Niccolò
Machiavelli
L'asino
I vari casi, la pena e la doglia
che sotto forma d'un
Asin soffersi,
canterò io, pur che
fortuna voglia.
Non cerco ch'Elicona altr'acqua versi,
o Febo posi l'arco e
la faretra
e con la lira
accompagni i miei versi;
sì perché questa grazia non s'impetra
in questi tempi, sì
perch'io son certo
ch'al suon d'un raglio
non bisogna cetra.
Né cerco averne prezzo, premio o merto;
e ancor non mi curo
che mi morda
un detrattore, o
palese o coperto;
ch'io so ben quanto gratitudo è sorda
a' preghi di ciascuno,
e so ben quanto
de' benificii un Asin
si ricorda.
Morsi o mazzate io non istimo tanto
quanto io soleva,
sendo divenuto
de la natura di colui
ch'io canto.
S'io fossi ancor di mia prova tenuto
più ch'io non soglio,
così mi comanda
quell'Asin sott'il
quale io son vissuto.
Volse già farne un bere in fonte Branda
ben tutta Siena; e poi
gli mise in bocca
una gocciola d'acqua a
randa a randa.
Ma se 'l ciel nuovi sdegni non trabocca
contra di me, e' si
farà sentire
per tutto un raglio, e
sia zara a chi tocca.
Ma prima ch'io cominci a riferire
dell'Asin mio i
diversi accidenti,
non vi rincresca una
novella udire.
Fu, e non sono ancora al tutto spenti
i suoi consorti un
certo giovanetto
pure in Firenze infra
l'antiche genti.
A costui venne crescendo un difetto:
ch'in ogni luogo per la
via correva,
e d'ogni tempo senza
alcun rispetto.
E tanto il padre vie più si doleva
di questo caso, quanto
le cagioni
de la sua malattia men
conosceva;
e volse intender molte opinioni
di molti savi, e 'n
più tempo vi porse
mille rimedi di mille
ragioni.
Oltra di questo, anco e' lo botò forse;
ma ciascadun rimedio
ci fu vano,
perciò che sempre, e
in ogni luogo corse.
Ultimamente un certo cerretano,
de' quali ogni dì
molti ci si vede,
promise al padre suo
renderlo sano.
Ma, come avvien che sempre mai si crede
a chi promette il bene
(onde deriva
ch'a' medici si presta
tanta fede:
e spesso lor credendo, l'uom si priva
del bene: e questa sol
tra l'altre sètte
par che del mal
d'altrui si pasca e viva),
così costui niente in dubbio stette,
e ne le man gli mise
questo caso;
ch'a le parole di
costui credette.
Ed ei gli fe' cento profumi al naso;
tràssegli sangue de la
testa; e poi
gli parve aver il
correr dissuaso.
E fatto ch'ebbe altri rimedi suoi,
rendé per sano al
padre il suo figliuolo,
con questi patti ch'or
vi direm noi:
che mai non lo lasciasse andar fuor
solo
per quattro mesi, ma
con seco stesse
chi, se per caso e' si
levasse a volo,
che con qualche buon modo il ritenesse,
dimostrandogli in
parte il suo errore,
pregandol ch'al suo
onor riguardo avesse.
Così andò ben più d'un mese fòre
onesto e saggio, infra
due suoi fratelli,
di reverenza pieno e
di timore;
ma giunto un di' ne la via de'
Martelli,
onde puossi la via
Larga vedere,
cominciaro
arricciarsigli i capelli.
Non si poté questo giovin tenere,
vedendo questa via
dritta e spaziosa,
di non tornar ne
l'antico piacere;
e, posposta da parte ogni altra cosa,
di correr gli tornò la
fantasia,
che mulinando mai non
si riposa;
e giunto in su la testa de la via
lasciò ire il mantello
in terra, e disse:
- Qui non mi terrà
Cristo; - e corse via.
E di poi corse sempre, mentre visse,
tanto che 'l padre si
perdé la spesa
e 'l medico lo studio
che vi misse.
Perché la mente nostra, sempre intesa
dietro al suo natural,
non ci consente
contr'abito o natura
sua difesa.
Ed io, avendo già volta la mente
a morder questo e
quello, un tempo stetti
assai quieto, umano e
paziente,
non osservando più gli altrui difetti,
cercando in altro modo
fare acquisto;
tal che d'esser
guarito i' mi credetti.
Ma questo tempo dispettoso e tristo
fa, senza ch'alcuno
abbia gli occhi d'Argo,
più tosto il mal che
'l bene ha sempre visto;
onde s'alquanto or di veleno spargo,
bench'io mi sia
divezzo di dir male,
mi sforza il tempo di
materia largo.
E l'Asin nostro che per tante scale
di questo nostro mondo
ha mossi i passi,
per lo ingegno veder
d'ogni mortale,
se bene in ogni luogo si osservassi
per le sue strade i
suoi lunghi cammini,
non lo terrebbe il
ciel che non ragghiassi.
Dunque, non fie verun che s'avvicini
a questa rozza e
capitosa gregge,
per non sentir degli
scherzi asinini:
ch'ognun ben sa, che sua natura legge,
ch'un de' più destri
giuochi che far sappi
è trarre un paio di
calci e due corregge.
E ognuno a suo modo ciarli e frappi
e abbia quanto voglia
e fumo e fasto,
ch'omai convien che
questo Asin ci cappi;
e sentirassi come il mondo è guasto,
perch'io vorrò che
tutto un vel dipinga,
avanti che si mangi il
freno e 'l basto:
e chi lo vuol aver per mal, si scinga.
Capitolo
secondo
Quando ritorna la stagione aprica,
allor che primavera il
verno caccia,
a' ghiacci, al freddo,
a le nevi nimica,
dimostra il cielo assai benigna faccia,
e suol Diana con le
Ninfe sue
ricominciar pe' boschi
andar a caccia;
e 'l giorno chiaro si dimostra piue,
massime se, tra l'uno
e l'altro corno
il sol fiammeggia del
celeste bue.
