Giovanni Boccaccio
Il Corbaccio
Edizione di riferimento: Giovanni Boccaccio: Il
Corbaccio, a cura di P. G. Ricci, Einaudi, Torino 1977
Qualunque persona, tacendo, i benefìci ricevuti
nasconde senza aver di ciò cagione convenevole, secondo il mio giudicio assai
manifestamente dimostra sé essere ingrato e mal conoscente di quelli. Oh cosa
iniqua e a Dio dispiacevole e gravissima a' discreti uomini, il cui malvagio
fuoco il fonte secca della pietà! Del quale acciò che niuno mi possa
meritamente riprendere, intendo di dimostrare nell'umile trattato seguente una
speziale grazia, non per mio merito, ma per sola benignità di Colei che
impetrandola da Colui che vuol quello ch'ella medesima, nuovamente mi fu
conceduta. La qual cosa faccendo, non solamente parte del mio dovere pagherò,
ma sanza niuno dubbio potrò a molti lettori di quella fare utilità. E perciò,
acciò che questo ne segua, divotamente priego Colui del quale e quello di che
io debbo dire e ogni altro bene procedette e procede, e che di tutti, come per
effetto si vede, è larghissimo donatore, che alla presente opera della sua luce
siffattamente illumini il mio intelletto e la mano scrivente regga, che per me
quello si scriva che onore e gloria sia del suo santissimo nome, e utilità e
consolazione delle anime di coloro li quali per avventura ciò leggeranno, e
altro no.
Non è ancora molto tempo passato che,
ritrovandomi io solo nella mia camera, la quale è veramente sola testimonia
delle mie lagrime, de' sospiri e de' rammarichii, sì come assai volte davanti
avea fatto, m'avvenne che io fortissimamente sopra gli accidenti del carnale
amore cominciai a pensare; e, molte cose già trapassate volgendo e ogni atto e
ogni parola pensando meco medesimo, giudicai che, senza alcuna mia colpa, io
fossi fieramente trattato male da colei la quale io mattamente per mia
singulare donna eletta avea e la quale io assai più che la mia propia vita
amava e oltre ad ogni altra onorava e reveriva. E in ciò parendomi oltraggio e
ingiuria, sanza averla meritata, ricevere, da sdegno sospinto, dopo molti
sospiri e rammarichii, amaramente cominciai non a lagrimare solamente, ma a
piagnere. E in tanto d'afflizione trascorsi, ora della mia bestialità
dolendomi, e ora della crudeltà trascutata di colei, che, uno dolore sopra uno
altro col pensiero aggiugnendo, estimai che molto meno grave dovesse essere la
morte che cotal vita; e quella con sommo disiderio cominciai a chiamare; e,
dopo molto averla chiamata, conoscendo io che essa, più che altra cosa crudele,
più fugge chi più la disidera, meco imaginai di costrignerla a tôrmi del mondo.
E già del modo avendo diliberato, mi sopravenne
uno sudore freddo e una compassion di me stesso, con una paura mescolata di non
passare di malvagia vita a peggiore, se io questo facessi, che fu di tanta
forza che quasi del tutto ruppe e spezzò quello proponimento che io davanti
reputava fortissimo. Per che, ritornatomi alle lagrime e al primiero
rammarichio, tanto in esse multiplicai che 'l disiderio della morte, dalla
paura di quella cacciato, ritornò un'altra volta; ma, tolto via come la prima e
le lagrime ritornate, a me, in così fatta battaglia dimorante, credo da celeste
lume mandato, sopravenne uno pensiero, il quale così nella afflitta mente meco
cominciò assai pietosamente a ragionare:
«Deh, stolto, che è quello a che il poco conoscimento
della ragione, anzi più tosto il discacciamento di quella, ti conduce? Or se'
tu sì abbagliato che tu non t'avvegghi che, mentre tu estimi altrui in te
crudelmente adoperare, tu solo se' colui che verso te incrudelisci? Quella
donna che – tu, sanza guardare come, incatenata la tua libertà e nelle sue mani
rimessa – t'è, sì come tu di', di gravi pensieri misera e dolorosa cagione, tu
se' ingannato: tu, non ella, ti se' della tua noia cagione. Mostrami dov'ella
venisse ad isforzarti che tu l'amassi; mostrami con quali armi, con qual
giurisdizione, con qual forza ella t'abbia qui a piagnere e a dolerti menato o
ti ci tenga: tu nol mi potrai mostrare, per ciò ch'egli non è. Vorrai forse
dire: "ella, conoscendo ch'io l'amo, dovrebbe amar me; il che non faccendo,
m'è di questa noia cagione; e con questo mi ci mena e con questo mi ci tiene».
Questa non è ragione ch'abbia alcun valore; forse che non le piaci tu: come
vuo' tu che alcuno ami quello che non gli piace? Dunque, se tu ti se' messo ad
amare persona a cui tu non piaci, non è, se mal te ne segue, la colpa della
persona amata: anzi è tua, che sapesti male eleggere. Tu, dunque, se per non
essere amato ti duoli, te ne se' tu stesso cagione: e perché apponi tu ad
alcuno quello che tu medesimo t'hai fatto e ti fai? E certo, per lo averti tu
stesso offeso, meriteresti tu appo giusto giudice ogni grave penitenzia; ma,
per ciò ch'ella non è quella che al tuo conforto bisogna, anzi sarebbe uno
aggiugnere di pena sopra pena, non è ora da andar cercando questa giustizia. Ma
veggiamo, se tu in te stesso incrudelisci, quel che tu avrai fatto. Ciò che
l'uomo fa, o per piacere a sé solo, o per piacere ad altrui, o per piacere a sé
e ad altrui il fa, o per lo suo contrario. Ma veggiamo se quello a che la tua
cechità ti reca, è tuo piacere o dispiacere. Che egli non sia tuo piacere assai
manifestamente appare; per ciò che, se ti piacesse, tu non te ne
rammaricheresti, né ne piangeresti come tu fai. Resta a vedere se questo tuo
dispiacere è piacere o dispiacere d'altrui; né d'altri è ora da cercare, se non
di quella donna per cui tu a ciò ti conduci, la quale senza dubbio o ella t'ama
o ella t'ha in odio, o egli non è né l'uno né l'altro. Se ella t'ama, senza
niuno dubbio la tua afflizione l'è noiosa e dispiacevole: or non sai tu che,
per lo fare noia e dispiacere altrui, non s'acquista né si mantiene amore, anzi
odio e nimistà? Non pare che tu abbi tanto caro l'amore di questa donna quanto
tu vuogli mostrare, se tu con tanta animosità fai quello che le dispiace e
disideri di far peggio. Se ella t'ha in odio, se tu non se' del tutto fuori di
te, assai apertamente conoscer dèi niuna cosa poter fare che più le piaccia,
che lo 'mpiccarti per la gola il più tosto che tu puoi. E non vedi tu tutto 'l
giorno le persone che hanno alcuno in odio, per diradicarlo e per levarlo di
terra, mettere le lor cose e la propia vita in avventura, contra le leggi umane
e divine adoperando? E, tanta di letizia e di piacer sentono, quanta di
tristizia e di miseria sentono in cui hanno in odio. Tu, dunque, piagnendo,
attristandoti, rammaricandoti, sommo piacere fai a questa tua nimica. E chi
sono quelli, se non i bestiali, che a' loro nimici di piacere si dilettano? Se
ella né t'ama né t'ha in odio, né di te poco né molto cura, a che sono utili
queste lagrime, questi sospiri, questi dolori così cocenti? Tanto t'è per lei
prenderli, quanto se per una delle travi della tua camera li prendessi. Perché
dunque t'affliggi? Perché la morte disideri? La quale ella medesima, tua nimica
secondo che tu estimi, non cercò di darti? Egli non mostra che tu abbi ancora
sentito quanta di dolcezza nella vita sia, quando così leggiermente di tôrti di
quella appetisci; né ben considerato quanta più d'amaritudine sia negli etterni
guai che in quelli del tuo folle amore. Li quali tanti e tali ti vengono,
quanti e quali tu stesso te li procacci: ed ètti possibile, volendo essere
uomo, di cacciarli; il che degli etterni non ti avverrebbe. Leva adunque via,
anzi discaccia del tutto, questo tuo folle appetito; né volere ad una ora te
privare di quello che tu non acquistasti ed etterno supplicio guadagnare, e, a
chi mal ti vuole, sommamente piacere; sieti cara la vita e quella, quanto puoi
il più, t'ingegna di prolungare. Chi sa se tu ancora, vivendo, potrai veder
cosa di costei, di cui tu tanto gravato ti tieni, che sommamente ti farà lieto?
Niuno. Ma certissimo può essere a tutti che ogni speranza di vendetta, od altra
letizia di cosa che qua rimanga, fugge, nel morire, a ciascuno. Vivi adunque; e
come costei, contra te malvagiamente operando, s'ingegna di darti dolente vita
e cagione di disiderare la morte, così tu, vivendo, trista la fa' della vita
tua».
Maravigliosa cosa è quella della divina
consolazione nelle menti de' mortali: questo pensiero, sì com'io arbitro, dal
piissimo Padre de' lumi mandato, quasi dagli occhi della mente ogni oscurità
levatami, intanto la vista di quelli aguzzò e rendé chiara che, a me stesso
manifestamente scoprendosi il mio errore, non solamente, riguardandolo, me ne
vergognai, ma, da compunzione debita mosso, ne lagrimai e me medesimo biasimai
forte, e da meno ch'io non arbitrava d'essere mi reputai. Ma, rasciutte dal
volto le misere e le pietose lagrime e confortatomi a dovere la solitaria
dimoranza lasciare, la quale per certo offende molto ciascuno il quale della
mente è men che sano, della mia camera con faccia assai, secondo la malvagia
disposizione trapassata, serena uscii. E, cercando, trovai compagnia assai
utile alle mie passioni: colla quale ritrovandomi e in dilettevole parte
ricoltici, secondo la nostra antica usanza, primieramente cominciammo a
ragionare con ordine assai discreto delle volubili operazioni della Fortuna,
della sciocchezza di coloro i quali quella con tutto il disiderio
abbracciavano, e della pazzia d'essi medesimi, i quali, come in cosa stabile,
la loro speranza in essa fermavano. E di quinci alle perpetue cose della natura
venimmo e al maraviglioso ordine e laudevole di quelle, tanto meno da tutti con
ammirazion riguardate, quanto più tra noi, senza considerarle, le veggiamo usitate.
E da queste passammo alle divine, delle quali appena le particelle estreme si
possono da' più sublimi ingegni comprendere, tanto d'eccellenzia trapassano
gl'intelletti de' mortali. E intorno a così alti e così eccelsi e così nobili
ragionamenti il rimanente di quel dì consumammo; da' quali la sopravegnente
notte ci costrinse a rimanerci per quella volta; e, quasi da divino cibo
pasciuto, levatomi e ogni mia passata noia avendo cacciata e quasi dimenticata,
consolato alla mia usitata camera mi ridussi. E poi che l'usato cibo assai
sobriamente ebbi preso, non potendo la dolcezza de' passati ragionamenti
dimenticare, grandissima parte di quella notte, non senza incomparabile
piacere, tutti meco repetendoli, trapassai; e, dopo lungo andare, vincendo la naturale
opportunità il mio piacere, soavemente m'addormentai; e con tanta più forza si
mise ne' miei sentimenti il sonno, quanto più gli avea il dolce pensiere
trapassato di tempo tolto.
Per che essendo io in altissimo sonno legato,
non parendo alla mia nimica Fortuna che le bastassero le ingiurie fattemi nel
mio vegghiare, ancora dormendo s'ingegnò di noiarmi; e davanti alla virtù
fantastica, la quale il sonno non lega, diverse forme paratemi, avvenne che a
me subitamente parve intrare in uno dilettevole e bello sentiero, tanto agli
occhi miei e a ciascuno altro mio senso piacevole quanto fosse alcun'altra cosa
stata davanti da me veduta. Il luogo, dove questo si fosse, non mi parea
conoscere; né di conoscerlo mi parea curare, poscia che dilettevole il sentia.
È il vero che, quanto più avanti per esso andava, tanto più parea che di
piacere mi porgesse; per che da quello si fermò una speranza la quale mi
promettea che, se io al fine del sentiero pervenissi, letizia inestimabile e
mai simile da me non sentita mi s'apparecchiava. Onde pareva che in me
s'accendesse uno disio sì fervente di pervenire a quello, che non solamente i
miei piedi si moveano a correre per pervenirvi, ma mi parea che mi fossero da
non usata natura prestate velocissime ali; colle quali mentre a me parea più
rattamente volare, mi parve il cammino cambiare qualità; e, dove erbe verdi e
vari fiori nell'entrata m'erano paruti vedere, ora tassi, ortiche e triboli e
cardi e simili cose mi parea trovare; sanza che, indietro volgendomi, seguir mi
vidi a una nebbia sì folta e sì oscura quanto niuna se ne vedesse già mai; la
quale subitamente intorniatomi, non solamente il mio volare impedìo, ma quasi
d'ogni speranza del promesso bene all'entrare del cammino mi fece cadere.
E così quivi immobile e sospeso trovandomi, mi
parve per lungo spazio dimorare avanti che io, per attorno guardarmi, potessi
conoscere dov'io mi fossi. Ma pure, dopo lungo spazio assottigliatasi la
nebbia, come che 'l cielo per la sopravenuta notte oscuro fosse, conobbi me dal
mio volato essere stato lasciato in una solitudine diserta, aspra e fiera,
piena di salvatiche piante, di pruni e di bronchi, senza sentieri o via alcuna,
e intorniata di montagne asprissime e sì alte che colla loro sommità pareva
toccassero il cielo. Né per guardare con gli occhi corporali, né per
estimazione della mente, in guisa alcuna mi pareva potere comprendere né
conoscere da qual parte io mi fossi in quella entrato; né ancora, che più mi
spaventava, poteva discernere dond'io di quindi potessi uscire e in più
dimestichi luoghi tornarmi. E, oltre a questo, mi parea per tutto, dove che io
mi volgessi, sentire mugghi, urli e strida di diversi e ferocissimi animali:
de' quali la qualità del luogo mi dava assai certa testimonianza che per tutto
ne dovesse essere piena. Laonde e dolore e paura parimente mi venner
nell'animo. Il dolore agli occhi miei recava continue lacrime, e sospiri e
rammarichii alla bocca; la paura m'impediva di prendere partito verso quale di
quelle montagne io dovessi prendere il cammino per partirmi di quella valle,
ciascuna parte mostrandomi piena di più forti nimici della mia vita: laond'io,
arrestato nella guisa che mostrata è, e da ogni consiglio e aiuto abbandonato,
quasi niun'altra cosa che la morte o da fame o da crudel bestia aspettando, fra
gli aspri sterpi e le rigide piante piangendo mi parea dimorare, niun'altra
cosa faccendo che tacitamente o dolermi dell'esservi entrato, sanza prevedere
dov'io pervenire mi dovessi, o chiamare il soccorso di Dio. E, mentre che io in
cotal guisa e già quasi da ogni speranza abbandonato, tutto delle mie lagrime
molle mi stava, ed ecco di verso quella parte dalla quale nella misera valle il
sole si levava, venire verso me con lento passo uno uomo senza alcuna
compagnia; il quale, per quello ch'io poi più da presso discernessi, era di
statura grande e di pelle e di pelo bruno, benché in parte bianco divenuto
fosse per gli anni, de' quali sessanta o forse più dimostrava d'avere, asciutto
e nerboruto, e di non molto piacevole aspetto; e il suo vestimento era
lunghissimo e largo e di colore vermiglio, come che assai più vivo mi paresse,
non ostante che tenebroso fosse il luogo là dov'io era, che quello che qua
tingono i nostri maestri. Il quale, come detto è, con lenti passi
appressandomisi, in parte mi porse paura e in parte mi recò speranza. Paura mi
porse per ciò ch'io cominciai a temere non quello luogo a lui forse per propia
possessione assegnato fosse, e, recandosi ad ingiuria di vedervi alcuno altro,
le fiere del luogo, sì come a lui familiari, a vendicar la sua ingiuria sopra
me incitasse e a quelle mi facesse dilacerare; speranza d'alcuna salute mi recò
in quanto, più faccendosi a me vicino, pieno di mansuetudine mel parea vedere;
e più e più riguardandolo, estimando d'altra volta, non quivi ma in altra
parte, aver veduto, diceva meco:
«Questi per avventura, sì come uomo uso in
questa contrada, mi mostrerrà dove sia di questo luogo l'uscita; e ancora, se
in lui fia spirito di pietà alcuno, infino a quello benignamente mi menerà». E,
mentre che io in così fatto pensiere dimorava, esso, senza ancora dire alcuna
cosa, tanto mi s'era avvicinato che io, ottimamente la sua effige raccolta, chi
egli fosse e dove veduto l'avessi mi ricordai; né d'altro colla mia memoria
disputava che del suo nome, imaginando che se io per quello, misericordia e
aiuto chiedendogli, il nominassi, quasi una più stretta familiarità per quello
dimostrando, con maggiore e più pronta affezione a' miei bisogni il dovessi
muovere. Ma, mentre che io quello che cercando andava ritrovar non poteva,
esso, me con voce assai soave per lo mio propio nome chiamandomi, disse: – Qual
malvagia fortuna, qual malvagio destino t'ha nel presente diserto condotto?
Dove è il tuo avvedimento fuggito, dove la tua discrezione? Se tu hai
sentimento quanto solevi, non discerni tu che questo è luogo di corporal morte
e di perdimento d'anima, che è molto peggio? Come ci se' tu venuto, qual
tracutanza t'ha qui guidato? –
Io, costui udendo, e parendomi nel suo sembiante
di me pietoso, prima ch'io potessi alla risposta avere la voce, dirottamente,
di me stesso increscendomi, a piagnere cominciai. Ma, poi che alquanto sfogata
fu la nuova compassione per le lagrime, raccolte alquanto le forze dell'animo
in uno, con rotta voce e non senza vergogna, rispuosi:
– Sì come io estimo, il falso piacere delle
caduche cose, il quale più savio ch'io non sono già trasviò molte volte e forse
a non minor pericolo condusse, qui, prima che io m'accorgessi dov'io m'andassi,
m'ebbe menato: là dove in amaritudine incomportabile e senza speranza alcuna,
da poi che io mi ci vidi, che è sempre stato di notte, dimorato sono. Ma, poi
che la divina grazia, sì come io credo, e non per mio merito, mi t'ha innanzi
parato, io ti priego, se colui se' il quale molte volte già in altra parte
veder mi parve, che tu, per quello amore che alla comune patria dèi e appresso
per quello d'Iddio per lo quale ogni cosa si dee, e se in te è alcuna umanità,
che di me t'incresca; e, se sai, m'insegni com'io di luogo di tanta paura pieno
partir mi possa: dalla quale già sì vinto mi sento che appena conosco s'io o
vivo o morto mi sono. – Parvemi allora, nel viso guardandolo, che egli alquanto
delle mie parole ridesse con seco stesso; e poi dicesse: – Veramente mi fa il
qui vederti e le tue parole assai manifesto, se altrimenti nol conoscessi, te
del vero sentimento essere uscito e non conoscere se vivo ti sii o morto; il
quale se da te non avessi cacciato, ricordandoti quali occhi fossero quelli e
di cui, la cui luce, secondo il vostro parlare, t'aperse il cammino che qui
t'ha condotto, e fecetelo parere così bello, e conoscendo quanto già fossero a
me, tu non avresti avuto ardire di pregarmi per la tua salute; ma, veggendomi,
ti saresti ingegnato di fuggire per tema di non perderne alquanta che ancora
t'è rimasa. E, se io fossi colui che io già fui, per certo non aiuto ti
presterei ma confusione e danno, sì come a colui che ottimamente l'hai
meritato. Ma, per ciò che io, poi che dalla vostra mortale vita sbandito fui,
ho la mia ira in carità trasmutata, non sarà alla tua domanda negato il mio
aiuto. –
Alle cui parole stando io attento quanto io
poteva, come io udi': «poi che dalla vostra mortale vita fui sbandito», e di
sùbito riconoscendo non costui essere colui il quale io estimava, ma la sua
ombra, così uno repente freddo mi corse per l'ossa e tutti i peli mi si
cominciarono ad arricciare; e, perduta la voce, mi parve, se io potuto avessi,
volere lui fuggire. Ma, sì come sovente avviene a chi sogna, che gli pare ne'
maggiori bisogni per niuna condizione del mondo potersi muovere, così a me
sognante parve che avvenisse; e parvemi che le gambe mi fossero del tutto tolte
e divenire immobile. E di tanto potere fu questa nuova paura ch'io non so
pensare qual cosa fosse quella che sì forte facesse il mio sonno ch'egli allora
non si rompesse; e per questa tema, senza alcuna cosa rispondere o dire, stare
mi parve. La qual cosa veggendo lo spirito, e sorridendo, mi disse:
– Non dubitare: parla sicuramente meco e della
mia compagnia prendi fidanza; ché per certo io non sono venuto per nuocerti, ma
per trarti di questo luogo, se fede intera presterai alle mie parole. –
Il che udendo io, e tornandomi nella memoria
quello che negli uomini possano gli spiriti, mi renderono la sicurtà dipartita;
e, verso lui alzando il viso, il pregai umilemente che di trarmene
s'avacciasse, prima che altro pericolo ne sopravenisse; ed egli allora disse:
– Io non aspetto, a dover far quello che
domandi, che tempo; per ciò che tu dèi sapere che, quantunque l'entrare in
questo luogo sia apertissimo a chi vuole ed entricisi con lascivia e con
mattezza, egli non è così agevole il riuscirne, ma è faticoso e conviensi fare
e con senno e con fortezza. – Le quali avere non si possono senza l'aiuto di
colui col volere del quale egli era quivi venuto.
