Della potenzia della Magna alcuno non debbe dubitare, perché abunda di uomini, di richezze et d’arme. Et quanto alle richeze, non vi è communità che non abbia avanzo di danari in publico: et dice ciascuno che Argentina sola ha parechi milioni di fiorini; et questo nasce perché quelle non hanno spese che traghino loro più danari di mano che quelle fanno in tenere vive le munitioni; nelle quali, avendo speso un tracto, nel rinfrescarle spendono poco. Et hanno in questo uno ordine bellissimo, perché hanno sempre in publico da mangiare, bere et ardere per uno anno; et così da lavorare le industrie loro per potere in una obsidione pascere la plebe et quelli che vivono delle braccia, per uno anno intero sanza perdita. In soldati non spendono, perché tengono uomini loro armati et exercitati; et li giorni delle feste, in cambio delli giuochi, chi si esercita collo scopietto, chi colla picca, et chi con una arme, et chi con una altra, giocando tra loro onori et similia, e' quali tra loro poi si godono. In salari et in altre cose spendono poco: talmente che ogni communità si truova rica in publico.
Perché li populi in privato sieno ricchi, la ragione è questa: che vivono come poveri, non edificono, non vestono e non hanno masseritie in casa; et basta loro abundare di pane, di carne et avere una stufa dove refugire il fredo; et chi non ha dell’altre cose, fa sanza esse e non le cerca. Spendonsi in dosso 2 forini in 10 anni, et ogniuno vive secondo il grado suo ad questa proportione, et nessuno fa conto di quello li manca, ma di quello che ha di necessità, et le loro necessità sono assai minori che le nostre. Et per questi loro costumi ne resulta che non esce danari del paese loro, sendo contenti a quello che il loro paese produce. Et nel loro paese sempre entra ed è portato danari da chi vuole delle loro robe, lavorate manualmente: di che quasi condiscono tutta la Italia. Et è tanto magiore il guadagno che fanno, quanto il forte che perviene loro nelle mani è delle facture et opere di mano, con poco capitale loro d’altre robe. Et così si godono questa loro roza vita et libertà: et per questa causa non vogliano ire alla guerra se non sono soprapagati; et questo anche non basterebbe loro, se non fussino comandati dalle loro communità. Et però bisogna a uno inperadore molti più danari che ad uno altro principe: perché, quanto meglio stanno li uomini, peggio volentieri escono alla guerra.
Resta ora che le communità si unischino colli principi a favorire le inprese dello inperadore, o che loro medesime lo voglino fare, che basterebbono. Ma né l’una né l’altra vorrebbe la grandeza dello inperadore perché qualunche volta im proprietà lui avessi stati o fossi potente, e’ domerebbe et abbasserebbe e' principi et ridurebeli a una obedientia di sorte da potersene valere a posta sua et non quando pare a loro: come fa oggi il re di Francia, et come fecie già el re Luigi, il quale con l’arme et amazarne qualcheuno li riduxe a quella obedientia che ancora oggi si vede.
Il medesimo interverrebbe alle communità: perché le vorrebbe ridurre in modo che le potessi manegiare a suo modo, et che avesse da loro quello che chiedessi et non quello che pare a loro. Ma s’intende la cagione della disunione tra le communità e li principi essere molti umori contrarii che sono in quella provincia. Et venendo a due disunione generale, dicono che e' svizeri sono inimicati da tutta la Magna et li principi dallo inperador. Et pare forse cosa strana a dire ch’e svizeri et le communità sieno inimiche, tendendo ciascuno di loro ad uno medesimo segno di salvare la libertà et guardarsi da’ principi; ma questa loro disunione nasce perché li svizeri non solamente sono inimici alli principi come le communità, ma etiamdio sono inimici alli gentili uomini: perché nel paese loro non è dell’una spetie né della altra, et godonsi, sanza distinctione alcuna di uomini, fuora di quelli che segono nelli magistrati, una libera libertà. Questo exemplo de’ svizeri fa paura alli gentili uomini che sono rimasti nelle communità, et tutta la induxtria di decti gentili uomini è in tenerle disunite e poco amiche loro. Sono ancora inimici de’ svizeri tutti quelli uomini delle communità che attendono alla guerra, mossi da una invidia naturale, parendo loro di essere meno stimati nelle armi di quelli: in modo che non se ne può raccozare in uno campo sì poco né si gran numero che e' non si azuffino.