Sentonsi gli asinelli, andando attorno,
romoreggiar insieme
alcuna volta
la sera, quando a casa
fan ritorno;
tal che chiunque parla, mal si ascolta;
onde che per antica
usanza è suta
dire una cosa la
seconda volta;
perché con voce tonante e arguta
alcun di loro spesso o
raglia o ride,
se vede cosa che gli
piaccia, o fiuta.
In questo tempo, allor che si divide
il giorno da la notte,
io mi trovai
in un luogo aspro
quanto mai si vide.
Io non vi so ben dir com'io v'entrai,
né so ben la cagion
perch'io cascassi
là dove al tutto
libertà lasciai.
Io non poteva muover i miei passi
pe 'l timor grande e
per la notte oscura,
ch'io non vedeva punto
ov'io m'andassi.
Ma molto più mi accrebbe la paura
un suon d'un corno sì
feroce e forte,
ch'ancor la mente non
se ne assicura.
E mi parea veder intorno Morte
con la sua falce, e
d'un color dipinta
che si dipinge ciascun
suo consorte.
L'aria di folta e grossa nebbia tinta,
la via di sassi,
bronchi e sterpi piena
avean la virtù mia
prostrata e vinta.
A un troncon m'er'io appoggiato a pena,
quando una luce subito
m'apparve
non altrimenti che
quando balena;
ma come il balenar già non disparve,
anzi, crescendo e
venendomi presso,
sempre maggiore e più
chiara mi parve.
Aveva io fisso in quella l'occhio
messo,
e intorno a essa un
mormorio sentivo
d'un frascheggiar, che
le veniva appresso.
Io ero quasi d'ogni senso privo,
e, spaventato a quella
novitate,
teneva vòlto il volto
a ch'io sentivo,
quando una donna piena di beltade,
ma fresca e frasca, mi
si dimostrava
con le sue trecce
bionde e scapigliate.
Con la sinistra un gran lume portava
per la foresta, e da
la destra mano
teneva un corno con
ch'ella sonava.
Intorno a lei, per lo solingo piano,
erano innumerabili
animali,
che dietro le venian
di mano in mano.
Orsi, lupi e leon fieri e bestiali,
e cervi e tassi e, con
molte altre fiere,
uno infinito numer di
cignali.
Questo mi fece molto più temere,
e fuggito sarei
pallido e smorto,
s'aggiunto fosse a la
voglia il potere.
Ma quale stella m'avria mostro il
porto?
E dove gito, misero,
sarei?
O chi m'avrebbe al mio
sentiere scòrto?
Stavano dubbi tutti i pensier miei,
s'io doveva aspettar
ch'a me venisse,
o reverente farmi
incontro a lei;
tanto ch'innanzi dal tronco i'
partisse,
sopragiunse ella, e
con un modo astuto
e sogghignando: -
Buona sera - disse.
E fu tanto domestico il saluto,
con tanta grazia, con
quanta avria fatto,
se mille volte
m'avesse veduto.
Io mi rassicurai tutto a quello atto;
e tanto più
chiamandomi per nome
nel salutar che fece
il primo tratto.
E di poi, sogghignando, disse: - Or
come,
dimmi, sei tu cascato
in queste valle
da nullo abitator
colte né dome?
Le guance mie, ch'erano smorte e
gialle,
mutar colore e
diventar di fuoco,
e tacendo mi strinsi
ne le spalle.
Arei voluto dir: - Mio senno poco,
vano sperare e vana
openione
m'han fatto ruinare in
questo loco; -
ma non potei formar questo sermone
in nessun modo,
cotanta vergogna
di me mi prese, e tal
compassione.
Ed ella sorridendo: - E' non bisogna
tu tema di parlar tra
questi ceppi;
ma parla, e di' quel
che 'l tuo core agogna;
ché, benché in questi solitari greppi
i' guidi questa
mandra, e' son più mesi
che tutto 'l corso di
tua vita seppi.
Ma perché tu non puoi aver intesi
i casi nostri, io ti
dirò in che lato
ruinato tu sia, o in
che paesi.
Quando convenne, nel tempo passato,
a Circe abbandonar
l'antico nido,
prima che Giove
prendesse lo stato,
non ritrovando alcuno albergo fido,
né gente alcuna che la
ricevesse,
tanto era grande di
sua infamia il grido,
in queste oscure selve, ombrose e
spesse,
fuggendo ogni
consorzio umano e legge,
suo domicilio e la sua
sedia messe.
Tra queste, adunque, solitarie schegge
agli uomini nimica, si
dimora,
nodrita da' sospir di
questa gregge.
E perché mai alcun non uscì fuora,
che qui venisse, però
mai novelle
di lei si sepper, né
si sanno ancora.
Sono al servizio suo molte donzelle,
con le quai solo il
suo regno governa,
ed io sono una del
numer di quelle.
A me è dato per faccenda eterna,
che meco questa
mandria a pascer venga
per questi boschi, e
ogni lor caverna.
Però convien che questo lume tenga
e questo corno: l'uno
e l'altro è buono,
s'avvien che 'l
giorno, ed io sia fuor, si spenga.
L'un mi scorge il cammin; con l'altro
i' suono
s'alcuna bestia nel
bosco profondo
fosse smarrita, sappia
dove i' sono.
E se mi domandassi, io ti rispondo:
sappi che queste
bestie che tu vedi,
uomini, come te, furon
nel mondo.
E s'a le mie parole tu non credi,
risguarda un po' come
intorno ti stanno,
e chi ti guarda e chi
ti lecca i piedi.
E la cagion del guardar ch'elle fanno
è ch'a ciascuna de la
tua ruina
rincresce, e del tuo
male e del tuo danno.
Ciascuna, come te, fu peregrina
in queste selve, e poi
fu trasmutata
in queste forme da la
mia regina.
Questa propria virtù dal ciel gli è
data,
che in varie forme
faccia convertire
tosto che 'l volto
d'un uom fiso guata.
Per tanto a te convien meco venire
e di questa mia mandra
seguir l'orma,
se in questi boschi tu
non vuoi morire.
E perché Circe non vegga la forma
del volto tuo, e per
venir secreto,
te ne verrai carpon
fra questa torma.
Allor si mosse con un viso lieto;
e io, non ci veggendo
altro soccorso,
carpendo con le fiere
le andai drieto,
infra le spalle d'un cervio e d'un
orso.