Allora mi parve che io dicessi:
– Poi che tempo n'è prestato di ragionare né sì
sùbita può essere la nostra partita, se grave non ti fosse, volentieri d'alcune
cose ti domanderei. –
Al quale esso benignamente rispuose:
– Sicuramente ciò che ti piace domanda, infino a
tanto ch'io verrò a te dover domandare d'alcune cose, e alcune dirtene intorno
a quelle. –
Io allora con voce assai espedita dissi:
– Due cose con pari desiderio mi stimolano,
ciascuna ch'io prima di lei ti domandi; e perciò insieme domanderò d'amendue: e
priegoti che ti piaccia di dirmi che luogo questo sia e se a te per abitazione
è stato dato o se, per se stesso, alcuno che c'entri ne può mai uscire, e
appresso mi facci chiaro chi colui sia, col piacere del quale qui venisti ad
atarmi. –
Alle quali parole esso rispuose:
– Questo luogo è da vari variamente chiamato; e
ciascuno il chiama bene: alcuni il chiamano «il laberinto d'Amore», e altri «la
valle incantata», e assai «il porcile di Venere», e molti «la valle de' sospiri
e della miseria»; e, oltre a questi, chi in uno modo e chi in uno altro, come
meglio a ciascun piace. Né a me per abitazione è dato, per ciò che da potere
più in così fatta prigione intrare la morte mi tolse, alla quale tu corri: è il
vero che più dura stanza che questa non è ho, ma di meno pericolo. E dèi sapere
che chi per lo suo poco senno ci cade mai, se lume celestiale non nel trae,
uscir non ne può; e allora, com'io già ti dissi, con senno e con fortezza. –
Al quale io allora dissi:
– Deh, se Colui che può i tuoi più caldi disii
ponga in vera pace, avanti che ad altro da te si proceda, soddisfammi a una
cosa. Tu di' che hai per abitazione luogo più duro che questo, ma meno
pericoloso; e io già, per le tue parole medesime e per la mia ricordanza,
conosco che tu al nostro mondo non vivi: quale luogo adunque possiedi tu? Se'
tu in quella prigione etterna nella quale, senza speranza di redenzione, e
s'entra e si dimora? O se' in parte che, quando che sia, speranza vera ti
prometta salute? Se tu se' nella prigione etterna, senza dubbio più dura dimora
credo che vi sia che qui non è: ma come può ella essere con meno periglio? E,
se tu se' in parte che ti prometta ancora riposo, come può ella essere più dura
che questa non è?
– Io sono – rispuose lo spirito – in parte che
mi promette sanza fallo salute. E intanto è di minore periglio che questo, che
quivi peccare non si può, per che a peggio temere si possa di pervenire; il che
qui continuamente si fa. E tanto molti ciò perseverano, faccendo, che essi
caggiono in quello carcere cieco nel quale mai il divino lume con grazia o con
misericordia si vede, ma con irrevocabile e severa giustizia continuo, con
grave danno di chi, sentendo, il conosce, si vede acceso. Ma sanza dubbio la
mia stanza, com'io già dissi, ha troppa più di durezza che questa: intanto che,
se lieta speranza, che certa di migliore vi si porta, non aiutasse e me e gli
altri che vi sono a sostenere pazientemente la gravezza di quella, quasi si
porìa dire che gli spiriti, li quali sono immortali, vi morrebbono. E, acciò
che tu parte ne 'ntenda, sappi che questo mio vestimento, il quale t'ha, poscia
che 'l vedesti, fatto maravigliare, per ciò che per avventura mai simile,
quando io era tra voi, nol mi vedesti, e che solamente vi pare che a coloro che
ad alcuno onore sono elevati più che ad altri si convenga d'usare, non è panno
manualmente tessuto, anzi è un fuoco dalla divina arte composto, sì fieramente
cocente che 'l vostro è come ghiaccio, a rispetto di questo, freddissimo; e
mugnemi sì e con tanta forza ogni umore da dosso che a niuno carbone, a niuna
pietra divenuta calcina mai nelle vostre fornaci non fu così dal fuoco vostro
munto: per che alla mia sete tutti i vostri fiumi insieme adunati e giù per la
mia gola volgendosi sarebbono un picciol sorso. E di ciò due cose mi son
cagione: l'una è lo 'nsaziabile ardore il quale io ebbi de' danari, mentre che
io vissi; e l'altra è la sconvenevole pazienzia colla quale io comportai le
scellerate e disoneste maniere di colei la qual tu vorresti d'avere veduta
esser digiuno. E questo basti al presente d'avere ragionato della durezza del
luogo della mia dimora; alla quale veramente quella noia che qui si sostiene,
se non intanto che questa è dannosa e quella è fruttuosa, non è da comparare.
Ma da soddisfare è alla tua seconda domanda,
acciò che tu a' tuoi impauriti spiriti interamente restituischi le forze loro:
e per ciò sappi che colui, colla cui licenzia io qui sono venuto, anzi, a dir
meglio, per lo cui comandamento, è quello infinito Bene che di tutte le cose fu
creatore e per lo quale e al quale tutte le cose vivono; e al quale è del
vostro bene e del vostro riposo e della vostra salute molto maggiore
sollecitudine che a voi stessi. –
Dico che, com'io dallo spirito queste parole
udii, conoscendo il mio pericolo e la benignità del mandatore, io mi sentii
nello animo venire una umiltà grandissima la quale e l'altezza e la potenzia
del mio Signore, la sua etterna stabilità e i suoi continui benefici in me
conoscer mi fece; e appresso la mia viltà, la mia fragilità e la mia
ingratitudine; e le infinite offese già fatte verso Colui che ora nel mio
bisogno, come sempre avea fatto, senza avere riguardo al mio malvagio operare,
mi si mostrava pietoso e liberale. Dalla qual conoscenza una contrizione sì
grande e pentimento mi venne delle non ben fatte cose, che non solamente mi
parve che gli occhi di vere lagrime, e d'assai, si bagnassero, ma che il cuore,
non altrimenti che faccia la neve al sole, in acqua si risolvesse; per che, sì
per questo e sì ancora perché poverissimo di grazie da rendere a tanti e sì
alti effetti mi sentiva, per lungo spazio mi tacqui, parendomi bene che lo
spirito la cagione conoscesse; ma, poi che così alquanto stato fui, ricominciai
a parlare:
– O bene avventurato spirito, assai bene
discerno, la mia medesima coscienza ricercando, quello essere vero che tu
ragioni: cioè Dio più cura avere di noi mortali che noi medesimi non abbiamo;
li quali colle nostre malvage opere continuamente ci andiamo sommergendo,
dov'egli colla sua caritativa pietà sempre ne va sollevando, e le sue etterne
bellezze mostrandoci, a quelle, come benignissimo padre, ne va chiamando; ma
tuttavia, si come colui che ancora la divina bontà, a guisa che le terrene operazioni
si fanno, vo misurando, maraviglia mi porge, sentendomi io averlo offeso molto,
come esso ad ora aiutarmi si movesse. –
A cui lo spirito disse:
– Veramente tu parli come uomo che ancora non
mostra conosca il costume della divina bontà, e che quella, che è
perfettissima, estimi così nelle sue opere esercitarsi come voi, che mortali e
mobili e imperfetti sète, fate; nelle menti de' quali niuno riposo si truova,
insino a tanto che gran vendetta non si vede d'ogni piccola offesa ricevuta.
Ma, per ciò che la contrizione delle commesse colpe, la quale mi pare conoscere
in te venuta, ti dimostra docile e attento dovere essere a' futuri
ammaestramenti, mi piace una sola delle cagioni per la quale la divina bontà si
mosse a dovere me mandare ad aiutarti ne' tuoi affanni. Egli è il vero che, per
quello ch'io sentissi nell'ora che questa commessione di venire qui a te mi fu
fatta non da umana voce, ma da angelica, – la quale non si dee credere che
menta già mai – che tu sempre, qual che stata si sia la tua vita, hai in
speziale riverenzia e devozione avuta Colei nel cui ventre si racchiuse la
nostra salute e che è viva fontana di misericordia e madre di grazia e di
pietà; e in lei, sì come in termine fisso, avesti sempre intera speranza. La
qual cosa essendo a' suoi divini occhi manifesta e veggendoti in questa valle,
oltre al modo usato, smarrito e impedito, intanto che tu eri a te medesimo
uscito di mente, sì come essa benignissima fa assai sovente nelle bisogne de'
suoi divoti che, senza priego aspettare, da se medesima si muove a sovvenire
dell'opportuno aiuto al bisogno, veggendo 'l pericolo al qual tu eri, senza tua
domanda aspettare, per te al Figliuolo domandò grazia e impetrò la salute tua;
alla quale per suo messo mi fu comandato che io venissi; e io il feci; né prima
da te mi partirò che in luogo libero espedito t'arò riposto, dove a te piaccia
di seguitarmi. –
Al quale io dopo il suo tacere, dissi:
– Assai bene m'hai soddisfatto alle mie domande:
e nel vero, come che vendetta di Dio è un di nuovo rifarti bello per più
piacergli, pur di te compassione mi viene e disidero sommamente d'alleggiare
quella, se mai con alcuna mia opera io potessi; e d'altra parte in me medesimo
mi rallegro, sentendo che tu, non al ruinare allo 'nferno, ma al salire al
glorioso regno sii dopo la tua penitenzia disposto. La benignità e la clemenzia
di Colei, la quale per la mia salute t'ha in questa vicenda mandato, non m'è
ora nuova: ella in molti altri pericoli già me l'ha fatta conoscere, quantunque
io di tanti benefìci ingrato stato sia, poco nelle sue laudi adoperandomi; ma
io divotamente Lei priego, che può quello che vuole, che, come dalla perpetua
morte più volte m'ha tolto, così e i miei passi dirizzi alla vita perpetua e
quelli sostenga e conservi tanto che io, suo fedelissimo servidore essendo,
pervenga.
Ma per lei ti priego che ancora, a una cosa
rispondendomi, mi soddisfacci. In questa valle, la qual tu variamente nomini,
senza appropiarlene alcuno, abitac'egli alcuna persona, se quelli non fosser
già, li quali per avventura Amor della sua corte avendoli sbanditi, qui li
mandasse in esilio, come a me pare essere stato da lui mandato? o posseggonla
pur solamente le bestie le quali io ho udite tutta la notte d'attorno mugghiare
? –
A cui egli sorridendo rispuose:
– Assai bene conosco che ancora il raggio della
vera luce non è pervenuto al tuo intelletto e che tu quella cosa, la quale è
infima miseria, come molti stolti fanno, estimi somma felicità, credendo che
nel vostro concupiscibile e carnale amore sia alcuna parte di bene; e perciò
apri gli orecchi a quello che io ora ti dirò. Questa misera valle è quella
corte che tu chiami «d'Amore»; e quelle bestie, che tu di' che udite hai e odi
mugghiare, sono i miseri, de' quali tu se' uno, dal fallace amore inretiti; le
boci de' quali, in quanto di così fatto amore favellino, niuno altro suono
hanno negli orecchi de' discreti e ben disposti uomini che quello che mostra
che pervenga alle tue; e però dianzi la chiamai «laberinto», perché così in
essa gli uomini, come in quello già faceano, senza saperne mai riuscire,
s'avviluppano. Maravigliomi io di te che ne domandi; con ciò sia cosa ch'io
sappia che tu, non una volta, ma molte già dimorato ci sii; quantunque forse
non con quella gravezza che ci dimori al presente. –
Io, quasi di mia colpa compunto, riconoscendo la
verità tocca da lui, quasi in me ritornato, rispuosi:
– Veramente ci son io altre volte assai stato;
ma con più lieta fortuna, secondo il parere delle corrotte menti; e di quinci,
più per l'altrui grazia che per lo mio senno, in diversi modi or mi ricordo
d'essere uscito; ma sì m'avea e il dolor sostenuto e la paura di me tratto, che
così come mai stato non ci fossi, d'esserci stato mi ricordava. E assai bene
ora conosco, senza più aperta dimostrazione, che faccia gli uomini divenire
fiere e che voglia dire la salvatichezza del luogo e gli altri nomi da te
mostratimi della valle, e il non vedere in essa né via né sentiero.
– Omai adunque, – disse lo spirito – poi che le
tenebre alquanto ti si cominciano a partire dell'intelletto e già cessa la
paura nella quale io ti trovai, infino che 'l lume apparisca che la via da
uscirci ti manifesti, d'alcuna cosa teco mi piace di ragionare; e, se la natura
del luogo il patisse, io direi, in servigio di te, che stanco ti veggio, che
noi a seder ci ponessimo; ma, perché qui far non si può, ragioneremo in piede.
Io so (e, se io d'altra parte nol sapessi, sì mel fecero poco avanti chiaro le
tue parole, e ancora il luogo nel quale io t'ho trovato mel manifesta) che tu
se' fieramente nelle branche d'amore inviluppato; né m'è più celato che questo
sia, chi di ciò t'è cagione; e tu il dèi nel mio ragionare avere compreso, se
di ciò ti ricorda che io dianzi dissi di colei la qual tu vorresti d'aver
veduta essere digiuno. Ma, avanti che io più oltre vada, ti dico che io non
voglio che tu di me prenda alcuna vergogna, perch'ella già assai più che 'l
convenevole mi fosse cara; ma, così sicuramente e con aperto viso di ciò con
meco ragiona, come se sempre stato fossi da lei strano; e, per merito della compassione
la quale io porto a' tuoi mali, ti priego che come tu ne' suoi lacci incappasti
mi manifesti. –
Al quale io, cacciato via ogni rossore,
rispuosi:
– Il priego tuo mi strigne a dirti quello ch'io
mai, fuori che a un fidato compagno, non dissi e a lei sola per alcuna mia
lettera fe' palese; né di ciò, dove pure la tua liberalità non me ne
assicurasse, da te mi dovrei, più che da un altro, vergognare; né tu
turbartene; per ciò che, come tu dalla nostra vita ti dipartisti, secondo che
l'ecclesiastiche leggi ne mostrano, quella ch'era stata tua donna non fu più
tua, ma divenne liberamente sua: per che in niuno atto potresti con ragione
dire che io mi fossi ingegnato di dovere alcuna tua cosa occupare. Ma,
lasciando ora questa disputazione, ché el luogo non ci ha, stare e venendo a
quello aprirti che tu domandi, dico che per la mia disavventura, non sono molti
mesi passati, avvenne che io con uno, al quale tu fosti già vicino e parente,
di cui esprimere il nome or non bisogna, in ragionare di varie cose entrai. E,
mentre noi così ragionando andavamo, accadde, come talvolta avviene che l'uomo
d'uno ragionamento salta in un altro, che noi, il primo lasciato, in sul
ragionare delle valorose donne venimmo; e, prima avendo molte cose dette delle
antiche, quale in magnanimità, quale in castità, quale in corporal fortezza
lodando, condiscendemmo alle moderne: fra le quali il numero trovandone
piccolissimo da commendare, pure esso, che in questa parte il ragionare prese,
alcune ne nominò della nostra città; e, tra l'altre, nominò quella, che già fu
tua, la quale nel vero io ancora non conosceva. Così non l'avessi io mai
conosciuta poi! E di lei, non so da che affezione mosso, cominciò a dire
mirabili cose, affermando che in magnificenzia mai non era alcuna sua pari stata;
e, oltre alla natura delle femine, lei s'ingegnava di mostrare essere uno
Alessandro; e alcune delle sue liberalità raccontando, le quali, per non
consumare il tempo in novelle, non curo di raccontare. Appresso lei di cotanto
e così buono senno naturale disse essere dotata quanto altra donna per
avventura conosciuta già mai; e, oltre a ciò, eloquentissima, forse non meno
che stato fosse qualunque ornato e pratico rettorico, fu ancora; e, oltre a
ciò, che sommamente mi piacque, sì come a colui ch'a quelle parole dava intera
fede, la disse essere piacevole e graziosa e di tutti quelli costumi piena che
in gran gentildonna si possano lodare e commendare. Le quali cose narrando
questo cotale, confesso che io meco tacitamente dicea: «O felice colui al quale
la Fortuna è tanto benigna ch'ella d'una così fatta donna gli conceda
l'amore!».
E già quasi meco avendo diliberato di volere
tentare se io potessi colui essere, che degno di quello divenissi, del nome di
lei colui domandai e della sua gentilezza e del luogo dov'ella a casa
dimorasse, il quale quello non è dove tu la lasciasti; ed esso ogni cosa
pienamente mi fé palese. Per che poi, da lui dipartitomi, del tutto dispuosi di
volerla vedere; e, se così perseverasse meco ciò che io di lei estimava,
mettere ogni mia sollecitudine in fare ch'ella divenisse mia donna, come io suo
servidore diverrei. E, sanza dare alla bisogna alcuno indugio, in quella parte
prestamente n'andai, dove a quella ora la credetti potere trovare e vedere; e
sì mi fu in ciò la Fortuna favorevole, la qual mai, se non in cosa che dannosa
mi dovesse riuscire, non mi fu piacevole, che al mio avviso ottimamente
rispuose l'effetto. E dirotti maravigliosa cosa: che, non avendo io alcuno
altro indizio di lei che solamente il color nero del vestimento, guardando tra
molte che quivi n'erano in quello medesimo abito che ella, là dove io prima la
vidi, come il suo viso corse agli occhi miei, subitamente avvisai lei dovere
essere quella che io andava cercando. E per ciò ch'io portai sempre oppinione, e
porto, che amore discoperto o sia pieno di mille noie o non possa ad alcuno
disiderato effetto pervenire, avendo meco disposto del tutto di non comunicar
questo con persona in guisa niuna, se con colui non fosse al quale, poscia
ch'io amico divenni, ogni mio secreto fu palese, non ardiva addomandar se ciò
fosse, che mi pareva. Ma ancora la Fortuna, che in poche cose intorno a questo
mio desiderio mi dovea giovare, come nella prima cosa m'era stata favorevole,
così mi fu in questa seconda: perciò che, di dietro a me, senti' alcuna donna
che colle sue compagne di lei favellava, dicendo:
«Deh, guardate come alla cotal donna stanno bene
le bende bianche e' panni neri». La quale alcuna delle compagne, che per
avventura non la conoscea, con tanto piacere di me, che alle loro parole tenea
gli orecchi, che dir non potrei, la dimandò: «Quale è dessa di quelle molte che
colà sono?». A cui la domandata donna rispuose: «La terza, che siede in su
quella panca, è colei di cui io vi parlo». Dalla quale risposta io compresi me
ottimamente avere avvisato; e da quella ora in avanti l'ho conosciuta. Io non
mentirò: come io vidi la sua statura e poco appresso alquanto al suo andare
riguardai e un poco gli atti esteriori ebbi considerati, io presumetti, ma
falsamente, non solamente che colui, al quale di lei avea udito parlare,
dovesse avere detto il vero, ma che troppo più ch'egli detto non avea ne
dovesse essere di bene. E così, da falsa oppinione vinto, subito mi senti',
come se dall'udite cose e dalla vista di lei si movesse, corrermi al cuore un
fuoco, non altrimenti che faccia su per le cose unte la fiamma, e sì fieramente
riscaldarmi che, chi allora m'avesse riguardato nel viso, n'arebbe veduto
manifesto segnale; e come che i segni, venuti nel viso per lo nuovo fuoco, che,
come prima le parti superficiali andò leccando, così poi, nelle intrinsece
trapassato, più vivo divenne, se ne partissono, mai ancora se non dentro,
crescer il sentii.
In questa guisa adunque, che raccontato ho, di
colei, che mal per me fu veduta, preso fui, dandomi il suo aspetto pieno di
malvagità, non senza artificiale maestria, speranza di futura mercede. –
Lo spirito, il quale – secondo il mio parere –
queste cose, non senza diletto ascoltate avea, già me sentendo tacere così
cominciò a parlare:
– Assai bene m'hai dimostrato il come e la
cagione del tuo esser di prima allacciato e come tu medesimo ti vestisti la
catena alla gola, ch'ancor ti strigne. Ma non ti sia grave ancor manifestarmi
se mai questo tuo amore le palesasti e come, ché mi parve dianzi udire di sì; e
il dirmi appresso se da lei avesti alcuna speranza che più t'accendesse che il
tuo medesimo disiderio primieramente avesse fatto. –
Al quale io rispuosi:
– Per ciò che io manifestamente conosco, se io
celar tel volessi, io non potrei, sì mi pare che tu il vero senta de' fatti
miei, donde che tu te l'abbi, niuna cosa te ne nasconderò. Egli è il vero che,
avendo io data piena fede, come già dissi, alle parole udite da colui che lei
tanto valorosa m'avea mostrata, io presi ardir di scriverle, mosso da cotale
intenzione: «Se costei è da quello che costui mi ragiona, aprendole io
onestamente per una lettera il mio amore, l'una delle due cose ragionevolmente
mi dee seguire: o ella l'arà caro, per usarlo in quello ch'io possa; e a ciò mi
risponderà; o ella l'arà caro, ma, non volendolo usare, discretamente me dalla
mia speranza rimoverà». Per che l'uno de' due fini aspettando, quantunque l'uno
più che l'altro disiderassi, per una mia lettera, piena di quelle parole che
più onestamente intorno a così fatta materia dir si possono, il mio ardente
disiderio le feci sentire. A questa lettera seguitò per risposta una sua
piccola letteretta, nella quale, quantunque ella con aperte parole niuna cosa
al mio amore rispondesse, pure, con parole assai zoticamente composte e che
rimate pareano, e non erano rimate, sì come quelle che l'un piè avevano
lunghissimo e l'altro corto, mostrava di disiderar di sapere chi io fossi. E
dirotti più: ch'ella in quella s'ingegnò di mostrare d'avere alcun sentimento
d'una oppinione filosofica, quantunque falsa sia, cioè che una anima d'uno uomo
in uno altro trapassi: il che alle prediche, non in libro né in scuola, son
certo ch'apprese. E in quella, me a uno valente uomo assomigliando, mostrò di
volere, lusingando, contentare; affermando appresso sommamente piacerle chi
senno e prodezza e cortesia avesse in sé e con queste antica gentilezza
congiunta. Per la quale lettera, anzi per lo stile del dettato della lettera,
assai leggiermente compresi o colui, che di lei assai cose dette m'avea, esser
di gran lunga del natural senno di lei e della ornata eloquenzia ingannato, o
averne voluto me ingannare. Ma non pote' perciò, non che spegnere, ma pure un
poco il concetto fuoco diminuire; e avvisai che ciò che scritto m'avea
niun'altra cosa per ancora volesse, se non darmi ardire a più avanti scrivere e
speranza di più particulare risposta che quella; e ammaestramento e regola in
quelle cose fare che per quella poteva comprendere che le piacessero. Delle
quali, come ch'io fornito non mi sentissi, per ciò che né senno né prodezza né
gentilezza c'era (alla cortesia, quantunque il buono animo ci fosse, non ci
avea di che farla), nondimeno, secondo la mia possibilità, a dovere fare ogni
cosa, per la quale io la sua grazia meritassi, mi dispuosi del tutto. E del
piacere preso da me della lettera ricevuta, per un'altra lettera, com'io seppi
il meglio, la feci certa; né poi senti', né per sua lettera né per ambasciata,
quello che io, di ciò che scritto l'avea, le paresse. –
Allora lo spirito disse:
– Se più avanti in questo amore non è stato, che
cagione ti induceva il dì trapassato, con tante lagrime e con tanto dolore, sì
ferventemente per questo a disiderare di morire? –
Al quale io rispuosi:
– Forse che il tacerlo sarebbe più onesto; ma,
non potendolti negare, poi ne domandi, tel pur dirò. Due cose erano quelle che
quasi ad estrema disperazione m'aveano condotto: l'una fu il ravvedermi che, là
dov'io alcun sentimento credeva avere, quasi una bestia senza intelletto
m'avvidi ch'io era; e certo questo non è da turbarsene poco, avendo riguardo
che io la maggiore parte della mia vita abbi spesa in dovere qualche cosa
sapere, e poi, quando il bisogno viene, trovarmi non sapere nulla; l'altra fu
il modo tenuto da lei in far palese ad altrui che io di lei fossi innamorato: e
in questo più volte crudele e pessima femina la chiamai.
