sonetto caudato composto prima del 1500
in villa a S. Casciano
Costor vissuti sono un mese, o piue,
a noce, a fichi, a fave, a carne secca,
tal ch’ella fia malizia e non cilecca
el far sì lunga stanza costà sue.
Come ’l bue fiesolan guarda a la ’ngiùe
Arno, assetato, e’ mocci se ne lecca,
così fanno ei de l’uova ch’ha la trecca
e, col beccaio, del castrone e del bue.
Ma, per non fare affamar le marmegge,
noi faren motto drieto a Daniello,
ché forse già v’è qualcosa che legge,
perché, mangiando sol pane e coltello,
fatti abbiàn becchi che paion d’acegge,
e a pena tegnàn gli occhi a sportello.
Dite a quel mio fratello
che venga a trionfar con esso voi
l’oca ch’avemo giovedì da noi;
al fin del giuoco poi,
messer Bernardo mio, voi comperrete
paperi e oche, e non ne mangerete.
Ballata databile tra il 1492 e il 1494
Se avessi l’arco e le ale,
giovanetto giulìo,
tu saresti lo Dio – ch’ogni uomo assale.
La bocca e le parole
son l’arco e le saette che tu hai;
non è uom sotto il sole
che nol ferisca quando tu le trai.
Ond’avvien che tu fai
che ’n un voltar di ciglia
presto si lega e piglia — ogni mortale.
Tu hai di Apollo il crine
lucido e biondo e di Medusa li occhi:
diventa sasso al fine
chiunque ti guarda, ciò che vedi o tocchi:
e’ prudenti eli sciocchi
prende ’l tuo dolce vischio;
ch’i’ non mi arrischio — a darti al mondo equale.
Giove, se tu riguardi
costui che bello al mondo sol si vede,
tu conoscerai tardi
aver fallito a rapir Ganimede.
Costui ogni altro eccede,
come fa ’l sole il rezzo:
di lui ribrezzo — sente ogni animale.
Composto probabilmente prima del 1494
Poscia che a l’ombra, sotto questo alloro,
veggo pascere intorno il mio armento,
vo’ dar principo a più alto lavoro.
Se mai, fistula dolce, il tuo concento
fe’ gir li sassi,fe’ muover le pianti,
fermar li fiumi e racchetare il vento,
mostra ora i tuoi valori uniti e tanti
che la terra ammirata e lieta resti,
rallegrisi il ciel de’ nostri canti;
benché altra voce e altro stil vorresti,
perché a laldar tanta beltade a pieno
più alto ingegno convien che si desti;
ché d’un giovan celeste e non terreno,
di modi eccelsi, di divin costumi,
convien per uom divin le laude sièno.
Porgimi dunque, Febo, de’ tua lumi:
se mai priego mortal da te s’intende,
fa ch’or la mente mia oscura allumi.
Io veggo la tua faccia che raccende
più che l’usato un vivace splendore,
né vento o nube questo giorno offende;
tal che, aiutato dal tuo gran valore,
o sacro Apollo, e da tue forze, io voglio
spenderlo in far al tuo Iacinto onore.
Iacinto, il nome tuo celebrar soglio,
e, per farne memoria a chiunque vive,
lo scrivo in ogni tronco, in ogni scoglio;
di poi le tue bellezze egregie e dive,
e le tua opre atte ad onorare
qualunque di te parla o di te scrive.
El ciel la sua virtù volle mostrare,
quando ci dette cosa sì suprema,
per parte a noi di sue bellezze fare;
onde ogni lume innanzi a questo scema,
prima guardando quella chioma degna
di ogni corona e d’ogni diadema;
po’ lo splendor che ’n quella fronte regna,
con ogni parte in sé considerata,
quanto natura ha di valor c’insegna.
Vedi poi il resto a quella accomodata;
odi il suon poi de’ suoi grati sermoni
da far un marmo, una pietra animata.
Sì che ride la terra ove ’l piè poni,
e rallegrasi l’aria dove arriva
de la tua voce li graziosi suoni.
