Giovanni Boccaccio
Io son sì vaga della mia bellezza,
che d'altro amor già mai
non curerò né credo aver vaghezza.
Io veggio in quella, ognora ch'io mi specchio,
quel ben che fa contento lo 'ntelletto:
né accidente nuovo o pensier vecchio
mi può privar di sì caro diletto.
Quale altro dunque piacevole obgetto
potrei veder già mai
che mi mettesse in cuor nuova vaghezza?
Non fugge questo ben qualor disio
di rimirarlo in mia consolazione:
anzi si fa incontro al piacer mio
tanto soave a sentir, che sermone
dir nol poria né prendere intenzione
d'alcun mortal già mai,
che non ardesse di cotal vaghezza.
E io, che ciascuna ora più m'accendo
quanto più fisi tengo gli occhi in esso,
tutta mi dono a lui, tutta mi rendo,
gustando già di ciò ch'el m'ha promesso:
e maggior gioia spero più dappresso
sì fatta, che già mai
simil non si sentì qui da vaghezza.
Qual donna canterà, s'io non canto io,
che son contenta d'ogni mio disio?
Vien dunque, Amor, cagion d'ogni mio bene,
d'ogni speranza e d'ogni lieto effetto;
cantiamo insieme un poco,
non de' sospir né delle amare pene
ch'or più dolce mi fanno il tuo diletto,
ma sol del chiaro foco,
nel quale ardendo in festa vivo e 'n gioco,
te adorando come un mio idio.
Tu mi ponesti innanzi agli occhi, Amore,
il primo dì ch'io nel tuo foco entrai,
un giovinetto tale,
che di biltà, d'ardir né di valore
non se ne troverebbe un maggior mai,
né pure a lui equale:
di lui m'accesi tanto, che aguale
lieta ne canto teco, signor mio.
E quel che 'n questo m'è sommo piacere
è ch'io gli piaccio quanto egli a me piace,
Amor, la tua merzede;
per che in questo mondo il mio volere
posseggo, e spero nell'altro aver pace
per quella intera fede
che io gli porto. Idio, che questo vede,
del regno suo ancor ne sarà pio.
Niuna sconsolata
da dolersi ha quant'io,
ch'invan sospiro, lassa innamorata.
Colui che move il cielo e ogni stella
mi fece a suo diletto
vaga, leggiadra, graziosa e bella,
per dar qua giù a ogni alto intelletto
alcun segno di quella
biltà che sempre a Lui sta nel cospetto;
e il mortal difetto,
come mal conosciuta,
non mi gradisce, anzi m'ha dispregiata.
Già fu chi m'ebbe cara e volentieri
giovinetta mi prese
nelle sue braccia e dentro a' suoi pensieri,
e de' miei occhi tututto s'accese
e 'l tempo, che leggieri
sen vola, tutto in vagheggiarmi spese;
e io, come cortese,
di me il feci degno;
ma or ne son, dolente a me!, privata.
Femmisi innanzi poi presuntuoso
un giovinetto fiero,
sé nobil reputando e valoroso,
e presa tienmi e con falso pensiero
divenuto è geloso;
laond'io, lassa!, quasi mi dispero,
cognoscendo per vero,
per ben di molti al mondo
venuta, da uno essere occupata.
Io maledico la mia sventura,
quando, per mutar vesta,
sì dissi mai; sì bella nella oscura
mi vidi già e lieta, dove in questa
io meno vita dura,
vie men che prima reputata onesta.
O dolorosa festa,
morta foss'io avanti
che io t'avessi in tal caso provata!
O caro amante, del qual prima fui
più che altra contenta,
che or nel ciel se' davanti a Colui
che ne creò, deh! pietoso diventa
di me, che per altrui
te obliar non posso: fa ch'io senta
che quella fiamma spenta
non sia che per me t'arse,
e costà sù m'impetra la tornata.
Lagrimando dimostro
quanto si dolga con ragione il core
d'esser tradito sotto fede, Amore.
Amore, allora che primieramente
ponesti in lui colei per cui sospiro
senza sperar salute,
si piena la mostrasti di virtute,
che lieve reputava ogni martiro
che per te nella mente,
ch'è rimasa dolente,
fosse venuto; ma il mio errore
ora conosco, e non senza dolore.
Fatto m'ha conoscente dello 'nganno
vedermi abbandonato da colei
in cui sola sperava;
ch'allora ch'io più esser mi pensava
nella sua grazia e servidore a lei,
senza mirare al danno
del mio futuro affanno,
m'accorsi lei aver l'altrui valore
dentro raccolto e me cacciato fore.
Com'io conobbi me di fuor cacciato,
nacque nel core un pianto doloroso
che ancor vi dimora:
e spesso maladico il giorno e l'ora
che pria m'apparve il suo viso amoroso
d'alta biltate ornato
e più che mai infiammato!
