Niccolò Machiavelli
Discorsi sopra la prima
Deca di Tito Livio
Edizione di riferimento: Niccolò
Machiavelli: Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, in Tutte le
opere, a cura di Mario Martelli, Sansoni, Firenze 1971
NICCOLÓ MACHIAVELLI
A ZANOBI BUONDELMONTI E COSIMO RUCELLAI
SALUTE.
Io
vi mando uno presente, il quale, se non corrisponde agli obblighi che io ho con
voi, è tale, sanza dubbio, quale ha potuto Niccolò Machiavelli mandarvi
maggiore. Perché in quello io ho espresso quanto io so e quanto io ho imparato
per una lunga pratica e continua lezione delle cose del mondo. E non potendo né
voi né altri desiderare da me più, non vi potete dolere se io non vi ho donato
più. Bene vi può increscere della povertà dello ingegno mio, quando siano
queste mie narrazioni povere; e della fallacia del giudicio, quando io in molte
parte, discorrendo, m'inganni. Il che essendo, non so quale di noi si abbia ad
essere meno obligato all'altro: o io a voi, che mi avete forzato a scrivere
quello che io mai per me medesimo non arei scritto; o voi a me, quando,
scrivendo non vi abbi sodisfatto. Pigliate, adunque, questo in quello modo che
si pigliano tutte le cose degli amici; dove si considera più sempre la
intenzione di chi manda, che le qualità della cosa che è mandata. E crediate
che in questo io ho una sola satisfazione, quando io penso che, sebbene io mi
fussi ingannato in molte sue circunstanzie, in questa sola so ch'io non ho
preso errore, di avere eletto voi, ai quali, sopra ogni altri, questi mia
Discorsi indirizzi: sì perché, faccendo questo, mi pare avere mostro qualche
gratitudine de' beneficii ricevuti: sì perché e' mi pare essere uscito fuora
dell'uso comune di coloro che scrivono, i quali sogliono sempre le loro opere a
qualche principe indirizzare; e, accecati dall'ambizione e dall'avarizia,
laudano quello di tutte le virtuose qualitadi, quando da ogni vituperevole
parte doverrebbono biasimarlo. Onde io, per non incorrere in questo errore, ho
eletti non quelli che sono principi, ma quelli che, per le infinite buone parti
loro, meriterebbono di essere; non quelli che potrebbero di gradi, di onori e
di ricchezze riempiermi, ma quelli che, non potendo, vorrebbono farlo. Perché
gli uomini, volendo giudicare dirittamente, hanno a stimare quelli che sono,
non quelli che possono essere liberali, e così quelli che sanno, non quelli
che, sanza sapere, possono governare uno regno. E gli scrittori laudano più
Ierone Siracusano quando egli era privato, che Perse Macedone quando egli era
re: perché a Ierone ad essere principe non mancava altro che il principato;
quell'altro non aveva parte alcuna di re, altro che il regno. Godetevi,
pertanto, quel bene o quel male che voi medesimi avete voluto: e se voi starete
in questo errore, che queste mie opinioni Vi siano grate, non mancherò di
seguire il resto della istoria, secondo che nel principio vi promissi. Valete.
LIBRO
PRIMO
Ancora
che, per la invida natura degli uomini, sia sempre suto non altrimenti
periculoso trovare modi ed ordini nuovi, che si fusse cercare acque e terre
incognite, per essere quelli più pronti a biasimare che a laudare le azioni
d'altri; nondimanco, spinto da quel naturale desiderio che fu sempre in me di
operare, sanza alcuno respetto, quelle cose che io creda rechino comune
benefizio a ciascuno, ho deliberato entrare per una via, la quale, non essendo
suta ancora da alcuno trita, se la mi arrecherà fastidio e difficultà, mi
potrebbe ancora arrecare premio, mediante quelli che umanamente di queste mie
fatiche il fine considerassino. E se lo ingegno povero, la poca esperienzia
delle cose presenti e la debole notizia delle antique faranno questo mio conato
difettivo e di non molta utilità; daranno almeno la via ad alcuno che, con più
virtù, più discorso e iudizio, potrà a questa mia intenzione satisfare: il che,
se non mi arrecherà laude, non mi doverebbe partorire biasimo.
Considerando
adunque quanto onore si attribuisca all'antiquità, e come molte volte, lasciando
andare infiniti altri esempli, un frammento d'una antiqua statua sia suto
comperato gran prezzo, per averlo appresso di sé, onorarne la sua casa e
poterlo fare imitare a coloro che di quella arte si dilettono; e come quegli
dipoi con ogni industria si sforzono in tutte le loro opere rappresentarlo; e
veggiendo, da l'altro canto, le virtuosissime operazioni che le storie ci
mostrono, che sono state operate da regni e republiche antique, dai re,
capitani, cittadini, latori di leggi, ed altri che si sono per la loro patria
affaticati, essere più presto ammirate che imitate; anzi, in tanto da ciascuno
in ogni minima cosa fuggite, che di quella antiqua virtù non ci è rimasto alcun
segno; non posso fare che insieme non me ne maravigli e dolga. E tanto più, quanto
io veggo nelle diferenzie che intra cittadini civilmente nascano, o nelle
malattie nelle quali li uomini incorrono, essersi sempre ricorso a quelli
iudizii o a quelli remedii che dagli antichi sono stati iudicati o ordinati:
perché le leggi civili non sono altro che sentenze date dagli antiqui
iureconsulti, le quali, ridutte in ordine, a' presenti nostri iureconsulti
iudicare insegnano. Né ancora la medicina è altro che esperienze fatte dagli
antiqui medici, sopra le quali fondano e' medici presenti e' loro iudizii.
Nondimanco, nello ordinare le republiche, nel mantenere li stati, nel governare
e' regni, nello ordinare la milizia ed amministrare la guerra, nel iudicare e'
sudditi, nello accrescere l'imperio, non si truova principe né republica che
agli esempli delli antiqui ricorra. Il che credo che nasca non tanto da la
debolezza nella quale la presente religione ha condotto el mondo, o da quel
male che ha fatto a molte provincie e città cristiane uno ambizioso ozio,
quanto dal non avere vera cognizione delle storie, per non trarne, leggendole,
quel senso né gustare di loro quel sapore che le hanno in sé. Donde nasce che
infiniti che le leggono, pigliono piacere di udire quella varietà degli
accidenti che in esse si contengono, sanza pensare altrimenti di imitarle,
iudicando la imitazione non solo difficile ma impossibile; come se il cielo, il
sole, li elementi, li uomini, fussino variati di moto, di ordine e di potenza,
da quello che gli erono antiquamente.
Volendo,
pertanto, trarre li uomini di questo errore, ho giudicato necessario scrivere,
sopra tutti quelli libri di Tito Livio che dalla malignità de' tempi non ci
sono stati intercetti, quello che io, secondo le cognizione delle antique e
moderne cose, iudicherò essere necessario per maggiore intelligenzia di essi, a
ciò che coloro che leggeranno queste mia declarazioni, possino più facilmente
trarne quella utilità per la quale si debbe cercare la cognizione delle
istorie. E benché questa impresa sia difficile, nondimanco, aiutato da coloro
che mi hanno, ad entrare sotto questo peso, confortato, credo portarlo in modo,
che ad un altro resterà breve cammino a condurlo a loco destinato.
1
Quali
siano stati universalmente i principii di qualunque città, e quale fusse quello
di Roma.
Coloro
che leggeranno quale principio fusse quello della città di Roma, e da quali
latori di leggi e come ordinato, non si maraviglieranno che tanta virtù si sia
per più secoli mantenuta in quella città; e che dipoi ne sia nato quello
imperio al quale quella republica aggiunse. E volendo discorrere prima il
nascimento suo, dico che tutte le cittadi sono edificate o dagli uomini natii
del luogo dove le si edificano o dai forestieri. Il primo caso occorre quando
agli abitatori dispersi in molte e piccole parti non pare vivere securi, non
potendo ciascuna per sé, e per il sito e per il piccolo numero, resistere
all'impeto di chi le assaltasse; e ad unirsi per loro difensione, venendo il
nimico, non sono a tempo; o quando fussono, converrebbe loro lasciare
abbandonati molti de' loro ridotti; e così verrebbero ad essere subita preda
dei loro inimici: talmente che, per fuggire questi pericoli, mossi o da loro
medesimi, o da alcuno che sia infra loro di maggiore autorità, si ristringono
ad abitare insieme in luogo eletto da loro, più commodo a vivere e più facile a
difendere.
Di
queste, infra molte altre, sono state Atene e Vinegia. La prima, sotto
l'autorità di Teseo, fu per simili cagioni dagli abitatori dispersi edificata;
l'altra, sendosi molti popoli ridotti in certe isolette che erano nella punta
del mare Adriatico, per fuggire quelle guerre che ogni dì, per lo avvenimento
di nuovi barbari, dopo la declinazione dello Imperio romano, nascevano in
Italia, cominciarono infra loro, sanza altro principe particulare che gli
ordinasse, a vivere sotto quelle leggi che parevono loro più atte a mantenerli.
Il che successe loro felicemente per il lungo ozio che il sito dette loro, non
avendo quel mare uscita, e non avendo quelli popoli, che affliggevano Italia,
navigli da poterli infestare: talché ogni piccolo principio li poté fare venire
a quella grandezza nella quale sono.