Poi si secca l’erbetta che fioriva,
quando ti parti, sì che afflitta resta,
l’aria duolsi de’ tuo’ accenti priva.
Né cosa manco degna par di questa:
d’acquistar fama un natural disìo,
che farà la tua gloria manifesta.
Tal ch’i’ prego ch’i’ possa, o Giove dio,
fra tante tube che lo esalteranno,
far risonare un rozzo corno anch’io.
Tutt’i pastor che ’n queste selve stanno,
sanza riguardo a l’età iuvenile,
ogni lor differenzia in te posto hanno.
Tu col tuo destro ingegno e signorile,
per vari modi e per diversi inventi,
lí fai ritornar lieti al loro ovile.
Pietoso se’: se qualche miser senti
per contraria fortuna o per amore,
col tuo dolce parlar tu lo contenti.
Non che gloria tu sia d’ogni pastore,
come ognun veder può, le selve adorni
quale ogni Dio di quelle abitatore.
Né vi duol più che Diana soggiorni
in cielo, o selve, né Febo curate
d’Ameto a riguardar li armenti torni;
né di Ecuba il figliuol più non chiamate,
non Cefal, non Atlanta, perché più
felice con costui, più liete state.
In te veggo adunata ogni virtù;
né maraviglia par, perché a plasmarti
non uno Dio a tanta opera fu.
Quando al principio Dio volse crearti,
el primo magisterio a Vulcan diede,
per più bel, più giocondo o lieto farti.
Or, po’ che Giove creato ti vede,
sì allegro si mostra e lieto in vista,
che dubbia del suo stato Ganimede;
però che ’n quella terra di Acqua mista
uno spirito tal Minerva immisse,
qual mai tempo o fatica non acquista.
Intorno al capo tuo Vener poi fisse
le sua grazie immortali, e — A’ pastori
benigno viverai e grato — disse.
L’Ore bianche vivuole e freschi fiori
colson liete di poi, e con quei suci
ti sparson tutto, e con variati odori
Marte feroce, onde tu più riluci,
nel generoso petto un core incluse
simile a Cesar duca, alli altri duci.
Uno astuto veder Mercurio infuse,
onde la lieta fortuna e li affanni
e le fatiche tieni aperte o chiuse.
Iunone un almo ne’ privati panni pose,
da dominare imperio e regni;
e Saturno ti diè di Nestor li anni.
O don di tanti Dei, fa che tu degni
ricever me fra tuo’ fedel suggetti,
se aver tal servitore tu non sdegni.
E s’i’ vedrò il mio canto ti diletti,
versi ’n tua laude gloriosi e immensi
soneran queste valle e quei poggetti;
ché sono i pensier mia in modo intensi
a compiacerti, ch’i’ desider solo,
io, di ubbidir, tu di comandar pensi;
e bench’ i’ sia nutrito da lo stuolo
d’esti rozzi pastor, di te parlando
assai più alto che l’usato volo.
Ancor più su andar mi vedrai quando
conoscerò che ti sia accetto il dono,
ch’i’ venga le tue laude recitando.
Oltra di questo, ciò ch’i’ ho ti dono:
tuo è l’armento che tu vedi; ancora
queste povere pecore tue sono.
Ma perché li è quasi venuta l’ora
che prendon li animal qualche riposo,
e vespertilio sol si vede fora,
celerò quello amor ch’i’ porto ascoso
ed a casa n’andrò col mio armento,
sperando un dì tornar più glorioso
a cantar le tue laude, e più contento.
I
Io spero, e lo sperar cresce ’l tormento:
io piango, e il pianger ciba il lasso core:
io rido, e el rider mio non passa drento:
io ardo, e l’arsion non par di fore:
io temo ciò che io veggo e ciò che io sento;
ogni cosa mi dà nuovo dolore;
così sperando, piango, rido e ardo,
e paura ho di ciò che io odo e guardo.
