promessa, quello ti concederò che forse
alcuno altro non farebbe; inducendomi ancora la paura del nigromante, al qual
forse messer Ansaldo, se tu il beffassi, far ci farebbe dolenti. Voglio io che
tu a lui vada, e, se per modo alcun puoi, t'ingegni di far che, servata la tua
onestà, tu sii da questa promessa disciolta; dove altramenti non si potesse,
per questa volta il corpo, ma non l'animo, gli concedi.
La donna, udendo il
marito, piagneva e negava sé cotal grazia voler da lui. A Gilberto, quantunque
la donna il negasse molto, piacque che così fosse. Per che, venuta la seguente
mattina, in su l'aurora, senza troppo ornarsi, con due suoi famigliari innanzi
e con una cameriera appresso, n'andò la donna a casa messere Ansaldo. Il quale,
udendo la sua donna a lui esser venuta, si maravigliò forte, e levatosi e fatto
il nigromante chiamare, gli disse:
– Io voglio che tu
vegghi quanto di bene la tua arte m'ha fatto acquistare –. E incontro andatile,
senza alcun disordinato appetito seguire, con reverenza onestamente la
ricevette, e in una bella camera ad un gran fuoco se n'entrar tutti; e fatto
lei porre a seder, disse:
– Madonna, io vi priego,
se il lungo amore il quale io v'ho portato merita alcun guiderdone, che non vi
sia noia d'aprirmi la vera cagione che qui a così fatta ora v'ha fatta venire e
con cotal compagnia.
La donna, vergognosa e
quasi con le lagrime sopra gli occhi, rispose:
– Messere, né amor che
io vi porti né promessa fede mi menan qui, ma il comandamento del mio marito;
il quale, avuto più rispetto alle fatiche del vostro disordinato amore che al
suo e mio onore, mi ci ha fatta venire; e per comandamento di lui disposta sono
per questa volta ad ogni vostro piacere.
Messer Ansaldo, se prima
si maravigliava, udendo la donna molto più s'incominciò a maravigliare; e dalla
liberalità di Gilberto commosso, il suo fervore in compassione cominciò a
cambiare, e disse:
– Madonna, unque a Dio
non piaccia, poscia che così è come voi dite, che io sia guastatore dello onore
di chi ha compassione al mio amore; e per ciò l'esser qui sarà, quanto vi
piacerà, non altramenti che se mia sorella foste, e, quando a grado vi sarà,
liberamente vi potrete partire, sì veramente che voi al vostro marito di tanta
cortesia, quanta la sua è stata, quelle grazie renderete che convenevoli
crederete, me sempre per lo tempo avvenire avendo per fratello e per servidore.
La donna, queste parole
udendo, più lieta che mai, disse:
– Niuna cosa mi potè mai
far credere, avendo riguardo a' vostri costumi, che altro mi dovesse seguir
della mia venuta che quello che io veggio che voi ne fate, di che io vi sarò
sempre obbligata –; e preso commiato, onorevolmente accompagnata si tornò a
Gilberto e raccontogli ciò che avvenuto era; di che strettissima e leale amistà
lui e messer Ansaldo congiunse.
Il nigromante, al quale
messer Ansaldo di dare il promesso premio s'apparecchiava, veduta la liberalità
di Gilberto verso messer Ansaldo e quella di messer Ansaldo verso la donna,
disse:
– Già Dio non voglia,
poi che io ho veduto Gilberto liberale del suo onore e voi del vostro amore,
che io similmente non sia liberale del mio guiderdone; e per ciò, conoscendo
quello a voi star bene, intendo che vostro sia.
Il cavaliere si vergognò
e ingegnossi a suo potere di fargli o tutto o parte prendere; ma poi che in
vano si faticava, avendo il nigromante dopo il terzo dì tolto via il suo
giardino, e piacendogli di partirsi, il comandò a Dio; e spento del cuore il
concupiscibile amore verso la donna, acceso d'onesta carità si rimase.
Che direm qui, amorevoli
donne? Preporremo la quasi morta donna e il già rattiepidito amore per la
spossata speranza, a questa liberalità di messer Ansaldo, più ferventemente che
mai amando ancora e quasi da più speranza acceso e nelle sue mani tenente la
preda tanto seguita? Sciocca cosa mi parrebbe a dover creder che quella
liberalità a questa comparar si potesse.
NOVELLA SESTA
Il re Carlo vecchio,
vittorioso, d'una giovinetta innamoratosi, vergognandosi del suo folle
pensiero, lei e una sua sorella onorevolmente marita.
Chi potrebbe pienamente
raccontare i vari ragionamenti tra le donne stati, qual maggior liberalità
usasse o Gilberto o messer Ansaldo o il nigromante, intorno a' fatti di madonna
Dianora? troppo sarebbe lungo. Ma poi che il re alquanto disputare ebbe
conceduto, alla Fiammetta guardando, comandò che novellando traesse lor di
quistione; la quale, niuno indugio preso, incominciò. Splendide donne, io fui
sempre in oppinione che nelle brigate, come la nostra è, si dovesse sì
largamente ragionare che la troppa strettezza della intenzion delle cose dette
non fosse altrui materia di disputare. Il che molto più si conviene nelle
scuole tra gli studianti che tra noi, le quali appena alla rocca e al fuso
bastiamo. E per ciò io, che in animo alcuna cosa dubbiosa forse avea,
veggendovi per le già dette alla mischia, quella lascerò stare, e una ne dirò,
non mica d'uomo di poco affare, ma d'un valoroso re, quello che egli
cavallerescamente operasse, in nulla mancando il suo onore.
Ciascuna di voi molte
volte può avere udito ricordare il re Carlo vecchio, ovver primo, per la cui
magnifica impresa e poi per la gloriosa vittoria avuta del re Manfredi furon di
Firenze i ghibellin cacciati e ritornaronvi i guelfi. Per la qual cosa un
cavalier, chiamato messer Neri degli Uberti, con tutta la sua famiglia e con
molti denari uscendone, non si volle altrove che sotto le braccia del re Carlo
riducere; e per essere in solitario luogo e quivi finire in riposo la vita sua,
a Castello a mare di Stabia se n'andò; e ivi forse una balestrata rimosso
dall'altre abita zioni della terra, tra ulivi e nocciuoli e castagni, de' quali
la contrada è abondevole, comperò una possessione, sopra la quale un bel
casamento e agiato fece, e allato a quello un dilettevole giardino, nel mezzo
del quale, a nostro modo, avendo d'acqua viva copia, fece un bel vivaio e
chiaro, e quello di molto pesce riempiè leggiermente. E a niun'altra cosa
attendendo che a fare ogni dì più bello il suo giardino, avvenne che il re
Carlo, nel tempo caldo, per riposarsi alquanto, a Castello a mar se n'andò;
dove udita la bellezza del giardino di messer Neri, disiderò di vederlo. E
avendo udito di cui era, pensò che, per ciò che di parte avversa alla sua era
il cavaliere, più familiarmente con lui si volesse fare, e mandogli a dire che
con quattro compagni chetamente la seguente sera con lui voleva cenare nel suo
giardino.
Il che a messer Neri fu
molto caro, e magnificamente avendo apparecchiato e con la sua famiglia avendo
ordinato ciò che far si dovesse, come più lietamente potè e seppe, il re nel
suo bel giardino ricevette. Il qual, poi che il giardin tutto e la casa di
messer Neri ebbe veduta e commendata, essendo le tavole messe allato al vivaio,
ad una di quelle, lavato, si mise a sedere, e al conte Guido di Monforte, che
l'un de' compagni era, comandò che dall'un de' lati di lui sedesse, e messer
Neri dall'altro, e ad altri tre, che con lui eran venuti, comandò che
servissero secondo l'ordine posto da messer Neri.
Le vivande vi vennero
dilicate, e i vini vi furono ottimi e preziosi, e l'ordine bello e laudevole
molto senza alcun sentore e senza noia; il che il re commendò molto. E
mangiando egli lietamente, e del luogo solitario giovandogli, e nel giardino
entrarono due giovinette d'età forse di quattordici anni l'una, bionde come
fila d'oro, e co' capelli tutti inanellati e sopr'essi sciolti una leggiera
ghirlandetta di provinca, e nelli lor visi più tosto agnoli parevan che altra
cosa, tanto gli avevan dilicati e belli; ed eran vestite d'un vestimento di
lino sottilissimo e bianco come neve in su le carni, il quale dalla cintura in
su era strettissimo e da indi giù largo a guisa d'un padiglione e lungo infino
a' piedi. E quella che dinanzi veniva recava in su le spalle un paio di
vangaiole, le quali con la sinistra man tenea, e nella destra aveva un baston
lungo. L'altra che veniva appresso aveva sopra la spalla sinistra una padella,
e sotto quel braccio medesimo un fascetto di legne, e nella mano un treppiede,
e nell'altra mano uno utel d'olio e una facellina accesa. Le quali il re
vedendo si maravigliò, e sospeso attese quello che questo volesse dire.
Le giovinette, venute
innanzi onestamente e vergognose, fecero la reverenzia al re; e appresso là
andatesene onde nel vivaio s'entrava, quella che la padella aveva, postala giù
e l'altre cose appresso, prese il baston che l'altra portava e amendune nel
vivaio, l'acqua del quale loro infino al petto aggiugnea, se n'entrarono. Uno
de' famigliari di messer Neri prestamente quivi accese il fuoco, e posta la
padella sopra il treppiè e dell'olio messovi, cominciò ad aspettare che le
giovani gli gittasser del pesce. Delle quali, l'una frugando in quelle parti
dove sapeva che i pesci si nascondevano e l'altra le vangaiole parando, con
grandissimo piacere del re, che ciò attentamente guardava, in piccolo spazio di
tempo presero pesce assai; e al famigliar gittatine che quasi vivi nella
padella gli metteva, sì come ammaestrate erano state, cominciarono a prendere
de' più belli e a gittare su per la tavola davanti al re e al conte Guido e al
padre.
Questi pesci su per la
mensa guizzavano, di che il re aveva maraviglioso piacere, e similmente egli
prendendo di questi, alle giovani cortesemente gli gittava indietro; e così per
alquanto spazio cianciarono, tanto che il famigliare quello ebbe cotto che dato
gli era stato, il qual più per uno intramettere, che per molto cara o
dilettevol vi vanda, avendol messer Neri ordinato, fu messo davanti al re.
Le fanciulle, veggendo
il pesce cotto e avendo assai pescato, essendosi tutto il bianco vestimento e
sottile loro appiccato alle carni, né quasi cosa alcuna del dilicato lor corpo
celando, usciron del vivaio, e ciascuna le cose recate avendo riprese, davanti
al re vergognosamente passando, in casa se ne tornarono.
Il re e 'l conte e gli
altri che servivano, avevano molto queste giovinette considerate, e molto in sé
medesimo l'avea lodate ciascuno per belle e per ben fatte, e oltre a ciò per
piacevoli e per costumate, ma sopra ad ogn'altro erano al re piaciute. Il quale
sì attentamente ogni parte del corpo loro aveva considerata, uscendo esse
dell'acqua, che chi allora l'avesse punto non si sarebbe sentito. E più a loro
ripensando, senza sapere chi si fossero né come, si sentì nel cuor destare un
ferventissimo disidero di piacer loro, per lo quale assai ben conobbe sé
divenire innamorato, se guardia non se ne prendesse, né sapeva egli stesso qual
di lor due si fosse quella che più gli piacesse, sì era di tutte cose l'una
simiglievole all'altra. Ma, poi che alquanto fu sopra questo pensier dimorato,
rivolto a messer Neri, il domandò chi fossero le due damigelle; a cui messer
Neri rispose:
– Monsignore, queste son
mie figliuole ad un medesimo parto nate, delle quali l'una ha nome Ginevra la
bella e l'altra Isotta la bionda. – A cui il re le commendò molto,
confortandolo a maritarle. Dal che messer Neri, per più non poter, si scusò.
E in questo, niuna cosa
fuor che le frutte restando a dar nella cena, vennero le due giovinette in due
giubbe di zendado bellissime con due grandissimi piattelli d'argento in mano
pieni di vari frutti, secondo che la stagion portava, e quegli davanti al re
posarono sopra la tavola. E questo fatto, alquanto indietro tiratesi,
cominciarono a cantare un suono, le cui parole cominciano:
Là ov'io son giunto,
Amore,
non si poria contare
lungamente,
con tanta dolcezza e sì
piacevolmente, che al re, che con diletto le riguardava e ascoltava, pareva che
tutte le gerarchie degli angeli quivi fossero discese a cantare. E quel detto,
inginocchiatesi, reverentemente commiato domandarono al re, il quale, ancora
che la lor partita gli gravasse, pure in vista lietamente il diede.
Fornita adunque la cena
e il re co' suoi compagni rimontati a cavallo e messer Neri lasciato,
ragionando d'una cosa e d'altra, al reale ostiere se ne tornarono. Quivi,
tenendo il re la sua affezion nascosa, né per grande affare che sopravvenisse
potendo dimenticar la bellezza e la piacevolezza di Ginevra la bella, per amor
di cui la sorella a lei simigliante ancor amava, sì nell'amorose panie
s'invescò, che quasi ad altro pensar non poteva; e altre cagioni dimostrando,
con messer Neri teneva una stretta dimestichezza e assai sovente il suo bel
giardin visitava per veder la Ginevra.
E già più avanti
sofferir non potendo, ed essendogli non sappiendo altro modo vedere, nel
pensier caduto di dover, non solamente l'una, ma amendune le giovinette al
padre torre, e il suo amore e la sua intenzione fe' manifesta al conte Guido,
il quale, per ciò che valente uomo era, gli disse:
– Monsignore, io ho gran
maraviglia di ciò che voi mi dite, e tanto ne l'ho maggiore che un altro non
avrebbe, quanto mi par meglio dalla vostra fanciullezza infino a questo dì
avere i vostri costumi conosciuti, che alcun altro. E non essendomi paruto
giammai nella vostra giovanezza, nella quale amor più leggiermente doveva i
suoi artigli ficcare, aver tal passion conosciuta, sentendovi ora che già siete
alla vecchiezza vicino, m'è sì nuovo e sì strano che voi per amore amiate, che
quasi un miracol mi pare; e se a me di ciò cadesse il riprendervi, io so be ne
ciò che io ve ne direi, avendo riguardo che voi ancora siete con l'arme in
dosso nel regno nuovamente acquistato, tra nazion non conosciuta e piena
d'inganni e di tradimenti, e tutto occupato di grandissime sollicitudini e
d'alto affare, né ancora vi siete potuto porre a sedere, e intra tante cose
abbiate fatto luogo al lusinghevole amore. Questo non è atto di re magnanimo,
anzi d'un pusillanimo giovinetto. E oltre a questo, che è molto peggio, dite
che diliberato avete di dovere le due figliuole torre al povero cavaliere, il
quale, in casa sua, oltre al poter suo v'ha onorato, e, per più onorarvi,
quelle quasi ignude v'ha dimostrate, testificando per quello quanta sia la fede
che egli ha in voi, e che esso fermamente creda voi essere re e non lupo
rapace.
Ora evvi così tosto
della memoria caduto le violenze fatte alle donne da Manfredi avervi l'entrata
aperta in questo regno? Qual tradimento si commise giammai più degno d'etterno
supplicio, che saria questo, che voi a colui che v'onora togliate il suo onore
e la sua speranza e la sua consolazione? Che si direbbe di voi, se voi il
faceste? Voi forse estimate che sufficiente scusa fosse il dire: – Io il feci
per ciò che egli è ghibellino –. Ora è questo della giustizia dei re, che
coloro che nelle lor braccia ricorrono in cotal forma, chi che essi si sieno,
in così fatta guisa si trattino? Io vi ricordo, re, che grandissima gloria v'è
aver vinto Manfredi e sconfitto Corradino, ma molto maggiore è sé medesimo
vincere; e per ciò voi, che avete gli altri a correggere, vincete voi medesimo
e questo appetito raffrenate, né vogliate con così fatta macchia ciò che
gloriosamente acquistato avete guastare. Queste parole amaramente punsero
l'animo del re, e tanto più l'afflissero quanto più vere le conoscea; per che,
dopo alcun caldo sospiro, disse:
– Conte, per certo
ogn'altro nimico, quantunque forte estimo che sia al bene ammaestrato guerriere
assai debole e agevole a vincere a rispetto del suo medesimo appetito; ma,
quantunque l'affanno sia grande e la forza bisogni inestimabile, sì m'hanno le
vostre parole spronato, che conviene, avanti che troppi giorni trapassino, che
io vi faccia per opera vedere che, come io so altrui vincere, così similmente
so a me medesimo soprastare. Né molti giorni appresso a queste parole
passarono, che tornato il re a Napoli, sì per torre a sé stesso materia
d'operar vilmente alcuna cosa e sì per premiare il cavaliere dello onore
ricevuto da lui, quantunque duro gli fosse il fare altrui possessor di quello
che egli sommamente per sé disiderava, nondimen si dispose di voler maritare le
due giovani, e non come figliuole di messer Neri, ma come sue. E con piacer di
messer Neri, senza niuno indugio magnificamente dotatele, Ginevra la bella
diede a messer Maffeo da Palizzi, e Isotta la bionda a messer Guiglielmo della
Magna, nobili cavalieri e gran baron ciascuno; e loro assegnatele, con dolore
inestimabile in Puglia se n'andò, e con fatiche continue tanto e sì macerò il
suo fiero appetito, che spezzate e rotte l'amorose catene, per quanto viver
dovea libero rimase da tal passione.
Saranno forse di quei
che diranno piccola cosa essere ad un re l'aver maritate due giovinette; e io
il consentirò; ma molto grande e grandissima la dirò, se diremo un re
innamorato questo abbia fatto, colei maritando cui egli amava, senza aver preso
a pigliare del suo amore fronda o fiore o frutto. Così adunque il magnifico re
operò, il nobile cavaliere altamente premiando, l'amate giovinette
laudevolmente onorando, e sé medesimo fortemente vincendo.
NOVELLA SETTIMA
Il re Piero, sentito il
fervente amore portatogli dalla Lisa inferma, le conforta, e appresso ad un
gentil giovane la marita, e lei nella fronte baciata, sempre poi si dice suo
cavaliere.
Venuta era la Fiammetta
al fin della sua novella, e commendata era stata molto la virile magnificenzia
del re Carlo (quantunque alcuna, che quivi era ghibellina, commendar nol
volesse), quando Pampinea, avendogliele il re imposto, incominciò.
