Giovanni Boccaccio
Comedia delle ninfe fiorentine
Edizione di riferimento: Giovanni
Boccacio: Commedia delle ninfe fiorentine, a cura di A. E. Quaglio, in
Giovanni Boccaccio: Tutte le opere, a cura di Vittore Branca, vol. II,
Mondadori, Milano 1964.
QUI COMINCIA LA COMEDIA DELLE NINFE
FIORENTINE
[I]
Però che gli accidenti varii, gli
straboccamenti contrarii, gli essaltamenti non stabili di fortuna in continui
movimenti e in diversi disii l 'anime vaghe dei viventi rivolgono, adiviene che
altri le sanguinose battaglie, alcuni le candidate vittorie e chi le paci
togate e tali gli amorosi avvenimenti d 'udire si dilettano. Molti gli
affannosi pericoli di Cirro, di Persio, di Creso e d 'altri ascoltano, acciò
che, per quelli non sentendosi primi né soli, le proprie angosce mitighino
trapassando. Altri, con più superbo intendimento ne ' beni amplissimi
fortunali, le inestimabili imprese di Serse, le ricchezze di Dario, le
liberalità d 'Alessandro e di Cesare i prosperi avvenimenti con continua
lettura sentendo, acciò che di più alto luogo caggiano, l 'umili cose
schifando, all 'alte di salir s 'argomentano. E alcuni sono che, dal biforme
figliuolo feriti di Citerea, chi per conforto e qual per diletto cercando gli
antichi amori, un 'altra volta col concupiscevole cuore transfugano Elena,
raccendono Didone, con Isifile piangono e ingannano con sollicita cura Medea.
Ma però che il piangere accompagnato non rilieva il caduto, né gli si può per
indugio tor tempo, né le memorie delle felicità passate gli essaltati
sostengono, ma bene i passati amori leggendo con più piacere i nuovi
raccendono, adunque, ad Amore solo con debita contemplazione seguitare, in una
ho raccolte le sparte cure, i cui effetti se con discreta mente saranno
pensati, non troverrò chi biasimi quel ch'io lodo. Questi, che le divine saette
tempera nell'acque di Citerea, pietoso de' suoi suggetti, sospiri a quelli di
Rainusia contrarii tira de' caldi petti; però che, sì come quelli da
sollicitudine avversa, così da disiata e sperata letizia insieme procedon
questi; e, come gli altri d'accidiosa freddezza, così i suoi d'amorosa caldezza
son testimonii. Questi, del ben vivere umano maestro e regola, purga di
negligenzia, di viltà, di durezza e d'avarizia li cuori de' suoi seguaci; e
loro esperti, magnanimi e liberali e d'ogni piacevolezza dipinti rendendo con
vigilante cura, se lui con diritto passo seguitando perseverano, a' raggi della
sua stella perduce con lieto fine; e i suoi essaltamenti, da umiltà regolata
guidati, tolgono paura di cadere agli essaltati. Che più di costui, le molte
lode in poche parole strignendo, diremo, se non che i suoi effetti tengono in
moto continuo li piacevoli cieli, dando etterna legge alle stelle e ne' viventi
potenziata forza di bene operare? I quali, se uditi da Creso nel fuoco o da
Cirro nel sangue o nella povertà da Codro o nelle tenebre da Edippo,
piaceranno. E Marte, ascoltandoli, o darà all'arme quiete o più ferventi
l'opererà ne' bisogni; Pallade la dolcezza de' suoi studi, i costui fatti
sentendo, d'animo diventata maggiore, e quelli lascia alcuna volta; e Minerva robusta
si fa mansueta intendendoli; e la fredda Diana ne 'ntiepidisce; e Appollo più
focose porge le sue saette. Che più? I satiri, le ninfe, le driade e le naiade
e qualunque altro semone, seguitandolo, se n'abelliscono, e udendoli piacciono
a tutti. Adunque chi sarà colui che per altra sollecitudine ragionevolmente
sotto sì alto duca dica non militare? Certo niuno; e se alcuno n'è, io non sono
esso. E se io il seguo, chè 'l seguito, sì come a lui e alla mia anima piace,
per donna, alla quale simigliante formare la savia natura né l'arte industriosa
posero le sante mani, non i triunfi di Marte, non le lascivie di Bacco, non
l'abondanze di Cerere, ma del mio prencipe le vittorie mi si fa di cantare.
Delle quali il cielo e la terra sono pieni; e enne il numero tale che più tosto
delle stelle e delle marine arene si prenderia che di quelle. Per che con voce
convenevole al mio umele stato, sanza paura di riprensione, non poeta, ma
piuttosto amante, quella, di cui io sono, aiutandomi canterò. E lasciando quel
tempo, come se stato non fosse, nel quale Amore, forse con non giusto parere,
mi parve grave, acciò che a coloro che gravoso il sostengono, porga di bene
speranza, e diletto a chi lieto possiede i cari beni, la graziosa vista de'
suoi tesori, a me indegno mostrati in terra, racconterò nel mio verso. E però
chi ama, ascolti; degli altri non curo: la loro sollecitudine gli abbia tutti.
[II ]
Quella
virtù che già l'ardito Orfeo
mosse a cercar le case di Plutone,
allor che forse lieta gli rendeo
la
cercata Erudice a condizione
e dal suon vinto dell'arguto legno 5
e dalla nota della sua canzone,
per
forza tira il mio debole ingegno
a cantar le tue lode, o Citerea,
insieme con le forze del tuo regno.
Dunque
per l'alto cielo, ove se' dea, 10
per quella luce che più ti fa bella
ch'altra a cui Febo del suo lume dea,
per
lo tuo Marte, o graziosa stella,
per lo pietoso Enea e per colui
che figliuol fu di Mirra sua sorella, 15
cui
più amasti nel mondo ch'altrui,
per la potenzia del tuo santo foco,
nel quale acceso sono e sempre fui;
se
ti sia dato lungo e lieto loco
di dietro al Sol nell'umile animale, 20
ch'Europa ingannò con falso gioco,
metti
nel petto mio la voce tale,
quale e' sente il poter della tua forza,
sì che 'l mio dire al sentir sia equale,
e
più adentro alquanto che la scorza 25
possa mostrar della tua deitate,
a che lo 'ngegno s'aguzza e si sforza.
E
te, Cupido, per le tue dorate
saette priego, e per quella vittoria
che d'Appollo prendesti, e per l'amate 30
ninfe
(s'alcuna mai di tanta gloria
vantar potessi ched ella piacesse
agli occhi tuoi, o nella tua memoria,
come
amata cosa, loco avesse),
che tu perdoni, alquanto alleviando, 35
le fiamme nuove dal tuo arco messe
nel
cor, che sempre notte e dì chiamando
va il tuo nome, per mercé sentire
di ciò che lui con disio tene amando,
sì
che io possa più libero dire, 40
non vinto da dolor né da paura,
quel che con gli occhi presi e con
l'udire.
E
tu, più ch'altra bella criatura,
onesta, vaga, lieta e graziosa,
donna gentile, angelica figura, 45
a
cui suggetta l'anima amorosa
di me dimora in pena, sì contenta,
che poco più ne vive altra gioiosa,
leva
la voce tua e il ciel tenta
co' prieghi tuoi che meritano effetto, 50
se ver nel tuo bel viso s'argomenta;
e
priega sì che possa il tuo suggetto
della tua gran bellezza appien parlare
ciò che ne sente nel ferito petto.
Chi
sarà quell'iddio ch'a te negare 55
o voglia o possa ciò che chiederai?
Nullo, ch'io credo; ch'a ciaschedun pare
te
degna del loro luogo; ove se mai
sarai, ché vi sarai, nel divin seno
me che più t'amo ancor riceverai. 60
Ecco
ch'io vaglio poco, e molto meno
sanza di te ispero di valere:
dunque l'aiuto grazioso e pieno
di
te in me discenda, il cui potere
più ch'a te piaccia avanti non si stende, 65
acciò ch'io possa parlando piacere.
Vedi
la mente mia come s'accende
quello attendendo; e d'alcun altro iddio
quasi non cura, e solo il tuo attende,
per
dire intero ciò c'ha nel disio: 70
adunque il tuo, a lei più ch'altro caro,
o donna, presta grazioso e pio.
Io
mosterrò l'essere stato avaro
negli altri aspetti Giove di bellezza
a rispetto di quella che formaro 75
le
sorelle fatal nella chiarezza
che spande il viso tuo e di coloro
che 'n compagnia della sovrana altezza
di
te conobbi in grazioso coro,
nel dolce tempo che cantan gli uccelli 80
istanti all'ombra d'un fiorito alloro;
e
'l bel parlare e gli atti lieti e snelli
e l'operata già somma salute
da voi ne' campi amorosi; e in quelli,
com'io
posso comincio, tua virtute 85
superinfusa aspettando che vegna
tal che per te le mie cose vedute
in
quello stil che appresso disegna
la mano, acquistin lode e 'l tuo valore
fino alle stelle sì come di degna 90
donna
si stenda con etterno onore.
[III ]
In Italia, delle mondane parti chiarezza
speziale, siede Etruria, di quella, sì com'io credo, principal membro e
singular bellezza; nella quale, ricca di città, piena di nobili popoli, ornata
d'infinite castella, dilettevole di graziose ville e di campi fruttieri
copiosa, quasi nel suo mezzo e più felice parte del santo seno, inver le stelle
dalle sue pianure si leva un fruttuoso monte, già dagli antichi Corito
nominato, avanti che Atalante, primo di quello abitatore, su vi salisse. Nelle
piagge del quale, fra gli strabocchevoli balzi, surgeva d'alberi, di querce, di
cerri e d'abeti un folto bosco e disteso infino alla sommità del monte. Dalla
sua destra un chiaro fiumicello, mosso dall'ubertà de' monti vicini, fra le
petrose valli discendea gridando inverso il piano; dove giunto, le sue acque
mescolando con Sarno, il poco avuto nome perdeva. Era di piacevoli seni e
d'ombre graziose la selva piena, d'animali veloci, fierissimi e paurosi, e in
più parti di sè abondanti fontane rigavano le fresche erbette.
In questa selva sovente Ameto, vagabundo
giovane, i fauni e le driade, abitatrici del luogo, solea visitare; e elli,
forse delli vicini monti avuta antica origine, quasi da carnalità costretto, di
ciò avendo memoria, con pietosi effetti gli onorava talvolta, perchè elli,
favoreggiato da loro, le timide bestie per li nascosi luoghi del monte, mentre
sopra la terra dimorava Appollo, con sollecito passo furibondo seguiva. E rade
erano quelle, che il suo occhio scorgesse, che per velocità di corso o per
volgimenti sagaci, o che dal suo arco non fossero ferite o da' cani ritenute o
ultimamente vinte dalle sue insidie e, nelle sue reti incappate, in brieve da
lui si trovassero aggiunte: per la qual cosa di preda carico tornava sovente
alle sue case. Ma essendoli una volta tra l'altre con più prosperevoli casi la
strana sollecitudine pervenuta alla disiata speranza, in sè lieto, d'ogni parte
carico della presa preda, intorniato da' cani, tornando alli suoi luoghi,
discese le piagge, teneva il piacevoli piano, già vicino a quella parte ove il
Mugnone muore con le sue onde; e quivi, affannato per la lunga via e per lo
grave peso e per lo soprastante caldo, sotto una fronzuta quercia, di riposo
vago, dispose la ricca soma, e sopra le nate erbette disteso il vago corpo,
alle soavi aure aperse il ruvido seno; e, cacciatisi dal viso i suicidi sudori
con la rozza mano, l'arida bocca si rinfrescò con l'umide frondi delle verdi
piante; e ricreato alquanto, con li suoi cani, ora l'uno ora l'altro chiamando,
cominciò a ruzzare; e quindi levato in piede, trascorrendo tra loro or qua or
là, all'uno la gola all'altro la coda e qual per li piedi tirando scherzando,
dalla lasciviente turba da diverse parti era assalito, e talvolta i non ricchi
drappi, stracciati da quella, il moveano ad ira: in questo trastullo, ora
stendendoli in terra, ora sé fra loro stendendo, si stava. Ma mentre che così
prendeva in nuova maniera sollazzo, essendo il sole caldissimo, subito dalla
vicina riva pervenne a' suoi orecchi graziosa voce in mai non udita canzone.
Per che elli, avendo di ciò maraviglia, fra sé disse: – Iddii sono in terra
discesi, e io più volte oggi l'ho conosciuto, ma nol credea: i boschi più pieni
d'animali si sono dati che non soleano, e Febo più chiari n'ha porti i raggi
suoi, e l'aure più soavemente m'hanno le fatiche levate, e l'erbe e' fiori, in
quantità grandissima cresciuti più che l'usato, testimoniano la loro venuta.
Essi, per lo caldo affananti com'io, qui vicini si posano e usano i celestiali
diletti, con le loro voci forse avvilendo i mondani. Io non ne vidi mai alcuno,
e, disideroso di vederli se così sono bella cosa come si dice, ora gli andrò a
vedere, il sole guidante li passi miei; e acciò ch'e' mi sieno benevoli, se di
preda li vedrò voti, della mia abondevoli li farò, se vorranno –.
E con fatica a' cani, a quali con
lusinghe e a quali con occhi torvi e con voce sonora mazze mostrando, pose si
lenzio, e verso quella parte ove il canto estimava, porse, piegando la testa
sopra la manca spalla, l'orecchie ritto; e ascoltato alquanto, rivolto a' cani,
quelli con li usati legami attaccati, alla presente quercia raccomandò, e preso
uno noderoso bastone, col quale, portando la pesante preda, a' suoi omeri
alcuno alleggiamento porgeva, verso quella parte dove udiva la dolce nota volse
i passi suoi; e con la testa alzata non prima le chiare onde scoperse del
fiumicello ch'elli all'ombra di piacevoli albuscelli, fra' fiori e l'erba
altissima, sopra la chiara riva vide più giovinette; delle quali alcune,
mostrando nelle basse acque i bianchi piedi, per quelle con lento passo vagando
s'andavano; altre, posti giuso li boscherecci archi e li strali, sopra quelle
sospesi i caldi visi, sbracciate, con le candide mani rifacean belli con le
fresche onde; e alcune, data da' loro vestimenti da ogni parte all'aure via,
sedeano attente a ciò che una di loro più gioconda sedendo cantava, dalla quale
conobbe la canzone prima alle sue orecchie esser venuta. Né più tosto le vide
che, loro dee estimando, indietro timido ritratto, s'inginocchiò e, stupefatto,
che dir dovesse non conoscea. Ma i giacenti cani delle riposanti ninfe, levati
di colui alla vista, esso forse pensando fiera, veloci con alto latrato gli
corsero sopra. E elli, poi che 'l fuggire non li valse, sopragiunto da quelli,
col bastone, con le mani e con la fuga e con le rozze parole da sé, quanto
poteva, cessava i morsi loro; le quali non conosciute dalle orecchi usate di
ricevere i donneschi suoni, più fieri lui, già più morto per paura che vivo,
seguieno; e egli, rimembrandosi d'Atteòn, con le mani si cercava per le corna
la fronte, in sé dannando il preso ardire di volere raguardare le sante dee. Ma
le ninfe, turbato il lor sollazzo per la canina rabbia, levate, con alte voci
appena in pace puosero i presti cani, e lui con piacevole riso, conosciuto suo
essere, racconsolandolo, feciono sicuro; e al loro luogo tornate, avendo
d'Ameto avuta festa, così ricominciò la sua canzone la cantante:
[IV ]
Cefiso
con le sue piacevoli onde
disteso in dritta e quando in torta via
per la terra d'Aonia ch'egli infonde,
come
Liriopè, la madre mia,
co' suoi ravvolgimenti vinse e prese 5
con disusata e nuova maestria,
e
sì per lei di Venere s'accese
che, toltale la sua virginitate,
non valendole prieghi né difese,
me
ingenerò, la qual tante fiate, 10
quant'io veggo onde, tante son costretta
del mio padre onorar la deitate;
avvegna
che ciò far molto diletta
a me perciò che 'n esse riguardando,
mi rendon la mia forma leggiadretta. 15
La
qual come sia bella e in me pensando,
di verdi erbette, di rami e di fiori
adorno, lei, d'ogni labe purgando.
Sopr'esse
prendo più lunghi dimori
che n'altra parte e, ninfa più felice, 20
sento le grazie de' suoi primi amori
che
'l mio fratel non fé; di cui si dice
che, bellissimo e crudo cacciatore,
sanza aver di pietà nulla radice,
di
tutte rifiutando il caro amore, 25
fin che sé vide in quelle ov'io mi miro,
sé per sé consumando con dolore,
in
fior si convertì: il qual con diro
occhio riguardo per pietà sovente
e sanza pro di lui fra me sospiro. 30
Né
è sopra di me tanto possente
la voce ch'al suo ben forse nemica
gli fu per la follia della sua mente.
E
sì come a lui lieta fatica
fu per le selve i timidi animali 35
seguir, secondo la memoria antica,
così
a me; ma fine disiguali
a ciò costrigne e move i nostri cani,
le reti e l'arco e i volanti strali.
Per
fuggire ozio visito i silvani 40
iddii e col mio coro mi balestro
in luoghi ta' ch'a lui furono strani;
e
ciò che 'n el fu rigido e silvestro,
cioè amore e 'l piacere ad altrui,
questo m'è caro e più che altro destro. 45
Chiunque
fia per sua virtù colui
che degnerà al mio bel viso aprire
gli occhi del core e ritenermi in lui,
io
gli farò quel diletto sentire
che più suol essere agli amanti caro 50
dopo l'acceso e suo forte disire.
Né
per me sentirà mai nullo amaro
tempo chi con saver la mia bellezza
seguiterà, come già seguitaro
color
li qua', dopo lunga lassezza, 55
lieti posai appresso i loro effetti
nel ben felice della somma altezza.
Cotali
affanni e sì fatti diletti
dal padre trassi; e dalla madre tegno
i miei giocondi e graziosi aspetti. 60
E
la mia arte col sottile ingegno
mi dier per nome Lia; e questo loco,
al mio piacere assai più ch'altro degno,
io
signoreggio, accesa di quel foco
del qual tutto arde il monte Citerea, 65
e quel mi move a far festa con gioco
e
a servire all'amorosa dea.
[V ]
Ameto, poi che de' cani gli fuggì la
paura e l'angelica voce ebbe ricominciata la bella canzone, con timido passo a
quelle si fece vicino; e poggiato in terra il noderoso bastone, sopra la
sommità di quello compose ambo le mani, e sopra esse il barbuto mento fermato,
come se quivi non fosse, fiso la cantante, alienato, mirava; la quale, poi che
ebbe posta fine alle sue note, dopo lungo spazio, cotale in sé si mosse quale
colui che da profondo sonno è a vigilia subito rivocato, il quale, gli occhi
volgendo sonnolenti in giro, quasi appena conosce dove si sia; di che le
compagne di Lia, vedutolo, a forza ritennero le vaghe risa agli occhi già
venute per dimostrarsi. Egli appena, aiutandolo la forte mazza in piè rimase,
ma pur si sostenne; e poi che tutto fu del preso stordimento uscito, quivi,
sanza niente parlare a quelle, si pose sopra l'erbe a sedere; e, rimirando la
bella ninfa con l'altre sopra gli ornati prati sollazzevolmente giucante, la
vede di quel colore nel viso lucente, del quale si dipigne l'Aurora, vegnente
Febo col nuovo giorno, e i biondi capelli, con vezzose ciocche sparti sopra le
candide spalle, ristretti da fronzuta ghirlanda di ghiandifera quercia
discerneli; e rimirandola tutta con occhio continuo, tutta in sé la loda, e
insieme con lei la voce, il modo, le note e le parole della udita canzone; e in
sé con non falso pensiero reputa beato chi di sì bella giovane la grazia
possiede; e in cotale pensiero dimorando, se medesimo mira, quasi dubbio fra 'l
sì e 'l no d'acquistarla; e alcuna volta, sé degno di quella estimando, in sé
si rallegra: poi, con più sottile investigazione ricercandosi, danna la
rozzezza della sua forma con l'avuta letizia, e indegno si reputa della ninfa;
ma dopo questo pensiero riforma il primo, e dopo il primo nel secondo ricade,
ora dannando, ora sé lodando nella sua mente. E così continui combattimenti
s'accende del piacere di colei la quale mai più non aveva davanti veduta; e
quanto che elli imagini il nuovo disio non dovere al disiderato fine arrecare,
cotanto più di quello l'appetito s'affuoca.
Egli, grosso e nuovo in queste cose, non
sappiendo onde tal passione si movesse, né chi lo stimoli, mirando la ninfa,
alli mai non sentiti amori apre la via e già conosce il suo disio dagli occhi
di colei ricevere alcun conforto: per la qual cosa, più e più fiso mirandoli,
credendosi forse porre fine a quello col riguardarla, più forte gli apparecchia
principio e più l'alluma, e, non sappiendo come, bevendo con gli occhi il non
conosciuto fuoco, s'accende tutto. E sì come la fiamma si suole nella
superficie delle cose unte con subito movimento gittare e, quelle leccando,
leccate fuggire e poi tornare, così Ameto, colei rimirando, s'affuoca; e come
da lei gli occhi toglie, fugge la nuova fiamma, ma, per lo subito più mirare,
torna più fiera. Né prima di questo si prese il giovane guardia che amore
inestinguibile nella calda mente prese etterne forze. Onde egli, in sé molte
volte le parole della udita canzone ripensando, tutte le 'ntende, ma solamente
chi questo Amore si sia, non conosce; per che così fra sé quivi con voce tacita
cominciò a parlare: – O celestiali iddii, di tutti ho già, co' satiri
dimorando, la mirabile potenzia ascoltata e ciascuno in parte m'è noto; ma
solamente questo Amore, per cui costei si diletta d'essere seguita e del quale
ella cotanto canta, io nol conosco, né le sue vie vidi già mai; per che io voi
e lui per li suoi medesimi meriti priego che mi si faccia conoscere, acciò che
io sappia in che piacere a costei, gli occhi di cui hanno avuta forza di trarmi
dalle mie ombre, di farmi dimenticare la mia preda, d'abandonare l'arco, le
saette e i cani miei. Ella sola mi piace: io non so se questo si chiama Amore o
se cotale effetto muove dalla colui deità, nome prendendo dal suo motore.
S'egli è così, sopra ogni altra cosa m'è caro, e se così non è, ella pur piace.
–
E, dette queste parole, la riguardava da
capo; ma come ella verso lui i vaghi occhi volgeva, così i suoi, da subita
vergogna vinti, bassava, e in sé follia estimava da lui sì bella cosa, da disio
mosso, esser mirata. Ma poi, dallo occulto fuoco sospinto, da capo alzava gli
occhi, dicendo: –O qualunque deità negli occhi di costei dimori, che così mi
stimoli, perdona: non prendere con più forza ch'e' si convenga il non usato
animo, se ti piace che io a' suoi piaceri mi disponga: molte minori forze ti
bisognano a stringermi. – Poi oppresso fra sé dicea: – Deh, a che mi dispongo
io? Or non ho io già udito quanto grave cosa siano gl'imperii delle giovani le
quali niuna quiete vogliono ne' lor suggetti? Chi mi reca a volere il bene
sempre tenuto sommettere, cioè la libertà?
Le tenebre e le luci sono mie, com'io le
voglio usare: e a me sta il risparmiare il lento arco e le mie saette e a
prendere a mia posta l'ombre e lasciarle; e la preda, per mia sollecitudine
acquistata, dono come mi piace. Dunque che vo' fare? Io mi voglio mettere a
seguitare, e non so che. Onde, o pietosi iddii, questo furore, venuto non so
donde nella mia mente, fuggasene: e' non si conviene alla mia forma seguire sì
fatta giovane. Io in abito rozzo, ne' boschi nato e nutricato, debbo lasciare
queste cose più convenevolmente usare a coloro che più volte l'hanno usate. Io
non sono Giove a cui sì bella cosa si confaccia, il quale è da credere che le
sue parole infino di sopra le stelle nota; e, più presto di me, con molta più
arte s'ingegnerà di piacere a costei; e a lui è, ciò che a me si disdice,
dicevole. A me non è la forma d'Adone né le ricchezze di Mida né la cetera
d'Orfeo né la milizia di Marte né la sagacità d'Atlanciade né la tirannia de'
Ciclopi; per le quali cose, o per alcuna d'esse, io possa, piacendo o per
forza, nell'animo entrare a lei con sollecitudine, com'ella s'ingegna d'entrare
a me con la sua bellezza. Ella ancora, nata di dio, vorrà di dio avere
figliuoli, e non d'un semplice cacciatore. Lascerò adunque queste cose e, a'
vecchi ufici tornando, la incominciata vita in quelli con quelli recherò
all'ultimo fine. –
Poi, alquanto verso Lia rivolto, muta
proposito, come la forma di lei entra negli occhi suoi, e in tutto si dispone
nelle sue rozze opere di piacere, ogni altro pensiero contrario abbattuto. Per
che, rimossi alquanto i suoi capelli non stanti in alcuno ordine dinanzi al
viso, l'irsuta barba costrigne di stare in piano, e a suo potere cuopore i
difetti del non sano vestimento, già cominciandosi a vergognare se alcuna cosa
in sé forse conosceva deforme, e così dice: –La bella ninfa, nuovamente a' miei
occhi apparita, nel suo cantare, se io ho bene udito, non invita più altrui che
me alle sue bellezze: perché dunque, divenendo vile, non ardirò io di tentare
quello da che io ancora non sono stato cacciato? Chi può sapere le cose future?
Assai ne furono già di quelle che per li pastori abandonarono gl'iddii: e chi è
certo se costei farà il simigliante o il contrario? A me non costa nulla il
provare: se io piacerò, consolazione etterna riceverò nell'animo; se io,
provando, non piaccio, assai tosto potrò fare quello che ora, sanza avere
provato, di fare disponea. E certo io pure dovrei piacere; e se il mio viso non
darà che io piaccia, la mia operazione il supplirà. Questa ninfa segue le
cacce; e io il quale, cresciuto nelle selve, sempre con l'arco e con le mie
saette ho seguite le salvatiche fiere, né alcuno fu che meglio di me ne
ferisse, a me niuna paura è d'aspettare con gli aguti spiedi li spumanti
cinghiari, e i miei cani non dubitano d'assalire i fulvi leoni, e ne' boschi
alcuna parte è sì occulta che nasconda animali, che io non la sappia, né nullo
meglio di me giammai conobbe dove le reti più ragionevolmente si spieghino; né
niuno inganno a ritenere i volanti uccelli si può fare, che io non l'abbia già
fatto e fare lo sappia. Queste cose tutte a' suoi servigi disporrò, e oltre a
ciò me medesimo. Io fortissimo le porterò per gli alti boschi l'arco e la
faretra e le reti, e di quelli scenderò sopra i miei omeri la molta preda. Io,
presto, correrò agli strabocchevoli passi dove a lei, tenerissima e paurosa,
non si conviene d'andare. Io le mostrerò gli animali e insegnerolle le loro
caverne; io l'apparecchierò le frigide onde, presto a qualunque ora; e le
ghirlande della fronzuta quercia, ritenenti al bellissimo viso l'accese luci di
Febo, leverò dagli alti rami, porgendole ad essa, e di molte altre cose ancora
co' miei servigi la soverrò. Le quali cose se alcuna grazia meritano, io
l'avrò, però che appena mi si lascerebbe mai credere che d'ingratitudine fosse
sì nuova bellezza macchiata. E certo, se ella pure de' suoi guiderdoni avara
verso me fosse, sì non poss'io guari da lei essere gabbato, però che ella non
mi leva dalle usate cacce; anzi, là dove solo andava, ora con graziosa
compagnia cercherò le folte selve; e il vedere sì bella cosa come costei è, fia
non picciolo merito de' miei affanni. Seguirò adunque quello che piace agli
occhi miei. –
Questo avendo in sé Ameto diliberato,
cerca nell'animo qual via sia da pigliare nelle nuove cose, e più volte, da
pronta volontà sospinto, volle con pietose parole piene di prieghi, s'egli
l'avesse sapute dire, tentare il nuovo guado. Ma la natura del novello signore,
a cui ignoratamente avea pur testé l'anima data, nol consente; onde egli,
indietro tirandosi, rimane vergognoso. E se il viso, più rosso per lo sole che
per quella, il sostenesse, aperta la mostrerebbe; ma mosso da altro consiglio,
quindi levandosi, per li caldi campi ritorna alla sua preda. E, poi che la
sopravenuta polvere ebbe con chiarissime acque dal suo viso cacciata,
caricatasi quella sopra i forti omeri, con essa venne dinnanzi alla ninfa. E
ancora che copiosa di ciò la vedesse, con pronto viso e timido cuore le
presentò la sua, e con quelle poche e non composte parole che egli dir seppe,
nel grazioso coro si mescolò del le donne; né quindi per motteggevoli parole né
per atti, le quali forse non intendeva, né per altro accidente cessò quel
giorno infino che la sopravenuta ombra alle sue case richiamò ciascuna e lui.
[VI ]
Legato con nuvo legame si tornò Ameto
alla sua casa; e solo alla bella ninfa pensando consuma i tempi suoi: le notti
per adietro parute corte alle gravi fatiche da Ameto prese negli alti boschi,
ora da' focosi disii lunghissime son reputate. Ameto, da non conosciute cure da
lui sollecitato, maladice le troppo lunghe ombre, né prima la luce entra né
vegghianti occhi, che egli, levato, con li suoi cani ricerca le selve e in
quelle o va caendo o truova o aspetta le belle ninfe; le quali ritrovate, lieto
alle cominciate cacce le seguita e con intento animo nelle cose loro graziose
sapute da lui volonteroso le serve: niuno affanno gli pare grave, niuno
pericolo gli mette paura. Egli, quasi più presto che i suoi cani divenuto,
vedendolo Lia, con le propie mani prende i più fieri animali. Egli tende loro
le reti e quelle stende e quelle ne porta, e quasi nulla pare che alcuna cosa
adoperi nella caccia altri che Ameto; il quale poi con loro nelle calde ore,
ne' freschi prati posandosi sotto le grate ombre, allato alla chiara riva del
fiumicello, con consolazione d'animo somma si contenta d'essere stato ardito,
però che di quelle tutte si vede familiare e a Lia massimamente caro.
[VII ]
Continua nella incominciata opera Ameto e
sospinto da focosi disii seguita i caldi amori con petto non sano; ma il
lagrimoso verno, nemico ai suoi piaceri, avendo spogliate di frondi le selve e
l'alte spalle de' monti eccelsi coperte di bianca vesta, con lunga dimoranza
turba le vaghe cacce. Egli alcuna volta, uscendo delle sue case, il mondo
biancheggiante riguarda; e vede li rivi, per adietro chiari e correnti con
soave mormorio, ora torbidissimi, con ispumosi ravolgimenti e con veloce corso
tirandosi dietro grandissime pietre degli alti monti, con rumore spiacevole gli
ascoltanti infestando, discendere, o quelli tutti in pietra per lo strignente
freddo essere tornati pigri; e i prati, altra volta bellissimi, ora ignudi,
mostrare dolenti aspetti riguarda, e li spaziosi campi, s'alcuno sanza neve ne
truova, con vedovi solchi soli può rimirare. Né le voci d'alcuno uccello sente,
che le sue orecchie con dolcezza solleciti, né alcuna piaggia conosce che tenga
o pecore o pastore; e il cielo già stato ridente e chiaro, e promettente con la
sua luce letizia, vede spesso chiudersi di nuvoli stigii li quali, con la terra
congiunti, hanno potenzia di fare profonda notte nel mezzo giorno; e da quelli
crepitanti alcuna volta prima con subita luce e poi con terribile suono è
spaventato; e per le regnanti Pliade a' venti ogni legge essere tolta conosce;
onde essi, discorrenti con soffiamento impetuoso, agli alberi e all'alte torri,
non che agli uomini, minacciano ruina, sovente diradicando il robusti cerri de'
luoghi loro; e la terra, guazzosa per le versate piove dal cielo, spiacevole si
rende a' viandanti: : per le quali cose ciascuno volentieri guarda le propie
case. E quinci Ameto non piccolo spazio di tempo della sua ninfa perde la
chiara vista, e con ragione, da dolore costretto, i suoi lunghi ozii e le
spiacevoli dimoranze del verno maladice, a' suoi occhi imponendo la legge che
serva il cielo. Ma acciò che il male grazioso tempo non passi perduto, in
acconciare reti, in rimpennare saette, in aguzzare li spuntati ferri e in
risarcire li faticati archi e le loro corde lo spende. Egli ancora ammaestra
cani e con sollecitudine continua rapaci uccelli apparecchia alle celestiali
risse, questi per sé e quelli serbando per la sua Lia. Ma poi che Febo, venuto
nel Monton frisseo, rendé alla terra il piacevole vestimento di fiori
innumerabili colorato, a lei dal noioso autunno suto per adietro spogliato, e
gli alberi, di graziose fronde e di fiori ricoperti, sostennero i lieti
uccelli, e le occulte caverne renderono a' prati gli amorosi animali, e i campi
l'ascosta Cerere fer palese, e l'allodole, imitanti l'umane cetere col lor
canto, gaie, cominciarono a riprendere il cielo, e tutta la terra, e a Zeffiro
soavissimo fra le nuove foglie sanza sturbo furono rendute le fresche vie, e il
cielo igualmente porgeva segno di grazioso bene, Ameto i già tepidi amori con
la vista del nuovo tempo, il quale ottima speranza gli porge di Lia, riscalda
con più acceso animo; e, incominciando a visitare i boschi, con le voci propie,
col corno e co' cani li fa risonare, acciò che, agli altri per lo suo andare
accendendosene il disio. Lia, vedendolo, più tosto a ciò si muova: e in ciò
gl'iddii gli sono favorevoli.
Ella, le sue armi racconce a tal guerra
utili, volendo il giovane tempo, cerca le selve e il ritrovato Ameto contenta
della sua vista. E ciascun giorno, ritrovandola, egli seguita le sue cacce; e
nella calda ora, i prati freschi fra l'alte erbe e fra' colorati fiori, sotto
le graziose ombre de' giovani alberi, allato a' chiari rivi prendono piacevoli
riposi. La quale, se avviene che alcuna volta da Ameto ritrovata non sia, in
questi luoghi da lui è sovente aspettata infino alla sua venuta, sì come in
luoghi di quella fedelissimi renditori. Egli, molto faticato, un giorno lei
cercando, non avendola potuta trovare, ad aspettarla nelli usati prati era
disceso; dove, acciò che la fatica sentisse minore, disteso il corpo sopra il
verdeggiante prato, difeso da' raggi solari da piacevoli ombre, così cominciò a
cantare:
[VIII ]
Febo
salito già a mezzo il cielo
con più dritto occhio ne mira e raccorta
l'ombre de' corpi che gli si fan velo;
e
Zeffiro soave ne conforta
di lui fuggire e l'ombre seguitare 5
fin che da lui men calda ne sia porta
la
luce sua, che nell'umido mare
ora si pasce, e in terra pigliando
il cibo quale a sua deità pare.
E
ogni fiera ascosa, ruminando 10
quel c'ha pasciuto nel giovane sole,
tiene le caverne, lui vecchio aspettando.
Fra
l'erbe si nascondon le viole
per lo venuto caldo, e gli altri fiori
mostran, bassati, quanto lor ne dole. 15
Nessun
pastore è or rimaso fori
ne' campi aperti con le sue capelle,
ma sotto l'ombre mitigan gli ardori.
Taccion
le selve e tace ciò che in quelle
suol far romore; e ciò che fu palese 20
al basso Febo, or è nascoso in elle.
Le
reti ora parventi son distese,
e gli archi, per lo caldo risoluti,
porger non possono or le gravi offese.
Né
son sì forti aguale i ferri aguti 25
delli volanti stral fatti ferventi
da' caldi raggi allor sopravenuti.
E
ciascheduna cosa i blandimenti
ora dell'ombre cerca; ma tu sola,
Lia, trascorri per l'aure cocenti; 30
e,
trascorrendo, alli occhi miei s'imbola
la vista della tua chiara bellezza,
che sol di sé ognor più mi dà gola.
Deh,
lascia ormai delli monti l'altezza,
non infestar le selve e te con loro: 35
vieni al riposo della tua lassezza.
Discendi
a questi campi con quel coro
piacevole che, teco in compagnia,
suol sempre far grazioso dimoro.
Vedi
qui l'acque, vedi qui l'ombria 40
e' campi erbosi sanza alcun difetto
fuor solamente che tu in essi sia.
Adunque
vieni; e l'usato diletto
prendi come tu suoli, e gli occhi miei
lieti rifà col tuo giocondo aspetto. 45
Perdona
a' tuoi affanni, a' qua' vorrei
più tosto esser compagno che salire
a far maggiore il numero de' dei.
Perdona
a l'arco e a' can, che seguire
più non ti possono, e omai discendi 50
a questi prati, o caro mio disire.
Qui
dilettevoli ore a trar contendi,
e'l dilicato corpo, all'ombre grate
lieta posando, sopra l'erbe stendi.
Qui,
come suol, cantando, altre fiate, 55
ne vieni omai: perchè dimori tanto
di render te all'ombre disiate?
Le
tue bellezze, degne d'ogni canto,
non possono esser tocche col mio metro
non degno a ciò; ma pur dironne alquanto. 60
Tu
se' lucente e chiara più che 'l vetro,
e assa' dolce più ch'uva matura
nel cor ti sento, ov'io sempre t'impetro;
e
sì come la palma inver l'altura
si stende, così tu, vie più vezzosa 65
che 'l giovinetto agnel nella pastura;
e
se' più cara assai e graziosa
che le fredde acque a' corpi faticati
o che le fiamme a' freddi o ch'altra
cosa;
e'
tuo' cape' più volte ho somigliati 70
di Cerere alle paglie secche e bionde,
dintorno crespi, al tuo capo legati;
e
le tue parti ciascuna risponde
sì bene al tutto, e 'l tutto alle tue
parti,
se non m'inganna quel che si nasconde, 75
che
per sommo disio sempre ammirarti
di grazia chiederei al sommo Giove
di star, sol ch'io non credessi noiarti.
Dunque,
se quella dea ti guida e move,
di cui tu già cantasti, vieni omai: 80
non è quest'ora a te essere altrove.
Fa
salve le bellezze che tu hai,
che dal color diurno offese sono
ogni ora più che tu più isterai.
Vienne:
io serbo a te giocondo dono, 85
ché io ho colti fiori in abondanza,
agli occhi bei, d'odor soave e buono.
E,
sì come suole esser mia usanza,
le ciriege ti serbo; e già per poco
non si riscaldan per la tua stanza. 90
Con
queste bianche e rosse come foco
ti serbo gelse, mandorle e susine,
fravole e bozzacchioni in questo loco,
belle
peruzze e fichi sanza fine,
e di tortole ho preso una nidata, 95
le più belle del mondo, piccoline,
con
le qua' tu potrai longa fiata
prender sollazzo; e ho due leprettini,
pur testé tolti alla madre piagata
dall'arco
mio; e son sì monnosini 100
che meritar perdon, veggendoli io.