II
Nasconde quel con che nuoce ogni fera:
celasi, adunque, sotto l’erbe il drago:
porta la pecchia in bocca mèle e cera
e dentro al piccol sen nasconde l’ago:
cuopre l’orrido volto la pantera
e ’l dosso mostra dilettoso e vago;
tu mostri il volto tuo di pietà pieno,
poi celi un cor crudel dentro al tuo seno.
Composto secondo il Ridolfi intorno al 1514-1515.
Forse si può far risalire la data di composizione al settembre 1513, cioè alla fase più acuta di sgomento e angoscia determinata dalla sua vicenda personale e dal rendersi conto, passato quasi un anno dall'inizio delle sue disgrazie, che nulla cambiava e che lui stesso stava entrando nel dimenticatoio. A questo si aggiunga che proprio in quel periodo inspiegabilmente vengono a mancare le lettere del personaggio a lui più vicino e l'unico in grado, per affetto e amicizia, di poterlo aiutare. Significativa a questo proposito mi sembra la lettera del 10 dicembre 1513 a Francesco Vettori, quando, non era ancora del tutto superata la paura andando a Firenze, credendo di scavalcare a casa sua dovesse invece scavalcare al Bargiello. Nel dicembre di quello stesso anno, terminata la scrittura del Principe, e pensando al suo utilizzo per ottenerne qualche vantaggio "di lavoro" Machiavelli appare più "tranquillo" e più disponibile ad accettare la propria sorte
[Se stessi senza pensare a voi anche solo un momento, io chiamerei felice quell'anno; mi parrebbe leggera ogni mia pesante angoscia s'io potessi mostrarvi il dolore che provo. / Se credessi alle vostre parole, vivrei contento l'afflizione che i vistri occhi mi danno ad ogni momento; e questi boschi lo hanno pur creduto, stanchi di ascoltare il mio lamento. / Si può comprendere il perché di perdute ricchezze o di figliuoli o di stati o di regni anch'essi perduti, come d'ogni altra passione o angoscia. / O vita mia, che trascende ogni miseria! Mi è necessario pensare solo a voi e piangere e non trovare un motivo o un atto che ha dato origine al mio pianto.]
È una angosciosa testimonianza, insieme a qualche squarcio di letterera al Vettori, della condizione angosciosa in cui viveva il Machiavelli a seguito sia del suo allontanamento dall'impiego di segretario della Repubblica sia del suo arresto con conseguente tortura a causa dell'implicazione nella congiura Boscoli-Capponi contro il cardinale De' Medici futuro Papa Leone X, ben presto rivelatasi chiaramente priva di fondamento. L'intera vicenda ha scosso profondamente le convinzioni esistenziali di Machiavelli che si sente impotente di fronte all'arcano svolgersi dei fatti umani: è più facile trovare un perché alla perdita di un regno e alla morte di un figliuolo che trovare un motivo solo che possa chiarire la sua cacciata dalla vita pubblica, anche solo un atto che potesse distruggere i tanti anni vissuti a servire fedelmente lo Stato, comportandosi con rettitudine estrema e cristallina nei confronti di tutti, mai approfittando delle situazioni per creare vantaggi personali. E quel che è peggio è il fatto che nella sua incredibile e assurda vicenda è stata inevitabilmente coinvolta la sua famiglia.
"L'uomo povero è spregevole: questa è l'opinione del mondo, e se si deve vivere nel mondo bisogna evitare di essere spregevoli. È uomo pratico ... Quindi il suo desiderio di rimettersi a posto; che quei signori Medici lo cominciassero ad adoperare, «se dovessimo cominciare a farmi voltolare un sasso. E della fede mia non si dovrebbe dubitare, perché havendo sempre osservato la fede, io non debbo imparare hora a romperla; e chi è stato fedele e buono quarantatrè anni, che io ho, non debbe poter mutare natura, e della fede e bontà mia ne è testimonio la povertà mia»" (da: Ettore Janni)
Se sanza a voi pensar solo un momento
stessi, felice chiamerei quello anno;
parre’ mi lieve ogni mio greve affanno,
s’i’ potessi mostrarvi il duol ch’i’ sento.