Quanto alla inimicizia de’ principi con le communità et colli svizeri, non bisogna ragionare altrimenti, sendo cosa nota; et così di quella fra lo inperadore et detti principi. Et avete ad intendere che avendo lo inperadore il principale suo odio contro a' principi et non potendo per sé medesimo abassarli, ha usato e' favori delle communità; et per questa medesima cagione da uno tempo in qua ha intractenuto li svizeri, colli quali li pareva già essere venuto in qualche confidentia. Tanto che, considerato tutte queste divisioni in comuni et aggiuntovi poi quelle che sono tra l’un principe e l’altro et l’una communità e l’altra, fanno dificile questa unione dello imperio, di che uno inperadore arebbe bisogno. Et benché chi fa le imprese della Magna gagliarde et riuscibili, pensi che e’ non è nella Magna alcuno principe che potessi o ardissi opporsi a’ disegni d’uno inperadore, come hanno usato di fare da qualche tempo indreto, tuttavolta non pensa che a uno inperadore è assai impedimento non essere da’ principi aiutato ne’ suoi disegni: perché clii non ardisce farli guerra, ardisce negarli aiuti; et chi non ardisce negargnene, ha ardire, promissi che li ha, non li observare; et chi non ardisce ancora questo, ardisce differire tanto le promisse, che non sono in tempo ch’e’ se ne vaglia: et tutte queste cose impediscono et perturbano e' disegni. E si conosce cosi essere la verità, quando lo inperadore la prima volta volle passare, contro alla voluntà de’ venitiani et franzesi in Italia, che li fu promisso dalle communità della Magna nella dieta tenuta in quel tempo a Gostanza 19 mila persone e 3 mila cavalli, et non se ne essere mai potute mettere insieme tante che agiugnessino a 5 mila. Et questo perché quando quegli d’una communità arrivavono, quelli d’un’altra si partivano per avere finito el tempo; e qualcheuna dava in cambio danari: e' quali, per pigliare luogo facilmente, et per questa e per l’altre ragioni, le genti non si accozavano e l’impresa andò male.
La potentia della Magna si tiene certo esser più assai nelle communità che nelli principi: perché li principi sono di due ragioni: o temporali o spirituali. Li temporali sono quasi reducti ad una grande debilità, parte per loro medesimi (sendo ogni principato diviso in più principi, per la divisione equale delle eredità che gli observano), parte per averli abassati lo inperadore con il favore delle communità, come è decto: talmente che sono inutili amici. Sonvi ancora, come è detto, li principi ecclesiastici, e' quali, se le divisioni ereditarie non gli hanno anichilati, li ha ridocti al basso l’ambitione delle communità loro et il favore dello inperadore: in modo che li arcivescovi electori et altri simili non possono niente nelle communità grosse proprie. Di che ne è nato che né loro, né etiam le loro terre, sendo divise insieme, possono favorire le imprese dello inperadore quando bene volessino.