Nella prima cosa mi trovai io in più modi
stoltamente avere operato; e massimamente in credere troppo di leggeri così
alte cose d'una femina, come colui raccontava, senza altro vederne; e appresso
per quelle, senza vedere né dove né come, ne' lacciuoli d'amore incapestrarmi e
nelle mani d'una femina dare legata la mia libertà e sottoposta la mia ragione;
e l'anima, che, con questa accompagnata, solea essere donna, senza, essere
divenuta vilissima serva: delle quali cose né tu né altri dirà che da dolersi
non sia infin la morte.
Nella seconda essa ha, secondo che mi pare, in
assai cose fallato e assai chiaramente mostrato colui mentir per la gola che sì
ampiamente delle sue esimie virtù, meco parlando, si distese. Per ciò che,
secondo che a me pare avere compreso, uno, il quale non perch'e' sia, ma perché
gli pare essere, i suoi vicini chiamano «il secondo Ansalone», è da lei amato;
al quale essa, per più farglisi cara, ha le mie lettere palesate e con lui
insieme, me a guisa d'uno beccone, ha schernito; senza che colui, di me
faccendo una favola, già con alcuni per lo modo che più gli è piaciuto n'ha
ragionato; senza che esso, come io son qui, per più largo spazio avere di
favellare, fu colui che la risposta alla mia lettera, della quale davanti ti
dissi, mi fece fare; e oltre a questo, secondo che i miei medesimi occhi
m'hanno fatto vedere, m'ha ella, sogghignando, a più altre mostrato, come io
avviso dicendo:
«Vedi tu quello scioccone? Egli è mio vago: vedi
se io mi posso tenere beata!».
E certo quanto quelle donne, alle quali ella
m'ha dimostrato, sieno state e sieno oneste, e io e altri il sappiamo: perché
ella, sì come comprendere se ne dee, come il suo amante tra gli uomini, così
ella tra le femine di me favoleggia. Ahi, disonesta cosa e sconvenevole, che
uomo, lasciamo stare gentile, che non mi tengo, ma sempre con valenti uomini
usato e cresciuto, e delle cose del mondo, avvegna che non pienamente, ma assai
convenevolmente informato, sia da una femina, a guisa d'uno matto, ora col
muso, ora col dito all'altre femine dimostrato! Io diro il vero: questo
m'indusse a tanta indignazione d'animo che io fui alcuna volta assai vicino ad
usare parole che poco onore di lei sarieno state; ma pure alcuna scintilletta
di ragione, dimostrandomi che molto maggiore vergogna a me, ciò faccendo,
acquisterei che a lei, da tale impresa, non poco ma molto turbato, mi ritenne e
a quella ira e disordinato appetito, di che tu mi domandi, m'indusse. –
Lo spirito allora, nella vista mostrando d'avere
assai bene le mie parole raccolte e la intenzione di quelle, seco non so che
dicendo, alquanto, avanti che alcuna cosa che io intendessi dicesse, soprastette
pensoso; poi, a me rivolto, con voce assai mansueta cominciò a parlare,
dicendo:
– E come tu t'innamorasti e di cui, e 'l perché
e la cagione della tua disperazione assai bene mi credo dalle tue parole aver
compreso. Ora voglio io che grave non ti sia se alquanto in servigio della tua
medesima salute, e forse dell'altrui, io teco mi distendo a ragionare,
primieramente da te incominciando, perché del tuo errore fosti tu stesso
principio; e da questo verremo a dire di colei della quale tu, mal
conoscendola, follemente t'innamorasti; e ultimamente, se tempo ne fia
prestato, alcuna cosa diremo sopra le cagioni che te a tanto cruccio recarono che
quasi te a te fecero uscir di mente. E, cominciando da quello che promesso
abbiamo, dico che assai cagioni giustamente me e ogni altro possono muovere a
doverti riprendere; ma, acciò che tutte non si vadano ricercando, per fare il
ragionamento minore, due solamente m'aggrada toccarne: l'una e la tua età, la
seconda sono gli tuoi studi; delle quali ciascuna per sé, e amendue insieme, ti
dovevano render cauto e guardingo dagli amorosi lacciuoli. E primieramente la
tua età, la quale se le tempie già bianche e la canuta barba non mi ingannano,
tu dovresti avere li costumi del mondo, fuor delle fasce già sono – degli anni
– quaranta, e già sono venticinque cominciatoli a conoscere. E, se la lunga
esperienza delle. fatiche d'amore nella tua giovanezza tanto non t'avea
gastigato che bastasse, la tiepidezza degli anni, già alla vecchiezza
appressatisi, almeno ti dovea aprire gli occhi e farti conoscere là dove questa
matta passione, seguitando, ti dovea far cadere; e, oltre a ciò, mostrarti
quante e quali fossero le tue forze a rilevarti. La qual cosa se con
estimazione ragionevole avessi riguardata, conosciuto avresti che dalle femine
nelle amorose battaglie gli uomini giovani, non quelli che verso la vecchiezza
calano, sono richiesti; e avresti veduto le vane lusinghe, sommamente dalle
femine desiderate, ne' giovani, non che ne' tuoi pari, star male. Come si
conviene o si confà a te, oggimai maturo, il carolare, il cantare, il giostrare
e l'armeggiare, cose di niuno peso massimamente da loro gradite? Tu medesimo non
solamente dirai che a te sconvenevoli sieno, ma con ragioni inespugnabili
biasimerai i giovani che le fanno. Come è alla tua età convenevole l'andare di
notte, il contraffarti, il nasconderti a ciascheduna ora che ad una femina
piacerà; e non solamente in quella parte che forse, meno disdicevole, da te
sarebbe eletta, ma in quella che essa medesima, forse per gloriarsi d'avere uno
uomo maturo a guisa d'un semplice garzone, disonesta e sconvenevole eleggerà?
Come è alla tua età convenevole, se il bisogno il richiedesse, del quale molto
sovente son pieni gli accidenti d'amore, di pigliare l'arme e la tua salute, o
forse quella della tua donna, difendere? Certo io credo, senza più cose andar
ricordando, che a tutte parimente risponderesti che male; e, quando ciò non ti
paresse, a me e a ciascun altro, il quale con più discreto occhio guardasse che
tu, impedito, per avventura fare non puoi, parrebbe pure che così fosse. Male è
adunque omai la tua etade agl'innamoramenti decevole: alla quale non il seguire
le passioni, o lasciarsi a loro sopravegnenti vincere, sta bene; ma il vincer
quelle; e con opere virtuose, che la tua fama ampliassero, e con aperta fronte
e lieta dare di sé ottimo esemplo a' più giovani s'appartiene. Ma alla seconda
parte è da venire; la quale ne' giovani non che ne' vecchi fa amore
disdicevole, se io non m'inganno: cioè i tuoi studi. Tu, se io già bene intesi,
mentre vivea, e ora così essere il vero apertamente conosco, mai alcuna manuale
arte non imparasti e sempre l'essere mercatante avesti in odio; di che più
volte ti se' e con altrui e teco medesimo gloriato, avendo riguardo al tuo
ingegno, poco atto a quelle cose nelle quali assai invecchiano d'anni, e di
senno ciascuno giorno diventano più giovani. Della qual cosa il primo argomento
è che a loro par più che tutti gli altri sapere, come alquanto sono loro bene
disposti i guadagni, secondo gli avvisi fatti, oppure per avventura, come suole
le più volte avvenire; là dove essi, del tutto ignoranti, niuna cosa più oltre
sanno che quanti passi ha dal fondaco o dalla bottega alla lor casa; e par loro
ogni uomo, che di ciò li volesse sgannare, aver vinto e confuso, quando dicono:
«Di' che mi venga ad ingannare», o dicono: «All'uscio mi si pare»; quasi in
niun'altra cosa stia il sapere, se non o in ingannare o in guadagnare.
Gli studi adunque alla sacra filosofia
pertinenti, infino dalla tua puerizia, più assai che il tuo padre non arebbe
voluto, ti piacquero; e massimamente in quella parte che a poesia appartiene;
la quale per avventura tu hai con più fervore d'animo che con altezza d'ingegno
seguita. Questa, non menoma tra l'altre scienzie, ti dovea parimente mostrare
che cosa è amore e che cosa le femine sono, e chi tu medesimo sii e quel che a
te s'appartiene. Vedere adunque dovevi amore essere una passione accecatrice
dell'animo, disviatrice dello 'ngegno, ingrossatrice, anzi privatrice della
memoria, dissipatrice delle terrene facultà, guastatrice delle forze del corpo,
nemica della giovanezza e della vecchiezza morte, genitrice de' vizi e abitatrice
de' vacui petti; cosa senza ragione e senza ordine e senza stabilità alcuna,
vizio delle menti non sane e sommergitrice della umana libertà. Oh quante e
quali cose sono queste da dovere non che i savi, ma gli stolti spaventare! Vien
teco medesimo rivolgendo l'antiche istorie e le cose moderne e guarda di quanti
mali, di quanti incendi, di quante morti, di quanti disfacimenti, di quante
ruine ed esterminazioni questa dannevole passione è stata cagione. E una gente
di voi miseri mortali, tra i quali tu medesimo, avendo il conoscimento gittato
via, il chiamate «iddio», e quasi a sommo aiutatore, ne' bisogni sacrificio gli
fate delle vostre menti e divotissime orazioni gli porgete! La qual cosa quante
volte tu hai già fatto o fai o farai, tante ti ricordo, se tu da te, uscito
forse del diritto sentimento, nol vedi, che a Dio tu e a' tuoi studi e a te
medesimo fai ingiuria. E, se le dette cose esser vere la tua filosofia non ti
mostrasse, né a memoria ti ritornasse la sperienza la quale di gran parte di quelle
in te medesimo veduta hai, le dipinture degli antichi tel mostreranno, le quali
lui per le mura, giovane, ignudo, con ali e con gli occhi velati e arciere, non
sanza grandissima cagione e significazione de' suoi effetti, tutto 'l dì vi
dimostrano.
Dovevanti, oltre a questo, li tuoi studi
mostrare, e mostrarono, se tu l'avessi voluto vedere, che cosa le femine sono;
delle quali grandissima parte si chiamano e fanno chiamare «donne», e
pochissime se ne truovano. La femina è animale imperfetto, passionato da mille
passioni spiacevoli e abbominevoli pure a ricordarsene, non che a ragionarne:
il che se gli uomini riguardassono come dovessono, non altrimenti andrebbono a
loro, né con altro diletto o appetito, che all'altre naturali e inevitabili
opportunità vadano; i luoghi delle quali, posto giù il superfluo peso, come con
istudioso passo fuggono, così il loro fuggirebbono, quello avendo fatto per che
la deficiente umana prole si ristora; sì come ancora tutti gli altri animali,
in ciò molto più che gli uomini savi, fanno. Niuno altro animale è meno netto
di lei: non il porco, qualora è più nel loto convolto, aggiugne alla bruttezza
di loro; e, se forse alcuno questo negar volesse, riguardinsi i parti loro,
ricerchinsi i luoghi segreti dove esse, vergognandosene, nascondono gli
orribili strumenti li quali a tôr via i loro umori superflui adoperano. Ma
lasciamo stare quel che a questa parte appartiene; la quale esse ottimamente
sappiendo, nel segreto loro hanno per bestia ciascuno uomo che le ama, che le
desidera o che le segue; e in sì fatta guisa ancora la sanno nascondere che da
assai stolti, che solamente le croste di fuori riguardano, non è conosciuta né
creduta; senza che di quelli sono che, bene sappiendola, ardiscono di dire
ch'ella a lor piace, e che questo e quello farebbono e fanno; li quali per
certo non sono da essere annoverati tra gli uomini.
E vegnamo all'altre loro cose o ad alcuna di
quelle: per ciò ch'a volere dire tutto non ne basterebbe l'anno il quale tosto
è per entrare nuovo. Esse, di malizia abbondanti, la qual mai non supplì, anzi
sempre accrebbe difetto, considerata la loro bassa e infima condizione, con
quella ogni sollecitudine pongono a farsi maggiori. E primieramente alla
libertà degli uomini tendono lacciuoli, sé, oltre a quello che la natura ha
loro di bellezza o d'apparenza prestato, con mille unguenti e colori
dipignendo; e or con solfo e quando con acque lavorate e spessissimamente co'
raggi del sole i capelli, neri dalla cotenna prodotti, simiglianti a fila d'oro
fanno le più divenire; e quelli, ora in treccia di dietro alle reni, ora sparti
su per li omeri, e ora alla testa ravvolti, secondo che più vaghe parer
credono, compongono; e quinci con balli e talor con canti, non sempre ma talor
mostrandosi, i cattivelli che attorno vanno, avendo nell'esca nascosto l'amo,
prendono senza lasciare. E da questo, questa e quell'altra e infinite di costui
e di colui e di molti divengono mogli; e di troppa maggior quantità amiche. E,
parendo loro essere salite un alto grado, quantunque conoscano sé essere nate a
esser serve, incontanente prendono speranza e aguzzano il disiderio alla
signoria; e, faccendosi umili obbedienti e blande, le corone, le cinture, i
drappi d'oro, i vai, i molti vestimenti e gli altri ornamenti vari, de' quali
tutto il dì si veggono splendenti, dai miseri mariti impetrano; il quale non
s'accorge tutte quelle essere armi a combattere la sua signoria e a vincerla.
Le quali, poi che le loro persone e le loro camere, non altramenti che le reine
abbino, veggiono ornate e i miseri mariti allacciati, subitamente dall'essere
serve divenute compagne, con ogni studio la signoria s'ingegnano d'occupare. E,
volendo singulare esperienza prendere se donne sono nelle case, in sul far male
arditamente si mettono, argomentando che, se quello è a lei sofferto che non
sarebbe sofferto alla serva, chiaramente può conoscere sé donna e
signoreggiante. E primieramente alle fogge nuove, alle leggiadrie non usate,
anzi lascivie, e alle disdicevoli pompe si danno; e a niuna pare essere né
bella né ragguardevole, se non tanto quanto ella ne' modi, nelle smancerie e
ne' portamenti somigliano le publiche meretrici; le quali tanti nuovi abiti né
sì disonesti possono nelle città arrecare, che loro tolti non sieno da quelle
che gli stolti mariti credono esser pudiche; li quali, avendo male i loro
danari spesi, acciò che gittati non paiano, queste cose nelle dette maniere
lasciano usare, senza guardare in che segno debba ferire quello strale. Come
esse da questo fiere nelle case divengano, i miseri il sanno, che 'l pruovano:
esse, sì come rapide e fameliche lupe, venute ad occupare i patrimoni, i beni e
le ricchezze de' mariti, or qua or là discorrendo, in continui romori co'
servi, colle fanti, co' fattori, co' fratelli e figliuoli de' mariti medesimi
stanno, sé tenere riguardatrici di quelli, dove esse sole dissipatrici
disiderano d'essere; senza che, acciò che tènere paiano di coloro di cui esse
hanno poca cura, mai ne' lor letti non si dorme, tutta la notte in letigi
trapassa e in questioni, dicendo ciascuna al suo: «Ben veggio come tu m'ami:
ben sarei cieca se io non m'accorgessi che altri t'è all'animo più ch'io. Credi
tu ch'i' sia abbagliata; e ch'io non sappia a cui tu vai dietro, a cui tu
vuogli bene e con cui tu tutto 'l dì favelli? Ben lo so bene: io ho migliori
spie che tu non credi. Misera me! ché è cotanto tempo ch'io ci venni, eppure
una volta ancora non mi dicesti, quando a letto mi vengo: «Amor mio, ben sia
venuta». Ma, alla croce di Dio, io farò di quelle a te, che tu fai a me. Or son
io così sparuta? Non son io così bella come la cotale? Ma sai che ti dico? Chi
due bocche bacia, l'una convien che gli puta. Fatti in costà: se Dio m'aiuti,
tu non mi toccherai; va' dietro a quelle di che tu se' degno, ché certo tu non
eri degno d'avere me; e fai ben ritratto di quel che tu se'. Ma a fare, a far
sia. Pensa che tu non mi ricogliesti del fango; e Dio il sa chenti e quali
erano quelli che se l'arebbono tenuto in grazia d'avermi presa senza dote; e
sarei stata donna e madonna d'ogni lor cosa: e a te diedi cotante centinaia di
fiorini d'oro, né mai pur d'uno bicchiere d'acqua non ci pote' esser donna,
senza mille rimbrotti de' frateti e de' fanti tuoi; basterebbe s'io fossi la
fante loro. E' fu ben la mia disavventura ch'io mai ti vidi: che fiaccar possa
la coscia chi prima ne fece parola». E con queste e con molte simili, e più
altre assai più cocenti, senza niuna legittima o giusta cagione avere, tutta la
notte tormentano i cattivelli: de' quali infiniti sono che cacciano chi 'l
padre, chi il figliuolo; chi da' fratelli si divide; e quale né la madre né le
sorelle a casa si vuol vedere e lascia il campo solo alla vittrice donna.
Le quali, poi che espedita la possessione
veggono, tutta la sollecitudine alle ruffiane e agli amanti si volge. E sieti
manifesto che colei, la quale in questa maladetta moltitudine più casta e più
onesta ti pare, vorrebbe avanti solo uno occhio avere che esser contenta d'uno
solo uomo; e, se forse due o tre ne bastassero, saria qualche cosa; e forse
saria tollerabile se questi due o tre avanzassero i mariti, o fossero almen
loro pari. La loro lussuria è focosa e insaziabile; e per questo non patisce né
numero né elezione: il fante, il lavoratore, il mugnaio, e ancora il nero
etiopo, ciascuno è buono, sol che possa. E sono certo che sarebbono di quelle
che ardirebbono a negare questo, se l'uomo non sapesse già molte, non essendo i
mariti presenti o quelli lasciati nel letto dormendo, esserne ne' lupanari
publici andate con vestimenti mutati; e di quelli ultime essersi dipartite, stanche
ma non sazie. E che cosa è egli ch'elle non ardiscano per potere a questo
bestiale loro appetito soddisfare ? Esse si mostrano timide e paurose; e,
comandandolo il marito, quantunque la cagione fosse onesta, non sarrebbono in
niuno luogo alto, ché dicono che vien meno loro il cerebro; non entrerebbono in
mare, ché dicono che lo stomaco nol patisce; non andrebbono di notte, ché
dicono che temono gli spiriti, l'anime e le fantasime. Se sentono un topo
andare per la casa o che 'l vento muova una finestra o che una piccola pietra
caggia da alto, tutte si riscuotono e fugge loro il sangue e la forza, come se
a un mortal pericolo soprastessono. Ma esse prestano fortissimi animi a quelle
cose le quali esse vogliono disonestamente adoperare. Quante già su per le sommità
delle case, de' palagi o delle torri andate sono, e vanno, da' loro amanti
chiamate o aspettate? Quante già presummettero, e presummono tutto 'l giorno, o
davanti agli occhi de' mariti, sotto le ceste o nelle arche gli amanti
nascondere ? Quante nel letto medesimo co' mariti farli tacitamente intrare?
Quante, sole e di notte, e per mezzo gli armati e ancora per mare e per li
cimiteri delle chiese se ne truovano continuo dietro andare a chi me' lavora?
E, che maggior vituperio è, veggenti i mariti, ne sono infinite che presummono
fare i lor piaceri? Oh quanti parti, in quelle o che più temono o che più delli
loro sconci falli arrossano, innanzi al tempo periscono! Per questo la misera
savina, più che gli altri alberi, si truova sempre pelata, quantunque esse a
ciò abbiano altri argomenti infiniti. Quanti parti per questo, mal lor grado
venuti a bene, nelle braccia della fortuna si gittano! Riguardinsi gli spedali.
Quanti ancora, prima che essi il materno latte abbino gustato, se n'uccidono!
Quanti a' boschi, quanti alle fiere se ne concedono e agli uccelli! Tanti e in
sì fatte maniere ne periscono che, bene ogni cosa considerata, il minore
peccato in loro è l'avere l'appetito della lussuria seguìto.