Il
secondo caso, quando da genti forestiere è edificata una città, nasce o da
uomini liberi o che dependono da altri: come sono le colonie mandate o da una
republica o da uno principe per isgravare le loro terre d'abitatori, o per
difesa di quel paese che, di nuovo acquistato, vogliono sicuramente e sanza
ispesa mantenersi; delle quali città il Popolo romano ne edificò assai, e per
tutto l'imperio suo: ovvero le sono edificate da uno principe, non per
abitarvi, ma per sua gloria; come la città di Alessandria, da Alessandro. E per
non avere queste cittadi la loro origine libera, rade volte occorre che le
facciano processi grandi, e possinsi intra i capi dei regni numerare. Simile a
queste fu l'edificazione di Firenze, perché (o edificata da' soldati di Silla,
o, a caso, dagli abitatori dei monti di Fiesole, i quali, confidatisi in quella
lunga pace che sotto Ottaviano nacque nel mondo, si ridussero ad abitare nel
piano sopra Arno) si edificò sotto l'imperio romano: né poté, ne' principii
suoi, fare altri augumenti che quelli che per cortesia del principe gli erano
concessi. Sono liberi gli edificatori delle cittadi, quando alcuni popoli, o
sotto uno principe o da per sé, sono constretti, o per morbo o per fame o per
guerra, a abbandonare il paese patrio, e crearsi nuova sede: questi tali, o
egli abitano le cittadi che e' truovono ne' paesi ch'egli acquistano, come fe'
Moises; o e' ne edificano di nuovo, come fe' Enea. In questo caso è dove si
conosce la virtù dello edificatore, e la fortuna dello edificato: la quale è
più o meno maravigliosa, secondo che più o meno è virtuoso colui che ne è stato
principio. La virtù del quale si conosce in duo modi: il primo è nella elezione
del sito; l'altro nella ordinazione delle leggi. E perché gli uomini operono o
per necessità o per elezione; e perché si vede quivi essere maggior virtù dove
la elezione ha meno autorità; è da considerare se sarebbe meglio eleggere, per
la edificazione delle cittadi, luoghi sterili, acciocché gli uomini, constretti
a industriarsi, meno occupati dall'ozio, vivessono più uniti avendo, per la
povertà del sito, minore cagione di discordie; come interviene in Raugia, e in
molte altre cittadi in simili luoghi edificate: la quale elezione sarebbe sanza
dubbio più savia e più utile, quando gli uomini fossero contenti a vivere del
loro, e non volessono cercare di comandare altrui. Pertanto, non potendo gli
uomini assicurarsi se non con la potenza, è necessario fuggire questa sterilità
del paese, e porsi in luoghi fertilissimi; dove, potendo per la ubertà del sito
ampliare, possa e difendersi da chi l'assaltasse e opprimere qualunque alla
grandezza sua si opponesse. E quanto a quell'ozio che le arrecasse il sito, si
debbe ordinare che a quelle necessità le leggi la costringhino, che il sito non
la costrignesse, ed imitare quelli che sono stati savi, ed hanno abitato in
paesi amenissimi e fertilissimi, e atti a produrre uomini oziosi ed inabili a
ogni virtuoso esercizio, che, per ovviare a quelli danni i quali l'amenità del
paese, mediante l'ozio, arebbe causati, hanno posto una necessità di esercizio
a quelli che avevano a essere soldati; di qualità che, per tale ordine, vi sono
diventati migliori soldati che in quelli paesi i quali naturalmente sono stati
aspri e sterili. Intra i quali fu il regno degli Egizi, che, non ostante che il
paese sia amenissimo, tanto potette quella necessità, ordinata dalle leggi, che
ne nacque uomini eccellentissimi; e se li nomi loro non fussono dalla antichità
spenti, si vedrebbe come ei meriterebbero più laude che Alessandro Magno, e
molti altri de' quali ancora è la memoria fresca. E chi avesse considerato il
regno del Soldano, e l'ordine de' Mammalucchi e di quella loro milizia, avanti
che da Salì, Gran Turco, fusse stata spenta, arebbe veduto in quello molti
esercizi circa i soldati, ed averebbe, in fatto, conosciuto quanto essi
temevano quell'ozio a che la benignità del paese li poteva condurre, se non vi
avessono con leggi fortissime ovviato.
Dico,
adunque, essere più prudente elezione porsi in luogo fertile, quando quella
fertilità con le leggi infra i debiti termini si ristringa. Ad Alessandro
Magno, volendo edificare una città per sua gloria, venne Dinocrate architetto,
e gli mostrò come e' la poteva edificare sopra il monte Atho, il quale luogo,
oltre allo essere forte, potrebbe ridursi in modo che a quella città si darebbe
forma umana; il che sarebbe cosa maravigliosa e rara, e degna della sua
grandezza. E domandandolo Alessandro di quello che quelli abitatori
viverebbero, rispose non ci avere pensato: di che quello si rise, e, lasciato
stare quel monte, edificò Alessandria, dove gli abitatori avessero a stare
volentieri per la grassezza del paese, e per la commodità del mare e del Nilo.
Chi esaminerà, adunque, la edificazione di Roma, se si prenderà Enea per suo
primo progenitore, sarà di quelle cittadi edificate da' forestieri; se Romolo
di quelle edificate dagli uomini natii del luogo; ed in qualunque modo, la
vedrà avere principio libero, sanza dependere da alcuno: vedrà ancora, come di
sotto si dirà, a quante necessitadi le leggi fatte da Romolo, Numa, e gli
altri, la costringessono; talmente che la fertilità del sito, la commodità del
mare, le spesse vittorie, la grandezza dello imperio, non la potero per molti
secoli corrompere, e la mantennero piena di tanta virtù, di quanta mai fusse
alcun'altra città o republica ornata. E perché le cose operate da lei, e che
sono da Tito Livio celebrate, sono seguite o per publico o per privato
consiglio, o dentro o fuori della cittade; io comincerò a discorrere sopra
quelle cose occorse dentro e per consiglio publico, le quali degne di maggiore
annotazione giudicherò, aggiungendovi tutto quello che da loro dependessi; con
i quali Discorsi questo primo libro, ovvero questa prima parte, si terminerà.
2
Di
quante spezie sono le republiche, e di quale fu la republica romana.
Io
voglio porre da parte il ragionare di quelle cittadi che hanno avuto il loro
principio sottoposto a altrui; e parlerò di quelle che hanno avuto il principio
lontano da ogni servitù esterna, ma si sono subito governate per loro arbitrio,
o come republiche o come principato: le quali hanno avuto, come diversi
principii, diverse leggi ed ordini. Perché ad alcune, o nel principio d'esse, o
dopo non molto tempo, sono state date da uno solo le leggi, e ad un tratto;
come quelle che furono date da Licurgo agli Spartani: alcune le hanno avute a
caso, ed in più volte e secondo li accidenti, come ebbe Roma. Talché, felice si
può chiamare quella republica, la quale sortisce uno uomo sì prudente, che gli
dia leggi ordinate in modo che, sanza avere bisogno di ricorreggerle, possa
vivere sicuramente sotto quelle. E si vede che Sparta le osservò più che
ottocento anni sanza corromperle, o sanza alcuno tumulto pericoloso: e, pel
contrario, tiene qualche grado d'infelicità quella città, che, non si sendo
abbattuta a uno ordinatore prudente, è necessitata da sé medesima riordinarsi.
E di queste ancora è più infelice quella che è più discosto dall'ordine; e
quella ne è più discosto che co' suoi ordini è al tutto fuori del diritto
cammino, che la possa condurre al perfetto e vero fine. Perché quelle che sono
in questo grado, è quasi impossibile che per qualunque accidente si rassettino:
quelle altre che, se le non hanno l'ordine perfetto, hanno preso il principio
buono, e atto a diventare migliore, possono per la occorrenzia degli accidenti
diventare perfette. Ma fia bene vero questo, che mai si ordineranno sanza
pericolo; perché gli assai uomini non si accordano mai ad una legge nuova che
riguardi uno nuovo ordine nella città se non è mostro loro da una necessità che
bisogni farlo; e non potendo venire questa necessità sanza pericolo, è facil cosa
che quella republica rovini, avanti che la si sia condotta a una perfezione
d'ordine. Di che ne fa fede appieno la republica di Firenze, la quale fu dallo
accidente d'Arezzo, nel dua, riordinata; e da quel di Prato, nel dodici,
disordinata.
Volendo,
adunque, discorrere quali furono li ordini della città di Roma, e quali
accidenti alla sua perfezione la condussero; dico come alcuni che hanno scritto
delle republiche dicono essere in quelle uno de' tre stati, chiamati da loro
Principato, Ottimati, e Popolare, e come coloro che ordinano una città, debbono
volgersi ad uno di questi, secondo pare loro più a proposito. Alcuni altri, e,
secondo la opinione di molti, più savi, hanno opinione che siano di sei ragioni
governi: delli quali tre ne siano pessimi tre altri siano buoni in loro
medesimi, ma sì facili a corrompersi, che vengono ancora essi a essere
perniziosi. Quelli che sono buoni, sono e' soprascritti tre: quelli che sono
rei, sono tre altri, i quali da questi tre dipendano; e ciascuno d'essi è in
modo simile a quello che gli è propinquo, che facilmente saltano dall'uno
all'altro: perché il Principato facilmente diventa tirannico; gli Ottimati con
facilità diventano stato di pochi; il Popolare sanza difficultà in licenzioso
si converte. Talmente che, se uno ordinatore di republica ordina in una città
uno di quelli tre stati, ve lo ordina per poco tempo; perché nessuno rimedio
può farvi, a fare che non sdruccioli nel suo contrario, per la similitudine che
ha in questo caso la virtute ed il vizio.