E ho con loro tre cerbi piccolini
che,
nelle reti entrati, con disio
per te li presi; e ho molte altre cose,
le qua' ti serbo, donna del cor mio, 105
pur
che tu scenda tosto alle pietose
ombre, lasciando le selve, alle quali
non ti falla il tornar, quando noiose
non
fien le fiamme a seguir gli animali.
[IX ]
Manca la canzone d'Ameto, e 'l sole co'
suoi cavalli corre all'onde di Speria, e, calate l'ore ferventi, a chiudere il
mondo surge la notte di Gange: la chiamata Lia non viene ne' luoghi usati. Per
la qual cosa Ameto, già nel cielo conoscendo le stelle, co' suoi cani
maladicendo la sua pigrizia, dolente torna alle sue case, attendendo che la
fortuna ne' di seguenti non gli sia nocevole come è stata. I festevoli giorni,
dalla reverenda antichità dedicati a Venere, sono presenti, tenendo Appollo con
chiaro raggio il mezzo del rubator d'Europa, insieme con la già detta dea
congiunto con lieta luce. Per la qual cosa i templi, con sollecitudine
visitati, risuonano, e d'ogni parte i lidiani popoli, ornati, con divoti
incensi concorrono; in quelli li eccettuati nobili, con la moltitudine plebea
raccolti, porti prieghi e sacrificii all'iddii, festeggevoli essultano. Le
vergini, le matrone e l'antiche madri, con risplendente pompa ornatissime, la
loro bellezza, visitando quelli, dimostrano a' circustanti: e essi templi, in
qualunque parte di loro di fronde varie inghirlandati e di fiori per tutto
dipinti, danno d'allegrezza cagione a' visitanti. Ma tra gli altri eminentissimo,
sopra marmoree colonne sostenenti candida lammia, se ne leva uno tra le
correnti onde di Sarno e di Mugnone, quasi igualmente distante a ciascheduno,
intorniato, quanto di lui si distende del vicino piano, di graziose ombre
d'eccelsi pini, di diritti abeti e d'altissimi faggi e di robuste quercie. A
questo, come a più solenne, concorre ciascuno; niuna abitazione è che quivi non
mandi, nulla piaggia ritiene i suoi pastori; e le chiare rive vi mandano le sue
ninfe, e le prossime selve li fauni e le driade; e qualunque campo tiene satiri
manda quivi, e le naiade ancora liete vi vengono; e Vertunno vi manda i suoi
popoli ornatissimi, come Priapo i suoi; e quivi mostrano alcuni come Pallade e
altri come Minerva e chi quanto Giunone e quali quanto Diana siano state lor
graziose. A questo tempio Ameto, lasciato il villesco abito e di più ornato
vestitosi, corre; e similemente ornatissima vi vien Lia; e co' vicini
raguardamenti nutricano le loro fiamme. Ma, poi che porti furono da tutti i
suoi incensi e' preghi e gli animi furono pasciuti, tacque il tumultuoso
tempio. E già del giorno venuta la calda parte, tutti, quello abandonando,
cercano le fresche ombre; e quivi, presi i cibi, a varii diletti si dona
ciascuno, e, in diverse parti raccolti, diversi modi truovano di festeggiare.
Alcuni col suono delle sue sampogne, sì
come già Marsia fece, ad Appollo s'oppongono, altri le sue cetere credono Orfeo
avanzare; e tali sono che si vantano, tra gli urtanti animali, essere in
giudicio simili ad Alessandro; e quali i sagrificii di Bacco e di Cerere
trattano diversamente con nuove quistioni; e i più, alle fila di Minerva
rivolti, s'ingegnano d'aguagliarsi ad Aragne, sanza che molti, seguendo
Vertunno, errano diversamente armati delle astuzie d'Arcadia. Ameto solo
seguita la sua Lia; la quale, al tempio non guari lontana, in bellissimo prato
d'erbe copioso e di fiori, difeso da molti rami carichi di novelle frondi,
sopra chiara fontana con sua compagnia si pose a sedere; e, sé alquanto sopra
quella mirata, asciugati i caldi sudori, si rifé bella dove mancava; e co' suoi
occhi contentando Ameto, soavemente cominciò a parlare, e, de' superiori iddii
e de' difetti mondani verissime cose narrando, con dolce stilo faceva gli
ascoltanti contenti.
Ma il suo mostrare non era guari disteso
quando, assai di lontano, verso di sé conobbe venire due bellissime ninfe,
obvia alle quali reverente si levò Lia; e poi che in sieme liete e graziose
accoglienze più volte reiteraro, disposte le superflue cose, con lei sopra la
fonte s'asettarono a sedere, rintegrando Lia, con la licenza di loro, ciò che
avanti con le compagne parlava. Ameto alla venuta delle due ninfe di sopra i
verdi cespiti levò il capo; e quelle con occhio vago rimira, e tutte insieme e
particularmente ciascuna considera. Elli vede all'una, quella che più in sé
estima eminente, i capeli con maesterio non usato avere alla testa ravolti e
con sottile oro, a quelli non disiguale, essere tenuti con piacevole nodo alle
soffianti aure; e coronata di verdissima ellera, levata dal suo caro olmo,
sotto quella, ampia, piana e candida fronte mostrare; e, sanza alcuna ruga
aperta, si palesava; alla quale sottilissime ciglia, in forma d'arco, non molto
disgiunte, di colore stigio, sottostare discerne; le quali, non nascosi né
palesi soperchio, due, non occhi, ma divine luci più tosto, guardano con
convenevole altezza sollecite. E, intra le candide e ritonde guance di
convenevole marte consperse, di misurata lunghezza e d'altezza decevole, vede
affilato surgere l'odorante naso; a cui quanto conviensi sopposta la bella
bocca, di piccolo spazio contenta, con non tumorose labbra di naturale
vermiglio micanti cuoprono li eburnei denti, piccioli, in ordine grazioso
disposti; la quale, al mento bellissimo, in sé picciola concavità sostenente,
soprastante non troppo, appena gli occhi d'Ameto lascia discendere a
considerare la candida gola, cinghiata di grassezza piacevole non soverchia, e
il dilicato collo e lo spazioso petto e gli omeri dritti e equali. Ma sì sono
belle e all'altre parti ben rispondenti le dette ch'a forza è tirato da quelle
a veder quelle. Le quali con ammirazione riguardate, considera la coperta parte
in piccioli rilievi sospesa sopra la cinta veste, la quale, sottilissima, di
colore acceso, dalle mani indiane tessuta, niente della grandezza de'
celestiali pomi nasconde, i quali resistenti al morbido drappo, della loro
durezza rendono verissimo testimonio. Da questa parte gli salta l'occhio alle
distese braccia, le quali, di debita grossezza, strette nel bel vestire,
rendono più piena mano; le quali, dilicate, con lunghissime dita e sottili,
ornate vede di cari anelli li quali elli vorrebbe che per lui da lei, avanti
che per altrui, si tenessero. E quinci, dal composto corpo alle parti inferiori
discendendo, più che il piccolissimo piede non se li mostra. Ma lei avendo
diritta veduta e la sua altezza servata nella sua mente, imagina quanto di bene
si nasconda ne' cari panni. E appena levati gli occhi da lei, all'altra non men
bella di torce, né alcuna particella di quella lascia a riguardare, se non come
fé della prima. Egli, li suoi capelli attendendo, in altro ordine, con bella
treccia e con artificio leggiadro ravolti, non come i primi micanti d'oro, ma
poco meno, sotto ghirlanda di mortine verde lucenti li vede; e in sé quali più
si debbano laudare quistionando, non sa che si dire: sotto la quale
verdeggiante ghirlanda, la spaziosa testa e distesa, imitante la neve per
propia bianchezza, apparisce più bella. Nella quale due ciglia sottili con
debita distanzia disgiunte, raccolte insieme, farieno un tondo cerchio, allato
alle quali li spenti carboni si diriano bianchi da' riguardanti; e sotto esse
risplendono due occhi di tanta chiarezza ch'appena la poté sostenere Ameto ne'
suoi; del mezzo de' quali il non camuso naso in linea diritta discende, quanto
ad aquilino non essere domanda il dovere. E le guance, all'aurora sorelle,
meritano nell'animo del riguardante Ameto graziosa laude; ma più la cortese
bocca, difendente alla vista co' bellissimi labbri gli argentei denti, servanti
l'ordine de' più belli. E il belissimo mento, lungamente da Ameto mirato,
concede che egli discenda alla diritta gola, vaga ne' moti suoi, a cui il collo
candidissimo non era dissimigliante, residenti come diritta colonna sopra gli
omeri equali, da bella vesta in parte nascosi. E quella parte che dello
spazioso petto era ad Ameto palese ebbe forza di tenere a sé lungamente li suoi
occhi sospesi, però che a quello luogo vicino dove con esso si congiungono i
preziosi drappi, in mezzo da ogni parte igualmente levata la bella carne, vede
una graziosa via, la quale alle case degli iddii non una volta ma molte
s'imaginò ch'ella andasse; e per quella, quanto il più puote, con sottile
riguardo più fiate l'ardito occhio sospinse. E rimirando sopra i nascondenti
vestiri avvisa dove perverrebbe la pronta mano, se data le fosse licenzia, e
loda le rilevate parti in aguta e tonda forma mostrate dalli strignenti drappi.
E le braccia, lunghe non più che 'l dovere né meno, li piacciono, e le candide
mani, articulate di distese dita, le quali, sparte sopra il porporino
vestimento, largo ricadente su le ginocchia della sedente ninfa, più aperta
mostran la loro bellezza. Egli lei nella cintura non grossa, manifestantelo i
panni per sé dimoranti, cinta la vede con largo volgimento di strema lista; e
ampia, ove conviensi, in sé lei con l'altra loda sanza misura, non meno gli
occhi a loro che gli orecchi a' parlamenti di Lia tenendo sospesi.
[X ]
Avea già Lia la sua orazione compiuta,
quando a' loro orecchi da vicina parte una sonante sampogna con dolce voce
pervenne; e a quella rivolti, vidono in luogo assai grazioso sedere uno
pastore, quivi delle vicine piagge disceso con la sua mandra; e a quella,
ruminante e stesa sopra le verdi erbette co' caldi corpi, sonava all'ombre
ricenti; e sonando aggiugneva alcuna volta belle parole con grazioso verso alla
sua nota. Il quale veduto da loro, di concordia là dove egli era n'andarono, e
lui, per la loro venuta tacente, pregarono che la canzone ricominciando
cantasse. E chi avrebbe alle petizioni di coloro negata alcuna cosa? Non i
freddi marmi di Persia, né le querce d'Ida né i serpenti di Libia né i sordi
mari d'Elesponto: per la qual cosa, a' prieghi di quelle mosso Teogapen, la
bocca posta alla forata canna, così dopo il suono, a petizione delle donne,
ricominciò a cantare:
[XI ]
Nasce
del buon voler di questa diva,
ne' sacrifici della qual cantiamo
divoti quanto può la voce attiva,
tutto
quel ben che noi con noi tegnamo;
il qual se cessa nel nostro operare, 5
semo oziosi o indarno facciamo.
E,
ben che io non possa appien mostrare
nel canto mio la sua benevolenza,
parte nel verso ne farò sonare.
Quando
ne' cuor di noi la sua potenza 10
discende intenta, prima ogni rozzezza
caccia, mutando in ben la nostra essenza;
la
quale, adorna d'etternal bellezza,
e lei disposta a ben, fa eloquente,
umile dando a sua voce chiarezza, 15
e
fuggir falle ogni luogo eminente,
in pietra ferma riposando altrui,
acciò che di cader non sia temente.
Soave
e sanza furia è colui
là dov'ell'entra e 'l suo operar piano, 20
grazioso e piacevole ad altrui.
Né
è negli occhi mai d'alcun villano
suo portamento angelico e soave,
con tutti lieto, pietoso e umano.
E
fallo liberal di quel ch'egli ave, 25
a ricevere ardito, non sentendo
nelle sue cose aver volta la chiave.
E
'l suo sommo diletto è pur servendo,
in quanto puote, a chi servigio chiede
e a' tementi andarlo profferendo. 30
Fontana
il fa di pietosa merzede,
non cupido di più ch'e' li bisogni;
ma soperchio tener sempre si crede
né
aspettante ch'altri il suo agogni;
anzi pertratta sì l'utili cose 35
ch'a quelle ben non cal ch'alcun vi
sogni,
a
tutti dando delle virtuose
opere essemplo e regola verace,
rendendo vane sempre le viziose.
E
quivi dove il raggio d'esta giace, 40
calcati i ben mondan con lo 'ntelletto,
sollecito si sale all'alta pace;
e
Bacco in lui, sì come dio sospetto,
e ancor Cerer prende con misura,
temendo il lor disordinato effetto. 45
Negli
ornamenti ha sollecita cura
ched e' non passin la ragione dovuta,
fuor ch'adornar la divina figura;
sempre
fuggendo, quanto può, l'arguta
voglia del generare al qual s'accende 50
quanto concede la regola avuta.
E
dov'ell'entra, da' furor difende
della fredda ira, lei con lieto foco
cacciandol fuor del loco ove s'aprende.
Né
lascia dare orecchia assai o poco 55
alle parole vane, e veritate
udendo in sé con bene, ha sommo gioco.
E
sempre dell'altrui prosperitate
con laude pia ringrazia il donatore,
la sua cercando in guise non vietate, 60
degli
altrui danni sentendo dolore,
a chi l'offende ognora perdonando,
come ad amico faccendoli onore.
L'animo
suo in alto sollevando
magnanimo diventa, giusto e saggio, 65
a tutti equale, ciascuno onorando,
quanto
virtù e abito e legnaggio
e tempo e luogo e stato lui fa degno:
prima di sé, d'altrui poi, cessa
oltraggio.
Con
questo poi al suo beato regno 70
tira chi segue lei, la qual seguire
con ogni forza e con ciascuno ingegno
ci
dobbiamo sforzar; sì che salire,
quando che sia, possiamo alle bellezze
del regno suo, le qua' non posso dire, 75
e
in etterno usar quelle ricchezze
che non si lascian vincere a disio,
prestando sempre liete lor chiarezze,
manifestando,
a chi l'acquista, Iddio.
[XII ]
Non era ancora di Teogapen finito il
dolce canto, quando Lia con le due bellissime lì venute, con atto piacevole si
levarono in piede ad onorare due altre, che quivi, o forse il caldo fuggendo o
tratte con istudioso passo al nuovo suono o seguenti forse le prime, di loro
compagne, liete venieno. Le quali poi che da esse con accoglienze festevoli e
con parole amorose furono ricevute, Ameto, che non dormia, a più mirabile vista
alzò la testa: e già non in terra ma in cielo riputava di stare, riguardando e
le venute prima e le seconde con non minor maraviglia, le quali non umane
pensava ma dee. E di quelle l'una, posto in terra l'arco, la faretra e le
saette sopra i fiori e l'erbe, nel più alto luogo, a lei più volte profferto e
quasi a forza donato dall'altre, si puose a sedere.
E il candido viso di lucenti sintille per
lo caldo rigato, con sottilissimo velo e con vezzosa mano levate di quello,
tale nello aspetto rimase quale nella aurora freschissima rosa si manifesta.
L'altra, quelle medesime armi di sposte e i sopravenuti sudori seccati con
bianca benda, ravolta in uno sottile mantello, dall'altre onorata, s'asettò con
la prima; e il già cantante Teogapen con orecchia sollecita ascoltano come
l'altre. Ma Ameto, il quale non meno l'occhio che l'audito diletta
d'assercitare, quello che puote prende della canzone, sanza dalle nuovamente
venute levare la vista. Egli rimira la prima, la quale, e non immerito, pensava
Diana nel suo avvento; e di quella i biondi capelli, a qualunque chiarezza
degni d'assomigliare, sanza niuno maesterioi, lunghissimi, parte ravolti alla
testa nella sommità di quella, con nodo piacevole d'essi stessi, vede raccolti;
e altri più corti, o in quello non compresi, fra le verdi frondi della laurea
ghirlanda più belli sparti vede e raggirati; e altri dati all'aure, ventilati
da quelle, quali sopra le candide tempie e quali sopra il dilicato collo
ricadendo, più la fanno cianciosa. A quelli con intero animo Ameto pensando,
conosce i lunghi, biondi e copiosi capelli essere della donna speziale
bellezza; de' quali se essa Citerea, amata nel cielo, nata nell'onde e
nutricata in quelle, bene che d'ogni altra grazia piena, si vegga di quelli
nudata, appena potrà al suo Marte piacere. Adunque tanta estima la degnità de'
capelli alle femine quanta se, qualunque si sia, di preziose veste, di ricche
pietre, di rilucenti gemme e di caro oro circundata proceda, sanza quelli in
dovuto ordine posti, non possa ornata parere; ma in costei essi, disordinati,
più graziosa la rendono negli occhi d'Ameto.
Egli, sotto la ghirlanda dell'alloro, di
molte frondi intorno, con sottilissimo velo e purpureo, faccente al chiaro viso
graziosa ombra, vede per prosunzione la nascosa fronte per bellezza
maravigliosa; e, quasi con la ghirlanda congiunte, le circulate ciglia estreme
e disgiunte riguarda, nere non meno che quelle degli Etiopi, sotto le quali due
occhi chiarissimi come matutine stelle sintillanti rimira; né quiventro
nascosi, né superbi fuori del loro luogo si stendevano, ma gravi e lunghi di
color bruno più amorosa davano la lor luce. Il naso e le vermiglie guance, non
tumefatte né per magrezza rigide, di convenevole spazio contento, né suoi
luoghi sotto i belli occhi festevoli si mostravano; la bocca della quale, non
distesa in isconcia grandezza, piccioletta, nelle sue labbra somigliava
vermiglia rosa, e, rimirandola, avea forza di fare desiderare altrui i dolci
baci. E il candido collo, non cavato ma pari, e la dilicata gola, sopra li
equali omeri ottimamente sedenti, nella loro bellezza cupidi di spessi abbracciamenti
si faceano. E ella, di statura grande e né membri formosa, e tanto bene
proporzionata quanto altra mai, vestita di sottilissimo drappo sanguigno
seminato di piccioli uccelletti d'oro, composto dalle mani turchie, sedendosi,
mostrava il candido petto, del quale, mercé del vestimento cortese nella sua
scollatura, gran parte se ne apriva a' riguardanti; egli non toglieva alla
vista la forma de' tondi pomi, li quali con sottile copritura ascondendo,
resistenti pareano che volessero mostrarsi malgrado del vestimento, bene che
uno purpureo mantello, del quale parte il sinistro omero, e di sotto al destro
braccio un lembo, passante, ne ritornasse sopra il sinistro, cadente l'altro
con doppia piega sopra le ginocchia di quella, alquanto dell'uno s'ingegnasse
di torli. Egli poi rimira le braccia e le bellissime mani non disdicevoli al
formoso busto, e lei cinta d'uliva considera, e in ogni parte mirando, ove
potesse entrare la sottile vista, di passare s'argomenta. Così fatte bellezze
li fanno migliori sperare le nascose e in sé o l'uso o la vista di quelle con
più focoso appetito cercare. Egli si pensa che cotale apparisse Danne agli
occhi di Febo o Medea a que' di Giansone, e più volte dice fra sé: – O felice
colui a cui è data sì nobile cosa a possedere! –
E quinci all'altra salta con lo
'ntelletto e lei, come stupefatto, per lungo spazio rimira, lodando l'abito, le
maniere e la bellezza di quella, simile a qualunque dea; e se quivi la sua Lia
non vedesse, quasi essa essere estimerebbe. Egli vede costei, di verde vestita,
tanto vezzosa con una saetta in mano sedere quanto alcuna ne vedesse giammai; e
particularmente come l'altre mirandola, vede i suoi capelli a' quali appena
grandissima parte, sovra ciascuna orecchia ravolti in lunga forma con maestrevole
mano, riguarda; e degli altri ampissime trecce composte vede sopra l'estremità
del collo ricadere; e quindi, l'una verso la destra parte e l'altra verso la
sinistra incrocicchiate, risalire al colmo del biondo capo; i quali ancora
avanzati ritornando in giù, in quel medesimo modo nascondere vede le loro
estremità sotto le prime salite; e quelle con fregio d'oro lucente e caro di
margherite istrette stanno ne' posti luoghi. Né d'alcuna parte un solo capello
fuori del comandato ordine vede partire; sopra li quali uno velo sottilissimo
si distende, ventilato dalle sottili aure con piacevole moto, il quale non d'un
solo capello occupa la veduta al riguardante. E sopr'esse di molte frondi, di
vermiglie rose e di bianche e d'altri fiori adornate, legate con rilucente oro,
vede una ghirlanda la quale non meno spazio a' raggi toglieva che facciano a'
Danai i loro capelli. E quella, da lei, sotto l'ombre posta a sedere, alquanto
più su mandata, libera lascia la candida fronte mirare ad Ameto, il quale,
nella sua sommità, degli aurei crini con nero nastro, ponente all'una e agli
altri dovuti confini, terminata conosce e di debita ampiezza la loda; e
nell'infima parte d'essa vede surgere in giro, non d'altro color che le
tenebre, due tenuissime ciglia, divise da candido mezzo in lieto spazio; e
sotto quelle appena ardito di riguardare, vede due occhi vaghi e ladri ne' loro
movimenti, la luce de' quali bellissimi appena gli lascia comprendere la loro
essenza o chi in essi dimori, che non altrimenti lo spaventa che colui cui vide
in prima in que' di Lia; e per paura da quelli levando i suoi, alquanto più
basso tirandoli, il non gimbuto naso riguarda, né patulo il vede né basso, ma,
di quella misura che in bel viso si chiede, mirandolo, se n'allegra; e le
guance, non d'altro colore che latte sopra il quale nuovamente vivo sangue
caduto sia, lauda sanza fine, avvegna che quello colore, a lei nel viso dal
caldo sospinto, riposata, partitosi, la rendesse d'essenza d'oriental perla,
quale a donna non fuori misura si chiede. Egli appresso, la vermigliuzza bocca
mirando, così in sé l'estima a vedere quale fra bianchissimi gigli vermiglie
rose si veggiono; e oltre modo i baci di quella reputa graziosi. E il mento,
non tirato in fuori ma ritondo e concavo in mezzo, merita grazia negli occhi
d'Ameto; e similmente la candida e diritta gola e il morbido collo dal verde
mantello coperto, il quale però non toglie alcuna parte del petto, dal vestire
consentita, agli occhi di colui che ardendo rimira; il quale iguali e di carne
pieno, ben rispondente agli omeri, degni d'essere sovente d'amorosi pesi
premuti, con avido sguardo è da Ameto mirato. E poi ch'egli con sottili
avvedimenti ha le scoperte parti guardate, alle coperte più lo 'ntelletto che
l'occhio dispone. Egli non guari di sotto la scollatura discerne le rilevate
parti in picciola altezza e con l'occhio mentale trapassa dentro a' vestimenti
e con diletto vede chi di quello rilievo porga cagione, non meno dolci
sentendole ch'elle siano. Egli le bene fatte braccia, in istrettissima manica
dell'omero infino alla mano aperta, e in alcune parti con isforzate
affibbiature congiunta, in sé le loda con le mani bellissime, ornate di molte
anella; e i vestimenti, come quelle, dalle latora aperti di sotto alle braccia
infino alla cintura, con simile affibbiamento ristretti, commenda, però che
intera mostrano di colei la grossezza. E per quelle apriture mettendo l'occhio,
di vedere s'argomenta ciò che uno bianchissimo vestimento, al verde dimorante
di sotto, gli nega, e ben conosce che il frutto di ciò c'ha veduto è riposto
nelle parti nascose; il quale non altri che Giove reputa degno di possedere.
Egli, miratola in una parte e in altra più volte, tanto di pregio in sé le dona
quanto acquistasse la bella Ciprigna nel cospetto de' popoli suoi; e in sé
piange la rozza vita, per adietro ne' boschi menata, dolendosi che sì lunga
stagione sì alte delizie agli occhi suoi apparite non erano.
[XIII ]
Mentre che Ameto riguarda, essamina,
distingue e conferma in sé delle venute ninfe la mira bellezza, Teogapen,
contentate le donne, finisce la sua canzone; al quale Lia ringraziandolo disse:
– Meritino gl'iddii sì alta fatica a te grazioso il quale sì accettevole il tuo
verso hai porto ne' nostri orecchi, quale a' faticati si presta sopra le verdi
erbe il leno sonno, o le chiare fontane e frigide agli assetati. –
Non rispose contra Teogapen; ma, intento
alle risse incominciate quivi tra' sopravenuti pastori in merito del suo canto,
addomandò che le donne ascoltassero le loro quistioni. E quivi Acaten, d'Academia
venuto, vantantesi di più magisterio ch'altro nelle sue gregge, come in versi
mostrare intendeva contro Alcesto d'Arcadia che con lui in quelli medesimi si
confidava nelle sue parole di vincerlo, fece venire avanti e nel suo cospetto
puose l'apparecchiato Alcesto. E disposti amenduni di tenere per sentenzia ciò
che per le donne ascoltanti si giudicasse, Teogapen proferse a' versi loro
l'aiuto della sua sampogna e per guiderdone del vincitore apparecchiò
ghirlande. E alla incerata canna con gonfiata gola e tumultuose gote largo
fiato donando, quello risoluto in suono, con preste dita ora aprendo ora
chiudendo i fatti fori, dava piacente nota; e comandò con segni che ad Alcesto,
cominciate co' suoi versi cantando, Acaten rispondesse. Per la qual cosa Alcesto,
e quelli appresso, così cominciò:
[XIV ]
[Alcesto ]
Come
Titan del sen dell'Aurora
esce, così con le mie pecorelle
i monti cerco sanza far dimora;
e
poi ch'i'ho lassù condotte quelle,
le nuove erbette della pietra uscite 5
per caro cibo porgo innanzi ad elle.
Pasconsi
quivi timidette e mite
e servan lor grassezza con tal forma
che non curan di lupo le ferite.
[Acaten ]
Io
servo nelle mie tutta altra norma, 10
sì come i pastor siculi, da' quali
essemplo prende ogni ben retta torma.
Io
non fatico loro a' disiguali
poggi salir, ma ne' pian copiosi,
d'erbe infinite do lor tante e tali 15
che
gli uveri di quelle fan sugosi
di tanto latte ch'io non posso avere
vaso sì grande in cui tutto si posi.
Né
i loro agne' ne posson tanto bere
ch'ancor più non avanzi; e honne tante 20
ch'io non ne posso il numero sapere.
Né,
perchè il lupo se ne porti alquante,
io non me 'n curo; tale è la pastura
che tosto più ne rende o altrettante.
Io
do loro ombre di bella verdura, 25
né con vincastro quelle vo battendo:
come le piace ognuna ha di sé cura,
vicine
a molti rivi, che correndo
dintorno vanno a loro, ove la sete
ispenta, poi la vanno raccendendo. 30
Ma
voi, Arcadi, sì poche n'avete
che 'l numero v'è chiaro; e tanto affanno
donate lor che tutte le perdete.
E,
non che pascer, ma elle non hanno
ne' monti ber che basti; e pur pensate 35
di più saper di noi con vostro danno.
[Alcesto ]
Le
nostre in fonti chiare, derivate
di viva pietra, beon con sapore
tal che le serva in lieta sanitate:
ma
le tue molte tirano il liquore 40
mescolando con limo e, tabefatte,
corrompon l'altre e muoion con dolore.
E
le tue, furibonde, rozze e matte,
diversi cibi avendo a rugumare,
debili e per ebbrezza liquefatte 45
si
rendon, né non posson perdurare
in vita guari; e il lor latte è rio,
né può vitali agne' mai nutricare.
Ma
'l cibo buon, che il pecuglio mio
dalla pietra divelto pasce e gusta, 50
lor poche serva buone; e ciò che io
ne
mungo è saporoso; e quella angusta
fatica del salir le fa vogliose
e veder chiar dall'erba la locusta.
L'aria
del monte le fa copiose 55
di prole tal che 'n bene ogni
altr'avanza;
poi l'empie d'anni e falle prosperose.
E
è sì lor, per continua usanza,
il sol leggier che ciascuna più lieta
è sotto lui che 'n altra dimoranza, 60
avvegna
che, quand'è già caldo vieta
il cibo più, col mio suon le contento,
cui ciascheduna ascolta mansueta.
Io
guardo lor sollicito dal vento
e nella notte vegghio sopra loro, 65
alla salute di ciascuna intento.
[Acaten ]
A
me non cal, vegghiando, far dimoro
né sampogna sonar, ché per sé sola
diletto prende ognuna in suo lavoro;
né
non mi curo s'alla mia parola 70
non ubidiscon subito niente,
sol ch'io me n'empia la borsa e la gola.
Com'io
le guardi, a chi ben le pon mente,
le tue veggendo, e 'l numero ne prende,
all'avanzar mi fa più sofficiente; 75
in
che la cura nostra più s'accende
che ad aver poca greggia e vivace
donde non trassi quanto l'uom vi spende.
Che
dirai qui? Or non parla, ma tace
Alcesto al mio cantar, però che vero 80
conosce quello e già per vinto giace.
[Alcesto ]
Il
tuo parlare è falso e non sincero,
per ch'io non taccio né credo esser
vinto,
ma vincitor di qui partirmi spero.
Tu
hai il nostro canto in ciò sospinto: 85
chi è più ricco e più di mandra tira;
dove di miglior guardia fu distinto
che
cantassimo qui; la qual chi mira
con occhio alluminato di ragione
vedrà chi meglio intorno a ciò si gira. 90
[Acaten ]
Dunque
a ciò non chiude la quistione?
Chi più avanza, quelli ha me' guardato
e più sa del guardar la condizione.
[Alcesto ]
Non
son da por già mai per acquistato
i tuoi agne', ché a molti tristo fine 95
si vede tosto, lasso! , apparecchiato.
Ma
le mie poche nell'alto confine
vivaci, poste d'assalto sicure,
non curanti di lappole o di spine;
e
tutte fuor delle brutte misture 100
bianche, con occhio chiaro, e conoscenti
di me che lor conduco alle pasture.
[Acaten ]
Tu
fai, come ti par, tuoi argomenti,
ma elli è me' delle mie il diletto,
che l'util delle tue che sì aumenti. 105
Quand'io
vorrò, da cui mi fia interdetto
il su salire al monte, ove, pasciute,
assegni alle tue tanto perfetto?
[Alcesto ]
Da
quelle erbacce gravi, ritenute
nell'ampio ventre, ch'affamate e piene 110
sempre le tien, di salir fien tenute.
[Acaten ]
Queste
son tue parole, né conviene
a te di me parlar, perchè non sai,
ne' monti usato, e l'uso ancor ti tiene.
[Alcesto ]
Ne'
monti, dov'io uso, io apparai 115
da quelle Muse che già li guardaro;
e nelle braccia lor crebbi e lattai.
Ma
tu più grosso ch'altro, in cui riparo
già mai senno non fece né valenza,
taciti omai; ché i tuo' versi amaro 120
suon
rendono a coloro a cui sentenza,
come di savie, stiamo: e la tua male
di pasturar qui difesa scienza
con
altrui cerca coprirla di tale
mantel, che meco; ché tu se' nemico 125
di greggia più che guardia o mandriale:
di
che ancora andrai tristo e mendico.
[XV ]
Aveva detto Alcesto, e Acaten irato già
volea rispondere, quando le donne, quasi ad una voce, gli puosero silenzio, del
suo errore increpandolo, le 'mpromesse ghirlande dando al vincitore. E quindi
levatesi, ritornare al prato loro, sotto uno bellissimo e pieno di fiori
alloro, sopra una chiara fonte, in cerchio si puosero a sedere con Ameto. E già
di ciò nella loro stanza dovessono operare tenenti trattato, durante ancora il
caldo, Lia di lontano due ne vide a loro con lento passo venire; per che
all'altre con umile parlamento: – Giovani, – disse – levianci; andiamo ad
onorare le vegnenti compagne. –
Alla cui voce rivolte e levate, con
simile passo verso di quelle, da loro già vedute, n'andarono, solo Ameto
lasciando sopra la fonte. E giunte ad esse e quelle con accoglienze raccolte
piacevoli, alli loro luoghi insieme voltarono i passi; le quali vegnenti con
non altra andatura che soglia fare novella isposa, s'approssimano alla fonte.
Laonde Ameto, riguardandole, in sé multiplicando l'ammirazioni, quasi di senno
esce; e appena potendo credere ch'elle siano altro che dee, tutto fu mosso a
dimandarne Lia. Ma, ratemperato l'ardente disio, fra sé estimava d'essere in
paradiso; e con intento occhio, come l'altre avea fatto, così quelle comincia a
riguardare, dicendo: – Se queste qui così di venire perseverano, in brieve la
bellezza d'Etruria, ma più tosto tutta quella de' regni di Giove, ci fia
raccolta; e io, usato di seguir bestie, Amore, poco avanti da me non saputo,
seguendo, non so come mi convertirò in amante, servendo donne, alle quali, così
fatte, seguire lunga vita mi prestino gl'iddii e animo dal presente non
discordante. E come mi poteano essi fare de' loro beni disioso sanza avermi
queste mostrate? –
Egli vede l'una, in mezzo delle due
seconde, a quello luogo dove cantava il pastore prima venute, donnescamente con
occhio vago rimirandosi intorno, venirsene dopo Lia; e lei tutta vestita di
bianchissimi vestimenti conosce, ne' quali appena sa discernere i lavorii
tessuti in quelli con maestra mano; del cui vestimento le fimbrie, le
scollature e qualunque altra estremità di quelli li larghissimi fregi d'oro,
non sanza molte pietre, vede lucenti; e di maravigliosa chiarezza discerne
infra gli alti albori dipingere la via ond'ella passa. Egli, per maraviglia
riguardando, a quella nel petto una bellissima fibula, non solamente d'oro ma
di varie gemme splendente, discerne; la quale congiungeva le parti dello
sparato mantello di colei, di cui l'una parte, sopra il sinistro braccio
raccolta e pendente da ciascuno lato, uno arco, il quale portava, niente
impediva; e l'altra, gittata sopra la destra spalla, larga via concedeva alla
mano tenente una saetta, la cui cocca tal volta la bella bocca e alcuna girarsi
nell'aere, movendola quella, e altra diverse cose mostrare, con tanta autorità
nel movimento di lei quanta Giunone, discendente degli alti regni, uscerebbe
ne' nostri, discerne. Onde egli, queste cose in sé tutte considerate, raccolto
nella sua mente, dice alcuna volta: – Or potrebbe elli essere che costei fosse
Venere, discesa ad onorar li suoi templi? Io non so; ma io non credo che più
bella, né tanto, mai si mostrasse ad Adone. E se ella non è dessa, ella è forse
Diana, la quale quella che con lei venne di sanguigno vestita, nella sua venuta
pensaiche dessa fosse; e che ella sia dessa non è impossibile, però che simile
abito suole quella servare ne' boschi suoi, fuori solamente che de' capelli. O
forse ch' è alcuna altra dea e da me non è conosciuta? E come verrebbe qui dea
che la terra non desse altri segnali? I prati tengono i fiori che si sogliono e
l'acque quella chiarezza; alcuno odore più che l'usato non corre per lo caldo
aere, e l'erbe, per lo sole passe, non lievano liete le sommità loro; né s'è
mossa la terra, né queste donne l'hanno come dee ricevute, non meno belle di
loro. E se ella non è celestiale, io non so chi ella si sia mondana, però che
elli ha poco che io apparai che il mondo portasse sì belle cose; e bene che io
già abbia udito che con cotali ornamenti soleva Semiramìs entrare nelle camere
del figliuolo di Belo e la sidonia Dido andare alle cacce, certissimo delle
morti di quelle, qui al presente non le debbo aspettare: ma chi che ella si
sia, singulare bellezza possiede. –
E poi che così ha detto, lasciando il
tutto, a considerare le particularità di lei si rivolge, e rimirandola nella
parte eccelsa, sotto pomposa ghirlanda delle frondi di Pallade vede i biondi
capelli coperti da sottile velo; del quale parte, ma picciola, di sotto alla
ghirlanda se ne porteria zeffiro, se sì forte soffiasse che dall'altro il
potesse dividere; li quali sopra l'orecchie in tonda treccia raccolti e quindi
di dietro non cascanti sopra lo equale collo, con piccolo viluppo stendentisi
or verso l'una e poi verso l'altra orecchia vicendevolemente ristretti, loda in
infinito, né dissimili ad alcuni delle prime li reputa in legatura o in colore.
E la non coperta fronte dalla ghirlanda di bella grandezza e di luce commenda;
della quale nella estremità inferiore, di colore di matura uliva, quanto
conviensi eminenti, sottili e partite, non diritte ma tonde, due ciglia
discerne, soprastanti a due occhi ne' quali quanta bellezza dipinse natura già
mai, tanta in quelli ne giudica Ameto, pensante, quando volessono, alle loro
forze non potere resistere alcuno iddio: e se con soavissimo moto verso di sé
li vede levare, tanto quanto a lui fissi sopra dimorano, gli pare gli ultimi
termini della beatitudine somma toccare, credendo appena che altrove che in
quelli paradiso si truovi. Li quali, neretti, soavi, lunghi, benigni e pieni di
riso, tanto a sé il tengon sospeso che le bellissime guance, nelle quali con
bianchi gigli miste si dirieno vermiglie rose, il dilicato naso, a nessuna
altra stato simile, e la vermiglia bocca, con grazioso rilievo vermiglietta
mostrantesi, e ciascuno per sé solo potente a fare meravigliare ogni uomo che
li mirasse, quasi nol muovono a riguardarsi, sì gli è cara la luce di quelli
ne' quali non meno salute sente che in quelli di
Lia.
Ma poi che dalla virtù d'essi fu vinto,
sospirando il suo sguardo ritrasse all'altre cose, e come disegnate sono,
riguardate, tutte le loda, e con quelle il mento bellissimo, sopra il quale il
velo, mosso dalla sommità della testa e apuntato sopra i raccolti capelli, da
ogni parte terminava raggiunto e trasparente molto, tanto che appena ch'egli vi
fosse stato si saria detto; la marmorea e in alto diritta gola e il bellissimo
collo piano e co' vestimenti congiunto, come elli poteva difendeva dal sole,
infino alla scollatura de' vestimenti passante, la quale non ascondea i ritondi
omeri col suo giro. A questa parte con diligenza rimira Ameto, e degna di laude
maravigliosa la reputa co' nascosi beni, appena di sé danti sopra li stretti
panni alcuni segnali; e ciò sanza indizio di giovinetta età non avvenia; e con
questi loda le braccia, delle quali se per chiedere andasse, domanderebbe così
tosto come da quelle di Giuno essere stretto e tocco con le candide mani, le
cui non grosse ma lunghe dita d'oro circulate vedea. E di quella, grande di
statura e andate, alcuna volta vede il picciolo piede, e per merito dell'aure
moventi i vestimenti toccanti le verdi erbette, nate di propio volere ne' lieti
prati, tal volta più ad alto rimira, e discerne la tonda gamba da niuno
calzamento coperta; e bene che ombrosa per li circustanti panni la vegga,
bianchissima, gli scoperti membri guardando, la sente. Egli disidererebbe di
vedere più avanti, ma invano vi s'affaticano gli occhi suoi; e perciò, venuta
già quella tanto avanti che libera li rimanea dell'altra la vista, levò da
quella le luci, sopra l'altra fermandole con non minore maraviglia. E poi che
egli ha lei, vegnente in maturo abito, in mezzo delle prime a quello luogo
venute, per ispazio grandissimo riguardata, non sappiendo come esser si possa
vero ch'egli vegga tanto di bene quanto vede, e alcuna volta fra sé si pensa
dormire, e dormendo essere agli scanni superiori tirato a veder quelle, e poi
dice: – Io non dormo –; e, non affermandolo, ne rimane in dubbio; e pur rimira
ciò che agli occhi gli aggrada. Egli d'alta statura, vestita di vestimenti
rosati, non meno caramente fimbriati che' primi, la vede; benché l'aurea
fibula, tenente dell'altra il mantello, nel mezzo del petto di lei rilucesse, a
costei risplendea sopra la destra spalla.