Ed è questo esecrabil sesso femineo, oltre ad
ogni altra comparazione, sospettoso e iracondo. Niuna cosa si potrà con vicino,
con parente o con amico trattare, che, se ad esse non è palese, che esse
subitamente non suspichino contro a loro adoperarsi e in loro detrimento
trattarsi; benché di ciò gli uomini non si debbono molto maravigliare, per ciò
che naturale cosa è di quelle cose che altri sempre opera in altrui, di quelle
da altrui sempre temere; per questo sogliono i ladroni ben sapere riporre le
cose loro. Tutti i pensieri delle femmine, tutto lo studio, tutte l'opere a
niuna altra cosa tirano, se non a rubare, a signoreggiare e ad ingannare gli
uomini; perché leggiermente credono sopra loro d'ogni cosa, che non sanno,
simili trattati tenersi. Da questo gli strolagi, li negromanti, le femmine
maliose, le 'ndovine sono da loro visitate, chiamate, aute care; e in tutte le
loro opportunità, di niente servendo se non di favole, di quello de' mariti
cattivelli sono abbondevolmente sovvenute e sustentate, anzi arricchite; e, se
da queste pienamente saper non possono la loro intenzione, ferocissime e con
parole altiere e velenose, s'ingegnano di certificarsi da' loro mariti; a'
quali, quantunque il ver dicano, radissime volte credono. Ma, sì come animale a
ciò inchinevole, subitamente in sì fervente ira discorrono che le tigre, i
leoni, i serpenti hanno più d'umanità, adirati, che non hanno le femine; le
quali, chente che la cagione si sia, per la quale in ira accese si sieno,
subitamente a' veleni, al fuoco e al ferro corrono. Quivi non amico, non
parente, non fratello, non padre, non marito, non alcuno de' suoi amanti è
risparmiato; e più sarebbe allora caro a ciascuna tutto 'l mondo, il cielo,
Iddio e ciò ch'è di sopra e di sotto universalmente ad un'ora potere
confondere, guastare e tornare a nulla che, ad animo riposato, potere cento
bagascioni al suo piacere adoperare. Se 'l tempo nel concedesse l'andar
narrando quanti mali e come scellerati le loro ire abbino già faiti, non dubito
che tu non dicessi essere il maggiore miracolo, che mai o veduto o udito fosse,
che esse sieno sostenute da Dio. E, oltre a ciò, è questa empia generazione
avarissima: e, acciò che noi lasciamo stare lo 'mbolare continuo che a' mariti
fanno e le ruberie a' lor pupilli figliuoli e le storsioni a quelli amanti che
troppo non piacciono, che sono evidentissime e consuete cose, riguardisi a
quanta viltà si sottomettono per ampliare un poco le dote loro. Niuno vecchio
bavoso, a cui colino gli occhi e triemino le mani e 'l capo, sarà, cui elle per
marito rifiutino, solamente che ricco il sentano; certissime infra poco tempo
di rimanere vedove e che costui nel nido non dee loro soddisfare. Né si
vergognano le membra, i capelli e 'l viso, con cotanto studio fatti belli, le
corone, le ghirlande leggiadre, i velluti, i drappi ad oro, e tanti ornamenti,
tanti vezzi, tante ciance, tanta morbidezza sottomettere, porgere e lasciare
trattare alle mani paraletiche, alla bocca sdentata e bavosa e fetida, ch'è
molto peggio, di colui cui elle credono potere rubare. Al quale se la già
mancante natura concede figliuoli, si n'ha; se non, non può perciò morire sanza
erede: altri vengono, che fanno il ventre gonfiare; e, se pure invetriato l'ha
la natura fatto, i parti sottoposti gli danno figliuoli, acciò che vedova alle
spese del pupillo possa più lungamente deliziosa lussuriare. Sole le 'ndovine,
le lisciatrici, le mediche e i frugatori, che loro piacciono, le fanno non
cortesi, ma prodighe: in questi niuno riguardo, niuno risparmio né avarizia
alcuna in loro si truova già mai. Mobili tutte e senza alcuna stabilità sono:
in una ora vogliono e disvogliono una medesima cosa ben mille volte, salvo se
di quelle che a lussuria appartengono non fosse, per ciò che quelle sempre le
vogliono. Sono generalmente tutte presuntuose; e a se medesime fanno a credere
che ogni cosa loro si convenga, ogni cosa stia loro bene, d'ogni onore, d'ogni
grandezza sien degne; e che, senza loro, gli uomini niuna cosa vagliano, né
viver possano; e sono ritrose e inobedienti. Niuna cosa è più grave a
comportare che una femmina ricca; niuna più spiacevole che a vedere irritrosire
una povera. Le cose loro imposte tanto fanno, quanto elle credono per quello o
ornamenti o abbracciamenti guadagnare; da questo innanzi, sempre una redazione
in servitudine l'essere obedienti si credono; e per questo, se non quanto loro
dall'animo viene, niuna cosa imposta farebbono giammai. E oltre a ciò, che così
in loro dimora come le macchie nello ermellino, non favellatrici, anzi
seccatrici sono. I miseri studianti patiscono i freddi e i digiuni e le
vigilie: e, dopo molti anni, si truovano poche cose avere apparate; queste pure
una mattina che tanto ch'una messa si dica stieno alla chiesa, sanno come si
volge il fermamento, quante stelle sieno in cielo e come grandi, qual sia il
corso del sole e de' pianeti, come il tuono, il baleno, l'arco, la grandine e
l'altre cose nello aere si creino, come il mare vada e ritorni, e come la terra
produca i frutti. Sanno ciò che si fa in India e in Ispagna; come sieno fatte
le abitazioni degli Etiopi e dove nasca il Nilo; e se 'l cristallo s'ingenera
sotto tramontana di ghiaccio o d'altra cosa; con cui dormì la vicina sua; di
cui quell'altra è gravida e di che mese dee partorire; e quanti amadori ha
quell'altra e chi le mandò l'anello e chi la cintura; e quante uova faccia l'anno
la gallina, della vicina sua; e quante fusa logori a filare una dodicina di
lino; e in brieve ciò che fecero mai i Troiani o' Greci o' Romani, di tutto
pienamente tornano informate; e quelle colla fante, colla fornaia, colla
trecca, o colla lavandaia berlingano senza ristare, se altri non truovano che
dia loro orecchie; forte turbandosi, se alcuna loro riprovata ne fosse.
È il vero che da questa loro così sùbita
sapienza e divinamente in loro spirata ne nasce una ottima dottrina nelle
figliuole: a tutte insegnano rubare i mariti; come si debbano ricevere le
lettere degli amanti; come ad esse rispondere; in che guisa metterlisi in casa;
che maniera debbano tenere ad infignersi d'essere malate, acciò che libero loro
dal marito rimanga il letto; e molti altri mali. Folle è chi crede che niuna
madre si diletti d'aver miglior figliuola di sé o più pudica. E non nuoce che
bisogna che per una bugia, per uno spergiuro, per una retà, per mille sospiri
infinti, per cento milia false lagrime elle vadano ai lor vicini, ché, quando
mestier lor fanno le prestino, sallo Iddio (ch'io per me non seppi mai tanto
pensare ch'io sapessi conoscere o discernere) dove elle le si tengano, che sì
pronte e sì preste ad ogni lor volere l'abbino come hanno.
Bene è il vero ch'elle sono arrendevoli a
lasciarsi un lor difetto provare, e spezialmente quelli che altri cogli occhi
suoi medesimi vede; e non hanno presto il: «Non fu così; tu menti per la gola;
tu hai le traveggole; tu hai le cervella date a rimpedulare; béi meno; tu non
sai ove tu ti se'; se' tu in buon senno? tu farnetichi a santà e anfani a
secco», e cotali altre lor parolette puntate. E, se esse diranno d'avere un
asino veduto volare, dopo molti argomenti in contrario converrà che si conceda
del tutto; se non, le inimicizie mortali, le 'nsidie e gli odi saranno di
presente in campo. E sono di tanta audacia che, chi punto il lor senno
avvilisce, incontanente dicono: «Le Sibille non furono savie?» quasi ciascuna
di loro debba essere l'undecima. Mirabile cosa, in tante migliaia d'anni quante
trascorse sono poi che 'l mondo fu fatto, intra tanta moltitudine quanta è
stata quella del femineo sesso, essersene diece solennissime e savie trovate; e
a ciascuna femina pare essere una di quelle, o degna d'essere tra quelle
annoverata. E, tra l'altre loro vanità, quando molto sopra gli uomini si
vogliono levare, dicono che tutte le buone cose son femine: le stelle, le
pianete, le Muse, le virtù, le ricchezze. Alle quali, se non che disonesto
sarebbe, null'altro si vorrebbe rispondere, se non: «Egli è così vero che tutte
son femine, ma non pisciano». E, oltre a questo, assai sovente molto meno
consideratamente si gloriano, dicendo che Colei, nel cui ventre si racchiuse
l'unica e general salute di tutto l'universo, virgine innanzi al parto e che
dopo il parto rimase virgine, con alquante altre, (non molte però, della cui
virtù spezial menzione e solennità fa la Chiesa di Dio), furono così femine
come loro; e per questo imaginano dovere essere riguardate, argomentando niuna
cosa contro a loro potersi dire della loro viltà, che contro a quelle, che
santissima cosa furono, non si dica; e quasi vogliono che lo scudo della loro
difesa nelle braccia di quelle rimanga: che in niuna cosa le somigliarono, se
non in una. Ma questo non è da dovere consentire, per ciò che quella unica
sposa dello Spirito Santo fu una cosa tanto pura, tanto virtuosa, tanto monda e
piena di grazia e del tutto sì da ogni corporale e spiritual bruttura rimota
che, a rispetto dell'altre, quasi non dell'elementar composizione, ma d'una
essenzia quinta fu formata a dovere essere abitacolo e ostello del figliuolo di
Dio; il quale, volendo per la nostra salute incarnare, per non venire ad
abitare nel porcile delle femine moderne, ab ecterno se la preparò, sì come
degna camera a tanto e cotale re. E, se altro da questa vil turba essere stata
separata non la mostrasse, li suoi costumi tutti, dalli loro spartiti, la
mosterrebbe; e similmente la sua bellezza la quale non artificiata, non dipinta
né colorata fu; ed è tanta che fa nel beato regno lieti gli agnoli,
riguardandola, e a' beati spiriti (se dir si può) aggiugne gloria e
maraviglioso diletto. La quale, mentre qua giù fu nelle membra mortali, mai da
alcuno non fu riguardata che il contrario non operasse di quello che le vane
femine, dipignendo, s'ingegnano di fare maggiore; per ciò che, dove questa di
costoro il concupiscevole appetito e disonesto desiderio commuove e desta, così
quella della reina del cielo ogni villano pensiere, ogni disonesta volontà di
coloro cacciava che la miravano; e d'uno focoso e caritevole ardore di bene e
virtuosamente adoperare sì maravigliosamente li accendeva che, laudando
divotamente Colui che creata l'avea, a mettere in opera il bene acceso
desiderio si disponeano. E di questo in lei non vanagloria, non superbia venìa;
ma intanto la sua umiltà ne crescea che, per avventura, ebbe tanta fortezza che
la incommutabile disposizione di Dio avacciò a mandare in terra il suo
figliuolo, del quale ella fu madre. L'altre poche, che a questa reverendissima
e veramente donna s'ingegnarono con tutta lor forza di somigliare, non
solamente le mondane pompe non seguitarono, ma le fuggirono con sommo studio;
né si dipinsero per più belle apparere nel cospetto degli uomini strani, ma le
bellezze loro dalla natura prestate disprezzarono, le celestiali aspettando. In
luogo d'ira e di superbia, ebbero mansuetudine e umiltà; e la rabbiosa furia
della carnale concupiscenza colla astinenzia mirabile domarono e vinsero,
prestando maravigliosa pazienzia alle temporali avversità e a' martìri: delle
quali cose servata l'anima loro immaculata, meritarono di divenire compagne a
Colei nella etterna gloria, la quale s'erano ingegnate nella mortal vita di
somigliare. E, se onestamente si potesse accusare la natura, maestra delle
cose, io direi che essa fieramente avesse in così fatte donne peccato,
sottoponendo e nascondendo così grandi animi, così virili, così costanti e
forti sotto così vili membra e sotto così vile sesso, come è il feminile; per
che, bene ragguardando chi queste furono e chi quelle sono, che nel numero di
quelle si vogliono mescolare e in quello essere annoverate e reverite, assai
bene si vedrà mal confarsi l'una coll'altra, anzi essere del tutto l'una
all'altra contrarie. Tacciasi adunque questa generazione prava e adultera né
voglia il suo petto degli altrui meriti adornare; ché per certo le simili a
quelle, che dette abbiamo, sono più rade che le fenici; delle quali veramente
se alcuna esce di schiera, tanto di più onore è degna che alcuno uomo, quanto
la sua vittoria e il miracolo è maggiore. Ma io non credo che in fatica
d'onorarne alcuna per li suoi meriti, a' nostri bisavoli non che a noi,
bisognasse d'entrare: e prima spero si ritroveranno de' cigni neri e de' corbi
bianchi che a' nostri successori d'onorarne alcuna altra bisogni d'entrare in
fatica; per ciò che l'orme di quelle che la reina degli angeli seguitarono,
sono ricoperte; e le nostre femine di grado hanno il cammino smarrito, né
vorrebbero già che fosse loro rinsegnato; e, se pure alcuno, predicando, se ne fatica,
così alle sue parole gli orecchi chiudono come l'aspido al suono dello
incantatore.
Ora io non t'ho detto quanto questa perversa
moltitudine sia gulosa, ritrosa, ambiziosa, invidiosa, accidiosa, e delira: né
quanto ella nel farsi servire sia imperiosa, noiosa, vezzosa, stomacosa e
importuna; né altre cose assai le quali, molte più e più dispiacevoli che le
narrate, se ne potrebbono contare non intendo al presente di dirleti, ché
troppo sarebbe lunga la istoria. Ma per quello ch'è detto, dèi tu assai ben
comprendere chenti esse universalmente sieno e in quanto cieca prigione caggia,
e dolorosa, chi sotto lo 'mperio loro cade per qual che si sia la cagione.
Parmi essere molto certo che, se mai ad alcune perverrà agli orecchi la verità
della loro malizia e de' loro difetti da me dimostrati, che esse incontanente
non a riconoscersi, né a vergognarsi d'essere da altrui conosciute e ad ogni
forza e 'ngegno di divenire migliori, come dovrebbono, rifuggiranno; ma, come
usate sono, pure al peggio n'andranno correndo; e diranno me queste cose dire,
non come veritiero, ma come uomo al quale, per ciò che altra spezie piacque,
esse dispiacquono. Ma volesse Iddio che non altramente che quello abominevol
peccato mi piacque, esse mi fossero piaciute già mai; per ciò che io arei assai
tempo acquistato di quello che io dietro ad esse perdei; e nel mondo là, dov'io
sono, assai minore tormento sofferrei che quello ch'io sostengo.
Ma vegniamo ad altro. Dovevanti ancora gli studi
tuoi dimostrare chi tu medesimo sii, quando il naturale conoscimento mostrato
non te l'avesse, e ricordarti e dichiararti che tu se' uomo fatto alla imagine
e alla similitudine di Dio, animale perfetto, e nato a signoreggiare, e non ad
esser signoreggiato. La qual cosa nel nostro primo padre ottimamente dimostrò
Colui, il quale poco davanti l'avea creato, mettendogli tutti gli altri animali
dinanzi e faccendoglieli nomare e alla sua signoria sopponendoli; il
simigliante appresso faccendo di quella una e sola femina ch'era al mondo, la
cui gola e la cui disubbidienza e le cui persuasioni furono di tutte le nostre
miserie cagione e origine. Il quale ordine l'antichità ottimamente servò e
ancora serva il mondo presente ne' papati, negl'imperi, ne' reami, ne'
principati, nelle provincie, ne' popoli e generalmente in tutti i maestrati e
sacerdozi e nell'altre maggioranze così divine come umane, gli uomini
solamente, e non le femine, preponendo e loro commettendo il governo degli
altri e di quelle. La qual cosa quanto valido e come possente argomento sia a
dimostrare quanto la nobiltà dell'uomo ecceda quella della femina e d'ogni
altro animale assai leggiermente a chi ha sentimento puote apparere. E non
solamente da questo si può o dee pigliare che solamente ad alcuni eccellenti
uomini questo così ampio privilegio di nobiltà sia conceduto; anzi s'intenderà
essere ancora de' più menomi, per rispetto alle femine e agli altri animali;
per che ottimamente si comprenderà il più vile e 'l più menomo uomo del mondo,
il quale del bene dello 'ntelletto privato non sia, prevalere a quella femina,
in quanto femina, che temporalmente è tenuta più che alcuna delle altre
eccellente.
Nobilissima cosa adunque è l'uomo il quale dal
suo fattore fu creato poco minore che gli angeli. E, se il minore uomo è da
tanto, da quanto dovrà essere colui la cui virtù ha fatto ch'egli dagli altri
ad alcuna eccellenzia sia elevato? Da quanto dovrà essere colui il quale i
sacri studi, la filosofia ha dalla meccanica turba separato? Del numero della
quale tu per tuo ingegno e per tuo studio, aiutandoti la grazia di Dio, la
quale a niuno che se ne faccia degno, domandandola, è negata, se' uscito e tra'
maggiori divenuto degno di mescolarti. Come non ti conosci tu? Come così
t'avvilisci? Come t'hai tu così poco caro che tu ad una femina iniqua, insensatamente
di lei credendo quello che mai non le piacque, ti vada a sottomettere? Io non
me ne posso in tuo servigio racconsolare; e, quanto più vi penso, più ne
divengo turbato. A te s'appartiene, e so che tu 'l conosci, più d'usare i
solitari luoghi che le moltitudini, ne' templi e negli altri publici luoghi
raccolte, visitare; e quivi studiando, operando, versificando, esercitare lo
'ngegno e sforzarti di divenire migliore e d'ampliare a tuo podere, più con
cose fatte che con parole, la fama tua; che appresso quella, salute ed etterno
riposo, il qual ciascuno che dirittamente disidera dee volere, è il fine della
tua lunga sollecitudine. Mentre tu sarai ne' boschi e ne' remoti luoghi, le
Ninfe castalide, alle quali queste malvage femine si vogliono assomigliare, non
t'abbandoneranno già mai; la bellezza delle quali, sì come io ho inteso, è
celestiale; dalle quali, così belle, tu non se' né schifato né schernito, ma è
loro a grado il potere stare, andare e usare teco. E, come tu medesimo sai, che
molto meglio le conosci che io non fo, elle non ti metteranno in disputare o
discutere quanta cenere si voglia a cuocere una matassa d'accia; o se il lino
viterbese è più sottile che 'l romagnuolo; né che troppo abbia il forno la
fornaia scaldato e la fante meno lasciato il pane levitare; o che da provvedere
sia donde vegnano delle granate che la casa si spazzi; non ti diranno quel
ch'abbia fatto la notte passata monna cotale, e monna altrettale; né quanti
paternostri ell'abbian detti al predicare; né s'egli è il meglio alla cotale
roba mutare le sale o lasciarle stare; non ti domanderanno danari né per
liscio, né per bossoli, né per unguenti. Esse con angelica voce ti narreranno
le cose dal principio del mondo state insino a questo giorno; e sopra l'erbe e
sopra i fiori alle dilettevoli ombre teco sedendo, a lato a quel fonte le cui
ultime onde non si videro già mai, ti mosterranno le cagioni de' variamenti de'
tempi e delle fatiche del sole e di quelle della luna; e qual nascosa virtù le
piante nutrichi e insieme faccia li bruti animali amichevoli; e d'onde piovano
l'anime negli uomini; e l'essere la divina bontà etterna e infinita; e per
quali scale ad essa si salga e per quali balzi si trarupi alla parte contraria;
e teco, poi che i versi d'Omero, di Virgilio e degli altri antichi valorosi
avranno cantati, i tuoi medesimi, se tu vorrai, canteranno. La lor bellezza non
ti inciterà al disonesto fuoco, anzi il caccerà via; e i lor costumi ti fieno
inreprobabile dottrina alle virtuose opere. Che dunque, potendo così fatta compagnia
avere, quando tu la vogli, e quanto tu la vogli, vai cercando sotto i mantelli
delle vedove, anzi de' diavoli, dove leggermente potresti trovare cosa che ti
putirebbe? Ahi, quanto giustamente farebbono queste elettissime donne, se del
loro bellissimo coro te, sì come non degno, cacciassono, quante volte tu dietro
alle femine l'appetito dirizzi, quante volte, fetido e maculato da esse
partendoti, tra loro, che purissime sono, ti vai a rimescolare, non
vergognandoti della tua bestialità! E certo, se tu non te ne rimani, e' mi pare
vedere che t'avverrà; e meritamente. Esse hanno bene il loro sdegno, così come
queste altre che «donne» si chiamano non essendo: e chente e quale vergogna ti
sia, dove questo avvenga, tu medesimo e pensare e conoscere il puoi.
Ma, per ciò ch'assai detto aver mi pare intorno
a quello che a te apparteneva di considerare, quando follemente il collo sotto
lo importabile giogo di colei, alla quale una gran salmista pare essere,
sottomettesti, acciò che tu non creda dall'altre lei diviare, oltre a quello
ch'io ti promisi, ciò che tu non potevi ben per te medesimo vedere, intendo di
dimostrarti particularmente chi sia colei e chenti i suoi costumi (di cui tu,
follemente divenuto servidore, ora ti duoli), e vedrai dove e nelle cui mani il
tuo peccato e la troppa, sùbita credenza t'aveano condotto. La prima notizia di
questa femina di cui noi parliamo, la quale molto più dirittamente «drago»
potrei chiamare, mi diedono le nozze sue: per ciò che, essendo io per morte
abbandonato da quella che prima a me era venuta, e di cui io molto meno mi
potea scontentare che di questa, non so se per lo mio peccato o per celeste
forza che 'l si facesse, avvenne che, essendo e volere e piacere de' miei amici
e parenti, a costei, mal da me conosciuta, fui ricongiunto. La qual, già
d'altro marito essendo stata moglie e assai bene l'arte dello 'ngannare avendo
appresa, non partendosi dal loro universal costume, in guisa d'una mansueta e
semplice colomba entrò nelle case mie; e, acciò che io ogni particularità
raccontando non vada, ella non vide prima tempo alle occulte insidie, e forse
lungamente serbate, poter discoprire, ch'ella, di colomba, subitamente divenne
serpente: di che io m'avvidi la mia mansuetudine, troppo rimessamente usata,
essere d'ogni mio male certissima cagione. Io dirò il vero: io tentai alquanto
di volere porre freno a questo indomito animale; ma perduta era ogni fatica,
già tanto s'era il male radicato, che più tosto sostenere che medicare si
potea. Per che, avveggendomi che ogni cosa, la quale io intorno a ciò facea,
non era altro che aggiugnere legne al fuoco o olio gittare sopra le fiamme,
piegai le spalle, nella fortuna e in Dio me e le cose mie rimettendo. Costei
adunque, con romori e con minacce e con battere alcuna volta la mia famiglia
corsa la casa mia per sua e in quella fiera tiranna divenuta, quantunque assai
leggier dote recata v'avesse, come io non tutto pienamente a sua guisa alcuna
cosa fatta o non fatta avessi, soprabbondante nel parlare e magnifica
dimostrantesi, come se io stato fossi da Capalle ed ella della casa di Soave,
così la nobilità e le magnificenzie de' suoi m'incominciò a rimproverare, quasi
come se a me non fosse noto chi essi furono già o sieno pure ora al presente;
bench'io sia certissimo che essa niuna cosa ne sa altro, se non ch'essa, come
vana, credo che spesso vada gli scudi, che per le chiese sono appiccati,
annoverando, e dalla vecchiezza di quelli e dalla quantità argomenta sé essere
nobilissima, poi tanti cavalieri sono suti tra' suoi passati e ancora più. Ma,
se per dieci cattivi della sua schiatta, più avventurata in crescere in numero
d'uomini che in valore o in onore alcuno, fosse stato uno solo scudo appiccato
e spiccatone uno di quelli per la cui cavalleria appiccati vi furono, a' quali
ella così bene e convenientemente stette come al porco la sella, non dubito
punto che, dove degli scudi de' cattivi centinaia apparirebbono, niuno se ne
vedrebbe de' cavalieri. Estimano i bestiali, tra' quali ella è maggior bestia
che el liofante, che ne' vestimenti foderati di vaio e nella spada e negli
sproni dorati, le quali cose ogni piccolo artefice, ogni povero lavoratore
leggiermente potrebbe avere, e un pezzo di panno e uno scudicciuolo da fare
alla sua fine nella chiesa appiccare, consista la cavalleria; la quale
veramente consiste in quelli che oggi cavalieri si chiamano; e non in altro. Ma
quanto essi sieno dal vero lontani, colui il sa che quelle cose che ad essa
appartengono e per le quali ella fu creata, alle quali tutte essi sono più
nimici che il diavolo delle croci, conosce.