Nacquono
queste variazioni de' governi a caso intra gli uomini: perché nel principio del
mondo, sendo gli abitatori radi, vissono un tempo dispersi a similitudine delle
bestie; dipoi, moltiplicando la generazione, si ragunarono insieme, e, per
potersi meglio difendere, cominciarono a riguardare infra loro quello che fusse
più robusto e di maggiore cuore, e fecionlo come capo, e lo ubedivano. Da
questo nacque la cognizione delle cose oneste e buone, differenti dalle
perniziose e ree: perché, veggendo che se uno noceva al suo benificatore, ne
veniva odio e compassione intra gli uomini, biasimando gl'ingrati ed onorando
quelli che fussero grati, e pensando ancora che quelle medesime ingiurie
potevano essere fatte a loro; per fuggire simile male, si riducevano a fare leggi,
ordinare punizioni a chi contrafacessi: donde venne la cognizione della
giustizia. La quale cosa faceva che, avendo dipoi a eleggere uno principe, non
andavano dietro al più gagliardo, ma a quello che fusse più prudente e più
giusto. Ma come dipoi si cominciò a fare il principe per successione, e non per
elezione, subito cominciarono li eredi a degenerare dai loro antichi; e,
lasciando l'opere virtuose, pensavano che i principi non avessero a fare altro
che superare gli altri di sontuosità e di lascivia e d'ogni altra qualità di
licenza: in modo che, cominciando il principe a essere odiato, e per tale odio
a temere, e passando tosto dal timore all'offese, ne nasceva presto una
tirannide. Da questo nacquero, appresso, i principii delle rovine, e delle conspirazioni
e congiure contro a' principi; non fatte da coloro che fussono o timidi o
deboli, ma da coloro che, per generosità, grandezza d'animo, ricchezza e
nobilità, avanzavano gli altri; i quali non potevano sopportare la inonesta
vita di quel principe. La moltitudine, adunque, seguendo l'autorità di questi
potenti, s'armava contro al principe, e, quello spento, ubbidiva loro come a
suoi liberatori. E quelli, avendo in odio il nome d'uno solo capo,
constituivano di loro medesimi uno governo; e, nel principio, avendo rispetto
alla passata tirannide, si governavono secondo le leggi ordinate da loro,
posponendo ogni loro commodo alla commune utilità; e le cose private e le
publiche con somma diligenzia governavano e conservavano. Venuta dipoi questa
amministrazione ai loro figliuoli, i quali non conoscendo la variazione della
fortuna, non avendo mai provato il male, e non volendo stare contenti alla
civile equalità, ma rivoltisi alla avarizia, alla ambizione, alla usurpazione
delle donne, feciono che d'uno governo d'ottimati diventassi uno governo di
pochi, sanza avere rispetto ad alcuna civilità, talché, in breve tempo,
intervenne loro come al tiranno; perché, infastidita da' loro governi, la
moltitudine si fe' ministra di qualunque disegnassi in alcun modo offendere
quelli governatori; e così si levò presto alcuno che, con l'aiuto della
moltitudine, li spense. Ed essendo ancora fresca la memoria del principe e
delle ingiurie ricevute da quello, avendo disfatto lo stato de' pochi e non
volendo rifare quel del principe, si volsero allo stato popolare; e quello
ordinarono in modo, che né i pochi potenti, né uno principe, vi avesse autorità
alcuna. E perché tutti gli stati nel principio hanno qualche riverenzia, si
mantenne questo stato popolare un poco, ma non molto, massime spenta che fu
quella generazione che l'aveva ordinato; perché subito si venne alla licenza,
dove non si temevano né gli uomini privati né i publici; di qualità che,
vivendo ciascuno a suo modo, si facevano ogni dì mille ingiurie: talché, costretti
per necessità, o per suggestione d'alcuno buono uomo, o per fuggire tale
licenza, si ritorna di nuovo al principato; e da quello, di grado in grado, si
riviene verso la licenza, ne' modi e per le cagioni dette. E questo è il
cerchio nel quale girando tutte le republiche si sono governate e si governano:
ma rade volte ritornano ne' governi medesimi; perché quasi nessuna republica
può essere di tanta vita, che possa passare molte volte per queste mutazioni, e
rimanere in piede. Ma bene interviene che, nel travagliare, una republica,
mancandole sempre consiglio e forze, diventa suddita d'uno stato propinquo, che
sia meglio ordinato di lei: ma, posto che questo non fusse, sarebbe atta una
republica a rigirarsi infinito tempo in questi governi.
Dico,
adunque, che tutti i detti modi sono pestiferi, per la brevità della vita che è
ne' tre buoni, e per la malignità che è ne' tre rei. Talché, avendo quelli che
prudentemente ordinano leggi, conosciuto questo difetto, fuggendo ciascuno di
questi modi per sé stesso, ne elessero uno che participasse di tutti,
giudicandolo più fermo e più stabile; perché l'uno guarda l'altro, sendo in una
medesima città il Principato, gli Ottimati, e il Governo Popolare.
Intra
quelli che hanno per simili constituzioni meritato più laude, è Licurgo; il
quale ordinò in modo le sue leggi in Sparta, che, dando le parti sue ai Re,
agli Ottimati e al Popolo, fece uno stato che durò più che ottocento anni, con
somma laude sua e quiete di quella città. Al contrario intervenne a Solone, il
quale ordinò le leggi in Atene; che, per ordinarvi solo lo stato popolare, lo
fece di sì breve vita, che, avanti morisse, vi vide nata la tirannide di
Pisistrato; e benché, dipoi anni quaranta, ne fussero gli eredi suoi cacciati,
e ritornasse Atene in libertà, perché la riprese lo stato popolare, secondo gli
ordini di Solone, non lo tenne più che cento anni, ancora che per mantenerlo
facessi molte constituzioni, per le quali si reprimeva la insolenzia de' grandi
e la licenza dell'universale, le quali non furono da Solone considerate:
nientedimeno, perché la non le mescolò con la potenza del Principato e con
quella degli Ottimati, visse Atene, a rispetto di Sparta, brevissimo tempo.
Ma
vegnamo a Roma; la quale, nonostante che non avesse uno Licurgo che la ordinasse
in modo, nel principio, che la potesse vivere lungo tempo libera, nondimeno
furo tanti gli accidenti che in quella nacquero, per la disunione che era intra
la Plebe ed il Senato, che quello che non aveva fatto uno ordinatore, lo fece
il caso. Perché, se Roma non sortì la prima fortuna, sortì la seconda; perché i
primi ordini suoi, se furono difettivi, nondimeno non deviarono dalla diritta
via che li potesse condurre alla perfezione. Perché Romolo e tutti gli altri re
fecero molte e buone leggi, conformi ancora al vivere libero: ma perché il fine
loro fu fondare un regno e non una republica, quando quella città rimase
libera, vi mancavano molte cose che era necessario ordinare in favore della
libertà, le quali non erano state da quelli re ordinate. E avvengaché quelli
suoi re perdessono l'imperio, per le cagioni e modi discorsi; nondimeno quelli
che li cacciarono, ordinandovi subito due Consoli che stessono nel luogo de'
Re, vennero a cacciare di Roma il nome, e non la potestà regia: talché, essendo
in quella republica i Consoli e il Senato, veniva solo a essere mista di due
qualità delle tre soprascritte, cioè di Principato e di Ottimati. Restavale
solo a dare luogo al governo popolare: onde, sendo diventata la Nobilità romana
insolente per le cagioni che di sotto si diranno si levò il Popolo contro di
quella; talché, per non perdere il tutto, fu costretta concedere al Popolo la
sua parte e, dall'altra parte, il Senato e i Consoli restassono con tanta
autorità, che potessono tenere in quella republica il grado loro. E così nacque
la creazione de' Tribuni della plebe, dopo la quale creazione venne a essere
più stabilito lo stato di quella republica, avendovi tutte le tre qualità di
governo la parte sua. E tanto le fu favorevole la fortuna, che, benché si passasse
dal governo de' Re e delli Ottimati al Popolo, per quelli medesimi gradi e per
quelle medesime cagioni che di sopra si sono discorse, nondimeno non si tolse
mai, per dare autorità agli Ottimati, tutta l'autorità alle qualità regie; ne
si diminuì l'autorità in tutto agli Ottimati, per darla al Popolo; ma rimanendo
mista, fece una republica perfetta: alla quale perfezione venne per la
disunione della Plebe e del Senato, come nei dua prossimi seguenti capitoli
largamente si dimosterrà.
3
Quali
accidenti facessono creare in Roma i Tribuni della Plebe, il che fece la
republica più perfetta.
Come
dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile, e come ne è piena di
esempli ogni istoria, è necessario a chi dispone una republica, ed ordina leggi
in quella, presupporre tutti gli uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la
malignità dello animo loro, qualunque volta ne abbiano libera occasione; e
quando alcuna malignità sta occulta un tempo, procede da una occulta cagione,
che, per non si essere veduta esperienza del contrario, non si conosce; ma la
fa poi scoprire il tempo, il quale dicono essere padre d'ogni verità.
Pareva
che fusse in Roma intra la Plebe ed il Senato, cacciati i Tarquini, una unione
grandissima; e che i Nobili avessono diposto quella loro superbia, e fossero
diventati d'animo popolare, e sopportabili da qualunque ancora che infimo.
Stette nascoso questo inganno, né se ne vide la cagione, infino che i Tarquinii
vissero; dei quali temendo la Nobilità, ed avendo paura che la Plebe male
trattata non si accostasse loro, si portava umanamente con quella: ma, come
prima ei furono morti i Tarquinii, e che ai Nobili fu la paura fuggita,
cominciarono a sputare contro alla Plebe quel veleno che si avevano tenuto nel
petto, ed in tutti i modi che potevano la offendevano. La quale cosa fa
testimonianza a quello che di sopra ho detto che gli uomini non operono mai
nulla bene, se non per necessità; ma, dove la elezione abonda, e che vi si può
usare licenza, si riempie subito ogni cosa di confusione e di disordine. Però
si dice che la fame e la povertà fa gli uomini industriosi, e le leggi gli
fanno buoni. E dove una cosa per sé medesima sanza la legge opera bene, non è
necessaria la legge; ma quando quella buona consuetudine manca, è subito la legge
necessaria. Però mancati i Tarquinii, che con la paura di loro tenevano la
Nobilità a freno, convenne pensare a uno nuovo ordine che facesse quel medesimo
effetto che facevano i Tarquinii quando erano vivi. E però, dopo molte
confusioni, romori e pericoli di scandoli, che nacquero intra la Plebe e la
Nobilità, si venne, per sicurtà della Plebe, alla creazione de' Tribuni; e
quelli ordinarono con tante preminenzie e tanta riputazione, che poterono
essere sempre di poi mezzi intra la Plebe e il Senato, e ovviare alla
insolenzia de' Nobili.
4
Che
la disunione della Plebe e del Senato romano fece libera e potente quella
republica.