E quello, sottilissimo, da essa in piega
raccolto sotto il sinistro braccio e sopra quello rigittato, mostrando il verde
rovescio, ricade verso terra, libera lasciando la mano nella quale fiori, colti
per li venuti boschi, portava; ma ciò che di quello dalla destra spalla ricade,
mosso alcuna volta dal vento, si stende in lunga via: la qual cosa similemente
lo sparato vestire dalle latora va faccendo. La testa sua, con leggiadretta
ghirlanda di provinca coperta, i biondi capelli da velo alcuno non coperti
mostrava, de' quali, non so come legati, ricadeva sopra ciascuna tempia bionda
ciocchetta; le quali lei, di ciò non curante, rendevano sì vezzosa che Ameto
n'avea maraviglia; il quale, il suo viso mirando, loda la spedita fronte e le
non irsute ciglia ma piane; e tali nei suoi gli occhi di colei gli appariscono
quali e gli occhi e l'altre bellezze di Filomena al tiranno di Trazia si
mostrarono. Le candide guance, non d'altra bellezza cosperse che nella bianca
rosa si vegga, non veduta dal sole, gli danno materia di comendarle, e il naso,
nel suo luogo ben ricadente, con la bellezza di sé supplirebbe, se altrove
avesse difetto; la picciola bocca vermiglia e nel suo atto ridente, col sottoposto
mento compreso in picciol cerchio, hanno forza di farsi lodare al riguardante,
il quale più tosto l'appetito che l'occhio, se elli potessi, ne piacerebbe. Ma
poi che egli, con intenta cura la candida gola e il diritto collo e del petto e
degli omeri quella parte, che il vestir non gli toglie, speculate, tutte le
loda, e con quelle gli altri membri, e i palesi e i nascosi; e con lussurioso
occhio rimira lunga fiata il piè di lei, andante calzato di sola scarpetta, la
quale poco più che le dita di quello, sottile e stretta, copriva; e, nera,
pensa che lui bianco faccia parere. Quelle donne, considerando Ameto le dette
cose, pervennero al luogo ove egli, solo, attendendole si sedea; il quale, alla
loro venuta levatosi, poi che fra loro onorate, disposte l'arme e' mantelli,
assettate si furono, si ripuose a sedere. E tutte insieme, e ciascuna per sé
lungamente mirate, così lieto cominciò a cantare:
[XVI ]
O
voi, qualunque iddii, abitatori
delle superne e belle regioni,
di tutti i ben cagioni e donatori,
che
noi e ' ciel con etterne ragioni
reggete e correggete, disponendo 5
sempre a buon fine i tempi e le stagioni,
e
te massimamente, a cui intendo,
o sommo Giove, i voti dirizzare
focosi del disio ond'io m'accendo,
con
quella voce ch'io posso più dare 10
divota, vi ringrazio di tal bene
qual v'è piaciuto agli occhi miei
mostrare.
Tantalo,
Tizio o qualunque altro tene
di Dite la città, vedendo queste,
sentiria gioia, obliando le pene. 15
Voi
le creaste e belle le faceste
con virtù liete, savie e graziose
e a' nostri piacer le disponeste:
adunque
a' prieghi miei sempre gioiose,
servando lor la bellezza e l'onore, 20
le fate, sì come son, disiose.
E
tu, da me non conosciuto, Amore,
da poco tempo in là, il qual m'hai tratto
dalla vita selvaggia e dallo errore,
istato
rozzo infino allora e matto, 25
ché col suo canto e con gli occhi la via
m'aperse Lia a darmiti con atto
non
istinguibil della mente mia,
non notar ciò che la mia voce canta,
ma ciò che 'l cuor, subietto a te, disia. 30
Io
rendo grazie al tuo valor con quanta
virtù si puote esprimer nella voce,
umile sempre a tua deità santa;
e
bench'io senta il raggio tuo, che coce
me, per la forza degli occhi di quella 35
ch'alla tua via rozzissimo mi doce,
son
io disposto sempre la tua stella
come duce seguir, fermo sperando
a buon porto venir, guidandomi ella.
L'arco,
li strali e il cacciar lasciando 40
le paurose fiere, e' vo' seguire
le belle donne, sempre omai amando,
maladicendo
il tempo che reddire
non puote indietro, nel qual già diletto
ebbi, faccendo le bestie fuggire, 45
sì
ch' i' 'l potessi spender nello effetto
de' tuoi servigi; ma s'e' me ne avanza,
darolti tutto quel ch'omai aspetto.
Qual
selva fu o qual dieta speranza
col seguitato ben, mi desse mai 50
tanto di gioia, o quale ombrosa stanza,
quant'ho
sentita, poi ch'io rimirai
di prima Lia e ch'io vidi costoro
le quali, in ben di me, raccolte ci hai?
Certo
nessuna; e credo, se nel coro 55
fossi de' tuoi regni, io non starei
la metà ben che remirando loro.
Per
ch'io ti priego pe' meriti miei,
s'alcun ne feci o debbo fare o posso,
e teco insieme tutti gli altri dei, 60
che
dal mio domandar non sia rimosso
tosto l'effetto, ma compiutamente
segua il disio che da pietate è mosso:
il
qual si è che noi etternalmente,
come noi siam, tegnate in questo loco, 65
sanza ch'alcun se 'n parta mai niente,
giovani,
lieti e in festa e in gioco,
sanza difetto sempre mai accesi,
ognora più ferventi nel tuo foco.
Deh,
se o Danne o Mirra furo intesi 70
da voi ne' lor bisogni, non si nieghi
a me che contra voi mai non offesi.
Né
sia bisogno ch'io a voi lo spieghi
quanti nimici vostri abbiate uditi
con diligenza dando effetto a' prieghi, 75
sì
come 'l ciel ne mostra a lui saliti,
e ancora la terra il fa palese
e il mar simigliante e i suoi liti.
Adunque
siate al mio priego cortese
benigni acciò che, con etterno ingegno 80
lodando voi, le menti faccia intese
di
chi vive qua giù al vostro regno.
[XVII ]
Sedendo sotto il bello alloro le donne
alle fresche ombre, e alcuna disposta la bella ghirlanda della biondissima
testa e scalzatasi, co' bianchissimi piedi tentava le frigide onde; e altra,
apertesi le strette maniche e 'l petto, levatisi di capo i sottili veli, con
essi, mancante zeffiro, a sé l'aure chiamava recenti, forse quale Cefalo per
adietro con malo agurio di Pocris a sé ne' boschi solea chiamare; e alcuna,
giacendo sopra la nuova erbetta, mezza nascosa fra quella, la bionda testa
sopra il ravolto mantello tenendo, quasi stanca si riposava. E nondimeno aveano
gli orecchi al canto d'Ameto, al quale non parea che gl'iddii avessero orecchia
prestata, perché, sogghignando, alcuna volta con motti piacevoli lo 'mpedivano.
Ma poi che egli tacque, Lia così cominciò
con le donne: – Giovani, il sole tiene ancora il dì librato: per che la sua
calda luce ne vieta di qui partirci; i pastori dormono, le cui sampogne poco
avanti ne feciono festa, e ogni maniera di diletto infino alla bassa ora c'è
tolto, fuori solamente quello che i nostri ragionamenti ne posson dare; i quali
di niuna cosa conosco così convenevoli, considerata l'odierna solennità, come
li nostri amori narrare. Voi siete tutte giovani, e io; e le nostre forme non
danno segnali d'essere vivute o di vivere sanza avere sentito o sentire le
fiamme della reverita dea ne' templi visitati oggi da noi. Adunque, narranti, e
chi noi siamo insieme ci facciamo conte e, dicendo, faremo che noi oziose, come
le misere fanno, non passeremo il chiaro giorno, il quale non al sonno
amministratore de' mondani vizii, né alla fredda pigrizia nutrice di quelli, si
dee donare. –
Le donne s'accordano; e però che a varie
dee si conoscono serventi, e tutte a Giove, aggiungono che, dopo i narrati
amori, pietosi versi della deità reverita da lei canti ciascuna con lieta voce.
Aggiugnesi alla diliberazione l'effetto; e levate sopra l'erbe, in cerchio si
posero a sedere. E avendo in mezzo messo Ameto, rimettono, ridendo, nello
albitrio di lui che egli comandi come gli pare qual sia la prima i suoi amori
narrante; il quale, lieto di tanto oficio, tirandosi d'una parte, acciò che
tutte le vegga, a quella che al suo destro lato sedea, bellissima e di rosato
vestita, la prima narrazione impone sorridendo; la quale, ubidendo sanza alcuna
disdetta, lieta così cominciò a dire:
[XVIII ]
– Ameto, non come la più savia ma come la
più antica, acciò che le più giovani lascino ogni vergogna, prima darò per lo
tuo effetto forma nel ragionare al grazioso coro, al quale te abbiamo eletto
antiste; e tu, acciò che ben conoschi come la tua Lia, molto da te amata, è più
da dovere essere, sappi per essemplo de' nostri amori sollicito ubidire, notate
le nostre cose. –
E quinci, dirizzato il chiaro viso
inverso l'altre, le quali in atto tutte si mostravano attente, disse: – Nel
rilevato piano dall'onde egee, nel quale siede la terra bellissima del cui nome
fu tanta lite intra gli iddii, tolse Marte con pattovita legge la sua virginità
ad una piacevole ninfa, quelli luoghi abitante; la quale, poi che sé corrotta
dal potente iddio conobbe, sanza commiato abbandonò di Diana il grazioso coro,
forse di Calisto cacciata la vergogna temendo. Ma per lo tolto fiore in
guiderdone la riempié lo dio di grazioso frutto; il quale poi che fu maturo,
nelle sue case a sé simile partorì una vergine; e quella, con istudio solenne
nutrita, perdusse ad età atta a' matrimonii chiara di felice bellezza; ma quale
cagione a ciò la movesse, o che sanza crini nascesse o che quelli per
sopravenuta infermità perdesse, m'è occulto: ma so che da lei fu nominata
Cotrulla. E essendo carissima dalla madre servata al debito tempo, fu sposata
ad uno giovane di nobilissimi parenti disceso nel detto luogo, nel quale o egli
o ' predecessori suoi, forse quivi del divino uccello in vece, il dominio
servarono e da quello trassero il loro cognome ancora durante; a cui tanto
piacque la giovane che, i suoi e il suo primo cognome lasciando, a sé e a'
discendenti di lui, de' quali copiosamente gli concesse Lucina, il propio nome
impuose della sua donna, non perituro in loro giammai. Di costui discendendo,
nel solennissimo luogo già detto nacque il padre mio, e quivi, d'armata milizia
onorato, visse eccellentissimo ne' beni publici tra ' reggenti, e, de' beni
degli iddii copioso, me, a lui donata da loro, nominò Mopsa. E vedentemi nella
giovinetta età mostrante già bella forma, a' servigi dispose di Pallade; la
quale me benivola ricevente nelle sante grotte del cavallo gorgoneo, tra le
sapientissime Muse commise, là dove io gustai l'acque castalie, e l'altezza di
Cirra tentante le stelle cercai con ferma mano; e i palidi visi, quelli luoghi
colenti, sempre con riverenza seguii; e molte volte, sonando Appollo la cetera
sua, lui nel mezzo delle nove Muse ascoltai. Ma, già pervenuta all'età debita
a' matrimonii, il mio padre, forse da Giunone infestato, estimò la mia forma
degna d'abracciamenti; e come pio padre, – benchè in ciò non seguisse pietoso
l'effetto come l'avviso, in quanto la ricevente parte, ma non colei ch'era
data, ne fu contenta – egli ad uno, seguente Vertunno con sommo studio, mi
congiunse con santa legge a procrearli nipoti, me a ciò allegante per naturale
debito a lui obligata. E quelli che a me, a' mandati paterni ubidiente, non
renitente fu dato, ricordandolo, mi mette paura, pensando che elli di colui
tenga il nome che da Gaio Julio quinto ritenne il monarcale uficio sublime, e
che il mondo già fé, ma più la propia madre, di sé con maraviglia dolere,
vendicando le colpe a sua utilità contra Claudio e Britanio miseramente
commesse. Questi, a me per penitenzia etterna donato, non per marito, con la
turpissima sembianza di lui non poté fare che sì i casti suoi abbracciamenti mi
fossero cari, che Pallade, da me prima seguita, fosse per quelli obliata, ma
più che mai mi diedi a' suoi servigi. I quali con intenta cura seguendo,
avvenne un giorno, nel tempo nel quale Febo, la caniculare stella lasciata, con
luce più temperata i raggi suoi moderava sotto le piante del Leone nemeo, che
io, lasciate le sollecitudini, acciò che con più aperto seno prendessi i
freschi venti, sopra li marini liti presi sollazzevole via. E, ogni paura da me
cacciata, soletta, con imaginevole cura ne' passati studii la memoria non
pronta affannava; sopra li quali così andante, a sé mi trasse più nuovo
pensiero, però che, ver l'acque mirando, in picciola barca fluttuante vidi di
bella forma uno giovane il nome del quale, sì come poi apparai da' suoi, era
chiamato Affron. Egli, sì come io con vista infallibile presi, vago de' diletti
dell'acque e pauroso di quelle, né gli alti mari pigliava né in terra del
picciolo legno discendere volea, ma, a quella vicino, va. E poi che io con più
intento riguardo l'ebbi mirato, piacque agli occhi miei la sua bellezza e,
sospinta dalla santa dea di cui qui, come posto avemo, ora ragioniamo, con voce
assai soave il cominciai a rivocare in ferma terra. Ma egli, o per salvatichezza
o per disdegno che se 'l facesse, non che egli consentisse a me chiamante, ma
appena mi pur rispuose; e su per li vicini liti con maggior forza mosse la
inferma barca. Io seguiva lui non scostantesi guari da' marini liti e con
focoso disio mirava la rozza forma e sollecita temea i suoi pericoli manifesti
agli occhi miei; e, con tutto che oltre al dovere verso di me il vedessi
salvatico, pure, da amore vinta, gli predicava i danni suoi, confortandolo a
fuggir quelli. Ma le mie voci operavan niente e tanto più cresceva il mio
disio, onde più volte in mare mi volli gittare per prendere lui; ma temente
degli iddii dell'acque, ricordantemi di ciò che già fatto aveano alla misera
Silla e alla fuggente Aretusa e a molte altre, con paura temperai le mie voglie
e ritorn'mi pure al rimedio delle mie boci, pensando con quelle, più che con la
corporale forza, giovare a' miei disii; e così dissi: «O giovane, cui fuggi tu?
Se tu fuggi me, niuna cosa ti dovrà far sicuro: io non sono fiera pistilenziosa
cercante di lacerare i membri tuoi, come i cani d'Atteone miseramente cercarono
il lor signore, né baccata ti seguo con quel furore che la misera Agave con le
sue sorelle seguitaro e giunsono Penteo. Io sono di questi luoghi nobilissima
ninfa, te sopra tutte le cose del mondo amante; dunque non me, ma più tosto, a
me venendo, fuggi i tempestosi mari, a te e a qualunque altro in quelli
mareggiante sotto falsa bonaccia continuo serbanti ascosa fortuna. Chi dubita
che Danne vorrebbe avere più tosto Febo aspettato, poi che con riposato animo
conobbe la sua deità, che avere sì subitamente lo irevocabile aiuto degl'iddii
ricevuto, per lo quale ancora si mostra verde? Nullo che con diritta mente
penserà a' dilettevoli congiungnimenti avuti poi da lui con Climenès. Adunque e
tu similmente la durezza, apparecchiante nocimento se tu non vieni, fuggila: tu
sarai da me ricevuto non con altro abbracciamento che il faticato e molle
Leandro fosse dalla sua Ero; del quale abbracciamento mi simile non sentisti.
Dunque che fai? Quale simplicità, quale temenza ti tiene? Quale Eumenide dea ti
spaventa? Hai tu forse paura di me, non forse così di me ti seguisca, temendo
quale ad Ermofrodito di Salmace adivenne? Fugghino gl'iddii che tali effetti a
sì fatti casi ne perducessero: altri desiderii sono i miei e altri quelli di
quella; i quali poi che tu avrai conosciuti, maladicerai con dovuta ragione la
tua durezza. O puote la forma mia essere di paura cagione a niuna persona? Io,
sì come la più bella di monte Parnaso, sono più volte da molti dei stata
cercata e molti me hanno seguita; e Apollo ad una ora luminante il cielo e la
terra, acciò ch'egli fosse della mia grazia degno, mi fece tutte le sue virtù
note, né alcuna sua arte, non tanto fosse segreta, mi tenne occulta e diedemi
l'essere creduta in ciò ch'io dicessi: quello che a Cassandra, ingannato da
lei, tolse; e oltre a ciò mi concesse essere etterna. E tu, forse non sappiendo
chi io mi sono, mi fuggi; e però odilo. Io sono di nobili parenti di scesa,
servitrice di Pallade, a tutto il mondo reverenda dea, e per li meriti di
quella sono ninfa nel monte Parnaso; e ne' miei teneri anni a' petti delle
Muse, in quello abitanti, bevvi il dolce latte; e quindi pervenni all'età ferma
come tu mi vedi. E tanto nel cospetto della mia dea sono graziosa che, operante
ella, i segreti oraculi di Cirra mi sono manifesti, e con etterna memoria
l'antiche cose veggio continuo; e similmente le future, come se davanti mi
fossero, mi sono manifeste. Tu solamente, a me presente, se' a conoscere per
subitezza difficile e me di me medesima fai dubitare. Ma, come che la
difficoltà si profondi, pur te degno per la tua forma della mia bellezza
cognosco, la quale ancora lieto possederai, se non m'inganna quello ch'io ho
più volte già veduto. Ma il disio mi strigne a raccorciare il termine il quale
la tua durezza distende oltre dovere. Vieni adunque, o giovane: io ti farò di
più graziosa arte maestro che il navicare. Io ho a mia posta lo scudo della mia
dea, coperto del cuoio della nutrice di Giove, e l'asta di Minerva e i suoi
vestiri; e serbo i suoi uccelli alli tuoi giuochi; e quella spada con la quale
Perseo la misera testa tagliò di Medusa, si sarà tua. E così armato di tutte
queste cose, quando ti piacerà le più alte regioni vedere, ti mosterrò come a'
piedi ti deggi porre le sue ali con arte più somma che quella di Dedalo temente
i caldi cieli e l'umide onde. Io ti farò conoscere, dimorando tu meco, la
qualità delle case degli iddii, delle quali niuna parte mi se n'occulta. E a te
le ragioni moventi quelle farò palesi; e onde i soffianti euri e i tumultuosi
mutamenti dell'acque; e la cagione della rivestita terra da Ariete e poi
spogliata da Libra ti mosterrò. Dunque ché dubiti di venire a colei che più ti
puote ancora donare che ella non ti promette? E alle mie ultime parole, o
giovane, apri gli orecchi e sappi che se a me, bella, potente e larga delli
miei doni, non vieni, le mie orazioni con giusta ira toccheranno gl'iddii ne'
tuoi pericoli; e te, come Anfiorao, nel cospetto de' Tebani lasciando la terra,
per la fessura di quella subito co' suoi carri visitò Dite, farò dallo aperto
mare con la tua nave inghiottire». Io il chiamai più volte e reiterai le
promesse e le minacce, ma co' venti se n'andavano le mie parole. E se non fosse
che l'apparate cose non ingannevoli mi davano del futuro non falsa speranza,
così di lui disperata me ne sarei gita come la misera Biblis per lo non
pieghevole Cauno se n'andò all'ombre di Stigia. Ma perché di lui mi distenderò
io multiplicando in parole? Quanto più verso me la sua acerbità indurava, tanto
più la santa dea Venere, di sopra intenta alle mie battaglie, di lui m'accendea
con le sue fiamme. Per ch'io a nuovi argomenti lo 'ngegno prestai; e ancora che
forse paia atto di dissoluta ciò che io feci, però che tutte di ciò che io ardo
vi sento accese, cacciata la vergogna da me, la quale con focosa rossezza già
mi sento nel viso venire, ve 'l pur dirò. Io dico che i lunghi drappi, toccanti
terra come ora fanno, essendomi io cinta sopra l'anche, quasi paurosa dell'onde
mostrandomi, in alto molto più che il dovere li tirai; per che agli occhi suoi
le candide gambe si fecero conte, le quali, sì com'io m'avidi, con occhio avido
riguardò; ma pure fermo nella ostinazione contraria a' miei voleri si rimase.
Onde io, disposta a vincere lui, levato a me di sopra agli omeri miei il non
pesante mantello, come vinta dal caldo, aperto il vago seno, le bellezze di
quello, alquanto bassandomi, gli feci, sanza parlare, scoperte; le quali elli
non prima vide che, rotta ogni durezza, volse la prora a noi con queste parole:
«Giovane donna, attendi: io sono vinto dalle tue bellezze; ecco ch'io vegno
presto a' tuoi piaceri». Le quali voci, come a' miei orecchi pervennero, non
altrimenti mi fecero lieta che fosse il narizio duca già ne' porti della
figliuola del Sole, di Cileno conosciuto l'avvento a sua salute. Egli, disceso
in terra e fatto de' miei abbracciamenti degno, dopo la grave rozzezza
disposta, si rendé solennissimo: né più sommo di lui nelle nostre arti né di
maggiore fama alcuno oggi risuona ne' nostri regni. La qual cosa, considerata
l'avuta fatica, l'ardente fiamma e il ben seguito fine, d'ornarmi, di cantare e
di far festa mi sono sovente cagione. E però che favorevole fu Venere a' miei
amori, con incensi solenni e continui nelle sue feste visito i suoi altari e
spero visitare sempre col mio Affron. –
E queste voci finite, con piacevole nota
e soave cantando, cominciò questi versi:
[XIX ]
Pallade,
nata nel superno Giove
nel ciel mostrante più del suo valore,
qua giù ne spande quanto vuolsi e dove;
ond'ella
lui con perpetuo onore,
come benigno padre e come degno, 5
ha 'n riverenza con sincero amore,
mostrando
qui a noi com'al suo regno
salir si debba per etterna pace,
lasciando ogni altro sollecito ingegno;
e
con la industria sua ancor ne face 10
di grazia più che ne mostra 'l fuggire
da' fiumi stigii ove ogni ben si tace;
e
come qui, poposto ogni disire
de' ben fallaci, si debbia virtute,
per ben di sé, da ciaschedun seguire. 15
Per
costei le province hanno salute
reggono i re, e a' casi emergenti
riparo dan le sue leggi dovute.
Costei
cortese tututti i viventi
con alta voce chiama alli suoi doni, 20
sol che' chiamati al prender sien
ferventi.
Costei
l'antiche e nuove condizioni
con occhio chiaro memora e discerne
e le future con giuste ragioni.
Costei
ancor con le bellezze etterne 25
del viso suo più bello a riguardare
che altra vista mai fra le superne,
co'
suoi effetti si sforza a purgare
ciascuna nebbia delli cor mondani,
sol che 'l turbato la lasci operare, 30
rendendo
quinci gl'intelletti sani
così a' beni perpetui focosi
come eran prima ad acquistare i vani;
e
fa i suoi fra gli altri gloriosi,
piacevoli, gentili e ben parlanti, 35
solleciti, benigni e graziosi.
Oh
quanto son cotali effetti santi,
e come sé tra gli altri esser beati
si posson dir di quelli i disianti,
ben
che sien pochi, e molti gli abbagliati. 40
[XX ]
L'udite voci e i ferventi amori, la mira
bellezza e l'angelico suono con nota mai più da lui non sentita, ciascuna per
sé e tutte insieme oltre modo d'ammirazione riempiono Ameto, il quale fra sé
disiderava d'esser Affron, lui sopra tutti gli altri amanti felicissimo
reputando. E dice che molti meno prieghi a tirare lui bisognati sarieno, anzi
più tosto, s'elli credesse che gli giovasse, porgerebbe alla ninfa de' suoi.
Ella nel suo avvento gli piacea molto; ma ora vie più gli piace e giudica in se
medesimo, se possibile fosse dal cuore disciogliere il piacere di Lisia, che
egli il faria per servire a Mopsa: ma ciò non sente fattibile. Ma non per
tanto, con quella forza che puote, riceve con Lia insieme la bella donna, e
dove in prima passionato per una, ora per due si sente trafig gere. E quinci
levato il viso e volto un cerchio, lodate le parole e la canzone dell'ubidiente
donna, essamina a cui il secondo mandato imponga. E ad una che allato alla
prima di sanguigno vestita sedea, disse: – O giovane, a voi ora di seguitare
s'appartiene. –
Quella con atto vezzoso, bassata un poco
la fronte e per vergogna arrossata, disse sé apparecchiata ad ubidire; e quinci
con voce più espedita così cominciò a narrare:
[XXI ]
– In quelle parti le quali Alfeo, non
lento fiume, da alte grotte disceso, bagna con le sue onde, quasi nel mezzo tra
'l suo nascimento e la fine, nacque il padre mio. Il quale, ancora che quivi
plebeio fosse, agli ozii de' nobili si dispuose, lasciando la sollicitudine del
padre di lui, stata ne' servigi di Minerva continuo. Egli d'una ninfa di
Corito, garrula quale le figlie di Piero, questi luoghi colente, sopra le pulite
onde a noi vicine m'ingenerò e alle naiade de' vicini luoghi mi diede a
nutricare. E non molto spazio dopo il mio nascimento passò che egli al cielo
quello che qui n'avea rendeo interamente. Ma io, non seguente i canestri né le
lane della santa dea, alla quale il mio avolo era stato subietto, né gli ozii
del mio padre né le loquaci maniere della mia madre, a portare i vendichevoli
archi di Latona e a seguire lei ne' miei puerili anni mi diedi. E già
conosciute avea l'operate vendette da lei contro la superbia di Niobe, quando
essa ne' cori della figliuola mi mescolò a servirla; alla quale io piacqui
tanto che più ch'altra vergine lei seguente m'amò e con sollicito studio mi
fece dotta delle sue arti. Ma essendo io non molto men grande che io mi sia e
già da marito parevole, la mia madre un giorno con cotali parole mi prese:
«Emilia, cara figliuola e unica agli anni miei, lascia i presi studi, e
Giunone, a cui la tua forma non richiesta matrimonio richiede, di servir ti
disponi. Tu dei a me nepoti sì come io dovea alla mia madre. Li quali spero che
concedenteliti Lucina, ti loderai d'avere seguito il mio consiglio; dal quale
cessandoti, di necessità di me perderesti l'amore». La cui volontà conoscendo
io, prima alla mia dea cercato perdono e conosciutola di ciò consenziente nel
movimento benigno della sua imagine, a mia madre risposi me presta a'
matrimonii essere, ma non a lasciare Diana per altra dea, dove da lei rifiutata
non fossi. Consentì a questo la lieta madre e, trovato uno giovane secondo il
suo cuore, il cui nome grazioso mi piacque, a lui per isposa mi diede. Alla
casa di cui essendo io menata e gittati copiosamente sopra il mio capo i doni
di Cerere e fattemi torre tre frondi della ghirlanda d'Imeneo, testimonio della
mia verginità e festevole dimorante alle mie nozze, e entrata con le accese
tede nella camera del novello sposo, le quali credetti che più lieta mano
portasse che non portò, e la gran pompa de' festanti giovani e le varie maniere
degli strumenti ausonici essultarono. Lieta tra l'altre giovani, contenta mi
potea dire se Giunone, de' nostri matrimonii congiugnitrice, non avesse la mano
ritratta con isconci accidenti dalle nostre fortune; la quale non dubito che
più benivola a noi stata sarebbe se a' suoi doni avessi voluta la mia bellezza
prestare, lasciando Diana, la cui benivolenzia, a me mostrata ne' giovani anni,
mai non misi in oblio; e ancora che per li celebrati matrimonii del suo coro
degna non fossi di seguitarla, già mai non lasciai né da lei mi fu donato
congedo come a Calisto, con tutto che una volta gravante come quella apparissi
nelle sue fonti, con maschia progenie poi dal peso diliberandomi.
Non m'era dunque altra deità nota del
cielo, quando, non ha ancora gran tempo, visitando io li templi della nostra
città, e questo massimamente dove oggi i solenni sacrificii abbiamo celebrati,
ornata come sono al presen te e forse più vaga, nelli suoi luoghi, cantando un
giovane graziosi versi a' miei orecchi, m'apparve la santa Venere, de' suoi
cieli discendente in forma quale al reverente Anchise, fuggente gli sconci
incendii de' suoi tetti, nel tempo notturno infra le tenebre si mostrò la
chiara luce dell'avolo suo. Alla quale il tiepido cuore s'aperse nel primo
sguardo; e quella, con le sue fiamme entratavi subito, vi rimase, me di costumi,
d'abito e di modi in parte cambiando. E tanta fu di Diana ver me la
benivolenzia ferma che già per questo non mi negò la sua compagnia, ma parve
che io nella sua grazia crescessi.
Duranti adunque i nuovi fuochi della
santa dea nel petto mio, avvenne un giorno che, per questi prati soletta
passando con l'arco e con le mie saette, mi vennero alzati gli occhi: e in
aere, non sanza molta ammirazione, dinanzi ad essi vidi uno ardente carro
tirato da due dragoni, tale a riguardare qual forse quello di Medea fuggente
Teseo fu potuto vedere. Nel quale una giovane donna, nello aspetto altiera e di
fuoco così come il carro lucente, armata di bellissime arme, con uno cappello
d'acciaio con alta cresta e con iscudo, vidi reggente quello, e così veloce
corrente per l'aere quali le saette turchie pinte da forte nervo, sogliono
sanza alcuna comparazione volare. A lato alla quale uno spirito bellissimo, del
suo fuoco accendentesi tutto, vidi sedere; e con lei più volte tentata
l'entrata degli alti cieli, non conceduta loro, per l'aria vagabundi in voce
altiera faccendola risonare, andavano questi versi cantando:
[XXII ]
Quantunque
il capo oppresso di Tifeo,
Etna mostrante le sue ire accese,
sbrigasse sé giungendo a Lilibeo,
e
Pachino e Peloro le distese
braccia, e Appennin le gambe, tale 5
ched e' sorgesse a far le sue difese,
alla
nostra non fora mai equale
la sua potenza, quanto che si dica
che molta fosse già in ovrar male;
né
quella della gente che nemica, 10
i monti l'un dell'altro caricando,
infin al ciel di que' faccendo bica,
s'appressarono
a Giove minacciando
per torli il regno, e 'n Flegra poi
sconfitti
da lui ch'ancor li spaventa tonando; 15
né
qualunque altri mai furon trafitti
da tel celestiale: adunque presto
ci s'apra il cielo a cui saglian diritti.
Se
chi vi sta nostro valor molesto
non vuol sentire, e forse a' luoghi bassi 20
andare ad abitar, lasciando questo,
in
quello entrati, saran da noi cassi
l'iddii reggenti, o per grazia ad alcuno
simile scanno a noi forse darassi.
E
se resister volesse nessuno, 25
cacciandol quindi, il faremo abitare
misero con Pluton nel regno bruno.
Nostra
virtù sopra le stelle pare,
nobiltà non ha luogo ove ricchezza
i suo' difetti puote ristorare. 30
La
vigorosa e bella giovanezza
che posseggian ne fa vie più sicuri,
e d'animo e di cuor ne dà fermezza.
Qua'
torri eccelse o qua' merlati muri
ci negherien l'entrare in ogni loco 35
ove piacesse a noi, per esser duri?
Dunque
col carro su del nostro foco
tirati da' dragon ce ne montiamo,
già siam vicini a lui, già distian poco.
Se
c'è forse negato che v'intriamo, 40
come Feton l'accese altra fiata,
e così noi la seconda l'ardiamo
con
chi dentro vi sta, sì che l'enfiata
ira di noi dimostrian con effetto
a chi contrario è suto a nostra entrata: 45
e
così si punisca il lor difetto.
[XXIII ]
Li quali poi che tutti gli ebbi con
ritenente memoria compresi, bassati gli occhi, già più non potendoli rimirare,
riguardai i verdi prati, e in essi, quale Elena sopra il morto Paride fu potuta
vedere, m'apparve Venere. Ella, sedendo sopra le verdi erbette, teneva con la
destra mano le lente redine d'un cavallo lì dimorante, e con la sinistra uno
scudo e una lancia. E quasi piangendo, se piangere avessono potuto i divini
occhi, pareva; e uno giovane, tutto di bellissime arme armato, guardava davanti
a sé, il quale a me pareva giacente sanza anima. Io, prima presa non poca
d'ammirazione, più ne presi questo veggendo. Ma, secondo il debito costume
poste le ginocchia sopra la verde erba, con queste voci reverita prima la santa
dea, la domandai: «O santissima deità, madre de' piacevoli amori, acquistino le
voci della tua serva merito d'essere udite nel tuo cospetto, e a quelle con la
divina bocca, se degna ne sono, rispondi. E se è lecito che a' miei orecchi
pervenga, dicendolo tu, non mi si nieghi la cagione del tuo dolore, il quale,
nel viso divino mostrando li suoi vestigi, occupa non poco la sua chiarezza, e
chi costui sia il quale qui morto guardi, come mi pare».
Alle quali parole così con angelica voce
rispose: «Piacevole giovane, costui che tu qui vedi, dalla sua madre a me nella
sua infanzia lasciato, ho io ne' miei essercizii nutricato gran tempo, infino
che a questa età, che nel suo viso coperto di folta barba discernere puoi, co'
miei fomenti l'ho sanza fatica recato; e ne' miei essercizii li avea armi
donate e cavallo, e cintolo di milizia a me graziosa, come tu vedi. E ora che
le sue lunghe fatiche erano a' meriti più vicine, alcuna deità operante,
toltosi a me, il suo spirito vagabundo per l'aire, come hai veduto, ne va con
colei che più m'offende, ond'io quella noia in me ne sostengo che cape nel
divino petto. Ma perciò che, quello che uno iddio dispone, l'altro nol torna
adietro, com'io posso il soffero mal contenta».
Le sante voci, udite da me con animo
attento, mi fecero pietosa, e dissi: «O santa dea, dà luogo all'ira e tempera
le tue noie, alle quali tempo non si può torre: elle, ora che più aiuto che
altro bisogna, non ci hanno luogo. Io con umana mano, quando ti piaccia,
tenterò di fare quello che le divine costituzioni a sé non permettono, e forse
il tuo armigero ti renderò sano e con intero dovere disposto a' tuoi servigii».
E questo detto, ritenente l'arco e gli
strali nell'una delle mie mani, appressantemi al già freddo corpo, e il
battente ancora petto disarmato, alquanto, com'ella volle, toccai. Elli tremava
tutto mostrando paurosi segnali della vicina morte e con moti disordinati facea
muovere ciascuna vena. Ma poi che io col propio caldo della mia mano il petto
freddissimo tepefeci, manifestamente sentii li smarriti spiriti ritornare e i
morti risuscitare e il cuore rendere a ciascuna vena il sangue suo. Onde,
vedendo che 'l mio argomento traeva al fine desiderato, dissi: «Dea,
confortati: la smarrita e non perita vita ritorna in costui, il cui spirito,
dove che elli sia, rivocheremo con le nostre forze a' tuoi servigii».
E perseverando, la tenni tanto che,
quello riscaldato, al palido viso conobbi alcuno colore, ma poco ancora; e i
membri cominciarono con molto debole moto a muoversi, non altrimenti tremanti
che le piane acque nella sommità, mosse da pochi venti. E già la vita lontanata
da lui, appena sostenendosi, si levò a sedere, cotale e ne' modi e nello
aspetto quale colui apparve tramonti tesalici al non degno figliuol di Pompeo,
rivocato per li versi d'Eritto da' fiumi stigii; e una dolorosa voce mandata
fuori, se non che io il sostenni, saria caduto. Egli, vedendo con gli occhi,
stati per lungo spazio nelle oscurità di Dite nascosi, la pietosa dea nel suo
cospetto, appena lei sostenne di riguardare; ma vergognoso con atti umillimi,
sanza voce, però che ancora avere non la potea, dell'abandonata milizia cercava
perdono. La qual cosa vedendo la dea, contenta si dirizzò in piede, e benivola
a' suoi falli promise perdono; il quale, quando poi con più aperta voce il
domandò, pietosa concesse, ammonendolo che più nell'usato fallo non ricadesse,
se non per quanto gli fossero più care le tenebre d'Acheronte che la chiara
luca de' regni suoi. E oltre a ciò gli comandò, in luogo di ammenda del
commesso peccato, che me sempre come cagione della sua vita seguisse e onorasse
con sommo studio, e con viso pieno di letizia a' miei benefici il raccomandò
caramente. E questo detto, lasciando il luogo dipinto di maravigliosa luce,
flagrante di preziosissimi odori, fendendo l'aere, subita ricercò il cielo.
Ma io quivi sola con costui già
caldissimo in cotale guisa rimasa, contenta del dono a me dagli iddii
conceduto, lui già liberamente e sicuro parlante, della sua nazione, del nome e
de' suoi avvenimenti il domandai, acciò che chi mi fosse stato donato mi fosse
chiaro. Il quale così rispose alle mie voci: «Bellissima giovane, sola della
mia vita rimedio e sostegno, sopra Xanto, bellissimo fiume in Frigia corrente
con onde chiarissime, si veggono ancora le sparte reliquie della terra che per
adietro, da Nettuno construtta al suono della cetera d'Appollo, fu d'altissime
mura murata. Della quale, poi che il greco furore d'ogni cosa arsibile ebbe le
sue fiamme pasciute, e l'alte rocche, con dispendio grandissimo tirate inverso
il cielo, toccarono il piano con le loro sommità, e la rapita, cagione di
queste cose, ricercò le camere male da lei per molti abandonate, uscirono
giovani dannati ad etterno essilio. E vagabundi lasciati i liti africani, e la
gran massa premente la testa del superbo Tifeo e gli abondevoli regni d'Ausonia
e le rapaci onde di Rubicone e del Rodano trapassate, sopra le piacenti di Senna
ritennero i passi loro; e forse con non altro agurio che Cadmo le tebane
fortezze fermasse, fondarono una loro terra per abitazione perpetua e di loro e
de' successori. De' quali essendo già dodici secoli trapassati e del tredecimo
delle dieci parti le nove compiute, come ora del quartodecimo delle cinque le
due, poi che dal cielo nuova progenie nacque intra' mondani, di nobili parenti
discese una vergine la quale essi pietosi ad uno armigero di Marte congiunsono
con dolorose tede in matrimonio, bene sperantisi d'operare.