Adunque con questa stolta maggioranza e
arroganza incominciando, sperando io sempre, quantunque io avessi per lo meno
male, sì come vile, giù l'armi poste, che essa alcuna volta riconoscer si
dovesse e della presa tirannia rimanersi, pervenni a tanto che sanza pro
conobbi che, dov'io pace e tranquillità mi credea avere in casa recata,
conoscendo che guerra, e fuoco e mala ventura recata v'avea, cominciai a
disiderare ch'ella ardesse; e ciascuno luogo della nostra città, qual che si
fosse più di litigi e di quistioni pieno, m'incominciò a parer più quieto e più
riposato che la mia casa; e, così, veggendo venire la notte, che al tornarvi mi
costrignea, mi contristava, come se uno noioso prigioniere e possente e a
dovere ad una prigione rincrescevole e oscura m'avesse costretto. Costei
adunque, donna divenuta del tutto e di me e delle mie cose, non secondo che la
ragione arebbe, al mio stato avendo rispetto, voluto, ma come il suo appetito
disordinato richiedea, prima nel modo del vivere e nella quantità il suo ordine
puose; e il simigliante fece ne' suoi vestimenti, non quelli ch'io le facea, ma
quelli che le piacevano faccendosi; ed a qualunque d'alcuna mia possessione
avea il governo, essa convenia che la ragione rivedesse e' frutti prendesse e
distribuisse secondo il piacer suo; e in somma ingiuria recandosi perché io
così tosto, come ella arebbe voluto, d'alcuna quantità di danari, ch'io avea,
mia tesoriera e guardiana non la feci, mille volte me essere uomo senza fede, e
massimamente verso di lei, mi rimproverò, infino a tanto che a quello pervenne
ch'ella volea, sé d'altra parte di lealtà sopra Fabrizio e qualunque altro
leale uomo stato commendando. E, a non volere ogni cosa distintamente narrare,
in cose infinite mi si puose al contrario né mai in tal battaglia, se non
vincitrice, puose giù l'armi. E io, misero e male in ciò avveduto, credendomi,
sofferendo, minuire l'angoscia e l'affanno, più tiepido che l'usato divenuto,
seguiva il suo volere; la qual tiepidezza il vestimento, che vermiglio mi vedi,
come già dissi, ora con mia gravissima pena riscalda.
Ma più avanti è da procedere. In cotal maniera
adunque essa donna e io servidore divenuto, con più ardita fronte, non
veggendosi alcuna resistenza, cominciò a mostrare e a mettere in opera l'alte
virtù che il tuo amico di lei con cotanta solennità ti racconto. Ma, non
avendole egli bene per le mani come ebbi io, mi piace con più ordine di
contàrleti. E, acciò che io dalla sua principale cominci, affermo per lo dolce
mondo il quale io aspetto, e se egli tosto mi sia conceduto, che nella nostra
città né fu né è né sarà o donna, o femina che vogliamo dire, e diremo meglio,
in cui tanto di vanità fosse che quella di colei, di cui parliamo, di
grandissima lunga non la passasse. Per la qual cosa costei estimando che
l'avere bene le gote gonfiate e vermiglie e grosse, e sospinte in fuori le
natiche (avendo forse udito che queste sommamente piacevano in Alessandria e
perciò fossono grandissima parte di bellezza in una donna), in niuna cosa studiava
tanto quanto in fare che queste due cose in lei fossono vedute pienamente: nel
quale studio queste cose intervenieno alle spese di me che talor digiunava per
risparmiare. Primieramente, se grosso cappone si trovava, de' quali ella molti
con gran diligenzia faceva nutricare, e' conveniva che innanzi cotto le
venisse; e le pappardelle col formaggio parmigiano similmente: le quali non in
iscodella, ma in un catino, a guisa del porco, così bramosamente mangiava, come
se pure allora dopo lungo digiuno fosse della torre della fame fuggitasi. Le
vitelle di latte, le starne, i fagiani, i tordi grassi, le tortole, le suppe
lombarde, le lasagne maritate, le frittellette sambucate, i migliacci bianchi,
i bramangieri, de' quali ella faceva non altre corpacciate che facciano di
fichi, di ciriege o di poponi i villani, quando ad essi s'avvengono, non curo
di dirti. Le gelatine, la carne salata e ogni altra cosa acetosa o agra, perché
si dice che asciugano, erano sue nimiche mortali. Son certo, s'io ti dicessi
come ell'era solenne investigatrice e bevitrice del buono vino cotto, della
vernaccia da Corniglio, e del greco e di qualunque altro buon vino morbido e
accostante, tu nol mi crederesti, perché impossibile a credere ti parrebbe di
cinciglione. Ma, se tu avessi un poco le sue gote vedute, quando io vivea, e
alquanto berlingare l'avessi udita, forse mi daresti leggiermente fede, tanto,
senza le mie parole, pure per quelle di lei, te ne parrebbe avere compreso. E
pienamente di divenire paffuta e naticuta le venne fatto. Non so io se ella,
per li molti digiuni fatti per la salute mia, se l'ha smenovite dopo la mia
morte: così te l'avess'ella in sul viso e io ti dovessi fare carta di ciò che
tu vedessi, com'io nol credo. –
A questa parola dich'io che, con tutto il dolore
e la compunzione ch'io sentia delle mie colpe dinanzi agli occhi postemi dalle
vere parole dello spirito, io non pote' le risa tenere. Ma egli, senza aspetto
mutare, seguitò:
– Né era la mia cara donna, anzi tua, anzi del
diavolo, contenta d'aver carne assai solamente, ma le volea lucenti e chiare;
come se una giovinetta di pregio fosse, alla quale, essendo per maritarsi,
convenisse colla bellezza supplire la poca dota. La qual cosa acciò
ch'avvenisse, appresso la cura del ben mangiare e del ben bere e del vestire,
sommamente a distillare, a fare unzioni, a trovar sugne di diversi animali ed
erbe e simili cose s'intendeva; e, senza che la casa mia era piena di fornelli
e di lambecchi e di pentolini e d'ampolle e d'alberelli e di bossoli, io non
avea in Firenze speziale alcuno vicino, né in contado alcuno ortolano, che
infaccendato non fosse, quale a fare ariento solimato, a purgar verderame, e a
far mille lavature, e quali ad andare cavando e cercando radici salvatiche ed
erbe mai più non udite nomare, se non a lei; senza che insino a' fornaciai a
cuocere guscia d'uova, gromma di vino, marzacotto, e altre mille cose nuove
n'erano impacciati. Delle quali confezioni essa ugnendosi e dipignendosi, come
se a vendere si dovesse andare, spesse volte avvenne che, non guardandomene io
e basciandola, tutte le labbra m'invischiai; e meglio col naso quella biuta che
con gli occhi sentendo, non che quello che nello stomaco era di cibo preso, ma
appena gli spiriti ritenea nel petto. Oh, s'io ti dicessi di quante maniere ranni
il suo auricome capo si lavava e di quante ceneri fatti, e alcuno più fresco e
alcuno meno, tu ti maraviglieresti; e vie più, se io ti disegnassi quante e
quali solennità si servavano nello andare alle stufe e come spesso: dalle quali
io credea lei lavata dovere tornare, ed ella più unta ne venìa che non v'era
ita. Erano sommo suo disiderio e recreazione grandissima certe feminette, delle
quali per la nostra città sono assai, che vanno faccendo gli scorticatoi alle
femine e pelando le ciglia e le fronti e col vetro sottile radendo le gote e
del collo assottigliando la buccia e certi peluzzi levandone; né era mai che
due o tre con lei non se ne fossero a stretto consiglio trovate, come che altri
trattati spesse volte tenessero, sì come quelle che, oltre a quella loro arte,
sotto titolo della quale baldanzose l'altrui case visitano e le donne, sono
ottime maestre e sensali di fare che messer Mazza rientrar possa in
Valleoscura, donde dopo molte lagrime era stato cacciato fuori.
Egli non si verrebbe a capo in otto dì di
raccontare tutte le cose ch'essa a così fatto fine operava, tanta gloria di
quella sua artificiata bellezza, anzi spiacevolezza, pigliava; a conservazione
della quale troppa maggiore industria s'adoperava, per ciò che il sole, l'aere,
il dì, la notte, il sereno e 'l nuvolo, se molto non venieno a suo modo,
fieramente l'offendeano, la polvere, il vento, il fummo avea ella in odio a
spada tratta. E quando i lavamenti erano finiti, se per sciagura le si ponea
una mosca in sul viso, questo era sì grande scandalezzo e sì grande turbazione
che, a rispetto, fu a' Cristiani il perdere Acri un diletto. E dirottene una
pazzia forse mai simile non udita. Egli avvenne, fra l'altre volte, che mosca
in sul viso invetriato le si ponessi, che ella avendo una nuova maniera di
liscio adoperata che una vi se ne pose, la quale essa, fieramente turbata, più
volte s'ingegnò di ferirla con mano; ma quella presta si levava, come tu sai
ch'elle fanno, e ritornava; per che, non potendo, tutta accesa d'ira, prese una
granata e, per tutta la casa or qua or la discorrendo, per ucciderla l'andò
seguitando; e porto ferma opinione che, se alla fine uccisa non avesse o quella
o un'altra la quale avesse creduto essere quella, ella sarebbe di stizza e di
veleno scoppiata. Che pensi ch'avesse fatto, se alle mani le fosse venuto uno
degli scudi di quelli suoi antichi cavalieri e una di quelle spade dorate? Per
certo ella si sarebbe messa con lei alla schermaglia. E che più ? Questo
avveniva il dì, che si poteva con meno noia sostenere; ma, se per forte
disavventura una zenzara si fosse per la casa sentita, che che ora si fosse
stata di notte, convenia che 'l fante e la fante e tutta l'altra famiglia si
levasse; e co' lumi in mano si mettessero alla inchiesta della malvagia e
perfida zenzara, turbatrice del riposo e del buono e pacefico stato della
lisciata donna; e, avanti che a dormir ritornassono, convenia che morta o presa
la presentassono davanti a colei che lei diceva in suo dispetto andar sufolando
e appostando di guastarle il suo bel viso amoroso.
Che più ? Sopra tutte l'altre cose, a cui caluto
non ne fosse, era da ridere l'averla veduta, quando s'acconciava la testa, con
quanta arte, con quanta diligenza, con quanta cautela ciò si facesse: in quello
per certo pendevano le leggi e' profeti. Essa primieramente negli anni più
giovani (quantunque più vicini a quaranta che a trentasei fossono, posto che
ella, forse non così buona abbachiera, li dicesse ventotto), fatti, lasciamo
stare l'aprile e 'l maggio, ma il dicembre e il gennaio, di sei maniere
d'erbette verdi o d'altrettante di fiori, donde ch'ella se li avesse,
apparecchiare e di quelle certe sue ghirlanduzze composte, levata per
tempissimo e fatta venire la fante, poi che molto s'era il viso e la gola e 'l
collo con diverse lavature strebbiata e quelli vestimenti messisi che più
all'animo l'erano, a sedere postasi in alcuna parte della nostra camera,
primieramente si mettea davanti un grande specchio e talor due, acciò che bene
in quelli potesse di sé ogni parte vedere e conoscere qual di loro men che vera
la sua forma mostrasse; e quivi dall'una delle parti si faceva la fante stare e
dall'altra avea forse sei ampolluzze e vetro sottile e orochico e così fatte
bazzicature. E, poi che diligentemente s'avea fatta pettinare, ravvoltisi i
capelli al capo, sopr'essi non so che viluppo di seta, il quale essa chiamava
«trecce» si poneva; e, quelle con una reticella di seta sottilissima fermate,
fattosi l'acconce ghirlande e i fiori porgere, quelle primieramente in capo
postesi, andando per tutto fioretti compartendo, così il capo se ne dipignea,
come talvolta d'occhi la coda del paone avea veduta dipinta; né niuno ne
fermava che prima allo specchio non ne chiedesse consiglio.
Ma, poi che l'età venne troppo parendosi e i
capelli, che bianchi cominciarono a divenire, quantunque molti tutto 'l dì se
ne facesse cavare, richiedeano i veli, come l'erba e' fiori solea prendere,
così di quelli il grembo e il petto di spilletti s'empieva e collo aiuto della
fante si cominciava a velare; alla quale, credo, con mille rimbrotti ogni volta
dicea: «Questo velo fu poco ingiallato; e questo altro pende troppo da questa
parte; manda questo altro più giù; fa' stare più tirato quello, ché mi cuopre
la fronte; lieva quello spilletto che m'hai sopra l'orecchie posto, e ponlo più
in là un poco; e fa' più stretta piega a quello che andar mi dee sotto 'l
mento; togli quel vetro e levami quel peluzzo che m'è nella gota di sotto
all'occhio manco». Delle quali cose e di molte altre, che essa le comandava, se
una sola meno che a suo modo n'avesse fatta, cento volte, cacciandola, la
bestemmiava, dicendo:
«Va' via; tu non se' da altro che da lavare
scodelle; va': chiamami donna cotale». La quale venuta, tutta in ordine si
rimetteva; e dopo tutto questo, le dita colla lingua bagnatesi, a guisa che fa
la gatta or qua or là si lisciava, or questo capello or quello nel suo luogo
tornando; e di quinci forse cinquanta volte or dinanzi, or da lato nello
specchio si riguardava e, quasi molto a se stessa piacesse, appena da quello si
sapea spiccare; e nondimeno più volte si faceva alla sua buona donna
riguardare; e con cautela la esaminava se bene stesse, se niuna cosa mancasse,
non altrimenti che se la sua fama o la sua vita da quel dipendesse. E, poi che
molte volte avea udito ogni cosa star bene, alle compagne, che l'aspettavano,
andava davanti, anche di ciò con loro riprendendo consiglio. Ben so che alcuno
dire potrebbe questa non essere nuova cosa, non che in lei, ma nell'altre
donne; e certo io non la dico per nuova, ma per viziosa e spiacevole e cattiva,
e per mostrare ch'ella non è separata da' costumi dell'altre, e perché più
pronta fede sia da te prestata a quello che resultava di questi modi, quando
tel dirò; che sarà tosto.
Chi della cagione di questo suo abbellirsi con tanta
sollecitudine domandata l'avesse, prestamente, sì come colei che più ch'altra
femina di malizia è piena, rispondea che per più piacermi il facea; aggiugnendo
che, con tutto questo, non poteva ella tanto fare ch'ella mi piacesse sì ch'io
lei non lasciassi per andare dietro alle fanti e alle zambracche e alle vili e
cattive femine. Ma di ciò mentia ella ben per la gola: ché, né io andava dietro
alle zambracche, e a lei era assai poca cura di dovermi piacere. Anzi, sì
com'io molte volte m'accorsi, a qualunque giovane e a qualunque altro, che
punto d'aspetto piacevole avesse, che dinanzi alla casa passasse o dov'ella
fosse, non altrimenti il falcone, tratto di cappello, si rifà tutto e sopra sé
torna guardandosi, che si faceva ella, sommamente disiderosa d'essere guatata;
e così si turbava in se medesima, se alcuno trapassato fosse che guatata non
l'avesse, come se una grave ingiuria avesse ricevuta. E, se alcuno per
avventura, avendola riguardata, la sua bellezza commendata avesse e da lei
fosse stato udito, questa era sì gran festa e sì grande allegrezza che
niun'altra mai a questa ne fu simigliante; né l'arebbe quel cotale alcuna cosa
addomandata, ch'essa non l'avesse, potendo ella, fatta più che volentieri e
tosto; e così, per contrario, colui che biasimata l'avesse, l'arebbe volentieri
colle proprie mani ucciso. Canzoni, suoni e mattinate e simili cose, più che
altra volentieri ascoltava; e sommamente avea astio di qualunque fosse colei
alla quale, o per amore della quale, fossero state cantate e fatte, sì come
quella che di tutte arebbe voluto il titolo, parendole di quello e d'ogni altra
cosa molto più che alcuna altra esser degna.
E, acciò che io ora di questa materia più non
dica, dico che questi sono gli ornati e laudevoli costumi e il gran senno e la
maravigliosa eloquenzia che di costei il tuo amico, male consapevole del fatto,
ti ragionava; questa era la gran costanzia, la somma fortezza dell'animo di
costei; questo era il grande studio e la sollecitudine continua la quale ella
avea alle cose oneste, come aver debbono quelle donne le quali gentili sono,
come ella vuole essere tenuta, e per la qual meritamente tra le valorose
antiche, di loro parlando, dee esser ricordata. Della sua magnificenzia, nella
quale ad Alessandro ti fu assomigliata, non dopo molte parole udirai alquanto.
Essa, con questa sua vanità e con questa così esquisita leggiadria (se
leggiadria chiamar si dee il vestirsi a guisa di giocolari e ornarsi come
quelle che ad infiniti hanno per alcuno spazio a piacere, sé concedendo per ogni
prezzo), e con l'essere degli occhi cortese e più parlante che alla gravità
donnesca non si richiede, molti amanti s'avea acquistati; de' quali non avvenne
come di chi corre il palio, il quale ha l'uno de' molti; anzi, de' molti, molti
pervennono al termine disiato, sì come essa procacciava. Alla cui focosa
lussuria, non che io solo bastassi, o uno amante o due, oltre a me, ma molti ad
attutarne una sola favilluzza non erano sufficienti; della qual parlato non
t'ho, né intendo distesamente parlare, per ciò che contraria medicina sarebbe
alla infermità la quale io son venuto a curare, conoscendo io che tanto, quanto
coloro che l'amistà delle femine disiderano più focose le sentono, più di
speranza prendono e per consequente più di nutrimento aggiugnono al loro amore.
Sommariamente adunque, di questa parte
toccandoti, ti dico che, come ch'io già ne sospicciassi, ora certissimo ne sono
che tal cavaliere è per lo mondo, per lo passato più animoso che avventurato,
del quale essa, innamoratasi, assai volte già seppe come pesava; e, senza al
suo o al mio onore avendo riguardo niuno, così la sua dimestichezza usava come
il mio marital debito; né solamente il se medesima concedergli le bastava, ma
essa, come l'amico tuo ti disse ch'era magnifica, per magnifica dimostrarsi,
non del suo, ma del mio, una volta e altra e poscia più, quando per uno cavallo
e quando per una roba (e talvolta fu, in grandissima necessità di lui, di buona
quantità di danari) il sovvenne, sì che, dove io tesoriera avere mi credea,
donatrice, scialacquatrice e guastatrice avea. Né ancora bastandole il mio
dovuto amore, né quello ch'essa a suo piacere scelto s'avea, ancora aggiunse a
soddisfare i suoi focosi appetiti tal vicino ebb'io, al quale io più d'amore
portava che egli a me d'onore. E, come che io e ciascuno di questi, otta per
vicenda, acqua rifrigeratoria sopra le sue fiamme versassono, nondimeno con
alcuno suo congiunto con più stretto parentado si ricongiunse; e di più altri,
li quali io ora conosco, ella provare volle come arme portassono o sapessono
nella chintana ferire. Parendomene avere detto assai, giudico che sia omai da
tacere: in queste così fatte cose porgendo a ciascuno mano, donando a ruffiane,
e spendendo in cose ghiotte e in lisci, usava la tua nuova donna la
magnificenzia egregia dal tuo amico datati a divedere. Delle cui altre virtù
splendide e singulari volendo, secondo il cominciato stile, avanti procedere,
una via e due servigi farò: per ciò che, mentre quelle ti racconterò, ti
mosterrò come intender si dee, e come ella intende, ciò che, nella lettera a te
mandata da lei, scrive che le piace; forse da te non tanto bene inteso.
L'ordine richiedea a dovere della sua cortesia dire: la quale ella dalla
magnificenzia distingue, per ciò che la magnificenzia intende che s'usi nelle
cose donandole o gittandole via; la cortesia intende di se medesima usarsi,
quando liberamente di sì dice a chi d'amore la richiede: della qual cosa per
certo ella è stata non cortese, ma cortesissima, pure che sia stato chi ardire
abbia avuto di domandare; de' quali assai sono suti che, quantunque ella nello
aspetto molto imperiosa sia paruta, non si sono però peritati; e bene n'è loro
avvenuto: ben dico avendo rispetto al loro appetito, al quale, per merito della
richesta, prestamente è seguito l'effetto. E perciò meritamente dice piacerle
la cortesia: sì come a colei che, mentre da dovere essere richiesta è stata,
mai disdir nol seppe, così, omai che in tempo viene che a lei converrà
richiedere, niuno vorrebbe che 'l disdicesse. E veramente di te io mi
maraviglio come ti sia stato disdetto quello che più a niuno fu già mai; né
altro ne so vedere, se non ch'io estimo che Dio t'ami, quello negare faccendoti
che tu, essendone stato pregato, dovevi come lo 'nferno fuggire. E perciò, se
altra cortesia avessi, la sua lettera leggendo, intesa, abbi testé compreso di
qual si parla. Savissima donna per certo è questa tua; e per ciò che ogni
simile suo simile appetisce, dèi tu avere assai per costante le savie persone,
come ella ti scrive, gradirle. Ma, come tu sai, diverse sono le cose per le
quali gli uomini e ogn'altra persona generalmente sono «savi» chiamati. Alcuni
sono chiamati «savi», per ciò che ottimamente la scrittura di Dio intendono e
sanno altrui mostrare; altri, per ciò che intorno alle questioni civili ed
ecclesiastiche, sì come molto in legge e in decretali ammaestrati, sanno
ottimamente consigli donare; altri, per ciò che nel governo della repubblica
sono pratichi e le cose nocive sanno schifare e seguire l'utili, quando il
bisogno richiede; e alcuni sono savi tenuti, perciò che sanno bene guidare i
lor fondachi le loro mercatanzie le loro arti i loro fatti di casa, e secondo i
mutamenti de' tempi sanno temporeggiare. De' quali modi e d'altri assai, che
laudevoli raccontar si potrebbono, non vorrei che in alcuno tu intendessi lei
esser savia; per ciò ch'ella non cura di divina scrittura né di filosofia né di
legge né di statuto o di reggimento pubblico o privato né di così fatte cose;
per ciò che, se così intendessi, non intenderesti bene il senno di che ti
scrive che si diletta. Egli c'è un'altra maniera di savia gente, la quale forse
tu non udisti mai in scuola tra le sette filosofiche ricordare, la quale si
chiama «la cianghellina». Sì come da Socrate coloro che la sua dottrina
seguirono furono chiamati «socratici», e quelli che quella di Platone
«platonici», ha questo nome preso la nuova setta da una gran valente donna, la
quale tu molte volte puoi avere udita ricordare, che fu chiamata madonna
Cianghella; cui sentenzia, dopo lunga e seriosa disputazione, fu nel concilio
delle donne discrete e per conclusione posta che tutte quelle donne, le quali
hanno ardire e cuore e sanno modo trovare d'essere tante volte e con tanti
uomini quante il loro appetito concupiscibile richiedea, erano da essere chiamate
«savie»; e tutte l'altre «decime o moccicose». Questo è adunque quel senno il
quale le piace e aggrada; questo è quel senno nel quale ella con lunghe vigilie
molti anni ha studiato ed ènne, oltre ad ogni Sibilla, savia e maestra
divenuta: intanto che tra lei e alcune sue consorti s'è assai volte disputato
chi più degnamente, poi che monna Cianghella più non vive, né monna Diana ch'a
lei succedette, debbia la cattedra tenere nella loro scuola. Questo è quel
senno nel quale ella vorrebbe ciascuna donna e uomo essere savio o appararlo; e
perciò sgànnati, se male avessi inteso; e ch'ella sia savissima credi
sicuramente all'amico tuo.