Io
non voglio mancare di discorrere sopra questi tumulti che furono in Roma dalla
morte de' Tarquinii alla creazione de' Tribuni; e di poi alcune cose contro la
opinione di molti che dicono, Roma essere stata una republica tumultuaria, e
piena di tanta confusione che, se la buona fortuna e la virtù militare non
avesse sopperito a' loro difetti, sarebbe stata inferiore a ogni altra
republica.
Io
non posso negare che la fortuna e la milizia non fossero cagioni dell'imperio
romano; ma e' mi pare bene, che costoro non si avegghino, che, dove è buona
milizia, conviene che sia buono ordine, e rade volte anco occorre che non vi
sia buona fortuna. Ma vegnamo agli altri particulari di quella città. Io dico
che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare che
biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma; e che
considerino più a' romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano, che a'
buoni effetti che quelli partorivano; e che e' non considerino come e' sono in
ogni republica due umori diversi, quello del popolo, e quello de' grandi; e
come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla
disunione loro, come facilmente si può vedere essere seguito in Roma; perché
da' Tarquinii ai Gracchi, che furano più di trecento anni, i tumulti di Roma
rade volte partorivano esilio e radissime sangue. Né si possano per tanto,
giudicare questi tomulti nocivi, né una republica divisa, che in tanto tempo
per le sue differenzie non mandò in esilio più che otto o dieci cittadini, e ne
ammazzò pochissimi, e non molti ancora ne condannò in danari. Né si può
chiamare in alcun modo con ragione una republica inordinata, dove siano tanti
esempli di virtù; perché li buoni esempli nascano dalla buona educazione, la
buona educazione, dalle buone leggi; e le buone leggi, da quelli tumulti che
molti inconsideratamente dannano: perché, chi esaminerà bene il fine d'essi,
non troverrà ch'egli abbiano partorito alcuno esilio o violenza in disfavore
del commune bene, ma leggi e ordini in beneficio della publica libertà. E se
alcuno dicessi: i modi erano straordinarii, e quasi efferati, vedere il popolo
insieme gridare contro al Senato, il Senato contro al Popolo, correre
tumultuariamente per le strade, serrare le botteghe, partirsi tutta la plebe di
Roma, le quali cose tutte spaventano, non che altro, chi le legge; dico come
ogni città debbe avere i suoi modi con i quali il popolo possa sfogare
l'ambizione sua, e massime quelle città che nelle cose importanti si vogliono
valere del popolo: intra le quali, la città di Roma aveva questo modo, che,
quando il popolo voleva ottenere una legge, o e' faceva alcuna delle predette
cose, o e' non voleva dare il nome per andare alla guerra, tanto che a placarlo
bisognava in qualche parte sodisfarli. E i desiderii de' popoli liberi rade
volte sono perniziosi alla libertà, perché e' nascono, o da essere oppressi, o
da suspizione di avere ad essere oppressi. E quando queste opinioni fossero
false e' vi è il rimedio delle concioni, che surga qualche uomo da bene, che,
orando, dimostri loro come ei s'ingannano: e li popoli, come dice Tullio,
benché siano ignoranti, sono capaci della verità, e facilmente cedano, quando
da uomo degno di fede è detto loro il vero.
Debbesi,
adunque, più parcamente biasimare il governo romano; e considerare che tanti
buoni effetti, quanti uscivano di quella republica, non erano causati se non da
ottime cagioni. E se i tumulti furano cagione della creazione de' Tribuni,
meritano somma laude, perché, oltre al dare la parte sua all'amministrazione
popolare, furano constituiti per guardia della libertà romana, come nel
seguente capitolo si mosterrà.
5
Dove
più sicuramente si ponga la guardia della libertà, o nel Popolo o ne' Grandi; e
quali hanno maggiore cagione di tumultuare, o chi vuole acquistare o chi vuole
mantenere.
Quelli
che prudentemente hanno constituita una republica, in tra le più necessarie
cose ordinate da loro è stato constituire una guardia alla libertà: e, secondo
che questa è bene collocata, dura più o meno quel vivere libero. E perché in
ogni republica sono uomini grandi e popolari, si è dubitato nelle mani di quali
sia meglio collocata detta guardia. Ed appresso a' Lacedemonii, e, ne' nostri
tempi, appresso de' Viniziani, la è stata messa nelle mani de' Nobili; ma
appresso de' Romani fu messa nelle mani della Plebe.
Pertanto,
è necessario esaminare quale di queste republiche avesse migliore elezione. E
se si andasse dietro alle ragioni ci è che dire da ogni parte; ma se si
esaminasse il fine loro, si piglierebbe la parte de' Nobili, per avere avuta la
libertà di Sparta e di Vinegia più lunga vita che quella di Roma. E venendo
alle ragioni, dico, pigliando prima la parte de' Romani, come e' si debbe
mettere in guardia coloro d'una cosa, che hanno meno appetito di usurparla. E
sanza dubbio, se si considerrà il fine de' nobili e degli ignobili, si vedrà in
quelli desiderio grande di dominare, ed in questi solo desiderio di non essere
dominati; e, per conseguente, maggiore volontà di vivere liberi, potendo meno
sperare di usurparla che non possono i grandi: talché essendo i popolari
preposti a guardia d'una libertà, è ragionevole ne abbiano più cura; e non la
potendo occupare loro, non permettino che altri la occupi. Dall'altra parte,
chi difende l'ordine spartano e veneto, dice che coloro che mettono la guardia
in mano di potenti fanno due opere buone: l'una, che ei satisfanno più
all'ambizione loro, ed avendo più parte nella republica, per avere questo
bastone in mano, hanno cagione di contentarsi più; l'altra, che lievono una
qualità di autorità dagli animi inquieti della plebe, che è cagione d'infinite
dissensioni e scandoli in una republica, e atta a ridurre la Nobilità a qualche
disperazione, che col tempo faccia cattivi effetti. E ne dànno per esemplo la
medesima Roma, che, per avere i Tribuni della plebe questa autorità nelle mani,
non bastò loro avere un Consolo plebeio, che gli vollono avere ambedue. Da
questo, ei vollono la Censura, il Pretore, e tutti gli altri gradi dell'imperio
della città: né bastò loro questo, ché, menati dal medesimo furore,
cominciorono poi, col tempo, a adorare quelli uomini che vedevano atti a
battere la Nobilità; donde nacque la potenza di Mario, e la rovina di Roma. E
veramente, chi discorressi bene l'una cosa e l'altra, potrebbe stare dubbio,
quale da lui fusse eletto per guardia di tale libertà, non sappiendo quale
umore di uomini sia più nocivo in una republica, o quello che desidera
mantenere l'onore già acquistato o quel che desidera acquistare quello che non
ha. Ed in fine, chi sottilmente esaminerà tutto, ne farà questa conclusione: o
tu ragioni d'una republica che voglia fare uno imperio, come Roma; o d'una che
le basti mantenersi. Nel primo caso, gli è necessario fare ogni cosa come Roma;
nel secondo, può imitare Vinegia e Sparta, per quelle cagioni e come nel
seguente capitolo si dirà.
Ma,
per tornare a discorrere quali uomini siano in una republica più nocivi, o
quelli che desiderano d'acquistare, o quelli che temono di non perdere
l'acquistato; dico che, sendo creato Marco Menenio Dittatore, e Marco Fulvio
Maestro de' cavagli, tutti a due plebei, per ricercare certe congiure che si
erano fatte in Capova contro a Roma, fu data ancora loro autorità dal popolo di
potere ricercare chi in Roma, per ambizione e modi straordinari, s'ingegnasse
di venire al consolato, ed agli altri onori della città. E parendo alla
Nobilità, che tale autorità fusse data al Dittatore contro a lei, sparsono per
Roma, che non i nobili erano quelli che cercavano gli onori per ambizione e
modi straordinari ma gl'ignobili, i quali, non confidatisi nel sangue e nella
virtù loro, cercavano, per vie straordinarie, venire a quelli gradi, e
particularmente accusavano il Dittatore. E tanto fu potente questa accusa che
Menenio, fatta una concione e dolutosi delle calunnie dategli da' Nobili,
depose la dittatura, e sottomessesi al giudizio che di lui fusse fatto dal
Popolo, e dipoi, agitata la causa sua, ne fu assoluto: dove si disputò assai,
quale sia più ambizioso o quel che vuole mantenere o quel che vuole acquistare;
perché facilmente l'uno e l'altro appetito può essere cagione di tumulti
grandissimi. Pur nondimeno, il più delle volte sono causati da chi possiede,
perché la paura del perdere genera in loro le medesime voglie che sono in
quelli che desiderano acquistare; perché non pare agli uomini possedere
sicuramente quello che l'uomo ha, se non si acquista di nuovo dell'altro. E di
più vi è, che, possedendo molto, possono con maggiore potenza e maggiore moto
fare alterazione. Ed ancora vi è di più, che gli loro scorretti e ambiziosi
portamenti accendano, ne' petti di chi non possiede, voglia di possedere, o per
vendicarsi contro di loro spogliandoli, o per potere ancora loro entrare in
quelle ricchezze e in quelli onori che veggono essere male usati dagli altri.
6
Se
in Roma si poteva ordinare uno stato che togliesse via le inimicizie intra il
Popolo ed il Senato.
Noi
abbiamo discorso, di sopra, gli effetti che facevano le controversie intra il
Popolo ed il Senato. Ora, sendo quelle seguitate infino al tempo de' Gracchi,
dove furono cagione della rovina del vivere libero, potrebbe alcuno desiderare
che Roma avesse fatti gli effetti grandi che la fece, sanza che in quella
fussono tali inimicizie. Però mi è parso cosa degna di considerazione, vedere
se in Roma si poteva ordinare uno stato che togliesse via dette controversie.
Ed a volere esaminare questo, è necessario ricorrere a quelle republiche le
quali sanza tante inimicizie e tumulti sono state lungamente libere, e vedere
quale stato era in loro, e se si poteva introdurre in Roma. In esemplo tra gli
antichi ci è Sparta, tra i moderni Vinegia, state da me di sopra nominate.