Niun discreto,
ragguardevoli donne, sarebbe, che non dicesse ciò che voi dite del buon re
Carlo, se non costei che gli vuol mal per altro; ma, per ciò che a me va per la
memoria una cosa non meno commendevole forse che questa, fatta da un suo
avversario ancora in una nostra giovane fiorentina, quella mi piace di
raccontarvi. Nel tempo che i franceschi di Cicilia furon cacciati, era in
Palermo un nostro fiorentino speziale, chiamato Bernardo Puccini, ricchissimo
uomo, il quale d'una sua donna senza più aveva una figliuola bellissima e già
da marito. Ed essendo il re Pietro di Raona signor della isola divenuto, faceva
in Palermo maravigliosa festa co' suoi baroni. Nel la qual festa armeggiando
egli alla catalana, avvenne che la figliuola di Bernardo, il cui nome era Lisa,
da una finestra dove ella era con altre donne, il vide correndo egli, e sì
maravigliosamente le piacque, che, una volta e altra poi riguardandolo, di lui
ferventemente s'innamorò. E cessata la festa, ed ella in casa del
padre standosi, a
niun'altra cosa poteva pensare se non a questo suo magnifico e alto amore. E
quello che intorno a ciò più l'offendeva, era il cognoscimento della sua infima
condizione, il quale niuna speranza appena le lasciava pigliare di lieto fine;
ma non per tanto da amare il re indietro si voleva tirare, e per paura di maggior
noia a manifestar non l'ardiva.
Il re di questa cosa non
s'era accorto né si curava; di che ella, oltre a quello che si potesse
estimare, portava intollerabil dolore.
Per la qual cosa avvenne
che, crescendo in lei amor continuamente e una malinconia sopr'altra
aggiugnendosi, la bella giovane più non potendo infermò, ed evidentemente di
giorno in giorno, come la neve al sole, si consumava.
Il padre di lei e la
madre, dolorosi di questo accidente, con conforti continui e con medici e con
medicine in ciò che si poteva l'atavano; ma niente era, per ciò che ella, sì
come del suo amore disperata, aveva eletto di più non volere vivere. Ora
avvenne che, offerendole il padre di lei ogni suo piacere, le venne in
pensiero, se acconciamente potesse, di volere il suo amore e il suo
proponimento, prima che morisse, fare al re sentire; e per ciò un dì il pregò
che egli le facesse venire Minuccio d'Arezzo. Era in que' tempi Minuccio tenuto
un finissimo cantatore e sonatore, e volentieri dal re Pietro veduto, il quale
Bernardo avvisò che la Lisa volesse per udirlo alquanto e sonare e cantare; per
che, fattogliele dire, egli, che piacevole uomo era, incontanente a lei venne;
e poi che alquanto con amorevoli parole confortata l'ebbe, con una sua vivuola
dolcemente sonò alcuna stampita e cantò appresso alcuna canzone; le quali allo
amor della giovane erano fuoco e fiamma, là dove egli la credea consolare.
Appresso questo disse la
giovane che a lui solo alquante parole voleva dire; per che, partitosi ciascun
altro ella gli disse:
– Minuccio, io ho eletto
te per fidissimo guardatore d'un mio segreto, sperando primieramente che tu
quello a niuna persona, se non a colui che io ti dirò, debbi ma nifestar
giammai; e appresso, che in quello che per te si possa tu mi debbi aiutare:
così ti priego.
Dei adunque sapere,
Minuccio mio, che il giorno che il nostro signor re Pietro fece la gran festa
della sua esaltazione, mel venne, armeggiando egli, in sì forte punto veduto,
che dello amor di lui mi s'accese un fuoco nell'anima, che al partito m'ha
recata che tu mi vedi; e conoscendo io quanto male il mio amore ad un re si
convenga, e non potendolo non che cacciare ma diminuire, ed egli essendomi
oltre modo grave a comportare, ho per minor doglia eletto di voler morire, e
così farò. È il vero che io fieramente n'andrei sconsolata, se prima egli nol
sapesse; e non sappiendo per cui potergli questa mia disposizion fargli sentire
più acconciamente che per te, a te commettere la voglio, e priegoti che non
rifiuti di farlo, e quando fatto l'avrai assapere mel facci, acciò che io,
consolata morendo, mi sviluppi da queste pene –: e questo detto piagnendo, si
tacque. Maravigliossi Minuccio dell'altezza dello animo di costei e del suo
fiero proponimento, e increbbenegli forte, e subitamente nello animo corsogli
come onestamente la poteva servire, le disse:
– Lisa, io t'obbligo la
mia fede, della quale vivi sicura che mai ingannata non ti troverrai, e
appresso commendandoti di sì alta impresa, come è aver l'animo posto a così
gran re, t'offero il mio aiuto, col quale io spero, dove tu confortar ti vogli,
sì adoperare, che, avanti che passi il terzo giorno ti credo recar novelle che
sommamente ti saran care; e per non perder tempo, voglio andare a cominciare.
La Lisa, di ciò da capo
pregatol molto e promessogli di confortarsi, disse che s'andasse con Dio.
Minuccio partitosi, ritrovò un Mico da Siena assai buon dicitore in rima a quei
tempi, e con prieghi lo strinse a far la canzonetta che segue:
Muoviti, Amore, e
vattene a messere,
e contagli le pene ch'io
sostegno;
digli ch'a morte vegno,
celando per temenza il
mio volere.
Merzede, Amore, a man
giunte ti chiamo,
ch'a messer vadi là dove
dimora.
Di'che sovente lui disio
e amo,
sì dolcemente lo cor
m'innamora;
e per lo foco, ond'io
tutta m'infiamo,
temo morire, e già non
saccio l'ora
ch'i'parta da sì grave
pena dura,
la qual sostegno per lui
disiando,
temendo e vergognando.
Deh! il mal mio, per
Dio, fagli assapere.
Poi che di lui, Amor,
fu'innamorata,
non mi donasti ardir
quanto temenza
che io potessi sola una
fiata
lo mio voler dimostrare
in parvenza
a quegli che mi tien
tanto affannata;
così morendo il morir
m'è gravenza.
Forse che non gli saria
spiacenza,
se el sapesse quanta
pena i'sento,
s'a me dato ardimento
avesse in fargli mio
stato sapere.
Poi che 'n piacere non
ti fu, Amore,
ch'a me donassi tanta
sicuranza,
ch'a messer far savessi
lo mio core
lasso, per messo mai o
per sembianza,
mercé ti chero, dolce
mio signore,
che vadi a lui, e
donagli membranza
del giorno ch'io il vidi
a scudo e lanza
con altri cavalieri arme
portare:
presilo a riguardare
innamorata sì che 'l mio
cor pere!
Le quali parole Minuccio
prestamente intonò d'un suono soave e pietoso, sì come la materia di quelle
richiedeva, e il terzo dì se n'andò a corte, essendo ancora il re Pietro a
mangiare, dal quale gli fu detto che egli alcuna cosa cantasse con la sua
viuola. Laonde egli cominciò sì dolcemente sonando a cantar questo suono, che
quanti nella real sala n'erano parevano uomini adombrati, sì tutti stavano
taciti e sospesi ad ascoltare, e il re per poco più che gli altri. E avendo
Minuccio il suo canto fornito, il re il domandò donde questo venisse che mai
più non gliele pareva avere udito.
– Monsignore, – rispose
Minuccio – e' non sono ancora tre giorni che le parole si fecero e 'l suono –.
Il quale, avendo il re domandato per cui, rispose:
– Io non l'oso scovrir
se non a voi.
Il re, disideroso
d'udirlo, levate le tavole, nella camera sel fe' venire, dove Minuccio ordinatamente
ogni cosa udita gli raccontò. Di che il re fece gran festa, e commendò la
giovane assai, e disse che di sì valorosa giovane si voleva aver compassione; e
per ciò andasse da sua parte a lei e la confortasse, e le dicesse che senza
fallo quel giorno in sul vespro la verrebbe a visitare.
Minuccio, lietissimo di
portare così piacevole novella, alla giovane senza ristare con la sua viuola
n'andò, e con lei sola parlando, ogni cosa stata raccontò, e poi la canzone
cantò con la sua viuola.
Di questo fu la giovane
tanto lieta e tanto contenta, che evidentemente senza alcuno indugio apparver
segni grandissimi della sua sanità; e con disidero, senza sapere o presummere
alcun della casa che ciò si fosse, cominciò ad aspettare il vespro, nel quale
il suo signor veder dovea. Il re, il qual liberale e benigno signore era,
avendo poi più volte pensato alle cose udite da Minuccio e conoscendo
ottimamente la giovane e la sua bellezza, divenne ancora più che non era di lei
pietoso; e in sull'ora del vespro montato a cavallo, sembiante faccendo
d'andare a suo diporto, pervenne là dov'era la casa dello speziale; e quivi
fatto domandare che aperto gli fosse un bellissimo giardino il quale lo
speziale avea, in quello smontò, e dopo alquanto domandò Bernardo che fosse
della figliuola, se egli ancora maritata l'avesse.
Rispose Bernardo:
– Monsignore, ella non è
maritata, anzi è stata e ancora è forte malata; è il vero che da nona in qua
ella è maravigliosamente migliorata.
Il re intese prestamente
quello che questo miglioramento voleva dire, e disse:
– In buona fè danno
sarebbe che ancora fosse tolta al mondo sì bella cosa; noi la vogliamo venire a
visitare.
E con due compagni
solamente e con Bernardo nella camera di lei poco appresso se n'andò, e come là
entro fu, s'accostò al letto dove la giovane alquanto sollevata con disio
l'aspettava, e lei per la man prese dicendo:
– Madonna, che vuol dir
questo? Voi siete giovane e dovreste l'altre confortare, e voi vi lasciate aver
male: noi vi vogliam pregare che vi piaccia, per amor di noi, di confortarvi in
maniera che voi siate tosto guerita. La giovane, sentendosi toccare alle mani
di colui il quale ella sopra tutte le cose amava, come che ella alquanto si
vergognasse, pur sentiva tanto piacer nell'animo, quanto se stata fosse in
paradiso; e, come potè, gli rispose:
– Signor mio, il volere
io le mie poche forze sottoporre a gravissimi pesi, m'è di questa infermità
stata cagione, dal la quale voi, vostra buona mercé, tosto libera mi vedrete.
Solo il re intendeva il
coperto parlare della giovane, e da più ogn'ora la reputava, e più volte seco
stesso maladisse la fortuna, che di tale uomo l'aveva fatta figliuola; e poi
che alquanto fu con lei dimorato e più ancora confortatala, si partì.
Questa umanità del re fu
commendata assai, e in grande onor fu attribuita allo speziale e alla
figliuola; la quale tanto contenta rimase, quanto altra donna di suo amante
fosse giammai; e da migliore speranza aiutata, in pochi giorni guerita, più
bella diventò che mai fosse. Ma poi che guerita fu, avendo il re con la reina
diliberato qual merito di tanto amore le volesse rendere, montato un dì a
cavallo con molti de' suoi baroni a casa dello spezial se n'andò, e nel
giardino entratosene, fece lo spezial chiamare e la sua figliuola; e in questo
venuta la reina con molte donne, e la giovane tra lor ricevuta, cominciarono
maravigliosa festa.
E dopo alquanto il re
insieme con la reina chiamata la Lisa, le disse il re:
– Valorosa giovane, il
grande amor che portato n'avete v'ha grande onore da noi impetrato, del quale
noi vogliamo che per amor di noi siate contenta; e l'onore è questo, che, con
ciò sia cosa che voi da marito siate, noi vogliamo che colui prendiate per marito
che noi vi daremo, intendendo sempre, non ostante questo, vostro cavaliere
appellarci, senza più di tanto amor voler da voi che un sol bacio.
La giovane, che di
vergogna tutta era nel viso divenuta vermiglia, faccendo suo il piacer del re,
con bassa voce così rispose:
– Signor mio, io son
molto certa che, se egli si sapesse che io di voi innamorata mi fossi, la più
della gente me ne reputerebbe matta, credendo forse che io a me medesima fossi
uscita di mente e che io la mia condizione e oltre a questo la vostra non
conoscessi; ma come Iddio sa, che solo i cuori de' mortali vede, io nell'ora
che voi prima mi piaceste, conobbi voi essere re e me figliuola di Bernardo
speziale, e male a me convenirsi in sì alto luogo l'ardore dello animo
dirizzare. Ma, sì come voi molto meglio di me conoscete, niuno secondo debita
elezione ci s'innamora, ma secondo l'appetito e il piacere; alla qual legge più
volte s'opposero le forze mie, e più non potendo, v'amai e amo e amerò sempre.
È il vero che, com'io ad amore di voi mi sentii prendere, così mi disposi di
far sempre, del vostro, voler mio, e per ciò, non che io faccia questo di
prender volentier marito e d'aver caro quello il quale vi piacerà di donarmi,
che mio onore e stato sarà, ma se voi diceste che io dimorassi nel fuoco,
credendovi io piacere mi sarebbe diletto. Avere uno re per cavaliere, sapete
quanto mi si conviene, e per ciò più a ciò non rispondo; né il bacio che solo
del mio amor volete, senza licenzia di madama la reina vi sarà per me
conceduto. Nondimeno di tanta benignità verso me, quanta è la vostra e quella
di madama la reina che è qui, Iddio per me vi renda e grazie e merito; ché io
da render non l'ho –. E qui si tacque.
Alla reina piacque molto
la risposta della giovane, e parvele così savia come il re l'aveva detto. Il re
fece chiamare il padre della giovane e la madre, e sentendogli contenti di ciò
che fare intendeva, si fece chiamare un giovane, il quale era gentile uomo ma
povero, ch'avea nome Perdicone, e postegli certe anella in mano, a lui, non
recusante di farlo, fece sposare la Lisa. A'quali incontanente il re, oltre a
molte gioie e care che egli e la reina alla giovane donarono, gli donò Ceffalù
e Calatabellotta, due bonissime terre e di gran frutto, dicendo:
– Queste ti doniamo noi
per dote della donna; quello che noi vorremo fare a te, tu tel vedrai nel tempo
avvenire. E questo detto, rivolto alla giovane, disse:
– Ora vogliam noi
prender quel frutto che noi del vostro amor aver dobbiamo –, e presole con
amendune le mani il capo, le baciò la fronte.
Perdicone e 'l padre e
la madre della Lisa ed ella altressì contenti, grandissima festa fecero e liete
nozze. E secondo che molti affermano, il re molto bene servò alla giovane il
convenente; per ciò che mentre visse sempre s'appellò suo cavaliere, né mai in
alcun fatto d'arme andò, che egli altra sopransegna portasse che quella che
dalla giovane mandata gli fosse.
Così adunque operando si
pigliano gli animi dei suggetti; dassi altrui materia di bene operare, e le
fame etterne s'acquistano. Alla qual cosa oggi pochi o niuno ha l'arco teso
dello 'ntelletto, essendo li più de' signori divenuti crudeli tiranni.
NOVELLA OTTAVA
Sofronia, credendosi
esser moglie di Gisippo, è moglie di Tito Quinzio Fulvo, e con lui se ne va a
Roma, dove Gisippo in povero stato arriva, e credendo da Tito esser
disprezzato, sé avere uno uomo ucciso, per morire, afferma. Tito,
riconosciutolo, per iscamparlo, dice sé averlo morto; il che colui che fatto
l'avea vedendo, sé stesso manifesta; per la qual cosa da Ottaviano tutti sono
liberati, e Tito dà a Gisippo la sorella per moglie e con lui comunica ogni suo
bene.
Filomena, per
comandamento del re, essendo Pampinea di parlar ristata, e già avendo ciascuna
commendato il re Pietro, e più la ghibellina che l'altre, incominciò.
Magnifiche donne, chi non sa li re poter, quando vogliono, ogni gran cosa fare,
e loro altressì spezialissimamente richiedersi l'esser magnifichi? Chi adunque,
possedendo, fa quello che a lui s'appartiene, fa bene; ma non se ne dee l'uomo
tanto maravigliare, né alto con somme lode levarlo, come un altro si converria
che il facesse, a cui per poca possa meno si richiedesse. E per ciò, se voi con
tante parole l'opere de' re essaltate e paionvi belle, io non dubito punto che
molto più non vi debbian piacere ed esser da voi commendate quelle de' nostri
pari, quando sono a quelle de' re simiglianti o maggiori; per che una laudevole
opera e magnifica usata tra due cittadini amici ho proposto in una novella di
raccontarvi. Nel tempo adunque che Ottavian Cesare, non ancora s chiamato
Augusto, ma nello uficio chiamato triumvirato lo 'mperio di Roma reggeva, fu in
Roma un gentile uomo chiamato Publio Quinzio Fulvo, il quale, avendo un suo
figliuolo, Tito Quinzio Fulvo nominato, di maraviglioso ingegno, ad imprender
filosofia il mandò ad Atene, e quantunque più potè il raccomandò ad un nobile
uomo della terra chiamato Cremete, il quale era an tichissimo suo amico. Dal
quale Tito nelle propie case di lui fu allogato in compagnia d'un suo figliuolo
nominato Gisippo; e sotto la dottrina d'un filosofo chiamato Aristippo, e Tito
e Gisippo furon parimente da Cremete posti ad imprendere.
E venendo i due giovani
usando insieme, tanto si trovarono i costumi loro esser conformi, che una
fratellanza e una amicizia sì grande ne nacque tra loro, che mai poi da altro
caso che da morte non fu separata. Niun di loro aveva né ben né riposo, se non
tanto quanto erano insieme. Essi avevano cominciati gli studi, e parimente
ciascuno d'altissimo ingegno dotato saliva alla gloriosa altezza della
filosofia con pari passo e con maravigliosa laude; e in cotal vita con
grandissimo piacer di Cremete, che quasi l'un più che l'altro non avea per
figliuolo, perseveraron ben tre anni. Nella fine de' quali, sì come di tutte le
cose addiviene, addivenne che Cremete, già vecchio, di questa vita passò; di
che essi pari compassione, sì come di comun padre, portarono, né si discernea
per gli amici né per li parenti di Cremete, qual più fosse per lo sopravvenuto
caso da racconsolar di lor due. Avvenne, dopo alquanti mesi, che gli amici di
Gisippo e i parenti furon con lui, e insieme con Tito il confortarono a tor
moglie, e trovarongli una giovane di maravigliosa bellezza e di nobilissimi
parenti discesa, e cittadina d'Atene, il cui nome era Sofronia, d'età forse di
quindici anni. E appressandosi il termine delle future nozze, Gisippo pregò un
dì Tito che con lui andasse a vederla, ché veduta ancora non l'avea; e nella
casa di lei venuti, ed essa sedendo in mezzo d'amenduni, Tito, quasi
consideratore della bellezza della sposa del suo amico, la cominciò
attentissimamente a riguardare, e ogni parte di lei smisuratamente piacendogli
mentre quelle seco sommamente lodava, sì fortemente, senza alcun sembiante
mostrarne, di lei s'accese, quanto di donna alcuno amante s'accendesse giammai.
Ma poi che alquanto con lei stati furono, partitisi, a casa se ne tornarono.
Quivi Tito, solo nella sua camera entratosene, alla piaciuta giovane cominciò a
pensare, tanto più accendendosi quanto più nel pensiero si stendea. Di che
accorgendosi, dopo molti caldi sospiri, seco cominciò a dire:
– Ahi! misera la vita
tua, Tito! Dove e in che pon tu l'animo e l'amore e la speranza tua? Or non
conosci tu, sì per li ricevuti onori da Cremete e dalla sua famiglia, e sì per
la intera amicizia la quale è tra te e Gisippo, di cui costei è sposa, questa
giovane convenirsi avere in quella reverenza che sorella? Che dunque ami? Dove
ti lasci trasportare allo 'ngannevole amore? Dove alla lusinghevole speranza?