Parmi essere certo che, come nelle due già dette
cose perversamente intendevi, così similemente della terza sii caduto in
errore: di ch'ella sempre s'è dilettata oltremodo, cioè di vedere gli uomini
pieni di prodezza e di gagliardia; e credo che tu credevi ch'ella volesse o
disiderasse o le piacesse di vedere gli uomini pro' e gagliardi, colle lance
ferrate giostrando, o nelle sanguinose battaglie tra mille mortali pericoli o
combattendo le città e le castella o colle spade in mano insieme uccidersi. Non
è così: non è costei così crudele né così perfida, come mostra che tu creda,
ch'ella voglia bene agli uomini perché s'uccidano. E che farebb'ella del sangue
che, morendo l'uomo, vermiglio si versa? La sua sete è del digesto ch' e' vivi
e sani corpi possono, senza riaverlo, prestare. Quella prodezza adunque, che le
piace, niuno la sa meglio di me. Ella non s'usa nelle piazze né ne' campi né su
per le mura né con corazza indosso né con bacinetto in testa né con alcuno
offendevole ferro: ella s'usa nelle camere, ne' nascosi luoghi, ne' letti e
negli altri simili luoghi acconci a ciò, dove, senza corso di cavallo o suon di
tromba di rame, alle giostre si va a pian passo; e colui tiene ella che sia o
vuoi Lancelotto, o vuogli Tristano, o Orlando o Ulivieri, di prodezza, la cui
lancia per sei o per otto aringhi o per dieci in una notte non si piega in
guisa che poi non si dirizzi. Questi così fatti, se eglino avessono già il viso
fatto come il saracino della piazza, ama ella sopra ogni altra cosa; e questi
cotali sommamente commenda e oltremodo le piacciono. Per che, se gli anni non
t'hanno tolta l'usata virtù, non ti dovevi per prodezza disperare di piacerle,
come facesti credendo tu ch'ella volesse forse che tu fossi l'Amoroldo
d'Irlanda. Della sua gentilezza già in parte è parlato, la quale ella dice che
antica le piace: in che io t'accerto che, come che nelle precedenti cose assai
bene e vero, secondo le dimostrazioni fatte, ella abbia il suo piacere
dimostrato, in quello ella non sa che si dire, sì come colei che niuno
sentimento ha, di gentilezza, che cosa sia né donde proceda né chi dir si debba
gentile né chi no; se non ch'ella ha in ciò voluto mostrare che la sia gentile
ella; e però, come gentile, disidera e ama le cose gentili; ed è tanta la sua
vanagloria e la pompa che ella fa di questa sua gentilezza, che in verità a
quelli di Baviera o a' reali di Francia o a qualunque altri, se altri più se ne
sanno antichi e le cui opere sieno state gloriose, sarebbe soperchio. Ma ben
doveva, s'ella vuole, mostrando che l'antica gentilezza le piaccia, sé antica
gentildonna mostrare (de' quali l'uno senza parole ella potrà oggimai tosto col
viso mostrare, cioè che antica sia; o donna o gentil non cred'io ch'ella
potesse mostrare mai), scriverti che le piacessero i grandi favellatori, con
ciò sia cosa ch'ella di favellare ogn'altra persona trapassi; e dicoti che 'l
suo cinguettare è tanto che, solo, troppo più aiuterebbe alla luna sostenere le
sue fatiche che non facevano tutti insieme i bacini degli antichi; e lasciamo
stare l'alte e grandi e lunghe millanterie ch'ella fa, quando berlinga
coll'altre femmine, dicendo «Quelli di casa mia e gli antichi miei e' miei
consorti», che le pare troppo bella cosa a dire; e tutta gongola, quando si
vede bene ascoltare e odesi dire «Monna cotale de' cotali» e vedesi cerchio
fare. Ma ella in brevissimo spazio di tempo ti dirà ciò che si fa in Francia;
che ordina il re d'Inghilterra; se i Ciciliani avranno buona ricolta o no; se i
Genovesi o' Viniziani recheranno spezieria di Levante e quanta; se la reina
Giovanna giacque la notte passata col re; e quello che i Fiorentini dispongano
dello stato della città (benché questo le potrebbe essere assai agevole a
sapere, se con alcuno de' reggenti si stropicciasse, li quali, non altrimenti
che 'l paniere o il vaglio l'acqua, tengono i segreti i petti loro); e tante
altre cose, oltre a queste, dirà che miracolosa cosa è a pensare donde tanta
lena le venga. E per certo, se quello è vero che questi fisici dicono, che
quello membro, il quale l'animale bruto e l'uccello e 'l pesce più esercita,
sia più piacevole al gusto e più sano allo stomaco, niuno boccone deve mai
essere più saporito né migliore che la lingua di lei, la quale di ciarlare mai
non ristà, mai non molla, mai non fina: dàlle dàlle dàlle, dalla mattina insino
alla sera; e la notte ancora, io dico, dormendo, non sa ristare. E chi non la
conoscesse, udendola della sua onestà, della sua divozione, della sua santità e
di quelli di casa sua favellare, crederebbe per certo lei essere una santa, e
di legnaggio reale; e così in contrario, a chi la conoscesse, l'udirla la
seconda volta, e talora la prima, è un fargli venir voglia di recer l'anima. E
'l non consentirle le favole e le bugie sue, delle quali ella è più ch'altra
femina piena, niuna cosa sarebbe se non un volersi con lei azzuffare; la qual
cosa ella di leggieri farebbe, sì come colei alla qual pare di gagliardezza
avanzare Galeotto di lontane isole o Febus. E già assai volte, millantandosi,
ha detto che se uomo stata fosse, l'arebbe dato il cuore d'avanzare di
fortezza, non che Marco Bello, ma il Bel Gherardino che combattea con l'orso.
Perché mi vo io in più parole stendendo? Se io
volessi ogni cosa contare, oppure le più notabili de' suoi fatti, e' non ci
basterebbe il tempo. E, se tu così hai lo 'ngegno acuto come io credo, assai,
pur per le udite, puoi comprendere quanti e quali sieno i suoi costumi; e in
che le sue gran virtù e la magnificenzia e 'l senno e l'altre cose consistano;
e che cose sieno quelle virtuose che le dilettino. Per che, senza più dire di
quelle, tornando a ragionare di quello che tu non puoi aver saputo e di che per
avventura teco stesso fai una grande stima, cioè dell'occulte parti coperte da'
vestimenti, le quali per tua buona ventura mai non ti si palesarono (così non
si fossero elle mai a me palesate!), voglio che l'ascoltarmi non ti rincresca.
Ma io, prima che più avanti dica, ti voglio trarre d'un pensiero, il quale
forse avuto hai o avere potresti nell'avvenire, solvendoti una obiezione che
fare potresti. Tu forse hai teco medesimo detto o potresti dire: «Che cose sono
quelle di che costui parla? chente è il modo, chenti sono i vocaboli? o
convengons'elle a niuno, non che a uomo onesto e il quale ha li passi diritti
verso l'etterna gloria?». Alla quale opposizione, non volendo andare
sofisticando, non è che una risposta; la qual son certo che leggiermente in te
medesimo consentirai che sia non solamente buona, ma ottima. Dèi dunque sapere
né ogni infermità né ogni infermo potere essere sempre dal discreto medico con
odoriferi unguenti medicato, perciò che assai sono, e di quelli e di quelle, che
nol patiscono e che richeggiono cose fetide, se a salute si vorranno conducere;
e se alcuna n'è che con vocaboli con argomenti con dimostrazioni puzzolenti
purgare e guarire si voglia, il mal concetto amore dell'uomo è una di quelle,
per ciò che più una fetida parola nello intelletto sdegnoso adopera più in una
piccola ora, che mille piacevoli e oneste persuasioni, per gli orecchi versate
nel sordo cuore, non faranno in uno gran tempo. E, se niuno mai marcio fu di
questa nocenzia putrida e villana, tu se' senza niuno dubbio desso. Per che io,
il quale, come Altri ha voluto, qui venuto sono per la tua salute, non avendo
il tempo molto lungo, a più pronti rimedi sono ricorso e ricorro; e perciò ad
addolcire il tuo disordinato appetito, alcuna cosa, come udito hai, parlar mi
conviene; e ancor più largo. Perciò che queste parole così dette sono le
tenaglie con le quali si convengono rompere e tagliare le dure catene che qui
t'hanno tirato; e queste parole così dette sono i ronconi e le securi colle
quali si tagliano i velenosi sterpi, gli spinosi pruni e gli sconvolti bronchi
che, a non lasciarti la via da uscirci vedere, davanti ti si sono assiepati;
queste parole così dette sono i martelli, i picconi, i bolcioni i quali gli
alti monti, le dure rocche, e gli strabocchevoli balzi convien che rompano e la
via ti facciano, per la quale da tanto male, da tanta ingiuria, da tanto
pericolo e di luogo così mortale, come è questa valle, senza impedimento ti
possi partire. Sostieni adunque pazientemente d'udirle; né paia alla tua onestà
grave, né estimare quello esser colpa o difetto o disonestà del medico, di che
la tua pestilenziosa infermità è cagione. Imagina queste mie parole, così
sucide e così stomacose a udire, essere quello beveraggio amaro il quale, per
l'avere tu troppo assentito alle cose dilettevoli e piacevoli al tuo gusto, il
discreto medico già nelle tue corporali infermità t'ha donato; e pensa, se, per
sanare il corruttibile corpo, quelle amare cose non solamente si sostengono, ma
vi si fa di volontà incontro lo 'nfermo, quanta e quale amaritudine si dee per
guarir l'anima, che è cosa etterna, sostenere.
Io mi credo assai bene doverti avere soddisfatto
a ciò che ti potesse aver messo in dubbio, o per lo futuro potrebbe, del modo e
de' vocaboli del mio parlare. E perciò, tornando al proposito e volendo delle
cose di questa donna, nuova posseditrice divenuta dell'anima tua, partitamente
alquanto narrare (di quelle, dico, che a te non poterono essere note per veduta
né ancora per imaginazione, per ciò che fuggito l'hai), primieramente mi piace
da quella bellezza incominciare, la qual, tanto le sue arti valsono che te non
solamente, ma molti altri, che meno di te erano presi, abbagliò e di sé mise in
falsa oppinione: cioè della freschezza della carne del viso suo. La quale,
essendo artificiata e simile alle mattutine rose parendo, con teco molti altri
naturale estimarono: la quale se a te e agli altri stolti, come a me, possibile
fosse stato d'avere, quando la mattina del letto usciva, veduta, prima che
posto s'avesse il fattibello, leggiermente il vostro errore avreste
riconosciuto. Era costei, e oggi più che mai credo che sia, quando la mattina
usciva dal letto, col viso verde, giallo, maltinto d'un colore di fummo di
pantano, e broccuta quali sono gli uccelli che mudano, grinza e crostuta e
tutta cascante; in tanto contraria a quello che parea poi che avuto avea spazio
di leccarsi, che appena che niuno il potesse credere, che veduta non l'avesse,
come vid'io già mille volte. E chi non sa che le mura affumicate, non che i
visi delle femine, ponendovi su la biacca, diventano bianche e, oltre a ciò,
colorite secondo che al dipintore di quelle piacerà di porre sopra il bianco? E
chi non sa che, per lo rimenare, la pasta, che è cosa insensibile, non che le
carni vive, gonfia; e, dove mucida parea, diviene rilevata? Ella si
stropicciava tanto e tanto si dipigneva e si faceva la buccia, per la quiete
della notte in giù caduta, rilevarsi che a me, che veduta l'avea in prima, una
strana maraviglia venire facea. E se tu, come io le più delle mattine la vedea,
veduta l'avessi colla cappellina fondata in capo e col veluzzo dintorno alla
gola, così pantanosa nel viso come ora dissi, e col mantello foderato covare il
fuoco, in su le calcagna sedendosi, colle occhiaia livide, e tossire e sputare
farfalloni, io non temo punto che tutte le sue virtù, dal tuo amico udite,
avessero tanto potuto farti di lei innamorare che, quello vedendo cento mila
cotanti disamorare non t'avesse fatto. Quale ella dovesse essere quando i
Pisani col vermiglio all'asta cavalcano, colla testa lenzata e stretta, la
doglia al capo apponendo, dove alla parte opposita era il male, pènsalti tu.
Sono io molto certo che, se veduta così fatta l'avessi, o la vedessi, che, dove
di' che, vedendola, al cuore dal suo viso le fiamme ti corsero, come fanno alle
cose unte, che ti sarebbe paruto che ti si fosse fatto incontro una soma di
feccia o un monte di letame; per lo quale saresti, come per le spiacevoli cose
si fa, fuggito; e ancor fuggiresti e fuggirai, la mia verità imaginando.
Ma da procedere più avanti ci resta. Tu la
vedesti grande e compressa; e parmi essere certo, come io sono della
beatitudine che per me s'aspetta, che, riguardando il petto suo, tu estimassi
quello dovere esser tale e così tirato qual vedi il viso suo, senza vedere i
bargiglioni cascanti che le bianche bende nascondono. Ma di gran lunga è di
lungi la tua estimazione dalla verità; e, come che molti potessero al mio dire
vera testimonianza rendere, sì come esperti, a me, che forse più lungamente, non
potendo altro fare, esperienza n'ebbi, voglio che tu senza altro testimonio il
creda. In quello gonfiato, che tu sopra la cintura vedi, abbi per certo ch'egli
non v'è stoppa né altro ripieno che la carne sola di due bozzacchioni, che già
forse acerbi pomi furono, a toccare dilettevoli e a veder similmente, come che
io mi creda che così sconvenevoli li recasse del corpo della madre; ma lasciamo
andar questo. Esse, qual che si sia la cagione, o troppo l'essere tirate
d'altrui, o il soperchio peso di quelle che distese l'abbia, tanto oltre misura
dal loro natural sito spiccate e dilungate sono, se cascare le lasciasse, che
forse, anzi sanza forse, infino al bellico l'aggiugnerebbono, non altrimenti
vote o vizze che sia una vescica sgonfiata; e certo, se di quelle, come de'
cappucci s'usa a Parigi, a Firenze s'usasse, ella per leggiadria sopra le
spalle se le potrebbe gittare alla francesca. E che più? Cotanto o meno alle
gote, dalle bianche bende tirate e distese, risponde la ventraia, la quale, di
larghi e spessi solchi vergata come sono le toreccie, pare un sacco vòto, non
d'altra guisa pendente che al bue faccia quella pelle vòta che gli pende dal
mento al petto; e per avventura non meno che gli altri panni quella le conviene
in alto levare, quando, secondo l'opportunità naturale vuol scaricare la
vescica o, secondo la dilettevole, infornare il malaguida. Nuove cose, e assai
dalle passate strane, richiede l'ordine del mio ragionamento; le quali quanto
meno schiferai, anzi con quanta più diligenza nello intelletto raccoglierai,
tanta più di sanità recheranno alla tua infermamente. Come che nel vero io non
sappia assai bene da qual parte io mi debbia cominciare a ragionare del golfo
di Setalia, nella valle d'Acheronte riposto, sotto gli oscuri boschi di quella,
spesse volte rugginosi e d'una gromma spiacevole spumosi, e d'animali di nuova
qualità ripieni; ma pure il dirò. La bocca, per la quale nel porto s'entra, è
tanta e tale che, quantunque il mio legnetto con assai grande albero navigasse,
non fu già mai, qualunque ora l'acque furono minori, che io non avessi, senza
sconciarmi di nulla, a un compagno, che con non minore albero di me navigato
fosse, far luogo. Deh, che dich'io? L'armata del re Roberto, qualora egli la
fece maggiore, tutta insieme concatenata, senza calar vela o tirare in alto
temone, a grandissimo agio vi potrebbe essere entrata. Ed è mirabil cosa che
mai legno non v'entrò, che non vi perisse e che, vinto e stracco, fuori non ne
fosse gittato, sì come in Cicilia la Silla e la Cariddi si dice che fanno: che
l'una tranghiottisce le navi e l'altra le gitta fuori. Egli è per certo quel
golfo una voragine infernale; la quale allora si riempirebbe, o sazierebbe, che
il mare d'acqua o il fuoco di legne. Io mi tacerò de' fiumi sanguinei e crocei
che di quella a vicenda discendono, di bianca muffa faldellati, talvolta non
meno al naso che agli occhi spiacevoli, per ciò che ad altro mi tira il preso
stile. Che ti dirò adunque più avanti del borgo di Malpertugio, posto tra due
rilevati monti, del quale alcuna volta, quando con tuoni grandissimi e quando
senza, non altrimenti che di Mongibello, spira un fummo sulfureo sì fetido e sì
spiacevole che tutta la contrada attorno appuzza? Io non so che dirmitene, se
non che, quando io vicino v'abitai, che vi stetti più che voluto non arei,
assai volte, da così fatto fiato offeso, vi credetti altra morte fare che di
cristiano. Né altrimenti ti posso dire del lezzo caprino il quale tutta la
corporea massa, quando da caldo e quando da fatica incitata geme, spira; questo
è tanto e tale che, coll'altre cose già dette raccolte, sì fanno: il covacciolo
sentire del leone, che nelle Chiane, di mezza state, con molta meno noia
dimorerebbe ogni schifo che vicino a quello. Per che, se tu e gli altri, che le
gatte in sacco andate comperando, spesse volte rimanete ingannati, niuno
maravigliar se ne dee. E per questa cagione sola, avendo tu il viso, sì come
gli altri, più diritto alla apparenza che alla esistenza, forse meno se' da
riprendere, quantunque a te più si convenga che a molti altri, più la verità
che l'oppinion delle cose seguire: la quale poi che veduta avessi, e
dall'errore non ti rimovessi, oltre a ogn'altra bestia, che umana forma porti,
saresti da ripigliare. E io, secondo che io credo, ancora che brieve abbia
parlato, avendo rispetto al molto che si può dire, sì aperta t'ho la verità,
che forse t'era nascosa, che, se dal tuo errore non ti rimovessi, oltre ad ogni
altro bestiale dovresti bestia essere tenuto.
Io lascio cose assai a dire, per volere
pervenire a quel dolore al quale ieri t'avea condotto la tua follia; e acciò
che io ti possa ben dimostrare come tu eri folle, aggiugnendo le cose vecchie
colle nuove, alquanto di lontano mi piace di cominciare. Mostrato t'ho in assai
cose quanta e quale sia stata la eccellenza dell'animo di costei e i suoi
costumi; e assai cose de' molti suoi anni ancora dette t'arei, s'io non
t'avessi per sì smemorato che nel suo viso li avessi compresi; né t'ho nascose
quelle parti, che la tua concupiscenzia non meno tirava ad amarla che facesse
l'animo la falsa oppinione presa delle sue virtù. Ora della sua buona
perseveranza e nella morte e dopo la morte mia, mi piace di ragionarti, acciò
che ad un'ora io faccia pro a me e a te: in quanto, io di ciò con alcuno che la
conosca ragionando, si sfogherà alquanto la sdegnosa fiamma nella mia mente
accesa contra di lei per li modi suoi; e a te, per ciò che, quanto più udirai
di lei delle cose meritamente da biasimare, tanto più, lei a vile avendo,
t'appresserai alla tua guarigione. Questa perversa femina ogni giorno più
multiplicando nel fare delle cose male a lei convenienti d'oprare e a me di
sostenere, né in ciò le mie riprensioni alcuna cosa vagliendo, non sappiendo al
comportarle più pigliare alcuno utile consiglio, in sì fatto dolore e afflizione
nascosa mi misero nel cuore, che il sangue intorno a quello, più che il
convenevole da focoso cruccio riscaldato, impostemi; e, come nascoso era il
dolore, così essendo nascosa la 'nfermità, non prima si parve che il corrotto
sangue, occupato subitamente il cuore, me quasi del mondo in uno stante rapì.
Né prima fu l'anima mia dal mortale corpo e dalle terrene tenebre sviluppata e
sciolta e ridotta nell'aere puro che io, con più perspicace occhio ch'io non
solea, vidi e conobbi qual fosse l'animo di questa iniqua e malvagia femina; la
qual sanza dubbio simile allegrezza a quella, che della mia morte prese, mai
non sentì, quasi d'una sua lunga battaglia le paresse avere acquistato gloriosa
vittoria, poscia che io levato l'era stato dinanzi; la qual cosa essa assai
poco appresso, sì come tu udirai, chiaramente dimostrò a chi riguardar vi
volle. Ma tuttavia, sì come colei che ha di malizia abbondanzia, prima avendo
delle mie cose occultamente assai trasfugate, e di quelli danari, che io alla
sua guardia follemente avea commessi, e che a' miei figliuoli rimanere doveano
(non avendo io davanti assai pienamente li miei fatti e l'ultima mia intenzione
ordinata, né avendo spazio di bene ordinarla, per lo sùbito sopravenuto caso),
quella parte presane che le piacque, con altissimo romore fuori mandò le
'nfinte lagrime; il che meglio che altra femmina ella sa fare; e, in molto
pianto multiplicando, colla lingua cominciò a maladire lo sventurato caso della
mia morte e sé a chiamare misera, abbandonata e sconsolata e dolente; dove, col
cuore, maladiceva la vita che tanto m'era durata e sé oltre ad ogn'altra
reputava avventurata. E veramente egli non sarebbe stato né uomo né donna
alcuna, che veduta l'avesse, che non avesse creduto lei veramente nell'animo
avere quel che le sue bugiarde parole sonavano. Ma a me dee bastare assai che
Colui quelle conoscesse, insieme cogli altri fatti di lei, che a ciascuno, sì
come giusto giudice, secondo i meriti rende guiderdoni.