Capitolo
terzo
Dietro a le piante de la mia duchessa
andando, con le spalle
volto al cielo,
tra quella turba
d'animali spessa,
or mi prendeva un caldo ed or un gelo,
or le braccia tremando
mi cercava
s'elle avevan cangiato
pelle o pelo.
Le mani e le ginocchia io mi guastava;
o voi ch'andate a le
volte carponi,
per discrezion pensate
com'io stava.
Er'ito forse un'ora ginocchioni
tra quelle fiere,
quando capitamo
in un fossato tra duo
gran valloni.
Vedere innanzi a noi non potevamo,
però che il lume tutti
ci abbagliava
di quella donna che
noi seguavamo;
quando una voce udimmo che fischiava
col rumor d'una porta
che si aperse,
di cui l'uno e l'altro
uscio cigolava.
Come la vista el riguardar sofferse,
dinanzi agli occhi
nostri un gran palazzo
di mirabile altura si
scoperse.
Magnifico e spazioso era lo spazzo;
ma bisognò, per
arrivare a quello,
di quel fossato passar
l'acqua a guazzo.
Una trave faceva ponticello
sopra cui sol passò la
nostra scorta,
non potendo le bestie
andar sopr'ello.
Giunti che fummo a piè de l'alta porta,
pien d'affanno e
d'angoscia i' entrai drento,
tra quella turba ch'è
peggio che morta,
e fummi assai di minore spavento;
ché la mia donna
perch'io non temessi,
avea ne l'entrar quivi
il lume spento.
E questo fu cagion ch'io non vedessi
d'onde si fosse quel
fischiar venuto,
o chi aperto ne
l'entrar ci avessi.
Così tra quelle bestie sconosciuto,
mi ritrovai in un
ampio cortile,
tutto smarrito, senza
esser veduto.
E la mia donna bella, alta e gentile,
per ispazio d'un'ora,
o più, attese
le bestie a rassettar
nel loro ovile.
Poi tutta lieta per la man mi prese,
ed in una sua camera
menommi,
dov'un gran fuoco di
sua mano accese;
col qual cortesemente rasciugommi
quell'acqua che m'avea
tutto bagnato,
quando il fossato
passar bisognommi.
Poscia ch'io fui rasciutto, e riposato
alquanto da l'affanno
e dispiacere
che quella notte
m'avea travagliato,
incominciai: - Madonna il mio tacere
nasce non già perch'io
non sappia a punto
quanto ben fatto
m'hai, quanto piacere.
Io era al termin di mia vita giunto,
per luogo oscuro,
tenebroso e cieco,
quando fui da la notte
sopraggiunto.
Tu mi menasti per salvarmi teco:
dunque la vita da te
riconosco
e ciò ch'intorno a
quella porto meco.
Ma la memoria de l'oscuro bosco
col tuo bel volto
m'han fatto star cheto
(nel qual ogni mio ben
veggo e conosco),
che fatto m'hanno ora doglioso or
lieto:
doglioso per quel mal
che venne pria;
allegro per quel ben
che venne drieto;
ché potuto non ho la voce mia
esplicar a parlare
infin ch'io sono
posato in parte de la
lunga via.
Ma tu, ne le cui braccia io
m'abbandono,
e che tal cortesia usata
m'hai,
che non si può pagar
con altro dono,
cortese in questa parte ancor sarai,
che non ti gravi sì,
che tu mi dica
quel corso di mia vita
che tu sai -.
- Tra la gente moderna e tra l'antica,
cominciò ella, - alcun
mai non sostenne
più ingratitudin, né
maggior fatica.
Questo già per tua colpa non ti
avvenne,
come avviene ad alcun,
ma perché sorte
al tuo ben operar
contraria venne.
Questa ti chiuse di pietà le porte,
quando ch'al tutto
questa t'ha condutto
in questo luogo sì
feroce e forte.
Ma perché il pianto a l'uom fu sempre
brutto,
si debbe a' colpi de
la sua fortuna
voltar il viso di
lagrime asciutto.
Vedi le stelle e 'l ciel, vedi la luna,
vedi gli altri pianeti
andar errando
or alto or basso senza
requie alcuna;
quando il ciel vedi tenebroso, e quando
lucido e chiaro; e
così nulla in terra
vien ne lo stato suo
perseverando.
Di quivi nasce la pace e la guerra;
di qui dipendon gli
odi tra coloro
ch'un muro insieme ed
una fossa serra.
Da questo venne il tuo primo martoro;
da questo nacque al
tutto la cagione
de le fatiche tue
senza ristoro.
Non ha cangiato il cielo opinione
ancor, né cangerà,
mentre che i fati
tengon ver te la lor
dura intenzione.
E quelli umori i quai ti sono stati
cotanto avversi e
cotanto nimici,
non sono ancor, non
sono ancor purgati;
ma come secche fien le lor radici
e che benigni i ciel
si mostreranno,
torneran tempi più che
mai felici;
e tanto lieti e giocondi saranno,
che ti darà diletto la
memoria
e del passato e del
futuro danno.
Forse ch'ancor prenderai vanagloria
a queste genti
raccontando e quelle
de le fatiche tue la
lunga istoria.
Ma prima che si mostrin queste stelle
liete verso di te, gir
ti conviene
cercando il mondo
sotto nuova pelle;
ché quella Provvidenza che mantiene
l'umana spezie, vuol
che tu sostenga
questo disagio per tuo
maggior bene.
Di qui conviene al tutto che si spenga
in te l'umana effigie,
e, senza quella,
meco tra l'altre
bestie a pascer venga.
Né può mutarsi questa dura stella;
e, per averti in
questo luogo messo,
si differisce il mal,
non si cancella.
E lo star meco alquanto t'è permesso,
acciò del luogo
esperienza porti,
e degli abitator che
stanno in esso.
Adunque fa che tu non ti sconforti;
ma prendi francamente
questo peso
sopra gli omeri tuoi
solidi e forti;
ch'ancor ti gioverà d'averlo preso.
Capitolo
quarto
Poi che la donna di parlare stette,
leva'mi in piè,
rimanendo confuso
per le parole ch'ella
aveva dette.