E così in quelli luoghi andanti le cose,
tra bretti monti surgenti quasi in mezzo tra Corito e la terra della nutrice di
Romulo, di Tritolemo, uomo plebeio di nulla fama e di meno censo, già dato a'
servigii di Saturno e di Cerere per bisogno, e d'una rozza ninfa nacque un
giovinetto di cui, sì come di non degno di fama, il nome taccio. Egli, benché
mutasse abito, coperti sotto ingannevole viso li rozzi costumi, ritenne del
padre in ogni cosa materiale e agreste e, non imitante i vestigi del generante,
si dispuose a seguitare con somma sollicitudine Giunone, la quale, a lui
favorevole, in quelli luoghi il produsse; e ne' servigii di lei, abondevolmente
trattando i beni di quella, per lungo spazio trasse sua dimoranza, e agl'incoli
parlando sé nobile, a' nobili cotale mestiere, quale il suo era, essere per
consuetudine antica mentiva. Dove dimorante elli, il dolente gufo donante
tristi agurii a' nuovi matrimonii della già detta vergine, con crudele morte
vegnenti le sue significazioni, fu levato di mezzo colui che, poco più che
fosse vivuto, mi saria stato padre; e lei, di senno e d'età giovinetta, sanza
compagno rimasa nel vedovo letto, nelle oscure notti triste dimoranze traeva
piangendo, infino a tanto che agli occhi vaghi di lei l'aveniticcio giovane di
venusta forma, non simile al rustico animo, apparve, ma non so dove; la quale
non altrimenti, vedendolo, sentì di Cupido le fiamme che facesse Didone, veduto
lo strano Enea. E come colei di Sicceo, così questa del primo marito la memoria
in Letè tuffata, cominciò a seguire i nuovi amori, sperando le perdute letizie
rintegrare col nuovo amante; le quali più tosto, avvegna che poche rimase, con
dolorosa morte, per le operazioni di lui, s'apparecchiavano di terminare. Esso,
non meno piacendo ella a lui che egli a lei piacesse, ardente di più focoso
disio, più sollecita di perducere ad effetto l'ultime fiamme, le quali non si
doveano spegnere se coperto inganno non ci avesse le sue forze operate.
La giovane, del suo onore tenera, resiste
con più forza a' suoi voleri, e dubbiosa degli stretti fratelli sta ferma alle
battaglie de' focosi disii; per la qual cosa a ciò perducere non si può ciò che
cerca colui.
Ma le varie sollecitudini e continue
tirano a compimento uno de' pensati modi dal giovane. Il quale in parte segreta
trovatosi con lei, l'uno e l'altro tementi con voce sommessa a' loro
congiugnimenti invocarono Giunone; e a lei chiamata porsero prieghi che con le
sue indissolubili leggi fermasse gli occulti fatti, e i patti, da non rompersi mai,
servasse nella sua mente, infino che licito tempo con degna solennità
concedesse che que' s'asprissono, ultimamente giurando per la sua deità l'uno
all'altro che allora, fuori che per sopravegnente morte, l'uno sarebbe d'altrui
che dell'altro, o l'altro d'altrui che dell'uno, che Senna, in su rivolgendo le
sue onde, fuggisse dal mare. Giuno fu presente e diede segni d'avere intese le
loro preghiere e, dimorando quivi, diede effetto agli amorosi congiugnimenti,
de' quali io, a miglior padre serbato se 'l troppo affrettato colpo d'Antropòs
non fosse, nacqui; e da loro Ibrida fui nomato e così ancora mi chiamo.
Ma il mio padre, sì come indegno di tale
sposa, traendolo i fati, s'ingegnò d'annullare i fatti saramenti e le
'mpromesse convenzioni alla mia madre. Ma l'iddii, non curantisi di perdere la
fede di sì vile uomo, con abandonate redine, riserbando le loro vendette a
giusto tempo, il lasciarono fare; e quello che la mia madre gli era si fece
falsamente d'un'altra nelle sue parti. La qual cosa non prima sentì la
sventurata giovane, dal primo per isciagurata morte e dal secondo per
falsissima vita abandonata, che, i lungamente nascosi fuochi fatti palesi co'
ricevuti inganni, chiuse gli occhi e del mondo a lei mal fortunoso si rendé
agl'iddii. Ma Giunone né Imeneo non porsero alcuno consentimento a' secondi
fatti, bene che chiamati vi fossero: anzi, essecrando l'adultera giovane con lo
'ngannevole uomo, e verso loro con giuste ire accendendosi, prima privatolo di
gran parte de' doni ricevuti da lei e dispostolo a maggior ruina, a morte la
datrice, la data e la ricevuta progenie dannarono con infallibile sentenzia,
visitando con nuovi danni chi a tali effetti porse alcuna cagione. Ma io,
venuto ne' discreti anni, questa dea alla quale piccioletto rimasi, e a cui
molto di me è caluto, seguendo nelle palestre palladie, come a lei è piaciuto,
con diversi ingegni ho le mie forze operate; e sì m'è stata benivola la fortuna
che in quelle da molti sono stato e sono reputato agrissimo pugnatore.
Questa cosa, avendo partorito
graziosissimo fiore, riuscì a pessimo frutto e non pensato, però che, per
questi effetti forse non meno d'Ercule reputandomi degno, oltre al piacere
dell'iddii, con la mente levato in alto cercava i cieli, come voi vedeste, ne'
focosi carri tirati da' fieri draghi. Ma in quelli niuna entrata ne fu largita,
e già prontissima ruina, mancante a' tiranti la forza, ci s'apparecchiava, la
quale forse sanza inrevocabile morte non saria stata. Fui adunque e sono in
vita per voi rivocato, come vedete, e perciò sì come a vostro e sempre a'
vostri piaceri disposto, imponete regola qual vi pare, sicura che quella, con
passo continovo, che voi direte, seguirò studioso».
Poi che elli ebbe così detto, rimirandomi
fiso, si tacque. Ma io niun'altra legge imposi alla rivocata anima se non che,
seguendo l'usate palestre, facesse di fare frutto quale il già bello e aperto
fiore mostrava dovere producere, e che dopo la dea io sola nel mondo fossi
donna della sua mente, quelli doni promettendoli in merito che può donare la
mia dea. –
E poi che così ebbe detto infino a qui,
la bella donna, seguendo l'ordine incominciato dall'altre, con voce piena di
melodia così cominciò a cantare:
[XXIV ]
Diana,
gli aspri fuochi temperante
con le sue onde, e con arco protervo
chi la volesse offender minacciante,
indarno
mai di quel non tira nervo
ver chi le spiace, sì come Atteone 5
il sentì tristo, convertito in cervo.
Con
dritta lista a ciascun sua ragione
di dar le piace, e fa sì che Astrea
giusta non fa d'alcuno eccezione.
Chi
segue i suoi piacer convien che stea 10
a tal dover con l'animo subietto:
che quel ch'a sé non vuol altrui non dea,
seguendo
sempre in sé il viver retto
sanza offender altrui, ognor rendendo
a ciascun quel ch'è suo con sano effetto. 15
Costei,
di spada armata, in man tenendo
giusta balluca, graziosamente
l'umile essalta, il superbo premendo.
Quando
costei è nel mondo possente
la matta cupidezza e disfrenata, 20
madre di brighe e di quistion movente,
è
sì da lei col suo valor recata
che' termini non passa del dovere
che del passar non sia tosto purgata.
E
se la gente che vive, in calere, 25
come conviensi, l'avesser, già mai
nullo s'avria con ragion da dolere.
Ma
i dolenti che ad etterni guai
disposti sono e ogni dì più presso
si fanno a que' che lor saran sezzai, 30
al
barattare occulto ognuno è messo,
in voce aperta chiamando costei
che di ciel nota di ciascun l'eccesso;
la
quale a tempo ancor verrà, con lei
l'ira di Giove scendendo focosa, 35
e sanza aver pietà punirà i rei.
E
giusto è che chi lei graziosa
non ha voluta, con aspra vendetta
crudel la senta sopra sé crucciosa;
e
io la cheggio sì che chi l'aspetta, 40
benigno goda; e gli altri tribolati
da crudi affanni muoian con lor setta,
lasciando
in pace qui poi i beati.
[XXV ]
Finito il grazioso canto della donna
bella, il quale fu cotale nelle orecchi d'Ameto quale quello d'Atlanciade in
quelle d'Argo, egli, già sentente il terzo fuoco, rivocò gli occhi dallo
angelico viso di lei, e sospirando con tacita voce disse: – O Inache, minore
cosa sarebbe e a te molto più lie ve, benché ogni cosa igualmente possibile sia
appo te, di farmi in Ibrida convertire e Ibrida in Ameto, che non fu rendere
alla pregnante madre la femina Ifi maschio. Oh quanto io il disidererei e quanti
prieghi ti sarebbono da me porti devoti, s'alcuna speranza avessi di cotal
grazia! –
Dopo queste parole, con voce più alta,
riguardando le aspettanti donne, disse: – O bella donna, seguite le prime col
grazioso canto e col parlare. –
Alle quali parole la ninfa, di purpurea
veste coperta, sentendo che a lei dicea, dopo un leggiadretto riso, levata alta
la testa, così cominciò a parlare:
[XXVI ]
– E' non sarebbe forse men senno il
tacersi a me, avendo due sì fatti amori uditi ora davanti dalle due donne. E
certo io il farei se sanza il proposto e cominciato ordine guastare far si
potesse; ma però che fare non si può, le mie tiepide fiamme a rispetto
dell'altre racconterò. Cipri, di molte città ricchissima, tenne il padre mio,
non di sangue né d'animo popolesco, ma di mestiere. Egli posta tutta la
sollecitudine a' beni di Saturnia, per divenire copioso di quelli, l'onore
della sua milizia n'abandonò, disponendo il forte scudo, nel quale i raggi di
Febo e l'animale di quella casa, nella quale egli più si rallegra nel cielo,
nel colore d'esso figurati portava. Ma, già di quelli pieno, la mia madre per
isposa s'aggiunse, allora di bellezza famosissima ninfa in tutto Cipri; e il
loro matrimonio fu felice e nel cospetto degl'iddii accettevole, però che me
con molti altri figliuoli generarono, simiglianti ciascuno a' suoi parenti. Ma
mentre che io, giovinetta e lasciva, tirava semplice alli fermi anni le fila di
Lachesìs, Pomena sollicita, nelli spaziosi orti avendo veduto dell'umore d'uno
giovinetto rampollo di pero d'uno antico e robusto pedale e della virtù de'
solari raggi, mediante una ninfa, nascere un bel garzone, con graziosa cura il
nutricava, quasi nelle sue delizie nato; e però che umile il vedea e pacifico, di
Pacifico nome li fece dono. Elli con l'effetto seguendo quello, venuto in età
ferma, per servidore il diede al suo Vertunno e, poi che a quelli anni fu
pervenuto ov'io correa, a me per marito l'aggiunse. Egli mi piacque e piace
sopra tutte le cose, né altro mai me 'l fece o farebbe dimenticare. Tenendomi
adunque così di costui l'amore, com'egli Vertunno così io Pomena proposi di
seguitare e d'essere nelle sue arti dotta per fuggire gli ozii; né fu
dall'avviso di lungi l'effetto, però che, a' suoi servigi profertami, da essa
graziosamente ricevuta fui. La quale me, dalle facce di Diana nomata, continuo
mi chiamò Adiona; e presami per la destra mano mi disse: «Vieni vedi gli studi
miei: vedi dove io le mie fatiche consumo».
E mossa, mi menò ad una porta d'un suo
giardino, nella quale entrata, mi fece conte le sue delizie. Per lo quale io
seguitandola, vidi mirabile ordine ne' suoi fatti; e Apollo tenente del cielo
quella parte che ora trascorre, più i lavorii abelliva. Egli, secondo l'avviso
dell'occhio, corrente per tute le parti presto, era quadro, di bella grandezza;
e ciascuna faccia di quello, da alte mura difesa, con dritto riguardo rendeva a
una plaga delle mondane, né d'esso vacante particella alcuna, né occupata male,
vi si potea conoscere. Egli avea intorno di sé per tutto pianissima via, non
d'altra larghezza che quella che noi, qui dimoranti, diritta mena al tempio
dove oggi fummo. La quale per tutto si puote non altrimenti veder coperta delle
fila e delli stami delle figliuole del re Mineo, legate e stese con mani
maestre sopra le incrocicchiate piante di Siringa, che sieno i lunghi atrii de'
gran palagi con tonda testuggine di pietra coperti; e co' oro fiori, odori
graziosi rendenti ne' tempi dovuti, si posso no vedere cariche d'uve dorate e
purpuree di diverse forme, i pedali delle quali, congiuntissimi col muro, niuno
impedimento porgono a chi vi passa. Intorno al quale, in piccolo poggio levati,
per luogo de' faticati sono di pietra graziosi scanni, li quali tanto dal muro
con la loro ampiezza si scostano che, non togliendo luogo a chi sedesse, largo
spazio concedono ad erbe di mille ragioni.
Quivi si vede la calda salvia con copioso
cesto in palida fronda, e evvi in più alto ramo con istrette foglie il ramerino
utile a mille cose; e più innanzi vi si truova copiosa quantità di brettonica,
piena di molte virtù, e l'odorifera maiorana con picciole foglie tiene
convenevoli spazii insieme con la menta; e in un canto si troverebbe molta
della frigida ruta e d'alta senape, del naso nimica e utile a purgarsi la
testa. Quivi ancora abonda il serpillo, occupante la terra con sottilissime
braccia, e il crespo bassilico, ne' suoi tempi imitante i garofani col suo
odore, e i copiosi appi co' quali ercule per adietro solea coprire i suoi
capelli. Quivi malva, nasturzi, aneti e il saporito finocchio col frigido
pretosillo. Ma perché mi stendo io in queste menome cose? Io non ne saprei
nominare tante che tutte quivi non sieno, e molte più. E perciò, procedendo
all'altre cose, dovete sapere che l'opposita parte a questa, cioè l'altra parte
della già detta via, difendente con più piacevole resistenza, toglie all'andito
gli aguti raggi d'Appollo. Ella è di diritti pedali di diversi alberi
<seminata>, spessi e distanti a misura; e, sostenenti l'abondevoli viti,
chiudono la via erbosa da' solchi con chiusura di canne, con loro congiunte con
tegnente vinco, non in altra maniera che appaiano le 'ngannevoli reti stese a'
passi de' fuggenti animali. E quelle non occupate si veggono da vitalbe,
abondevoli di bianchi ligustri; ma, come l'ellera l'olmo, così da spessissimi
gelsomini e da pugnenti rosai sono per tutto cinte. E come 'l cielo di molte
stelle nel chiaro sereno a' riguardanti par bello, così quella verdeggiante non
meno, veggendola piena di fiori e di bianche rose e di vermiglie, molto già
disiate da Lucio allora che, asino divenendo, perdé l'umana forma, e in alcune
parti di bellissimi gigli. Né è di quella via il suolo dall'arido paleo
occupata, né in tutto la cuopre l'abracciante gramigna, ma lieta si vede di molti
fiori. Quivi Narcisso e il pianto Adone e l'amata Clizia dal Sole si vede,
ciascuno in grandissima abondanza, e vedevisi lo sventurato Iacinto e la forma
di Aiace e qualunque altro più bello a riguardare; e di tanti colori è dipinto
il luogo che appena ne tengono tanti le tele di Minerva o i turchi drappi.
Questo, fatto come io disegno, cercato
tutto intorno, come piacque a Pomena, entrammo per una via movente dal mezzo
dell'una delle quattro facce, non d'altra qualità che le dette: fuori che, dove
quelle da muro dall'una delle parti difese sono, queste da ogni parte da fiori.
E per quella andati, pervenimmo in uno bellissimo prato di grandezza decente a
quel giardino, sopra il quale, quadro, tre altre ne rispondieno, ciascuna dal
mezzo mossa della sua faccia, e qui, nel mezzo di quella del prato rispondente,
finiva, fatte sì come l'altre. Ma l'occhio mio, andante alle cose alte, quello
prato vide coperto di simile copritura che le vedute vie, in forma quale ne'
battaglievoli campi i tirati padiglioni mostrano i colmi loro.
Questo con l'altre cose vedute, a me
molto piaciute, sanza fine lodai; e l'occhio, tornando alle cose più basse, mi
diè cagione di maggior maraviglia, e mostrandomi cosa non meno degna di loda,
quasi quelle mi fece dimenticare. Io vidi nel mezzo di quello una fontana di
bianchissimi marmi, per intagli e per divisi e per abondanza d'acque molto da
commendare, le quali così copiose e scarse moveano da quella, come Pomena
volea.
Esse, alcuna uscenti per sottil canna, si
levavano verso il cielo e, ricadenti nell'alta fonte, faceano dolce gridare; e
altra volta all'erbe del prato, aperti piccioli fiori, molto a sé gittavano
lontano; e quindi per occulte vie il bello giardino rigavano tutto, come Pomena
mi disse e fé palese. Io riguardai questa lunga fiata, ma poi per picciolo
cancello, come Pomena volle, entrai nell'una delle parti aperta al cielo, e
quivi manifesta cognobbi la dignità degli alberi di quello orto, a me ancora
per le graziose ombre non potutasi palesare. Io vidi sì come il quadro teneva
alberi d'ogni maniera; de' quali tutti sopra i legati tralci, li quali i loro
pedali sostenevano, si stendevano i torti rami non altrimenti che sopra le
merlate mura si mostrino l'alte torri imbertescate.
Io conobbi quivi nell'uno de' canti gli
antichi pedali di Baucide e di Filemone, pieni nelle loro sommità di rugose
palme; nell'altro canto, altissima e con etterne frondi, era la non pieghevole
Danne, qui a noi similmente soprastante; nel terzo canto era l'albero cercante
il cielo con la sua sommità, nel cui pedale si mutò il fanciullo Ciparisso; e
il quarto luogo teneva il cretense abete più bello all'occhio che per frutto
utile. In mezzo di questi si sariano annoverati molti meranci carichi ad una
ora di fiori e di verdi frutti e di dorati, tra' quali, avvegna che radi
fossero, si vedevano gli alberi a' quali la misera Filis aspettante Demofonte
diede principio, e gli sparti fichi aspettati dal corbo, e le piacevoli
castagne difese da aspra veste, state già care ad Amarille; e nel mezzo dello
aperto luogo, forse di non minore grandezza che quella che il matto Erisitone
violò con la tagliente scure, stava una bellissima quercia porgente grandissime
ombre con gli ampi rami, di nuove frondi carichi e mostranti lieti segnali di
copiosa prole. Né è da credere che di quelli luoghi fossero i solchi voti,
anzi, di varie biade pieni e già biancheggianti, davano segnali di loro
maturezza. Di questa parte passai nell'opposita, la quale, come la prima,
d'alberi varii circundata conobbi. Ella mi mostrò sopra l'uno de' canti
l'antico pero, la cui pianta avea generato il mio marito, e l'uno e l'altra
carica de' suoi frutti; sopra l'altro canto il palido ulivo, caro a Pallade
molto, di rami pieno si vedea e di frondi, significante con abondevole segno i
futuri frutti. E l'angulo a questo seguente teneva la frigida noce, dante a se
medesima co' suoi frutti cagione d'asprissime battiture; e nell'altro uno olmo
altissimo, congiunto con l'amichevoli ellere e con l'usate viti, intra' quali
gran copia di pugnenti pruni, belli di verdi frondi e di bianchi fiori. Quivi
in molte verghe surgeano avillani, e più presso a' solchi correnti pieni
dell'acque versate dalla fontana erano le misere sirocchie di Feton e la
piagnevole Driope e la lenta salice; e se il dolente Idalago fosse stato mutato
in pino, io avrei detto che quello che quivi in mezzo degli scoperti solchi
vidi, fosse stato desso; ne' quali solchi si vedevano gli alti papaveri, utili
a' sonni, e i leggieri fagiuoli e le cieche lenti e i ritondi ceci con le già secche
fave, ne' suoi luoghi divisi ciascuno.
Ma io, venuta di questo luogo nel terzo,
il vidi intorniato di sparti meligranati, e in una parte mi parve conoscere la
piagnevole pianta della mutata Mirra, abominevole per li suoi amori, e vidi le
mutate radici del gelso col suo pedale e co' suoi frutti per la morte de'
bambillonici giovani; e pieno di fioriti meli. Ma il suolo era ripieno di
fronzuti cavoli e di cestute lattughe e d'ampie bietole e d'aspre borraggine e
di sottili scheruole e di molte altre civaie. E così nel quarto la pianta dante
l'incensi, stata non molto avanti mutata dal sole, e il corniuolo di poco
tornato da udire la cetera d'Orfeo, e le care mortine alla nostra dea, e
l'eccelso ciriegio e il lazzo sorbo e il fronzuto corbezzolo e l'alto faggio e
il palido busso e più altre piante, le quali lungosaria il narrare, sotto le
quali la terra di dovere producere mostrava le cipolle coperte di molte vesti e
i capituti porri e gli spicchiuti agli; e oltre a ciò i lunghi melloni e i
gialli poponi co' ritondi cocomeri, e gli scrupolosi cedriuoli e' petronciani
violati con molti altri semi, de' quali la terra vie più s'abellia. E certo
appena pure queste dette mi poterono, molte volte vedute, rimanere nella mente,
le quali, se la vista d'esse e dello inestimabile ordine posto a quelle non mi
fosse veridica testimonia, l'audito non vi darebbe fede. Ma perché mi voglio io
distendere in ogni cosa e multiplicare in parole? Voi dovete imaginare come
egli stea per quello c'ho detto. Il quale così veduto e tutto cercato, Pomena
lodando l'opera sua, dimandatami del mio parere, con vera risposta la ne fe'
certa. Ella, postasi a sedere sopra le piacevoli erbe, e io con lei, mi mostrò
quali parti del giardin fossero a diversi alberi utili, e quali io dovessi da Euro
e quali da Borea o da Austro guardare, e quali al soave Zeffiro sanza alcuno
ostaculo concedere, e quanto per ciascuno dovessi la terra cavare, e quale
barbato e quale sanza barbe si potesse piantare; aggiungnendo a questo quali
lune e quali disposizioni d'esse fossero utili, e come gli olmi si dovessero
delle viti accompagnare, e quale età d'essi era più atta a tale commerzio. E
insegnommi come e in che tempo gli occhi d'uno albero nelle tenere cortecce
dell'altro pigliassero forze. E dopo questo m'aperse come sopra i susini
nascessero i mandorli, e i robusti peri nutricassero gli altrui figliuoli e
qualunque altri; e poi mi disse quando con curva falce i lussurianti rami di
tutte le piante siano da reprimere e come da legare, e in quali ore l'onde si debbano
porgere agli assetati solchi e similmente i semi, e di che erbe si debbano gli
orti purgare e quali in essi con abondanza lasciare multiplicare, e come
chiuderli e da cui guardarli, e in che modo si servino i ricevuti frutti. Tutte
queste cose mi furono carissime; e con diligenzia dandole l'apprensiva, alla
memoria le guardava. E con lei mi diedi a nuovi lavorii nel grazioso giardino,
nel quale se forse alcuna volta delle fatiche o dal caldo eravamo vinte, o
sedenti sopra le tenre erbe davamo gli orecchi a' canti de' varii uccelli o con
diverse parole imbolavamo le non utili ore a' nostri affanni. Ella mi solea
alcuna volta dilettare con queste parole, dicendo: «Giovane, a me come me
medesima cara, io non dubito che, vedendo tu il giovane giardino e il mio viso
non mostrante ancora alcuna crespa, me reputi d'età vota: ma io, antichissima,
ho la presente forma con laudevole stilo servata ne' miei lavori bella, come tu
vedi; e voglio che ti sia nota cosa di maggior maraviglia. Io fui nata ne'
primi secoli e co' primi uomini la mia puerizia consunsi, li quali di me niuno
bisogno aveano; e il perché udirai. Allora che la mia madre mi diede al mondo,
Saturno i cari regni dell'oro governava ne' correnti secoli sotto caste leggi,
e nel suo senno abondava ciascuna provincia tenente uomini. E la terra, più
copiosa di beni che di gente, per sé a' rozzi popoli fedele donava nutrimenti,
però che le ramose querce abondanti di molte ghiande sodisfaceano a tutti i
digiuni. E credesi che Dadona allora per santissima selva e sì come molto utile
al mondo fosse da' viventi con festevole voce onorata. E i fuochi solamente o
nell'acque o sopra le sue brace davan le carni mal cotte de' presi animali a'
cacciatori, e le crude radici delle non conosciute erbe parevano dolcissimo cibo
a qualunque persona. Niuno fiume era che non desse dolcissimi beveraggi a' suoi
popoli: Ganges, dante le prime vie al sole con le care arene ancora non
conosciute, dava, alli suoi, soavissimi beri con le chiare onde, e Idaspen era
per molte cose caro agl'Indiani; ma più per quella. Nifate similmente era nella
sua chiarezza con diligenzia dalli Ermini servato a mitigare le seti; e i
celestiali Tigri e Eufraten di questa medesima cosa contentavano i Persi, e
l'egiziaco Nilo, bagnante per sette porte la secca terra, con argentate onde
rinfrescava le aride gole. E chi dubita che Tanais sotto freddo cielo, se
ancora si vedeva alcuno popolo, era loro caro per quei bisogni? E i regni che
doveano essere di Danao, rigati d'Acheloo, d'Alfeo e da Penneo, ancora non
padre della rigida vergine, e di molti altri, erano tutti per tale mestiere
spesso riveduti insieme con Inaco. E Xanto e Simois, non aventi ancora vedute
le rocche di Nettuno, furono più cari a quel tempo per bere che poi per
ispegnere le greche fiamme, se alcuno fu che con isperanza di campare
l'adoperasse. E Rubicone, che dovea l'ardito passo prestare a Cesare, e Albula,
lui aspettante, e a cui gli onori del mondo doveano tutti essere sottoposti e
palesi, non avente ancora per lo ricevuto re nelle sue onde mutato nome, se non
aveano popoli, care davano le loro onde agli animali. E il tempestoso Danubio,
crescente per le risolute nevi, e Isera erano lietemente gustati da' popoli,
oggi di quelle nemici, altressì come Eridano a' Liguri.
E brievemente in ogni parte Tetis,
graziosa delle sue onde, sanza porgere cagione di vizio, usava le sue cortesie.
Questi così fatti popoli coprivano i corpi loro, ancora non tementi i rigidi
freddi, delle vellosi pelli delli scorticati leoni o di qualunque altro
animale; e il sangue del tiro non era ancora conosciuto né caro per dare i
varii colori alle lane, che per se medesime cadevano delle non tondute pecore,
solo per lo loro latte tenute care.
Gli altissimi pini erano, a queste,
graziose ombre e a' caldi e alle piove, e le cresciute erbe davano graziosi
sonni, e ciascuno in sé, ad essemplo degli altri animali, teneva i libidinosi
voleri reprimuti, fuori che allo ingenerare.
Questi così fatti tempi trascorrevano con
picciolo bisogno delle mie fatiche sì come ristretti solamente nelle
bisognevoli cose alla natura. Ma la Terra, prontissima a' danni suoi, cacciato
Saturno, ricevette per re Giove, le cui leggi furono molto più larghe e i suoi
secoli meno cari. Costui generò Cerere, la quale, aggiunti i carri suoi a'
colli de' tiranti serpenti che mai per solco di bionda biada non erano iti,
discorse il mondo; e la terra, sostenitrice di tutti gli affanni, ancora
intera, rotta da Saturno col ricurvo aratro, ricevette i nuovi semi con diversi
lavori prestati alla sua fede, e la non conosciuta biada con alte spighe rendé
in molti doppi. E così recate da Cerere le non sapute abondanze, si tolse via
l'uso delle non libidinose vivande. E a costei sopravvenne Bacco, nato della
consumata Semelè, iddio riverito molto da' Tebani, il quale, ne' suoi giovani
anni fattosi per molti paesi cognoscere, riempié de' suoi doni Nasson e Chia e
Nisa e Elea e il monte Falerno e Veseo e altri luoghi assai; e infino in India
i suoi usi n'andarono. Questi al mondo, già più pieno di gente, mostrò diversi
modi agli usi suoi, e aggiunse odori e forze diversamente di più spezie a' suoi
licori, e in tutto s'ingegnò di torre via le forze della già poco potente
Tetide. E venne chi trovò mille modi, con nuove vivande, da lusingare la non
sazievole gola: e i già mutati compagni d'Aceste, e Dirce, figliuola del
superbo Nino, e la non savia Nais co' suoi giovani paurosi nuotano per le
nascose acque, con gli altri lungamente stati sicuri della età non conoscente
le loro carni viscose.
E il lino, cresciuto già ne' campi, in
danno degli uccelli mostrò le forze sue, e gli spezzati monti e la terra cotta,
con lavorato bitume raggiunti, più sicure tolsero via l'uso dell'ombre de'
pini. E Minerva, mostratasi rozza infino a quelli tempi alle genti che di così
fatta <vita> erano contente, con più sottile ingegno mostrò i suoi
artificii e insegnò le raccolte lane tirare in ritondo filo e di quelle
comporre tele più utili a' vestimenti che le salvatiche pelli. E l'erbe,
mostranti ne' campi ancora i loro colori, fece conoscere come, in quelle lane
operantesi, le muterebbono in varii, e i piccioli aragni faccenti più preziose
fila, usi di consumarsi in esse, cominciarono ad essere rubati da cupide mani.
E infino a questi tempi Cupido con picciolissime penne, non potendo volare, nel
seno della madre s'era nutricato; ma venuto in perfetta età e avendo l'alie
grandissime, cominciato a volare, con le sue saette minaciando e ferendo, come
gli parve il mondo discorse. Venne poi Sardanapalo a mostrare come le camere
s'ornino, e Gaio Pensilia trovò l'uso de' bagni non mai saputo; e molte altre
cose sopravvenero, le quali insieme diedero aperta via a' superbienti Giganti e
a' peccati di Licaone e a qualunque altro, onde seguio che la terra, non avente
ancora gustato il sangue umano, nella battaglia di Flegra l'assaggiò.
Da queste cose e dal non bene cultivato
iddio nacquero i diluvii e le varie mutazioni delle umane forme, e i mali
ebbero luogo nelle menti degli uomini; Iaonde io, bisognevole alle età
dissolute, cominciai ad avere sollicita cura de' miei giardini, come tu puoi
vedere».
Queste parole ascoltai io, e a tutte
diedi debita fede e vere l'affermai con la mia risposta. Ma poi che con così
fatti ragionamenti o con simili avevamo alle sopravenute fatiche rendute
vigorose forze, noi ci levavamo a' nostri lavori sanza lasciare passare perduta
alcuna particella del non ricomperevole tempo. E mentre che io, alcuna volta
con la mia Pomena e altre sola, andava per lo bello giardino aprendo le vie
all'acque, risecando i troppi lunghi rami e rilegando gli sciolti, avvenne un
giorno per avventura che, avendo io con la falce tagliate superflue mortine e
fattami una ghirlanda, sì come a Pomena in altra forma apparve il suo Vertunno,
così nella propia mi si mostrò la santa dea di cui parliamo, con non mutato
aspetto dalla sua divinità; e a me stupefatta, con voce alla nostra dissimile,
così disse: «O giovane, ora passerà sì notabile forma come la tua, degna per la
sua bellezza de' nostri regni, alla fredda vecchiezza sanza le nostre fiamme
aver sentite?».
Io, non usata di così fatte voci, timida,
dubitando di peggio, cominciai a tremare come il mobile giunco mosso dalle
soavi aure, e la falce cadde delle mie mani e io appena mi ritenni. Ma pure
così pavefatta sopra le zolle del solcato orto bassai le ginocchia e dissi:
«Dea, così sia dime nel tuo cospetto come ti piace».
Questa allora, lieta appressantesi a me,
credendo io ch'ella mi volesse baciare, espirommi non so che in bocca; né prima
così ebbe fatto che io mi sentii dentro accendere d'uno subito fuoco e ardere
non altrimenti che le raccolte paglie negli sparti campi di monte Gargano, poi
che il lavoratore v'ha sottoposte l'accese fiaccole.
E partitasi la santa dea, già cominciava
ad avere maggior paura, quando con piacevoli parole la mia Pomena mi rifece
sicura, lodandomi che queste fiamme mandassi fuori per alcuna bellezza: ma io
rozza in queste cose appena la 'ntesi. E pure seguendo lei, avvenne un giorno
che, andando noi dintorno all'orto nostro, dinanzi m'apparve un giovane di
maravigliosa bellezza, dal cui viso con maestra mano la barba era stata levata.
E i capelli, biondi come oro, con maraviglioso ordine ricadevano ne' loro
luoghi, e i vestimenti, di color varii, d'oro eran lucenti e di pietre; e così
ornato quasi come una donna, pieno di sonno per soperchi cibi, come io avvisai,
in atto lascivo con parlare rotto, sozzo e non continuo disteso stava a fresche
ombre. Non i modi di costui, ma la forma piacque agli occhi miei, li quali io
propuosi di fare ch'egli lasciasse; ma non potendo tosto come io volli, più
volte mi fu cagione di dannare me medesima per elezione pessima fatta di tale
amante. E s'io avessi potuto tirare indietro l'ardente disio, sanza dubbio
l'avrei tirato; ma sì era già forte il fuoco acceso ch'elli crescea, quando l'aure
s'ingegnavano di spegnerlo.
Laonde io, come vinta, propuosi di
seguitare con fermo animo la'ncominciata opera; e quando con occhio vago e
quando con altri cenni mostrandogli le mie fiamme, m'ingegnava d'accenderlo di
quello disio nel quale io ardeva; ma egli, non curantesi di me, solo alle sue
lascivie sollecito trascorreva.
Adunque, costui così da me seguito più
tempo sanza muoverlo se non come pietra, quasi disperatamente, avvenne un dì,
essendo già il sole caldo, come elli è ora, che io ne' santi templi da noi
visitati il trovai; quivi mi dispuosi d'aprirli il mio disio con vere parole e
di sentire l'ultimo fine del suo intendimento, disposta di spegnere per forza i
miei disii se lui a quelli pieghevole non trovassi. Ma prima con altre parole
volli tentare il dubbioso ragionamento acciò che a quello meno tremante
giungnesse la lingua; e chiamatolo, sedendo con lui, così gli dissi: «Giovane,
la tua età, l'abito e la forma mi fanno vaga di sapere che tu sii e donde e
qual è il nome tuo: e però piaciati di finire con vere parole i miei disii».
Allora egli mi riguardò così parlando:
«Ninfa, le tue parole mi danno non poca d'ammirazione pensando che tu di me non
abbi notizia, il quale in Cipri, comune luogo a te e a me, sono conosciuto da
tutti; ma non per tanto la tua bellezza, se tu nol sai, merita ch'io il ti
dica. E però sappi che 'l mio nome è Dioneo e in me cosa non udita giammai
udirai, cioè che io, figliuolo di due iddii, da loro fossi generato mortale, di
che non poco m'ho a dolere; e se in loro, come ne' mondani potrei, potessi le
mie ire vengiare, io il farei sanza fallo».
Le cui voci, stendentisi in altre parole,
rotte da me, il domandai chi fossero gl'iddii; a cui egli rispose: «Chi fossero
gl'iddii e come m'ingenerarono ti sarà noto. Bacco, a tutto il mondo notissimo
per le ricevute vittorie in India, mi fu padre: questi, celebrantesi in Tebe,
amantissima terra la sua deità, i suoi sacrificii, venne a' templi suoi, e
quivi, sonati i tamburi e i rauchi corni e i tintinnanti bacini in segno de'
suoi triunfi, s'adornò dell'usate corna; a' quali Cerere, tirata dalli suoi
draghi, corse con le sue copie e aumentò in grandissima parte la sante feste.
Ella era bellissima, e l'arte avea cresciuta la sua bellezza e similmente la
festa. Per la quale andante ella intorniata di molte fanti, piacque agli occhi
del padre mio, e con ardente disio cominciò a disiderare i suoi abbracciamenti.
Ma poi che i tumultuosi giuochi e i varii diletti ebbero ampliati gli animi di
tutti, e quelli della dea altressì, Bacco, veggentesi il tempo opportuno,
procedero ne' suoi disii, e con favorevoli braccia presa la non renitente
donna, e portatalane, è da credere che egli avesse interi i suoi diletti; de'
quali io nacqui e, copioso de' loro beni, altro difetto non sento che quello
che già vi dissi».
Egli non diceva più, onde io incominciai:
«Giovane, la tua bellezza non merita morte, la quale, se tu i miei piaceri
vorrai seguire, levandolati, come i tuoi parenti ti farò immortale. E non ti
maravigliare delle mie parole, ché il poter mio si distende a maggiori fatti
che la mia lingua non può promettere. Tu se' a me lungamente piaciuto, di che
se tu non se' meno avveduto che gli altri, tu il puoi avere conosciuto; e però,
se il già proferto dono da me disideri, disponti a' miei piaceri. E certo
questo non ti dee parere grave, anzi in singulare grazia te 'l dei tenere, però
che Elena non fu in Isparten domandata da tanti nobili, né Atalanta,
velocissima nel suo corso, né qualunque altra famosa, quanto sono stata io, la
quale te solo tra mille giovani ho scelto per solo signore della mia vaga
mente».
Egli, udendo queste voci, posta giù
l'altiera maniera de' suoi costumi, umile disse: «Seguirotti, e la voce tua
comandi a me presto a ubidire; e già gli occhi tuoi piacevoli nel mio cuore
m'hanno legato con le tue parole a' tuoi voleri».
Queste voci mi furono care molto; e in
processo di tempo, mostrandoli io come le viti, gli olmi e qualunque albero,
disposti i fiori una volta portati, intendendo solo a' frutti, erano contenti
delle loro frondi, e come Danne, sempre portante le verdi foglie, era tenuta
bella, li feci i varii ornamenti diporre e in una simiglianza i suoi vestiri
ridussi. E poi come ne' fervori rifiutavano le piante essere rigate dicendoli,
e come ancora, acciò che annegate non fossero le loro radici, con misura
cercavano l'onde, tolsi via le cagioni de' sonni suoi, e in salutifere vigilie
ri voltati, lui ad essere sollicito meco a' miei giardini menai. E nle mio
stilo riduttolo sobrio e ordinato, ora di lui vivo contenta; per che se questa
dea favoreggiante con sommo studio a' miei voleri sollicita vegno e onoro di
sacrificio debito alla sua deità, niuno se ne dee maravigliare. –
E qui si tacque. E intra queste parole
dette e la seguente canzone trapassò forse tanto di tempo quanto dalla già
imbiancata aurora penano l'altezze delle montagne a mostrare i raggi d'Apollo.
E riposata, così cominciò:
[XXVII ]
La
graziosa e bella mia Pomena,
fuggente l'acque frigide peligne,
da lor si scuda e dal pian che le mena;
e
con gli effetti suoi lega e ristrigne
le furibonde corna di Lieo, 5
se forse oltre dovere in fuor le pigne,
lieta
porgendo ciò che di Pelleo
la moglie regge alla sete vegnente,
sì ch'appetito giusto non fa reo.