Se voi credessi, viverei contento
le pene che’ vostri occhi ognor mi dànno;
e questi boschi pur creduto l’hanno,
stracchi già d’ascoltare il mio lamento.
Di perdute ricchezze o di figliuolo,
di stati o regni persi il fin si vede;
così d’ogni altra passione e duolo.
O vita mia, ch’ogni miseria eccede!
Ch’a voi pensar conviemmi e pianger solo,
né trovar al mio pianto o fine o fede.
composta secondo il Ghislieri dopo il 1517
Salve, donna, tra le altre donne electa,
exemplo rado di belleze in terra,
o unica Phenice, alma perfecta,
in cui ogni beltà si chiude et serra:
ascolta quel che ’l tuo servo ti detta,
poiché con gl’ochi gli fai tanta guerra,
et credi, se tu vuoi esser(e) felice,
alle vere parole che ti dice.
Non vale esser di grande et alto ingegno,
non vale haver potenza, haver valore
a qualunque non cede allo alto regno
di Vener bella et del suo figlio Amore:
di costor solo è da temer lo sdegno
et l’ira et l’implacabile furore,
ché l’una è donna, giovin l’altro et sciolto,
et hanno a molti lo esser proprio tolto.
Onde io, non per lenir mia sorte dira
o mitigar gli affanni ch’io sostengo,
né per mostrare il foco che si aggira
intorno al cor, qual lacrimando spengo,
ma per pregarti che tu fugga l’ira
di questa Dea, con uno exemplo vengo,
acciò impari a fuggir la crudel rete
ove rimase presa Anaxarete.
Avanti che l’italica virtute
ponessi il suo auspicato nido
ne’ sette colli, et fussin conosciute
l’opere de’ Roman(i), la fama e ’l grido,
furno le valli intorno possedute
da vani regi, tanto che in quel lido
pervenne Palatino alla corona,
sotto cui vixe la bella Pomona.
Nimpha non era alcuna in quella riva,
ch’amassi tanto i pomi quanto questa,
onde ’l nome da’ pomi le deriva,
però che hor questo con la falce annesta,
versa sopra quell’altro l’acqua viva
quando il sol caldo le sua barbe infesta,
pota a quell’altro i rami secchi et torti,
et non amava se non pomi et horti.
A questi solo ella havea posto amore,
fuggendo al tutto di Venere i lacci
et le saette del fiero signore,
dispregiando suo’ prieghi o sua minacci;
et perché, sendo donna, havea timore
che vïolenza alcuno huom non le facci,
di mura l’orto suo circunda et fascia,
là dove entrar mai huom per nulla lascia.
I giovanetti Satyri d’intorno
gli facien vani balli per placarla;
Pan et Syleno molte volte andorno
innamorati di lei a trovarla,
et sempre dura et fredda la trovorno;
ma quel che si vedea più caldo amarla
era Vertunno infra tutti costoro,
né più felice viveva di loro.
Et perché la Natura di mutarsi
gli havea concesso in variati volti,
soleva alcuna volta un villan farsi
ch’avessi allotta i buoi dal giogo sciolti,
et hora in un soldato transformarsi,
et hor parea ch’avessi pomi colti:
et così transformava sua natura
per veder sol(o) di costei la figura.
Dipoi, per quïetar le fiamme accese
et per venir d’ogni suo vogla al fine,
l’immagin d’una donna vechia prese
con la rugosa fronte e ’l bianco crine,
et dentro a l’horto di Pomona scese
tra pomi et fructe che parén divine,
et salutolla et dixe: — Figlia mia
bella, et più bella assai se fussi pia,
beata ben tra l’altre ti puoi dire,
da che con questi pomi ti compiaci. —
Poi la baciò, et lei poté sentire
non esser quegli d’una vechia i baci,
et simulando non poter più ire,
si pose sopra un saxo et dixe: — Iaci,
figluola, se ti piace, meco alquanto,
et questo olmo che è qui pon’ mente intanto.