Pur dissi: - Il ciel né altri i' non
accuso,
né mi vo' lamentar di
sì ria sorte,
perché nel mal più che
nel ben sono uso.
Ma s'io dovessi per l'infernal porte
gire al ben che detto
hai, mi piacerebbe,
non che per quelle vie
che tu m'hai porte.
Fortuna, dunque, tutto quel che debbe
e che le par, de la
mia vita faccia;
ch'io so ben che di me
mai non le 'ncrebbe. -
Allora la mia donna aprì le braccia,
e con un bel
sembiante, tutta lieta,
mi baciò dieci volte e
più la faccia;
poi disse festeggiando: - Alma
discreta,
questo viaggio tuo,
questo tuo stento,
cantato fia da
istorico o poeta.
Ma perché via passar la notte sento,
vo' che pigliam
qualche consolazione
e che mutiam questo
ragionamento.
E prima troverem da colezione,
ché so bisogno n'hai
forse non poco,
se di ferro non è tua
condizione;
e goderemo insieme in questo loco.
E detto questo, una
sua tovaglietta
apparecchiò su un
certo desco al fuoco.
Poi trasse d'uno armario una cassetta,
dentrovi pane,
bicchieri e coltella,
un pollo, una insalata
acconcia e netta,
e altre cose appartenenti a quella.
Poscia, a me volta,
disse: - Questa cena
ogni sera m'arreca una
donzella.
Ancor questa guastada porta piena
di vin, che ti parrà,
se tu l'assaggi,
di quel che Val di
Grieve e Poppi mena.
Godiamo, adunque; e, come fanno i
saggi,
pensa che ben possa
venire ancora;
e chi è dritto, al fin
convien che caggi.
E quando viene il mal, che viene
ognora,
mandalo giù come una
medicina;
ché pazzo è chi la
gusta o l'assapora.
Viviamo or lieti, infin che domattina
con la mia greggia sia
tempo uscir fuori,
per ubbidire a l'alta
mia regina -.
Così lasciando gli affanni e i dolori,
lieti insieme cenammo:
e ragionossi
di mille canzonette e
mille amori.
Poi, come avemmo cenato, spogliossi,
e dentro al letto mi
fe' seco entrare,
come suo amante o suo
marito io fossi.
Qui bisogna a le Muse il peso dare,
per dir la sua beltà;
ché senza loro
sarebbe vano il nostro
ragionare.
Erano i suoi capei biondi com'oro,
ricciuti e crespi, tal
che d'una stella
pareano i raggi o del
superno coro.
Ciascuno occhio pareva una fiammella
tanto lucente, sì
chiara e sì viva,
ch'ogni acuto veder si
spegne in quella.
Avea la testa una grazia attrattiva,
tal ch'io non so a chi
me la somigli,
perché l'occhio al
guardarla si smarriva.
Sottili, arcati e neri erano i cigli,
perch'a plasmargli fur
tutti gli dei,
tutti i celesti e
superni consigli.
Di quel che da quei pende dir vorrei
cosa ch'al vero
alquanto rispondesse,
ma tacciol, perché dir
non lo saprei.
Io non so già chi quella bocca fesse;
se Giove con sua man
non la fece egli,
non credo ch'altra man
far la potesse.
I denti più che d'avorio eran begli;
e una lingua vibrar si
vedeva,
come una serpe, infra
le labbra e quegli:
d'onde uscì un parlare, il qual poteva
fermare i venti e far
andar le piante,
sì soave concento e
dolce aveva.
Il collo e 'l mento ancor vedeasi, e
tante
altre bellezze, che
farian felice
ogni meschino e
infelice amante.
Io non so s'a narrarlo si disdice
quel che seguì da poi;
però che 'l vero
suole spesso far
guerra a chi lo dice.
Pur lo dirò, lasciandone il pensiero
a chi vuol biasimar;
perché, tacendo
un gran piacer, non è
piacer intero.
Io venni ben con l'occhio discorrendo
tutte le parti sue
infino al petto,
a lo splendor del qual
ancor m'accendo;
ma più oltre veder mi fu disdetto
da una ricca e candida
coperta,
con la qual coperto
era il picciol letto.
Era la mente mia stupida e incerta,
frigida, mesta, timida
e dubbiosa,
non sapendo la via
quanto era aperta.
E come giace stanca e vergognosa
e involta nel lenzuol,
la prima sera,
presso al marito la
novella sposa,
così d'intorno, pauroso, m'era
la coperta del letto
inviluppata,
come quel che 'n virtù
sua non ispera.
Ma poi che fu la donna un pezzo stata
a riguardarmi,
sogghignando disse:
- Sare' io d'ortica o
pruni armata?
Tu puo' aver quel che sospirando misse
alcun già, per averlo,
più d'un grido,
e fe' mille quistioni
e mille risse.
Bene entreresti in qualche loco infido,
per ritrovarti meco, o
noteresti
come Leandro infra
Seto e Abido;
poi che la virtute hai sì poca, che
questi
panni che son fra noi
ti fanno guerra,
e da me sì discosto ti
ponesti -.
E come quando nel carcer si serra,
dubbioso de la vita,
un peccatore,
che sta con gli occhi
guardando la terra;
poi, s'egli avvien che grazia dal
signore
impetri, e' lascia
ogni pensiero strano
e prende assai
d'ardire e di valore,
tal er'io, e tal divenni per l'umano
suo ragionare; e a lei
m'accostai,
stendendo fra' lenzuol
la fredda mano.
E come poi le sue membra toccai,
un dolce sì soave al
cor mi venne
qual io non credo più
gustar mai.
Non in un loco la man si ritenne,
ma, discorrendo per le
membra sue,
la smarrita virtù
tosto rinvenne.
E non essendo già timido piue,
dopo un dolce sospir,
parlando dissi:
- Sian benedette le
bellezze tue!
Sia benedetta l'ora, quando io missi
il piè ne la foresta,
e se mai cose,
che ti fossero a cor,
feci né scrissi.
E pien di gesti e parole amorose,
rinvolto in quelle
angeliche bellezze,
che scordar mi facean
l'umane cose,
intorno al cor sentii tante allegrezze
con tanto dolce, ch'io
mi venni meno
gustando il fin di
tutte le dolcezze,
tutto prostrato sopra il dolce seno.