Dal
costei viso ciascuna dolente 10
lonza che tira il carro di colui
presta si fugge e trista nella mente;
e
simil fanno i serpenti da cui
tirato è quel di Cerere, la quale
umile vien, come piace ad altrui. 15
Quinci
si fugge quella che del male
del padre nacque nell'onde salate,
ristando sol nel toro geniale.
Minerva
le sue fila, compilate
con artificio ad uso non villano 20
come le piace, le presta ordinate.
Il
modo abominevole e istrano
del viver simigliante a Palemone
di costei nel cospetto è nullo e vano.
Ristrigne
e dà quanto vuolsi il sermone; 25
e 'l passo lungo e corto altrui disegna
secondo i tempi o movente cagione.
Le
'mprese furibonde vieta e sdegna,
disponendo a' pensier gli atti futuri
dentro alle savie menti ov'ella regna. 30
I
pensati consigli dà maturi
agli occhi ben disposti, aperti e chiari,
e a' contrarii, ruvidi e oscuri;
e
ove spander vuolsi, non ha cari
i suoi tesor, ma con degna misura 35
li spande, aprendo gli avuti ripari.
E
com'io dissi, già alla cultura
degli orti suoi sollecita si move,
non obliando la debita cura,
col
cuore amando sempre il sommo Giove. 40
[XXVIII ]
Mentre che la giovane ninfa co' lunghi
ragionamenti si tira il tempo dietro, Ameto con occhio ladro riguarda l'aperte
bellezze di tutte quante. E mentre che egli fisamente rimira l'una, quella in
sé più che l'altre giudica bella; poi, gli occhi rimossi da questa, mirandone
un'altra, loda più l'altra e danna il parer primo; e quinci alla terza tanto
quanto la guarda, tanto tutte l'altre men belle consente. E così di ciascuna
dice in se medesimo; e tutte insieme tenendole mente, non conosce a quale
apponga alcuna cosa che guasti la sua bellezza, e vie meno conosce da dire
quale sia più bella. Egli, mirandole effettuosamente con ardente disio, in se
medesimo fa diverse imaginazioni concordevoli a' suoi disii. Egli alcuna volta
imagina d'essere stretto dalle braccia dell'una e dell'altra strignere il
candido collo, e quasi come se d'alcuna sentisse i dolci baci, cotale gusta la
saporita saliva; e tenente alquanto la bocca aperta, nulla altra cosa prende
che le vane aure. Poi, più innanzi con la imaginazione procedendo, si pensa
dovere ad alcuna scovrire i suoi disii e tremebundo diventa. E già nel pensiero
non conosce come essere possa che gliele possa dire, ma pure, parendogli quasi
averne sopra la verde erba con parole convertita alcuna, d'allegrezza fatto
caldissimo, sé tutto di sudore bagnato dimostra; e più una volta che un'altra
divenuto vermiglio, dà nel viso segnali dell'ansia mente, e così similmente con
occhio ridente mostra quando senta cosa che graziosa li sia. Egli non intende
cosa che vi si dica, anzi tiene l'anima con tutte le forze legata nelle
dilicate braccia e ne' candidi seni delle donne; e così dimora come se non vi
fosse. Ma la ferma imaginativa di lui, vagante per le segrete parti di quelle,
delle quali alcuna non s'avedeva, sì stavano attente ad ascoltar la parlante,
da una di loro fu rivocata a' luoghi suoi, avendo già compiuto la bella ninfa
il suo cantare, acciò che esso, poco intendente alle dette cose, imponesse ad
un'altra l'usato peso. Onde, alla voce di quella in sé tornato, si riscosse non
altrimenti che Acchille facesse, svegliandosi, trasportato ne' nuovi regni
dalla sua madre; e vergognatosi un poco, si mirò intorno e alla ninfa di bianco
vestita impuose il ragionare. La quale, come piacque ad Ameto, sanza mettere in
mezzo alcuno spazio, così cominciò:
[XXIX ]
– Sicania, vicina della eolia Lipari,
fucina certissima de' Ciclopi, quasi in quelle parti nelle quali i Palisci,
nascosi dalla loro madre, i tempi del ventre compierono, tiene i luoghi dove
nacque il padre mio. Il quale, stato nella villa sarnina e visitati i templi
posti per luoghi de' visitatori d'essa, ne' quali più l'infanni di Mercurio che
la sua deità s'adorano, per avventura tornando passò per li piani sottoposti al
copioso monte Gargano, consecrato a Cerere, santa dea; e in quelli vide una
giovane i parenti di cui, per quale che si fosse la cagione, nimici di Saturnia
divenuti, ascosi nelle caverne nel monte si dimoravano; né quindi, non
patteggiati, s'osavano di palesare in aperto cielo. Costei, di vestiri vermigli
vestita e pieni di bianchi gigli, piacque agli occhi suoi; né prima delli
abondevoli campi si poté trarre che quella, per matrimoniale legge congiuntasi,
seco ne menasse in Sicania. Là dove egli tornato con lei, me generò con più
altre sorelle, tante che il numero empiemmo delle figliuole di Piero; e di sì
notabile e bella forma tutte ci diede al mondo che, mirandoci, quasi non cadde
di Latona nell'ira per fallo molto minore che la tebana Niobe con la perduta
prole non fece. Ma qui se io il vero parlo, in peccato nol prendano gl'iddii,
né voi, a cui come con meco medesima estimo di parlare: io avanzai di bellezza
ciascuna delle mie sorelle e, da lui singularmente amata, fui nominata
Acrimonia; io non trascorsi la puerile età oziosa, né tutta la diedi solamente
alla conocchia: diversi studii m'ebbero, de' quali passai la fatica con frutto.
Ma già cresciuta in me con gli anni la
discrezione, conobbi il mionobi le padre posto nelle angosce generate per gli
iniqui odii della ingrata plebe e, udendo i pericoli già per questi odii
divenuti a molti nel tempo passato, di lui cominciai a temere. E acciò che i
sopravegnenti casi cessassono sventurati e che egli coraggioso divenisse a' suoi
bisogni, Bellona, madre del fortissimo Marte, tentai più volte con umili
prieghi in favore dell'amato padre, il quale io amai e amo quanto egli ami me,
che so che m'ama molto e ha amato. Questa mi fu tanto benigna e sì essaudevole
orecchie porse alle cose pregate, che io tutta mi dispuosi a' suoi servigi e
lei onoro e per singulare deità reverisco; e lei porgo i prieghi ne' miei
bisogni e come a favorevole ricorro ne' casi opportuni.
Ma avendo io già sedici volte vedute le
nuove biade e altrettante gustati i dolci mosti, elli per matrimonio mi
congiunse con uno giovane sparuto e male conveniente alla mia forma, sicanio sì
com'esso, il quale me, di Sicania traendo, divise dalla cara madre e dalle
pietose sorelle. E salita sopra le notanti navi e empiute le nostre vele da
Euro, cominciammo ad abandonare i liti tireni; e poi che i rapaci cani
stimolanti Silla avemmo passati, vedemmo lo etterno tumulo dato da Enea a
Palinuro e quindi il promuntorio di Minerva, lasciatoci alla sinistra mano
l'isola Caprea, e quindi li fruttiferi colli di Surrento e le rocche di Stabia
e la già grande Pompea e Veseo, imitatore de' fuochi d'Enna. E lasciati i
piacevoli liti partenopei, discernemo Pozzuoli e l'antiche Cumme e le tiepide
Baie; e quindi, alla destra mano lasciataci la sepultura dell'eolio Meseno e
alla sinistra l'isole Pittacuse, vedemmo il furioso Vulturno mescolante le sue
acque piene d'arene con le marine, e più avanti gli etterni luoghi dati da Enea
agli arsi membri della sua balia. E poi con paura passammo i liti male
conosciuti da' compagni d'Ulisse, e i porti d'Alfea e le mura dette che da
Giano fossero edificate, e quelle che furono negate al divino Cesare, allora
che elli con volo subito se n'andò ad Ilerda. E dopo molto essere nell'onde
vagati, nelle sacratissime rocche di Palatino, sopra l'onde del piacevole
Tevero, fermammo il lungo errare; là dove io con le latine ninfe in compagnia
ricevuta fui, ma non sanza molta invidia, però che tra tutte, a giudicio di
qualunque ne riguardava, di somma bellezza il colmo della disiderata gloria
meritai. E già tutta Lazia mi chiamava per eccellenzia la formosa ligura; e di
tale fama tutta l'occidentale plaga sonava. Quivi tenente il sacerdote massimo
degl'iddii nostri l'altezza della sua sedia, d'ogni parte del mondo per diverse
cagioni vi correano i nobil; né era alcuno clima che quivi i suoi maggiori non
mandasse; a' quali io era sempre seconda sollecitudine, e ad alcuni divenni
prima. E ciascuno, veduto il viso mio, d'ammirazione pieno, del mio cospetto
invito si partiva, e gli amorosi dardi, da me allora non conosciuti, sentendo
nel battente petto sanza pro, lodava le mie bellezze; ma io non altrimenti che
una imagine marmorea mi movea agli occhi de' riguardanti; e quasi sicura
stante, tanto di ciascuno mi curava quanto solesse fare Anassarete, ancora non
pietra, del pregante Ifi, anzi più tosto in me medesima li scherniva. E più
volte dalle care compagne con cotali parole stimolata fui: «O Acrimonia, più
dura che alcuno scoglio e meno pieghevole che le querce d'Ida, quale rigidezza
ritiene il tuo ferrigno animo a non piegarsi ad alcuni amori? Credi tu perché
tu avanzi di bellezza tutte le ninfe abitanti le rive del corrente Tevero,
essere però scusata da questi fuochi? Nol credere. La tua forma più che alcuna
altra cerca quello che tu fuggi; il quale più tosto le turpissime femine
debbono andare fuggendo, però ch' e' si disdice loro. E a te niuna altra cosa
manca che questa sola, la quale noi ti consigliamo che graziosa ti disponghi a'
beni mancanti alla tua bellezza innanzi che tu dei materia di turbamento alla
divina Venere, la quale tanto suole più focosa entrare ne' petti quanto più a
lei con resistenza s'oppongono. Credi tu avanzare in forze l'iddii? Or non
sentì Giove queste fiamme più volte? E il luminoso Apollo, conoscente tuttele
cose, non poté con le sue erbe cacciare i vegnenti ardori. E la dea medesima di
questi amori donatrice alcuna volta infiammò se medesima, e brievemente tutto
il cielo ha sentito questi caldi da' quali i terreni non sono stati esenti. Ercule,
domatore delle umane fatiche, fu innamorato, e Medea, figliuola del Sole, non
se ne poté con le sue potenti voci difendere, né alcun'altra. E tu sola vuoli
tenere nuova maniera tra tante possenti di bellezze e di deità: tu non se'
Pallade né Diana, le quali due sole, a fine non convenevole a te, l'hanno
fuggito.
Adunque ama, o Acrimonia, quando tu puoi:
tu bella, tu giovane e nobile hai ora il tempo dicevole a questi amori.
Ricordati che, come i fiumi le trascorrenti acque ne portano al mare con continuo
corso, né mai in su alle fonti le tornano, così l'ore i giorni e i giorni gli
anni e gli anni la giovane età, la quale da due termini miserabili è chiusa, o
da morte o da debile vecchiezza: a qualunque tu perverrai, ti sarà per ragione
miscaro il non avere amato. Ma pognamo che tu divenghi vecchia: che diverrai?
Pensi tu che le guance ora distese, divenute allora rugose e palide, dove ora
di bellissimo colore sono lucenti, e gli aurei capelli, tornati in bianchi,
truovino chi a queste cose l'inviti? Certo no; e se forse esse inviteranno
altrui, fieno rinunziate, e giustamente. Niuna età futura è migliore che la
presente; le cose vanno sempre di male in peggio: l'aurea età di Saturno non
tornò mai, e quella di Giove, d'ariento, fu migliore che quella di rame
seguente poi; la quale, tenuta allora pessima, non fu rea come quella che
usiamo, pervenuti dal ferro alla terra cotta.
Adunque il non tornante tempo adoperalo
acciò che poi non ti penti d'averlo lasciato andare ozioso; e la tua
giovanezza, la quale ancora molte volte piagnerai sentendola partita, disponi
a' cercati amori. E non ti indugiare agli anni di ciò non degni, ne' quali
forse vorrai dare riparo a quelle cose che non sosterranno di riceverlo.
Egli ci è stato manifesto te essere stata
riguardata e invitata a' graziosi fuochi dal figliuolo di Giove, ora reggente
le terre boemie, abondevoli di metalli, con coronata fronte, il quale saria
degno amante a qualunque dea. Ma se forse la già lunga età il fa men caro,
colui che i togati Gallici regge lodò la tua forma, vedendoti, sopra tutte
l'altre; e se forse te non cruda avesse sentita, con piacevole viso t'avrebbe
profferti i suoi desii, né per alcuna cosa era da dovere essere da te
rifiutato, se non per una: ch'egli era troppo nobile. E quelli ancora che i
ricchi popoli di Minerva, abitanti in Cimbria, signoreggia, non ampissimo
favellare t'empié di somma laude; e non una volta, ma molte con gli occhi suoi
tentò i tuoi, più salvatichi ch'alcuna fiera: costui saria stato convenevole
amante a te, se tu avessi voluto. Ma perché ci fatichiamo noi di volerliti ad
uno ad uno narrare, quanti effetti e che sarieno stati degni de' tuoi amori,
con ciò sia cosa che tu meglio di noi li sappi? E oltre a ciò a narrarliti non
ci basterebbe un sole.
Ma acciò che brievemente li comprendiamo,
quanti il mondo ne manda qui, a tanti se' piaciuta e tanti con diversi atti si
sono ingegnati di riscaldarti, e tutti alle loro case hanno potuto portare
della tua bellezza e della tua rigidezza equale novella. E ancora più, che i pileati
sacerdoti guardanti i sacri altari del sommo Giove ottimo di Campidoglio, non
avendo i loro casti occhi potuti difendere dalla tua biltate, dopo le laudi si
sono ingegnati di piacere a te come tu piaci loro. Lascia adunque l'usata
durezza: e di tanti quanti te, chi per Marte e chi per Pallade e chi per
Giunone e chi per l'antica Cibelen, ti pregano, n'eleggi alcuno, acciò che
Cupido con giusta ira non apra l'arco suo, come fè contro a Febo le sue forze
sdegnate, per uomo che degno non sia della tua bellezza».
Io ascoltava con intente orecchie le vere
parole, le quali così s'appiccavano alla mia mente come le secche fave a' duri
marmi; anzi, lasciandole all'aure, me ne facea beffe, e in me della mia durezza
mi gloriava oltre modo e il freddo petto teneva ne' modi usati. Ma la santa
Venere, occulta agli occhi miei, era presente a queste parole e, conoscendo sé
da me schernita, apparecchiò vendette alla conceputa ira, non sostenendo più
innanzi gran tempo che io, sanza i suoi ardori, schernissi la deità non nota di
lei nel petto mio; e ne' suoi fuochi m'accese come udirete. Il mio marito e io
avevamo lasciati i tiberini liti e per la detta via eravamo tornati in Sicania,
dove essendo solenni giorni presenti, a' templi della santa dea di chi parliamo
e da me prima non conosciuta, ne' quali mirabile festa faceasi, ornatissima
andai e tra le ninfe sicanie sedenti in esso raccolta fui; dove sedendo in
picciolo spazio, con infignevole occhio raccolsi in quello nulla bellezza alla
mia simigliante vedersi; e di ciò quello che avvenne, come io dirò, mi fece più
certa. Io non palesai prima il viso mio, che le caterve de' vaghi giovani, a me
voltate, tutte cominciarono a riguardarmi. Oh quante ve n'ebbe che maladissero
la mia venuta, faccendomi ne' loro animi ingiustamente usurpatrice de' loro
amanti! Di questi molti che me riguardavano, udiva io d'alcuni i ragionamenti e
d'altri per atti e per presunzioni li conoscea; e di tutti sentia che, una
medesima cosa parlando, nelle mie lode con maraviglia multiplicavano.
Onde io in me lieta non poco divenni e
con atti pieni di gravità aggiugneva vaghezza alla mia forma, la quale, da sé
bella, con l'arte aiutata quanto poteasi aveva più forze. E gli occhi tenendo
bassi, quante volte gli alzava, tante gli aspetti di tutti vedea mutare; e
brievemente gli altari erano meno visitati da' vegnenti nel tempio, che la mia
faccia igualmente mirata da' giovani e dalle donne per lunghi ispazii infinite
fiate.
Tra' quali molti, un giovane di grazioso
aspetto, benché agreste e satiro di povero cuore e Apeten nominato
(domandandone, il conosce' di consanguinità strettissimo alla bella donna che
prima parlò e con cui io venni qui), vidi tra tutti con più fervente vista
mirarmi. E in questo quello giorno perseverò; e qualunque altro qui o in altra
parte m'avesse veduta, questi continuo seguiva i passi miei. Costui, non
temente le notturne tenebre, con varii suoni e laudevoli voci cantanti
piacevoli versi le mie case visitava; e più volte i già presi sonni mi fece
lasciare; né alcuno altro modo lasciava nel quale mi potesse mostrare quanto io
gli piacea o arrecarmi a tale che egli piacesse a me. Ma la sua fatica si
perdeva co' venti: io teneva l'usato modo e sola seguiva la mia Bellona, e
Venere non sapea, né più mi movea a' suoi affanni che facciano le petrose
sommità de' monti d'Emazia a' lievi venti mossi da Eolo; anzi più tosto lui
pusillanimo e cupido biasimava, e in me più volte lui più degno a cultivare i
campi che a mirare gli occhi miei il riputai. Egli, sì come io seppi poi, mai
tali fiamme non avea sentite, e sì nelle nuove era acceso che lui, mal
sofferente, oltre modo stimolavano; ma vedendo la mia durezza, pietoso di se
medesimo, essendo elli e io ne' detti templi, sì come io vidi, umile dinanzi a'
santi altari, a Venere porse cotali parole: «O santissima dea, madre delli
ardenti amori, per la quale quanto di bene si possa operare conoscono le menti
nostre, se io, giovane rozzo e nuovo a' tuoi servigii, merito di servirti,
presta pietosa gli orecchi a' preghi miei e per quelli, se giusti sono, per me
adopera le tue forze; e se io non merito quello ch'io cerco, gittami da' tuoi
altari sanza indugio. Acrimonia, bellissima ninfa in tutta Sicania, m'ha col
piacere degli occhi suoi acceso ne' tuoi santi fuochi; e conoscente me ardere
per lei, non solamente le mie angosce, ma la tua forza superbiente schernisce.
Onde io, ad una ora pietoso de' danni
miei e sollecito a' tuoi onori, ti priego che, se quella potenzia vive ne'
dardi tuoi la quale fu già dagli addii come da me sentita, che tu l'accenda; e
così come io, che più che alcuno altro amo, ardendo nelle tue fiamme per lei,
così ella per me ardente divegna; e così vendicherai con uno medesimo colpo la
tua ingiuria e la mia: e' si conviene che il novero de' tuoi sudditi s'empia di
così bella cosa. O somma dea, io ti priego per me più tosto che per altrui, se
essere puote, il quale se forse indegno sono, accendila pure per cui ti piace,
sì che le mie schernite fiamme da lei, con vicendevole schernimento siano da me
vendicate».
Queste orazioni toccarono il cielo; e
ch'elle fossero udite, i commossi altari ne diedono segno, e i risonanti
templi; e io, che con beffe l'ascoltava, il vidi. Elli non avea appena finita
la sua orazione, che la santa dea, tocca da' prieghi suoi, diede opera alle
parole; e con luce mai da me simile non veduta scese sopra i suoi altari, e di
quindi là, dove io tra molte altre sedeva, ne venne e me subita tutta coperse
per modo che né veduta era da altrui, né io vedeva alcuna altra cosa che
questa, bene che io uno incognito mormorio minacciante danni dintorno mi
sentiva continuo. Io stetti in quella alquanto non altrimenti che la timida
pecora dintorno a' chiusi ovili sentente i frementi lupi, o come la paurosa
lepre nelle vepri nascosa, ascoltante intorno a quelle le voci delli abbaianti
cani, sanza avere ardire di dare alcuno movimento al preso corpo. Ma poi che
per alcuno spazio m'ebbe tenuta e me già fatta calda co' raggi suoi, i mormorii
in voce espedita risolveo in queste parole: «O giovane lungamente fuggita a'
nostri dardi e indegna delle grazie nostre, la tua bellezza vince le mie ire e
merita della operata superbia grazioso perdono; e però dimenticando quella alla
quale non altra vendetta si converrebbe che sostenesse la misera Anassarete,
vogliamo che tu apra il petto tuo alle nostre forze, e il pregante giovane,
atto a lasciare ogni rusticità, con amore indissolubile servi ne' tuoi
servigi».
Queste parole udite mi furono cagione di
sicurtà alla prima paura, tanta più ne misono nel petto mio; e l'anima, forte
tremante, cotale divenne quale si vide il misero Feton allora che con l'aperte
braccia gli apparve innanzi il pauroso animale della terra mandato a combattere
con Orione, ond'elli i mal pigliati freni abandonò a' vaganti cavalli. Ma poi
che a quella, come io estimava, non seguì così tosto l'effetto, un poco ripreso
ardire, con la voce che mi fu data dissi: «O dea, cessa le tue ire e me salva
rendi a' miei parenti, ché, io ti giuro, per la lungamente reverita Bellona,
niuna resistenza farò mai a' tuoi voleri».
Io ebbi detto, né prima le parole finii,
che io, né più né meno che la misera Driope si sentì da sottile corteccia coprire,
mi sentii da' piedi infino alla sommità del capo accendere in ogni parte di
leccanti fiamme; e dubitai non tornare subitamente in cenere, come fé la tebana
Semelè, quando divinamente cognobbe Giove; ma queste, tutte nell'animo
raccoltesi e lasciate l'estremità, con la confortante dea mi renderono sicura.
E partita la luce, me tra l'altre giovani innamorata trovai novellamente, e
agli occhi già disiderosi di riguardare mi vidi davanti il giovane per li cui
prieghi venuti erano i nuovi caldi. Egli m'incominciò a piacere; e già m'erano
cari i passi suoi, seguenti le mie pedate, e l'usata salvatichezza abandonò il
petto e gli occhi miei, disposti ad amare più che ad altro. E non dopo lungo
tempo Apaten, da me dispregiato in prima, avrebbe potuto dispregiar me, s'e'
gli fosse piaciuto. Niuna altra cosa piaceva agli occhi miei se non Apaten, a'
cui beni io mi disposi tutta; e la biasimata rusticità co' mie' ammaestramenti
cercai d'annullare; e così feci. Io il rendei, di rozzo satiro, dotto giovane,
e di pusillanimo magnanimo il feci e nelle imprese lunganimo, e di cupido
liberale e piacevole ad ogni gente, tale che di nobile in brieve si poté
nobilissimo reputare. E così non sanza fatica il feci degno delle mie bellezze,
il quale sempre più caro che altra cosa guardo nella mia mente. Adunque per
questo modo in me lungamente stata fredda, operò ad istanzia d'Apaten la santa
dea, la quale tanto all'animo m'agradò e agrada, che sempre come Bellona e con
iguali incensi la reverii e onorerò sempre. –
E quinci cantando processe a questi
versi:
[XXX ]
Da'
caldi fiati del turbido Noto,
da sozze piove e nuvoli premuto,
d'ogni letizia nello aspetto voto,
dal
freddissimo Borea canuto,
l'acque strignente, e dal veloce Eoo 5
o da quale altro, fiero o len tenuto,
e
dall'onde ravolte d'Acheloo,
pazze non men che il dolente Oreste
sanza la vera fé di Peritoo,
e
dalle varie e timide tempeste 10
de' regni di Nettunno e da' furori
del troppo iddio lodato da Aceste,
e
dalli male in fuor gittati ardori
del perfido Tifeo e dal momento
che fanno i monti per li suoi dolori 15
quando
vuol leviare il suo tormento,
difende forte con ardito petto
Bellona, cui servire io m'argomento.
Questa
presta arme sanza alcun difetto
contra Pluton, degli animi invaghito, 20
come già fu del grazioso aspetto
di
Proserpina allora che fedito
fu da Cupido, avendo e' riguardato
il fondamento del cicilian sito.
E
oltre a ciò fa chi la segue grato, 25
magnanimo alle 'mprese e liberale
dove conviensi e secondo lo stato,
lunganimo
e di moti sempre equale
faccendo quel, sanza tristarsi mai
per fortunal sopravenuto male. 30
E
così come in questo non ha guai,
così ne' falsi ben nulla allegrezza
prende più ch'un che non l'ebbe già mai,
in
ogni cosa mostrando fortezza,
curando il mondo quanto il mondo il cura, 35
lui schernendo con la sua bellezza.
Così
con mente rigida e sicura
dirizza altrui al ben che 'l ciel ne
mostra,
sempre girando con sembianza pura,
al
qual, se ben ci portian nella giostra 40
data nel cuore ognor, sanza ristare,
da' vizii opposti alla salute nostra,
seco
ne mena in quello ad abitare.
[XXXI ]
Così tosto come la donna cominciò a
parlare, Ameto rientrò ne' primi pensieri, ma con più temperato disio.
Egli caccia da sé le immaginazioni vane,
alle quali gli effetti conosce impossibili, e alle vere cose entra con dolce
pensiero. E così fra se medesimo dice alcuna volta: – O buoni iddii, come che
queste bellissime donne amino altrui che me, io pure sono con loro, dove molti
sanza dubbio più di me degni desiderebbono di stare; e pure di grazia speziale
i vaghi occhi pasco delle loro bellezze. Ho quanti sarebbono quelli che più non
cercherebbono che quello che io, non conoscendolo, forse posseggo. Io non so
quale deità di tanta grazia io mi ringrazii, se non l'amata Lia. Certo io non
posso pensare che più di me si potesse gloriare di vedute bellezze il troiano
Paride. O iddii, siate testimonii a quello ch'io dico; io dirò forse cosa non
credibile, ma vera. Elli nella profonda valle della sua selva Ida vide tre dee,
ma io ne veggo qui in aperta luce sette, delle quali niuna è di bellezza
avanzata da alcuna dea. Veramente di tanto fu elli più vantaggiato di me: egli
le vide ignude e ogni parte del corpo bellissimo di quelle fu manifesta agli
occhi suoi. Ma non si conveniva egli che alcuno vantaggio avesse un figliuolo
d'uno re da uno semplice cacciatore? E se queste pur volessono, perché le
vorrei io vedere ignude sanza poterle usare? Questo non sarebbe altro che uno
vano accendimento di più aspro fuoco, considerando che, vedendo i visi loro,
appena da' disideri non liciti posso raffrenare la vaga mente. Oh quali esse
dovrebbono parere, e come volentieri, se licito fosse, le vedrei. Or ecco, io
non posso più vedere che agli altri uomini sia licito, e certo questo non posso
io imputare ad esse; solamente i panni mi sono villani: elle non cuprono nulla
di ciò che i panni consentono a chi riguarda. Oh quanto io ancora ho più di
grazia che 'l misero Atteòn, al quale non fu licito di potere ridire le vedute
bellezze della vendicatrice Diana; e a me non fia tolto di potere in ciascuno
tempo narrare co' cari compagni il sentito bene.
Ma ohimè, di che mi rallegro io? Io non
avrò di questo più d'Attèon, se non solamente che io non sarò da' cani lacerato:
se io narrerò queste cose, chi le crederà? Niuno fia che possa estimare, non
vedendo, quello che io medesimo, vedendo, appena credo. Ma come che creduto o
non creduto mi sia, io pur le veggio, e s'io il ridico dirò il vero e nel
pensiero non fia la mia letizia minore; e credo che io di grazia sia presente a
quelli beni a' quali, niuno che viva, fu mai a' simili. E però chi vorrà il
creda, e chi no, io non me ne curo. –
E queste parole fra sé dette, riguardava
quelle e alquanto a quello che diceva la ninfa lo 'ntelletto prestava; e poi
ritornava al pensiero e dicea: – Deh, se io di costoro le bellezze volessi
narrare, come le saprò io dire? Certo le lingue degl'iddii appena potrebbono
esprimere ciò che veggono gli occhi miei. O felice giorno nel quale prima
m'apparve Lia! Ella m'è stata cagione certissima di vedere tutte queste belle
cose, dopo la sua vista da me vedute; ma troppo più posso questo felice
chiamare, il quale, se' prieghi valessono, pregherei che mai non mancasse. O
beati, e più che mille volte beati, coloro i quali a queste piacciono e cui
esse ne' loro amori con voce graziosa raccordano! – Egli poi, riguardando il
cielo infra gli ombreggianti albori, notava in che parte il sole in quello
stesse; e poi, nell'ombre da lui fatte o corte o lunghe in terra, essaminava
quanto egli fosse vicino a menomare gli ardori; e parevagli ch'egli studiasse
più che l'usato i lucenti carri, e con tacita voce diceva: – O grazioso
Appollo, per li meriti de' cui caldi raggi io dimoro in tanto bene, tempera il corso
tuo, non fuggire con così subito andamento e di ciò c'hai donato non essere
privatore! Deh ferma un poco il grado a riguardare costoro, le quali, qualunque
s'è luna, così meritan l'amore tuo come Danne, Climenès, Leucotoen o Clizia o
qualunque altra ti piacque più mai. E se tu forse cotto dall'amorose fiamme ti
senti e paurose dubiti di mirarle, difendano questi alberi a te stante fermo
con la loro ombra le loro bellezze; le quali se a mirarsi non ti ritengono,
ritenganti i prieghi piei. Pensa che nell'altro emisperio sia commesso il
peccato di Tieste un'altra volta; e standoti dove tu se', dà lunga notte a'
luoghi che te non conoscono e dicesi che di te non hanno bisogno; deh, presta
a' graziosi parlari lunga stagione acciò che io più possa dilatare il mio
diletto! – Elli quasi a una ora ebbe la sua orazione finita che il canto la
ninfa. Per che, alquanto levato da' dolci pensieri, a quella donna che di
vermiglio vestiva impuose con piacevole voce i suoi amori recitare; e ella,
ridendo e ardente nel viso, co' capelli per lo caldo disciolti, con parte al
capo legati e parte sparti sopra le candide spalle, vezzosa, con chiara voce
così cominciò a parlare:
[XXXII ]
– Appena mi si lascia credere, o ninfe,
che non fosse così onesto il tacere come sia il parlare de' miei parenti, de'
quali l'uno non degno di fama e l'altra d'infama degna, non per lei ma per li
suoi, riputerei, se io non ne fossi nata; tali i loro antecessori si conoscono,
e essi, ne' vizii cresciuti e male saputisi fare amare, però che l'uno con
tagliente unghione ha laniato il misero popolo, l'altro con lusinghevole lingua
leccando l'ha munto di sangue. Ma io, non seguente le loro malizie, notissima
per quelli, non curo se più mi fo nota: e però, come voi avete fatto, e io
farò. In Acaia, bellissima parte di Grecia, surge un monte appiè del quale
corre un picciolo fiume, ne' tempi estivi poverissimo d'onde e abondante di
quelle negli acquazzosi, sopra il quale agresti satiri furono ne' primi tempi
d'abitare costumati con le ninfe quelli luoghi colenti. Tra quelli così rozzi
nacquero i primi del padre mio, li quali, sì come Anfione col suono della
chiara cetera le dure pietre mosse a chiudere Tebe, così essi con le propie
mani già molte ne costrinsero stare in ordine d'alte mura. E come che la fortuna,
ciecamente trattante i beni mondani, indegni gli traesse a molte copie,
lasciate le prime arti, le quali, avvegna che più umili, sanza fallo più utili
sarebbono loro riuscite, si dierono a seguitare di Mercurio l'astuzie: oh
quanto più degni a' ligoni di Saturno! La fama delle loro delizie, così subita
ancora casura come salio, riempie il mondo; e essi, di plebei mescolati tra'
nobili, male conoscenti di se medesimo, per gli accumulati beni entrati nella
speranza di Flagrareo e de' seguaci, con tempesto pensiero cercano il cielo; e
l'occulta vendetta, con giusta ira già mossa a' falli loro, si cela agli occhi
che si debbono in poco tempo chiudere di morte eterna.
Deh, perché mi distendo io più a
vaticinare i danni miei? Il padre mio è di questi, il quale, passate le poche
onde per antico ponte, pervenne a' luoghi abitati dalla mia madre; i parenti
della quale, più ricchi che nobili, trovò che intendevano, oltre alla naturale
ragione d'Amatuta, a fare partorire i metalli a' metalli medesimi, e tutti d'oro
coperti, portavano in vermiglia cintura la inargentata Febea con le sue corna.
Non curo questi dello abominevole mestiere di coloro, ma cupido di denari, de'
quali quelli abondavano gran quantità, mediante di quelli con giunonica legge
la mia madre si giunse e quella seco trasse alle sue case, là dove io, nata di
loro, con pietoso studio fui nutricata; e la mia età puerile passò semplice, né
mi furono a cura alcuni studii né nota deità nulla. Ma, già multiplicata negli
anni e in bellezza, con tutto l'animo desiderava le nozze mie, le quali sperava
che gl'idii, avessero promesse a degno giovane, per aspetto e per età simile a
me, che era bella; ma il mio pensiero era ad una cosa e i cieli ne dispuosero
un'altra.
Però che a possedere le bellezze da me
lungo tempo studiate fu dato un vecchio, avvegna che copioso, onde io mi dolsi;
ma non osò passare i denti il mio dolore. Elli da' patrocinanti le quistioni
civili sopra nominate <<aiutato>, avente forse veduti più secoli che
il rinnovante cervio, dagli anni in poca forma era tirato. E la testa con pochi
capelli e bianchi ne danno certissimo indizio; e le sue guance, per crespezza
ruvide, e la fronte rugosa e la barba grossa e prolissa, né più né meno
pugnente che le penne d'uno istrice, più certa me ne rendono assai. Egli ha
ancora, che più mi spiace, gli occhi più rossi che bianchi, nascosi sotto
grottose ciglia, folte di lunghi peli; e continuo son lagrimosi. Le labbra sue
sono come quelle dell'orecchiuto asino pendule e sanza alcuno colore, palide,
danti luogo alla vista de' male composti e logori e gialli, anzi più tosto
rugginosi, e fracidi denti, de' quali il numero in molte parti si vede scemo; e
il sottile collo né osso né vena nasconde, anzi, tremante spesso con tutto il
capo, muove le vizze parti. E così le braccia deboli e il secco petto e le
callose mani e il già voto corpo, non quanto poi seguita, alle parti predette
rispondono con proporzione più dannabile. E nel suo andare continuamente curvo,
la terra rimira, la quale credo contempli lui tosto dovere ricevere; e ora
l'avesse ella già ricevuto, però che sua ragione gli ha di molti anni levata.
A costui mi concessero i fati, il quale
lieto mi raccolse nelle sue case; dove io ancora dimorante alcuna volta con
lui, nella tacita notte, delle quali mai niuna con esso, quanto che Febo si
lontani alla terra, vi sento corta, istanti nel morbido letto, me raccoglie
nelle sue braccia e di non piacevole peso prieme il candido collo. E poi che
egli ha molte volte con la fetida bocca non baciata ma scombavata la mia, con
le tremanti mani tasta i vaghi pomi, e quindi le muove a ciascuna parte del mio
male arrivato corpo, e con mormorii ne' miei orecchi sonevoli male, mi porge
lusinghe, e freddissimo si crede me di sé accendere con cotali atti: là dove io
più tosto di lui accendo l'animo che l' misero corpo. O ninfe, abbiate ora
compassione alle mie noie! Poi che egli ha gran parte della notte tirata con
queste ciance, gli orti di Venere invano si fatica di cultivare; e cercante con
vecchio bomere fendere la terra di quelli disiderante i graziosi semi, lavora
indarno: però che quello, dalla antichità roso, come la lenta salice la sua
aguta parte volgendo in cerchio, nel sodo maggese il debito uficio recusa
d'adoperare.
Onde elli, vinto, alquanto si posa, e
quindi alla seconda fatica e alla terza appresso e poi a molte invano risurge
con l'animo; e con diversi atti s'ingegna di recare ad effetto ciò che per lui
non è possibile di compiersi; e per questo modo la notte tutta di spiacevoli
ruzzamenti e di sconvenevoli atti, senza sonno, accidiosa mi fa trapassare.
Egli, col capo voto d'umidità, contento di poco sonno, con nuovi ragionamenti,
sanza dormire, invita mi tiene. Egli mi racconta i tempi della sua giovanezza e
come egli a molte femine solo saria bastato, o dice i suoi amori e le cose
fatte per quelli; e tale volta mette mano alle storie de' celestiali iddii e
danna con vituperevole riprensione i furti loro e di qualunque altro passante i
termini della santa legge; e se per questo trapassamento mai n'avenne alcuno
male, egli il racconta. E poi con più intero parlare, quando io credo d'egli
voglia dormire, ricomincia e dice: «O giovane donna, tra l'altre molto felice,
quanto ti furono graziosi gl'iddii che più tosto a me che a uno più giovane ti
concessono! A me non madre soprastante a' tuoi piaceri, tu sola se' della mia
casa e di me donna; di me non puoi dubitare che amore d'altra donna mi ti
tolga; da me i vestiri e tutte quelle cose che a grado ti sono, a te sono concedute.
Tu se' sola bene e riposo di me; niuna volta m'è graziosa la vita, se non
mentre tu nelle mie braccia dimori e la tua bocca s'accosta alla mia. Se tu
fossi pervenuta alle mani d'uno più giovane, poche di queste cose ti sarieno
concedute; i giovani hanno gli animi divisi in mille amori; quella che è meno
amata da loro è colei di cu essi hanno maggiore copia. Elli lasciano la
maggiore parte delle notti le loro spose sole e paurose nel freddo letto e
vanno cercando follemente le altrui; ma io mai da te non mi diparto. E perché
me ne sarebbe alcuna più cara di te? Cessino l'iddii che io mai per alcuna
altra ti cambi».
Ma io, dopo molto ascoltare, quasi dal
pessimo fiato della sua bocca condotta ad estremo supplicio, gl'impongo
silenzio e dico che dorma; ma poco mi vale. E s'io in altra parte mi voglio
voltare, egli, sforzantesi e con le deboli braccia strignentemi, o mi ritiene
o, lieve di carne, si volge con meco dovunque io mi volgo. E appena già al
giorno vicini posso fare che da me diviso si dorma alquanto: la qual cosa
s'avviene pur ch'e' faccia, ronfando forte il mio sonno impedisce; onde io,
quasi disperata, agl'iddii cerco il giorno acciò che, da lato a lui levandomi,
altrove mi possa posare. Questi atti, avvegna che ancora il mio vecchio li servi,
essendo io sanza alcuna consolazione, quasi a disperazione m'aveano recata.
Ma per utile consiglio a me dato proposi
di servire Venere, e alla sua deità più che altra pietosa pensai dolermi de'
miei affanni e di cercare ad essa alcuno rimedio per lo quale con meno fatica
li sostenessi; e come fu l'avviso, così seguitai con l'effetto. Io venni dalle
mie parti a questi templi vicini, e in quelli, divota secondo il bisogno,
dinanzi a' santi altari così cominciai a pregare: «O pietosa Venere, o santa
dea, i cui altari io volenterosa visito, presta le misericordiose orecchi a'
prieghi miei. Io, giovane come tu vedi, formosa e di vecchio marito male
consolata, dubito che miei anni oziosi non passino senza conforto alla fredda
vecchiezza. E però, se la mia bellezza merita che io mi dica de' tuoi subietti,
entra nel petto mio, ché ti desidero; e i tuoi ardori, li quali molte volte ho
sanza fine uditi lodare, mi fa sentire per giovane tale che non sia indegno
alla mia bellezza e per cui le male avute notti con diletto si possano
ristorare».