Apri gli occhi dello 'ntelletto, e te medesimo, o misero, riconosci; dà luogo
alla ragione, raffrena il concupiscibile appetito, tempera i disideri non sani,
e ad altro dirizza i tuoi pensieri; contrasta in questo cominciamento alla tua
libidine, e vinci te medesimo, mentre che tu hai tempo. Questo non si conviene
che tu vuogli, questo non è onesto; questo a che tu seguir ti disponi, eziandio
essendo certo di giugnerlo (che non sé), tu il dovresti fuggire, se quello
riguardassi che la vera amistà richiede e che tu dei. Che dunque farai, Tito?
Lascerai il non convenevole amore, se quello vorrai fare che si conviene.
E poi, di Sofronia
ricordandosi, in contrario volgendo, ogni cosa detta dannava, dicendo: – Le
leggi d'Amore sono di maggior potenzia che alcune altre: elle rompono, non che
quelle della amistà, ma le divine. Quante volte ha già il padre la figliuola
amata? il fratello la sorella? la matrigna il figliastro? Cose più mostruose
che l'uno amico amar la moglie dell'altro, già fattosi mille volte. Oltre a
questo io son giovane, e la giovanezza è tutta sottoposta all'amorose forze.
Quello adunque che ad Amor piace a me convien che piaccia. L'oneste cose
s'appartengono a' più maturi; io non posso volere se non quello che Amor vuole.
La bellezza di costei merita d'essere amata da ciascheduno; e se io l'amo, che
giovane sono, chi me ne potrà meritamente riprendere? Io non l'amo perché ella
sia di Gisippo, anzi l'amo che l'amerei di chiunque ella stata fosse. Qui pecca
la Fortuna che a Gisippo mio amico l'ha conceduta più tosto che ad un altro; e
se ella dee essere amata (ché dee, e meritamente, per la sua bellezza), più dee
esser contento Gisippo, risappiendolo, che io l'ami io che un altro. E da
questo ragionamento, faccendo beffe di sé medesimo, tornando in sul contrario,
e di questo in quello, e di quello in questo, non solamente quel giorno e la
notte seguente consumò, ma più altri, intanto che, il cibo e 'l sonno
perdutone, per debolezza fu costretto a giacere.
Gisippo, il qual più dì
l'avea veduto di pensier pieno e ora il vedeva infermo, se ne doleva forte, e
con ogni arte e sollecitudine, mai da lui non partendosi, s'ingegnava di
confortarlo, spesso e con instanzia domandandolo della cagione de' suoi
pensieri e della infermità. Ma, avendogli più volte Tito dato favole per
risposta, e Gisippo avendole conosciute, sentendosi pur Tito constrignere, con
pianti e con sospiri gli rispose in cotal guisa:
- Gisippo, se agli Dii
fosse piaciuto, a me era assai più a grado la morte che il più vivere, pensando
che la fortuna m'abbi condotto in parte che della mia virtù mi sia convenuto
far pruova, e quella con grandissima vergogna di me truovi vinta; ma certo io
n'aspetto tosto quel merito che mi si conviene, cioè la morte, la qual mi fia
più cara che il vivere con rimembranza della mia viltà, la quale per ciò che a
te né posso né debbo alcuna cosa celare, non senza gran rossor ti scoprirrò.
E, cominciatosi da capo,
la cagion de' suoi pensieri, e la battaglia di quegli, e ultimamente de' quali
fosse la vittoria, e sé per l'amor di Sofronia perire gli discoperse,
affermando che, conoscendo egli quanto questo gli si sconvenisse, per
penitenzia n'avea preso il voler morire, di che tosto credeva venire a capo.
Gisippo, udendo questo e il suo pianto vedendo, alquanto prima sopra sé stette,
sì come quegli che del piacere della bella giovane, avvegna che più
temperatamente, era preso; ma senza indugio diliberò la vita dello amico più
che Sofronia dovergli esser cara; e così, dalle lagrime di lui a lagrimare
invitato, gli rispose piagnendo:
– Tito, se tu non fossi
di conforto bisognoso come tu se', io di te a te medesimo mi dorrei, sì come
d'uomo il quale hai la nostra amicizia violata, tenendomi sì lungamente la tua
gravissima passione nascosa; e come che onesto non ti paresse, non son per ciò
le disoneste cose, se non come l'oneste, da celare all'amico, per ciò che chi
amico è, come delle oneste con l'amico prende piacere, così le non oneste
s'ingegna di torre dello animo dello amico; ma ristarommene al presente, e a
quel verrò che di maggior bisogno esser conosco. Se tu ardentemente ami
Sofronia a me sposata, io non me ne maraviglio, ma maravigliere'mi io ben se
così non fosse, conoscendo la sua bellezza e la nobiltà dell'animo tuo, atta
tanto più a passion sostenere, quanto ha più d'eccellenza la cosa che piaccia.
E quanto tu ragionevolmente ami Sofronia, tanto ingiustamente della fortuna ti
duoli (quantunque tu ciò non esprimi) che a me conceduta l'abbia, parendoti il tuo
amarla onesto, se d'altrui fosse stata che mia. Ma, se tu se' savio come suoli,
a cui la poteva la fortuna concedere, di cui tu più l'avessi a render grazie,
che d'averla a me conceduta? Qualunque altro avuta l'avesse, quantunque il tuo
amore onesto stato fosse, l'avrebbe egli a sé amata più tosto che a te, il che
di me, se così mi tieni amico come io ti sono, non dei sperare; e la cagione è
questa, che io non mi ricordo, poi che amici fummo, che io alcuna cosa avessi
che così non fosse tua come mia.
Il che, se tanto fosse
la cosa avanti che altramenti es ser non potesse, così ne farei come
dell'altre; ma ella è ancora in sì fatti termini, che di te solo la posso fare,
e così farò; per ciò che io non so quello che la mia amistà ti dovesse esser
cara, se io d'una cosa che onestamente far si puote, non sapessi d'un mio voler
far tuo. Egli è il vero che Sofronia è mia sposa, e che io l'amava molto e con
gran festa le sue nozze aspettava; ma per ciò che tu, sì come molto più
intendente di me, con più fervor disideri così cara cosa come ella è, vivi
sicuro che non mia ma tua moglie verrà nella mia camera. E per ciò lascia il
pensiero, caccia la malinconia, richiama la perduta sanità e il conforto e
l'allegrezza, e da questa ora innanzi lieto aspetta i meriti del tuo molto più
degno amore che il mio non era.
Tito, udendo così
parlare a Gisippo, quanto la lusinghevole speranza di quello gli porgeva
piacere, tanto la debita ragion gli recava vergogna, mostrandogli che quanto
più era di Gisippo la liberalità, tanto di lui ad usarla pareva la
sconvenevolezza maggiore. Per che, non ristando di piagnere, con fatica così
gli rispose:
– Gisippo, la tua
liberale e vera amistà assai chiaro mi mostra quello che alla mia s'appartenga
di fare. Tolga via Iddio che mai colei, la quale egli sì come a più degno ha a
te donata, che io da te la riceva per mia. Se egli avesse veduto che a me si
convenisse costei, né tu né altri dee credere che mai a te conceduta l'avesse.
Usa adunque lieto la tua elezione e il discreto consiglio e il suo dono, e me
nelle lagrime, le quali egli, sì come ad indegno di tanto bene, m'ha
apparecchiate, consumar lascia, le quali o io vincerò e saratti caro, o esse me
vinceranno e sarò fuor di pena.
Al quale Gisippo disse:
– Tito, se la nostra
amistà mi può concedere tanto di licenzia, che io a seguire un mio piacer ti
sforzi, e te a doverlo seguire puote inducere, questo fia quello in che io
sommamente intendo d'usarla; e dove tu non condiscenda piacevole a' prieghi
miei, con quella forza che ne' beni dello amico usar si dee, farò che Sofronia
fia tua. Io conosco quanto possono le forze d'amore, e so che elle, non una
volta ma molte, hanno ad infelice morte gli amanti condotti; e io veggio te sì
presso, che tornare addietro né vincere potresti le lagrime, ma procedendo,
vinto verresti meno, al quale io senza alcun dubbio tosto verrei appresso.
Adunque, quando per altro io non t'amassi, m'è, acciò che io viva, cara la vita
tua. Sarà adunque Sofronia tua, ché di leggiere altra che così ti piacesse non
troverresti; e io il mio amore leggiermente ad un'altra volgendo, avrò te e me
contentato. Alla qual cosa forse così liberal non sarei, se così rade o con
quella difficoltà le mogli si trovasser, che si truovan gli amici; e per ciò,
potend'io leggerissimamente altra moglie trovare, ma non altro amico, io voglio
innanzi (non vo' dir perder lei, ché non la perderò dandola a te, ma ad un
altro me la trasmuterò di bene in meglio) trasmutarla, che perder te. E per
ciò, se alcuna cosa possono in te i prieghi miei, io ti priego che, di questa
afflizion togliendoti, ad una ora consoli te e me, e con buona speranza ti
disponghi a pigliar quella letizia che il tuo caldo amore della cosa amata
disidera.
Come che Tito di
consentire a questo, che Sofronia sua moglie divenisse, si vergognasse, e per
questo duro stesse ancora, tirandolo da una parte amore, e d'altra i conforti
di Gisippo sospignendolo, disse:
– Ecco, Gisippo, io non
so quale io mi dica che io faccia più, o il mio piacere o il tuo, faccendo
quello che tu pregando mi di'che tanto ti piace; e poi che la tua liberalità è
tanta che vince la mia debita vergogna, e io il farò. Ma di questo ti rendi
certo, che io nol fo come uomo che non conosca me da te ricever non solamente
la donna amata, ma con quella la vita mia. Facciano gl'Iddii, se esser può, che
con onore e con ben di te io ti possa an cora mostrare quanto a grado mi sia
ciò che tu verso me, più pietoso di me che io medesimo, adoperi.
Appresso queste parole
disse Gisippo:
– Tito, in questa cosa,
a volere che effetto abbia, mi par da tener questa via. Come tu sai, dopo lungo
trattato de' miei parenti e di quei di Sofronia, essa è divenuta mia sposa, e
per ciò, se io andassi ora a dire che io per moglie non la volessi, grandissimo
scandalo ne nascerebbe e turberei i suoi e' miei parenti; di che niente mi
curerei, se io per questo vedessi lei dover divenir tua; ma io temo, se io a
questo partito la lasciassi, che i parenti suoi non la dieno prestamente ad un
altro, il qual forse non sarai desso tu, e così tu avrai perduto quello che io
non avrò acquistato. E per ciò mi pare, dove tu sii contento, che io con quello
che cominciato ho seguiti avanti, e sì come mia me la meni a casa e faccia le
nozze, e tu poi occultamente, sì come noi saprem fare, con lei sì come con tua
moglie ti giacerai. Poi a luogo e a tempo manifesteremo il fatto; il quale, se
lor piacerà, bene starà; se non piacerà, sarà pur fatto, e non potendo indietro
tornare, converrà per forza che sien contenti.
Piacque a Tito il
consiglio: per la qual cosa Gisippo come sua nella sua casa la ricevette,
essendo già Tito guarito e ben disposto; e fatta la festa grande, come fu la
notte venuta, lasciar le donne la nuova sposa nel letto del suo marito, e andar
via.
Era la camera di Tito a
quella di Gisippo congiunta, e dell'una si poteva nell'altra andare; per che,
essendo Gisippo nella sua camera e ogni lume avendo spento, a Tito tacitamente
andatosene, gli disse che con la sua donna s'andasse a coricare.
Tito vedendo questo,
vinto da vergogna, si volle pentere e recusava l'andata; ma Gisippo, che con
intero animo, come con le parole, al suo piacere era pronto, dopo lunga
tencione vel pur mandò. Il quale, come nel letto giunse, presa la giovane,
quasi come sollazzando, chetamente la domandò se sua moglie esser voleva. Ella,
credendo lui esser Gisippo, rispose del sì; ond'egli un bello e ricco anello le
mise in dito dicendo:
– E io voglio esser tuo
marito.
E quinci consumato il
matrimonio, lungo e amoroso piacer prese di lei, senza che ella o altri mai
s'accorgesse che altri che Gisippo giacesse con lei.
Stando adunque in questi
termini il maritaggio di Sofronia e di Tito, Publio suo padre di questa vita
passò; per la qual cosa a lui fu scritto che senza indugio a vedere i fatti
suoi a Roma se ne tornasse; e per ciò egli d'andarne e di menarne Sofronia
diliberò con Gisippo. Il che, senza manifestarle come la cosa stesse, far non
si dovea né potea acconciamente.
Laonde, un dì nella
camera chiamatala, interamente come il fatto stava le dimostrarono, e di ciò
Tito per molti accidenti tra lor due stati la fece chiara. La qual, poi che
l'uno e l'altro un poco sdegnosetta ebbe guatato, dirottamente cominciò a
piagnere, sé dello inganno di Gisippo ramaricando; e prima che nella casa di
Gisippo nulla parola di ciò facesse, se n'andò a casa il padre suo, e quivi a
lui e alla madre narrò lo 'nganno il quale ella ed eglino da Gisippo ricevuto
avevano; affermando sé esser moglie di Tito, e non di Gisippo come essi
credevano. Questo fu al padre di Sofronia gravissimo, e co' suoi parenti e con
que' di Gisippo ne fece una lunga e gran querimonia, e furon le novelle e le
turbazioni molte e grandi. Gisippo era a' suoi e a que' di Sofronia in odio, e
ciascun diceva lui degno, non solamente di riprensione, ma d'aspro
gastigamento. Ma egli sé onesta cosa aver fatta affermava e da dovernegli
essere rendute grazie da' parenti di Sofronia, avendola a miglior di sé
maritata. Tito d'altra parte ogni cosa sentiva e con gran noia sosteneva; e conoscendo
costume esser de' greci tanto innanzi sospignersi con romori e con le minacce,
quanto penavano a trovar chi loro rispondesse, e allora non solamente umili ma
vilissimi divenire; pensò più non fossero senza risposta da comportare le lor
novelle; e avendo esso animo romano e senno ateniese, con assai acconcio modo i
parenti di Gisippo e que' di Sofronia in un tempio fe' ragunare, e in quello
entrato, accompagnato da Gisippo solo, così agli aspettanti parlò:
- Credesi per molti
filosofanti, che ciò che s'adopera da' mortali sia degli iddii immortali
disposizione e provvedimento, e per questo vogliono alcuni essere di necessità
ciò che ci si fa o farà mai; quantunque alcuni altri sieno che questa necessità
impongono a quel che è fatto solamente. Le quali oppinioni se con alcuno
avvedimento riguardate fìeno, assai apertamente si vedrà che il riprender cosa
che frastornar non si possa, niuna altra cosa è a fare se non volersi più savio
mostrare che gl'iddii, li quali noi dobbiam credere che con ragion perpetua e
senza alcuno errore dispongono e governan noi e le nostre cose; per che, quanto
le loro operazioni ripigliare sia matta presunzione e bestiale, assai
leggiermente il potete vedere, e ancora chenti e quali catene coloro meritino
che tanto in ciò si lasciano trasportare dall'ardire. De'quali, secondo il mio
giudicio, voi siete tutti, se quello è vero che io intendo che voi dovete aver
detto e continuamente dite, per ciò che mia moglie Sofronia è divenuta, dove
lei a Gisippo avavate data; non riguardando che ab etterno disposto fosse che
ella non di Gisippo divenisse ma mia, sì come per effetto si conosce al
presente. Ma, per ciò che 'l parlar della segreta provvedenza e intenzion
degl'iddii pare a molti duro e grave a comprendere, presupponendo che essi di
niuno nostro fatto s'impaccino, mi piace di condiscendere a' consigli degli
uomini; de' quali dicendo, mi converrà far due cose molto a' miei costumi
contrarie: l'una fia alquanto me commendare, e l'altra il biasimare alquanto
altrui o avvilire. Ma, per ciò che dal vero né nell'una né nell'altra non
intendo partirmi, e la presente materia il richiede, il pur farò.
I vostri ramarichii, più
da furia che da ragione incitati, con continui mormorii, anzi romori,
vituperano, mordono e dannano Gisippo, per ciò che colei m'ha data per moglie
col suo consiglio, che voi a lui col vostro avevate data, laddove io estimo che
egli sia sommamente da commendare; e le ragioni son queste: l'una, però che
egli ha fatto quello che amico dee fare; l'altra, perché egli ha più saviamente
fatto che voi non avevate. Quello che le sante leggi della amicizia vogliono
che l'uno amico per l'altro faccia, non è mia intenzion di spiegare al
presente, essendo contento d'avervi tanto solamente ricordato di quelle, che il
legame della amistà troppo più stringa che quel del sangue o del parentado; con
ciò sia cosa che gli amici noi abbiamo quali ce li eleggiamo, e i parenti quali
gli ci dà la fortuna. E per ciò, se Gisippo amò più la mia vita che la vostra
benivolenza, essendo io suo amico, come io mi tengo, niuno se ne dee
maravigliare. Ma vegnamo alla seconda ragione, nella quale con più instanzia vi
si convien dimostrare lui più essere stato savio che voi non siete, con ciò sia
cosa che della provvidenzia degli iddii niente mi pare che voi sentiate, e
molto men conosciate della amicizia gli effetti. Dico che il vostro
avvedimento, il vostro consiglio e la vostra diliberazione aveva Sofronia data
a Gisippo, giovane e filosafo; quello di Gisippo la diede a giovane e filosafo;
il vostro consiglio la diede ad ateniese, e quel di Gisippo a romano; il vostro
ad un gentil giovane, quel di Gisippo ad un più gentile; il vostro ad un ricco
giovane, quel di Gisippo ad un ricchissimo; il vostro ad un giovane il quale,
non solamente non l'amava, ma appena la conosceva; quel di Gisippo ad un
giovane, il quale sopra ogni sua felicità e più che la propia vita l'amava. E
che quello che io dico sia vero, e più da commenda re che quello che voi fatto
avavate, riguardisi a parte a parte. Che io giovane e filosafo sia come
Gisippo, il viso mio e gli studi, senza più lungo sermon farne, il possono
dichiarare. Una medesima età è la sua e la mia, e con pari passo sempre
proceduti siamo studiando. E il vero ch'egli è ateniese e io romano. Se della
gloria della città si disputerà, io dirò che io sia di città libera ed egli di
tributaria; io dirò che io sia di città donna di tutto 'l mondo, ed egli di
città obbediente alla mia; io dirò che io sia di città fiorentissima d'arme,
d'imperio e di studi, dove egli non potrà la sua se non di studi commendare.