Vedi ancor quella vite che lui serra
tra le suo’ fronde et la chiude et raccogle:
sanza quell’olmo ella sarebbe in terra
et non si honoreria di tante spogle.
L’olmo, sanza la vite ch’egli afferra,
non harebbe altro in sé che rami et fogle:
così l’un sanza l’altro in poco d’hora
inutil tronco, inutil legno fora.
Tu nondimanco stai proterva et dura
et non ti muovi per lo exemplo loro,
et di prehender amante non hai cura,
che dia agli anni tuoi degno ristoro,
et benché molti per la tua figura
sentino affanni assai, dogla et martoro,
se creder tu vorrai a’ mia consigli,
vo’ che Vertunno per amante pigli.
Credi a me, ch’il conosco: costui t’ama
più che la vita sua et te sol vuole,
sol te disia in questo mondo et brama,
et non cerca altra cosa sotto il sole;
costui tuo servo per tutto si chiama,
sol di te parla, sol ti honora et cole;
tu se’ il suo primo amor et, se tu vuoi,
t’ha dedicati tucti gl’anni suoi.
Oltre a di questo egli è giovane amante
et può piglar qual forma più gli piace:
come vorrai te lo vedrai davante,
pur che tu ceda all’amorosa face.
Quello ama come tu gli orti et le piante,
et come te de’ pomi si compiace:
et questa valle intorno et queste fonti
ha sempre frequentato et questi monti.
Et bench’egli ami assai i pomi et gli orti,
ogni diletto nondimanco lascia
per vederti et, veggendo, si conforti
et mitighi la fiamma che lo fascia.
Credi epso proprio a far questo ti exorti,
non una vechia che già il tempo accascia:
habbi misericordia di chi arde;
gratie amorose mai non furon tarde.
Et se mai crudeltà ti tiene o tenne
empiendo il pecto tuo d’amaro fele,
in Cipri io ti dirò quel che ’ntervenne
ad una donna per esser crudele,
qual contro al regno d’Amor dura venne,
proterva, iniqua, malvagia, infedele;
ma la vendetta tanto atroce et rara
fa ch’ogni donna alle sua spese impara.
Amava Iphi, leggiadro giovinetto,
la bella et la crudele Anaxarete;
ardevagli di foco il cor nel petto
come una faccellina arder vedete;
havea sempre quel volto per obiecto
che gli accendeva l’amorosa sete,
et fece molte prove seco stessi
se per sé spegner quel foco potessi.
Ma poi che non potette con ragione
in parte mitigar tanto furore,
davanti alle sua porte ginochione
venne piangendo ad confessar(e) l’amore,
et con humìle et piatoso sermone
cercava alleggerire il suo dolore,
et hor co’ servi, hor con la sua nutrice
e suoi affanni et le sua dogle dice.
Talvolta qualche lettera scrivea
et le sua pene descritte mandolle,
spesso alla porta la notte ponea
fiori et grillande dal suo pianto molle,
et spesso, per mostrar quanto egli ardea,
dormire a piè della sua casa volle,
dove facea d’un freddo saxo letto
al miser corpo, all’amoroso petto.
Ma costei più crudele era che ’l mare
quando da’ venti è tempestato et mosso,
et via più dura anchor che ’l ferro pare
qual da norico fuoco è facto rosso,
et più che ’l saxo che fuor non appare,
ma stassi anchor sotterra duro et grosso;
et con parole et con facti il dispreza,
tanto era questa donna male aveza.
Soportar questo giovin non potette
del dolor la lungheza et del tormento,
et lagrimando avanti a l’uscio stette
della sua donna ripien di spavento;
poi questa voce lacrimabil(e) dètte:
« Tu vinci, Anaxarete. Io son contento
morire, acciò che più tu non sopporti
i mia faxtidii, et victoria ne porti.
Orna le tempie tua di verde alloro,
triompha della guerra ch’io ti mossi:
tu se’ contenta, et io contento moro,
poich’altrimenti piacerti non puossi;
et poiché non ti muove il mio martoro,
come se ferro o dura pietra fossi,
godi, da che la sorte mi conduce
a mancare hor dell’una et l’altra luce.