Capitolo
quinto
Veniva già la fredda notte manco:
fuggivansi le stelle
ad una ad una,
e d'ogni parte il ciel
si facea bianco;
cedeva al sole il lume de la luna,
quando la donna mia
disse: - E' bisogna
poi ch'egli è tale il
voler di Fortuna,
s'io non voglio acquistar qualche
vergogna
tornar a la mia
mandra, e menar quella
dove prender l'usato
cibo agogna.
Tu ti resterai solo in questa cella,
e questa sera, al
tornar, menerotti
dove tu possa a tuo
modo vedella.
Non uscir fuor; questo ricordo dotti;
non risponder s'un
chiama, perché molti
degli altri questo
errore ha mal condotti.
Indi partissi; ed io, ch'aveva volti
tutti i pensieri a
l'amoroso aspetto,
che lucea più che
tutti gli altri volti,
sendo rimaso in camera soletto,
per mitigar, del letto
i' mi levai,
l'incendio grande che
m'ardeva il petto.
Come prima da lei mi discostai,
mi riempié di pensier
la saetta
quella ferita che per
lei sanai.
E stav'io come quello che sospetta
di varie cose, e se
stesso confonde,
desiderando il ben che
non aspetta.
E perché a l'un pensier l'altro
risponde
la mente a le passate
cose corse,
che 'l tempo per ancor
non ci nasconde;
e qua e là ripensando discorse,
come l'antiche genti,
alte e famose,
fortuna spesso or
carezzò e or morse;
e tanto a me parver maravigliose,
che meco la cagion
discorrer volli
del variar de le
mondane cose.
Quel che ruina da' più alti colli,
più ch'altro, i regni,
è questo: che i potenti
di lor potenza non son
mai satolli.
Da questo nasce che son mal contenti
quei ch'han perduto, e
che si desta umore
per ruinar quei che
restan vincenti;
onde avvien che l'un sorge e l'altro
muore;
e quel ch'è surto,
sempre mai si strugge
per nuova ambizione o
per timore.
Questo appetito gli stati distrugge:
e tanto è più mirabil,
che ciascuno
conosce questo error,
nessun lo fugge.
San Marco impetuoso ed importuno,
credendosi aver sempre
il vento in poppa,
non si curò di ruinare
ognuno;
né vide come la potenza troppa
era nociva, e come il
me' sarebbe
tener sott'acqua la
coda e la groppa.
Spesso uno ha pianto lo stato ch'egli
ebbe,
e, dopo il fatto, poi
s'accorge come
a sua ruina e a suo
danno crebbe.
Atene e Sparta, di cui sì gran nome
fu già nel mondo,
allor sol ruinorno
quando ebber le
potenze intorno dome.
Ma di Lamagna nel presente giorno
ciascaduna città vive
sicura,
per aver manco di sei
miglia intorno.
A la nostra città non fe' paura
Arrigo già con tutta
la sua possa,
quando i confini avea
presso a le mura;
ed or ch'ella ha sua potenza promossa
intorno, e diventata è
grande e vasta,
teme ogni cosa, non
che gente grossa.
Perché quella virtute che soprasta
un corpo a sostener,
quando egli è solo,
a regger poi maggior
peso non basta.
Chi vuol toccar e l'uno e l'altro polo,
si truova ruinato in
sul terreno,
com'Icar già dopo suo
folle volo.
Vero è che suol durar o più o meno
una potenza, secondo
che più
o men sue leggi buone
e ordin fieno.
Quel regno che sospinto è da virtù
ad operare, o da
necessitate,
si vedrà sempre mai
gire all'insù;
e per contrario fia quella cittate
piena di sterpi
silvestri e di dumi,
cangiando seggio dal
verno a la state,
tanto ch'al fin convien che si consumi
e ponga sempre la sua
mira in fallo,
che ha buone leggi e
cattivi costumi.
Chi le passate cose legge, sallo
come gli imperii
comincian da Nino,
e poi finiscono in
Sardanapallo.
Quel primo fu tenuto un uom divino,
quell'altro fu trovato
fra l'ancille
com'una donna
dispensar il lino.
La virtù fa le region tranquille:
e da tranquillità poi
ne risolta
l'ozio: e l'ozio arde
i paesi e le ville.
Poi, quando una provincia è stata
involta
ne' disordini un
tempo, tornar suole
virtute ad abitarvi
un'altra volta.
Quest'ordine così permette e vuole
chi ci governa, acciò
che nulla stia
o possa star mai fermo
sotto 'l sole.
Ed è, e sempre fu e sempre fia
che 'l mal succeda al
bene, il bene al male,
e l'un sempre cagion
dell'altro sia.
Vero è ch'un crede sia cosa mortale
pe' regni, e sia la
lor distruzione
l'usura, o qualche
peccato carnale;
e della lor grandezza la cagione,
e che alti e potenti
gli mantiene,
sian digiuni,
limosine, orazione.
Un altro, più discreto e savio, tiene
ch'a ruinargli questo
mal non basti,
né basti a
conservargli questo bene.
Creder che senza te per te contrasti
Dio, standoti ozioso e
ginocchioni,
ha molti regni e molti
stati guasti.
E' son ben necessarie l'orazioni:
e matto al tutto è
quel ch'al popol vieta
le cerimonie e le sue
divozioni;
perché da quelle in ver par che si
mieta
unione e buono ordine;
e da quello
buona fortuna poi
dipende e lieta.
Ma non sia alcun di sì poco cervello,
che creda, se la sua
casa ruina
che Dio la salvi
senz'altro puntello;
perché e' morrà sotto quella ruina.
Capitolo
sesto
Mentre ch'io stava sospeso ed involto
con l'affannata mente
in quel pensiero,
aveva il sole il mezzo
cerchio volto:
il mezzo, dico, del nostro emispero;
tal che da noi
s'allontanava il giorno,
e l'oriente si faceva
nero;
quando io conobbi pe 'l sonar d'un
corno
e pe 'l ruggir de
l'infelice armento,
come la donna mia
facea ritorno.