Io era in questa orazione ancora; ma io
non so se io m'adormentai e dormendo vidi le cose che io dirò, o se pure con
tutto il corpo fui quasi levata ad andarle a vedere: se non che subitamente io
mi vidi in uno lucente carro, tirato da bianche colombe, portare per lo cielo;
e chinati gli occhi alle cose basse, mi si scoperse il picciolo spazio della
gimbosa terra e l'acque a lei ravolte in forma di chelidro. Ma poi che io ebbi
lasciatimi dietro i piacevoli regni italici e l'alte montagne d'Epiro, mi si
scoperse l'abominevole Emazia co' suoi monti; della quale vidi, dall'una delle
parti, l'onde d'Ismenos, e la fontana di Dirce e i monti Ogigii e l'antiche
mura, composte dal suono della cetera d'Anfione; sopra le quali mi si fece palese
il piacevole monte citereo, e sopra quello i santi carri, tirati da bianchi
uccelli, si riposarono. Certo io non so s'egli ardeva, ma gli occhi in ciò
confessavano quello che il sentimento negava; per che, quasi dubitosa, discesi
sopra la santa terra, e andante verso la sommità, vidi quello così, fra le
fiamme agli occhi manifeste, di mortine pieno, come Ossa o Pindaro o qualunque
altro è pieno di querce.
Tra le quali mentre io vagabunda
m'andava, e della via incerta e della fortuna futura, come ne' liti africani ad
Enea, cotale, infra le mortine, mi si mostrò la chiamata dea; e subitamente
ripresa la vera forma, m'empié di tale maraviglia quale simile mai da me non
era stata sentita. Ella era nuda, bene che picciola parte del corpo fosse di
sottilissimo velo purpureo coperta, con nuovi ravolgimenti sopra il sinistro
omero ricadenti con doppia piega. E il viso suo lucea come qualunque sole e la
sua testa era ornata di capelli d'oro, a lei ricadenti lunghissimi sopra le
candide spalle; gli occhi suoi sintillavano di luce non veduta già mai. Perché
mi sforzerò io di dirvi le bellezze della bocca e della candida gola e del
marmoreo petto e di tutta lei, con ciò sia cosa che io non potrei, e s'io
potessi o sapessi, appena si crederrieno? E come che gli antichi ne dicano lei
da Prassiteno vera scolpita nel marmo, non è da credere quella, ancora che
bellissima sia, simile a questa ch'io vidi. Ma solo quello che ora di lei dirò
basti a laude della sua bellezza tra noi: che qualunque è qui più bella di
tutte, posta a lato ad essa, a rispetto di quella, turpissima saria giudicata.
Certo, rimirandola, io non mi maravigliai del preso Marte e biasimai il folle
ardire del figliuolo di Cinara, avuto contra i vietati animali, e cognobbi la
concupiscenza degli iddii quando la vidono legata dagli ingegni di Vulcano; e
con queste mi corsero mille altre cose subito per lo capo.
Ma poi che già vicina mi si facea, alla
sua deità sopra li verdi cespiti m'inginocchiai e con quella voce che io potei,
reiterai la mia orazione nel suo cospetto. Ella l'ascoltò e fattasi a me più
presso, che mio mi levassi mi comandò; e seguì: «Vieni: i tuoi disii, uditi,
avranno effetto»; e in luogo alquanto più alto mi tirò seco. Quivi, tra folte
frondi nascoso, l'unico suo figliuolo mi fé palese; il quale riguardando io,
d'ammirazione piena per la bellezza di quello, niente ad essa il vidi
dissimile, se non in tanto che egli era iddio e ella dea. Oh quante volte
ricordandomi di Psice, la reputai felice e infelice; felice di tale marito e
infelice d'averlo perduto, felicissima poi d'averlo riavuto da Giove. Questi,
avendo racconciato il forte arco, da lato a lui con la faretra giacea; e elli,
accesi fuochi più caldi che' nostri, con ingegni qua giù appena saputi,
fabricava saette d'oro purissimo; e quelle temperate in chiara fonte e fatte
più forti, n'empieva la vota faretra.
Gli occhi miei non si potevano saziare di
mirar lui, del quale niuna parte mi si celava, se non quanto coprivano le care
piume. Oh quante volte, ricordandomi del turpissimo vecchio a me marito, se di
costui gli abbracciamenti sentissi, felice mi riputai! Ma come piacque alla
dea, io mi rivolsi a mirare la fontana fortificatrice di quelle saette; la
quale, mentre io riguardava, bellissima e chiara con onde inargentate la vidi;
e per se medesima surgente, non era bevuta dal sole; e il suo fondo, il quale
apertissimo dimostrava, non teneva alcuno limo. Quella non pecora, non uccello
né altro animale aveva mai violata col gusto: le sue estremità di verdi mortine
e di sanguigne erano coperte e, secondo che io pensava, quella che tolse
Narcisso non era sì bella. Ella faceva me riguardante, non assetata, avere sete
e vaga di tentare col caldo corpo le sue fresche onde.
Ma sempre che io sopra quella così
sospesa dimoro e in essa rimiro la mia figura, il giovane figliuolo della dea,
ventilando le sante penne lucenti d'oro chiarissimo, con le fatte saette si
partì di que' luoghi; e in meno ora che il grado del cielo, tocco dal nostro
orizonte, non lascia l'uno emisperio all'altro passando, fu sopra le nostre
case volato. Ma l'occhio, non potendolo seguire nei suoi effetti, si rivolse
alla dea: essa per l'ora già calda s'avea levato da dosso il sottile velo, e
entrata nel chiaro fonte, tutta infino alla gola si mise nelle belle acque e a
me comandò che spogliata v'entrassi con lei. Fecilo; e ricevuta in quella, così
in essa trasparevano i nostri corpi, come in vetro traspare il festuco. Le
sante braccia di Citerea m'avvinsero più volte il candido collo; e suoi baci,
non simili a' mondani, non una volta sola, ma molte gustai, e già incominciai a
lodarmi del preso consiglio e a sentire de' passati rincrescimenti del noioso
marito alcuna ricreazione; e già rinfrescate nell'acque, le dissi: «O santa
dea, se non è ingiusto, scuopramisi dove il caro figliuolo di voi sì subito sia
volato con le fabricate saette».
A cui ella con divina voce rispuose:
«Noi, udite le voci tue, e a compassione mossa de' tuoi affanni, intenta alle
tue petizioni, per lo giovane abbiamo mandato, i cui amori userai per contentamento
dell'animo tuo mentre vivi; tu il vedrai sanza niuno indugio venuto e presto a'
tuoi piaceri».
Queste parole mi piacquero, e come io
seppi, di tanta sollecitudine ringraziai la dea. Noi eravamo ancora nella bella
fonte, quando sentii i santi martelli un'altra volta percuotersi agli amorosi
uficii; e per quello conobbi Amore essere tornato e presunsi colui essere
venuto che dovea piacere agli occhi miei. Onde io, desiderosa di vedere qual
fosse, alzata alquanto la testa e i vaghi occhi in giro volti, vidi infra le
frondi un giovanetto palido e timido nello aspetto, il quale con lento passo
s'appressava alle sante acque. Egli, veduto, piacque agli occhi miei e figurato
rimase nella mia mente; ma pure d'essere ignuda veduta da lui mi porse vergogna
e di nuova rossezza dipinta tornai. E egli similmente, come mi vide, mutato il
colore e stupefatto, fermato il passo, più non venne oltre: onde, come alla dea
piacque, riprendemmo i vestimenti. E uscite dell'acque e di mortine coronate,
in uno grazioso seno, che 'l monte di sé faceva quivi vicino, di bellissima
erba pieno e dipinto di molti fiori, ce ne andammo; e sopra quella,
freschissima, i corpi distesi, ci posavamo, quando la dea, chiamato il giovane,
e egli già quivi venuto, così cominciò a parlare: «Agapes carissima a me,
questo giovane, Apiros chiamato, il quale timido così tra le nostre erbe
discerni, sarà a te quello che tu hai domandato; e però con sollicitudine i
fuochi nostri che di qui porterai, fa che inviolati servi».
Iio le voleva rispondere, ma il tenero
petto subitamente da vegnente saetta mi fu percosso, mandata dalla potente mano
del figliuolo della dea, la quale avea aggiunto alle prime parole: «Noi te 'l
diamo per unico servidore e nuovo; egli non sente altro difetto che de' nostri
fuochi, li quali, nuovamente per te in lui accesi, fa che sì nutrichi che, la
freddezza, che ad Agliauro il tiene simigliante, del cuore a lui cacciata,
simile al nostro Giove».
Aveva detto; e io, ancora tremante di
paura, non prima la bocca apersi consentendo a' detti suoi che io, nel tempio
orante, dinanzi mi vidi a' suoi altari, dove io già dissi; per che, non poco
maravigliandomi e gli occhi volgendo intorno per rivedere Apiros, a me conobbi
l'aurea saetta nel petto. E in parte vicina vidi il palido giovane me con tutto
lo 'ntendimento mirante fiso, e ferito così com'io; e vedendolo non d'altro
fuoco acceso che io, risi e contenta con occhio vago gli diedi segno di buona
speranza. E lui, per lunga fiamma fatto caldissimo, insieme a' servigi della
dea e a' miei, di virtù intero il ritenni; e i freddi abbracciamenti del
vecchio marito, quanto potei, con ragione rifiutai, usando quelli di colui io
già più che grana avea fatto tornare colorito. Dunque di questa dea son tutta:
costei adoro, costei reverisco e costei seguito; e sua voglio essere, né altre
deità m'è nota; e per costei ancora i regni superni userò dea, sì che, se
sollicita sempre visito li suoi templi, niuna se ne dee maravigliare, ciò
sappiendo che io v'ho detto. –
La donna, finite le graziose parole, con
lieto canto appresso mise in nota i seguenti versi:
[XXXIII ]
Sì
come il foco, in fummi oscuri molto,
nel quale i figli di Iocasta accesi,
miseramente saliva ravolto,
i
suoi caccumi in due fiamme distesi,
diviso si mostrava a dichiarare 5
di loro il poco amor, se ben compresi,
e
ancor come già quel dell'altare
di Vesta si divise in Roma, quando
piacque a Pompeo Italia abandonare;
così
è il santo monte fiammeggiando 10
di Citerea, ma lieto tutto splende,
di mirabile luce sfavillando.
E
l'una parte inverso il ciel si stende;
e così fatto caldo sale a quello
che del suo lume tututto l'accende; 15
ma
l'altra, poi ch'è divisa da ello,
alla terra declina sì fervente
che quanto prende del mondo fa bello,
riscaldando
ciascuna fredda mente,
dimostrando il valor di Citerea, 20
mal conosciuto alla moderna gente.
E
di quel caldo tal frutto si crea,
che se ne acquista conoscere Iddio
e come vada e venga e dove stea.
Di
salire a' suoi regni anche 'l disio 25
s'aguzza molto, e tra' viventi amore
fraternal se ne piglia giusto e pio.
Cresce
il bene operar, cresce il valore
per questo; e la virtute è reverita,
il merito di cui è degno onore. 30
E
seguitando così fatta vita,
fuggesi via la tema del morire,
da chi vive altramenti assai sentita.
Dunque
ogni tiepidezza è da fuggire
e sé di questo foco acceder tanto 35
che degni diventiamo di salire
a'
regni che non sepper mai che pianto
si fosse, altro che bene e allegrezza
non fallibile mai; e io ne canto,
però
che 'n quel tutta la mia bellezza 40
arde e sfavilla, Venere seguendo,
per cui spero tener la somma altezza,
dov'io
rimiro sempre più ardendo.
[XXXIV ]
Ritornato s'era Ameto a' pensieri dolci;
e in quelli con non meno diletto che mirando le donne si stava contento,
avvegna che alcuna volta brievi estimasse i ragionamenti di quelle, li quali
dubitava che troppo tosto non si compiessero e, compiuti, quindi si dovessero
partire.
Ma come a' suoi orecchi pervenne la bella
ninfa a vecchio marito essere congiunta, dolente, cotale sé ad essecrare
incominciò: – O iddii, o cieli mal graziosi, o iniqua fortuna, io vi
maladicerei, se sanza danno di me fare lo credessi. Deh, quali cagioni vi
mossero a darmi il nascimento più basso che l'animo, o l'animo maggiore che 'l
nascimento? Quale peccato si dovea commettere da me che io per quello sotto
iniqua parte allora del cielo signoreggiante, ch'io nacqui, dovessi nascere,
per la quale potenzia mai cosa a me piacevole non seguisse? Or che è a pensare
questa giovane con vecchio marito trarre dimoranze invite, e a ragione? Dove
era io allora, o Fortuna crudelissima ne' miei fatti? Non era io così degno di
costei come 'l vecchio? Che meritò più colui nel tuo cospetto che abbia fatto
io? Niuna altra cosa se non ch'è più ricco; e io ho, in luogo della sua ricchezza,
la giovane età, la quale elli per tutti i tesori del mondo non potrebbe
riavere, salvo se Medea non tornasse a rendergliele, come ad Ensone. Certo ella
si convenia più a e che a colui: io l'avrei in ogni cosa fatta contenta, e
almeno in quello di che sogliono essere più vaghe le giovani, l'avrei io molto
meglio servita che il vecchio. Tu credesti nuocere a uno e hai nociuto a tre:
al vecchio, a cui è penitenzia, alla giovane, a cui è danno, e a me, che di
tale bene era degno.
Certo, s'e' mi fosse licito il crucciare,
già ti mostrerei quanto l'ira m'accenda e come questo accidente mi noi.
O giovanezza infelice ch'è quella de'
poveri, non di vita fortezza, ma sicurtà di più lunghi danni, fuggiti da me,
poi che le ricchezze sono antiposte alla tua virtù: la morte ti fia più utile
che aspettare la bianca vecchiezza, sommo infortunio de' mendicanti. O
bellezza, bene caduco, perché venisti tu in me, poi che giovare non mi dovevi?
O biondi capelli, o barba prolissa, cadetemi! I bianchi sono più fortunati di
voi: la qual cosa pensando m'è cagione di non piccola noia. O giovane ninfa,
perché questi amori cominciasti? Io vedendo, contento quasi della tua bellezza,
consolato ti riguardava; ora, ad una ora di te e di me divenuto per compassione
debita doloroso, in tristizia ho voltata la mia letizia.
Ma se tu non meno savia che bella sarai,
tu seguiterai gli essempli della bellissima Elena, abandonante le già
biancheggianti tempie di Menelao per le dorate di Paride; la quale cosa
Briseida avrebbe fatta, se il suo Achille l 'avesse voluta ricevere. E se forse
questi essempli ti sono occulti, io gli ti narrerò; e oltre a ciò la mia
persona, ove io più che'l vecchio ti piaccia, sempre sarà ad ogni tuo piacere
apparecchiata. La qual cosa, o sommi iddii, concedete ch'ella sia: io non
dubiterò di transfugarla per tutto il mondo s'e ' fia bisogno. E ancora sicuro
prenderò l'armi, se con armi fia ricercata: niuno affanno mi sarà grave per
così bella cosa, per amore della quale etterna laude mi riputerei il morire. –
E poi ch'egli per lungo spazio in sé così
s'è doluto, egli la rimira da capo, e ascoltando i suoi amori, prima reputando
Apiros felice, disidera d'essere lui; e tanto in questo il tira il disio che
già desso si reputa e lei gli pare nella chiara fonte vedere ignuda, come ella
narra che quelli la vide; e in sé ammirando, loda le parti che egli mai non
vide, e quelle con tutto l'animo abraccia, strigne e bacia, e così acceso
diventa come quella era. Ma poi che lungamente sé per cotali pensieri ebbe
tratto, sentendo la donna avere cantato, alla bella giovane di verde vestita
rivolto disse: – O graziosa donna, quando vi piaccia, narrate i vostri amori;
le cui parole da ora priego gli iddii che più mi siano graziose che quelle le
quali la ninfa che ora si tace ha dette. –
Quella, ridendo e lieta molto, levò alta
la testa alle voci d'Ameto e il chiaro viso rendé alle riguardanti; e dopo
picciolo spazio, con movimento di membri piacevole e con atto d'autorità pieno,
incominciò le seguenti parole:
[XXXV ]
– Molti amori a me per la memoria non
debole ferventi si volgono e ciascuno disidera d'essere il raccontato. Ma poi
che chi fossero i miei parenti v'avrò dichiarato, qual più possente verrà nella
lingua, quello, per servare l'ordine cominciato, vi mosterrò. Già era stato
cacciato Saturno da Giove, quando gli euboici giovani, lasciata Calcidia, con
le loro navi presero Caprea, vicina a' santi oraculi di Minerva; e in quella
abitati e molto multiplicati, tanto che già il picciolo luogo appena li
sostenea, quindi di loro gran parte partitasi, l'isole Pittacuse cercarono; e
abitarle. Ma quelle, infino nella loro venuta picciole a' nuovi popoli, per
cresciuta prole l'abandonarono; e vicini al lago d'Averno, via certissima agli
iddii infernali e all'onde del Mirteo mare, e di Vulturno alla torbida foce,
quasi in mezzo, in terra ferma posarono i passi loro. E salutati i vicini
monti, li quali d'alberi copiosi conobbero, e i piani atti a' lavorii e
dimostranti segni di fertilità, quivi disposero d'abitare, estimando che istrettezza
di luogo più non li farebbe per innanzi mutare, quantunque crescesse la loro
progenie; e data forma con ricurvo aratro alla nuova terra, in due divisa per
li due popoli, lì di due isole arrivati, prima stati uno in Caprea, quella
nominarono Cumme.
Ma l'antico figliuolo del troiano Anchise
ancora in quella non avea la vivace Sibilla veduta, né colti ne' fruttiferi
colli i santi rami per offerere a Proserpina, né date le pietose membra di
Meseno ad etterno sepolcro, quando le mura, già in alto levate, e le rocche
fortissime, in essa toccanti il cielo, e i templi grandissimi già la mostravano
città nobillissima e popolata. Alla quale Giunone invidiosa, diede cagione di
mancamento a' multiplicati uomini, e minacciando peggio, non valendo sacrificii
né prieghi, fu cagione miserabile a molti d'abandonare le propie case. Li
quali, partendosi quindi e novella stanzia cercando, dietro alle spalle i non
conosciuti ancora tiepidi e dilettevoli bagni di Baia s'aveano lasciati e le
montagne sulfuree; e già sopra Falerno, coperto di vigne portanti vino
ottimissimo, ancora non forato da Cesare, eran saliti; e il viso tenevano alle
fiamme di Veseo, che, sanza danno, loro porgeva paura. Ma poi che da quelle,
mirandosi a' piedi, levando gli occhi, gli stesero al piano, fermarono il
passo; e quello con estimazione sottilissima riguardando, videro quello con
brieve fatica utile a' loro divisi. Essi primieramente, essaminata la
condizione del cielo, umile e accostante alle loro compressioni la trovarono, e
il luogo, sollevato con picciolo colle dal mare, video fruttifero e abondante
di ciascuno bene; e i marini porti, lieti e graziosi, si mostravano utili, bene
che d'acque i luoghi poveri discernano alquanto; ma fidandosi di dare a ciò
riparo, diliberano che sanza più cercare quivi si fermino i passi loro; e con
questo consiglio, declinando del monte, vicini alle poche onde che tra Falerno
e Veseo stanche mettono in mare, nelli eminenti luoghi fondarono nuove mura.
Delle quali ancora non avevano veduti le fosse i fondi loro, quando Giunone, le
sue ire infignendo, li fece rivocare alle prime case. Alle quali tornare non
furono difficili, però che già per pessimo agurio dubitavano l'opera
incominciata avanzare.
Essi, nel primo fondare, di candido marmo
una nobile sepoltura, della terra nel ventre trovarono, il titolo della quale,
di lettera appena nota, tra loro leggendolo, trovarono che dicea: Qui
Partenopes vergine sicula morta giace. Onde essi, sterilità e mortalità
dubitando, tornarono a' primi luoghi meno utili che' lasciati, e a' lasciati
lasciarono per etterno cognome il nome di quella che essi aveano trovata.
Ricolti dunque la seconda volta ne' luoghi loro, non guari vi stettero che
l'ire lungamente nascose tutte s'apersero, operante Giunone; né tale miseria si
vide in Egina, regnante Eaco, quale quivi veduta sariesi, da qualunque nemico
piagnevole. Onde i mobili popoli, pochi rimasi, pensano di nuove sedie; né
d'altre più sane deliberano che quelle trovate da' primi sopra le sepulte
membra partenopee, danti migliore interpretazione a' versi scritti nell'antico
avello che' primi non fecero, dicendo che quivi sepulta ogni virginità e ogni
mortalità senza fallo saria con la sicula vergine, e le terre vivaci e
fruttiferi <i> popoli renderebbono, così a' Siculi avversi nell'armi come
alla vergine nelli effetti.
E come due erano entrati in Cumme, così
quivi due, abandonata l'antica città, se ne vengono; e la parte maggiore i
cominciati fondamenti altra volta rinnova nelle piagge alte e a quelli aggiugne
mura fortissime, le quali infino al mare tirate con forti ostaculi chiudono la
nuova terra, così da loro nominata a differenza dell'antica abandonata. Gli
altri, in numero minori ma non negli effetti, infra Falerno e essi si puosero
nel poco piano, per una gittata di pietra vicini a' primi posti. Una lingua, un
abito e que' medesimi iddii erano all'uno che all'altro; solamente gli abituri
erano divisi. E in picciolo tempo di teatri, di templi e d'alti abituri
bellissima si poté riguardare; e ciascuno giorno multiplicando di bene in
meglio, poté essere dalle circustanti città menomanti invidiata; e ne' presenti
secoli più bella che mai e di popolo ornatissima piena si vede e in tanto
ampliata che, l'una con l'altra delle antiche terre congiunta, sono una città
divenute, notabile a tutto il mondo.
Ma mentre che le dette cose così
procedono di tempo in tempo a' popoli fortunati, Enea, lasciati i luoghi
natali, cacciato delle Strofade, fuggito de' liti africani, di Cicilia partito
e tornato dalle sedie infernali, entra nelle foci dello imperiale Tevero co'
troiani iddii; e presa l'amicizia di Evandro d'Arcadia e sacrificata la bianca
troia alla crucciata Giunone e ucciso Turno, con la sua Lavina lieto tiene
Laurenza e dà principio alla gente giulia. De' quali, della vergine sacra e di
Marte, Romulo trae invitta origine; e lieto con rigorosa giustizia e con non
pieghevole forza l'antiche case di Evandro ristora; e di mura co' suoi
successori cingono l'arci di Palatino, e monte Celio e Aventino con gli altri
colli già da umile piano erano levati a soggiogare il mondo. E finita la
signoria de' re nella città nomata dal suo fattore e già lungamente vivuta
sotto il libero uficio de' consoli, si poteano vedere i campidogli non rozzi,
con iscaglioni di zolle né di paglia coperti, ma chiari di candidi marmi e
d'oro molto lucenti, e i templi altissimi e mirabili, pieni di molti iddii, i
teatri risonanti e di giovani spessi, né indigenti delle Sabine, e tutto il
cerchio ripieno di popolo, possente e timido a tutto il mondo, e i mai non
usati triunfi in quella già de' popoli orientali e di que' di Spagna e di
qualunque altri si celebravano, e Roma in ogni luogo si conoscea. E di quinci
nelle mani del divino Cesare pervenuta, lieta donna si vede di tutto il mondo;
il quale, asprissimi affanni sopra l'onde d'Ibero, durante per lo suo imperio,
ancora non istata la farsalica pugna, vittorioso di quelli, seco alle seguenti
fatiche uomini antichi di sangue, nobili di costumi, chiari di fede e di virtù
risplendenti, nell'armi feroci e agli affanni possibili, ne menò; da' quali non
abandonato giammai, ad essi per merito dopo l'acquistate vittorie con la
cittadinanza luoghi nobili diede in Roma. Là dove i loro discendenti per la
loro virtù, avanzante sempre chi segue lei, in processo di tempo ebbono
grandissimo stato, e in ricchezze e in oficii cresciuti e in uomini. Altri
questi reputano i Fresapani e alcuni gli estimano gli Annibali. Ma l'antichità
quali d'essi si fossero il ver ne toglie: ma quale che di queste due fosse
l'una, ciascuna e pontefici massimi e cesari ebbe nella sua casa.
Di questi, dopo le pistolenzie de'
Vandali, uno di loro, lasciata Roma, di Iovenale l'oppido antico si sottomise,
e quello signoreggiando, a sé e a' suoi discendenti, che a me furono primi,
diede cognome. De' quali alcuni, e tra quelli il padre mio, vennero alla città
predetta e quivi tennero e tengono il più alto luogo appresso al solio di colui
che oggi in quella regge incoronato; il quale, di doni di Pallade copioso,
cupido di ricchezze e avaro di quelle, meritevolmente Mida, da Mida, si può
nominare. Egli e' suoi predecessori, venuti della togata Gallia, molto onorando
costoro, una nobile giovane venuta di quelle parti, per bellezza da lodare
molto, ma più per costumi, per isposa congiunse al padre mio. La quale, dea
credo di cento fiumi, due dubbii padri mi diede nel nascimento, de' quali l'uno
più gentile e l'altro più onesto sanza dubbio conosco. Ma acciò che colpevole
non sia riputata la madre mia, né di rotta fede dannata, m'è caro di palesare i
furti sforzati, ancora occulti.
Il sole avea tolti alle notti gli spazii
lunghi e, terzo fratello, godeva con quelli d'Elena, privando di luce le stelle
loro, più accese di quella che mai, quando il predetto Mida, di poco tempo
davanti stato coronato de' regni, a celebrare si dispose una gran festa, alla
quale i sommati del regno suo, d'ogni parte chiamati, vi vennero. Quivi le
driade e le silvestre ninfe e le naiade di qualunque paese sopposto al re
novello vi furono; ma tra l'altre bellissime, ornate di pietre e di molto oro,
le partenopensi v'apparvono, intra le quali non men bella di tutte fu la mia
madre. Le poste mense, nulla altro espettanti, si riempierono d'uomini e di
donne; e ciascuna tenne secondo il suo grado lo scanno. Gli argentei vasi
dierono le copiose vivande, e il lavorato oro i graziosi vini concesse agli
assetati; e le reali sale d'ogni parte di nobili giovani serventi alle mense
presti si videro piene; e i molti e varii suoni fecero la rilucente aula
fremire ispesse volte; e già niun'altra cosa che festa vi si vedea, quando il
sommo prencipe, ornato di vestimenti reali, da' suoi più nobili accompagnato,
acciò che più lieti facesse i conviti, visitò con aspetto piacevole i
convitati. Ma mentre che egli con occhio vago ora questa donna e ora
quell'altra riguarda, alla vista gli corse il viso della mia madre, il quale in
sé di bellezza oltre a tutti gli altri commenda; e tacito pensa sé ancora
dovere più felice usare le colei bellezze, se fortuna nemica non gli si oppone.
Le liete feste durano il debito tempo; il
quale finito, ciascuno le sue case ricerca. Ma tra poche a questo usate sempre,
la madre mia spesso ricerca la reale corte, nella quale il marito avea non
picciolo luogo. Il nuovo re per le non dimenticate bellezze s'infiamma più
sovente vedendole, e sollecita di dare effetto al suo pensiero. Ma la fortuna,
acconciatrice de' piaceri de' possenti, più di lui fatica in queste cose e
porge cagione alla donna per la quale conviene ch'ella porga prieghi al re
disiderante d'essaudirli; porgonsi e, uditi, è loro effetto promesso. Al quale
dare ingannevoli ingegni usati, mentre la donna cerca la grazia addomandata,
cade ne' tesi lacciuoli e, invita, diventa del re. I cui desiderii compiuti,
col dimandato si parte e sentendo la cosa occulta, si tace il ricevuto oltraggio.
Certo, se io non ne fossi dovuta nascere, io direi ch'ella avesse peccato, di
Lucrezia non seguitando l'essemplo. Ma, onde che il violato ventre, o da questo
inganno o dal proprio marito quello medesimo giorno, seme prendesse, io fui nel
debito tempo frutto della matura pregnezza.
E essendo io ancora piccioletta e di
questo del tutto ignorante, la madre mia, disposta a mutare mondo, come ella
fece, aggiugnendo che sempre, come stato era occulto, così il tenessi, me 'l fé
palese, sì come a voi come con meco medesima l'ho ragionando mostrato. E a ciò,
sì come ella mi disse, nulla altra cosa la mosse se non perché io con fidanza
maggiore i reali doni, come di padre dubbio, usassi per lo tempo a venire.
Adunque, come manifesto v'è, di padre incerto figliuola, due ne tenni per
padri; ma già il putativo e forse vero, disposto a seguire la mia madre, a
vestali vergini, a lui di sangue congiunte, mi lasciò piccioletta, acciò che
quelle, di costumi e d'arte inviolata servandomi, ornassero la mia giovanezza.
E certo il pietoso pensiero ebbe effetto; e tanto con benivolo animo i loro
sacrificii imitai che nulla cosa mancava a me di quelle se non il vestimento ad
essere una di loro. Ma, posto che io non l'avessi, non fu verso di me di Vesta
la benivolenzia minore; e ella di ciò segnale manifesto mi diede una volta. Il
vergine sole era già coperto dall'onde di Speria e il vegghiante gallo avea le
prime ore cantate e ogni stella pareva nel cielo, quando io giovinetta, non
vinta dal sonno, per picciola finestrella mirava quelle, e in me medesima
pensando il moto, la bellezza e l'etternità, le lodava molto, quando Vesta in
pietoso abito, dalle sue vergini intorniata, benigna m'aparve; e me stupefatta
prese con queste parole: «Cara giovane, che mirano gli occhi tuoi?».
Appena in me venne la voce a sodisfarla,
ma pur gliel dissi; ma ella, più a me allora accostatasi, che reverente stava
dinanzi a' pie di lei, disse: «Io sono quella dea, i fuochi della quale tu con
le vergini mie con animo puro solleciti. E acciò che io non possa ingrata da te
essere chiamata, ti giuro per gli stigii fiumi che, se bene quelli in vita
serverai, quella corona, la quale fu d'Adriana e che tu puoi nel sereno cielo
vedere ornata d'otto stelle, ti farò dare a Giove».
E col santo dito fattalami conoscere,
volendo io promettere di servarli e ringraziarla della promessa, si tolse agli
occhi miei. Onde io, lieta di tale accidente rimasa, disposi etternalmente
vivere ne' santi templi. Ma di ciò fu l'avenimento contrario, perché bene il
mio viso non rispondeva al pensiero, e la mia bellezza fu cagione di rompere le
mie proposizioni; la quale, da uno de' più nobili giovani della terra là dov'io
nacqui veduta, piacque agli occhi suoi. Questi, di forma grazioso e de' beni
giunonichi copioso e chiaro di sangue prima tentò i miei matrimonii. Li quali
da me negatili, non si stette, ma a colui che forse sua figliuola mi reputava,
mi dimandò; e fu udita la sua domanda, per la qual cosa di colui i piaceri
fuggire non potei. E certo io me ne sarei vie più sforzata che io non feci, se
a me non fosse stato mostrato di potere a una ora e i matrimonii seguire e i
santi fuochi cultivare della dea. Fui adunque, e sono, di quello che con
sollecitudine mi cercò; e quella corona sperando ancora, lieta visito i templi
vestali e lei come deità singulare onoro.
Ma come Venere mi prendesse vi farò noto.
Essendo io, come io v'ho detto, del pronto giovane, e sua stata più anni, avvenne
che per caso opportuno li convenne a Capova, per adietro l'una delle tre
migliori terre del mondo, andare. Onde io nella mia camera sola le paurose
notti traeva nel freddo letto; nel quale, temperante Appollo i veleni freddi di
Scorpione, sicura e sola una notte dormiva, e certo le imagini dello
ingannevole sonno mi mostravano quello che sanza niuno inganno era vero. Però
che a me pareva essere di colui nelle braccia di cui io era; ma già a quelli
effetti venendo che più e ne' sonni e nelle vigilie sogliono essere cari, non
sostenne il sonno quelle letizie, anzi a una ora mi fuggio, e del petto e delle
braccia mi tolse colui che mi tenea; e già desta, ricordandomi che sola essere
dovea, nelle braccia mi vidi d'uno giovane. La voce era già venuta nella lingua
per chiamare i servi e per dolersi degli scoperti inganni; e io presta voleva
saltare del ricco letto. Ma il non pauroso giovane, e di me più possente, ad
un'ora mi tenne e con la sua voce, da' miei orecchi subito conosciuta, ritenne
la mia. Niuno spirito mi rimase sicuro, anzi così tremava come le pieghevoli
canne mosse da ogni vento; e con quelle voci che io potei, più volte il pregai
che si partisse e i casti letti non tentasse di violare. Ma poi che a sé prima
la morte offerse che la partita, ingegnandosi con dolci parole da me cacciare
la paura, io, levate le cortine, gli accesi lumi nella nostra camera presi per
testimonii della sua sembianza; e accertatami che la voce udita non m'avea
ingannata, così gli dissi: «O giovane più ardito che savio, non si distendano
più le tue mani nella mia persona che io voglia, se la vita t'è cara: gli amori
di qualunque persona sono con piacevolezza da impetrare, e non per forza. E il
luogo ove noi siamo toglie via quello che si suole dire le donne disiderano: che
contro a loro in ciò che più vogliono s'usi forza; e il tempo ancora, quando io
volessi, ci è favorevole.
Adunque a quello di che io ti domanderò,
mi rispondi; e se te di me sentirò degno, niuna forza ci fia bisogno, né
priego; e così, se in contrario, indarno la lingua o le braccia faticheresti».
A queste voci elli dopo un caldo sospiro
lasciò me e indietro si trasse; e così, me l'uno canto del letto e esso l'altre
tenendo, disse: «Io non venni qui, o giovane, come rubatore della castità del
tuo letto, ma come focoso amadore, ad alcuno rifrigerio donare a' miei ardori;
alli quali se tu nol dai, niuna altra cosa fia, se non un dirmi che io
m'uccida. E certo io uscirò di qui o contento o morto, non che io con forza
cerchi i miei piaceri o aspetti che alcuno le sue mani contra di me
incrudelisca; ma se tu dura sarai a' miei disii, io col mio ferro, usando
crudele uficio, mi passerò il petto. Ma di ciò che tu vuogli io ti risponderò».
Me non spaventarono le crudeli parole,
ma, nel primo proposito ferma, il domandai come elli arditissimo quivi era
venuto; a cui elli disse: «Ecaten, vinta dalle mie parole e da varii sughi
d'erbe e virtuosi, a questo luogo venire mi diede apertissima via e sicura; la
quale similmente m'avrebbe nel tuo petto data, se io i tuoi amori volessi
sforzati».
Maraviglia'mi, udendo questo; ma nulla
altra via conoscendovi, gliel credetti. E la seconda volta domandandolo, cercai
come, quando, dove e peché io gli fossi piaciuta; alla quale domanda egli umile
e con voce quieta, dopo molti sospiri, così mi rispose: «Bella donna, unico
fuoco della mia mente, io, nato non molto lontano a' luoghi onde trasse origine
la tua madre, fanciullo cercai i regni etrurii, e di quelli, in più ferma età
venuto, qui venni. Ma, essendo io già alla città presente vicino, i cieli, le
future cose sententi, parte delle fiamme che si doveano acquistare nel luogo
mai non veduto mi vollono aprire; e, quale che si fosse subito la cagione, me,
tutto in me raccolto, trasse a' dolci pensieri, nel mezzo de' quali la vostra
città mi si fé palese; e le mai non vedute rughe con diletto tenevano l'anima
mia.
Per la quale così andando, agli occhi
della mente si parò innanzi una giovane bellissima, in aspetto graziosa e
leggiadra e di verdi vestimenti vestita, ornata secondo che la sua età e
l'antico costume della città richiedeno; e con liete accoglienze, me prima per
la mano preso, mi baciò, e io lei; dopo questo aggiungendo con voce piacevole:
"Vieni dove la cagione de' tuoi beni vedrai". A me pareva essere
disposto a seguirla, quando contrario acciden te e subito mi percosse, e me, di
me fuori errante, in me rivocò con dolore; e già vicino al cadere mi vidi del
non retto cavallo, me verso quella portante dov'io stava. Ma questo non operò
che di quella la imagine si partisse da me, che, risentito, co' ridenti
compagni mi vidi alla entrata de' luoghi cercati, ove io entrai, e l'età
pubescente di nuovo, sanza reducere la veduta donna ne' miei pensieri, vi
trassi; e come gli altri giovani le chiare bellezze delle donne di questa terra
andavano riguardando, e io.
Tra le quali una giovane ninfa chiamata
Pampinea, fattomi del suo amore degno, in quello mi tenne non poco tempo. Ma a
questa la vista d'un'altra chiamata Abrotonia, mi tolse e femmi suo. Ella certo
avanzava di bellezze Pampinea e di nobiltà, e con atti piacevoli mi dava
d'amarla cagione; ma poi, fattomi de' suoi abbracciamenti contento, quelli mi
concesse non lunga stagione, però che, io non so da che spirito mossa, verso di
me turbata, del tutto a me negandosi, m'era materia di pessima vita. Io
ricercai molte volte la grazia perduta, né quella mai potei riavere; per la
qual cosa un dì, da grieve doglia sospinto, ardito divenni oltre il dovere; e
in parte ove lei sola trovai così le dissi: "Nobile giovane, s'elli è possibile
che mai il tuo amore mi si renda, ora i molti prieghi ragunati in uno, il
dimando".
A cui ella rispose: "Giovane, la tua
bellezza di quello ti fece degno, ma la tua iniquità di quello t'ha indegno
renduto. E però sanza speranza di riaverlo giammai vivi ormai come ti
piace".
E questo detto, come se di me dubitasse,
si partì frettolosa. Certo io estimo che 'l dolore della impaziente Didone
fosse minore che 'l mio, quand'ella vide Enea dipartirsi, ma tacerollo, però
che invano gitterei le parole, pensando che la menoma parte appena se ne
potrebbe per me esplicare; ma così dolente la mia camera ricercai, nella quale
solo più volte l'angosce mie come Ifi o Biblide miseramente pensai di finire.
Ma già, fuggita ogni luce, la notte occupava le terre, quando a me, in questi
pensieri involuto, non sanza molta fatica il sonno, imitante la morte, entrò
nel mio misero petto. Nel quale qual si fosse lo dio verso me o pietoso o
crudele che movesse Morfeo a varie cose mostrarmi, m'è occulto; ma cose
terribili vidi in quello. Intorno alla fine del quale, come io avviso, mi
pareva in dolooso atto sedere in una parte della camera mia e in quella vedermi
davanti Pampinea e la turbata Abrotonia; e amendune, mirandomi fiso con atto
lascivo e con parole abominevoli dannando i miei dolori, mi schernivano. Alle
quali a me pareva con prieghi dire che esse, quindi partendosi, me lasciassero
a' miei dolori solo, poi che di quelli erano state movente cagione. Ma le mie
parole non aveano luogo; esse, ognora crescenti ne' miei obbrobrii, con più
turpi parlari non mi si levavano dinanzi, onde non poco cresceva la doglia mia.