Oltre a questo, quantunque voi qui scolar mi veggiate assai umile, io non son
nato della feccia del popolazzo di Roma; le mie case e i luoghi publichi di
Roma son pieni d'antiche imagini de' miei maggiori, e gli annali romani si
troveranno pieni di molti triumfi menati da' Quinzi in sul romano Capitolio, né
è per vecchiezza marcita, anzi oggi più che mai fiorisce la gloria del nostro
nome. Io mi taccio, per vergogna, delle mie ricchezze, nella mente avendo che
l'onesta povertà sia antico e larghissimo patrimonio de' nobili cittadini di
Roma; la quale, se dalla oppinione de' volgari è dannata e son commendati i
tesori, io ne sono, non come cupido, ma come amato dalla fortuna, abbondante. E
assai conosco che egli v'era qui, e dovea essere e dee, caro d'aver per parente
Gisippo; ma io non vi debbo per alcuna cagione meno essere a Roma caro,
considerando che di me là avrete ottimo oste, e utile e sollicito e possente
padrone, così nelle pubbliche opportunità come ne' bisogni privati. Chi dunque,
lasciata star la volontà e con ragion riguardando, più i vostri consigli
commenderà che quegli del mio Gisippo? Certo niuno. E adunque Sofronia ben
maritata a Tito Quinzio Fulvo, nobile, antico e ricco cittadin di Roma e amico
di Gisippo; per che chi di ciò si duole o si ramarica, non fa quello che dee né
sa quello che egli si fa. Saranno forse alcuni che diranno non dolersi Sofronia
esser moglie di Tito, ma dolersi del modo nel quale sua moglie è divenuta,
nascosamente, di furto, senza saperne amico o parente alcuna cosa. E questo non
è miraculo, né cosa che di nuovo avvenga. Io lascio stare volentieri quelle che
già contro a volere de' padri hanno i mariti presi; e quelle che i sono con li
loro amanti fuggite, e prima amiche sono state che mogli; e quelle che prima
con le gravidezze e co' parti hanno i matrimoni palesati che con la lingua, e
hagli fatti la necessità aggradire; quello che di Sofronia non è avvenuto; anzi
ordinatamente, discretamente e onestamente da Gisippo a Tito è stata data. E
altri diranno colui averla maritata a cui di maritarla non apparteneva.
Sciocche lamentanze son queste e femminili, e da poca considerazion procedenti.
Non usa ora la fortuna di nuovo varie vie e istrumenti nuovi a recare le cose
agli effetti diterminati. Che ho io a curare se il calzolaio più tosto che il
filosafo avrà d'un mio fatto secondo il suo giudicio disposto o in occulto o in
palese, se il fine è buono? Debbomi io ben guardare, se il calzolaio non è
discreto, che egli più non ne possa fare, e ringraziarlo del fatto. Se Gisippo
ha ben Sofronia maritata, l'andarsi del modo dolendo e di lui è una stultizia
superflua. Se del suo senno voi non vi confidate, guardatevi che egli più
maritar non ne possa, e di questa il ringraziate. Nondimeno dovete sapere che
io non cercai ne con ingegno né con fraude d'imporre alcuna macula all'onestà e
alla chiarezza del vostro sangue nella persona di Sofronia; e quantunque io
l'abbia occultamente per moglie presa, io non venni come rattore a torle la sua
virginità, né come nimico la volli men che onestamente avere, il vostro
parentado rifiutando, ma ferventemente acceso della sua vaga bellezza e della
virtù di lei; conoscendo, se con quello ordine che voi forse volete dire
cercata l'avessi, che, essendo ella molto amata da voi, per tema che io a Roma
menata non ne l'avessi, avuta non l'avrei.
Usai adunque l'arte
occulta che ora vi puote essere aperta, e feci Gisippo, a quello che egli di
fare non era disposto, consentire in mio nome; e appresso, quantunque io ardentemente
l'amassi, non come amante ma come marito i suoi congiugnimenti cercai, non
appressandomi prima a lei, sì come essa medesima può con verità testimoniare,
che io con le debite parole e con l'anello l'ebbi sposata, domandandola se ella
me per marito volea, a che ella rispose del sì. Se esser le pare ingannata, non
io ne son da riprender, ma ella, che me non domandò chi io fossi. Questo è
adunque il gran male, il gran peccato, il gran fallo adoperato da Gisippo amico
e da me amante, che Sofronia occultamente sia divenuta moglie di Tito Quinzio;
per questo il lacerate, minacciate e insidiate. E che ne fareste voi più, se
egli ad un villano, ad un ribaldo, ad un servo data l'avesse? Quali catene,
qual carcere, quali croci ci basterieno? Ma lasciamo ora star questo: egli è
venuto il tempo il quale io ancora non aspettava, cioè che mio padre sia morto
e che a me conviene a Roma tornare, per che, meco volendone Sofronia menare,
v'ho palesato quello che io forse ancora v'avrei nascoso; il che, se savi
sarete, lietamente comporterete, per ciò che, se ingannare o oltraggiare
v'avessi voluto, schernita ve la poteva lasciare; ma tolga Iddio via questo,
che in romano spirito tanta viltà albergar possa giammai.
Ella adunque, cioè
Sofronia, per consentimento degl'iddii e per vigore delle leggi umane, e per lo
laudevole senno del mio Gisippo, e per la mia amorosa astuzia è mia; la qual
cosa voi, per avventura più che gli iddii o che gli altri uomini savi
tenendovi, bestialmente in due maniere forte a me noiose mostra che voi
danniate. L'una è Sofronia tenendovi, nella quale, più che mi piaccia, alcuna
ragion non avete; e l'altra è il trattar Gisippo, al quale meritamente obligati
siete, come nimico. Nelle quali quanto scioccamente facciate, io non intendo al
presente di più aprirvi, ma come amici vi consigliare che si pongano giuso gli
sdegni vostri, e i crucci presi si lascino tutti, e che Sofronia mi sia
restituita, acciò che io lietamente vostro parente mi parta e viva vostro;
sicuri di questo che, o piacciavi o non piacciavi quel che è fatto, se
altramenti operare intendeste, io vi torrò Gisippo, e senza fallo, se a Roma
pervengo, io riavrò colei che è meritamente mia, malgrado che voi n'abbiate; e
quanto lo sdegno de' romani animi possa, sempre nimicandovi, vi farò per
esperienzia conoscere.
Poi che Tito così ebbe
detto, levatosi in piè tutto nel viso turbato, preso Gisippo per mano,
mostrando d'aver poco a cura quanti nel tempio n'erano, di quello, crollando la
testa e minacciando, s'uscì.
Quegli che là entro
rimasono, in parte dalle ragioni di Tito al parentado e alla sua amistà
indotti, e in parte spaventati dall'ultime sue parole, di pari concordia
diliberarono es sere il miglior d'aver Tito per parente, poi che Gisippo non
aveva esser voluto, che aver Gisippo per parente perduto e Tito nimico
acquistato. Per la qual cosa andati, ritrovar Tito e dissero che piaceva lor
che Sofronia fosse sua, e d'aver lui per caro parente e Gisippo per buono
amico; e fattasi parentevole e amichevole festa insieme, si dipartirono e Sofronia
gli rimandarono. La qua le, sì come savia, fatta della necessità virtù, l'amore
il quale aveva a Gisippo prestamente rivolse a Tito; e con lui se n'andò a
Roma, dove con grande onore fu ricevuta.
Gisippo rimasosi in
Atene, quasi da tutti poco a capital tenuto, dopo non molto tempo, per certe
brighe cittadine, con tutti quegli di casa sua, povero e meschino fu d'Atene
cacciato e dannato ad essilio perpetuo. Nel quale stando Gisippo, e divenuto
non solamente povero ma mendico, come potè il men male a Roma se ne ven ne, per
provare se di lui Tito si ricordasse; e saputo lui esser vivo e a tutti i
romani grazioso, e le sue case apparate, dinanzi ad esse si mise a star tanto
che Tito venne; al quale egli per la miseria nella quale era non ardì di far motto,
ma ingegnossi di farglisi vedere, acciò che Tito riconoscendolo il facesse
chiamare; per che, passato oltre Tito, e a Gisippo parendo che egli veduto
l'avesse e schifatolo, ricordandosi di ciò che già per lui fatto aveva,
sdegnoso e disperato si dipartì.
Ed essendo già notte ed
esso digiuno e senza denari, senza sapere dove s'andasse, più che d'altro di
morir disideroso, s'avvenne in uno luogo molto salvatico della città, dove
veduta una gran grotta, in quella per istarvi quella notte si mise, e sopra la
nuda terra e male in arnese, vinto dal lungo pianto, s'addormentò. Alla qual
grotta due, li quali insieme erano la notte andati ad imbolare, col furto fatto
andarono in sul matutino, e a quistion venuti, l'uno, che era più forte, uccise
altro e andò via. La qual cosa avendo Gisippo sentita e veduta, gli parve alla
morte molto da lui disiderata, senza uccidersi egli stesso, aver trovata via; e
per ciò, senza partirsi, tanto stette che i sergenti della corte, che già il
fatto aveva sentito, vi vennero e Gisippo furiosamente ne menarono preso. Il
quale essaminato confessò sé averlo ucciso, né mai poi esser potuto della
grotta partirsi; per la qual cosa il pretore, che Marco Varrone era chiamato,
comandò che fosse fatto morire in croce, sì come allor s'usava.
Era Tito per ventura in
quella ora venuto al pretorio; il quale, guardando nel viso il misero
condennato e avendo udito il perché, subitamente il riconobbe esser Gisippo, e
maravigliossi della sua misera fortuna e come quivi arrivato fosse; e ardentissimamente
disiderando d'aiutarlo, né veggendo alcuna altra via alla sua salute se non
d'accusar sé e di scusar lui, prestamente si fece avanti e gridò:
– Marco Varrone,
richiama il povero uomo il quale tu dannato hai, per ciò che egli è innocente.
Io ho assai con una colpa offesi gl'iddii, uccidendo colui il quale i tuoi
sergenti questa mattina morto trovarono, senza volere ora con la morte d'un
altro innocente offendergli.
Varrone si maravigliò, e
dolfegli che tutto il pretorio l'avesse udito; e non potendo con suo onore
ritrarsi di far quello che comandavan le leggi, fece indietro ritornar Gisippo,
e in presenzia di Tito gli disse:
– Come fostu sì folle
che, senza alcuna pena sentire, tu confessassi quello che tu non facesti
giammai, andandone la vita? Tu dicevi che eri colui il quale questa notte avevi
ucciso l'uomo, e questi or viene e dice che non tu ma egli l'ha ucciso.
Gisippo guardò e vide
che colui era Tito, e assai ben conobbe lui far questo per la sua salute, sì
come grato del servigio già ricevuto da lui. Per che, di pietà piagnendo,
disse:
– Varrone, veramente io
l'uccisi, e la pietà di Tito alla mia salute è omai troppo tarda.
Tito d'altra parte
diceva:
– Pretore, come tu vedi,
costui è forestiere, e senza arme fu trovato allato all'ucciso, e veder puoi la
sua miseria dargli cagione di voler morire; e per ciò liberalo, e me, che l'ho
meritato, punisci.
Maravigliossi Varrone
della instanzia di questi due, e già presummeva niuno dovere essere colpevole,
e pensando al modo della loro assoluzione, ed ecco venire un giovane, chiamato
Publio Ambusto, di perduta speranza e a tutti i Romani notissimo ladrone, il
quale veramente l'omicidio aveva commesso; e conoscendo niuno de' due esser
colpevole di quello che ciascun s'accusava, tanta fu la tenerezza che nel cuor
gli venne per la innocenzia di questi due, che, da grandissima compassion
mosso, venne dinanzi a Varrone, e disse:
– Pretore, i miei fati
mi traggono a dover solvere la dura quistion di costoro, e non so quale iddio
dentro mi stimola e infesta a doverti il mio peccato manifestare; e per ciò
sappi niun di costoro esser colpevole di quello che ciascuno sé medesimo
accusa. Io son veramente colui che quello uomo uccisi istamane in sul dì, e
questo cattivello che qui è, là vid'io che si dormiva, mentre che io i furti
fatti divideva con colui cui io uccisi. Tito non bisogna che io scusi: la sua
fama è chiara per tutto, lui non essere uomo di tal condizione; adunque
liberagli, e di me quella pena piglia che le leggi m'impongono. Aveva già Ottaviano
questa cosa sentita, e fattiglisi tutti e tre venire, udir volle che cagion
movesse ciascuno a volere essere il condannato, la quale ciascun narrò.
Ottaviano li due, per ciò che erano innocenti, e il terzo per amor di loro
liberò.
Tito, preso il suo Gisippo,
e molto prima della sua tiepidezza e diffidenzia ripresolo, gli fece
maravigliosa festa, e a casa sua nel menò, là dove Sofronia con pietose lagrime
il ricevette come fratello; e ricreatolo alquanto, e rivestitolo e ritornatolo
nello abito debito alla sua virtù e gentilezza, primieramente con lui ogni suo
tesoro e possessione fece comune, e appresso, una sua sorella giovinetta,
chiamata Fulvia, gli diè per moglie; e quindi gli disse:
– Gisippo, a te sta omai
o il volere qui appresso di me dimorare, o volerti con ogni cosa che donata
t'ho in Acaia tornare.
Gisippo, costrignendolo
da una parte l'essilio che aveva della sua città e d'altra l'amore il qual
portava debitamente alla grata amistà di Tito, a divenir romano s'accordò. Dove
con la sua Fulvia, e Tito con la sua Sofronia, sempre in una casa gran tempo e
lietamente vissero, più ciascun giorno, se più potevano essere, divenendo
amici.
Santissima cosa adunque
è l'amistà, e non solamente di singular reverenzia degna, ma d'essere con
perpetua laude commendata, sì come discretissima madre di magnificenzia e
d'onestà, sorella di gratitudine e di carità, e d'odio e d'avarizia nimica,
sempre, senza priego aspettar, pronta a quello in altrui virtuosamente operare
che in sé vorrebbe che fosse operato. Li cui sacratissimi effetti oggi
radissime volte si veggono in due, colpa e vergogna della misera cupidigia de'
mortali, la qual solo alla propria utilità riguardando, ha costei fuor degli
estremi termini della terra in essilio perpetuo re legata. Quale amore, qual
ricchezza, qual parentado avrebbe il fervore, le lagrime e' sospiri di Tito con
tanta efficacia fatti a Gisippo nel cuor sentire, che egli per ciò la bella
sposa gentile e amata da lui avesse fatta divenir di Tito, se non costei? Quali
leggi, quali minacce, qual paura le giovanili braccia di Gisippo ne' luoghi
solitari, ne' luoghi oscuri, nel letto proprio avrebbe fatto astenere dagli
abbracciamenti della vaga giovane, forse talvolta invitatrice, se non costei?
Quali stati, qua'meriti, quali avanzi avrebbon fatto Gisippo non curar di
perdere i suoi parenti e quei di Sofronia, non curar de' disonesti mormorii del
popolazzo, non curar delle beffe e de gli scherni, per sodisfare all'amico, se
non costei? E d'altra parte, chi avrebbe Tito, senza alcuna diliberazione
(possendosi egli onestamente infignere di vedere) fatto prontissimo a procurar
la propria morte per levar Gisippo dalla croce la quale egli stesso si
procacciava, se non costei? Chi avrebbe Tito senza alcuna dilazione fatto
liberalissimo a comunicare il suo ampissimo patrimonio con Gisippo, al quale la
fortuna il suo aveva tolto, se non costei? Chi avrebbe Tito senza alcuna
suspizione fatto ferventissimo a concedere la propia sorella per moglie a
Gisippo, il quale vedeva poverissimo e in estrema miseria posto, se non costei?
Disiderino adunque gli uomini la moltitudine dei consorti, le turbe de'
fratelli, e la gran quantità de' figliuoli, e con gli lor denari il numero de'
servidori s'ac crescano, e non guardino, qualunque s'è l'uno di questi, ogni
minimo suo pericolo più temere, che sollicitudine aver di tor via i grandi del
padre o del fratello o del signore, dove tutto il contrario far si vede
all'amico.
NOVELLA NONA
Il Saladino in forma di
mercatante è onorato da messer Torello Fassi il passaggio; messer Torello dà un
termine alla donna sua a rimaritarsi; è preso, e per acconciare uccelli viene
in notizia del soldano; il quale, riconosciutolo e sé fatto riconoscere,
sommamente l'onora; messer Torello inferma, e per arte magica in una notte n'è
recato a Pavia, e alle nozze, che della rimaritata sua moglie si facevano, da
lei riconosciuto, con lei a casa sua se ne torna.
Aveva alle sue parole
già Filomena fatta fine, e la magnifica gratitudine di Tito da tutti parimente
era stata commendata molto, quando il re, il deretano luogo riservando a
Dioneo, così cominciò a parlare.
Vaghe donne, senza alcun
fallo Filomena in ciò che del l'amistà dice racconta 'l vero, e con ragione nel
fine delle sue parole si dolfe lei oggi così poco da' mortali esser gradita. E
se noi qui per dover correggere i difetti mondani, o pur per riprendergli,
fossimo, io seguiterei con diffuso sermone le sue parole; ma per ciò che altro
è il nostro fine, a me è caduto nel animo di dimostrarvi forse con una istoria
assai lunga, ma piacevol per tutto, una delle magnificenzie del Saladino, acciò
che per le cose che nella mia novella udirete, se pienamente l'amicizia
d'alcuno non si può per li nostri vizi acquistare, al meno diletto prendiamo
del servire, sperando che, quando che sia, di ciò merito ci debba seguire. Dico
adunque che, secondo che alcuni affermano, al tempo dello imperadore Federigo
primo a racquistare la Terra Santa si fece per li cristiani un general
passaggio. La qual cosa il Saladino, valentissimo signore e allora soldano di
Babilonia, alquanto dinanzi sentendo, seco propose di volere personalmente
vedere gli apparecchiamenti de' signori cristiani a quel passaggio, per meglio
poter provvedersi. E ordinato in Egitto ogni suo fat to, sembiante faccendo
d'andare in pellegrinaggio, con due de' suoi maggiori e più savi uomini e con
tre famigliari solamente, in forma di mercatante si mise in cammino. E avendo
cerche molte provincie cristiane, e per Lombardia cavalcando per passare oltre
a' monti, avvenne che, andando da Melano a Pavia, ed essendo già vespro, si
scontrarono in un gentile uomo, il cui nome era messer Torello di Strà da
Pavia, il quale con suoi famigliari e con cani e con falconi se n'andava a
dimorare ad un suo bel luogo il quale sopra 'l Tesino aveva. Li quali come
messer Torel vide, avvisò che gentili uomini e stranier fossero, e disiderò
d'onorargli. Per che, domandando il Saladino un de' suoi famigliari quanto
ancora avesse di quivi a Pavia, e se ad ora giugner potesser d'entrarvi,
Torello non lasciò rispondere al famigliare, ma rispose egli:
– Signori, voi non
potrete a Pavia pervenire ad ora che dentro possiate entrare.
– Adunque, – disse il
Saladino – piacciavi d'insegnarne, per ciò che stranier siamo, dove noi possiamo
meglio albergare.