E bench'io fossi in quel pensiero
intento
che tutto il giorno a
sé mi aveva tratto,
e del mio petto ogni
altra cura spento,
com'io sentii la mia donna, di fatto
pensai ch'ogni altra
cosa fosse vana
fuor di colei di cui
fui servo fatto;
che, giunta dov'io era, tutta umana
il collo mio con un
de' bracci avvinse,
con l'altro mi pigliò
la man lontana.
Vergogna alquanto il viso mi dipinse,
né potti dire alcuna
cosa a quella,
tanta fu la dolcezza
che mi vinse.
Pur, dopo alquanto spazio, e io ed ella
insieme ragionammo
molte cose,
com'uno amico con
l'altro favella.
Ma, riposate sue membra angosciose
e recreate dal cibo
usitato,
così parlando la donna
propose:
- Già ti promisi d'averti menato
in loco dove
comprender potresti
tutta la condizion del
nostro stato;
adunque, se ti piace, fa' t'appresti
e vedrai gente con cui
per l'adrieto
gran conoscenza e gran
pratica avesti -.
Indi levossi, e io le tenni drieto,
com'ella volse, e non
senza paura;
pur non sembrava né
mesto né lieto.
Fatta era già la notte ombrosa e scura;
ond'ella prese una
lanterna in mano,
ch'a suo piacer il
lume scuopre e tura.
Giti che fummo, e non molto lontano,
mi parve entrar in un
gran dormitoro,
sì come ne' conventi
usar veggiàno.
Un landrone era proprio come il loro,
e da ciascun de' lati
si vedeva
porte pur fatte di
pover lavoro.
Allor la donna ver me si volgeva,
e disse come dentro a
quelle porte
il grande armento suo
meco giaceva.
E perché variata era la sorte,
eran varie le loro
abitazioni,
e ciaschedun si sta
col suo consorte.
- Stanno a man destra, al primo uscio i
leoni,
cominciò, poi che 'l
suo parlar riprese,
- co' denti acuti e
con gli adunchi unghioni.
Chiunque ha cor magnanimo e cortese,
da Circe in quella
fera si converte;
ma pochi ce ne son del
tuo paese.
Ben son le piagge tue fatte deserte
e prive d'ogni
gloriosa fronda,
che le facea men
sassose e meno erte.
S'alcun di troppa furia e rabbia
abbonda,
tenendo vita rozza e
violenta,
tra gli orsi sta ne la
stanza seconda;
e ne la terza, se ben mi rammenta,
voraci lupi e affamati
stanno,
tal che cibo nessun
non gli contenta.
Lor domicilio nel quarto loco hanno
buffoli e buoi; e se
con quella fiera
si truova alcun de'
tuoi, àbbisi il danno.
Chi si diletta di far buona ciera
e dorme quando e'
veglia intorno al fuoco,
si sta fra' becchi
nella quinta schiera.
Io non ti vuo' discorrere ogni loco:
perché a voler parlar
di tutti quanti,
sarebbe il parlar
lungo e 'l tempo poco.
Bàstiti questo: che dietro e davanti
ci son cervi, pantere
e leopardi,
e maggior bestie assai
che leofanti.
Ma fa ch'un poco al dirimpetto guardi
quell'ampia porta ch'a
l'incontro è posta,
ne la quale entrerem,
benché sia tardi. -
E prima ch'io facessi altra risposta,
tutta si mosse, e
disse: - Sempre mai
si debbe far piacer
quando e' non costa.
Ma perché, poi che dentro tu sarai,
possa conoscer del
loco ogni effetto
e me' considerar ciò
che vedrai,
intender debbi che, sotto ogni tetto
di queste stanze, sta
d'una ragione
d'animai bruti, come
già t'ho detto.
Sol questa non mantien tal condizione,
e, come avvien nel
Mallevato vostro
che vi va ad abitar
ogni prigione,
così colà in quel loco ch'io ti mostro,
può ir ciascuna fiera
a diportarsi,
che per le celle stan
di questo chiostro;
tal che, veggendo quella, potrà farsi,
senza riveder l'altre
ad una ad una,
dove sarebbon troppi
passi sparsi.
E anche in quella parte si raguna
fiere che son di
maggior conoscenza,
di maggior grado e di
maggior fortuna.
E se ti parran bestie in apparenza,
ben ne conoscerai
qualcuna in parte
a' modi, a' gesti, a
gli occhi, a la presenza.
Mentre parlava, noi venimmo in parte
dove la porta tutta ne
appariva,
con le sue circostanze
a parte a parte.
Una figura, che pareva viva,
era di marmo scolpita
davante
sopra 'l grande arco
che l'uscio copriva:
e come Annibal sopra un elefante,
parea che trionfasse;
e la sua vesta
era d'uom grave,
famoso e prestante.
D'alloro una ghirlanda aveva in testa;
la faccia aveva assai
gioconda e lieta;
d'intorno, gente che
li facean festa.
- Colui è il grande abate di Gaeta,
disse la donna, come
saper dei,
che fu già coronato
per poeta.
Suo simulacro da' superni Dei,
come tu vedi, in quel
loco fu messo,
con gli altri che gli
sono intorno a' piei,
perché ciascun che gli venisse
appresso,
senz'altro intender,
giudicar potesse
quai sian le genti là
serrate in esso.
Ma facciam sì omai, ch'io non perdesse
cotanto tempo a
risguardar costui,
che l'ora del tornar
sopragiungesse.
Vienne, adunque, con meco; e se mai fui
cortese, ti parrò a
questa volta,
nel dimostrarti questi
luoghi bui,
se tanta grazia non m'è dal ciel tolta.
Capitolo
settimo
Noi eravam col piè già 'n su la soglia
di quella porta, e di
passar là drento
m'avea fatto venir la
donna voglia;
e di quel mio voler restai contento,
perché la porta subito
s'aperse,
e dimostronne il
serrato convento.
E perché me' quel potesse vederse,
il lume ch'ella avea
sotto la vesta
chiuso, ne l'entrar là
tutto scoperse.
A la qual luce sì lucida e presta,
com'egli avvien nel
veder cosa nuova,
più che duemila bestie
alzar la testa.
Or guarda ben, se di veder ti giova,
disse la donna, il
copioso drappello
che 'n questo loco
insieme si ritruova.