E per questo, a loro la seconda volta rivolto, diceva: "O giovani,
schernitrici de' danni dati e di chi con sommo studio per adietro v'ha onorate,
levatevi di qui: questa noia non si conviene a me per premio de' cantati versi
in vostra laude e delle avute fatiche".
A queste parole Abrotonia più focosa
rispose: "Brieve ti fia la nostra noia, e tosto ti fia palese per cui più
altamente canterai che per noi, che qui venute semo a porti silenzio, se più ne
volessi cantare".
A cui mi parea rispondere: "Cessino
gl'iddii che questo sia, che io mai più, se della signoria esco di voi, come io
disio, diventi d'alcuna, o che più per me Caliopè dea forma a nuovi
versi!".
A cui queste subite seguitaro:
"Niente t'abbiamo tenuto noi sì come donna, ancora la tua età non
tegnente, fierissima a rispetto di noi, signoreggerà la tua mente; la quale se
di vederla t'agrada, aspettaci qui: noi la ti mosterremo".
Ebbero detto; e a un'ora esse e 'l sonno
si dipartirono. Onde io, maravigliatomi, prima lento i riposati membri levai
del tristo letto, e con sollecita mano esplorando l'oziose tenebre i luoghi del
fuoco cercai. Del quale esservene non prima conobbi che quello, alquanto
fumante, nascosto sotto la cenere, mi cosse la mano palpante; ma, tirata
indietro quella, l'altra, con più prestezza porta al'accese brace, di quelle
misi nella secca stoppa; e con aure lievi e continue il fuoco languente recai
in chiara luce, cacciando le tenebre della notte, nelle quali forse più
attamente mi sarei doluto che al lume. E questo fatto, io ritornai agli usati
pensieri, e in quelli malinconico lunga fiata vegghiai. Né aveva ancora i suoi
dispendii tratti la notte con seco, quando nuovamente, da' pensieri vinto,
soave sonno mi ripigliò. Né prima nel profondo di quello fui tuffato che le già
dette di me schernitrici mi furono davanti, ma con vista gabbevole meno; e in
mezzo di loro aveano me nata una giovane di sì grazioso aspetto quanto mai
nessuna n'apparisse agli occhi miei; e era di verde vestita. Né cosa alcuna mi
dissono, se non solamente: "Ecco colei cui già ti dicemmo che sola fia
donna della tua mente e per la quale le tue virtù in esperienza le loro forze
porranno".
A questo niuna cosa fu a quelle per me
risposto; ma, quasi de' preteriti danni dimentico, intendeva con sommo diletto
a mirare quella, fra me dicendo: "Veramente ogni altra bellezza vince
questa che costei tiene; e niuna fatica per lei avuta sarebbe indegna a chi per
quella di tale meritasse la grazia". E lungamente miratola, fra me
contendeva se altra volta veduta l'avessi o no, né alla memoria tornava che mai
per me fosse stata veduta. Ma la reminiscenza più ricordevole nella smarrita
memoria tornò costei, da me vista un'altra fiata; e che questa era colei che,
nella mia puerizia vegnendo a questi luoghi, apparitami e baciatomi, lieta
m'avea la venuta proferta.
E ancora che Febo avesse tutti e dodici i
segnali mostrati del cielo sei volte poi che quello era stato, pure riformò la
non falsa fantasia nella offuscata memoria la veduta effigie, e una con quella
essere la conobbe. E per questo lieto, di pensiero in pensiero in ammirazione
multiplicando, in tanta crebbi che 'l sonno, non potendola sostenere, fuggendo,
cacciò quelle con quella che più m'agradiva di riguardare. E già l'uccello
escubitore col suo canto avea dati segnali del venuto giorno, per che io, sanza
più al sonno tornare, pregando gl'iddii che vere le vedute cose facessero, mi
levai, e con ferma speranza, più volte cercando in ogni luogo ove belle donne
si ragunassero, per vedere questa andai; e minori fatiche delli perduti amori
sosteneva per questa. Ma sedici volte tonda e altrettante bicorne ci si mostrò
Febea avanti che la servata imagine in me avesse a cui somigliarsi tra molte in
quel mezzo da me vedute. Ma la superna provedenzia disponente con etterna
ragione le cose a' debiti fini, tenente Titan di Gradivo la prima casa un grado
oltre al mezzo o poco più, un giorno nella cui aurora avea signoreggiato lo dio
appo lì Lazii già per adietro stato per paura del figlio, e di quello già Febo
salito alla terza parte, io entrai in un tempio da colui detto che per salire
alle case delli iddii immortali tale di sé tutto sostenne quale Muzio, di
Porsenna in presenzia, della propria mano.
Nel quale, ascoltando io le laude in tale
dì a Giove per la spogliata Dite rendute (cantandole flammini laudanti le poche
sustanzie di Codro e per dovere obligati a soli i bisogni della natura,
rifiutando ogni più), voi singulare bellezza dell'universo, di bruna veste
coperta, appariste agli occhi miei e il cuore, già delle dette cose dimentico
né tremebundo per altra, moveste a tremare. Ma io, non conoscendo perché,
alquanto mirandovi, d'avervi veduta altrove in me tentava di ricordarmi; ma il
mutato vestire il come e 'l quando mi toglieva del tutto. Ma pure la graziosa
vista, lungo tempo stata già donna della mia mente, m'accese per modo ch'ancora
mi cuoce, e farà sempre. E tutto quel giorno di riconoscervi col pensiero
indarno faticai la memoria, atto a più lunga fatica, se il dì seguente,
solenne, non me ne avesse tratto, nel quale al già detto tempio tornai; dove io
voi, come ricordare vi dovete, di molto oro lucente e ornata di gemme, di
finissimo verde vestita, bella per arte e per natura vi vidi. Né prima il verde
vestire corse agli occhi miei che lo industrioso intelletto riconobbe il vostro
viso; e con affermazione dissi: "Questa donna è colei che nella mia
puerizia, e' non ha gran tempo ancora, m'aparve ne' sonni miei, questa è quella
che, con lieto aspetto, graziosa mi promise l'entrata di questa città, questa è
quella che dee signoreggiare la mia mente e che per donna mi fu promessa ne'
sonni". E da quella ora innanzi, sì come ricordare vi dovete, sempre come
singulare donna della mia mente vi riguardai, e alle vostre bellezze il cuore,
il quale avea proposto di sempre tenere serrato, apersi; e quelle in esso
ricevetti e tengo e terrò sempre, e per quelle voi, di lui singulare donna,
onorerò, amerò e avrò sempre cara più ch'altra. Adunque, se bene le vedute cose
da me e udite da voi e i passati sguardi considererete, voi a me promessa
vederete dal cielo e per sollecito amore dovuta, s'io non m'inganno. Per che io
caramente vi priego che così mia divegnate come io sono vostro, acciò che ad
un'ora non perisca la mia vita e la vostra fama».
E qui, quasi lagrimando, si tacque. Io
aveva udite le molte parole e già per segnali aveva i suoi amori conosciui. Ma
mentre io, vedente nella sua destra mano il coltello apparecchiato a perdonare
e a offendere, come io concedessi, essaminava quello che io dovessi fare, da
una parte dalla pietà degli umili prieghi e della presta morte tirata, e
dall'altra dalla debita fede in ambiguità caduta, Venere, favoreggiante a' suoi
suggetti, stette presente e di maggiore luce accese le nostre camere, e con
mormorio titubante ne porgeva minacce. E già me veggendo dubbiosa in troppa
lunga dimora tirare il tempo, con ispaventevole voce disse: «Viva il nostro
suggetto, o giovane, te operante, se l'ira degli iddii non t'è cara».
E con focoso raggio percossami, me tutta
accese del piacere di costui e dipartissi. Ma io, ancora dubbiosa di mostrare
ciò che dentro nuovamente sentiva, lui nudo, bellissimo, quanto il lume
passante le cortine sottili mi concedeva, il vedea, e fra me spesso diceva: «Di
che ti tieni? Va e con le disiderose braccia strigni i vaghi colli».
Egli avea di me lungamente la risposta
aspettata, quando elli, me non rispondente vedendo, disse; «Che farò, o donna?
Passerà il freddo ferro il sollecito petto o lieto sarà dal tuo riscaldato?».
Questa voce mi porse paura; e ogni
tepidezza lasciata, al luogo là dov'elli era subito mi gittai. E tratto della
presta mano l'aguto ferro, lui abbracciai e dopo molti baci li dissi: «Giovane,
gl'iddii, l'ardire e la bellezza di te hanno l'animo mio piegato. E così come
ne' sonni ti fu già detto, sarò sempre tua; che tu sia mio, il pregarti non
credo bisogni, ma, s'e' bisogna, ora per tutte le volte ne sii pregato».
Egli lietissimo, con qualunque saramento
porge più fede, promise quello che io cercava. Così adunque divenni sua e de'
cercati doni il feci contento, e lui ancora tengo per mio e terrò sempre; elli
me e' miei ammaestramenti seguita paziente. Adunque, come avete udito, così di
Venere diventai, la quale veggendo io sollecita ad aiutare i suoi, grandissima
cagione fu a me di seguire la sua deità; la quale tanto più seguito effettuosa,
quanto più a sottometterlemi fui innanzi dubbiosa. E perciò che tante volte dal
mio Caleone, da cui sempre fui chiamata Fiammetta, avanti l'acceso amore verde
fui conosciuta di vestirmi di verde poi sempre mi sono dilettata; e a memoria
etterna de' nostri amori e perpetuo onore della nostra dea, lieta visito questi
templi. –
Non si aspettava più di costei se non i
versi; i quali ella cantando così cominciò:
[XXXVI ]
L'alta
corona e bella d'Adriana
di molte stelle nel ciel rilucente,
a me promessa da voce non vana,
ad
operar virtù già molta gente
nel mondo mosse, tra le qua' Perseo, 5
quella sperando vigorosamente,
armato
da Pallade, ne rendeo,
vinto il Gorgone; e 'l miracol di Creta
con ingegno sottil vinse Teseo.
Da
questa ancora processe la lieta 10
liberazion d'Andromeda, la quale
poi di Perseo fu sposa mansueta.
Bruto
con forza a nessun'altra equale
uccise i figli aderenti a Tarquino,
con giusta scure, perch'elli avean male 15
la
libertà, la quale è don divino,
ancora conosciuta; e 'l gran Catone
che 'n Utica morio, e 'l Censorino
mostrar
con forte petto ogni cagione
dover tor via, la quale a star suggetto 20
viziosamente desse condizione:
e
del lor santo, buono e giusto petto
Utica, Cipri, Libia e Acaia
son testimoni sanza alcun difetto;
e
'l buon Fabrizio ancora, che la graia 25
moneta rinunziò e de' Sanniti,
ben ch' alli avari buona e giusta paia.
I
detti ornati, nitidi e puliti
di Cicerone, e di Torquato i fatti
con que' di Paulo Emilio sentiti, 30
di
Scipion gli onori, i modi e gli atti
per questa fur lor cari, avegna dio
ch'essi per fé non dritta ad essa essa
tratti
non
fosser poi; e se il suo disio
avesse Dido ad essa, quando Enea 35
lasciò lei, volto sanza dire addio
viva
avrebbe alla sua vita rea
rimedio ancor trovato, e forse in guisa
miglior che la credenza non porgea.
E
Biblide dolente non divisa 40
dal mondo si saria, ma, aspettando,
l'anima avrebbe la carne conquisa.
Così
di sé alcuni male oprando
incrudeliscon contro a sé dolenti,
le loro angosce mancare sperando. 45
Oh
come folli sono e mal sappienti
chi per tal modo abandona gli affanni,
a' qua' dovrien più tosto esser contenti
che
con la morte raddoppiare i danni,
o col voler di subito volare 50
da leggier duoli a vie maggiori inganni!
E
io, la qual, per amore approvare,
avute ho quante noie posson dolere
a chi con lui vivendo vuole stare,
la
'mpromessa aspettando, il mio volere 55
ho sommesso al soffrire; e con vittoria
credo del campo levarmi e godere,
di
quella ornata, nella etterna gloria.
[XXXVII ]
Ameto, imposto alla bella donna il
ragionare, sopra la verde erba e' varii fiori distesosi, fermò il sinistro
cubito sopra quelle e in su la mano sinistra posava il biondo capo. E gli
occhi, gli orecchi e la mente ad una ora al viso, alle parole e agli amori
della ninfa teneva fermi; e da' primi pensieri alquanto levato, così come
quella parlava, così i suoi, variamente desiderando, mutava. Elli, udendo
narrare della nobile Partenope l'origine antica, in sé ne gode e fra sé con
tacita voce la loda e quella atta alle cacce più volte si ricorda avere udita,
sì come luogo abondevole di giovinette cavriuole e lascive, di damme giovani
preste e più correnti, e di cerve mature, a ogni rete, cane o istrale avvisate.
E appresso, l'audacia di Caleon ascoltando, temeraria la reputa e in sé lunga
quistione ne tira; e in ultimo pur la loda, estimando che gli audaci sieno
aiutati dalla Fortuna e che, per così bella donna, sia più da biasimare la
savia temenza che il matto ardire. Ma, sopra tutte l'altre cose, della
preveduta donna dal giovane ha maraviglia, e sanza fallo disposizione de' cieli
la giudica; e con fervente disio, nelle spalle ristretto, dice fra sé – Ora
foss'io stato in luogo di Caleon e ciò che potesse ne fosse seguito: e che ne
saria potuto seguire peggio che la morte? Niuna cosa; questa si giudica
suppremo dolore, la quale o sarebbe venuta o no.
Ma pure, se venuta fosse, ella saria da
reputare graziosa, con ciò sia cosa che allora si dica buono il morire quando
altrui giova di vivere. E potrebbesi avere più certa via alle case degli iddii
che rendere lo spirito nelle braccia di sì fatta donna, o per lei, ovunque si
fosse? Certo no; adunque non temerario, ma savio fu Caleone. –
Ma, mentre che elli così fra sé ragiona,
la bella donna, compiuto il ragionare, del suo cantare s'appressava alla fine;
ond'elli, tolto l'animo da questi pensieri, alzò la testa e cominciò a
riguardare a cui dovesse i ragionamenti seguenti donare. Ma nulla altra, che
parlato non abbia, vi si vede, se non la sua Lia, la quale egli, con occhio
fiso mirando, bellissima vede; e tanto più che non suole, che, in maraviglia
venutone, attonito si taceva. Elli riguarda i vestimenti di lei, d'oro simili
in ogni parte, e sopra i bellissimi capelli coronata di quercia, nel viso di
luce mirabile risplendente. Per che, quanto alcuna che quivi sia, dopo lunga
estimazione, la sente bella, e sé della colei grazia ricco sentendosi, tenendo
l'animo fermo in lei, danna gli avuti pensieri quando con fervente disio
cercava d'essere Affron o di mutarsi in Ibrida o divenire Dioneo o parere
Apaten o Apiros o Caleone. Non che l'essere alle passate ninfe suggetto li paia
grave o il rifiuti, ma solamente gli altri, di quelle suggetti, avere più di sé
felici tenuti condanna. Ma sentendo già la ninfa avere finito, in sé tornato,
inverso la sua Lia con umile priego mosse pietose voci, dicendo che, come
l'altre avevano detto, ella dicesse; la quale sorridendo così cominciò a
parlare:
[XXXVIII ]
– Poche parole narrerieno i nostri amori,
ma però che il tempo è molto, il quale ancora ci resta infino alle fresche ore,
e io sola ho a parlare, acciò che elli sanza i nostri ragionamenti ozioso non
passi, tirando in istesa novella i miei parlari, prima l'origine e' casi della nostra
città che i fuochi di Venere in me vi farò manifesti, a quelli poi come si
converrà discendendo. I furti commessi d'Europa da Giove erano occulti allora
che 'l sollecito Agenore, per la figliuola cercante pietoso e dispietato
divenuto ad una ora, la crudele legge impuose al figliuolo Cadmo, il quale,
ricevuto il comandamento, ubidiente e sbandito si fece insieme. E mentre che
elli pellegrino indarno la perduta sirocchia ricerca, nell'alto animo entrano
eccelsi pensieri, cioè di dare a sé e a' compagni sidonii nuove mura. E quinci,
avuto il consiglio d'Appollo, seguio la non domata giovenca tra' monti aonii, e
dove ella, mugghiando, finio il corso suo, insieme co' figliuoli de' serpentini
denti fermò la terra nominata Boezia; la quale, se vergini meno belle avesse
produtte, più lunga fortuna s'avria riserbata ch'ella non fece. Questa, già
l'ire di Giunone sostenute forse per Danne e per la misera Semelè, stata chiusa
da Anfione dopo le miserie d'Atamante, nelle mani pervenne di Laio; e già
grandissima e piena di nobile popolo, forte contra ciascuna altra possente,
lieta ne' sacrificii di Bacco vivea. Questi, pochi di avanti che dal figliuolo
ricevesse il mortal colpo, maritò una sua sorella picciola, nominata Ionia, ad
Orcamo, nobilissimo uomo ne' regni suoi. La quale, i mezzi termini della vita
toccati, alla grave vecchiezza sanza figliuoli declinava correndo, e già
vedendosi vicina alla età de' parti contraria, ancora che Tebe in pistolenzioso
stato con battaglie continue dimorasse per l'ira de' due fratelli, con lagrime
a Bacco porse pietosi prieghi che egli i suoi dì consumare non lasciasse sanza
figliuoli. Il pregato iddio, ancora che fatigato fosse per li prieghi a lui
porti continui per la comune salute della patria, diede orecchi a' prieghi, e
a' parenti, che non doveano vedere la nata prole, con segni mostrò le loro
orazioni essere udite. Laonde Ionia lieta, col marito nella profonda notte
avuti dilettevoli giugnimenti, concepeo i disiati frutti; dopo la qual cosa per
l'ampio letto sparse i gravi membri e, gli occhi in tenebre volti, con lungo
silenzio si dispose a' cheti sonni. Li quali poi che 'l sollicito petto ebbero
preso con ciascuna altra parte di lei, agli occhi della vegghiante anima
apparvero nuove cose: però che a lei pareva dopo la matura pregnezza, invocata
Lucina, quale ad Astiage parve che Mandane una vite, tutta Asia adombrante,
partorisse, cotale partorire uno nuvolo di maravigliosa grandezza, le cui
estremità l'una era premuta dal cielo e l'altra la terra premeva, e infinito la
circunferenzia di quella si stendea; il quale con ammirazione rimirando, le
parea che quello due volte da terribili folgori fosse rotto, ma dopo picciolo
spazio si rintegrasse; e poi la terza volta, vegnente fiamma più poderosa,
quello tutto accendea e, acceso, in vapori lievi risolvea, tutto lasciando il
mondo aperto. Questa maraviglia ebbe forza di rompere il sonno, e quella,
desta, ebbe di dubitare cagione, e già paurosa s'incominciava a pentere della
impetrata grazia. Ma poi che i fati apparecchiati alla generata prole per savio
agurio le furono fatti palesi, lieta i tempi del dolente parto cominciò ad
aspettare. Ma, avanti che quelli venissero, cadde Orcamo ne' sanguinosi campi
da Tideo fedito, onde Ionia più dolente con lugubri vestimenti a quelli più
s'affrettava, sperando che del frutto del ventre suo Tebe d'un altro Orcamo
rintegrerebbe. Venne il tempo, e Lucina, chiamata a' tristi parti, a colei, che
più sollecita a' propii beni che alla salute comune era stata, lieti non li
volle concedere, ma, dando libera uscita al creato figliuolo, l'anima tolse
alla madre. Laonde Ismene, de' fati conscia del garzone, con sollecita cura il
ricevette e lui come figliuolo nutricando nominò Achimenide. Ma poi che le male
cominciate battaglie, non valuti di Iocasta i preghieri, ebbero fine per li
caduti fratelli da pari fato, e le mura composte da chiaro suono, cadendo
miseramente, sotto Teseo videro i fondi loro, Ismene, l'ire prima di Creonte e
poi dell'iddii fuggendo, ne' regni di Laerte ne portò Achimenide, il quale, piccioletto,
appena ancora sanza latte sapeva vivere; e quivi miseramente, sotto spezie di
privata persona, lui recò ad età virile e all'arme del padre il diede tutto.
Intanto la fortuna, permutatrice de' beni
mondani, tra' Frigi e gli Argivi, per la rapita Elena accese odii mortali e
mosse inimichevoli armi. Nelle quali igualmente ogni gran greco concorse col
suo sforzo; e tra gli altri principale fu lo eloquentissimo Ulisse, il quale
Achimenide, già robusto e potente nell'armi, fidandosi nella virtù della sua
giovanezza, seco il trasse alle troiane battaglie. Le quali poi che con fuoco e
con sangue ingannevolmente dopo più soli furono finite, e il pietoso Enea
sbandito cominciò per lo mare a vagare, Ulisse co' suoi, risaliti sopra i suoi
legni e venuti dopo molte tempeste nel mare Tireno, in Trinacria, forse da
necessità sospinti, presono terra. Dove a Polifèmo cacciato l'occhio,
frettolosi il mare ricercarono e dimentichi il misero Achimenide tra le furie
del Ciclopo in forse della sua vita sanza arme lasciarono. Il quale poi dalle
navi nemiche quindi dopo molte paure fu da Enea levato e ne' salutevoli porti
del Tevero ad usare l'armi con lui ne fu recato; là dove egli, non ignorante
del ricevuto beneficio, mirabilmente operò nelle colui vittorie. Le quali poi
ch'ebbero fine, e quelli lieto e solo possedeva Lavina, fermate in Laurenzia le
sedie sue, Achimenide, tratto da' fati, al figliuolo d'Anchise cercò commiato;
e co' suoi avoli participando nella grandezza dello animo, le 'mpromesse fatte
a lui ne' tempi della miseria, tratti tra le cieche minacce di Polifemo, cerca
di porre ad effetto, e la caduta Tebe rifare sotto migliore cielo. Elli ebbe la
dimandata licenzia, e oltre a ciò armi, cavalli, tesori e molti compagni gli
concesse il vittorioso prencipe; da cui partito, verso questi luoghi il menò la
disposizione delli iddii; e venne in questi campi da pochissime case occupati.
Anzi dovete sapere che, essendo Corito bellissimo monte, il quale qui a noi di
sopra vedete, di poco tempo appresso lo 'nganno d'Europa abitato da Atalante
figliuolo di Giapeto, bene che alcuni dicano da Corito, d'Elettra marito, vi
nacquero tre giovani, Italo, Dardano e Siculo, ciascuno di quello cercante il
dominio dopo la morte del padre loro. Ma per divino responso il luogo con tutte
queste appartenenze ad Italo fu conceduto e agli altri due imposto di cercare
nuove sedie; le quali loro apparecchiate da' fati, in altre regioni perverrieno
a grandissime cose. Li due fratelli, a ciò disposti, con gran parte de' popoli
loro vennero in questo luogo, il quale non tempio, non casa né albero il
difendeva dal cielo, fuori solamente una altissima quercia, quivi, come si
crede, piantata anzi che Giove allagasse il mondo, con distesi rami, piena di
frondi e di ghiande, non lunge di qui trecento passi, inverso il mezzo giorno
andando, ci si vedea. Sotto la quale questi si raccolsero co' loro compagni e,
accesi pietosi fuochi e uccise cento pecore e altrettanti vitelli, le loro
intestine poste sopra i fatti altari, con divota voce così cominciarono a dire:
«O fortissimo prencipe, o duca delle battaglie, o reverendo Marte, li cui
focosi raggi i nostri antichi menarono a questi luoghi, essaudevole prendi i
nostri prieghi, e i liberi sacrificii, avvegna che rozzi, come lietamente son
fatti, così da noi li ricevi; e per la potenzia de' tuoi regni e per le tue
eccellenti vittorie, le quali ancora le sparte membra de' Giganti testimoniano
in Flegra, e per li santi amori da te alla madre di Cupido portati, prospera i
passi nostri e ne' tuoi servigi gli avanza; e questo luogo, il quale quasi
nelle estremità del nostro sito natale a' tuoi sacrificii primi abbiamo eletto,
sempre potente serva a' tuoi servigi, e questa albore, sotto le cui ombre
divoti porgiamo i prieghi con agurio di maggiore tempio, accresci con migliori
rami; dintorno alla quale, quanto il nostro arco per ogni parte si può una
gittata distendere, come propria nostra ereditaria ragione ti doniamo, il
rimanente libera lasciando al raggente fratello. Questa sempre sia inculta da'
successori a' tuoi servigi servata; qui giuochi perpetui in onore della tua
deità in simile giorno ogn'anno si celebrino ad etterna memoria della nostra
partenza».
Aveano detto, quando il cielo, di
maggiore luce risplendente e con disusata chiarezza il luogo illuminando, diede
segni che quelli prieghi avesse in sé ricevuti, e le passe frondi per lo
soperchio sole levarono i loro caccumi. La qual cosa manifestata a tutti i
circunstanti, lieti sopra il verde strame con ottima speranza de' tempi futuri
si diedono a mangiare; e presi i cibi, i due fratelli co' loro compagni,
abbracciando quelli che rimanieno e teneramente dicendo addio, dirizzarono i
passi loro a quelle parti le quali ancora etterna memoria tengono de' fatti
loro. Il luogo rimase reverendo a' Coritani, e secondo la promessa de' due
fratelli li dierono termini, e sacrificii e giuochi ordinarono al potente
iddio, e il luogo da' ricurvi aratri e da qualunque morso con sollecitudine
inleso servarono, né violenta mano in quello sanza agra punizione s'adoperava
già mai. Quivi i Coritani e i circunstanti popoli, se alcuno ce ne aveva, delle
bisognevoli cose alla rozza vita trattavano, quivi le solennità de' loro
matrimonii celebravano, quivi, i dì solenni festeggiando, dimoravano le vergini
e i loro amanti sotto le grate ombre dell'albero, nel quale la santa deità di
Marte estimavano inchiusa, prendendo sopra la verde erba diversi diletti. Ma
già ne' secoli delle vittorie d'Enea pervenuti, avvenne per avventura che, il
giorno a' solenni sacrificii dovuto essendo presente, i circunstanti e
multiplicati popoli con voci sonore apparecchiavano e a' sacrificii e a'
giuochi le debite cose, con pompa maravigliosa e intenta a' santi onori dello
iddio, quando Achimenide co' suoi compagni pervennero al luogo. E lieti per la
trovata festa, già per più interamente vederla, co' loro cavalli si voleano
accostare alla santa quercia; ma dell'ordine de' sacerdoti a' sacrificii
disposti di quello iddio partendosene, uno venne incontro ad Achimenide con
queste parole: «O chi che voi vi siate, o giovani, fermate i passi vostri, né i
santi termini co' vostri cavalli violate de' campi di Marte, se la sua ira e
quella de' presenti popoli recusate».
E loro il solco mostrato, da quello
innanzi co' cavalli vietò l'andata. Tirarono a queste voci gli armigeri le
lente redini i passi fermando, il loro iddio dubitando d'offendere; e intenti
rimiravano le solenni cose e con vago occhio le ninfe quivi venute miravano. Ma
mentre che essi intenti a queste cose rimirano, Achimenide, stante sopra uno
alto cavallo e di pelo soro, fortissimo, ornato di bellissima arme e lucente di
molto oro, forse de' doni da Enea ricevuti coperto, da quello, non giovanti le
redine né la forza del soprastante, per mezzo l'adunato popolo e festante, e
de' parati flammini sanza offesa d'alcuno trapassati i dati termini, fu
trasportato davanti a' santi altari; e quivi con la testa levata, con fremire
altissimo fermato, quale Pegaseo fece negli alti monti, cotale in terra dando
del destro piede e la terra cavando, che mai violazione alcuna più non avea
ricevuta, prima i circustanti turbò con paura e appresso li stupefece con
maraviglia. Li quali non dopo molto, veggendo li sacrificii impediti e il santo
luogo offeso dalle dure pedate dell'aspro cavallo, comincianti tumultuoso rumore,
tutti sopra Achimenide si rivolsero; e se quivi pietre o armi fossero state,
l'ultimo suo giorno era venuto. Ma elli, rivolto a quel romore, con l'autorità
che il suo viso testimoniava, con la mano levata, e a' compagni venuti alla sua
salute e a' circustanti popoli impuose silenzio, i quali, ammoniti da'
flammini, avvegna che ardenti ne' colui mali, tacendo ad ascoltare si
dispuosero lui dicente così: «O santissimi popoli, vacanti a' sacrificii a me
più cari, sanza ragione ma non sanza cagione inver di me adirati, non sia
nell'animo vostro credibile me voluntario qui venuto ad impedirvi, ma invito,
tirato dal mio cavallo, come poteste vedere; il quale, forse degli iddii
ministro, alle necessarie e promesse cose ignorante m'ha arrecato. Sia adunque
la deità reverita da voi testimonia alle mie parole, la quale io strano invoco
ne' miei aiuti, e dea al vero effetto, e con miracolo punisca i falsi detti. Sì
come a voi non dee essere occulto, diverse sono le disposizioni degli iddii e
sempre nuove cose apparecchiano al mondo; delle quali se voi, com'io credo,
avete alcuna volta sentite, con minore maraviglia i miei fati ascolterete, e
quello che al vostro e mio iddio è piacere benivoli adempierete. Io, nato di
tebano padre e per madre delli sventurati prencipi della città medesima, pic
ciolissimo nelle ultime tribulazioni della mia terra trasportato nelle terre
del narizio duca, vi fui cresciuto; e da lui, il quale io seguitai a vendicare
l'onte de' Greci, dopo le frigie fiamme lasciato nell'isola del foco, quivi
nutricato da erbe, temente le cieche mani del furioso Ciclopo, vidi più soli in
molta miseria. Nella quale mentre io già con barba prolissa e con ravolti
capelli, da' logori vestimenti lasciato ignudo, miseramente vivea, già più
bestia parendo che uomo, più volte udii gli amori di quello portati a Galatea
in rozza canzone; e dopo quelli, della privata luce dolendosi, più s'accendeva
nell'ire.
Onde io, più volte stato presso alle
sordide mani tentanti ogni cespuglio, spese fiate m'imaginai co' miei membri compiere
la sua rabbiosa fame; e timido, non sappiendo che farmi, in ultima
disperazione, posto con le ginocchia curvate sopra la salvatica terra, levato
il viso al cielo, cotali voci porsi al nostro iddio: «O Marte, ne' cui servigii
dinanzi a' monti. Ogii cadde il padre mio, e il quale io ho sempre seguito
nelle fiere battaglie, e seguirei se luogo mi fosse dato, volgiti pietoso a'
danni miei. E se nella tua deità vive quella virtù che già più volte, da
Agamennone cantata, pervenne né miei orecchi, questa vita ferina non dee essere
mia né disarmato debbo per sepultura avere le crudeli interiora del Ciclopo.
Alla quale se tu non sovvieni, già disperato e più non possente a sostenere le
presenti tristizie, alle lungamente fuggite mani per ultimo fine de' danni miei
moribundo mi porgerò di presente».
Io avea di poco queste parole finite; e
quasi come se nell'aure perdute l'avessi, la morte, alla quale sanza indugio mi
disponea, pietoso di me medesimo lagrimava, quando tra li rotti monti e i
fracassati alberi orribile voce, forse come a Cadmo venne rimirante il
serpente, mi percosse gli orecchi con queste parole: «O figliuolo di Ionia,
serva la vita tua utile ad alti fati.
Tu, tolto di qui dal figliuolo della
nostra Venere, ora cercante i regni italici, con lui ne' campi latini
acquisterai nelle mie armi mirabile gloria. Dopo la quale, in Etruria, tra
popoli a me molto grati, edificherai mura e templi alla deità nostra là dove il
tuo cavallo, con forte unghione fermato, caverà la terra dinanzi a' miei altari
sotto fruttifero albero, construtti per adietro da Dardano, e quivi rinoverai
la caduta Tebe ne' miei servigii».
La dolorosa mente temperò le lagrime, e
con migliore speranza tanto rimirai l'onde che i promessi legni venuti mi
tolsero da' salvatichi luoghi e trasportarono a' detti campi, ne' quali,
favente Marte, ciò che promise ottenne il troiano duca, e io. Da cui io,
seguendo le cose promesse, mi partii con molti doni; né animoso d'offendere
venni qui, sì come il divino uccello ne' raggi d'Appollo, sotto la cui
protezione mi vedete, vi può palesare, ma per trovare con pace l'annunziate
cose dalla santa bocca, le quali ancora in niuno luogo trovai se non qui. Se
questa è Etruria, se qui gli altari sacrati dal pietoso Dardano sono, voi il
sapete; e se sono essi, il mio cammino è finito per lì veduti segni del mio
cavallo; qui le non pensate sedie da voi sì furono largite da Marte, le quali
io, sanza ingiuria d'alcuno, domando che mi siano date; e tu, o santissimo
iddio e aiutevole ne' bisogni, sii presente e favoreggia i doni promessi al tuo
suggetto».
Queste parole dette da Achimenide,
l'antica quercia si mosse tutta e l'accese lampane diedono maggiori lumi e i
sagrati campi mandarono fuori infiniti fiori e i cavalli, stati chetissimi
infino allora, diedero fortissimo fremito e i cuori di tutti gli ascoltanti si
riscossono. Per le quali cose, maravigliose e vere reputarono le parole del
parlante Achimeninde, e dopo picciolo spazio sanza altra deliberazione
reverenti cercarono la sua pace, la quale avuta, con multiplicata festa con lui
e co' suoi compagni i sacrificii e' giuochi rincominciarono. La fine de' quali
venuta, tutti profèrtisi a lui, ricercarono le loro case. Ma a questi luoghi
vicina, sopra l'onde del piacevole Sarno, una ninfa discesa di Corito, nobile
di sangue e di costumi, Sarnia chiamata, in ispaziose case con non gran popolo
abitava; e il suo nome avea imposto a' luoghi, e villa sarnina la chiamavano
tutti. La quale, l'avento sentito del nobile uomo, con altre accompagnata, il
visitò alle feste e lui co' suoi compagni lieta ricevette nelle sue case. Nelle
quali Anchimenide con agurio di dimoranza etterna ne' presi luoghi lei ancora
vergine con matrimoniale legge si giunse, contenta di tale marito. E dopo i
riposati affanni con diliberato consiglio diede ordine alla nuova Tebe e sotto
antiveduta costellazione, Marte dimorante nelle sue forze, a riverenza di lui
fondò le mura di questa, contenta di piccolo cerchio ne' suoi principii, né in
alcuna parte i termini dati dalli primi sacrificanti né 'l luogo passò. E poi
che elli ebbe alle porti e alle torri ordinati i luoghi loro, tolta via
l'antica quercia, colà dove dimorava, a Marte compuose in forma ritonda uno
onorevole tempio, il quale ancora in piè dimorante, ornato di marmi varii, la
sua gradezza ne mostra. E quindi alle rughe e all'alte rocche e alle case
popolesche diè forma, raccogliendo in essa gli abitanti di villa sarnina e
qualunque altro, sopra essi tenendo piacevole dominio e grato a' sottoposti.
Elli, già d'anni abondevole e tutto bianco per la sopravenuta vecchiezza,
vedendo la posta terra d'abitanti ripiena e a' cari compagni spose e ciascuno
di figliuoli abondante, sì come egli medesimo abondava, contento l'anima rendè
all'iddii. Al quale sucedette Iolao, suo maggiore figliuolo, nella signoria; e
questi, similmente in anni e in fortuna multiplicato, vecchio morendo, a'
successori lasciò il dominio. A' quali non fu, come a' primi benivola la
fortuna. La quale, dante ne' principii i beni con mano troppo larga, a quelli
di Corito li rendé invidiosi; e tra loro de' termini della iurisdizione della
loro città nata mortale quistione, nuove battaglie cominciarono tra' popoli; e
costei, ritratta la mano, sovente in danno de' cittadini nuovi le rivolgeva.
Laonde mesti e non usati a' danni, mal pazienti
le sostenieno; e più volte l'ire piansono degli iddii, i quali né prieghi né
sacrificii pareva che mitigare li potesse, né offese commesse si conosceano per
le quali adirati giustamente essere dovessero contra la nuova terra. Onde, dopo
lungo pensare, solamente restò loro nell'animo che lo sfortunato nome della
città i miseri fati avesse, seco dicendo: «Ancora durano gli odii degli iddii
in questo nome, e i dolorosi casi venuti sopra la generazione cadmea ancora
sopra noi caderanno, e nelle dolorose ruine de' figliuoli del solvitore de'
problemati di Spingòs disaveduti incapperemo, se lungamente dura questo nome a'
nostri luoghi».
Per la qual cosa di piana concordia a
dare a questa altro nome dispostisi, per quello speravano più benigna fortuna.
Ma essi, lì di popoli varii ragunati, diversi disiderii ebber tra loro. Altri
voleano che quella si chiamasse Mavorzia dal principale iddio reverito da loro,
alcuni, estimando questo battaglievole nome e più atto ad accendere danni che a
spegnere, più utili Sarnia estimavano, questa dal nome della prima donna
volendo nomare, e tali erano che Achimenida la voleano chiamare, e i più
antichi Dardania; e così discordanti, né sorte né altro li poteva accordare,
onde per diliberazione comune nell'albitrio delli iddii rimisono il nominarla.
E però che in quella non solamente ad uno porgevano incensi, ma già ripiena di
meccanici varii, a diversi sacrificii donavano e a tutti aveano templo
ordinato, ciascuno, accesi fuochi al suo, con pietosi prieghi porse il suo disio.
I nebulosi fummi si risolveron nell'aere, e i riscaldati altari e i dati
sacrificii co' porti prieghi toccarono gli iddii, li quali, come pregati,
intenti a' disiderii de' preganti discesero in questo luogo ove noi stiamo. E
se alcuno cittadino fu di questo avvisato, egli poté vedere qui Marte focoso di
molti raggi armato tutto e al sinistro suo ome ro uno scudo vermiglio
grandissimo; e con lui la saturnia Giunone per autorità e per abito reverenda;
e apresso a loro la discreta Minerva ornata delle sue armi, e il sagace
Mercurio con la sua verga e col cappello e con le volanti ali; dopo li quali la
bellissima Venere con le sue bellezze aperte, insieme con Vertunno, il quale le
varie forme avea lasciate e tenea la propia. Questi sei solamente ne dice la reverenda
antichità che furono chiamati al detto uficio, li quali ancora che pieni
fossero di ragione, niuna concordia dello imposituro nome fra loro avere si
potea. Per la qual cosa giudice nella loro quistione elessero Giove, davanti al
quale ciascuno per sé porte efficaci ragioni, titubante il giudicio nella mente
del giudicante, a quelle niuna cosa disse. Ma pensata nuova maniera a decisione
della presente quistione, così parlò: «Chi saria giusto giudice a dimostrare
quali parole delli iddii abbiano più forze, con ciò sia cosa che tutti e lingua
pari e iscienza tegnate? I vostri effetti mostrino chi più possiede della
tencionata quistione, de' quali qual più sarà eccellente, a colui il mutare
nome a Tebe che si convenga giudicheremo. E nel mostrare quelli da voi si terrà
cotale ordine: noi daremo a ciascuno in mano un picciolo bastone, col quale
ciascuno di voi una volta sola batterà il fiorito prato ove noi dimoriamo; e a
cui davanti più laudevole cosa surgerà di quello colpo, da tutti voi ad un'ora
donato, colui giudicheremo che dea l'etterno nome».