Perché non ti habbia a narrare altra gente
il lieto nuntio della morte mia,
tu me vedrai co’ tuoi ochi pendente:
il che maggior contento assai ti fia.
Prendi, crudel, questo crudel presente
ch’ha meritato la tua villania;
ma voi, celesti, che questo vedete,
forse di me qualche pietate harete.
Et se il prego d’alcun mai vi fu grato,
se mai cedesti a nostre humane vogle,
fate che lungo tempo ricordato
sia questo mio morir, queste mie dogle,
et che mi sia per fama almanco dato
quel che dureza et crudeltà mi togle ».
Et così detto, tal furor lo vinse
che ’ntorno al collo un capresto si cinse.
Poi, pien di caldi et lacrimosi humori,
alzò tucto affannato gli ochi suoi,
et dixe: « Cruda, questi sono i fiori,
queste son le grillande che tu vuoi ».
Infin, per terminar tanti dolori,
si lasciò ir tutto pendente poi,
et nel cader parve la porta déssi
un suon(o) che del suo caso si dolessi.
Fu portato alla madre il corpo morto,
la qual lo pianse miserabilmente,
dolendosi del ciel che li fa torto,
vedendo morto il figluol crudelmente;
et non voleva udir priego et conforto,
tanto era del dolore impatïente
per la sua sorte cotanto inmatura;
pur s’ordinò di darli sepultura.
Mentre che ’l corpo al sepulcro n’andava,
d’Anaxarete alla casa pervenne,
la qual sentendo che ’l corpo passava,
di farsi alle finextre non si tenne;
et, come il volto di colui mirava,
sùbito pietra la crudel divenne,
ché tucto il corpo suo, con grande horrore,
diventò il saxo che l’havea nel core.
Dunque, per la memoria di tal sorte
pon’ giù quella superbia che tu hai,
segui il regno di Venere et la corte,
se a mio modo, o Pomona, farai;
apri allo amante le serrate porte,
usa pietà et pietà troverrai. ‑
Et, come questo la vechia hebbe detto,
si fecie un bello et gentil giovanetto.
Talché Pomona, parte per paura,
parte commossa da sì lieta faccia,
non quasi stette od obstinata o dura,
ma dal suo petto ogni crudeltà caccia;
et di Vertunno assai lieta et secura
si mise voluntaria nelle braccia,
et vixe seco un gran tempo felice,
se ’l ver di questo chi ne scrive dice.
Donna beata a cui si canta et suona,
et voi d’intorno che questo intendete,
imitate l’exemplo di Pomona
et non la crudeltà d’Anaxarete.
Ecco il tuo servo che piange et ragiona
et di veder sol la tuo faccia ha sete,
et ti prega ch’al mal d’altrui ti spechi
et a’ suoi prieghi porga un po’ gl’orechi.
Non è la sua età vechia et matura,
non è la vita sua tanto diversa,
né sì brutto creato l’ha Natura
che tu debbi essere a suo’ vogle aversa.
Vedi la macilente sua figura
et dagl’ochi le lacrime che versa,
da far piatoso un cor benché villano
et muover a suo posta un tigre hircano.
Tu sapesti con arte et con ingegno
prender costui ad gli amorosi lacci;
però convien che presto qualche segno
verso di lui benigno et lieto facci:
altrimenti ripien(o) d’ira et di sdegno
convien che morto alla tua porta adiacci,
poi satisfaccia all’amoroso inganno
Venere idea con tuo vergogna et danno.
Da ogni parte dunque se’ constretta
a rispondere, o Donna, a chi ti chiama:
da l’un canto ti sforza la vendetta
contro a colei che amata non ama,
da l’altro canto il premio che si aspetta
ad chi seguir d’Amore il regno brama;
però posa ogni vogla altera et schiva
et fa’ con lui felice et lieta viva.