Messer Torello disse:
– Questo farò io
volentieri; io era testé in pensiero di mandare un di questi miei infin vicin
di Pavia per alcuna cosa; io nel manderò con voi, ed egli vi conducerà in parte
dove voi albergherete assai convenevolmente.
E al più discreto de'
suoi accostatosi, gl'impose quello che egli avesse a fare, e mandol con loro;
ed egli al suo luogo andatosene prestamente, come si potè il meglio fece
ordinare una bella cena e metter le tavole in un suo giardino; e questo fatto,
sopra la porta se ne venne ad aspettargli. Il famigliare, ragionando co'
gentili uomini di diverse cose, per certe strade gli trasviò, e al luogo del
suo signore, senza che essi se n'accorgessero, condotti gli ebbe.
Li quali come messer
Torel vide, tutto a piè fattosi loro incontro, ridendo disse:
– Signori, voi siate i
molto ben venuti.
Il Saladino, il quale
accortissimo era, s'avvide che questo cavaliere aveva dubitato che essi non
avesser tenuto lo 'nvito, se quando gli trovò invitati gli avesse; per ciò,
acciò che negar non potesser d'esser la sera con lui, con ingegno a casa sua
gli aveva condotti; e risposto al suo saluto, disse:
– Messere, se dei
cortesi uomini l'uom si potesse ramaricare, noi ci dorremmo di voi, il quale,
lasciamo stare del nostro cammino che impedito alquanto avete, ma, senza altro
essere stata da noi la vostra benivolenza meritata che d'un sol saluto, a
prender sì alta cortesia, come la vostra è, n'avete quasi costretti.
Il cavaliere, savio e
ben parlante, disse:
– Signori, questa che
voi ricevete da me, a rispetto di quella che vi si converrebbe, per quello che
io ne' vostri aspetti comprenda, fia povera cortesia; ma nel vero fuor di Pavia
voi non potreste essere stati in luogo alcun che buon fosse; e per ciò non vi
sia grave l'avere alquanto la via traversata, per un poco men disagio avere.
E così dicendo, la sua
famiglia venuta dattorno a costoro, come smontati furono, i cavalli adagiarono;
e messer Torello i tre gentili uomini menò alle camere per loro apparecchiate,
dove gli fece scalzare e rinfrescare alquanto con freschissimi vini, e in
ragionamenti piacevoli infino all'ora di poter cenare gli ritenne.
Il Saladino e' compagni
e' famigliari tutti sapevan latino, per che molto bene intendevano ed erano
intesi, e pareva a ciascun di loro che questo cavaliere fosse il più piacevole
e 'l più costumato uomo, e quegli che meglio ragionasse che alcun altro che
ancora n'avesser veduto. A messer Torello d'altra parte pareva che costoro
fossero magnifichi uomini e da molto più che avanti stimato non avea, per che
seco stesso si dolea che di compa gnia e di più solenne convito quella sera non
gli poteva onorare; laonde egli pensò di volere la seguente mattina ristorare,
e informato un de' suoi famigli di ciò che far voleva, alla sua donna, che
savissima era e di grandissimo animo, nel mandò a Pavia assai quivi vicina e
dove porta alcuna non si serrava. E appresso questo menati i gentili uomini nel
giardino, cortesemente gli domandò chi e' fossero e donde e dove andassero; al
quale il Saladino rispose:
– Noi siamo mercatanti
cipriani e di Cipri vegniamo, e per nostre bisogne andiamo a Parigi.
Allora disse messer
Torello:
– Piacesse a Dio che
questa nostra contrada producesse così fatti gentili uomini, chenti io veggio
che Cipri fa mercatanti.
E di questi ragionamenti
in altri stati alquanto, fu di cenar tempo; per che a loro l'onorarsi alla
tavola commise, e quivi, secondo cena sprovveduta, furono assai bene e
ordinatamente serviti. Né guari, dopo le tavole levate, stettero che,
avvisandosi messer Torello loro essere stanchi, in bellissimi letti gli mise a
riposare, ed esso similmente poco appresso s'andò a dormire.
Il famigliare mandato a
Pavia fe' l'ambasciata alla donna, la quale non con feminile animo, ma con
reale, fatti prestamente chiamare degli amici e de' servidori di messer Torello
assai, ogni cosa opportuna a grandissimo convito fece apparecchiare, e a lume
di torchio molti de' più nobili cittadini fece al convito invitare, e fe' torre
panni e drappi e vai, e compiutamente mettere in ordine ciò che dal marito
l'era stato mandato a dire.
Venuto il giorno, i
gentili uomini si levarono, coi quali messer Torello montato a cavallo e fatti
venire i suoi falconi, ad un guazzo vicin gli menò, e mostrò loro come essi
volassero. Ma dimandando il Saladin di alcuno che a Pavia e al migliore albergo
gli conducesse, disse messer Torello:
– Io sarò desso, per ciò
che esser mi vi conviene.
Costoro credendolsi
furon contenti, e insieme con lui entrarono in cammino; ed essendo già terza ed
essi alla città pervenuti, avvisando d'essere al migliore albergo inviati, con
messer Torello alle sue case pervennero, dove già ben cinquanta de' maggiori
cittadini eran venuti per ricevere i gentili uomini, a' quali subitamente furon
dintorno a' freni e alle staffe. La qual cosa il Saladino e' compagni veggendo,
troppo s'avvisaron ciò che era, e dissono:
– Messer Torello, questo
non è ciò che noi v'avam domandato; assai n'avete questa notte passata fatto, e
troppo più che noi non vagliamo, per che acconciamente ne potevate lasciare
andare al cammin nostro.
A'quali messer Torello
rispose:
– Signori, di ciò che
iersera vi fu fatto, so io grado alla fortuna più che a voi, la quale ad ora vi
colse in cammino che bisogno vi fu di venire alla mia piccola casa; di questo
di stamattina sarò io tenuto a voi, e con meco insieme tutti questi gentili
uomini che dintorno vi sono, a' quali, se cortesia vi par fare il negar di
voler con loro desinare, far lo potete se voi volete.
Il Saladino e' compagni
vinti smontarono, e ricevuti da' gentili uomini lietamente furono alle camere
menati, le quali ricchissimamente per loro erano apparecchiate; e posti giù gli
arnesi da camminare e rinfrescatisi alquanto, nella sala, dove splendidamente
era apparecchiato, vennero. E data l'acqua alle mani e a tavola messi con
grandissimo ordine e bello, di molte vivande magnificamente furon serviti, in
tanto che, se lo 'mperadore venuto vi fosse, non si sarebbe più potuto fargli
d'onore. E quantunque il Saladino e' compagni fossero gran signori e usi di
vedere grandissime cose, nondimeno si maravigliarono essi molto di questa, e
lor pareva delle maggiori, avendo rispetto alla qualità del cavaliere, il qual
sapevano che era cittadino e non signore. Finito il mangiare e le tavole
levate, avendo alquanto d'alte cose parlato, essendo il caldo grande, come a
messer Torel piacque, i gentili uomini di Pavia tutti s'andarono a riposare, ed
esso con li suoi tre rimase, e con loro in una camera entratosene, acciò che
niuna sua cara cosa rimanesse che essi veduta non avessero, quivi si fece la
sua valente donna chiamare. La quale, essendo bellissima e grande della
persona, e di ricchi vestimenti ornata, in mezzo di due suoi figlioletti, che
parevano due agnoli, se ne venne davanti a costoro e piacevolmente gli salutò.
Essi vedendola si levarono in piè, e con reverenzia la ricevettono, e fattala
sedere fra loro, gran festa fecero de' due belli suoi figlioletti. Ma poi che
con loro in piacevoli ragionamenti entrata fu, essendosi alquanto partito
messer Torello, essa piacevolmente donde fossero e dove andassero gli domandò;
alla qual i gentili uomini così risposero come a messer Torello avevan fatto.
Allora la donna con lieto viso disse:
– Adunque veggo che il
mio feminile avviso sarà utile, e per ciò vi priego, che di spezial grazia mi
facciate di non rifiutare né avere a vile quel piccioletto dono il quale io vi
farò venire; ma, considerando che le donne secondo il lor piccol cuore piccole
cose danno, più al buono animo di chi dà riguardando che alla quantità del
dono, il prendiate.
E fattesi venire per
ciascuno due paia di robe, l'un foderato di drappo e l'altro di vaio, non miga
cittadine né da mercatanti, ma da signore, e tre giubbe di zendalo e pannilini,
disse:
– Prendete queste: io ho
delle robe il mio signore vestito con voi; l'altre cose, considerando che voi
siete alle vostre donne lontani, e la lunghezza del cammin fatto e quel la di
quel che è a fare, e che i mercatanti son netti e dilicati uomini, ancor che
elle vaglian poco, vi potranno esser care.
I gentili uomini si
maravigliarono, e apertamente conobber messer Torello niuna parte di cortesia
voler lasciare a far loro, e dubitarono, veggendo la nobiltà delle robe non
mercatantesche, di non esser da messer Torello conosciuti; ma pure alla donna
rispose l'un di loro:
– Queste son, madonna,
grandissime cose e da non dover di leggier pigliare, se i vostri prieghi a ciò
non ci strignessero, alli quali dir di no non si puote.
Questo fatto, essendo
già messer Torello ritornato, la donna, accomandatigli a Dio, da lor si partì,
e di simili cose di ciò, quali a loro si convenieno, fece provvedere a'
famigliari. Messer Torello con molti prieghi impetrò da loro che tutto quel dì
dimorasson con lui; per che, poi che dormito ebbero, vestitisi le robe loro,
con messer Torello alquanto cavalcar per la città, e l'ora della cena venuta,
con molti onorevoli compagni magnificamente cenarono.
E, quando tempo fu,
andatisi a riposare, come il giorno venne su si levarono, e trovarono in luogo
de' loro ronzini stanchi tre grossi pallafreni e buoni, e similmente nuovi
cavalli e forti alli loro famigliari. La qual cosa veggendo il Saladino,
rivolto a' suoi compagni disse:
– Io giuro a Dio, che
più compiuto uomo né più corte se né più avveduto di costui non fu mai; e se li
re cristiani son così fatti re verso di sé chente costui è cavaliere, al
soldano di Babilonia non ha luogo d'aspettare pure un, non che tanti, quanti,
per addosso andargliene, veggiam che s'apparecchiano –; ma sappiendo che il
rinunziargli non avrebbe luogo, assai cortesemente ringraziandolne, montarono a
cavallo.
Messer Torello con molti
compagni gran pezza di via gli accompagnò fuor della città; e quantunque al
Saladino il partirsi da messer Torello gravasse (tanto già innamorato se
n'era), pure, strignendolo l'andata, il pregò che indietro se ne tornasse. Il
quale, quantunque duro gli fosse il partirsi da loro, disse:
– Signori, io il farò
poi che vi piace, ma così vi vo' di re: io non so chi voi vi siete, né di
saperlo, più che vi piaccia, addomando; ma chi che voi vi siate, che voi siate
mercatanti non lascerete voi per credenza a me questa volta; e a Dio vi
comando.
Il Saladino, avendo già
da tutti i compagni di messer Torello preso commiato, gli rispose dicendo:
– Messere, egli potrà
ancora avvenire che noi vi farem vedere di nostra mercatantia, per la quale noi
la vostra credenza raffermeremo; e andatevi con Dio. Partissi adunque il
Saladino e' compagni, con grandissimo animo, se vita gli durasse e la guerra la
quale aspettava nol disfacesse, di fare ancora non minore onore a messer
Torello che egli a lui fatto avesse; e molto e di lui e del la sua donna e di
tutte le sue cose e atti e fatti ragionò co' compagni, ogni cosa più
commendando. Ma poi che tutto il Ponente non senza gran fatica ebbe cercato,
entrato in mare, co' suoi compagni se ne tornò in Alessandria, e pienamente
informato si dispose alla difesa. Messer Torello se ne tornò in Pavia, e in
lungo pensier fu chi questi tre esser potessero, né mai al vero non aggiunse né
s'appressò.
Venuto il tempo del
passaggio, e faccendosi l'apparecchiamento grande per tutto, messer Torello,
non ostante i prieghi della sua donna e le lagrime, si dispose ad andarvi del
tutto; e avendo ogni appresto fatto, ed essendo per cavalcare, disse alla sua
donna, la quale egli sommamente amava:
– Donna come tu vedi, io
vado in questo passaggio sì per onor del corpo e sì per salute dell'anima; io
ti raccomando le nostre cose, e 'l nostro onore; e per ciò che io sono dell'andar
certo, e del tornare, per mille casi che posson sopravvenire, niuna certezza
ho, voglio io che tu mi facci una grazia; che che di me s'avvegna, ove tu non
abbi certa novella della mia vita, che tu m'aspetti uno anno e un mese e un dì
senza rimaritarti, incominciando da questo dì che io mi parto.
La donna, che forte
piagneva, rispose:
– Messer Torello, io non
so come io mi comporterò il dolore nel qual, partendovi voi, mi lasciate; ma,
dove la mia vita sia più forte di lui e altro di voi avvenisse, vivete e morite
sicuro che io viverò e morrò moglie di messer Torello e della sua memoria.
Alla qual messer Torello
disse:
– Donna, certissimo
sono, che, quanto in te sarà, che questo che tu mi prometti avverrà; ma tu se'
giovane donna, e sébella e sédi gran parentado, e la tua virtù è molta ed è
conosciuta per tutto; per la qual cosa io non dubito che molti grandi e gentili
uomini, se niente di me si suspicherà, non ti domandino a' tuoi fratelli e a'
parenti; dagli stimoli de' quali, quantunque tu vogli, non ti potrai difendere,
e per forza ti converrà compiacere a' voler loro; e questa è la cagion per la
quale io questo termine, e non maggiore, ti dimando.
La donna disse:
– Io farò ciò che io
potrò di quello che detto v'ho; e quando pure altro far mi convenisse, io
v'ubidirò, di questo che m'imponete, certamente. Priego io Iddio che a così
fatti termini né voi né me rechi a questi tempi. Finite le parole, la donna
piagnendo abbracciò messer Torello, e trattosi di dito un anello, gliele diede
dicendo:
– Se egli avviene che io
muoia prima che io vi rivegga, ricordivi di me quando il vedrete.
Ed egli presolo montò a
cavallo, e detto ad ogn'uomo addio, andò a suo viaggio; e pervenuto a Genova
con sua compagnia, montato in galea andò via, e in poco tempo per venne ad
Acri, e con l'altro essercito de' cristiani si congiunse. Nel quale quasi a
mano a man cominciò una grandissima infermeria e mortalità; la qual durante,
qual che si fosse l'arte o la fortuna del Saladino, quasi tutto il rimaso degli
scampati cristiani da lui a man salva fur presi, e per molte città divisi e
imprigionati; fra'quali presi messer Torello fu uno, e in Alessandria menato in
prigione. Dove non essendo conosciuto e temendo esso di farsi conoscere, da
necessità costretto si diede a conciare uccelli, di che egli era grandissimo
maestro, e per questo a notizia venne del Saladino: laonde egli di prigione il
trasse, e ritennelo per suo falconiere. Messer Torello, che per altro nome che
il Cristiano dal Saladino non era chiamato, il quale egli non riconosceva né il
soldano lui, solamente in Pavia l'animo avea e più volte di fuggirsi aveva
tentato, né gli era venuto fatto; per che esso, venuti certi genovesi per
ambasciadori al Saladino per la ricompera di certi lor cittadini, e dovendosi
partire, pensò di scrivere alla donna sua come egli era vivo e a lei come più
tosto potesse tornerebbe, e che ella l'attendesse; e così fece; e caramente
pregò un degli ambasciadori che conoscea, che facesse che quelle alle mani dell'abate
di San Pietro in Ciel d'oro, il qual suo zio era, pervenissero.
E in questi termini
stando messer Torello, avvenne un giorno che, ragionando con lui il Saladino di
suoi uccelli, messer Torello cominciò a sorridere e fece uno atto con la bocca,
il quale il Saladino, essendo a casa sua a Pavia, aveva molto notato. Per lo
quale atto al Saladino tornò alla mente messer Torello, e cominciò fiso a
riguardallo e parvegli desso; per che, lasciato il primo ragionamento, disse:
– Dimmi, Cristiano, di
che paese sétu di Ponente?
– Signor mio, – disse
messer Torello – io sono lombardo, d'una città chiamata Pavia, povero uomo e di
bassa condizione.
Come il Saladino udì
questo, quasi certo di quello che dubitava, fra sé lieto disse: – Dato m'ha
Iddio tempo di mostrare a costui quanto mi fosse a grado la sua cortesia –; e
senza altro dire, fattisi tutti i suoi vestimenti in una camera acconciare, vel
menò dentro e disse:
– Guarda, Cristiano, se
tra queste robe n'è alcuna che tu vedessi giammai.
Messer Torello cominciò
a guardare, e vide quelle che al Saladino aveva la sua donna donate, ma non
estimò dover potere essere che desse fossero, ma tuttavia rispose:
– Signor mio, niuna ce
ne conosco; è ben vero, che quelle due somiglian robe di che io già con tre
mercatanti, che a casa mia capitarono, vestito ne fui.
Allora il Saladino, più
non potendo tenersi, teneramente l'abbracciò, dicendo:
– Voi siete messer Torel
di Strà, e io sono l'uno de' tre mercatanti a' quali la donna vostra donò
queste robe; e ora è venuto il tempo di far certa la vostra credenza qual sia
la mia mercatantia, come nel partirmi da voi dissi che potrebbe avvenire.
Messer Torello questo
udendo, cominciò ad esser lietissimo e a vergognarsi; ad esser lieto d'avere
avuto così fatto oste; a vergognarsi che poveramente gliele pareva aver
ricevuto. A cui il Saladin disse:
– Messer Torello, poi
che Iddio qui mandato mi v'ha, pensate che non io oramai, ma voi qui siate il
signore.
E fattasi la festa
insieme grande, di reali vestimenti il fe' vestire, e nel cospetto menatolo di
tutti i suoi maggiori baroni, e molte cose in laude del suo valor dette,
comandò che da ciascun che la sua grazia avesse cara, così onorato fosse come
la sua persona. Il che da quindi innanzi ciascun fece, ma molto più che gli
altri i due signori li quali compagni erano stati del Saladino in casa sua.
L'altezza della subita
gloria, nella qual messer Torel si vide, alquanto le cose di Lombardia gli
trassero della mente, e massimamente per ciò che sperava fermamente le sue
lettere dovere essere al zio pervenute. Era nel campo ovvero essercito de'
cristiani, il dì che dal Saladino furon presi, morto e sepellito un cavalier
provenzale di piccol valore, il cui nome era messer Torello di Dignes; per la
qual cosa, essendo messer Torello di Strà – per la sua nobiltà per lo essercito
conosciuto, chiunque udir dir: – messer Torello è morto –, credette di messer
Torel di Strà, e non di quel di Dignes; e il caso, che sopravvenne, della
presura, non lasciò sgannar gl'ingannati; per che molti italici tornarono con
questa novella, tra' quali furono de' sì presuntuosi che ardiron di dire sé
averlo veduto morto ed essere stati alla sepoltura. La qual cosa saputa dalla
donna e da' parenti di lui fu di grandissima e inestimabile doglia cagione, non
solamente a loro, ma a ciascuno che conosciuto l'avea.