Né ti paia fatica a veder quello,
ché non son tutti
terrestri animali;
ben c'è tra tante
bestie qualche uccello.
Io levai gli occhi, e vidi tanti e tali
animai bruti, ch'io
non crederei
poter mai dir quanti
fossero e quali;
e perché a dirlo tedioso sarei,
narrerò di qualcun, la
cui presenza
diede più maraviglia a
gli occhi miei.
Vidi un gatto per troppa pazienza
perder la preda, e
restarne scornato,
benché prudente e di
buona semenza.
Poi vidi un drago tutto travagliato
voltarsi, senza aver
mai posa alcuna,
ora sul destro ora su
l'altro lato.
Vidi una volpe, maligna e 'mportuna,
che non truova ancor
rete che la pigli;
e un can còrso abbaiar
a la luna.
Vidi un leon che s'aveva gli artigli
e' denti ancor da se
medesmo tratti,
pe' suoi non buoni e
non saggi consigli.
Poco più là, certi animai disfatti
qual coda non avea,
qual non orecchi,
vidi musando starsi
quatti quatti.
Io ve ne scorsi e conobbi parecchi;
e, se ben mi ricordo
in maggior parte,
era un mescuglio fra
conigli e becchi.
Appresso questi, un po' così da parte,
vidi un altro animal,
non come quelli,
ma da natura fatto con
più arte.
Aveva rari e delicati e' velli;
parea superbo in vista
e animoso,
tal che mi venne
voglia di piacelli.
Non dimostrava suo cuor generoso,
Gli ugnoni avendo
incatenato e i denti;
però si stava
sfuggiasco e sdegnoso.
Una................................
....................................
....................................
Vidi...............................
....................................
....................................
Poi vidi una giraffa, che chinava
il collo a
ciascheduno; e da l'un canto
aveva un orso stanco
che russava.
Vidi un pavon col suo leggiadro ammanto
girsi pavoneggiando, e
non temeva
se 'l mondo andasse in
volta tutto quanto.
Uno animal che non si conosceva,
sì variato avea la
pelle e 'l dosso,
e 'n su la groppa una
cornacchia aveva.
Una bestiaccia vidi di pel rosso,
ch'era un bue senza
corna; e dal discosto
m'ingannò, che mi
parve un caval grosso.
Poi vidi uno asin tanto mal disposto,
che non potea portar,
non ch'altro il basto;
e parea proprio un
citriuol d'agosto.
Vidi un segugio, ch'avea il veder
guasto:
e Circe n'arìa fatto
capitale,
se non foss'ito,
com'un orbo, al tasto.
Vidi uno soricciuol, ch'avea per male
d'esser sì piccoletto,
e bezzicando
andava or questo, or
quell'altro animale.
Poi vidi un bracco, ch'andava fiutando
a questo il ceffo a
quell'altro la spalla,
come s'andasse del
padron cercando.
Il tempo è lungo, e la memoria falla;
tanto ch'io non vi
posso ben narrare
quel ch'io vidi in un
dì per questa stalla.
Un buffol, che mi fe' raccapricciare
col suo guardare e 'l
suo mugliar sì forte,
d'aver veduto i' mi
vo' ricordare.
Un cervio vidi, che temeva forte,
or qua or là variando
il cammino,
tanto avea paura de la
morte.
Vidi sopra una trave un armellino,
che non vuol ch'altri
il guardi, non che 'l tocchi,
ed era a una allodola
vicino.
In molte buche più di cento allocchi
vidi, e una oca bianca
come neve
e una scimia che facea
lo 'mbocchi.
Vidi tanti animai, che saria greve
e lungo a raccontar
lor condizioni,
come fu il tempo a
riguardarli breve.
Quanti mi parver già Fabi e Catoni,
che, poi che quivi di
lor esser seppi,
mi riusciron pecore e
montoni!
Quanti ne pascon questi duri greppi,
che seggono alto ne'
più alti scanni!
Quanti nasi aquilin
riescon gheppi!
E bench'io fossi involto in mille
affanni,
pur parlare a qualcuno
arei voluto,
se vi fossero stati i
torcimanni;
ma la mia donna, ch'ebbe conosciuto
questa mia voglia e
questo mio appetito,
disse: - Non dubitar,
ch'e' fia adempiuto.
Guarda un po' là dov'io ti mostro a
dito,
senz'esserti più oltre
mosso un passo
pur lungo il muro,
come tu se' ito. -
Allora io vidi entro in un luogo basso,
com'io ebbi ver lui
dritto le ciglia,
tra 'l fango involto
un porcellotto grasso.
Non dirò già chi costui si somiglia;
bàstivi ch'e' saria
trecento e piue
libbre, se si pesasse
a la caviglia.
E la mia guida disse: - Andiam là giue
presso a quel porco,
se tu se' pur vago
d'udir le voglie e le
parole sue.
Che se trar lo volessi di quel lago,
facendol tornar uom,
e' non vorrebbe;
come pesce che fosse
in fiume o in lago.
E perché questo non si crederebbe,
acciò che far ne possa
piena fede,
domandera'lo se quindi
uscirebbe.
Appresso mosse la mia donna il piede;
e per non separarmi da
lei punto,
la presi per la man
ch'ella mi diede;
tanto ch'io fui presso a quel porco
giunto.
Capitolo
ottavo
Alzò quel porco al giunger nostro il
grifo,
tutto vergato di meta
e di loto,
tal che mi venne nel
guardarlo a schifo.
E perch'io fui già gran tempo suo noto,
ver me si mosse
mostrandomi i denti,
stando col resto fermo
e senza moto.
Ond'io li dissi, pur con grati accenti:
- Dio ti dia miglior
sorte, se ti pare;
Dio ti mantenga, se tu
ti contenti.
Se meco ti piacesse ragionare,
mi sarà grato; e
perché sappia certo,
pur che tu voglia, ti
puoi sodisfare.
E per parlarti libero e aperto,
tel dico con licenza
di costei,
che mostro m'ha questo
sentier deserto.
Cotanta grazia m'han fatto li Dei,
che non gli è parso il
salvarmi fatica
e trarmi degli affanni
ove tu sei.