Sparta fece uno Re, con uno piccolo Senato, che la governasse; Vinegia non ha
diviso il governo con i nomi, ma, sotto una appellagione, tutti quelli che
possono avere amministrazione si chiamano Gentiluomini. Il quale modo lo dette
il caso, più che la prudenza di chi dette loro le leggi: perché, sendosi
ridotti in su quegli scogli dove è ora quella città, per le cagioni dette di
sopra, molti abitatori, come furano cresciuti in tanto numero, che, a volere
vivere insieme, bisognasse loro far leggi, ordinarono una forma di governo; e
convenendo spesso insieme ne' consigli, a diliberare della città, quando parve
loro essere tanti che fossero a sufficienza a uno vivere politico, chiusero la
via a tutti quelli altri che vi venissono ad abitare di nuovo, di potere
convenire ne' loro governi; e, col tempo, trovandosi in quello luogo assai
abitatori fuori del governo, per dare riputazione a quelli che governavano, gli
chiamarono Gentiluomini, e gli altri Popolani. Potette questo modo nascere e
mantenersi senza tumulto, perché, quando e' nacque, qualunque allora abitava in
Vinegia fu fatto del governo, di modo che nessuno si poteva dolere; quelli che
dipoi vi vennero ad abitare, trovando lo stato fermo e terminato, non avevano
cagione né commodità di fare tumulto. La cagione non vi era, perché non era
stato loro tolto cosa alcuna; la commodità non vi era, perché chi reggeva li
teneva in freno, e non gli adoperava in cose dove e' potessono pigliare
autorità. Oltre a di questo, quelli che dipoi vennono ad abitare Vinegia non
sono stati molti, e di tanto numero che vi sia disproporzione da chi gli
governa a loro che sono governati, perché il numero de' Gentiluomini o egli è
equale al loro, o egli è superiore: sicché, per queste cagione, Vinegia potette
ordinare quello stato, e mantenerlo unito.
Sparta,
come ho detto, era governata da uno Re e da uno stretto Senato. Potette
mantenersi così lungo tempo, perché, essendo in Sparta pochi abitatori, ed
avendo tolta la via a chi vi venisse ad abitare, ed avendo preso le leggi di
Licurgo con riputazione (le quali osservando, levavano via tutte le cagioni de'
tumulti) poterono vivere uniti lungo tempo. Perché Licurgo con le sue leggi
fece in Sparta più equalità di sustanze, e meno equalità di grado; perché quivi
era una equale povertà, ed i plebei erano manco ambiziosi, perché i gradi della
città si distendevano in pochi cittadini ed erano tenuti discosto dalla plebe,
né gli nobili col trattargli male dettono mai loro desiderio di avergli. Questo
nacque dai Re spartani, i quali, essendo collocati in quel principato e posti
in mezzo di quella Nobilità, non avevano il maggiore rimedio a tenere ferma la
loro dignità, che tenere la Plebe difesa da ogni ingiuria: il che faceva che la
Plebe non temeva e non desiderava imperio; e non avendo imperio né temendo, era
levata via la gara che la potesse avere con la Nobilità, e la cagione de'
tumulti; e poterono vivere uniti lungo tempo. Ma due cose principali causarono
questa unione: l'una essere pochi gli abitatori di Sparta, e per questo
poterono essere governati da pochi; l'altra, che, non accettando forestieri
nella loro republica, non avevano occasione né di corrompersi né di crescere in
tanto che la fusse insopportabile a quelli pochi che la governavano.
Considerando
adunque tutte queste cose, si vede come a' legislatori di Roma era necessario
fare una delle due cose a volere che Roma stesse quieta come le sopradette
republiche: o non adoperare la plebe in guerra, come i Viniziani; o non aprire
la via a' forestieri, come gli Spartani. E loro feciono l'una e l'altra; il che
dette alla plebe forze ed augumento, ed infinite occasioni di tumultuare. Ma
venendo lo stato romano a essere più quieto, ne seguiva questo inconveniente,
ch'egli era anche più debile, perché e' gli si troncava la via di potere venire
a quella grandezza dove ei pervenne: in modo che, volendo Roma levare le
cagioni de' tumulti, levava ancora le cagioni dello ampliare. Ed in tutte le
cose umane si vede questo, chi le esaminerà bene: che non si può mai cancellare
uno inconveniente, che non ne surga un altro. Per tanto, se tu vuoi fare uno
popolo numeroso ed armato per poter fare un grande imperio, lo fai di qualità
che tu non lo puoi poi maneggiare a tuo modo: se tu lo mantieni o piccolo o
disarmato per poter maneggiarlo, se tu acquisti dominio, non lo puoi tenere, o
ei diventa sì vile che tu sei preda di qualunque ti assalta. E però, in ogni
nostra diliberazione si debbe considerare dove sono meno inconvenienti, e
pigliare quello per migliore partito: perché tutto netto, tutto sanza sospetto
non si truova mai. Poteva dunque Roma, a similitudine di Sparta, fare un
principe a vita, fare uno Senato piccolo; ma non poteva, come lei, non crescere
il numero de' cittadini suoi, volendo fare un grande imperio: il che faceva che
il Re a vita ed il piccolo numero del Senato, quanto alla unione, gli sarebbe
giovato poco.
Se
alcuno volesse, per tanto, ordinare una republica di nuovo, arebbe a esaminare
se volesse che ampliasse, come Roma, di dominio e di potenza, ovvero che la
stesse dentro a brevi termini. Nel primo caso, è necessario ordinarla come
Roma, e dare luogo a' tumulti e alle dissensioni universali, il meglio che si
può; perché, sanza gran numero di uomini, e bene armati, mai una republica
potrà crescere, o, se la crescerà, mantenersi. Nel secondo caso, la puoi
ordinare come Sparta e come Vinegia: ma perché l'ampliare è il veleno di simili
republiche, debbe, in tutti quelli modi che si può, chi le ordina proibire loro
lo acquistare, perché tali acquisti fondati sopra una republica debole, sono al
tutto la rovina sua. Come intervenne a Sparta ed a Vinegia: delle quali la
prima, avendosi sottomessa quasi tutta la Grecia, mostrò in su uno minimo
accidente il debile fondamento suo; perché, seguita la ribellione di Tebe,
causata da Pelopida, ribellandosi l'altre cittadi, rovinò al tutto quella
republica.
Similmente
Vinegia, avendo occupato gran parte d'Italia, e la maggiore parte non con
guerra ma con danari e con astuzia, come la ebbe a fare pruova delle forze sue,
perdette in una giornata ogni cosa. Crederrei bene, che a fare una republica
che durasse lungo tempo, fusse il modo, ordinarla dentro come Sparta o come
Vinegia; porla in luogo forte, e di tale potenza che nessuno credesse poterla
subito opprimere; e, dall'altra parte, non fusse sì grande, che la fusse
formidabile a' vicini: e così potrebbe lungamente godersi il suo stato. Perché,
per due cagioni si fa guerra a una republica: l'una, per diventarne signore;
l'altra, per paura ch'ella non ti occupi.
Queste
due cagioni il sopraddetto modo quasi in tutto toglie via; perché, se la è
difficile a espugnarsi, come io la presuppongo, sendo bene ordinata alla
difesa, rade volte accaderà, o non mai, che uno possa fare disegno di
acquistarla. Se la si starà intra i termini suoi, e veggasi, per esperienza,
che in lei non sia ambizione, non occorrerà mai che uno per paura di sé le
faccia guerra: e tanto più sarebbe questo, se e' fussi in lei constituzione o
legge che le proibisse l'ampliare. E sanza dubbio credo, che, potendosi tenere la
cosa bilanciata in questo modo, che e' sarebbe il vero vivere politico e la
vera quiete d'una città. Ma sendo tutte le cose degli uomini in moto, e non
potendo stare salde, conviene che le salghino o che le scendino; e a molte cose
che la ragione non t'induce, t'induce la necessità: talmente che, avendo
ordinata una republica atta a mantenersi, non ampliando, e la necessità la
conducesse ad ampliare, si verrebbe a tor via i fondamenti suoi, ed a farla
rovinare più tosto. Così, dall'altra parte, quando il Cielo le fusse sì benigno
che la non avesse a fare guerra, ne nascerebbe che l'ozio la farebbe o
effeminata o divisa; le quali due cose insieme, o ciascuna per sé, sarebbono
cagione della sua rovina.
Pertanto,
non si potendo, come io credo, bilanciare questa cosa, né mantenere questa via
del mezzo a punto; bisogna, nello ordinare la republica, pensare alle parte più
onorevole; ed ordinarle in modo, che, quando pure la necessità le inducesse ad
ampliare, elle potessono, quello ch'elle avessono occupato, conservare. E, per
tornare al primo ragionamento, credo ch'e' sia necessario seguire l'ordine
romano, e non quello dell'altre republiche; perché trovare un modo, mezzo infra
l'uno e l'altro, non credo si possa, e quelle inimicizie che intra il popolo ed
il senato nascessino, tollerarle, pigliandole per uno inconveniente necessario
a pervenire alla romana grandezza. Perché, oltre all'altre ragioni allegate,
dove si dimostra l'autorità tribunizia essere stata necessaria per la guardia
della libertà, si può facilmente considerare il beneficio che fa nelle
republiche l'autorità dello accusare, la quale era, intra gli altri, commessa
a' Tribuni; come nel seguente capitolo si discorrerà.
7
Quanto
siano in una republica necessarie le accuse a mantenerla in libertade.