Lungo sarebbe a mostrare
qual fosse e quanto il dolore e la tristizia e 'l pianto della sua donna, la
quale dopo al quanti mesi che con tribulazion continua doluta s'era e a men
dolersi avea cominciato, essendo ella da' maggiori uomini di Lombardia
domandata, da' fratelli e dagli altri suoi parenti fu cominciata a sollicitare
di rimaritarsi. Il che ella molte volte e con grandissimo pianto avendo negato,
costretta, alla fine le convenne far quello che vollero i suoi parenti, con
questa condizione che ella dovesse stare senza a marito andarne tanto quanto
ella aveva promesso a messer Torello.
Mentre in Pavia eran le
cose della donna in questi termini, e già forse otto dì al termine del doverne
ella andare a marito eran vicini, avvenne che messer Torello in Alessandria
vide un dì uno, il qual veduto avea con gli ambasciadori genovesi montar sopra
la galea che a Genova ne venia; per che, fattolsi chiamare, il domandò che
viaggio avuto avessero, e quando a Genova fosser giunti. Al quale costui disse:
– Signor mio, malvagio
viaggio fece la galea, sì come in Creti sentii, là dove io rimasi; per ciò che,
essendo ella vicina di Cicilia, si levò una tramontana pericolosa che nelle
secche di Barberia la percosse, né ne scampò testa, e intra gli altri, due miei
fratelli vi perirono. Messer Torello, dando alle parole di costui fede, che
eran verissime, e ricordandosi che il termine ivi a pochi dì finiva da lui
domandato alla donna, e avvisando niuna cosa di suo stato doversi sapere a
Pavia, ebbe per constante la donna dovere essere rimaritata; di che egli in
tanto dolor cadde, che, perdutone il mangiare e a giacer postosi, diliberò di
morire.
La qual cosa come il
Saladin sentì, che sommamente l'amava, venne da lui; e dopo molti prieghi e
grandi fattigli, saputa la cagion del suo dolore e della sua infermità, il
biasimò molto che avanti non gliele aveva detto, e appresso il pregò che si
confortasse, affermandogli che, dove questo facesse, egli adopererebbe sì che
egli sarebbe in Pavia al termine dato, e dissegli come. Messer Torello, dando
fede alle parole del Saladino, e avendo molte volte udito dire che ciò era
possibile e fatto s'era assai volte, si 'ncominciò a confortare, e a
sollicitare il Saladino che di ciò si diliberasse.
Il Saladino ad un suo
nigromante, la cui arte già espermentata aveva, impose che egli vedesse via
come messer Torello sopra un letto in una notte fosse portato a Pavia; a cui il
nigromante rispose che ciò saria fatto, ma che egli per ben di lui il facesse
dormire. Ordinato questo, tornò il Saladino a messer Torello, e trovandol del
tutto disposto a volere pure essere in Pavia al termine dato, se esser potesse,
e se non potesse, a voler morire, gli disse così:
– Messer Torello, se voi
affettuosamente amate la donna vostra e che ella d'altrui non divegna dubitate,
sallo Iddio che io in parte alcuna non ve ne so riprendere, per ciò che di
quante donne mi parve veder mai ella è colei li cui costumi, le cui maniere e
il cui abito, lasciamo star la bellezza che è fior caduco, più mi paion da
commendare e da aver care. Sarebbemi stato carissimo, poi che la fortuna qui
v'aveva mandato, che quel tempo che voi e io viver dobbiamo, nel governo del
regno che io tengo, parimente signori vivuti fossimo insieme; e se questo pur
non mi dovea esser conceduto da Dio, dovendovi questo cader nell'animo, o di
morire o di ritrovarvi al termine posto in Pavia, sommamente avrei disiderato
d'averlo saputo a tempo, che io con quello onore, con quella grandezza, con
quella compagnia che la vostra virtù merita, v'avessi fatto porre a casa
vostra; il che poi che conceduto non m'è, e voi pur disiderate d'esser là di
presente, come io posso, nella forma che detta v'ho, ve ne manderò.
Al qual messer Torello
disse:
– Signor mio, senza le
vostre parole m'hanno gli effetti assai dimostrato della vostra benivolenzia,
la qual mai da me in sì supremo grado non fu meritata, e di ciò che voi dite,
eziandio non dicendolo, vivo e morrò certissimo; ma poi che così preso ho per
partito, io vi priego che quello che mi dite di fare si faccia tosto, per ciò
che domane è l'ultimo dì che io debbo essere aspettato. Il Saladino disse che
ciò senza fallo era fornito; e il seguente dì, attendendo di mandarlo via la
veniente notte, fece il Saladin fare in una gran sala un bellissimo e ricco
letto di materassi, secondo la loro usanza, tutti di velluti e di drappi ad
oro, e fecevi por suso una coltre lavorata a certi compassi di perle
grossissime e di carissime pietre preziose, la qual fu poi di qua stimata
infinito tesoro, e due guanciali quali a così fatto letto si richiedeano. E
questo fatto, comandò che a messer Torello, il quale era già forte, fosse messa
in dosso una roba alla guisa saracinesca, la più ricca e la più bella cosa che
mai fosse stata veduta per alcuno, e in testa alla lor guisa gli fece una del
le sue lunghissime bende ravvolgere.
Ed essendo già l'ora
tarda, il Saladino con molti de' suoi baroni nella camera là dove messer
Torello era, se n'andò, e postoglisi a sedere allato, quasi lagrimando a dir
cominciò:
– Messer Torello, l'ora
che da voi divider mi dee s'appressa, e per ciò che io non posso né
accompagnarvi né far vi accompagnare, per la qualità del cammino che a fare ave
te che nol sostiene, qui in camera da voi mi convien prender commiato, al qual
prendere venuto sono. E per ciò, prima che io a Dio v'accomandi, vi priego per
quello amore e per quella amistà, la qual è tra noi, che di me vi ricordi; e,
se possibile è, anzi che i nostri tempi finiscano, che voi, avendo in ordine
poste le vostre cose di Lombardia, una volta almeno a veder mi vegniate, acciò
che io possa in quella, essendomi d'avervi veduto rallegrato, quel difetto
supplire che ora per la vostra fretta mi convien commettere; e infino che
questo avvenga, non vi sia grave visitarmi con lettere, e di quelle cose che vi
piaceranno richiedermi, che più volentier per voi che per alcuno uom che viva
le farò certamente.
Messer Torello non potè
le lagrime ritenere, e per ciò da quelle impedito, con poche parole rispose
impossibil dover essere che mai i suoi benefici e il suo valore di mente gli
uscissero, e che senza fallo quello che egli gli domandava farebbe, dove tempo
gli fosse prestato. Per che il Sa ladino, teneramente abbracciatolo e
baciatolo, con molte lagrime gli disse: – Andate con Dio –; e della camera
s'uscì, e gli altri baroni appresso tutti da lui s'accomiatarono, e col
Saladino in quella sala ne vennero, là dove egli avea fatto il letto
acconciare. Ma, essendo già tardi e il nigromante aspettando lo spaccio e
affrettandolo, venne un medico con un beveraggio, e fattogli vedere che per
fortificamento di lui gliele dava, gliel fece bere; né stette guari che
addormentato fu. E così dormendo fu portato per comandamento del Saladino in su
il bel letto, sopra il quale esso una grande e bella corona pose di gran
valore, e sì la segnò, che apertamente fu poi compreso quella dal Saladi no
alla donna di messer Torello esser mandata. Appresso mise in dito a messer
Torello uno anello, nel quale era legato un carbunculo, tanto lucente che un
torchio acceso pareva, il valor del quale appena si poteva stimare; quindi gli
fece una spada cignere, il cui guernimento non si saria di leggieri apprezzato;
e oltre a questo un fermaglio gli fe' davanti appiccare, nel qual erano perle
mai simili non vedute, con altre care pietre assai; e poi da ciascun de' lati
di lui due grandissimi bacin d'oro pieni di doble fe' porre, e molte reti di
perle e anella e cinture e altre cose, le quali lungo sarebbe a raccontare, gli
fece metter da torno. E questo fatto, da capo baciò messer Torello, e al
nigromante disse che si spedisse; per che incontanente in presenzia del
Saladino il letto con tutto messer Torello fu tolto via, e il Saladino co' suoi
baroni di lui ragionando si rimase.
Era già nella chiesa di
San Piero in Ciel d'oro di Pavia, sì come dimandato avea, stato posato messer
Torello con tutti i sopradetti gioielli e ornamenti, e ancor si dormiva,
quando, sonato già il matutino, il sagrestano nella chiesa entrò con un lume in
mano, e occorsogli subitamente di vedere il ricco letto, non solamente si
maravigliò, ma, avuta grandissima paura, indietro fuggendo si tornò; il quale
l'abate e' monaci veggendo fuggire, si maravigliarono e domandarono della
cagione. Il monaco la disse.
– Oh, – disse l'abate e
sì non se' tu oggimai fanciullo né se' in questa chiesa nuovo, che tu così
leggermente spaventar ti debbi; ora andiam noi, veggiamo chi t'ha fatto baco.
Accesi adunque più lumi,
l'abate con tutti i suoi monaci nella chiesa entrati videro questo letto così
maraviglioso e ricco, e sopra quello il cavalier che dormiva; e mentre dubitosi
e timidi, senza punto al letto accostarsi, le nobili gioie riguardavano,
avvenne che, essendo la virtù del beveraggio consumata, che messer Torello
destatosi gittò un gran sospiro.
Li monaci come questo
videro, e l'abate con loro, spaventati e gridando: – Domine aiutaci –, tutti
fuggirono. Messer Torello, aperti gli occhi e dattorno guatatosi, conobbe
manifestamente sé essere là dove al Saladino domandato avea, di che forte fu
seco contento; per che, a seder levatosi e partitamente guardando ciò che
dattorno avea, quantunque prima avesse la magnificenzia del Saladin conosciuta,
ora gli parve maggiore e più la conobbe. Non per tanto, senza altramenti
mutarsi, sentendo i monaci fuggire e avvisatosi il perché, cominciò per nome a
chiamar l'abate e a pregarlo che egli non dubitasse, per ciò che egli era Torel
suo nepote.
L'abate, udendo questo,
divenne più pauroso, come co lui che per morto l'avea di molti mesi innanzi; ma
dopo alquanto, da veri argomenti rassicurato, sentendosi pur chiamare, fattosi
il segno della santa croce, andò a lui. Al quale messer Torel disse:
– O padre mio, di che
dubitate voi? Io son vivo, la Dio mercé, e qui d'oltre mar ritornato.
L'abate, con tutto che
egli avesse la barba grande e in abito arabesco fosse, pure dopo alquanto il
raffigurò e, rassicuratosi tutto, il prese per la mano e disse: – Figliuol mio,
tu sii il ben tornato –; e seguitò: – Tu non ti dei maravigliare della nostra
paura, per ciò che in questa terra non ha uomo che non creda fermamente che tu
morto sii, tanto che io ti so dire che madonna Adalieta tua moglie, vinta dai
prieghi e dalle minacce de' parenti suoi, e contro a suo volere, è rimaritata,
e questa mattina ne dee ire al nuovo marito, e le nozze e ciò che a festa
bisogno fa è apparecchiato.
Messer Torello, levatosi
d'in su il ricco letto e fatta all'abate e a' monaci maravigliosa festa, ognun
pregò che di questa sua tornata con alcun non parlasse, infino a tanto che egli
non avesse una sua bisogna fornita. Appresso questo, fatto le ricche gioie
porre in salvo, ciò che avvenuto gli fosse infino a quel punto raccontò
all'abate. L'abate, lieto delle sue fortune, con lui insieme rendè grazie a
Dio. Appresso questo domandò messer Torel l'abate, chi fosse il nuovo marito
della sua donna. L'abate gliele disse.
A cui messer Torel
disse:
– Avanti che di mia
tornata si sappia, io intendo di veder che contenenza sia quella di mia
mogliere in queste nozze; e per ciò, quantunque usanza non sia le persone
religiose andare a così fatti conviti, io voglio che per amor di me voi
ordiniate che noi v'andiamo.
L'abate rispose che
volentieri; e come giorno fu fatto, mandò al nuovo sposo dicendo che con un compagno
voleva essere alle sue nozze; a cui il gentile uomo rispose che molto gli
piaceva.
Venuta dunque l'ora del
mangiare, messer Torello, in quello abito che era, con lo abate se n'andò alla
casa del novello sposo, con maraviglia guatato da chiunque il vedeva, ma
riconosciuto da nullo; e l'abate a tutti diceva lui essere un saracino mandato
dal soldano al re di Francia ambasciadore.
Fu adunque messer Torel
messo ad una tavola appunto rimpetto alla donna sua, la quale egli con
grandissimo piacer riguardava, e nel viso gli pareva turbata di queste nozze.
Ella similmente alcuna volta guardava lui; non già per conoscenza alcuna che
ella n'avesse, ché la barba grande e lo strano abito e la ferma credenza che
ella aveva che fosse morto, gliele toglievano, ma per la novità dell'abito.
Ma poi che tempo parve a
messer Torello di volerla tentare se di lui si ricordasse, recatosi in mano
l'anello che dalla donna nella sua partita gli era stato donato, si fece
chiamare un giovinetto che davanti a lei serviva, e dissegli:
– Di'da mia parte alla
nuova sposa, che nelle mie contrade s'usa quando alcun forestiere, come io son
qui, mangia al convito d'alcuna sposa nuova, come ella è, in segno d'aver caro
che egli venuto vi sia a mangiare, ella la coppa con la quale bee gli manda
piena di vino, con la quale, poi che il forestiere ha bevuto quello che gli
piace, ricoperchiata la coppa, la sposa bee il rimanente. Il giovinetto fe'
l'ambasciata alla donna, la quale, sì come costumata e savia, credendo costui
essere un gran barbassoro, per mostrare d'avere a grado la sua venuta, una gran
coppa dorata, la qual davanti avea, comandò che lavata fosse ed empiuta di vino
e portata al gentile uomo, e così fu fatto.
Messer Torello, avendosi
l'anello di lei messo in bocca, sì fece che bevendo il lasciò cadere nella
coppa, senza avvedersene alcuno, e poco vino lasciatovi, quella ricoperchiò e
mandò alla donna. La quale presala, acciò che l'usanza di lui compiesse,
scoperchiatala, se la mise a bocca e vide l'anello, e senza dire alcuna cosa
alquanto il riguardò; e riconosciuto che egli era quello che dato avea nel suo
partire a messer Torello, presolo e fiso guardato colui il qual forestiere
credeva, e già conoscendolo, quasi furiosa divenuta fosse, gittata in terra la
tavola che davanti aveva, gridò:
– Questi è il mio
signore; questi veramente è messer Torello.
E corsa alla tavola alla
quale esso sedeva, senza aver riguardo a' suoi drappi o a cosa che sopra la
tavola fosse, gittatasi oltre quanto potè, l'abbracciò strettamente, né mai dal
suo collo fu potuta, per detto o per fatto d'alcuno che quivi fosse, levare,
infino a tanto che per messer Torello non le fu detto che alquanto sopra sé
stesse, per ciò che tempo da abbracciarlo le sarebbe ancor prestato assai.
Allora ella dirizzatasi,
essendo già le nozze tutte turbate, e in parte più liete che mai per lo
racquisto d'un così fatto cavaliere, pregandone egli, ogni uomo stette cheto;
per che messer Torello dal dì della sua partita infino a quel punto ciò che
avvenuto gli era a tutti narrò, conchiudendo che al gentile uomo, il quale, lui
morto credendo, aveva la sua donna per moglie presa, se egli essendo vivo la si
ritoglieva, non doveva spiacere. Il nuovo sposo, quantunque alquanto scornato
fosse, liberamente e come amico rispose che delle sue cose era nel suo volere
quel farne che più gli piacesse. La donna e l'anella e la corona avute dal
nuovo sposo quivi lasciò, e quello che della coppa aveva tratto si mise, e
similmente la corona mandatale dal soldano; e usciti della casa dove erano, con
tutta la pompa delle nozze infino alla casa di messer Torel se n'andarono; e
quivi gli sconsolati amici e parenti e tutti i cittadini, che quasi per un
miracolo il riguardavano, con lunga e lieta festa racconsolarono. Messer
Torello, fatta delle sue care gioie parte a colui che avute avea le spese delle
nozze e all'abate e a molti altri, e per più d'un messo significata la sua
felice repatriazione al Saladino, suo amico e suo servidore ritenendosi, più
anni con la sua valente donna poi visse, più cortesia usando che mai.
Cotale adunque fu il fin
delle noie di messer Torello e di quelle della sua cara donna, e il guiderdone
delle lor liete e preste cortesie. Le quali molti si sforzano di fare, che,
benché abbian di che, sì mal far le sanno, che prima le fanno assai più
comperar che non vagliono, che fatte l'abbiano, per che, se loro merito non ne
segue, né essi né altri maravigliar se ne dee.
NOVELLA DECIMA
Il marchese di Saluzzo,
da' prieghi de' suoi uomini costretto di pigliar moglie, per prenderla a suo
modo, piglia una figliuola d'un villano, della quale ha due figlioli, li quali
le fa veduto di uccidergli. Poi, mostrando lei essergli rincresciuta e avere
altra moglie presa, a casa faccendosi ritornare la propria figliuola come se
sua moglie fosse, lei avendo in camicia cacciata e ad ogni cosa trovandola
paziente, più cara che mai in casa tornatalasi, i suoi figliuoli grandi le
mostra, e come marchesana l'onora e fa onorare.
Finita la lunga novella
del re, molto a tutti nel sembiante piaciuta, Dioneo ridendo disse:
– Il buono uomo che
aspettava la seguente notte di fare abbassare la coda ritta della fantasima,
avrebbe dati men di due denari di tutte le lode che voi date a messer Torello
–; e appresso, sappiendo che a lui solo restava il dire, incominciò.
Mansuete mie donne, per
quel che mi paia, questo dì d'oggi è stato dato a re e a soldani e a così fatta
gente; e per ciò, acciò che io troppo da voi non mi scosti, vo' ragionar d'un
marchese, non cosa magnifica, ma una matta bestialità, come che bene ne gli
seguisse alla fine. La quale io non consiglio alcun che segua, per ciò che gran
peccato fu che a costui ben n'avvenisse.