I sonetti I e II furono composti da Machiavelli in carcere, dove venne rinchiuso tra febbraio
e marzo 1513 per essere stato coinvolto nella congiura antimedicea Boscoli-Capponi
I
Io ho, Giuliano, in gamba un paio di geti
con sei tratti di fune in su le spalle:
l’altre miserie mie non vo’ contalle,
poiché così si trattano e’ poeti!
Menon pidocchi queste parieti
bolsi spaccati, che paion farfalle;
né fu mai tanto puzzo in Roncisvalle,
o in Sardigna fra quegli alboreti,
quanto nel mio sì delicato ostello;
con un romor, che proprio par che ’n terra
fùlgori Giove e tutto Mongibello.
L’un si incatena e l’altro si disferra
con batter toppe, chiavi e chiavistelli:
un altro grida è troppo alto da terra!
Quel che mi fe’ più guerra,
fu che, dormendo presso a la aurora,
cantando sentii dire: — Per voi s’òra. —
Or vadin in buona ora;
purché vostra pietà ver me si voglia,
buon padre, e questi rei lacciuol ne scioglia.
II
In questa notte, pregando le Muse,
che con lor dolce cetra e dolci carmi
dovesser visitar, per consolarmi,
Vostra Magnificenzia e far mie scuse,
una comparse a me, che mi confuse,
dicendo: — Chi se’ tu, ch’osi chiamarmi? —
Dissigli il nome; e lei, per straziarmi,
mi batté al volto e la bocca mi chiuse,
dicendo: — Niccolò non se’, ma il Dazzo,
poiché ha’ legato le gambe e i talloni,
e sta’ ci incatenato come un pazzo. —
Io gli volevo dir le mie ragioni;
lei mi rispose, e disse: — Va al barlazzo,
con quella tua commedia in guazzeroni. —
Dàtegli testimoni,
Magnifico Giulian, per l’alto Iddio,
come io non sono il Dazzo, ma sono io.
Composto nel 1513 subito dopo la scarcerazione, mentre Machiavelli si trovava all'Albergaccio di Sant'Andrea in Percussina. Il sonetto accompagnava un dono di tordi. « Ho infino a qui uccellato a' tordi di mia mano. Levavomi innanzi dí, impaniavo, andavone oltre con un fascio di gabbie addosso, che parevo el Geta quando e' tornava dal porto con e libri d'Amphitrione; pigliavo el meno dua, el più sei tordi. E cosí stetti tutto novembre. Di poi questo badalucco, ancora che dispettoso e strano, è mancato con mio dispiacere». Così scriveva il 10 dic. 1513 al Vettori.
Io vi mando, Giuliano, alquanti tordi,
non perché questo don sia buono o bello,
ma perché un del pover Machiavello
Vostra Magnificenzia si ricordi.
E se d’intorno avete alcun che mordi,
li possiate nei denti dar con ello,
acciò che, mentre mangia questo uccello,
di laniare altrui ei si discordi.
Ma voi direte: – Forse ei non faranno
l’effetto che tu di’, ch’ei non son buoni
e non son grassi: ei non ne mangeranno. —
Io vi risponderei a tai sermoni,
ch’io son maghero anch’io, come lor sanno,
e spiccon pur di me di buon bocconi.
Lasci l’opinioni
Vostra Magnificenzia, e palpi e tocchi,
e giudichi a le mani e non agli occhi.
Il componimento secondo alcuni è databile fra il 1524 e il 1525; ma forse è da posticipare alla fine del 1526, quando si riannoda il rapporto fra Machiavelli e la Barbara Salutati Raffacani tornata a Firenze.