A
coloro che in una città sono preposti per guardia della sua libertà, non si può
dare autorità più utile e necessaria, quanto è quella di potere accusare i
cittadini al popolo, o a qualunque magistrato o consiglio, quando peccassono in
alcuna cosa contro allo stato libero. Questo ordine fa dua effetti utilissimi a
una republica. Il primo è che i cittadini, per paura di non essere accusati,
non tentano cose contro allo stato; e tentandole, sono, incontinente e sanza
rispetto, oppressi. L'altro è che si dà onde sfogare a quegli omori che
crescono nelle cittadi, in qualunque modo, contro a qualunque cittadino: e
quando questi omori non hanno onde sfogarsi ordinariamente, ricorrono a' modi
straordinari, che fanno rovinare tutta una republica. E però non è cosa che
faccia tanto stabile e ferma una republica, quanto ordinare quella in modo che
l'alterazione di quegli omori che l'agitano, abbia una via da sfogarsi ordinata
dalle leggi. Il che si può per molti esempli dimostrare, e massime per quello
che adduce Tito Livio, di Coriolano, dove dice, che, essendo irritata contro
alla Plebe la Nobilità romana, per parerle che la Plebe avessi troppa autorità,
mediante la creazione de' Tribuni che la difendevano; ed essendo Roma, come
avviene, venuta in penuria grande di vettovaglie, ed avendo il Senato mandato
per grani in Sicilia; Coriolano, inimico alla fazione popolare, consigliò come
egli era venuto il tempo da potere gastigare la Plebe, e torle quella autorità
che ella si aveva in pregiudicio della Nobilità presa; tenendola affamata, e
non gli distribuendo il frumento: la quale sentenzia sendo venuta agli orecchi
del Popolo, venne in tanta indegnazione contro a Coriolano, che allo uscire del
Senato lo arebbero tumultuariamente morto, se gli Tribuni non lo avessero citato
a comparire, a difendere la causa sua. Sopra il quale accidente, si nota quello
che di sopra si è detto, quanto sia utile e necessario che le republiche con le
leggi loro, diano onde sfogarsi all'ira che concepe la universalità contro a
uno cittadino: perché quando questi modi ordinari non vi siano, si ricorre agli
straordinari; e sanza dubbio questi fanno molto peggiori effetti che non fanno
quelli.
Perché,
se ordinariamente uno cittadino è oppresso, ancora che li fusse fatto torto, ne
séguita o poco o nessuno disordine in la republica; perché la esecuzione si fa
sanza forze private, e sanza forze forestieri, che sono quelle che rovinano il
vivere libero; ma si fa con forze ed ordini pubblici, che hanno i termini loro
particulari, né trascendono a cosa che rovini la republica. E quanto a
corroborare questa opinione con gli esempli, voglio che degli antiqui mi basti
questo di Coriolano; sopra il quale ciascuno consideri, quanto male saria
risultato alla republica romana, se tumultuariamente ei fusse stato morto:
perché ne nasceva offesa da privati a privati, la quale offesa genera paura; la
paura cerca difesa; per la difesa si procacciano partigiani; da' partigiani
nascono le parti nelle cittadi, dalle parti la rovina di quelle. Ma sendosi
governata la cosa mediante chi ne aveva autorità si vennero a tor via tutti
quelli mali che ne potevano nascere governandola con autorità privata.
Noi
avemo visto ne' nostri tempi quale novità ha fatto alla republica di Firenze
non potere la moltitudine sfogare l'animo suo ordinariamente contro a un suo
cittadino, come accadde ne' tempi che Francesco Valori era come principe della
città; il quale sendo giudicato ambizioso da molti, e uomo che volesse con la
sua audacia e animosità transcendere il vivere civile; e non essendo nella
republica via a potergli resistere se non con una setta contraria alla sua; ne
nacque che, non avendo paura quello se non di modi straordinari, si cominciò a
fare fautori che lo difendessono; dall'altra parte, quelli che lo oppugnavano
non avendo via ordinaria a reprimerlo, pensarono alle vie straordinarie:
intanto che si venne alle armi. E dove, quando per l'ordinario si fusse potuto
opporsegli, sarebbe la sua autorità spenta con suo danno solo; avendosi a
spegnere per lo straordinario, seguì con danno non solamente suo, ma di molti
altri nobili cittadini. Potrebbesi ancora allegare, in sostentamento della
soprascritta conclusione, l'accidente seguito pur in Firenze sopra Piero
Soderini, il quale al tutto seguì per non essere in quella republica alcuno
modo di accuse contro alla ambizione de' potenti cittadini. Perché lo accusare
uno potente a otto giudici in una republica, non basta: bisogna che i giudici
siano assai, perché i pochi sempre fanno a modo de' pochi. Tanto che, se tali
modi vi fussono stati, o i cittadini lo arebbero accusato, vivendo lui male; e
per tale mezzo, sanza far venire l'esercito spagnuolo, arebbono sfogato l'animo
loro; o, non vivendo male, non arebbono avuto ardire operargli contro, per
paura di non essere accusati essi: e così sarebbe da ogni parte cessato quello
appetito che fu cagione di scandolo.
Tanto
che si può conchiudere questo, che, qualunque volta si vede che le forze
estranee siano chiamate da una parte di uomini che vivono in una città, si può
credere nasca da' cattivi ordini di quella, per non essere, dentro a quel
cerchio, ordine da potere, sanza modi istraordinari, sfogare i maligni omori
che nascono negli uomini: a che si provede al tutto con ordinarvi le accuse
agli assai giudici, e dare riputazione a quelle. I quali modi furono in Roma sì
bene ordinati, che, in tante dissensioni della Plebe e del Senato, mai o il
Senato o la Plebe o alcuno particulare cittadino disegnò valersi di forze
esterne; perché, avendo il rimedio in casa, non erano necessitati andare per
quello fuori. E benché gli esempli soprascritti siano assai sufficienti a
provarlo, nondimeno ne voglio addurre un altro, recitato da Tito Livio nella
sua istoria: il quale riferisce come, sendo stato in Chiusi, città in quelli
tempi nobilissima in Toscana, da uno Lucumone violata una sorella di Arunte, e
non potendo Arunte vendicarsi per la potenza del violatore, se n'andò a trovare
i Franciosi, che allora regnavano in quello luogo che oggi si chiama Lombardia;
e quelli confortò a venire con armata mano a Chiusi, mostrando loro come con
loro utile lo potevano vendicare della ingiuria ricevuta: che se Arunte avesse
veduto potersi vendicare con i modi della città, non arebbe cerco le forze
barbare. Ma come queste accuse sono utili in una republica, così sono inutili e
dannose le calunnie, come nel capitolo seguente discorreremo.
8
Quanto
le accuse sono utili alle republiche, tanto sono perniziose le calunnie.
Non
ostante che la virtù di Furio Cammillo, poi ch'egli ebbe libera Roma dalla
oppressione de' Franciosi, avesse fatto che tutti i cittadini romani, sanza
parere loro torsi riputazione o grado, cedevano a quello; nondimanco Manlio
Capitolino non poteva sopportare che gli fusse attribuito tanto onore e tanta
gloria; parendogli, quanto alla salute di Roma, per avere salvato il
Campidoglio, avere meritato quanto Cammillo; e, quanto all'altre belliche
laude, non essere inferiore a lui. Di modo che, carico d'invidia, non potendo
quietarsi per la gloria di quello, e veggendo non potere seminare discordia
infra i Padri, si volse alla Plebe, seminando varie opinioni sinistre intra
quella. E intra le altre cose che diceva, era come il tesoro il quale si era
adunato insieme per dare ai Franciosi, e poi non dato loro, era stato usurpato
da privati cittadini; e, quando si riavesse, si poteva convertirlo in publica
utilità, alleggerendo la Plebe da' tributi, o da qualche privato debito. Queste
parole poterono assai nella Plebe; talché cominciò a avere concorso, ed a fare
a sua posta dimolti tumulti nella città: la quale cosa dispiacendo al Senato, e
parendogli di momento e pericolosa, creò uno Dittatore, perché ci riconoscesse
questo caso, e frenasse lo empito di Manlio. Onde è che subito il Dittatore lo
fece citare, e condussonsi in publico all'incontro l'uno dell'altro; il
Dittatore in mezzo de' Nobili, e Manlio nel mezzo della Plebe. Fu domandato
Manlio che dovesse dire, appresso a chi fusse questo tesoro ch'e' diceva,
perché n'era così desideroso il Senato, d'intenderlo, come la Plebe: a che
Manlio non rispondeva particularmente; ma, andando sfuggendo, diceva come non
era necessario dire loro quello che si sapevano: tanto che il Dittatore lo fece
mettere in carcere.
È
da notare, per questo testo, quanto siano nelle città libere, ed in ogni altro
modo di vivere, detestabili le calunnie; e come, per reprimerle, si debba non
perdonare a ordine alcuno che vi faccia a proposito. Né può essere migliore
ordine, a torle via, che aprire assai luoghi alle accuse; perché, quanto le accuse
giovano alle republiche, tanto le calunnie nuocono: e dall'una all'altra parte
è questa differenza, che le calunnie non hanno bisogno né di testimone né di
alcuno altro particulare riscontro a provarle, in modo che ciascuno e da
ciascuno può essere calunniato; ma non può già essere accusato, avendo le
accuse bisogno di riscontri veri e di circunstanze che mostrino la verità
dell'accusa. Accusansi gli uomini a' magistrati, a' popoli, a' consigli;
calunnionsi per le piazze e per le logge. Usasi più questa calunnia dove si usa
meno l'accusa, e dove le città sono meno ordinate a riceverle. Però, un
ordinatore d'una republica debbe ordinare che si possa in quella accusare ogni
cittadino, sanza alcuna paura o sanza alcuno rispetto; e fatto questo, e bene osservato,
debbe punire acremente i calunniatori: i quali non si possono dolere quando
siano puniti, avendo i luoghi aperti a udire le accuse di colui che gli avesse
per le logge calunniato. E dove non è bene ordinata questa parte, seguitano
sempre disordini grandi: perché le calunnie irritano, e non castigano i
cittadini; e gli irritati pensano di valersi, odiando più presto, che temendo,
le cose che si dicano contro a loro.