Già è gran tempo, fu
tra' marchesi di Saluzzo il maggior della casa un giovane chiamato Gualtieri,
il quale, essendo senza moglie e senza figliuoli, in niuna altra cosa il suo
tempo spendeva che in uccellare e in cacciare, né di prender moglie né d'aver
figliuoli alcun pensiere avea, di che egli era da reputar molto savio. La qual
cosa a' suoi uomini non piacendo, più volte il pregarono che moglie prendesse,
acciò che egli senza erede né essi senza signor rimanessero, offerendosi di
trovargliele tale e di sì fatto padre e madre discesa, che buona speranza se ne
potrebbe avere, ed esso contentarsene molto. A'quali Gualtieri rispose:
– Amici miei, voi mi
strignete a quello che io del tutto aveva disposto di non far mai, considerando
quanto grave cosa sia a poter trovare chi co' suoi costumi ben si convenga, e
quanto del contrario sia grande la copia, e come dura vita sia quella di colui
che a donna non bene a sé conveniente s'abbatte. E il dire che voi vi crediate
a' costumi de' padri e delle madri le figliuole conoscere, donde argomentate di
darlami tal che mi piacerà, è una sciocchezza; con ciò sia cosa che io non
sappia dove i padri possiate conoscere, né come i segreti delle madri di
quelle; quantunque, pur conoscendoli, sieno spesse volte le figliuole a' padri e
alle madri dissimili. Ma poi che pure in queste catene vi piace d'annodarmi, e
io voglio esser contento; e acciò che io non abbia da dolermi d'altrui che di
me, se mal venisse fatto, io stesso ne voglio essere il trovatore, affermandovi
che, cui che io mi tolga, se da voi non fia come donna onorata, voi proverete
con gran vostro danno quanto grave mi sia l'aver contra mia voglia presa
mogliere a' vostri prieghi. I valenti uomini risposon ch'eran contenti, sol che
esso si recasse a prender moglie.
Erano a Gualtieri buona
pezza piaciuti i costumi d'una povera giovinetta che d'una villa vicina a casa
sua era, e parendogli bella assai, estimò che con costei dovesse aver vita
assai consolata; e per ciò, senza più avanti cercare, costei propose di volere
sposare; e fattosi il padre chiamare, con lui, che poverissimo era, si convenne
di torla per moglie.
Fatto questo, fece
Gualtieri tutti i suoi amici della contrada adunare, e disse loro:
– Amici miei, egli v'è
piaciuto e piace che io mi disponga a tor moglie, e io mi vi son disposto più
per compiacere a voi che per disiderio che io di moglie avessi.
Voi sapete quello che
voi mi prometteste, cioè d'esser contenti e d'onorar come donna qualunque
quella fosse che io togliessi; e per ciò venuto è il tempo che io sono per
servare a voi la promessa, e che io voglio che voi a me la serviate. Io ho
trovata una giovane secondo il cuor mio, assai presso di qui, la quale io
intendo di tor per moglie e di menarlami fra qui a pochi dì a casa; e per ciò
pensate come la festa delle nozze sia bella, e come voi onorevolmente ricever
la possiate, acciò che io mi possa della vostra promession chiamar contento,
come voi della mia vi potrete chiamare.
I buoni uomini lieti
tutti risposero ciò piacer loro, e che, fosse chi volesse, essi l'avrebber per
donna e onorerebbonla in tutte cose sì come donna. Appresso questo, tutti si
misero in assetto di far bella e grande e lieta festa, e il simigliante fece
Gualtieri. Egli fece preparare le nozze grandissime e belle, e invitarvi molti
suoi amici e parenti e gran gentili uomini e altri dattorno; e oltre a questo
fece tagliare e far più robe belle e ricche al dosso d'una giovane, la quale
della persona gli pareva che la giovinetta la quale avea proposto di sposare; e
oltre a questo apparecchiò cinture e anella e una ricca e bella corona, e tutto
ciò che a novella sposa si richiedea. E venuto il dì che alle nozze predetto
avea, Gualtieri in su la mezza terza montò a cavallo, e ciascuno altro che ad
onorarlo era venuto; e ogni cosa opportuna avendo disposta, disse:
– Signori, tempo è
d'andare per la novella sposa –; e messosi in via con tutta la compagnia sua
pervennero alla villetta. E giunti a casa del padre della fanciulla, e lei
trovata che con acqua tornava dalla fonte in gran fretta, per andar poi con
altre femine a veder venire la sposa di Gualtieri, la quale come Gualtieri
vide, chiamatala per nome, cioè Griselda, domandò dove il padre fosse; al quale
ella vergognosamente rispose:
– Signor mio, egli è in
casa.
Allora Gualtieri
smontato e comandato ad ogn'uomo che l'aspettasse, solo se n'entrò nella povera
casa, dove trovò il padre di lei che aveva nome Giannucole, e dissegli: – Io
son venuto a sposar la Griselda, ma prima da lei voglio sapere alcuna cosa in
tua presenzia –; e domandolla se ella sempre, togliendola egli per moglie,
s'ingegnerebbe di compiacergli e di niuna cosa che egli dicesse o facesse non
turbarsi, e s'ella sarebbe obbediente, e simili altre cose assai, delle quali
ella a tutte rispose del sì.
Allora Gualtieri,
presala per mano, la menò fuori, e in presenzia di tutta la sua compagnia e
d'ogni altra persona la fece spogliare ignuda, e fattisi quegli vestimenti
venire che fatti aveva fare, prestamente la fece vestire e calzare, e sopra i
suoi capegli così scarmigliati com'egli erano le fece mettere una corona, e
appresso questo, maravigliandosi ogn'uomo di questa cosa, disse: – Signori,
costei è colei la quale io intendo che mia moglie sia, dove ella me voglia per
marito –; e poi a lei rivolto, che di sé medesima vergognosa e sospesa stava,
le disse: – Griselda, vuo'mi tu per tuo marito?
A cui ella rispose:
– Signor mio, sì.
Ed egli disse:
– E io voglio te per mia
moglie –; e in presenza di tutti la sposò. E fattala sopra un pallafren
montare, onorevolmente accompagnata a casa la si menò.
Quivi furon le nozze
belle e grandi e la festa non altramenti che se presa avesse la figliuola del
re di Francia. La giovane sposa parve che co' vestimenti insieme l'animo e i
costumi mutasse. Ella era, come già dicemmo, di persona e di viso bella, e così
come bella era, divenne tanto avvenevole, tanto piacevole e tanto costumata,
che non figliuola di Giannucole e guardiana di pecore pareva stata, ma d'alcun
nobile signore; di che ella faceva maravigliare ogn'uom che prima conosciuta
l'avea. E oltre a questo era tanto obbediente al marito e tanto servente, che
egli si teneva il più contento e il più appagato uomo del mondo; e similmente
verso i sudditi del marito era tanto graziosa e tanto benigna, che niun ve
n'era che più che sé non l'amasse e che non l'onorasse di grado, tutti per lo
suo bene e per lo suo stato e per lo suo essaltamento pregando; dicendo, dove
dir solieno Gualtieri aver fatto come poco savio d'averla per moglie presa, che
egli era il più savio e il più avveduto uomo che al mondo fosse; per ciò che
niun altro che egli avrebbe mai potuto conoscere l'alta virtù di costei nascosa
sotto i poveri panni e sotto l'abito villesco. E in brieve non solamente nel suo
marchesato, ma per tutto, anzi che gran tempo fosse passato, seppe ella sì fare
che ella fece ragionare del suo valore e del suo bene adoperare, e in contrario
rivolgere, se alcuna cosa detta s'era contra 'l marito per lei quando sposata
l'avea. Ella non fu guari con Gualtieri dimorata, che ella ingravidò, e al
tempo partorì una fanciulla, di che Gualtieri fece gran festa.
Ma poco appresso,
entratogli un nuovo pensier nell'animo, cioè di volere con lunga esperienzia e
con cose intollerabili provare la pazienzia di lei, primieramente la punse con
parole, mostrandosi turbato e dicendo che i suoi uomini pessimamente si
contentavano di lei per la sua bassa condizione, e spezialmente poi che
vedevano che ella portava figliuoli; e della figliuola che nata era tristissimi,
altro che mormorar non facevano. Le quali parole udendo la donna, senza mutar
viso o buon proponimento in alcuno atto, disse:
– Signor mio, fa di me
quello che tu credi che più tuo onore e consolazion sia, ché io sarò di tutto
contenta, sì come colei che conosco che io sono da men di loro, e che io non
era degna di questo onore al quale tu per tua cortesia mi recasti.
Questa risposta fu molto
cara a Gualtieri, conoscendo costei non essere in alcuna superbia levata, per
onor che egli o altri fatto l'avesse.
Poco tempo appresso,
avendo con parole generali detto alla moglie che i sudditi non potevan patir
quella fanciulla di lei nata, informato un suo famigliare, il mandò a lei, il
quale con assai dolente viso le disse:
– Madonna, se io non
voglio morire, a me conviene far quello che il mio signor mi comanda. Egli m'ha
comandato che io prenda questa vostra figliuola e ch'io... – e non disse più.
La donna, udendo le
parole e vedendo il viso del famigliare, e delle parole dette ricordandosi,
comprese che a costui fosse imposto che egli l'uccidesse; per che prestamente
presala della culla e baciatala e benedettala, come che gran noia nel cuor
sentisse, senza mutar viso in braccio la pose al famigliare e dissegli:
– Te': fa compiutamente
quello che il tuo e mio signore t'ha imposto; ma non la lasciar per modo che le
bestie e gli uccelli la divorino, salvo se egli nol ti comandasse.v Il
famigliare, presa la fanciulla, e fatto a Gualtieri sentire ciò che detto aveva
la donna, maravigliandosi egli della sua costanzia, lui con essa ne mandò a
Bologna ad una sua parente, pregandola che, senza mai dire cui figliuola si
fosse, diligentemente l'allevasse e costumasse. Sopravenne appresso che la
donna da capo ingravidò, e al tempo debito partorì un figliuol maschio, il che
carissimo fu a Gualtieri; ma, non bastandogli quello che fatto avea, con
maggior puntura trafisse la donna, e con sembiante turbato un dì le disse:
– Donna, poscia che tu
questo figliuol maschio facesti, per niuna guisa con questi miei viver son
potuto, sì duramente si ramaricano che uno nepote di Giannucole dopo me debba
rimaner lor signore; di che io mi dotto, se io non ci vorrò esser cacciato, che
non mi convenga far di quello che io altra volta feci, e alla fine lasciar te e
prendere un'altra moglie.
La donna con paziente
animo l'ascoltò, né altro rispose se non:
– Signor mio, pensa di
contentar te e di sodisfare al piacer tuo, e di me non avere pensiere alcuno,
per ciò che niuna cosa m'è cara se non quant'io la veggo a te piacere.
Dopo non molti dì
Gualtieri, in quella medesima maniera che mandato avea per la figliuola, mandò
per lo figliuolo, e similmente dimostrato d'averlo fatto uccidere, a nutricar
nel mandò a Bologna, come la fanciulla aveva mandata; della qual cosa la donna
né altro viso né altre parole fece che della fanciulla fatto avesse; di che
Gualtieri si maravigliava forte e seco stesso affermava niun'altra femina
questo poter fare che ella faceva; e se non fosse che carnalissima de'
figliuoli, mentre gli piacea, la vedea, lei avrebbe creduto ciò fare per più
non curarsene, dove come savia lei farlo cognobbe.
I sudditi suoi, credendo
che egli uccidere avesse fatti i figliuoli, il biasimavan forte e reputavanlo
crudele uomo, e alla donna avevan grandissima compassione; la quale con le
donne, le quali con lei de' figliuoli così morti si condoleano, mai altro non
disse se non che quello ne piaceva a lei che a colui che generati gli avea. Ma,
essendo più anni passati dopo la natività della fanciulla, parendo tempo a
Gualtieri di fare l'ultima pruova della sofferenza di costei, con molti de'
suoi disse che per niuna guisa più sofferir poteva d'aver per moglie Griselda e
che egli cognosceva che male e giovenilmente aveva fatto quando l'aveva presa,
e per ciò a suo poter voleva procacciar col papa che con lui dispensasse che
un'altra donna prender potesse e lasciar Griselda; di che egli da assai buoni
uomini fu molto ripreso. A che null'altro rispose, se non che convenia che così
fosse. La donna, sentendo queste cose e parendole dovere sperare di ritornare a
casa del padre e forse a guardar le pecore come altra volta aveva fatto e
vedere ad un'altra donna tener colui al quale ella voleva tutto il suo bene,
forte in sé medesima si dolea; ma pur, come l'altre ingiurie della fortuna avea
sostenute, così con fermo viso si dispose a questa dover sostenere.
Non dopo molto tempo
Gualtieri fece venire sue lettere contraffatte da Roma, e fece veduto a' suoi
sudditi il papa per quelle aver seco dispensato di poter torre altra moglie e
lasciar Griselda.
Per che, fattalasi venir
dinanzi, in presenza di molti le disse:
– Donna, per concession
fattami dal papa, io posso altra donna pigliare e lasciar te; e per ciò che i
miei passati sono stati gran gentili uomini e signori di queste contrade, dove
i tuoi stati son sempre lavoratori, io intendo che tu più mia moglie non sia,
ma che tu a casa Giannucole te ne torni con la dote che tu mi recasti, e io poi
un'altra, che trovata n'ho convenevole a me, ce ne menerò.v La donna, udendo
queste parole, non senza grandissima fatica, oltre alla natura delle femine,
ritenne le lagrime, e rispose:
– Signor mio, io conobbi
sempre la mia bassa condizione alla vostra nobilità in alcun modo non
convenirsi, e quello che io stata son con voi, da Dio e da voi il riconoscea,
né mai, come donatolmi, mio il feci o tenni, ma sempre l'ebbi come prestatomi;
piacevi di rivolerlo, e a me dee piacere e piace di renderlovi; ecco il vostro
anello col quale voi mi sposaste, prendetelo. Comandatemi che io quella dote me
ne porti che io ci recai, alla qual cosa fare, né a voi pagator né a me borsa
bisognerà né somiere, per ciò che di mente uscito non m'è che ignuda m'aveste:
e se voi giudicate onesto che quel corpo, nel qual io ho portati figliuoli da
voi generati, sia da tutti veduto, io me n'andrò ignuda; ma io vi priego, in
premio della mia verginità, che io ci recai e non ne la porto, che almeno una
sola camicia sopra la dote mia vi piaccia che io portar ne possa.
Gualtieri, che maggior
voglia di piagnere avea che d'altro, stando pur col viso duro, disse:
– E tu una camicia ne
porta.
Quanti dintorno v'erano
il pregavano che egli una roba le donasse, ché non fosse veduta colei, che sua
moglie tredici anni e più era stata, di casa sua così poveramente e così
vituperosamente uscire, come era uscirne in camicia; ma in vano andarono i
prieghi; di che la donna, in camicia e scalza e senza alcuna cosa in capo,
accomandatili a Dio, gli uscì di casa, e al padre se ne tornò con lagrime e con
pianto di tutti coloro che la videro.
Giannucole, che creder
non avea mai potuto questo esser vero che Gualtieri la figliuola dovesse tener
moglie, e ogni dì questo caso aspettando guardati l'aveva i panni che spogliati
s'avea quella mattina che Gualtieri la sposò; per che recatigliele ed ella
rivestitiglisi, ai piccoli servigi della paterna casa si diede, sì come far
soleva, con forte animo sostenendo il fiero assalto della nimica fortuna.
Come Gualtieri questo
ebbe fatto, così fece veduto a' suoi che presa aveva una figliuola d'uno dei
conti da Panago; e faccendo fare l'appresto grande per le nozze, mandò per
Griselda che a lui venisse, alla quale venuta disse:
– Io meno questa donna
la quale io ho nuovamente tolta, e intendo in questa sua prima venuta
d'onorarla; e tu sai che io non ho in casa donne che mi sappiano acconciare le
camere né fare molte cose che a così fatta festa si richeggiono; e per ciò tu,
che meglio che altra persona queste cose di casa sai, metti in ordine quello
che da far ci è, e quelle donne fa invitare che ti pare, e ricevile come se
donna di qui fossi; poi, fatte le nozze, te ne potrai a casa tua tornare.
Come che queste parole
fossero tutte coltella al cuore di Griselda, come a colei che non aveva così
potuto por giù l'amore che ella gli portava, come fatto avea la buona fortuna,
rispose:
– Signor mio, io son
presta e apparecchiata.
Ed entratasene co' suoi
pannicelli romagnuoli e grossi in quella casa, della qual poco avanti era
uscita in camicia, cominciò a spazzare le camere e ordinarle, e a far porre
capoletti e pancali per le sale, a fare apprestare la cucina, e ad ogni cosa,
come se una piccola fanticella della casa fosse, porre le mani; né mai ristette
che ella ebbe tutto acconcio e ordinato quanto si convenia. E appresso questo,
fatto da parte di Gualtieri invitare tutte le donne della contrada, cominciò ad
attender la festa; e venuto il giorno delle nozze, come che i panni avesse
poveri in dosso, con animo e con costume donnesco tutte le donne che a quelle
vennero, e con lieto viso, ricevette.
Gualtieri, il quale
diligentemente aveva i figliuoli fatti allevare in Bologna alla sua parente,
che maritata era in casa de' conti da Panago, essendo già la fanciulla d'età di
dodici anni la più bella cosa che mai si vedesse, e il fanciullo era di sei,
avea mandato a Bologna al parente suo, pregandol che gli piacesse di dovere con
questa sua figliuola e col figliuolo venire a Saluzzo, e ordinare di menare
bella e orrevole compagnia con seco, e di dire a tutti che costei per sua
mogliere gli menasse, senza manifestare alcuna cosa ad alcuno chi ella si fosse
altramenti. Il gentile uomo, fatto secondo che il marchese il pregava, entrato
in cammino, dopo alquanti dì con la fanciulla e col fratello e con nobile
compagnia in su l'ora del desinare giunse a Saluzzo, dove tutti i paesani e
molti altri vicini dattorno trovò, che attendevan questa novella sposa di
Gualtieri.
La quale dalle donne
ricevuta, e nella sala dove erano messe le tavole venuta, Griselda, così come
era, le si fece lietamente incontro dicendo: – Ben venga la mia donna –. Le
donne (che molto avevano, ma invano, pregato Gualtieri che o facesse che la
Griselda si stesse in una camera, o che egli alcuna delle robe che sue erano
state le prestasse, acciò che così non andasse davanti a' suoi forestieri)
furon messe a tavola, e cominciate a servire. La fanciulla era guardata da
ogn'uomo, e ciascun diceva che Gualtieri aveva fatto buon cambio; ma intra gli
altri Griselda la lodava molto, e lei e il suo fratellino.
Gualtieri, al qual
pareva pienamente aver veduto quantunque disiderava della pazienza della sua
donna, veggendo che di niente la novità delle cose la cambiava, ed essendo
certo ciò per mentecattaggine non avvenire, per ciò che savia molto la
conoscea, gli parve tempo di doverla trarre dell'amaritudine, la quale estimava
che ella sotto il forte viso nascosa tenesse. Per che, fattalasi venire, in
presenzia d'ogn'uomo sorridendo le disse:
– Che ti par della
nostra sposa?