Vuole ancor da sua parte ch'io ti dica
che ti libererà da
tanto male,
se tornar vuoi ne la
tua forma antica. -
Levossi allora in piè dritto il
cignale,
udendo quello; e fe'
questa risposta,
tutto turbato, il fangoso
animale:
- Non so d'onde tu venga, o di qual
costa;
ma se per altro tu non
se' venuto
che per trarmi di qui,
vanne a tua posta.
Viver con voi io non voglio, e rifiuto;
e veggo ben che tu se'
in quello errore,
che me più tempo ancor
ebbe tenuto.
Tanto v'inganna il proprio vostro
amore,
che altro ben non
credete che sia
fuor de l'umana
essenza e del valore;
ma se rivolgi a me la fantasia,
pria che tu parta da
la mia presenza,
farò che 'n tale error
mai più non stia.
Io mi vo' cominciar da la prudenza,
eccellente virtù, per
la qual fanno
gli uomin maggiore la
loro eccellenza.
Questa san meglio usar color che sanno,
senz'altra disciplina,
per sé stesso
seguir lor bene ed
evitar lor danno.
Senz'alcun dubbio, io affermo e
confesso
esser superior la parte
nostra;
e ancor tu nol
negherai appresso.
Qual è quel precettor che ci dimostra
l'erba qual sia, o
benigna o cattiva?
Non studio alcun, non
l'ignoranza vostra.
Noi cangiam region di riva in riva,
e lasciare uno albergo
non ci duole,
pur che contento e
felice si viva.
L'un fugge il ghiaccio e l'altro fugge
il sole,
seguendo il tempo a
viver nostro amico,
come natura che ne
insegna, vuole.
Voi, infelici assai più ch'io non dico,
gite cercando quel
paese e questo,
non per aere trovar
freddo od aprico,
ma perché l'appetito disonesto
de l'aver non vi tien
l'animo fermo
nel viver parco,
civile e modesto;
e spesso in aere putrefatto e infermo,
lasciando l'aere buon,
vi trasferite;
non che facciate al
viver vostro schermo.
Noi l'aere sol, voi povertà fuggite,
cercando con pericoli
ricchezza,
che v'ha del ben oprar
le vie impedite.
E se parlar vogliam de la fortezza,
quanto la parte nostra
sia prestante
si vede, come 'l sol
per sua chiarezza.
Un toro, un fer leone, un leofante
e 'nfiniti di noi nel
mondo sono
a cui non può l'uom
comparir davante.
E se de l'alma ragionare è buono,
vedrai di cori invitti
e generosi
e forti esserci fatto
maggior dono.
Tra noi son fatti e gesti valorosi
senza sperar trionfo o
altra gloria,
come già quei Roman
che fur famosi.
Vedesi ne' leon gran vanagloria
de l'opra generosa, e
de la trista
volerne al tutto
spegner la memoria.
Alcuna fera ancor tra noi s'è vista,
che, per fuggir del
carcer le catene,
e gloria e libertà
morendo acquista;
e tal valor nel suo petto ritiene
ch'avendo perso la sua
libertate,
di viver serva il suo
cor non sostiene.
E se a la temperanza risguardate,
ancora e' vi parrà
ch'a questo gioco
abbiam le parti vostre
superate.
In Vener noi spendiamo e breve e poco
tempo; ma voi, senza
alcuna misura,
seguite quella in ogni
tempo e loco.
La nostra specie altro cibar non cura
che 'l prodotto dal
ciel sanz'arte, e voi
volete quel che non
può far natura.
Né vi contenta un sol cibo, qual noi,
ma, per me' sodisfar
le 'ngorde voglie,
gite per quelli infin ne'
regni Eoi.
Non basta quel che 'n terra si
ricoglie,
ché voi entrate a
l'Oceano in seno,
per potervi saziar de
le sue spoglie.
Il mio parlar mai non verrebbe meno,
s'io volessi mostrar
come infelici
voi siete più ch'ogni
animal terreno.
Noi a natura siam maggiori amici;
e par che in noi più
sua virtù dispensi,
facendo voi d'ogni suo
ben mendici.
Se vuoi questo veder, pon mano a'
sensi,
e sarai facilmente
persuaso
di quel che forse pe
'l contrario pensi.
L'aquila l'occhio, il can l'orecchio e
'l naso,
e 'l gusto ancor
possiam miglior mostrarvi,
se 'l tatto a voi più
proprio s'è rimaso;
il qual v'è dato non per onorarvi,
ma sol perché di Vener
l'appetito
dovesse maggior briga
e noia darvi.
Ogni animal tra noi nasce vestito:
che 'l difende dal
freddo tempo e crudo,
sotto ogni cielo e per
qualunque lito.
Sol nasce l'uom d'ogni difesa ignudo,
e non ha cuoio, spine
o piume o vello,
setole o scaglie, che
li faccian scudo.
Dal pianto il viver suo comincia
quello,
con tuon di voce
dolorosa e roca;
tal ch'egli è
miserabile a vedello.
Da poi, crescendo la sua vita è poca,
senz'alcun dubbio, al
paragon di quella
che vive un cervo, una
cornacchia, un'oca.
Le man vi diè natura e la favella,
e con quelle anco
ambizion, vi dette,
e avarizia che quel
ben cancella.
A quante infermità vi sottomette
natura, prima, e poi
fortuna! Quanto
ben senz'alcun effetto
vi promette!
Vostr'è l'ambizion lussuria e 'l
pianto,
e l'avarizia che
genera scabbia
nel viver vostro che
stimate tanto.
Nessun altro animal si trova ch'abbia
più fragil vita, e di
viver più voglia,
più confuso timore o
maggior rabbia.
Non dà l'un porco a l'altro porco
doglia,
l'un cervo a l'altro;
solamente l'uomo
l'altr'uom ammazza,
crocifigge e spoglia.
Pens'or come tu vuoi ch'io ritorni
uomo,
sendo di tutte le
miserie privo,
ch'io sopportava
mentre che fui uomo.
E s'alcuno infra gli uomini ti par
divo,
felice e lieto, non
gli creder molto,
ché 'n questo fango
più felice vivo,
dove senza pensier mi bagno e vòlto. -