Mandati dunque ad esecuzione tutti gli ufici
funerali, poi che 'l mio corpo, terra divenuto, fu alla terra renduto, la
valente donna, disiderosa di più scapestratamente la sua vecchiezza menare che
non l'era paruto potere la giovanezza, sentendosi calda di quello che suo
essere non dovea, per ciò che né di sua dota né di patrimoniale eredità
sostenersi non arebbe potuto a quello che di fare s'apparecchiava, né nella mia
casa rimaner volle né in quella de' suoi nobili parenti e consorti tornare. Ma
con parole piene di compassione disse sé volere in alcuna picciola casetta, e
vicina ad alcuna chiesa e di sante persone, riducersi, acciò che quivi, vedova
e sola, in orazione e in usare la chiesa il rimanente della sua età consumasse.
E fu tanta la forza di questo suo infinto parlare e sì maestrevolmente il seppe
dire, che assai furono di quelle persone sì semplici che così ebbero per fermo
che addivenire dovesse come dicea, come hanno che morir debbano. Appropinquossi
adunque quanto più poté alla chiesa de' frati, nella quale tu prima la
conoscesti; non già per dire orazioni, delle quali niuna credo che sappi, né di
sapere curassi già mai, ma per potere meglio, senza avere troppi occhi addosso,
e massimamente di persone alle quali del suo onore calesse, le sue libidinose
volontà compiere; e acciò che, dove ogn'altro uomo le venisse meno, i frati,
che santissimi e misericordiosi uomini sono, e consolatori delle vedove, non le
venissero meno. Quivi, secondo che tu puoi avere udito, con suo mantello nero
in capo e, secondo ch'ella vuole che si creda, per onestà molto davanti agli
occhi tirato, va faccendo baco baco a chi la scontra; ma pure, se bene v'hai
posto mente, ora quello apre, e ora richiude, non sappiendosi ancora delle
usate vanità rimanere; e, quasi ad ogni parola in giù si tira le bende dal
mento o caccia la mano fuori del mantello, parendogliele bellissima avere e
massimamente sopra 'l nero. Uscita adunque di casa, così coperta se n'entra
nella chiesa; ma non vorrei che tu credessi che ella per udire divino uficio o
per adorare v'entrasse, ma per tirare l'aiuolo. Per ciò che, sappiend'ella, già
è lungo tempo, che quivi d'ogni parte della nostra terra concorrono giovani e
prodi e gagliardi e savi come le piacciono, di quella ha fatto uno escato, come
per pigliare i colombi fanno gli uccellatori; e, per ciò che ciascuno non vede
la serpe che sta sotto l'erba nascosa, spesso vi piglia de' grossi. Ma, sì come
colei che di variar cibi spesso si diletta, non dopo molto, sazia, a prendere
nuova cacciagion si ritorna; e, per averne ella due o tre tuttavia presti, non
si riman'ella però d'uccellare; e, se io in questo mento o dico il vero, tu 'l
sai, che parendoti bene mille occhi avere, senza sapertene guardare, nelle
panie incappasti. Giunta adunque nella chiesa, e non sanza cautela avendo
riguardato per tutto, e prestamente avendo raccolto con gli occhi chiunque v'è,
incomincia, senza ristare mai, a faticare una dolente filza di paternostri, or
dell'una mano nell'altra, e dell'altra nell'una trasmutandoli, senza mai dirne
niuno, sì come colei la quale ha faccenda soperchia pur di far motto a questa e
a quell'altra, e di sufolare ora ad una e ora ad un'altra nell'orecchie, e così
d'ascoltarne ora una e ora un'altra, come che questo molto grave le paia, cioè
d'ascoltarne niuna, sì bene le pare sapere dire a lei; e in questo, senza altro
far mai, tutto quel tempo, che nella chiesa dimora, consuma. Forse direbbe
alcuno: «Quello che nella chiesa non si fa, ella il supplisce nella sua
casetta». La qual cosa non è punto vera; per ciò che chi si potesse di ciò
essere ingannato, altramenti credendo che 'l fatto sia, io non ne posso essere
ingannato, sì come colui che, s'ella alcuno bene facesse, o alcuna orazione o
paternostri dicesse, il sentirei, per ciò che, non altrimenti che la fresca
acqua sopra i caldi corpi è soave, così a quelli la mia arsura sentirei
rinfrescare.
Ma che dich'io? Forse sono lo 'ngannato pure io:
essa ne dice forse ad altrui nome. Già so io bene che non è ancora lungo tempo
passato che del vostro mondo si partì uno, che con tanta afflizion la trafisse,
ch'ella stette de' dì presso a otto ch'ella non volle bere uovo né assaggiar
pappardelle. Ma io così fidatamente ne favellava, per ciò che saper mi parea, e
so, che le sue orazioni e i suoi paternostri sono i romanzi franceschi e le
canzoni latine, ne' quali ella legge di Lancellotto e di Ginevra e di Tristano
e d'Isotta; e le loro prodezze e i loro amori e le giostre e i torniamenti e le
semblee. E tutta si stritola quando legge Lancelotto o Tristano o alcuno altro
colle loro donne nelle camere, segretamente e soli, ragunarsi, sì come colei
alla quale pare vedere ciò che fanno e che volentieri, come di loro imagina,
così farebbe; avvegna che ella faccia sì che di ciò corta voglia sostiene.
Legge la canzone dello indovinello e quella di Florio e di Biancifiore e simili
altre cose assai. E, se ella forse a così fatte lezioni non intende, a guisa
d'una fanciulletta lasciva, con certi animaletti, che in casa tiene, si
trastulla infino all'ora che venga il suo più desiderato trastullo e che con
lei si congiunga. E, acciò che tu alcuna cosa più che non sai sappia della sua
vita presente, t'affermo io che, dopo la morte mia, oltre agli altri suoi
divoti, ha ella per amante preso il «secondo Ansalone» di cui poco avanti
alcuna cosa ti dissi, assai malconveniente a' suoi piaceri; il quale, come che
per più legittime cagioni si dovesse da così fatta impresa ritrarre, mal
conoscente del bene che Dio gli ha fatto, pur vi s'è messo. Ma non sarà senza
vendetta l'offesa: per ciò che, se nel mondo, nel quale io dimoro, non si
mente, che nol credo né non mi pare, egli ha della moglie un tal figliuolo, e
per suo il nutrica e allieva, che gli appartiene meno che a Giuseppo non fece
Cristo; il quale, cresciuto, ogni mia ingiuria, se ingiuria dir la debbo,
vendicherà contra di lui; né è però esente, come egli stesso si crede, dal
volgare proverbio il quale voi usate, dicendo «Quale asino dà in parete, cotale
riceve»: se egli gli altrui beni lavora, egli è ben d'altra parte chi lavora i
suoi. A così buona vita, adunque, e così santa s'è ritornata vicina de' frati
colei che non mia donna, ma mio tormento fu, mentre vissi. Colei così onesta,
così laudevole quale udisti, fu, prima che morte mi separasse da lei; e nelle
virtù e ne' costumi si dilettò ed esercitò ch'io ti dissi; senza ch'ella è tale
qual io assai brievemente te la disegnai. Per che vedere puoi di cui il tuo
poco senno, il tuo poco conoscimento, la tua poca discrezione abbagliato t'avea
e per cui messa l'anima tua, la tua libertà, il tuo cuore nelle catene d'amore
e in afflizione incomportabile, e quivi ultimamente in questa valle diserta
condotto; di che io mai saziare non mi potrei di riprenderti.
Ma da venire è all'ultima parte della nostra
promessa, acciò che, più della tua impresa attristandoti, meriti più presto il
perdono e la tua salute. Tu, misero, te schernito reputi da costei; e negare
che tu schernito non fossi né io il farei, né tu, perch'io il facessi, il
crederesti; ma non era da così gravemente prenderlo, come facesti, se così chi
il faceva conosciuto avessi, come ora conoscer dèi. E, acciò che tu vegga lei
in questa cosa non avere altrimenti operato che fare si soglia nell'altre e che
tu del tutto fuori della tua mente la cacci, e' mi piace di dirti come e quello
che io della tua letteretta senti'. Egli è il vero che di qua spesso gente ne
vien di là, la quale in parte quello che ci si fa ne racconta; ma nondimeno per
alcuni accidenti n'è conceduto da Dio il venire di qua alcuna volta; e
massimamente o per rammentare noi medesimi a coloro a' quali dee di noi calere,
o per simile caso come è questo per lo quale io sono a te venuto. E avvenne che
io quella notte ci venni, la qual seguette al dì che tu la prima lettera
scrivesti a questa tua donna; e avendo visitati più luoghi, tirato da una
cotale caritatevole affezione, la quale non solamente gli amici, ma ancora i
nemici ci fa amare, colà entrai ove colei abita che ti prese; e, ogni parte
della casa cercando e per tutto riguardando, avvenne che io della lettera,
della quale ti rammarichi, sentii novellare. Egli era già una pezza della notte
passata, quando, entrato in quella camera nella quale ella dorme, e quella,
come l'altra casa, riguardata tutta, essendo già per partirmi, vidi in essa una
lampana accesa davanti alla figura di nostra Donna, poco da colei, che la vi
tiene, faticata; e, verso il letto mirando dov'ella giace, non sola, come
sperava, la vidi, ma in grandissima festa con quello amante di cui poco avanti
dissi alcuna cosa. Per che, ancora arrestato alquanto, volli vedere che volesse
la loro festa significare: né guari stetti, che alla richiesta di colui, con
cui era, levatasi e acceso un torchietto e quella lettera, che tu mandata
avevi, tratta d'un forzierino, col lume in mano e con la lettera, a letto si
ritornò. E quivi, il lume l'uno tenendo e l'altro la lettera leggendo e a parte
a parte guardandola, ti sentii nominare, e con maravigliose risa schernire; e
te or «gocciolone», e or «mellone», e ora «ser Mestola» e talora «cenato»
chiamando, sé quasi ad ogni parola abbracciavano e baciavano e, parole tra' baci
mescolando, si dimandavano insieme se tu, quando quelle cose scrivevi, eri
desto o se sognavi. E talvolta dicevano: «Parti che costui abbi lungo l'arco?
Vedesti mai così nuovo granchio? Per certo questi l'ha cavalca. Egli è di vero
uscito del sentimento, e vuole esser tenuto savio. Domine, dàgli il malanno!
Torni a sarchiare le cipolle e lasci stare le gentildonne. Che dirai? Arestil
mai creduto? Deh, quante bastonate gli si vorrebber fare dare; anzi gli si
vorrebbe dare d'un ventre pecorino per le gote tanto quanto il ventre o le gote
bastassero». Oh, cattivello a te! Come t'erano quivi colle parole graffiati gli
usatti e come v'eri per meno che l'acqua versata dopo le tre! Le tue Muse,
tanto da te amate e commendate, erano quivi chiamate pazzie e ogni tua cosa
matta bestialità era tenuta. E, oltre a questo, v'era assai peggio: che per te
Aristotile, Tullio, Virgilio e Tito Livio e molti altri uomini illustri, per
quel ch'io creda, tuoi amici e domestici, erano, come fango, da loro scalpitati
e scherniti e annullati e, peggio che montoni maremmani, sprezzati e avviliti;
e, in contrario, se medesimi esaltando con parole da fare per istomacaggine le
pietre saltare del muro e fuggirsi, soli sé essere dicevano l'onore e la gloria
di questo mondo; di che io assai chiaramente m'avvidi che 'l cibo e 'l vino,
disordinatamente presi da loro, e il disiderio di compiacere l'uno all'altro,
schernendoti, di se medesimi, ne' quali forse non furono già mai, li avea
tratti. Con queste parole e con simili e con molte altre schernevoli lunga
pezza della notte passarono; e per aver più cagione di farti dire e scrivere,
ed essi di poter di te ridere e schernirti, quivi tra loro ordinarono la
risposta che ricevesti; alla quale tu rispondendo, desti loro materia di ridere
e di dire altrettanto, o peggio, della seconda, quanto della prima avessono
detto. E, se non fosse che 'l drudo novello temeo non il troppo scrivere si
potesse convertire in altro, forse della vanità di lei e della leggerezza
sospicando, non dubitar punto che tu non avessi la seconda lettera avuta e poi
la terza; e forse saresti aggiunto alla quarta e alla quinta. Così adunque
desti da ridere alla tua savia donna e valorosa e al suo dissensato amante; e,
dove amore e grazia acquistare ti credevi, beffe e strazio di te acquistavi.
La qual cosa veggendo e udendo io, non già per
amore di te, che ancora assai ben non ti conosceva, ma perché cosa così
abominevole sostenere non potea, assai male contento, non per me, ma per lei,
mi partii pieno di sdegno e di gravosa noia. Questo, secondo che le tue parole
suonano, non sapesti tu da singulare persona che ciò ti narrasse, ma da
congetture prese di parole, da forse non troppo savia e nociva persona udite;
eppure, di quel poco che comprendesti, in disperazione ne volevi venire. Or che
avresti detto, quando la mente tua era ancora del tutto inferma, se così
ordinatamente avessi la cosa udita? Sono certo, senza più pensarvi, ti saresti
per la gola impiccato; ma vorrebbe il capestro essere stato forte sì che ben
sostenuto t'avesse, acciò che, rottosi, tu non fossi caduto e scampato, sì come
colui che quello, e peggio, molto bene meritato avevi. Ma, se cotale avessi la
mente avuta e lo 'ntelletto sano come dovevi, avendo riguardo a quello ch'io
detto t'ho, non miga a quello che tu per li tuoi studi non potevi sapere, ma a
quello che per quelli ti sarebbe stato mostrato avendo voluto riguardare, riso
te ne avresti, veggendo lei dalla general natura dell'altre femine non deviare;
il che forse testé teco medesimo fai; e fai saviamente, se 'l fai.
E quello che di questa parte ho detto, quello
medesimo dico della seconda: che, se tu teco medesimo riguardare avessi voluto
quanta sia la vanità delle femine di quello ti saresti ricordato che tu molte
volte hai già detto, cioè che gloriandosi elle sommamente d'essere tenute
belle, e per essere facciano ogni cosa, e tanto più loro essere paia quanto più
si veggiono riguardare, più fede al numero de' vagheggiatori dando che al loro
medesimo specchio. Compreso avresti a lei non essere discaro, ma carissimo il
tuo riguardare; e, per ciò che esse di niuna cosa, che a loro pompa appartenga,
contente sono se nascosa dimora, volonterosa che all'altre femine apparisse, te
a dito mostrava, per dare a vedere a quelle, alle quali ti dimostrava, sé
ancora essere da tenere bella e d'avere cara, poi che ancora trovava amadori, e
massimamente te che da tutti se' un gran conoscitore di forme di femine
reputato; per che lei mostrarti aresti veduto in onore di te, non in biasimo,
essere stato fatto da lei. Ben potrebbe alcun altro dire il contrario: che
ella, per mostrarsi molto a Dio ritornata e avere del tutto la vita bia
simevole, che piacere le soleva, abbandonata, te a dito avesse mostrato,
dicendo: «Vedete il nimico di Dio quanto s'oppone alla mia salute; vedete cui
egli m'ha ora parato dinanzi per farmi tornare a quello di che io del tutto
intendeva, e intendo, di più non seguire!»; o forse con quelle medesime parole
colle quali avea al suo amante la tua lettera dimostrata. E altri direbbono che
né l'uno modo né l'altro, né per l'una cagione né per l'altra fatto l'avesse;
ma solamente per voglia di berlingare e di cinguettare, di che ella è
vaghissima, sì ben dire le pare; e essendole venuta meno materia da dovere dire
di sé alcuna gran bugia, per avere onde dirla, te dimostrava. Ma, qual che la
cagion si fosse, ricorrere dovevi prestamente a quella infallibile verità: cioè
niuna femina essere savia, e perciò non potere saviamente operare. E, se
riprensione in ciò cadeva, sopra te dover degnamente cadere, sì come colui che
credevi, avendola alcuna volta guardata o portandole alcuno amore, quello aver
fatto di lei, in sua vecchiezza, che né la natura, né forse i gastigamenti,
aveano potuto nella sua giovanezza fare: cioè che ella savia fosse o alcuna
cosa saviamente operasse. Tu adunque, non considerando né in lei né in te
quello che dovevi, se cruccio grave n'avesti, te ne fosti cagione. Ma lasciamo
stare l'essere le femine così fiere, così vili, così orribili, così dispettose,
come ricordato t'hanno le mie parole, e l'avere la lettera tua palesata così
schernevolmente, e te per qualunque delle dette cagioni o per qual'altra voglia
avere a dito mostrato alle femine, e vegnamo al focoso amore che portavi a
costei e ragioniamo della tua demenzia in quello. Io voglio presupporre che
vero fosse ciò che l'amico tuo del valore di costei ti ragionò: il che se così
credesti che fosse, mai non mi farai credere che in lei libidinoso amore avessi
posto, sì come colui che avresti conosciuto quelle virtù essere contrarie al tuo
vizioso desiderio; e, per consequente, essendo esse in lei, mai non doverti
venire fatto in quello atto cosa che tu avessi voluta; sì che non quelle ad
amarla ti tirarono, ma la sua forma per certo; e alcuna cosa o udita o veduta
di lei ti mise in speranza del tuo disonesto volere potere recare a fine. Ma
furonti sì gli occhi corporali nella testa travolti che tu non vedessi lei
essere vecchia e già stomachevole e noiosa a riguardare? E, oltre a ciò, qual
cechità d'animo sì quelli della mente t'avea adombrati che, cessando la
speranza del tuo folle desiderio in costei, con acerbo dolore ti facesse la
morte disiderare? Qual miseria, qual tiepidezza, qual tracutaggine te a te così
avea della memoria tratto che, venendoti meno costei, tu estimassi che tutto l'altro
mondo ti dovesse essere venuto meno e per questo volere morire? Part'egli così
essere da nulla? Se' tu così pusillanimo, così scaduto, così nelle fitte
rimaso, così scoppiato di cerro o di grotta o se' così da ogni uomo del mondo
discacciato che tu costei sì per unico rifugio e per tuo singulare bene eletta
avessi che, se ti mancasse, tu dovessi disiderare di morire? Qual piacere,
quale onore, qual utile mai avesti da lei o ti fu promesso, se non dalla tua
stessa sciocca e bestiale speranza, il quale poi ti fosse tolto da lei? E; la
tua speranza che cosa da lei ti poteva giustamente promettere? Certo niuna, se
non di metterti nelle braccia quelle membra cascanti e vizze e fetide; delle
quali sanza fallo, se saputo avessi il mercato il quale n'ha fatto e fa, come
ora sai, sarebbe stato il disiderio minore. Forse speravi, potendole nelle
braccia venire e avendo di quella prodezza della quale ella cotanto si diletta,
così essere salariato come fu già il cavaliere di cui di sopra parlai? Tu eri
ingannato, per ciò che, quando quello era, ella spendeva de' miei; oggi, de'
suoi parendole spendere, non dubito punto che tu non le trovassi troppo più
stretta la mano che tu non t'avvisi. Egli è andata via quella magnificenza
della quale forse tanto l'amico tuo la commendava. E, se questo non isperavi,
in quale altra cosa ti poteva ella molto valere? Potevati costei degli anni
tuoi scemare? Sì forse di quelli che sono a venire, per ciò che già ad altrui
ne scemò: ma io non credo che tu questo avessi voluto; e giugnere non te ne
potea, per ciò che solamente a Dio appartiene questo. Potevati costei delle
cose assai, che tu non sai, insegnare? Sì forse delle malvage, per ciò che già
ad altrui ne 'nsegnò: ma io non credo che tu quelle vadi cercando; dell'altre
mostrare non ti potea, per ciò che niuna buona ne sa. Potevati costei, vivendo
tu o morendo, beatificare? Sì forse, se quella è beatitudine che essa col suo
amante, te schernendo, diterminava, per ciò che già così n'ha assai
beatificati: ma io non credo, poi che alquanto la luce t'è tornata dello
intelletto, che tu quella beatitudine estimi, ma tormento; della vera né hanne
né arà mai, sì come colei che ad etterno supplicio, per li carnali diletti, già
se medesima ha condannata. Che dunque ti poteva costei fare? Certo io nol
conosco; né credo ancora che tu il conoscessi o possi conoscere. Forse t'arebbe
potuto fare de' priori : che oggi cotanto da' tuoi cittadini si disidera. Ma io
non so vedere il come, rammentandomi che nel vostro capitolio non è da' vostri
senatori orecchia porta a' rapaci lupi dello alto legnaggio e del nobile del
quale ella è discesa. Ma ben potresti tu dire: sì, potrebbe, se così fosse a
grado a tutti coloro che a fare hanno lo squittino, come ella fu a te; e
avessel voluto fare. Ma questo mi pare che sarebbe impossibile: che appena, che
io creda, che, non che tanti, ma che un altro se ne trovasse che così ne
potesse divenire abbagliato come tu divenisti. Deh, misera la vita tua! Quanti
sono i signori, li quali se io per li loro titoli ora ti nominassi, in tuo
danno te ne vanaglorieresti, dove in tuo pro non te ne se' voluto rammemorare?
Quanti i nobili e grandi uomini alli quali, volendo, tu saresti carissimo! E
per soperchio e poco laudevole sdegno, il quale è in te, a niuno t'accosti; o,
se pure ad alcuno, poco con lui puoi sofferire, se esso a fare a te quello che
tu ad esso dovresti fare non si dechina: cioè seguitare i tuoi costumi ed
esserti arrendevole; ove tu con ogni sollecitudine dovresti i suoi seguire e
andargli alla seconda. E a costei andando quanto tu più umile potevi, non
parendoti così bene essere ricevuto come disideravi, non ti partivi, come fatto
avresti e faresti, da quelli che esaltar ti possono, dove costei sempre ti
deprimerebbe, ma chiamavi la morte che t'uccidesse; la qual più tosto chiamar
dovevi, avendo riguardo a quello a che l'anima tua s'era dechinata, a che
viltà, e a cui sottomessa: a una vecchia rantolosa, vizza, malsana, pasto omai
più da cani che da uomini, più da guardare la cenere del focolare omai, che da
apparire tra genti perché guardata sia.