Ma vegnamo alle communità franche et imperiali, che sono il nervo di quella provincia, dove è danari et ordine. Costoro per molte cagione sono per essere fredde nel provvederlo, perché la intenzione loro principale è di mantenere la loro libertà, non di aquistare imperio; et quello che non desiderono per loro, non si curono che altri lo abbia. Dipoi, per essere tante et ciascuna fare capo da per sé, le loro provisioni, quando le vogliono fare, sono tarde et non di quella utilità che si richiederebbe. Et in exempio ci è questo: che non molti anni sono, li svizeri assaltorono lo stato di Massimiliano e la Svevia. Convenne sua maestà con queste communità per reprimerli, et loro si obligorno tenere in campo 14 mila persone: et mai vi se ne accozò la metà perché, quando quelli di una communità venivano, li altri se ne andavano: in modo che lo inperadore, disperato di quella impresa, fece accordo colli svizeri e lasciò loro Basilea. Ora se nelle inprese proprie egli hanno usato termini simili, pensate quello farebbono nelle inprese d’altri. Donde, messe queste cose tutte insieme, fanno questa loro potentia tornare piccola et poco utile allo inperadore. Et perché e' vinitiani per il commercio che gli hanno colli mercanti delle comunità della Magna, in ogni cosa che egli hanno avuto a fare o tractare collo inperadore, l’hanno intesa meglio che nessuno altro, et sempre sono stati in sullo onorevole: perché, se gli avessino temuto questa potentia, arebbono preso qualche sexto, o per via di danari o col cedere qualche terra; et quando egli avessino creduto che questa potentia si potessi unire, non se li sarebbono opposti, ma sappiendo questa inpossibilità, sono stati sì gagliardi, sperando nelle occasione. Et però, se si vede che in una ciptà le cose che apartengono a molti sono straccurate, tanto più debbe intervenire in una provincia. Dipoi sanno le communità che lo acquisto che si facessi in Italia o altrove farebbe per li principi, et non per loro, potendoseli godere personalmente, il che non può fare una communità: et dove il premio abbia ad essere inequale, li uomini malvolentieri equalmente spendono. Et però la potentia è grande, ma in modo da non se ne valere. Et se chi ne teme discorressi le sopraddette cose et li effecti che ha facti questa potentia da molti anni, vedrebbe quanto fondamento vi si potessi fare su.
Le gente d’arme todesche sono assai ben montate di cavagli, ma pesanti, et alsì sono molto bene armate in quella parte che usano armare. Ma è da notare che in uno facto d’arme contro a italiani o franzesi non farebono pruova: non per la qualità delli uomini, ma perché non usano alli cavalli armadura di nessuna sorte, la sella piccola, debile et sanza arcioni, in modo che ogni piccolo urto li getta a terra. Et ècci una altra cosa che li fa più deboli: cioè che dal corpo in giù, cioè cosce, gambe, non armono punto; in modo che non potendo reggere al primo urto, in che consiste la importanza delle gente e del fatto d’arme, non possono anche poi reggere con le arme corte, perché possono essere offesi loro et li cavalli nelli detti luoghi disarmati, et è in potestà d’ogni pedone con la picca o tralli da cavallo o sbudelarlo loro; et poi, nello agitarsi cavalli per la graveza loro, male reggono.
Le fanterie sono bonissime, et uomini di bella statura; al contrario de’ svizeri, che sono piccoli et non puliti, né belli personaggi; ma non si armono, o pochi, con altro che colla picca o daga, per essere più dextri, espediti e legieri; et usano dire che fanno così per non avere altro nimico che le artiglierie, dalle quali o pecto o corsaletto o gorzarino non li defenderebbe. Delle altre arme non temono perché dicono tenere tale ordine che non è possibile entrare fra loro, né accostarsegli quanto è la picca lunga.
Sono optime gente in campagna a far giornata, ma per expugnare terre non vagliono, et poco nel defenderle; et universalmente, dove non possono tenere l’ordine loro della militia, e’ non vagliono. Di che si è visto la experientia poi che hanno avuto a praticare in Italia, et maxime dove abbino avuto ad expugnare terre, come fu ad Padova et altri luoghi, in che hanno fatto captiva pruova; et per lo oposito, dove si sono trovati in campagna, l’hanno facta buona. In modo che se nella giornata di Ravenna tra e' franzesi e spagnuoli, e' franzcsi non avessino avuto e' lanzcheneche, arebbono perso la giornata: perché, in mentre che l’una gente d’arme coll’altra era alle mani, li spagnuoli avevono di già ropto le fanterie franzese et guascone; et se li alamanni colla ordinanza loro non le soccorrevono, vi erano tutte morte et prese. Et così si vide che ultimamente, quando il catolico re ruppe guerra a Francia in Ghienna, che le gente spagnuole temevono più di una banda di alamanni che aveva il re cristianissimo, che di tutto el resto delle fanterie, et fuggivono le occasione del venire seco alle mani.
TESTO DI RIFERIMENTO: "Niccolò Machiavelli - Opere - volume I", a cura di Corrado Vivanti, EINAUDI-GALLIMARD, BIBLIOTECA DELLA PLEIADE, Torino, 1997