E detto questo, levatosi da sedere, con
le mani sante divelse un giovane cornio solo crescente in dritta verga, e
quello in sei diviso, a ciascuno diede la parte sua, e comandò che ferissero;
li quali tutti ad una ora ferirono. E subitamente si vide dinanzi a Marte,
aperta la terra, infra le belle erbette e' fiori, con mormorio non intendevole
soffiando, uscire una chiara fiamma, quale forse già da' nostri antichi prima
fu, in fummi ravolta, veduta uscir di Veseo; e stante ferma, non ricevea
impedimento dal sole. E alla sacra Giunone che con lieve colpo avea il prato
percosso, quale ad Orione sopra le piane acque apparve il ricurvo dalfino,
cotale, in alto levata la terra, un picciolo monte si vide davanti, del quale
cadute le verdi foglie, quello essere lucentissimo oro lasciarono vedere. Ma
alla savia Minerva, sedente alla sinistra di lei, nella presenzia si vide
l'erbe prendere subita forma di vestimenti cari per maestero e per bellezza,
non altrimenti cambiandosi che le tele delle figliuole del re Mineo in tralci
con pampini per lo peccato commesso del dispregiato Bacco. Ma a Mercurio, che
con ammirazione il luogo ferito da lui riguardava, così come ne' colchidi campi
arati dal tesalico giovane subito di serpentini denti si videro surgere
armigeri, si poté riguardare, prima col capo irsuto, poi con aguti omeri e
quindi tutto l'altro busto d'uno ruvido satiro uscire della terra, e, sanza
dire nulla, salvatico nel suo cospetto porsi a sedere. Appresso si vide davanti
alla pietosa Venere diritti gambi, di frondi verdissime pieni, cotali della
terra usciti quale la turea verga fu della sepultura di Leucotoen produtta da
Febo, e quelli di bianchissimi gigli carichi nelle sommità loro. E ultimamente,
come la terra dal tridente di Nettunno percossa partorì un cavallo, così
davanti a Vertunno uno orecchiuto asino, il quale ragghiando fece tutto questo
piano risonare, si vide uscito.
Di questo risono tutti gl'iddii; ma, le
risa rimase, ciascuno attento il viso rimirando di Giove, attendevano la
sentenzia. Ma egli, questi effetti veduti, con alto pensiero li rivolge nel
santo petto, e con estimazione da non opporvi, in sé di quelli giudica in
questo modo. Egli prima l'asino vile e inerte, più di romore pieno che
d'effetto, indegno di queste cose il condanna, e i gigli, avvegna che belli,
caduci e poco duranti conosce; il satiro, reo e malvagio e con agreste aspetto
disposto a male operare, agurio di futuro infortunio il reputa; le veste,
avvegna che utili, fragili le conosce, e la massa dell'oro pigra e di briga
cagione e d'affanni, né per se medesima nobile, come pare agli stolti,
discerne; e solo nella sua mente il fuoco utile a ogni cosa, etterno e a sua
deità simile più ch'altro estimò dopo lungo pensiero. Per che così con voce
aperta proferse agli aspettanti dei: «O meco tegnenti le case superne, con voce
inrevocabile per sentenzia doniamo l'onore del nominare la presente città al belligero
Marte, producitore in questi luoghi di più mirabili effetti che alcuno di voi».
Niuno mormorio degli ascoltanti seguì
queste parole, ma taciti aspettarono quale nome a quella si donasse da Marte.
Il quale, acceso di rossa luce, i visi degli iddii rimirando, alquanto quello
della sua amica conobbe turbato, però che focosa, tacendolo, avea desiderato
cotale onore. E se egli i detti di Giove avesse potuti passare, liberamente a
lei avria conceduto il suo disio; ma, non potendo, in cotal modo pensossi di
contentarla. E levato il capo, con alta voce mosse queste parole: «Ecco che a
me è dato di potere, come mi pare, imporre il nome tra tanta gente di questa
città vacillato. Il quale io da me o da' miei effetti volentieri donerei; ma
però che orribili sono e di battaglie dimostratori, più piacevole ho di donarlo
estimato».
E Venere rimirata nel viso e poi con mano
presi i fiori di quella, seguì: «La stagione e questi, ad essa non disiguali,
da questi mi tirano a nominarla; per che io per etterno nome le dono Florenzia.
Questo le sia immutabile e perpetuo infino negli ultimi secoli. E perciò che
essi sono alle mie battaglie disposti e sanza segno contra i nimici s'
afrontano, per vittorioso segnale il mio scudo voglio a quella lasciare; e
acciò che quello col nome sia uniforme, uno di questi gigli bianchissimi voglio
aggiugnere a quel vermiglio».
E così fece. Queste voci e più gli
effetti renderono al viso di Venere la letizia. E il prato si riprese le cose
produtte e il cielo ricevette gli iddii; solo Marte agli aspettanti apparve nel
tempio suo, e a quelli, il nome manifestato e 'l segnale, lasciando lo scudo
suo, come gli altri aveano fatto se ne salì a' suoi regni contento. I cittadini
lieti, per doppia cagione essultanti, renderono debite lode di tanto dono e
aggiunsero sacrificii al loro iddio e crebbero il numero de' suo' sacerdoti e
quello giorno costituirono solenne per sempre mai; e preso il nome e lo scudo
per bonissimo agurio, mirabile frutto con intera speranza nel futuro attendeano
del fiore. E in brieve tempo, dopo il mutato nome, più che mai si sentirono la
fortuna benigna; per la qual cosa gli animi egregii disposero ad alte cose; e
ampliato il loro senato e il numero de' padri cresciuto e tutti armigeri
divenuti, levatosi l'aspro giogo de' Coritani, già soprastanti per le
indebilite virtù, sì rintuzzarono le loro forze che appena il monte erano
osanti discendere; né alcun altro vicino con loro sanza danno imprendeva
battagla. E sì loro era graziosa stata Lucina che in brieve, riempiute l'antiche
mura, gli strinse ad ampliarsi, e più si fecero al fiume vicini, e ogni dì di
bene in meglio avanzando, Roma e la gran Capova eccettuate, già tra l'altre
città italice la migliore si potea raccontare. Ma però che la non durante
fortuna, quanto più le cose mondane alla sommità della sua rota fa presso,
tanto più le fa vicine al cadere, non volendo questa estorre da quella legge,
chiusa la larga mano allora che meglio si pensava di stare, le sue mutazioni le
fece conoscere. E caduta nell'ira di Lucio Silla, disperso il suo pieno popolo
in molte parti, lei sotto l'asta vendeo, anzi, come alcuni dicono, le fece con
amaro colpo sentire la sua prima ruina; e da alcuno iddio non atata, consumata
da molto fuoco, appena fra la cenere riservò i suoi vestigii con l'antico
tempio. Ma Sarno lei vedendo ne' danni estremi venuta e non potente resistere
alle sue onde, però che chiamato non fu alla sua nominazione con gli altri
iddii verso quella crucciato, vedendo il tempo atto alle sue vendette, l'ire
lungamente tenute nascose, uscendo de' termini suoi, fece palesi; e gonfiato e
d'acque abondevole allagò questo piano, e le lievi ceneri cadute delle triste
reliquie con torbida fronte ne portò in Occeano, poi lieto tornando ne' suoi
confini.
E così con trista sembianza infino a'
tempi di Catellina si stette, gl'inganni del quale, da Cicerone scoperti, gli
furono cagione di lasciare Roma e di fuggire in Fiesole, allora fortissima,
come ancora si vede, nella quale gran parte riparavano de' suoi seguaci. I
quali poi che con lui miseramente nel campo Epiceno furono deleti, a porre
freno a' rigogli di quella, per li romani padri si diliberò di restaurare le
cadute mura di questa di cui parliamo. E qui, forse a rintegrare i beni dubbii
della romana republica, venuti i romani prencipi Gneo Pompeo e Gaio Cesare e
altri, in picciolo cerchio con edificii mirabili simile a Roma rilevarono
Florenzia, e insieme di romani nobili e di potentissimi fiesolani lo sparto
popolo renderono alle mura. Rifatte le quali, con nome dubbio e non meno nel
romano senato litigato che prima, stette bene per uno secolo, da diversi
diversamente chiamata. Ma ultimamente, riassunto il vero nome che ancora tiene,
felice sanza ampliarsi infino a' tempi del crudele vandalo, d'Italia guastatore
e ferocissimo nemico dello imperio romano, si stette, già fedele divenuta a
colui che fece tutte le cose. Ma i frodolenti avvisi dello iniquo tiranno con
più spargimento di sangue che prima diedono via alle seconde fiamme; e così,
con poche rocche e col ritondo tempio in piè rimase, per più secoli stette
distrutta; e di vepri riempiuta e di pruni, di sé appena porgea altro indizio
che ora faccia Troia ne' luoghi suoi. Ma poi che per lo gallico prencipe magno
furono con Desiderio re le longobarde rabbie atutate, con più prosperevole
agurio da' padri, che altra volta l'aveano rifatta, fu riedificata la terza
fiata; e da quelli insieme con li costretti Fiesolani fu abitata e chiamata il
propio nome infino a questi giorni. E avegna che Vulcano con ispaventevoli
fiamme e Tetide con onde multiplicate e il non reverito Marte con furibonde
armi e Tesifone con seminate zizzanie e Giuno con turbamenti contrarii più
volte si sieno gravemente opposti alla sua salute, e crolli da temere molti
l'abbiano donati, sempre è in istato multiplicata maggiore e delle passioni
sostenute riuscita più bella; e con maggiore giro presa la terra, piena di
popolo, in mezzo s'ha messe l'onde nimiche delle sue mura. E oggi più potente
che mai, in grandissimi spazii si veggono ampliati i suoi confini; e sotto legge
plebea correggendo la mobile pompa de' grandi e le vicine città, gloriosa si
vive, presta a maggiori cose se l'ardente invidia e la rapace avarizia con la
intollerabile superbia, che in lei regnano, non la 'mpediscono, come si teme.
In questa, nella parte posta di là dall'onde, gli avoli miei e il mio padre
nacquero e io, e da diminutivo di regali fummo cognominati. Il quale mio padre,
da' celestiali nunzii prima che Cefiso nominato, portante le sue ali vermiglie
nell'oro, sopra queste onde prese la madre mia, e me, di grazia piena, ingenerò
sopra quelle. E negli anni debiti mi donò ad isposo, i giorni del quale tosto
venuti meno mi furono cagione di congiugnermi ad altro per simile legge; col
quale come io vivo contenta qui non è ora da raccontare. Ma essendo io dalla
mia puerizia a Cibelè divotissima stata e avendo sotto la sua dottrina visitati
i monti e gli archi usati e le saette, tutta di Venere, non so come, nelle
fiamme m'accesi. E avegna che quelle molto celi la mia sembianza, le mie voci
non le poterono nascondere, anzi vaga cantando sovente sopra la prossima riva,
presi Ameto del mio piacere e fui presa del suo, come potete vedere. Elli,
rozzissimo, e nato di parente plebeio, vicino al luogo là dov'io nacqui, e
<i precedessori suoi>forse per loro virtù tegnenti cognome d'ottimo, fu
di nobile ninfa figliuolo. Della quale i parenti, così gentili come antichi,
sopra l'onde sarnine abitan quasi nella infima estremità della parte opposta a
questi luoghi; e se più un gambo la prima lettera avesse del loro cognome, così
sarebbono chiamati come le particelle eminenti delle mura della città nostra.
Costui, seguitandomi, ho io tratto della mentale cechità con la mia luce a
conoscere le care cose, e volenteroso l'ho fatto a seguire quelle; e già non
crudo né ruvido sembra, se bene si mira, ma abile, mansueto e disposto ad alte
cose si può vedere. Per la qual cosa non meno a Venere tenuta di voi, come voi
fate, così con sacrificii l'onoro, e farò sempre. –
E quinci, acciò che l'ordine servasse
dell'altre, cantando cominciò questi versi:
[XXXIX ]
O
voi ch'avete chiari gl'intelletti,
le menti giuste e negli animi amore,
temperati voleri e fermi petti,
speranti
di salire a quello onore
del qual più là non può cercar disire, 5
se ben si mira con intero core,
deh,
rivolgetevi alquanto ad udire
il mio parlare e attenti notate
il ver ch'ascoso cerca discovrire.
Le
cose a me da Cibelè mostrate 10
veder non puote natural ragione
né altra industria essil che voi abbiate,
se
dentro alla divina regione
con fermo creder non passa la mente,
sanza cercar del come la cagione, 15
dentro
la qual io dimoro sovente;
e ciò che certo credo intra' mondani,
quivi il discerno visibelemente.
Io
conosco che li ben sovrani
e gl'infimi qua giù furon creati 20
interi, e ben, dalle divine mani,
e
'nnanzi a' nuovi secoli formati
essere in tre persone e una essenza
etterno il sommo ben da cui sian dati;
e
sanza alcuna natural potenza 25
nel virgineo ventre esser discesa
superna prole a purgar la fallenza
che
nelle man di Pluto diede presa
la stirpe prometea, e che sì nacque
che la virginità non fu offesa; 30
similemente
ancor come nell'acque
giordane prese quel santo lavacro
dalle man di colui che più gli piacque,
dando
principio a quel misterio sacro
per lo qual rinasciam, gittando via 35
delli primi parenti il peccare acro;
ancora
insieme orribile e pia
la morte porta dal gravoso legno
così per pace altrui come per mia;
e
dopo questa il rilevarsi degno 40
poi la spogliata Dite e il tornare
al padre suo con triunfal segno,
con
quanto intorno a questa raccontare
al leone e al bue e all'uccello
piacque, e all'uom che scrisse sanza
errare, 45
o
qualunque altro che prima o poi d'ello
iscrisse, da costor non deviante,
con intelletto, o forse con pennello.
E
lui ancora attendo ritornante,
quando risurgerem tutti presuri 50
per sé ciascun com'e' fu operante,
e
simile che 'l santo ardor che' duri
e' lieti casi, spirando del petto
de' sommi vati, ne disse venturi,
col
genitore e 'l genito, uno effetto 55
dall'uno e l'altro igualmente spirando,
e con loro uno, è etterno e perfetto.
E
una esser la chiesa militando
qui de' fedeli, dalla qual di fuori
alcuno a' cieli non sal triunfando; 60
e
legittimi e giusti ancor gli amori
del matrimonio tengo, e il pentere
col confessar rimedio a' peccatori.
Così
nel sacrificio è da tenere
in Cerere e in Bacco il divin cibo 65
s'asconda a noi per debole vedere,
sol
ch'operato sia degno carribo,
a così alti effetti, e che colui
ch'opera questo sia di degno tribo,
e
quanto ancor dimostra ad altrui 70
cantando o predicando quella diva,
non se ne salva nullo fuor di cui.
E
se nella presente vita attiva
d'Aristotile avesser gli alti ingegni
inteso con tal fede operativa, 75
chi
dubita che egli i lieti regni
ora terrebbe con gli altri seguaci
ch'alla vita moral fur giusti segni,
sì
come Moisè co' suoi veraci,
del mondo annullator rivolti a Dio, 80
come si dee, senza passi fallaci?
Al
qual, credendo, ho tutto il mio disio
levato, e femo ne' suoi regni il tengo,
lui conservando dentro al petto mio;
e
col suo operar sì mi convengo 85
che parte alcuna di quel non s'inforsa
in me, ma tutto aperto lui sostengo;
e
tanto seguirò dietro a quest'orsa
con mente pronta, lucida e sicura
che d'esta vita finirò la corsa, 90
l'anima
a lui rendendo netta e pura;
con la mia Cibelè bella e discreta
mi rivedrò con etterna figura,
sempre
con lei ne' cieli stando lieta.
[XL ]
Tutte le donne aveano parlato, tacente
Lia. La quale Ameto avendo lietamente ascoltata, tacito rimirava quella, i suoi
amori con ragione laudando; né più che fare si dovesse sappiendo si stava, e
con temoroso petto ad ogni ora attendeva ch'elle dicessero: – Andianne. – Il dì
non era più caldo e le donne, in forse a che procedere dovessono, tutte
attendendo miravano a che Lia o a parlare o a partirsi si disponesse. Ma da
questo sollecitudine nuova con gli occhi le trasse al cielo, nel quale, forse
levati de' liti vicini, volando vidono venuti sette bianchissimi cigni e
altrettante cicogne; e con romore grandissimo quivi fermatisi, infestavano il
cielo. Le quali, quando con più discreto occhio mirarono gli uccelli, videro
quelli, in sette e sette divisi, co' becchi, co' petti e con gli unghiuti piedi
fieramente combattersi sopra loro; e l'aere non altrimenti piena di piume
miravano che, allora che la nutrice di Giove tiene Appollo, si vegga fioccare
di bianca neve; ma dopo lunga punga vinte videro partire le cicogne. Le quali
cose Ameto mirando con maraviglia, ancora con diritto vedere le cose delli
iddii non vedendo, per sé agurava la rimirata punga; e insieme attento con
quelle donne a quello che i vittoriosi cigni dovessero fare, subita nuova luce
videro uscire dal cielo. E quale allo israelico popolo ne' luoghi diserti
precedeva la notte, cotale dopo uno mirabile strepito quivi una colonna discese
di chiaro fuoco, lasciando a sé di dietro la via dipinta di quella sembianza
che la figlia di Taumante ci si dimostra. Della quale nello avvento, Ameto, i
cigni abandonati, non sostenuti i raggi di quella, se non come quelli del padre
nella prima venuta so stenne Fetone, stupefatto e quasi cieco per lo udito
tuono, di paura ripieno, si trasse adietro; e che ciò significare si volesse
non conoscendo, aspettava abarbagliato.
Ma non fu lungo l'attendere, ché di
quella a' suoi orecchi pervenne una voce soave così dicente:
[XLI ]
Io
son luce del cielo unica e trina,
principio e fine di ciascuna cosa:
deh, qual men fu, né fia nulla, vicina?
E
sì son vera luce e graziosa,
che chi mi segue non andrà giammai 5
errando in parte trista o tenebrosa,
ma
con letizia agli angelici rai
mi seguirà nelle divizie etterne,
serbate loro d'allor ch'io le creai.
Chi
di me parla, alle cose superne 10
la mente avendo con intero core,
spregiando il mondo e le cose moderne,
c'hanno
potenzia di trarre in errore
gli animi puri, io son sempre con loro,
loro infiammando più del mio ardore. 15
Adunque
a voi, o grazioso coro,
sia pace, e ben dimorate sicure:
non vi spaventi il mio venir sonoro
né
l'alta luce in queste parti oscure.
[XLII ]
Rassicurossi allora Ameto e secondo lo
stato parlare estimò colei veramente essere non quella Venere che gli stolti
alle loro disordinate concupiscenze chiamano dea, ma quella dalla quale i veri
e giusti e santi amori discendono intra' mortali. E rimirati delle donne gli
aspetti, più belli li vide che mai e più sicuri, e tutte con occhio passibile
rimirare attente in quella luce, dalla quale sì li parevano accese ch'elli
alcuna volta pauroso pensò ch'elle ardessero, e massimamente Agapes e la sua
Lia. Ma fuggitali per lo lieto viso di quelle cotal paura, aguzzando gli occhi,
con quelli s'ingegnava di penetrare il chiaro lume. E come che molto gli fosse
difficile di trarre di quello alcuna cosa, pure, quale in lucida fiamma si
discerne l'acceso carbone, cotale in quella un luminoso corpo, vincente
ogn'altra chiarezza, conobbe. E quello, né più né meno che il bogliente ferro
tratto dell'ardente fucina, vide d'infinite faville sfavillante, e di quelle
ogni parte a sé dintorno fra la circustante luce ripieno. Ma del divino viso
l'effigie e de' belli occhi co' suoi non poté prendere; e mentre che elli così
rimirava, la santa dea udio così parlante:
[XLIII ]
O
care mie sorelle, per le quali
le vie regni miei son manifeste
a chi salire a quei vuol metter ali,
l'opere
vostre licite e oneste,
diritte, buone, sante e virtuose, 5
di loda degne, semplici e modeste,
svelin
le luci oscure e nebulose
d'Ameto, acciò che diventi possente
a veder le bellezze mie gioiose,
acciò
che e', quanto all'umana gente 10
è licito vederne, sappia dire
tra' suoi compagni poi, di me ardente.
Vedete
lui che tutto nel disire
di ciò ch'io parlo si dimostra acceso,
e per temenza nol sa discovrire, 15
sì
dal terren tremore ancora offeso.
[XLIV ]
Le divine parole appena aveano fine che
le ninfe, in piè dirizzate, corsero inverso Ameto; il quale sì stupefatto stava
a rimirare Venere che preso dalla sua Lia non si sentì, infino a tanto che, di
dosso gittatili i panni selvaggi, nella chiara fonte il tuffò, nella quale
tutto si sentì lavare. E essa, da lui cacciata ciascuna ordura, puro il rendé a
Fiammetta, la quale nel luogo il ripose donde era stato levato, davanti la dea;
là dove Mopsa con veste in piega raccolta, gli occhi asciugandoli, da quelli
levò l'oscura caligine che Venere gli toglieva. Ma Emilia, lieta e con mano
pietosa, sollecita, a quella parte dove la santa dea teneva la vista sua, il suo
sguardo dirizzò di presente; e Acrimonia agli occhi, già chiari, la vista fece
potente a tali effetti; ma poi che Adiona l'ebbe di drappi carissimi ricoperto,
Agapes, in bocca spirandoli, di fuoco mai da lui simile non sentito l'accese.
Di che, egli vedendosi ornato, bello, con luce chiara ardente, lieto al santo
viso distese le vaghe luci, né altrimenti, quella ineffabile bellezza mirando,
ebbe ammirazione che gli achivi compagni veduto bifolco divenuto Giansone.
Elli, lungamente guardandola, in sé diceva: – O diva pegasea, o alte Muse,
reggete la debole mente a tanta cosa, e li 'ngegni rendete sottili a
contemplarla, acciò che, se possibile è che umana lingua narri le divine
bellezze, la mia le possa ancora ridire, avvegna che indarno a cotale fine la
vista, da non risparmiare a questo punto, credo che io ci consumo. –
Egli l'avvisò molto, ma più avanti che la
nostra effigie, tale qual nulla mai se ne vide sì bella, ne poté prendere, ora
in diverse e ora in una forma; e ignorante del tempo conceduto a lui a cotale
grazia, quanta dovesse durare, avvegna che infinito il disiasse, si dispose a
porgere prieghi in questo modo: – O deità sacra, parimenti de' cieli e della
terra unica luce, se tu ad alcuno priego ti pieghi, in me riguarda e, per lo
tuo santo e ineffabile nome triforme, per conseguente il valido aiuto concedi;
e le pregate cose confermi l'etterna mano. Ecco che l'anima, dalla tua
liberalità dalle superne sedie mandata in questi membri e a te con focoso disio
appetente di ritornare, stata infino a questo dì, del quale mai da me non si
partirà la memoria, accesa d'uno fuoco a lei sopra ogni altra cosa grazioso e
piacevole, novellamente non sanza agurio d'ottimo avvenimento è munta da sette
fiamme, così quella lambenti dintorno come olmo avvinghiato da ellera. Le
quali, bene che il sangue non sughino né la virtù scemino di quella (anzi,
considerando quali d'esse sieno le moventi cagioni, né mi dolgono né esse cerco
con acqua nimica d'offendere), ma con disio ferventissimo a dissolvermi e
essere con teco mi spronano. E perciò, che passibile la facci a sostenere, vuol
per le mie parole; e oltre a ciò che i presi amori inseparabili facci e
longevi, sanza offesa di fortuna o di cieli, tale sempre in me la loro
sembianza mostrando quale oggi lieta a pigliarmi l'hanno tenuta, acciò che io,
bene i loro piaceri operando, possa con bianca pietra segnare i pochi giorni; e
quivi quando per legge comune il colpo la dividerà d'Antropòs, sanza
impedimento la salita le mostri a' luoghi onde già venne, sì che per le sostenute
fatiche frutto prenda, quale ha sperato, né regni tuoi. –
Queste parole erano finite, quando gli fu
risposto con parlamenti minori in questo modo: – Spera in noi e fa bene; e i
tuoi disii saranno vicini. –
E quinci subita sparve, nel cielo
tornando con la sua luce. E Ameto, così adorno d'ogni parte, preso delle vedute
bellezze, di quelle libero conoscimento a sé sentendo, lieto in mezzo di tutte
si vede sedere; e, con servigii mirabili da quelle onorato, si gloriava. Ma
esse, partita la dea, liete dintorno a lui così insieme con angelica voce
incominciarono a cantare:
[XLV ]
O
anima felice, o più beata
ch'altra che spiri en la luce presente,
o graziosa vie più ch'altra nata,
come
di noi ciascuna qui lucente
di chiaro lume vedi, tanto bella 5
quanto null'altra al mondo oggi vivente,
così
nel ciel ciascuna appare stella
lucida e chiara di tanto sereno
quanto Titan en la stagion novella.
E
ne' dì primi dentro al divin seno, 10
per vertù vera del suo primo amore
di somma beninanza sempre pieno,
nascemmo,
a dar del suo alto valore
chiarezza vera al mondo che dovea
avvilupparsi dentro al cieco errore. 15
E
così belle, ciascheduna dea,
innamorate sempre a' tuoi piaceri,
(de' raggi ardiam dell'alma Citerea)
come
ne vedi, siamo: adunque i veri
effetti della mente tutti quanti 20
disponi a noi co' suoi giusti pensieri;
e
mirandoci, pensa a quali amanti
saremmo degne di donar diletto,
se piegar ci potesser tutti i canti;
e
sì li nostri visi nel tuo petto 25
forma, che senti l'etterna dolcezza
che donar puote, e dà, il nostro aspetto,
acciò
che quindi pigli alta fermezza
a sostenere i già piaciuti amori
per cui ora cercavi in te fortezza. 30
Li
qua' se tu da te non fai di fori
con fatti biechi, mai non sen giranno
ma sempre acresceranno i loro ardori,
di
te purgando ciò che puote inganno
(alla vita presente gravitate)35
porger con briga noiosa o con danno.
L'ora
già tarda alle nostre contrate
solllecita ne chiama; onde partire
quinci convienci, ove, l'ombre passate,
concedendolo
Iddio, potren reddire 40
e te contento far del nostro viso
per lo qual ardi con caldo disire.
E
così come il cor non è diviso
di noi da te, benché non siam presenti,
così da noi il tuo non sia deciso 45
fin
che del buon voler, che ora senti,
ti meritiam, trasportandoti in loco
dove si danno interi godimenti,
faccendo
l'uom felice dentro al foco.
[XLVI ]
Così ornato come avete udito, s'era Ameto
rimaso con lieto animo, ascoltando il cantar delle donne; il quale, sentendosi
mente più possibile molto che prima, gli orecchi al canto e 'l cuore a' dolci
pensieri quivi concede. Egli, in se stesso faccendo della sua primitiva vita
comparazione alla presente, se medesimo schernendo ramemora; e quale, tra'
fauni e i satiri, per li boschi già sé col tempo perdesse cacciando vitupera; e
qui la paura debitamente avuta de' cani delle donne ancora nel pensiero lo
spaventa, poi fra sé si ride del suo ardire avuto a prendere il laudevole
amore; e con vista serena conosce l'udita prima canzone della sua Lia. Quindi i
canti de' pastori, che solamente l'orecchie di lui aveano dilettate, quanto
sieno utili al cuore sente con sommo frutto. Similemente vede che sieno le
ninfe, le quali più all'occhio che allo 'ntelletto erano piaciute, e ora allo
'ntelletto piacciono più che all'occhio; discerne quali sieno i templi e quali
le dee di cui cantano e chenti sieno i loro amori, e non poco in sé si vergogna
de' concupiscevoli pensieri avuti, udendo quelli narrare; e similemente vede
chi sieno i giovani amati da quelle e quali per quelle sieno divenuti. Ora gli
abiti e i modi d'esse donne nota in se medesimo, debiti a così fatte. Ma sopra
tutti gli altri pensieri il rallegra l'essergli da quelle gli occhi svelati a
conoscere le predette cose e a vedere la santa dea venuta quivi e ad avere
interamente saputa Lia, e sé sentire ornato, come si sente, e possibile
all'amore di tante donne e degno di quello mentre li piacerà; e brievemente,
d'animale bruto, uomo divenuto essere li pare. Per le quali cose in sé sanza
comparazione lietissimo, mirando or l'una or l'altra di quelle, come esse
finirono il canto loro, così cominciò a cantare:
[XLVII ]
O
diva luce che in tre persone
e una essenza il ciel governi e 'l mondo
con giusto amore e etterna ragione,
dando
legge alle stelle e al ritondo
moto del sole, prencipe di quelle, 5
sì come discerniamo in questo fondo,
con
quello ardor, che più caldo si svelle
del petto mio, in surgo a ringraziarti,
e teco insieme queste donne belle.
La
quale acciò che potessi mostrarti 10
a me, che te quasimente ignorava,
non ti fu grave tanto faticarti
che
del bel cielo in questa vita prava
non discendessi, aprendomi l'effetto
che l' mal di questo mondo ne disgrava, 15
la
caligine obstando allo 'ntelleto,
ch'agli occhi miei del tutto ti togliea,
con l'operar di Mopsa e col suo detto.
A
cui Emilia, come si dovea,
seguendo, mi rivolse alla tua santa 20
faccia, guidando la spada d'Astrea.
E
quella appresso per cui su si canta
la loda di Pomena, a' tuoi piaceri
misurò la mia cura tutta quanta,
fortificando
me a' tuoi voleri 25
Acrimonia dop'essa, in guisa tale
che più del mondo non temo i poteri.
Quindi
Agapes del tuo foco etternale
m'accese, e ardo sì intimamente
ch'appena credo a me null'altro equale. 30
E
la Fiammetta, più ch'altra piacente,
sì m'ha ad in te sperar l'anima posta
ch'ad altro non ha cura la mia mente.
Simile
tutta a me chiara e disposta
s'è la mia Lia con gli effetti suoi, 35
che di que' nullo da me si discosta.
Adunque,
tu che vedi e tutto puoi,
governa in queste sì la mente mia
che al gran dì mi ritrovi tra li tuoi;
e
in etterno, come il cor disia, 40
sia il tuo nome, sì com'egli è degno,
sopra ogni altro essaltato; così sia;
e
simile di queste, da cui tegno
tanto di ben quanto nel mio parlare
cantando avanti dimostro e disegno. 45
Il
qual s'avien che io voglia lasciare
a chi dietro verrà, sì che si possa,
sì come io, d'esse innamorare,
così
serva i miei versi che percossa
d'invidia quelli giammai non risolva, 50
o le mie carte, ad olio iniquo mossa;
(e
quelle in seta o in drappi rinvolva,
e in molte parti legate e ristrette,
portate via, la man gallica solva)
che
elle forse non sian poi elette 55
a servar ciò che la filata lana
per soldo acquista delle feminette;
o
forse cuopran la cura profana
de' providi ministri di natura
alla morbida carne render sana; 60
o
che, coperte di nuova pittura,
ne' pillei cucite dien segnali
della mal fatta tua bella figura.
Che
s'avvenir ciò dee, a coronali
fiamme più tosto le cheggio dannate 65
ch'a vita laniata e disiguali.
Omai,
rimesse en la tua deitate,
mi tacerò; e di costoro ardendo,
dop'esse cercherò le mie contrate,
di
rivederti con esse attendendo. 70
[XLVIII ]
Tacque Ameto; e l'ora già tarda con le
loro pecorelle
pingeva i pastori alle case, e i gai
uccelli, tacendo, infra li
folti rami presi i loro ospizii, davano
largo luogo a' vipisrelli, già per la caliginosa aere trascorrenti; e non
s'udien
le cicale, ma gli stridenti grilli per le
rotture della secca terra s'aveano fatto cominciare a sentire; e Espero già si
potea
vedere infra li tiepidi raggi di Febo
cercante l'occaso, col
quale i lassi zeffiri cercavan di
riposarsi. Onde ciascuna i
vestimenti, le ghirlande, gli archi e le
saette riprese, come
quivi venute, così i prati lasciando, ad
Ameto umilmente
dicendo addio, si dipartirono e per più
fresco aere ricercarono le propie case. Ma Ameto, con etterno segnale di tutte
nello ardente petto segnato, le vedute cose reiterando
nella sua mente, in sé biasimando la
troppa affrettata partenza, con isperanza di ritornarvi, similmente si parte
lieto
e alle sue case si rende, acceso di molti
amori.
[XLIX ]
Fra
la fronzuta e nova primavera,
in loco spesso d'erbette e di fiori,
da folti rami chiuso, posto m'era
ad
ascoltare i lieti e vaghi amori,
nascosamente, delle ninfe belle, 5
que' recitanti, e de' loro amadori.
Li
quali udendo e rimirando quelle
negli occhi belli e nelle facce chiare,
lucenti più che matutine stelle,
sentendo
appresso il lor dolce cantare 10
in voce tal ch'angelica parea,
più tosto che mondana, ad ascoltare,
sì
dolcemente nell'anima mea
Amor si risvegliò, dove dormia,
e dove appena fosse mi credea 15
che
per quella entro soave il sentia
per ogni pìarte andar con la biltate,
col ragionare e con la melodia
di
quelle donne, che in veritate
io sanza me grand'ora dimorai 20
io non provata mai felicitate.
Ma
poscia ch'io in me quindi tornai
per la novella fiamma che raccese
l'antica, tosto com'io la provai,
subitamente
il cor ferito intese 25
il ben di quelle, sì come provato,
sarguendo di lì le sue offese;
e
quel ben, che io prima avea gustato
puro, da quinci innanzi con disiri
di nuovo accesi venne mescolato; 30
e
così gioia insieme con martiri
aveva: gioia, quelle rimirando
e ascoltando i lor caldi sospiri;
martiri
aveva, troppo disiando
ciò ch'esser non potea, avegna dio 35
che il bene era più, ben compensando.
Così,
ne' miei pensieri e nel disio
conoscea que' d'Ameto, il qual si stava
a mirar quelle sì fiso che io
di
lui sovente in me stesso dubbiava 40
non fosse grave a quelle il suo mirare,
e di ciò forte fra me il ripigliava.
E
di lui invidiosi, palesare,
tal volta fu mi volli; poi mi tenni,
temendo condizion non peggiorare, 45
e
con quel cuor che io pote' sostenni
vederlo a tanta corte presidente
parlar con motti e con riso e con cenni;
ma
tutto questo m'usciva di mente
qualor nel viso ne miarava alcuna 50
o udiva cantar sì dolcemente.
Ma
poi che l'aere a divenir bruna
incominciò, e il sole a colcarsi,
e fuor di Gange si mostrò la luna,
e
che le ninfe tututte levarsi 55
dopo l'ultimo canto insieme fatto,
e verso i lor ricetti raviarsi,
io
mi levai del luogo ov'era quatto
stato ad udire e a vedere, il giorno,
tanto di ben quanto fu patefatto. 60
E
già veggendo delle stelle adorno
il cielo, in me dell'annottar doglioso,
quindi partimmi sanza far soggiorno.
Ma
pensi chi ben vede, se penoso
esser dovei e amaro core, 65
quel loco abandonando grazioso.
Quivi
biltà, gentilezza e valore,
leggiadri motti, essemplo di virtute,
somma piacevolezza è con amore;
quivi
disio movente omo a salute, 70
quivi tanto di bene e d'allegrezza
quant'om ci pote aver, quivi compiute
le
delizie mondane, e lor dolcezza
si vedeva e sentiva; e ov'io vado
malinconia e etterna gramezza. 75
Lì
non si ride mai, se non di rado;
la casa oscura e muta e molto trista
me ritiene e riceve, mal mio grado,
dove
la cruda e orribile vista
d'un vecchio freddo, ruvido e avaro 80
ognora con affanno più m'atrista,
sì
che l'aver veduto il giorno caro
e ritornare a così fatto ostello
rivolge ben quel dolce in tristo amaro.
Oh,
quanto si può dir felice quello 85
che sé in libertà tutto possiede!
Oh lieto vivere e più ch'altro bello!
Oh
quanto Ameto, se questo ben vede,
dee nella mente sentir di diletto,
s'elli il conosce, sì come om si crede, 90
veggendo
sé tornato, di suggetto,
alto signor di donne tante e tali,
quai questo dì li furon nel cospetto!
Io
mi tornai, dolendo de' miei mali,
al luogo usato; e attendendo peggio 95
per la sua fine, ho già pennute l'ali
al
volare alla morte, la qual cheggio
la notte e 'l dì per men doglia sentire,
però che bene altro fin non veggio
esser
serbato al mio lungo martire. 100
[L ]
La saetta, dal mio arco mossa, tocca li
segni cercati con volante foga; e le bianche colombe, pasciute negli ampi
campi, gratulanti ricercan le torri; e gli stanchi cavalli, compiuto il corso,
domandan riposo, e così l'opera mia, guidata per gli umili piani, temente
d'Icaro li miseri casi, è alla sua fine presente. Riceva adunque la santa dea,
me a queste cose aiutante, i suoi incensi; e le meritate ghirlande coronino la
bella donna, della faticata penna movente cagione. E tu, o solo amico, e di
vera amistà veracissimo essemplo, o Niccolò di Bartolo del Buono di Firenze,
alle virtù del quale non basterieno i miei versi, e però tacciole, avegna che
sì per se medesime lucono che di mia fatica non hanno bisogno, prendi questa
rosa, tra le spine della mia avversità nata, la quale a forza fuori de' rigidi
pruni tirò la fiorentina bellezza, me nell'infimo stante delle tristizie, dando
a sé a me con corto diletto a disegnarsi. E questa non altrimenti ricevi che da
Virgilio il buono Augusto o Erennio da Cicerone, o come da Orazio il suo
Mecena, prendevano i cari versi, nella memoria riducendoti l'autorità di Catone
dicente: – Quando il povero amico un picciolo dono ti presenta,
piacevolmente il ricevi. –
Certo io a te valoroso cotale la mando,
sentendo nullo altro a me essere Cesare, Erennio o Mecena se non Niccolò. Nella
quale se forse in fronda o altra parte si contenesse alcun difetto, non
malizia, ma ignoranza n'ha colpa. E però liberamente l'essaminazione e la
correzione d'essa commetto nella madre di tutti e maestra, Sacratissima Chiesa
di Roma, e de' più savi e di te. La quale poscia ti priego conservi, sì come
tua, nel santo seno, nel quale il fattore d'essa hai con amore indissolubile
sempre tenuto; e vedova e lontana alla sua donna, lieta non altrimenti che io,
consola con la soavità della voce tua infino a tanto che, con quella
giungendosi, intera senta la sua letizia.
COMPIE LA COMEDIA DELLE NINFE FIORENTINE