Questa
parte, come è detto, era bene ordinata in Roma; ed è stata sempre male ordinata
nella nostra città di Firenze. E come a Roma questo ordine fece molto bene, a
Firenze questo disordine fece molto male. E chi legge le istorie di questa
città, vedrà quante calunnie sono state in ogni tempo date a' suoi cittadini,
che si sono adoperati nelle cose importanti di quella. Dell'uno dicevano,
ch'egli aveva rubato i danari al Comune; dell'altro, che non aveva vinta una
impresa per essere stato corrotto; e che quell'altro per sua ambizione aveva
fatto il tale ed il tale inconveniente. Di che ne nasceva che da ogni parte ne
surgeva odio: donde si veniva alla divisione, dalla divisione alle sètte, dalle
sètte alla rovina. Che se fusse stato in Firenze ordine d'accusare i cittadini,
e punire i calunniatori, non seguivano infiniti scandoli che sono seguiti;
perché quelli cittadini, o condannati o assoluti che fussono, non arebbono
potuto nuocere alla città, e sarebbeno stati accusati meno assai che non ne
erano calunniati, non si potendo, come ho detto, accusare come calunniare
ciascuno. Ed intra l'altre cose di che si è valuto alcun cittadino per venire
alla grandezza sua, sono state queste calunnie: le quali venendo contro a
cittadini potenti che all'appetito suo si opponevano, facevono assai per
quello; perché, pigliando la parte del Popolo, e confermandolo nella mala
opinione ch'egli aveva di loro, se lo fece amico. E benché se ne potessi
addurre assai esempli, voglio essere contento solo d'uno. Era lo esercito
fiorentino a campo a Lucca, comandato da messer Giovanni Guicciardini,
commessario di quello. Vollono o i cattivi suoi governi o la cattiva sua
fortuna che la espugnazione di quella città non seguisse: pure, comunque il
caso stesse, ne fu incolpato messer Giovanni, dicendo com'egli era stato
corrotto da' Lucchesi: la quale calunnia sendo favorita dagl'inimici suoi,
condusse messer Giovanni quasi in ultima disperazione. E benché, per
giustificarsi, e' si volessi mettere nelle mani del Capitano; nondimeno non si
potette mai giustificare, per non essere modi in quella republica da poterlo
fare. Di che ne nacque assai sdegni intra gli amici di messer Giovanni, che
erano la maggior parte degli uomini grandi ed infra coloro che desideravano
fare novità in Firenze. La quale cosa, e per questa e per altre simili cagioni,
tanto crebbe che ne seguì la rovina di quella republica.
Era
adunque Manlio Capitolino calunniatore, e non accusatore; ed i Romani
mostrarono, in questo caso appunto, come i calunniatori si debbono punire.
Perché si debbe farli diventare accusatori; e quando l'accusa si riscontri
vera, o premiarli o non punirli: ma quando la non si riscontri vera, punirli,
come fu punito Manlio.
9
Come
egli è necessario essere solo a volere ordinare una repubblica di nuovo, o al
tutto fuor degli antichi suoi ordini riformarla.
Ei
parrà forse ad alcuno, che io sia troppo trascorso dentro nella istoria romana,
non avendo fatto alcuna menzione ancora degli ordinatori di quella republica,
né di quelli ordini che alla religione o alla milizia riguardassero. E però,
non volendo tenere più sospesi gli animi di coloro che sopra questa parte
volessono intendere alcune cose; dico come molti per avventura giudicheranno di
cattivo esemplo, che uno fondatore d'un vivere civile, quale fu Romolo, abbia
prima morto un suo fratello, dipoi consentito alla morte di Tito Tazio Sabino,
eletto da lui compagno nel regno; giudicando, per questo, che gli suoi
cittadini potessono con l'autorità del loro principe, per ambizione e desiderio
di comandare, offendere quelli che alla loro autorità si opponessero. La quale
opinione sarebbe vera, quando non si considerasse che fine lo avesse indotto a
fare tal omicidio.
E
debbesi pigliare questo per una regola generale: che mai o rado occorre che
alcuna republica o regno sia, da principio, ordinato bene, o al tutto di nuovo,
fuora degli ordini vecchi, riformato, se non è ordinato da uno; anzi è
necessario che uno solo sia quello che dia il modo, e dalla cui mente dependa
qualunque simile ordinazione. Però, uno prudente ordinatore d'una republica, e
che abbia questo animo, di volere giovare non a sé ma al bene comune, non alla
sua propria successione ma alla comune patria, debbe ingegnarsi di avere
l'autorità, solo; né mai uno ingegno savio riprenderà alcuno di alcuna azione
straordinaria, che, per ordinare un regno o constituire una republica, usasse.
Conviene bene, che, accusandolo il fatto, lo effetto lo scusi; e quando sia
buono, come quello di Romolo, sempre lo scuserà: perché colui che è violento
per guastare, non quello che è per racconciare, si debbe riprendere. Debbi bene
in tanto essere prudente e virtuoso, che quella autorità che si ha presa non la
lasci ereditaria a un altro: perché, sendo gli uomini più proni al male che al
bene, potrebbe il suo successore usare ambiziosamente quello che virtuosamente
da lui fusse stato usato. Oltre a di questo, se uno è atto a ordinare, non è la
cosa ordinata per durare molto, quando la rimanga sopra le spalle d'uno; ma sì
bene, quando la rimane alla cura di molti e che a molti stia il mantenerla.
Perché, così come molti non sono atti a ordinare una cosa, per non conoscere il
bene di quella, causato dalle diverse opinioni che sono fra loro; così,
conosciuto che lo hanno, non si accordano a lasciarlo. E che Romolo fusse di
quelli che nella morte del fratello e del compagno meritasse scusa, e che quello
che fece, fusse per il bene comune, e non per ambizione propria, lo dimostra lo
avere quello, subito ordinato uno Senato, con il quale si consigliasse, e
secondo la opinione del quale deliberasse. E chi considerrà bene l'autorità che
Romolo si riserbò, vedrà non se ne essere riserbata alcun'altra che comandare
agli eserciti quando si era deliberata la guerra e di ragunare il Senato. Il
che si vide poi, quando Roma divenne libera per la cacciata de' Tarquini, dove
da' Romani non fu innovato alcun ordine dello antico, se non che, in luogo
d'uno Re perpetuo, fossero due Consoli annuali; il che testifica, tutti gli
ordini primi di quella città essere stati più conformi a uno vivere civile e
libero, che a uno assoluto e tirannico.
Potrebbesi
dare in sostentamento delle cose soprascritte infiniti esempli; come Moises,
Licurgo, Solone, ed altri fondatori di regni e di republiche, e' quali
poterono, per aversi attribuito un'autorità, formare leggi a proposito del bene
comune: ma li voglio lasciare indietro, come cosa nota. Addurronne solamente
uno, non sì celebre, ma da considerarsi per coloro che desiderassono essere di
buone leggi ordinatori: il quale è, che, desiderando Agide re di Sparta ridurre
gli Spartani intra quelli termini che le leggi di Licurgo gli avevano
rinchiusi, parendogli che, per esserne in parte deviati, la sua città avesse
perduto assai di quella antica virtù, e, per consequente, di forze e d'imperio,
fu, ne' suoi primi principii, ammazzato dagli Efori spartani, come uomo che
volesse occupare la tirannide. Ma succedendo dopo di lui nel regno Cleomene, e
nascendogli il medesimo desiderio per gli ricordi e scritti ch'egli aveva
trovati d'Agide, dove si vedeva quale era la mente ed intenzione sua, conobbe
non potere fare questo bene alla sua patria se non diventava solo di autorità;
parendogli, per l'ambizione degli uomini, non potere fare utile a molti contro
alla voglia di pochi: e presa occasione conveniente, fece ammazzare tutti gli
Efori, e qualunque altro gli potesse contrastare; dipoi rinnovò in tutto le
leggi di Licurgo. La quale diliberazione era atta a fare risuscitare Sparta, e
dare a Cleomene quella riputazione che ebbe Licurgo, se non fusse stata la
potenza de' Macedoni, e la debolezza delle altre republiche greche. Perché,
essendo, dopo tale ordine, assaltato da' Macedoni, e trovandosi per sé stesso
inferiore di forze, e non avendo a chi rifuggire, fu vinto; e restò quel suo
disegno, quantunque giusto e laudabile, imperfetto.
Considerato
adunque tutte queste cose, conchiudo, come a ordinare una republica è
necessario essere solo; e Romolo, per la morte di Remo e di Tito Tazio,
meritare iscusa e non biasimo.
10
Quanto
sono laudabili i fondatori d'una republica o d'uno regno, tanto quelli d'una
tirannide sono vituperabili.
Intra
tutti gli uomini laudati sono i laudatissimi quelli che sono stati capi e
ordinatori delle religioni. Appresso, dipoi, quelli che hanno fondato o
republiche o regni. Dopo a costoro, sono celebri quelli che, preposti agli
eserciti, hanno ampliato o il regno loro o quello della patria. A questi si
aggiungono gli uomini litterati. E perché questi sono di più ragioni, sono
celebrati, ciascuno d'essi, secondo il grado suo. A qualunque altro uomo, il
numero de' quali è infinito, si attribuisce qualche parte di laude, la quale
gli arreca l'arte e lo esercizio suo. Sono pel contrario, infami e detestabili
gli uomini distruttori delle religioni, dissipatori de' regni e delle
republiche, inimici delle virtù, delle lettere, e d'ogni altra arte che arrechi
utilità e onore alla umana generazione; come sono gl'impii, i violenti,
gl'ignoranti, i dappochi, gli oziosi, i vili. E nessuno sarà mai sì pazzo o sì
savio, sì tristo o sì buono, che, prepostagli la elezione delle due qualità
d'uomini, non laudi quella che è da laudare, e biasimi quella che è da
biasimare: nientedimeno, dipoi, quasi tutti, ingannati da uno falso bene e da
una falsa gloria, si lasciono andare, o voluntariamente o ignorantemente, nei
gradi di coloro che meritano più biasimo che laude; e potendo fare, con perpetuo
loro onore, o una republica o uno regno, si volgono alla tirannide: né si
avveggono per questo partito quanta fama, quanta gloria, quanto onore, sicurtà,
quiete, con sodisfazione d'animo, ei fuggono; e in quanta infamia, vituperio,
biasimo, pericolo e inquietudine, incorrono.