La fede mia, la speranza e l'ardore
va bestemmiando l'anima che more.
Quanto 'l mio duol senza conforto sia,
signor, tu 'l puoi sentir, tanto ti chiamo
con dolorosa voce:
e dicoti che tanto e sì mi cuoce,
che per minor martir la morte bramo.
Venga dunque, e la mia
vita crudele e ria
termini col suo colpo, e 'l mio furore,
ch'ove ch'io vada il sentirò minore.
Nulla altra via, niuno altro conforto
mi resta più che morte alla mia doglia.
Dallami dunque omai,
pon fine, Amor, con essa alli miei guai,
e 'l cor di vita sì misera spoglia.
Deh fallo, poi ch'a torto
m'è gioia tolta e diporto.
Fa costei lieta, morend'io, signore,
come l'hai fatta di nuovo amadore.
Ballata mia, se alcun non t'appara
io non men curo, per ciò che nessuno,
com'io, ti può cantare.
Una fatica sola ti vo' dare:
che tu ritruovi Amore, e a lui solo uno
quanto mi sia discara
la trista vita amara
dimostri appien, pregandol che 'n migliore
porto ne ponga per lo suo onore.
Amor, la vaga luce
che move da' begli occhi di costei
servo m'ha fatto di te e di lei.
Mosse da' suoi begli occhi lo splendore
che pria la fiamma tua nel cor m'accese,
per li miei trapassando;
e quanto fosse grande il tuo valore,
il bel viso di lei mi fé palese;
il quale imaginando,
mi senti' gir legando
ogni vertù e sottoporla a lei,
fatta nuova cagion de' sospir miei.
Così de' tuoi, adunque, divenuto
son, signor caro, e ubidente aspetto
dal tuo poter merzede;
ma non so ben se 'ntero è conosciuto
l'alto disio che messo m'hai nel petto
né la mia intera fede
da costei, che possiede
sì la mia mente, che io non torrei
pace fuor che da essa, né vorrei.
Per ch'io ti priego, dolce signor mio,
che gliel dimostri e faccile sentire
alquanto del tuo foco
in servigio di me, ché vedi ch'io
già mi consumo amando e nel martire
mi sfaccio a poco a poco;
e poi, quando fia loco,
me raccomanda a lei, come tu dei,
che teco a farlo volentier verrei.
Amor, s'io posso uscir de' tuoi artigli,
appena creder posso
che alcuno altro uncin mai più mi pigli.
Io entrai giovinetta en la tua guerra,
quella credendo somma e dolce pace,
e ciascuna mia arma posi in terra,
come sicuro chi si fida face:
tu, disleal tiranno, aspro e rapace,
tosto mi fosti adosso
con le tue armi e co' crudel roncigli.
Poi, circundata delle tue catene,
a quel che nacque per la morte mia,
piena d'amare lagrime e di pene
presa mi desti, e hammi in sua balia;
e è sì cruda la sua signoria,
che giammai non l'ha mosso
sospir né pianto alcun che m'asottigli.
Li prieghi miei tutti glien porta il vento:
nullo n'ascolta né ne vuole udire,
per che ognora cresce il mio tormento,
onde 'l viver m'è noia né so morire.
Deh! dolgati, signor, del mio languire,
fa tu quel ch'io non posso:
dalmi legato dentro a' tuoi vincigli.
Se questo far non vuogli, almeno sciogli
i legami annodati da speranza.
Deh! io ti priego, signor, che tu vogli;
ché, se tu 'l fai, ancor porto fidanza
di tornar bella qual fu mia usanza,
e, il dolor rimosso,
di bianchi fiori ornarmi e di vermigli.
Deh lassa la mia vita!
Sarà giammai ch'io possa ritornar
donde mi tolse noiosa partita?
Certo io non so, tanto è 'l disio focoso,
che io porto nel petto,
di ritrovarmi ov'io, lassa, già fui.
O caro bene, o solo mio riposo,
che 'l mio cuor tien distretto,
deh dilmi tu, ché 'l domandarne altrui
non oso, né so cui.
Deh, signor mio, deh fammelo sperare,
si ch'io conforti l'anima smarrita.
Io non so ben ridir qual fu 'l piacere
che sì m'ha infiammata,
che io non trovo dì né notte loco.
Per che l'udire e 'l sentire e 'l vedere
con forza non usata
ciascun per sé accese nuovo foco,
nel qual tutta mi coco;
né mi può altri che tu confortare
o ritornar la virtù sbigottita.