– Signor mio, – rispose
Griselda – a me ne par molto bene; e se così è savia come ella è bella, che 'l
credo, io non dubito punto che voi non dobbiate con lei vivere il più consolato
signore del mondo; ma quanto posso vi priego che quelle punture, le quali all'altra,
che vostra fu, già deste, non diate a questa; ché appena che io creda che ella
le potesse sostenere, sì perché più giovane è, e sì ancora perché in
dilicatezze è allevata, ove colei in continue fatiche da piccolina era stata.
Gualtieri, veggendo che
ella fermamente credeva costei dovere esser sua moglie, né per ciò in alcuna
cosa men che ben parlava, la si fece sedere allato, e disse:
– Griselda, tempo è omai
che tu senta frutto della tua lunga pazienza, e che coloro, li quali me hanno
reputato crudele e iniquo e bestiale, conoscano che ciò che io faceva, ad
antiveduto fine operava, vogliendo a te insegnar d'esser moglie e a loro di
saperla torre e tenere, e a me partorire perpetua quiete mentre teco a vivere
avessi; il che, quando venni a prender moglie, gran paura ebbi che non mi
intervenisse, e per ciò, per prova pigliarne, in quanti modi tu sai ti punsi e
trafissi. E però che io mai non mi sono accorto che in parola né in fatto dal
mio piacer partita ti sii, parendo a me aver di te quella consolazione che io
disiderava, intendo di rendere a te ad una ora ciò che io tra molte ti tolsi, e
con somma dolcezza le punture ristorare che io ti diedi; e per ciò con lieto
animo prendi questa, che tu mia sposa credi, e il suo fratello: sono i nostri
figliuoli, li quali e tu e molti altri lungamente stimato avete che io
crudelmente uccider facessi; e io sono il tuo marito, il quale sopra ogn'altra
cosa t'amo, credendomi poter dar vanto che niuno altro sia che, sì com'io, si
possa di sua moglie contentare. E così detto, l'abbracciò e baciò, e con lei
insieme, la qual d'allegrezza piagnea, levatosi, n'andarono là dove la
figliuola tutta stupefatta queste cose ascoltando sedea, e abbracciatala
teneramente e il fratello altressì, lei e molti altri che quivi erano
sgannarono.v Le donne lietissime levate dalle tavole, con Griselda n'andarono
in camera, e con migliore augurio trattile i suoi pannicelli, d'una nobile roba
delle sue la rivestirono, e come donna, la quale ella eziandio negli stracci
pareva, nella sala la rimenarono.
E quivi fattasi co'
figliuoli maravigliosa festa, essendo ogn'uomo lietissimo di questa cosa, il
sollazzo e 'l festeggiare multiplicarono e in più giorni tirarono; e savissimo
reputaron Gualtieri, come che troppo reputassero agre e intollerabili
l'esperienze prese della sua donna; e sopra tutti savissima tenner Griselda.
Il conte da Panago si
tornò dopo alquanti dì a Bologna, e Gualtieri, tolto Giannucole dal suo
lavorio, come suocero il puose in istato, che egli onoratamente e con gran consolazione
visse e finì la sua vecchiezza. Ed egli appresso, maritata altamente la sua
figliuola, con Griselda, onorandola sempre quanto più si potea, lungamente e
consolato visse.
Che si potrà dir qui, se
non che anche nelle povere case piovono dal cielo de' divini spiriti, come
nelle reali di quegli che sarien più degni di guardar porci che d'avere
soprauomini signoria? Chi avrebbe, altri che Griselda, potuto col viso, non
solamente asciutto ma lieto, sofferire le rigide e mai più non udite prove da
Gualtieri fatte? Al quale non sarebbe forse stato male investito d'essersi
abbattuto a una, che quando fuor di casa l'avesse in camicia cacciata, s'avesse
sì ad un altro fatto scuotere il pelliccione, che riuscita ne fosse una bella
roba.
CONCLUSIONE
La novella di Dioneo era
finita, e assai le donne, chi d'una parte e chi d'altra tirando, chi biasimando
una cosa e chi un'altra intorno ad essa lodandone, n'avevan favellato, quando
il re, levato il viso verso il cielo, e vedendo che il sole era già basso all'ora
di vespro, senza da seder levarsi, così cominciò a parlare:
– Adorne donne, come io
credo che voi conosciate, il senno de' mortali non consiste solamente
nell'avere memoria le cose preterite o conoscere le presenti, ma per l'una e
per l'altra di queste sapere antiveder le future è da' solenni uomini senno
grandissimo reputato. Noi, come voi sapete, domane saranno quindici dì, per
dovere alcun diporto pigliare a sostentamento della nostra sanità e della vita,
cessando le malinconie e' dolori e l'angoscie, le quali per la nostra città
continuamente, poi che questo pestilenzioso tempo incominciò, si veggono,
uscimmo di Firenze; il che secondo il mio giudicio noi onestamente abbiam
fatto; per ciò che, se io ho saputo ben riguardare, quantunque liete novelle e
forse attrattive a concupiscenzia dette ci sieno, e del continuo mangiato e
bevuto bene, e sonato e cantato, cose tutte da incitare le deboli menti a cose
meno oneste, niuno atto, niuna parola, niuna cosa né dalla vostra parte né
dalla nostra ci ho conosciuta da biasimare; continua onestà, continua
concordia, continua fraternal dimestichezza mi ci è paruta vedere e sentire. Il
che senza dubbio in onore e servigio di voi e di me m'è carissimo. E per ciò,
acciò che per troppa lunga consuetudine alcuna cosa che in fastidio si
convertisse nascer non ne potesse, e perché alcuno la nostra troppo lunga
dimoranza gavillar non potesse, e avendo ciascun di noi, la sua giornata, avuta
la sua parte dell'onore che in me ancora dimora, giudicherei, quando piacer
fosse di voi, che convenevole cosa fosse omai il tornarci là onde ci partimmo.
Senza che, se voi ben riguardate, la nostra brigata, già da più altre saputa
dattorno, per maniera potrebbe multiplicare che ogni nostra consolazion ci
torrebbe; e per ciò, se voi il mio consiglio approvate, io mi serverò la corona
donatami per infino alla nostra partita, che intendo che sia domattina; ove voi
altramenti diliberaste, io ho già pronto cui per lo dì seguente ne debbia
incoronare.
I ragionamenti furon
molti tra le donne e tra' giovani, ma ultimamente presero per utile e per
onesto il consiglio del re, e così di fare diliberarono come egli aveva
ragionato; per la qual cosa esso, fattosi il siniscalco chiamare, con lui del
modo che a tenere avesse nella seguente mattina parlò, e licenziata la brigata
infino all'ora della cena, in piè si levò.
Le donne e gli altri
levatisi, non altramenti che usati si fossero, chi ad un diletto e chi ad un
altro si diede. E l'ora del la cena venuta, con sommo piacere furono a quella,
e dopo quella a cantare e a sonare e a carolare cominciarono; e menando la
Lauretta una danza, comandò il re alla Fiammetta che dicesse una canzone, la
quale assai piacevolmente così in cominciò a cantare:
S'amor venisse senza
gelosia,
io non so donna nata
lieta com'io sarei, e
qual vuol sia.
Se gaia giovinezza
in bello amante dee
donna appagare,
o pregio di virtute,
o ardire o prodezza,
senno, costume o ornato
parlare,
o leggiadrie compiute,
io son colei per certo
in cui salute,
essendo innamorata,
tutte le veggio en la
speranza mia.
Ma per ciò ch'io
m'avveggio
che altre donne savie
son com'io,
io triemo di paura,
e pur credendo il
peggio,
di quello avviso en
l'altre esser disio
ch'a me l'anima fura,
e così quel che m'è
somma ventura
mi fa isconsolata
sospirar forte e stare
in vita ria.
Se io sentissi fede
nel mio signor, quant'io
sento valore,
gelosa non sarei;
ma tanto se ne vede,
pur che sia chi 'nviti
l'amadore,
ch'io gli ho tutti per
rei.
Questo m'accuora, e
volentier morrei,
e di chiunque il guata
sospetto, e temo non mel
porti via.
Per Dio dunque ciascuna
donna pregata sia che
non s'attenti
di farmi in ciò
oltraggio;
ché, se ne fia nessuna
che con parole o cenni o
blandimenti
in questo il mio
dannaggio
cerchi o procuri, s'io
il risapraggio,
se io non sia svisata,
piagner farolle amara
tal follia.
Come la Fiammetta ebbe
la sua canzone finita, così Dioneo, che allato l'era, ridendo disse:
– Madonna, voi fareste
una gran cortesia a farlo cognoscere a tutte, acciò che per ignoranza non vi
fosse tolta la possessione, poi che così ve ne dovete adirare. Appresso questa
se ne cantarono più altre, e già essendo la notte presso che mezza, come al re
piacque, tutti s'andarono a riposare. E come il nuovo giorno apparve, levati,
avendo già il siniscalco via ogni lor cosa mandata, dietro alla guida del
discreto re verso Firenze si ritornarono. E i tre giovani, lasciate le sette
donne in Santa Maria Novella, donde con loro partiti s'erano, da esse
accommiatatisi, a loro altri piaceri attesero; ed esse, quando tempo lor parve,
se ne tornarono alle loro case.
CONCLUSIONE DELL'AUTORE
Nobilissime giovani, a
consolazion delle quali io a così lunga fatica messo mi sono, io mi credo,
aiutantemi la divina grazia, sì come io avviso, per li vostri pietosi prieghi,
non già per li miei meriti, quello compiutamente aver fornito che io nel
principio della presente opera promisi di dover fare; per la qual cosa Iddio
primieramente, e appresso voi ringraziando, è da dare alla penna e alla man
faticata riposo. Il quale prima che io le conceda, brievemente ad alcune
cosette, le quali forse alcuna di voi o altri potrebbe dire (con ciò sia cosa
che a me paia esser certissimo queste non dovere avere spezial privilegio più
che l'altre cose, anzi non averlo mi ricorda nel principio della quarta
giornata aver mostrato), quasi a tacite quistioni mosse, di rispondere intendo.
Saranno per avventura alcune di voi che diranno che io abbia nello scriver
queste novelle troppa licenzia usata, sì come fare alcuna volta dire alle donne
e molte spesso ascoltare cose non assai convenienti né a dire né ad ascoltare
ad oneste donne. La qual cosa io nego, per ciò che niuna sì disonesta n'è, che,
con onesti vocaboli dicendola, si disdica ad alcuno; il che qui mi pare assai
convenevolmente bene aver fatto. Ma presupponiamo che così sia (ché non intendo
di piatir con voi, che mi vincereste), dico, a rispondere perché io abbia ciò
fatto, assai ragioni vengon prontissime. Primieramente se alcuna cosa in alcuna
n'è, la qualità delle novelle l'hanno richesta, le quali se con ragionevole
occhio da intendente persona fien riguardate, assai aperto sarà conosciuto (se
io quelle della lor forma trar non avessi voluto) altramenti raccontar non
poterle. E se forse pure alcuna particella è in quelle, alcuna paroletta più
liberale che forse a spigolistra donna non si conviene, le quali più le parole
pesano che'fatti e più d'apparer s'ingegnano che d'esser buone, dico che più
non si dee a me esser disdetto d'averle scritte, che generalmente si disdica
agli uomini e alle donne di dir tutto dì «foro e caviglia e mortaio e pestello
e salciccia e mortadello»,e tutto pieno di simiglianti cose. Senza che alla mia
penna non dee essere meno d'autorità conceduta che sia al pennello del
dipintore, il quale senza alcuna riprensione, o almen giusta, lasciamo stare
che egli faccia a san Michele ferire il serpente con la spada o con la lancia,
e a san Giorgio il dragone dove gli piace; ma egli fa Cristo maschio ed Eva
femina, e a Lui medesimo che volle per la salute della umana generazione sopra
la croce morire, quando con un chiovo e quando con due i piè gli conficca in
quella. Appresso assai ben si può cognoscere queste cose non nella chiesa,
delle cui cose e con animi e con vocaboli onestissimi si convien dire
(quantunque nelle sue istorie d'altramenti fatte, che le scritte da me, si
truovino assai), né ancora nelle scuole de' filosofanti, dove l'onestà non meno
che in altra par te è richesta, dette sono, né tra' cherici né tra' filosofi in
alcun luogo, ma ne' giardini, in luogo di sollazzo, tra persone giovani, benché
mature e non pieghevoli per novelle, in tempo nel quale andar con le brache in
capo per iscampo di sé era alli più onesti non disdicevole, dette sono. Le
quali, chenti che elle si sieno, e nuocere e giovar possono, sì come possono
tutte l'altre cose, avendo riguardo allo ascoltatore. Chi non sa ch'è il vino
ottima cosa a' viventi, secondo Cinciglione e Scolaio e assai altri, e a colui
che ha la febbre è nocivo? Direm noi, per ciò che nuoce a' febricitanti, che
sia malvagio? Chi non sa che 'l fuoco è utilissimo, anzi necessario a' mortali?
Direm noi, per ciò che egli arde le case e le ville e le città, che sia
malvagio? L'arme similmente la salute difendon di coloro che pacificamente di
viver disiderano, e anche uccidon gli uomini molte volte, non per malizia di
loro, ma di coloro che malvagiamente l'adoperano. Niuna corrotta mente intese
mai sanamente parola; e così come le oneste a quella non giovano, così quelle
che tanto oneste non sono la ben disposta non posson contaminare, se non come
il loto i solari raggi o le terrene brutture le bellezze del cielo.
Quali libri, quali
parole, quali lettere son più sante, più degne, più riverende, che quelle della
divina Scrittura? E sì sono egli stati assai che, quelle perversamente
intendendo, sé e altrui a perdizione hanno tratto. Ciascuna cosa in sé medesima
è buona ad alcuna cosa, e male adoperata può essere nociva di molte; e così
dico delle mie novelle. Chi vorrà da quelle malvagio consiglio o malvagia
operazion trarre, elle nol vieteranno ad alcuno, se forse in sé l'hanno, e
torte e tirate fieno ad averlo; e chi utilità e frutto ne vorrà, elle nol
negheranno, né sarà mai che altro che utili e oneste sien dette o tenute, se a
que' tempi o a quelle persone si leggeranno, per cui se pe' quali state sono
raccontate. Chi ha a dir paternostri o a fare il migliaccio o la torta al suo
divoto, lascile stare: elle non correranno di dietro a niuna a farsi leggere;
benché e le pinzochere altressì dicono e anche fanno delle cosette otta per
vicenda.
Saranno similmente di
quelle che diranno qui esserne alcune, che non essendoci sarebbe stato assai
meglio. Concedasi: ma io non poteva né doveva scrivere se non le raccontate, e
per ciò esse che le dissero le dovevan dir belle, e io l'avrei scritte belle.
Ma se pur presupporre si volesse che io fossi stato di quelle e lo 'nventore e
lo scrittore (che non fui), dico che io non mi vergognerei che tutte belle non
fossero per ciò che maestro alcun non si truova, da Dio in fuori, che ogni cosa
faccia bene e compiutamente; e Carlo Magno, che fu il primo facitore de'
Paladini, non ne seppe tanti creare che esso di lor soli potesse fare oste.
Conviene nella
moltitudine delle cose, diverse qualità di cose trovarsi. Niun campo fu mai sì
ben coltivato, che in esso o ortica o triboli o alcun pruno non si trovasse
mescolato tra l'erbe migliori. Senza che, ad avere a favellare a semplici
giovinette come voi il più siete, sciocchezza sarebbe stata l'andar cercando e
faticandosi in trovar cose molto esquisite, e gran cura porre di molto
misuratamente parlare. Tuttavia chi va tra queste leggendo, lasci star quelle
che pungono, e quelle che dilettano legga. Esse, per non ingannare alcuna
personar tutte nella fronte portan segnato quello che esse dentro dal loro seno
nascoso tengono.
E ancora, credo, sarà
tal che dirà che ce ne son di troppo lunghe. Alle quali ancora dico, che chi ha
altra cosa a fare, follia fa a queste leggere, eziandio se brievi fossero. E
come che molto tempo passato sia da poi che io a scriver cominciai, infino a
questa ora che io al fine vengo della mia fatica, non m'è per ciò uscito di
mente me avere questo mio affanno offerto alle oziose e non all'altre; e a chi
per tempo passar legge, niuna cosa puote esser lunga, se ella quel fa per che egli
l'adopera. Le cose brievi si convengon molto meglio agli studianti, li quali
non per passare ma per utilmente adoperare il tempo faticano, che a voi, donne,
alle quali tanto del tempo avanza quanto negli amorosi piaceri non ispendete. E
oltre a questo, per ciò che né ad Atene né a Bologna o a Parigi alcuna di voi
non va a studiare, più distesamente parlar vi si conviene che a quegli che
hanno negli studi gl'ingegni assottigliati.
Né dubito punto che non
sien di quelle ancor che diranno le cose dette esser troppo piene e di motti e
di ciance e mal convenirsi ad uno uom pesato e grave aver così fattamente
scritto. A queste son io tenuto di render grazie e rendo, per ciò che, da buon
zelo movendosi, tenere son della mia fama.
Ma così alla loro
opposizione vo' rispondere: io confesso d'esser pesato, e molte volte de' miei
dì essere stato; e per ciò, parlando a quelle che pesato non m'hanno, affermo
che io non son grave, anzi son io sì lieve che io sto a galla nell'acqua; e
considerato che le prediche fatte da' frati, per rimorder delle lor colpe gli
uomini, il più oggi piene di motti e di ciance e di scede [sono], estimai che
quegli medesimi non stesser male nelle mie novelle, scritte per cacciar la
malinconia delle femine. Tuttavia, se troppo per questo ridessero, il lamento
di Geremia, la passione del Salvatore e il ramarichio della Maddalena ne le
potrà agevolmente guerire.
E chi starà in pensiero
che di quelle ancor non si truovino che diranno che io abbia mala lingua e
velenosa, per ciò che in alcun luogo scrivo il ver de' frati? A queste che così
diranno si vuol perdonare, per ciò che non è da credere che altra che giusta
cagione le muova, per ciò che i frati son buone persone e fuggono il disagio
per l'amor di Dio, e macinano a raccolta e nol ridicono; e se non che di tutti
un poco viene del caprino, troppo sarebbe più piacevole il piato loro.
Confesso nondimeno le
cose di questo mondo non avere stabilità alcuna, ma sempre essere in mutamento,
e così potrebbe della mia lingua esser intervenuto; la quale, non credendo io
al mio giudicio (il quale a mio potere io fuggo nelle mie cose) non ha guari mi
disse una mia vicina che io l'aveva la migliore e la più dolce del mondo; e in
verità, quando questo fu, egli erano poche a scrivere delle soprascritte
novelle. E per ciò che animosamente ragionan quelle cotali, voglio che quello
che è detto basti lor per risposta.
E lasciando omai a
ciascheduna e dire e credere come le pare, tempo è da por fine alle parole,
Colui umilmente ringraziando che dopo sì lunga fatica col suo aiuto n'ha al
desiderato fine condotto. E voi, piacevoli donne, con la sua grazia in pace vi
rimanete, di me ricordandovi, se ad alcuna forse alcuna cosa giova l'averle
lette.