Deh, lasciamo stare quello che tu, per tuo
studio, hai di grazia da Dio acquistato, e vegnamo a quello solo che dalla
natura t'è stato conceduto; e, questo veduto, se così se' sdegnoso come ti
mostri nell'altre cose, non d'essere stato schernito, o forse rifiutato, tu ti
piagnerai e lamentera'ti, ma d'averti, a modo ch'uno nibbio, lasciato adescare
e pigliare alle busecchie. Hatti la natura tanta di grazia fatta che tu se'
uomo, dove colei è femina, per cui sì miseramente piangevi: e quanto l'uomo più
degna cosa e più nobile sia che la femina in parte davanti l'hanno le nostre
parole dimostrato. Appresso, s'ella è di persona grande e bene ne' suoi membri
proporzionata e nel viso forse, a tuo parere, bella, e tu non se' piccolo e per
tutto se' così ben composto come sia ella, né difettuoso ti veggio in parte
alcuna, né ha il tuo viso tra gli uomini men di bellezza che abbia il suo tra
le femine, con tutto ch'ella studi il suo con mille lavature e con altrettanti
unguenti, dove tu il tuo o rade volte o non mai pur con l'acqua chiara te 'l
lavi; anzi ti dirò più: ch'egli e molto più bello, quantunque tu poco te ne
curi; e fai bene, per ciò che tale sollecitudine sommamente agli uomini si
disdice. Una grazia le ha fatta per insino a qui la sua natura più che a te:
che, se non m'inganna il mio iudicio, quantunque tu abbi la barba molto fiorita
e, di nere, candide sieno divenute le tempie tue, è ella pur nel mondo stata
molti più anni che tu non se', quantunque forse non l'abbia così bene
adoperati. Per che, ragguagliando la prima cosa, nella quale tu se' meglio di
lei, con questa ultima, nella quale pare che ella sia meglio di te, essendo
quella di mezzo del pari, dico che così tosto dovrebbe ella essersi fatta
incontro a te ad amarti come tu ti facesti incontro a lei. S'ella nol fece,
vuo' tu perciò per la sua sconvenevolezza consumarti? Ella, a buona ragione, ha
più da rammaricarsi che non hai tu: per ciò che della sua sconvenevolezza ella
perde, dove tu ne guadagni, se ben porrai mente, ogni cosa.
Ma tu rificchi pur gli occhi della mente ad una
cosa, nella qual ti pare avere molto disavvantaggio da lei, e di che io niuna
menzione feci, quando l'altre andai ragguagliando, e avvisi che quella sia la
cagione per la quale tu schifato sii: cioè che a te pare che ella gentildonna
sia, dove a te non pare essere così; il che presupponendo che così fosse, non
perciò saresti lasciato, se guardi a chi è il «secondo Ansalone», che è cotanto
nella sua grazia, e se a tutto pieno degli altri guardando verrai. Ma in ciò mi
pare che tu erri, e gravemente; primieramente in ciò: che tu, lasciando il
vero, seguiti l'opinione del popolazzo il quale sempre più alle cose apparenti
che alla verità di quelle dirizza gli occhi. Ma non sai tu qual sia la vera gentilezza
e quale la falsa? Non sai tu che cosa sia quella che faccia l'uomo gentile e
qual sia quella che gentile esser non lascia? Certo sì ch'io so che tu 'l sai;
né niuno è sì giovinetto nelle filosofiche scuole che non sappia noi da un
medesimo padre e da una madre tutti avere i corpi, e l'anime tutte iguali e da
uno medesimo creatore; né niuna cosa fe' l'uno gentile e l'altro villano, se
non che, avendo ciascuno parimente il libero arbitrio a quello operare che più
gli piacesse, colui che le virtù seguitò fu detto gentile, e gli altri in
contrario, seguendo i vizi, furono non gentili reputati; dunque da virtù venne
prima gentilezza nel mondo. Vieni ora tu tra' suoi moderni e ancora tra' suoi
passati cercando, e vederai quante di quelle cose, e in quanti tu ne troverai,
che facciano gli uomini gentili. L'avere avuto forze che loro vennono da
principio da fecunda prole, che è naturale dono e non virtù, e con quelle avere
rubato, usurpato e occupato quello de' loro vicini meno possenti, che è vizio
spiacevole a Dio e al mondo, li fece già ricchi; e, dalle ricchezze
insuperbiti, ardirono di fare quello che già soleano i nobili fare: cioè di
prendere cavalleria; nel quale atto ad un'ora se medesimi e' vai e gli altri
militari ornamenti vituperarono. Qual gloriosa cosa, qual degna di fama, quale
autorevole udistù mai dire, che per la re publica, oppure per la privata,
alcuno di loro adoperasse già mai? Certo non niuna; fu adunque il principio
della gentilezza di costoro forza e rapina e superbia, assai buone radici di
così laudevole pianta. Di quegli che ora vivono è la vita tale che l'esser
morto è molto meglio. Ma pure, se stato ve ne fosse alcuno valoroso, che fa
quello a costei? Così bene te ne puoi gloriar tu, come ella e qualunque altro
si fosse. La gentilezza non si può lasciare in eredità, se non come la virtù,
le scienze, la santità e così fatte cose: ciascun conviene che la si procacci e
acquistila, chi avere la vuole.
Ma, che che stato si sia negli altri, dirizza un
poco gli occhi in colei di cui parliamo, che così gentil cosa ti pare; e chi
ella sia al presente o nel preteritò stata sia riguarda. S'io non errai,
vivendo seco, e se bene quello che di lei poco innanzi ragionai raccogliesti,
ella ha tanto di vizio in sé che ella ne brutterebbe la corona imperiale. Che
gentilezza dunque da lei ti può essere gittata al volto, o rimproverata non
gentilezza? In verità, se non che parrebbe che io lusingare ti volessi, assai
leggiermente e con ragioni vere ti mosterrei te molto essere più gentile che
ella non è, quantunque degli scudi de' tuoi passati non si veggano per le
chiese appiccati. Ma così ti vo' dire: se punto di gentilezza nello animo hai,
o quella avessi che già ebbe il legnaggio del re Bando di Benvicche, tutta
l'avresti bruttata e guasta, costei amando. Ora io potrei, oltre a quello che è
detto, ad assai più cose procedere; e con più lungo sermone e con parole più
aspre contro alla ignominia della malvagia femina che ti prese e contro alla
tua follia e alla colpa da te commessa; ma, volendo che quelle che dette sono
bastino, quelle che tu vuogli dire aspetterò. –
Io aveva colla fronte bassa, sì come coloro che
il loro fallo riconoscono, ascoltato il lungo e vero parlare dello spirito; e
sentendo lui a quello avere fatto fine e tacere, lagrimando alquanto, il viso
alzai; e dissi:
– Ottimamente, benedetto spirito, dimostrato
m'hai quello che alla mia età e a' miei studi si convenia; e in spezialità la
viltà di costei la quale il mio falso giudicio per donna della mia mente,
nobilissima cosa estimandola, eletta avea; e i suoi costumi e i suoi diletti e
le maravigliose sue virtù, con molte altre più cose; e con parlare ancora assai
più dolce che 'l mio peccato non meritava me riprendendo, m'hai dimostrato
quanto gli uomini naturalmente di nobiltà le femine eccedano, e chi io in
particulare sia. Le quali cose ciascuna per sé e tutte insieme hanno sì in
tutto rivolta la mia sentenzia e il mio animo permutato che, senza niuno
dubbio, di ciò che mi pareva davanti, ora mi pare il contrario; intanto che,
quantunque piissima sia Colei, li cui prieghi la tua venuta a me impetrarono,
appena che io possa sperar già mai perdono o salute, quantunque tu la mi
prometta, sì mi par grave e spiacevole il mio peccato. E perciò temo che, dove
per mia utilità venisti, quella in grandissimo danno non si converta, in quanto
prima noiosa m'era la stanza e gravi le catene che mi teneano, ma pure, non
conoscendo il pericolo nel quale io era, né ancora la mia viltà, quelle con
meno affanno portava che omai non potrò portare. Le mie lagrime
multiplicheranno ognuna in mille, e la paura diverrà intanto maggiore che mi
ucciderà; sì che, se male mi parea davanti stare, ora mi pare stare
pessimamente. –
Lo spirito allora, tutto pieno di compassione,
nello aspetto riguardandomi, disse:
– Non dubitare: sta' sicuramente, e nel buono
volere, nel quale al presente se', persevera. La divina bontà è sì fatta e
tanta che ogni gravissimo peccato, quantunque da perfida iniquità di cuore
proceda, solo che buona e vera contrizione abbia il peccatore, tutto il toglie
via e lava della mente del commettitore e perdona liberamente. Tu hai
naturalmente peccato, e per ignoranza: che nel divino aspetto ha molto meno
d'offesa che chi maliziosamente pecca; e ricordar ti dèi quanti e quali e come
enormi mali, per malizia operati, egli abbia con l'onde del fonte della sua
vera pietà lavati; e, oltre a ciò, beatificati coloro che già come nimici e
rubelli del suo imperio peccarono, per ciò che buona contrizione e ottima
satisfazione fu in loro. E io, se non m'inganno, anzi se le tue lagrime non
m'ingannano, te sì compunto veggio che già perdono della offesa hai meritato; e
certissimo sono che disideroso se' di satisfare, in quello che per te si potrà,
della offesa commessa; alla qual cosa io ti conforto quanto più posso, acciò
che in quel baratro non cadessi donde niuno può poi rilevarsi. –
Al quale io allora dissi:
– Iddio, che solo i cuori degli uomini vede e
conosce, sa se io dolente sono e pentuto del male commesso e se io così col
cuore piango come per gli occhi; ma, perché per contrizione e per satisfazione
tu in speranza di salute mi metti, avendo io già l'una, carissimo mi sarebbe
d'essere da te ammaestrato di ciò che a me s'appartenesse per fornire l'altra.
–
Al quale esso rispuose:
– A volere de' falli commessi satisfare
interamente, si conviene, a quello che fatto hai, operare il contrario; ma
questo si vuole intendere sanamente. Ciò che tu hai amato, ti conviene avere in
odio; e ciò che tu per lo altrui amore acquistare t'eri a dovere fare disposto,
a fare il contrario, sì che tu odio acquisti, disporre e far ti conviene; e odi
come, acciò che tu stesso, male intendendo le parole da me ben dette, non
t'ingannassi. Tu hai amata costei, perché bella ti pareva, perché dilettevole
nelle cose libidinose la speravi. Voglio che tu abbi in odio la sua bellezza,
in quanto di peccare ti fu cagione, o essere ti potesse nel futuro; voglio che
tu abbi in odio ogni cosa che in le' in così fatto atto dilettevole stimassi;
la salute dell'anima sua voglio che tu ami e disideri; e, dove per piacere agli
occhi tuoi andavi disiderosamente dove vedere la credevi, che tu similemente
questo abbi in odio e fùgghitene; voglio che della offesa fattati da lei tu
prenda vendetta, la quale ad una ora sarà a te e a lei salutifera. Se io ho il vero
già molte volte inteso, ciascuno che in quello s'è dilettato di studiare o si
diletta che tu fai, ottimamente, eziandio mentendo sa cui gli piace tanto
famoso e sì glorioso rendere negli orecchi degli uomini che, chiunque di quel
cotale niuna cosa ascolta, lui e per virtù e per meriti sopra i cieli estima
tenere le piante de' piedi; e così in contrario, quantunque virtuoso,
quantunque valoroso, quantunque da bene stato sia uno che nella vostra ira
caggia, con parole, che degne paiono di fede, nel profondo di ninferno il
tuffate e nascondete. E perciò questa ingannatrice, come a glorificarla eri
disposto, così ad avvilirla e a parvificarla ti disponi; il che agevolmente ti
verrà fatto, per ciò che dirai il vero. E, in quanto puoi, fa' che a le' nel
tuo parlare lei medesima mostri e similemente la mostri ad altrui; per ciò che,
dove l'averla glorificata tu aresti mentito per la gola e fatto contro a quello
che si dee e tesi lacciuoli alle menti di molti che, come tu fosti, sono
creduli, e lei aresti in tanta superbia levata che le piante dei piedi non le
si sarebbono potute toccare, così, questo faccendo, dirai il vero e sgannerai
altrui, e lei raumilierai: che forse ancora di salute le potrebbe essere
cagione. Fa' dunque, incomincia come più tosto puoi e fa' sì che si paia; e
questa satisfazione, quanto a questo peccato, tanto ti sia assai. –
Al quale io allora rispuosi:
– Per certo che, se tanto mi vorrà di bene Iddio
che io mai mi vegga di questo laberinto fuori, secondo che mi ragioni, di
satisfare m'ingegnerò; e niuno conforto più, niun sospignimento mi bisognerà a
far chiaro l'animo mio di tanta offesa. E, mentre nelle parole artificialmente
dette sarà alcuna forza o virtù, a niuno mio successore lascerò a fare delle
ingiurie ricevute da me vendetta, solo che tanto tempo mi sia prestato ch'io
possa o concordare le rime o distendere le prose. La vendetta daddovero, la
quale i più degli uomini giudicherebbon che fosse da far con ferri, questa
lascerò io al mio signore Dio il quale mai niuna mal fatta cosa lasciò
impunita. E nel vero, se tempo da troppo affrettata morte non m'è tolto, io la
farò, con tanto cruccio di lei e con tanto vituperio della sua viltà,
ricredente della sua bestialità, mostrandole che tutti gli uomini non sono da
dovere essere scherniti ad uno modo, che ella vorrebbe così bene essere digiuna
d'avermi mai veduto, come io abbia disiderato o disideri d'essere digiuno
d'avere veduta lei. Ora io non so: se animo non si muta, la nostra città avrà
un buon tempo poco che cantare altro che delle sue miserie o cattività; senza
che io m'ingegnerò con più perpetuo verso testimonianza delle sue malvage e
disoneste opere lasciare a' futuri. –
E, questo detto, mi tacqui; ed esso altresì si
taceva; per che io ricominciai:
– Mentre quello a venire pena che tu aspetti, ti
priego a un mio disiderio sodisfacci. Io non mi ricordo che mai, mentre nel
mortale mondo dimorasti, teco né parentado né dimestichezza né amistà alcuna io
avessi già mai; e parmi essere certo che, nella regione nella quale dimori,
molti sieno, che amici e parenti e miei dimestichi furono, mentre vissero: per
che, se di quindi alla mia salute alcuno dovea venire, perché più tosto a te
che ad alcuno altro di quelli fu questa fatica imposta ?—
Alla qual domanda lo spirito rispuose:
– Nel mondo là dov'io sono né amistà né
parentado né dimestichezza vi si guarda in alcuno: ciascheduno, purché per lui
alcuno bene operar si possa, è prontissimo a farlo, e senza niuno dubbio. È il
vero che a questo servigio e ad ogni altro molti, anzi tutti quanti di là ne
sono, sarebbono stati più di me sufficienti; e sì parimente tutti di carità
ardiamo che ciascuno a ciò sarebbe stato prontissimo e volonteroso; ma pertanto
a me toccò la volta, perché la cosa, di che io ti dovea venire per la tua
salute a riprendere, in parte a me apparteneva, come di cosa stata mia; e assai
manifestamente appariva che di quella tu ti dovevi più di me vergognare che di
alcun altro, sì come di colui al qual pareva che nelle sue cose alcuna ingiuria
avessi fatta, meno che onestamente disiderandole. Appresso a questo ciascun
altro si sarebbe più vergognato di me di dirti quello delle mie cose, che era
da dirne, che non sono io; né era da tanta fede prestargli intorno a ciò quanta
a me; senza che alcuno non arebbe sì pienamente saputane ogni cosa raccontare
sì come io, quantunque io n'abbia lasciate molte; e questa credo che fosse la
cagione che me innanzi ad ogni altro eleggere facesse a dovere venire a
medicarti di quel male al quale radissime medicine trovare si sogliono. –
A cui io allora dissi:
– Qual che la cagione si fosse, quel ne credo
che a te piace ch'io ne creda; e per questo sempre mi ti conosco e conoscerò
obligato; per che io ti priego per quella pace, che per te ardendo s'aspetta,
che con ciò sia cosa ch'io sia volonteroso di mostrarmi di tanto e tale
beneficio verso te grato, che, se per me operare alcuna cosa si puote, che
giovamento e alleviamento debba essere della pena la qual tu sostieni, che tu,
avanti che io da te mi parta, la mi 'mponga, sicuro che, quanto il mio potere
si stenderà, sarà senza fallo fornita. –
A cui allora lo spirito disse:
– La malvagia femina, che mia moglie fu, è tutta
ad altre sollecitudini data, come puoi avere udito, che a ricordarsi di me; e
a' miei figliuoli ancora nol concede l'età, ché piccioletti sono; parente altro
non ho, che di me metta cura (non mettessono essi più in occupare quello de'
pupilli da me lasciati!), e perciò alla tua liberal profferta imporrò che ti
piaccia, quando di questo viluppo sarai dislacciato, che con l'aiuto di Dio
sarà tosto, che tu, a consolazione di me e ad alleggiamento della mia pena,
alcuna elimosina facci, e facci dire alcuna messa nella quale per me si
prieghi; e questo mi basterà. Ma, s'io non erro, l'ora della tua diliberazione
s'avvicina; e perciò dirizza gli occhi verso oriente e riguarda alla nuova luce
che pare levarsi; la quale se ciò fosse che io avviso, qui non arebbono più
luogo parole, anzi sarebbe da dipartirsi. –
Mentre lo spirito queste ultime parole dicea, a
me, che ottimamente il suo disiderio ricolto avea, parve levare la testa verso
levante e parvemi vedere surgere a poco a poco di sopra alle montagne uno lume,
non altrimenti che, avanti la venuta del sole, si lieva nello oriente l'aurora.
Il quale, poi che in grandissima quantità il cielo ebbe imbiancato, subitamente
divenne grandissimo; e, senza più verso noi farsi che solamente coi raggi suoi,
in quella guisa che noi talvolta veggiamo, tra due oscuri nuvoli trapassando,
il sole in terra fare una lunga riga di luce, così, verso noi disceso, fece una
via luminosa e chiara, non trapassante il luogo dove noi stavamo; la qual non
prima sopra me venne che io, con molta maggiore amaritudine della mia
coscienzia che prima non avea fatto, il mio errore riconobbi. E, poi che
alquanto gustata l'ebbi, mi parve che non so che cosa grave e ponderosa molto
da dosso mi si levasse; e me, al quale prima immobile e impedito essere parea,
senza sapere di che, fé incontanente parere leggierissimo e spedito e avere
licenzia di potere andare. Per la qual cosa dire mi parve allo spirito:
– Se tempo ti paresse d'andare, io te ne priego
che di quinci ci dipartiamo, per ciò che a me sono tornate le perdute forze e
il buono volere; e parmi vedere la via espedita. –
A cui tutto lieto rispuose lo spirito:
– Ciò mi piace: muovi e andianne tosto; ma
guarda del sentiero luminoso, che davanti ti vedi e per lo quale io anderò, tu
non uscissi punto, per ciò che, se i bronchi de' quali tu vedi il luogo pieno,
ti pigliassero, nuova fatica bisognerebbe a trartene, oltre a questa alla quale
io venni; e sallo Iddio se l'aiuto, che avuto hai al presente, impetreresti o
no. –
Al quale mi parea tutto lieto rispondere:
– Andianne pur tosto, per Dio, e questa cautela
sicuramente al mio avvedimento commetti, ché per certo, se cento milia prieghi
mi si facessono incontro in luogo delle beffe già ricevute, non mi potrebbono
più nelle catene rimettere, delle quali la misericordia di Colei, alla qual
sempre mi conobbi obligato (e ora più che mai), e la tua buona dottrina e
liberalità appresso, mi traggono. –
Mossesi adunque lo spirito; e, per lo luminoso
sentiero andando, verso le montagne altissime dirizzò i passi suoi. Su per una
delle quali, che il cielo parea che toccasse, messosi, me non senza grandissima
fatica, sempre cose piacevoli ragionando, si trasse dietro; sopra la sommità
della quale poi pervenuti fummo, quivi il cielo aperto e luminoso per tutto
vedere mi parve, e sentire l'aere dolce e soave e lieto, e vedere le piante
verdi e' fiori per le campagne; le quali cose tutto il petto delle passate noie
afflitto riconfortarono e ritornarono nella prima allegrezza. Laonde, sì come
allo spirito piacque, io mi rivolsi indietro a riguardare il luogo del quale
tratto mi avea; e parvemi non valle, ma una cosa profonda infino in inferno,
oscura e piena di noie e di dolorosi rammarichii. E, avendomi detto me essere
libero e potere di me fare a mio senno, tanta fu la letizia, ch'io senti', che,
vogliendolimi a' piedi gittare e grazie rendergli di tanto e tale beneficio,
esso e 'l mio sonno ad una ora si dipartiro. Risvegliato adunque e tutto di
sudore bagnato trovandomi, non altramenti che sieno gli uomini faticati, o che
se col vero corpo la montagna salita avessi che nel sogno mi parve salire,
maravigliatomi forte, sopra le vedute cose cominciai a pensare; e, mentre meco
ad una ad una ripetendo l'andava ed esaminando se possibile fosse così essere
il vero come mi pareva avere udito, assai ne concedetti verissime; come che poi
quelle, che per me allora conoscere non potea, da altrui poi informatomene,
essere non meno vere che l'altre trovassi. Per la qual cosa, non altramenti che
spirato da Dio, a dovere con effetto della misera valle uscire mi dispuosi. E,
veggendo già il sole essere alto sopra la terra, levatomi, agli amici, co'
quali nelle mie afflizioni consolare mi solea, andatomene, ogni cosa veduta e
udita per ordine raccontai; li quali ottimamente esponendomi ogni particella
del sogno, nella mia esposizione medesima tutti concorrere li trovai; per che
sì per li loro conforti e sì per lo conoscimento, che in parte m'era tornato
migliore, al tutto a dipartirmi dal nefario amore della scellerata femina mi
dispuosi. Alla quale disposizione fu la divina grazia sì favorevole che infra
pochi dì la perduta libertà racquistai; e, come io mi soleva, così sono mio:
grazie e lode n'abbia colui che fatto l'ha. E sanza fallo, se tempo mi fia
conceduto, io spero sì con parole gastigar colei che, vilissima cosa essendo,
altrui schernire co' suoi amanti presume, che mai lettera non mosterrà, che
mandata le sia, che della mia e del mio nome con dolore e con vergogna non si
ricordi. E voi vi rimanete con Dio. Picciola mia operetta, venuto è il tuo fine
e da dare è omai riposo alla mano; e perciò ingegnera'ti d'essere utile a coloro,
e massimamente a' giovani, li quali con gli occhi chiusi, per li non sicuri
luoghi, troppo di sé fidandosi, senza guida si mettono; e del beneficio, da me
ricevuto dalla genitrice della salute nostra, sarai testimonia. Ma, sopra ogni
cosa, ti guarda di non venire alle mani delle malvage femine; e massimamente di
colei che ogni demonio di malvagità trapassa e che della presente tua fatica è
stata cagione: per ciò che tu saresti là mal ricevuta; ed ella è da pugnere con
più acuto stimolo che tu non porti con teco. Il quale, concedendolo Colui che
d'ogni grazia è donatore, tosto a pugnerla, non temendo, le si farà incontro.