Deh dimmi s'esser dee e quando fia
ch'io ti trovi giammai
dov'io basciai quegli occhi che m'han morta;
dimmel, caro mio bene, anima mia,
quando tu vi verrai,
e col dir'Tosto' alquanto mi conforta.
Sia la dimora corta
d'ora al venire e poi lunga allo stare,
ch'io non men curo, sì m'ha Amor ferita.
Se egli avvien che io mai più ti tenga,
non so s'io sarò sciocca,
com'io or fui a lasciarti partire.
Io ti terrò, e che può sì n'avenga;
e della dolce bocca
convien ch'io sodisfaccia al mio disire.
D'altro non voglio or dire:
dunque vien tosto, vienmi a abracciare,
ché 'l pur pensarlo di cantar m'invita.
Tanto è, Amore, il bene
ch'io per te sento, e l'allegrezza e 'l gioco,
ch'io son felice ardendo nel tuo foco.
L'abondante allegrezza ch'è nel core,
dell'alta gioia e cara
nella qual m'hai recato,
non potendo capervi esce di fore,
e nella faccia chiara
mostra 'l mio lieto stato;
ch'essendo innamorato
in così alto e raguardevol loco,
lieve mi fa lo star dov'io mi coco.
Io non so col mio canto dimostrare,
né disegnar col dito,
Amore, il ben ch'io sento;
e s'io sapessi, mel convien celare;
ché, s'el fosse sentito,
torneria in tormento:
ma io son sì contento,
ch'ogni parlar sarebbe corto e fioco
pria n'avessi mostrato pure un poco.
Chi potrebbe estimar che le mie braccia
aggiugnesser già mai
là dov'io l'ho tenute,
e ch'io dovessi giunger la mia faccia
là dov'io l'accostai
per grazia e per salute?
Non mi sarien credute
le mie fortune; ond'io tutto m'infoco,
quel nascondendo ond'io m'allegro e gioco.
Io mi son giovinetta, e volentieri
m'allegro e canto en la stagion novella,
merzé d'amore e de' dolci pensieri.
Io vo pe' verdi prati riguardando
i bianchi fiori e' gialli e i vermigli,
le rose in su le spini e' bianchi gigli,
e tutti quanti gli vo somigliando
al viso di colui che me amando
ha presa e terrà sempre, come quella
ch'altro non ha in disio che' suoi piaceri.
De' quai quand'io ne truovo alcun che sia,
al mio parer, ben simile di lui,
il colgo e bascio e parlomi con lui:
e com'io so, così l'anima mia
tututta gli apro e ciò che 'l cor disia:
quindi con altri il metto in ghirlandella
legato co' miei crin biondi e leggieri.
E quel piacer che di natura il fiore
agli occhi porge, quel simil mel dona
che s'io vedessi la propia persona
che m'ha accesa del suo dolce amore:
quel che mi faccia più il suo odore
esprimer nol potrei con la favella,
ma i sospir ne son testimon veri.
Li quai non escon già mai del mio petto,
come dell'altre donne, aspri né gravi,
ma se ne vengon fuor caldi e soavi
e al mio amor sen vanno nel conspetto:
il qual, come gli sente, a dar diletto
di sé a me si move e viene in quella
ch'i' son per dir: «Deh! vien, ch'i' non disperi.»
Assai fu e dal re e da tutte le donne comendata la
-canzonetta di Neifile; appresso alla quale, per ciò che già
-molta notte andata n'era, comandò il re che ciascuno per
infino al giorno s'andasse a riposare.
S'amor venisse senza gelosia,
io non so donna nata
lieta com'io sarei e qual vuol sia.
Se gaia giovanezza
in bello amante dee donna appagare,
o pregio di virtute
o ardire o prodezza,
senno, costumi o ornato parlare
o leggiadrie compiute,
io son colei per certo in cui salute,
essendo innamorata,
tutte le veggio en la speranza mia.
Ma per ciò ch'io m'aveggio
che altre donne savie son com'io,
io triemo di paura,
e pur credo il peggio:
di quello avviso en l'altre esser disio
ch'a me l'anima fura.
E così quel'che m'è somma ventura
mi fa isconsolata
sospirar forte e stare in vita ria.
Se io sentissi fede
nel mio signor quant'io sento valore
gelosa non sarei:
ma tanto se ne vede,
pur che sia chi inviti l'amadore,
ch'io gli ho tutti per rei.
Questo m'acuora, e volentier morrei,
e di chiunque il guata
sospetto e temo non nel porti via.
Per Dio, dunque, ciascuna
donna pregata sia che non s'attenti
di farmi in ciò oltraggio;
ché, se ne fia nessuna
che con parole o cenni o blandimenti
in questo in mio dannaggio
cerchi o procuri, s'io il risapraggio,
se io non sia svisata,
piagner farolle amara tal follia.