« Questa Riccia è la donna che torna più a lungo nelle lettere del Machiavelli e al Machiavelli. Ne' suoi viaggi egli non doveva mancare d'informarsi dove si potesse passare qualche ora gradevolmente. Di Francia l'Acciaioli gli ricordava la Janna. Ma i nomi più insistenti di donne sono di fiorentine; fra le quali è da mettere la Bárbera, una canterina con cui — scriveva al Guicciardini — aveva cenato alcune sere in compagnia di Lodovico Alamanni. S'era parlato della sua commedia La Mandragola, che il Guicciardini voleva far rappresentare, a Faenza o a Bologna; e la Bárbera s'era offerta di andare co' suoi cantori a fare il coro fra gli atti: il Machiavelli avrebbe preparato le canzonette e l'Alamanni procacciato a lei e ai compagni l'alloggiamento in casa i Buosi. La donna — gli riscriveva più tardi — aveva degli innamorati che potevano tentar d'impedire la venuta, ma egli sperava di poterla condurre: intanto cinque canzoni nuove erano state scritte e musicate, di cui gli mandava le parole. «La musica o noi tutti o io solo ve la porteremo». Due mesi dopo il Guicciardini era a Roma e la Bárbera anche, e il Machiavelli lo pregava: «Dove voi gli possiate far piace-re, io ve la raccomando, perchè la mi dà molto più da pensare che l'imperatore». Della commedia non più parola. L'aveva raccomandata anche Filippo Strozzi, il quale non aveva molte speranze che si trovasse chi si dilettasse tanto di musica da farle stabilire «una provvisione ferma», come pure s'era accennato da qualcuno, e prevedeva perciò che presto sarebbe tornata a Firenze. Alcuni mesi dopo, nell'agosto del 1526, al campo della Lega, messer Niccolò era inquieto del silenzio della donna e ne aveva scritto a Jacopo di Filippo, fornaciaio, che gli rispondeva: «Anchora per detta (per la lettera del Machiavelli) intendo chome la Barbera no' v'à mai ischritto e ch'aresti disiderio intendere chome istà. Di che, subito ebi la vostra, andai a trovare detta Barbera; e di già v'aveva ischritto, e chredo l'abiate auta: e no' potei fare che io no' li dicessi una charta di vilanìa; i' modo me rispose che si maravigliava di me, e che non aveva uomo che la istimasi più e che più la potesi chomandare; ma bene che la vi faceva qualche bischencha, per vedere se voi le volete bene. E arebe disiderio voi fusi più presto a Firenze, perchè gli pare, quando voi ci siete, dormir co' gli occi vostri. Ora voi la chonoscete megio di me: non so se s'è da chredergli ongni cosa». Ad ogni modo era vero che era stata via da Firenze; e ora ella prometteva di scrivere ogni settimana e lo pregava di non essere stizzito con lei.» Così scrive Ettore Janni in Machiavelli, Dall'Oglio, Milano 1927.
Amor, i’ sento l’alma
arder nel foco, ov’io
lieta arsi e più che mai d’arder desìo.
S’ tu mi raccendi il core,
ed io ne son contenta
e ritorno umilmente al giogo antico;
opra che ’l mio signore
parte del foco senta
ov’io tutto ardo e’ mie’ pensier nutrico;
fa che ponga in oblio
mia fuga, e dilli il mio nuovo desìo.
Se col tuo valor santo
far puoi, Amor, che sempre
a lui vivuta paia in questo foco,
io sarò lieta tanto,
che in le più crude tempre
il viver mi fie gioia e ’l morir gioco;
e sempre il canto mio
lui chiamerà signor e te mio Dio.
S’a la mia immensa voglia
fussi il valor conforme,
si desteria pietà là dove or dorme.
Ma perché non uguali
son le forze al desìo
ne nascon tutti e’ mali
ch’io sento, o signor mio.
Né doler mi poss’io
di voi, ma di me stesso,
poi ch’ i’ veggio e confesso
come tanta beltade
ama più verde etade.
I
La notte che morì Pier Soderini,
l’anima andò de l’inferno a la bocca;
gridò Pluton: — Ch’ inferno? anima sciocca,
va su nel limbo fra gli altri bambini. —
II
Sappi ch’io non son Argo, quale io paio,
né questi occhi ch’ io ho, fur d’Argo mai,
ma son bene occhi assai
ch’a’ principi cristian per tutto ho tratto;
e quinci avvien che ’l matto
Carlo re de’ Romani, e ’l Viceré
per non vedere hanno lasciato il Re.