Ed
è impossibile che quelli che in stato privato vivono in una republica, o che
per fortuna o per virtù ne diventono principi, se leggessono le istorie, e
delle memorie delle antiche cose facessono capitale, che non volessero quelli
tali privati vivere nella loro patria più tosto Scipioni che Cesari; e quelli
che sono principi, più tosto Agesilai, Timoleoni, Dioni, che Nabidi, Falari e
Dionisii: perché vedrebbono questi essere sommamente vituperati, e quelli
eccessivamente laudati. Vedrebbero ancora come Timoleone e gli altri non ebbono
nella patria loro meno autorità che si avessono Dionisio e Falari, ma
vedrebbono di lunga avervi avuta più sicurtà. Né sia alcuno che s'inganni, per
la gloria di Cesare, sentendolo, massime, celebrare dagli scrittori: perché
quegli che lo laudano, sono corrotti dalla fortuna sua, e spauriti dalla
lunghezza dello imperio, il quale, reggendosi sotto quel nome, non permetteva
che gli scrittori parlassono liberamente di lui. Ma chi vuole conoscere quello
che gli scrittori liberi ne direbbono, vegga quello che dicono di Catilina. E
tanto è più biasimevole Cesare, quanto più è da biasimare quello che ha fatto,
che quello che ha voluto fare un male. Vegga ancora con quante laude ei
celebrano Bruto; talché, non potendo biasimare quello, per la sua potenza, ei
celebravano il nimico suo.
Consideri
ancora quello che è diventato principe in una republica, quanta laude, poiché
Roma fu diventata Imperio, meritarono più quelli imperadori che vissero sotto
le leggi e come principi buoni, che quelli che vissero al contrario: e vedrà
come a Tito Nerva, Traiano, Adriano, Antonino e Marco, non erano necessari i
soldati pretoriani né la moltitudine delle legioni a difenderli, perché i
costumi loro, la benivolenza del Popolo, l'amore del Senato, gli difendeva.
Vedrà ancora come a Caligola, Nerone, Vitellio, ed a tanti altri scelerati
imperadori, non bastarono gli eserciti orientali ed occidentali a salvarli
contro a quelli inimici che li loro rei costumi, la loro malvagia vita, aveva
loro generati. E se la istoria di costoro fusse bene considerata, sarebbe assai
ammaestramento a qualunque principe, a mostrargli la via della gloria o del
biasimo, e della sicurtà o del timore suo. Perché, di ventisei imperadori che
furono da Cesare a Massimino, sedici ne furono ammazzati, dieci morirono
ordinariamente e se di quelli che furono morti ne fu alcun buono come Galba e
Pertinace, fu morto da quella corruzione che lo antecessore suo aveva lasciata
nei soldati. E se tra quelli che morirono ordinariamente ve ne fu alcuno
scelerato, come Severo, nacque da una sua grandissima fortuna e virtù; le quali
due cose pochi uomini accompagnano. Vedrà ancora, per la lezione di questa
istoria, come si può ordinare un regno buono: perché tutti gl'imperadori che
succederono all'imperio per eredità, eccetto Tito, furono cattivi, quelli che
per adozione, furono tutti buoni come furono quei cinque da Nerva a Marco: e
come l'imperio cadde negli eredi, e' ritornò nella sua rovina.
Pongasi,
adunque, innanzi un principe i tempi da Nerva a Marco, e conferiscagli con
quelli che erano stati prima e che furono poi; e dipoi elegga in quali volesse
essere nato, o a quali volesse essere preposto. Perché, in quelli governati da'
buoni, vedrà un principe sicuro in mezzo de' suoi sicuri cittadini, ripieno di
pace e di giustizia il mondo; vedrà il Senato con la sua autorità, i magistrati
co' suoi onori; godersi i cittadini ricchi le loro ricchezze, la nobilità e la
virtù esaltata; vedrà ogni quiete ed ogni bene; e, dall'altra parte, ogni
rancore, ogni licenza, corruzione e ambizione spenta; vedrà i tempi aurei, dove
ciascuno può tenere e difendere quella opinione che vuole. Vedrà, in fine,
trionfare il mondo; pieno di riverenza e di gloria il principe, d'amore e
sicurtà i popoli.
Se
considererà, dipoi, tritamente i tempi degli altri imperadori, gli vedrà atroci
per le guerre, discordi per le sedizioni, nella pace e nella guerra crudeli:
tanti principi morti col ferro, tante guerre civili, tante esterne; l'Italia
afflitta, e piena di nuovi infortunii; rovinate e saccheggiate le cittadi di
quella. Vedrà Roma arsa, il Campidoglio da' suoi cittadini disfatto, desolati
gli antichi templi, corrotte le cerimonie, ripiene le città di adulterii: vedrà
il mare pieno di esilii, gli scogli pieni di sangue. Vedrà in Roma seguire
innumerabili crudeltadi e la nobilità, le ricchezze, i passati onori, e sopra
tutto la virtù, essere imputate a peccato capitale. Vedrà premiare gli
calunniatori, essere corrotti i servi contro al signore, i liberti contro al
padrone; e quelli a chi fussero mancati inimici, essere oppressi dagli amici. E
conoscerà allora benissimo quanti oblighi Roma, l'Italia, e il mondo, abbia con
Cesare.
E
sanza dubbio, se e' sarà nato d'uomo, si sbigottirà da ogni imitazione de'
tempi cattivi, ed accenderassi d'uno immenso desiderio di seguire i buoni. E
veramente, cercando un principe la gloria del mondo, doverrebbe desiderare di
possedere una città corrotta, non per guastarla in tutto come Cesare, ma per
riordinarla come Romolo. E veramente i cieli non possono dare agli uomini
maggiore occasione di gloria, né gli uomini la possono maggiore desiderare. E
se, a volere ordinare bene una città, si avesse di necessità a diporre il
principato, meriterebbe, quello che non la ordinasse per non cadere di quel
grado, qualche scusa: ma potendosi tenere il principato ed ordinarla, non si
merita scusa alcuna. E, in somma, considerino quelli a chi i cieli dànno tale
occasione, come ei sono loro preposte due vie: l'una che li fa vivere sicuri, e
dopo la morte li rende gloriosi; l'altra li fa vivere in continove angustie, e,
dopo la morte, lasciare di sé una sempiterna infamia.
11
Della
religione de' Romani.
Avvenga
che Roma avesse il primo suo ordinatore Romolo, e che da quello abbi a riconoscere,
come figliuola, il nascimento e la educazione sua, nondimeno, giudicando i
cieli che gli ordini di Romolo non bastassero a tanto imperio, inspirarono nel
petto del Senato romano di eleggere Numa Pompilio per successore a Romolo,
acciocché quelle cose che da lui fossero state lasciate indietro, fossero da
Numa ordinate. Il quale, trovando uno popolo ferocissimo, e volendolo ridurre
nelle obedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione, come
cosa al tutto necessaria a volere mantenere una civiltà; e la constituì in
modo, che per più secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto in quella
republica; il che facilitò qualunque impresa che il Senato o quelli grandi
uomini romani disegnassero fare. E chi discorrerà infinite azioni, e del popolo
di Roma tutto insieme, e di molti de' Romani di per sé, vedrà come quelli
cittadini temevono più assai rompere il giuramento che le leggi; come coloro
che stimavano più la potenza di Dio, che quella degli uomini: come si vede
manifestamente per gli esempli di Scipione e di Manlio Torquato. Perché, dopo
la rotta che Annibale aveva dato ai Romani a Canne, molti cittadini si erano
adunati insieme, e, sbigottiti della patria, si erano convenuti abbandonare la
Italia, e girsene in Sicilia; il che sentendo Scipione, gli andò a trovare, e
col ferro ignudo in mano li costrinse a giurare di non abbandonare la patria.
Lucio Manlio, padre di Tito Manlio, che fu dipoi chiamato Torquato, era stato
accusato da Marco Pomponio, Tribuno della plebe, ed innanzi che venisse il dì
del giudizio, Tito andò a trovare Marco, e, minacciando di ammazzarlo se non
giurava di levare l'accusa al padre, lo costrinse al giuramento; e quello, per
timore avendo giurato, gli levò l'accusa. E così quelli cittadini i quali lo
amore della patria, le leggi di quella, non ritenevano in Italia, vi furono
ritenuti da un giuramento che furano forzati a pigliare; e quel Tribuno pose da
parte l'odio che egli aveva col padre, la ingiuria che gli avea fatto il
figliuolo, e l'onore suo, per ubbidire al giuramento preso: il che non nacque
da altro, che da quella religione che Numa aveva introdotta in quella città.
E
vedesi, chi considera bene le istorie romane, quanto serviva la religione a
comandare gli eserciti, a animire la Plebe, a mantenere gli uomini buoni, a
fare vergognare i rei. Talché, se si avesse a disputare a quale principe Roma
fusse più obligata, o a Romolo o a Numa, credo più tosto Numa otterrebbe il
primo grado: perché, dove è religione, facilmente si possono introdurre l'armi
e dove sono l'armi e non religione, con difficultà si può introdurre quella. E
si vede che a Romolo, per ordinare il Senato, e per fare altri ordini civili e
militari, non gli fu necessario dell'autorità di Dio; ma fu bene necessario a
Numa, il quale simulò di avere domestichezza con una Ninfa, la quale lo
consigliava di quello ch'egli avesse a consigliare il popolo: e tutto nasceva
perché voleva mettere ordini nuovi ed inusitati in quella città, e dubitava che
la sua autorità non bastasse.
E
veramente, mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che
non ricorresse a Dio; perché altrimente non sarebbero accettate: perché sono
molti i beni conosciuti da uno prudente, i quali non hanno in sé ragioni
evidenti da poterli persuadere a altrui. Però gli uomini savi, che vogliono
tôrre questa difficultà, ricorrono a Dio. Così fece Licurgo, così Solone, così
molti altri che hanno avuto il medesimo fine di loro. Maravigliando, adunque,
il Popolo romano la bontà e la prudenza sua, cedeva ad ogni sua diliberazione.
Ben è vero che l'essere quelli tempi pieni di religione, e quegli uomini, con i
quali egli aveva a travagliare, grossi, gli dettono facilità grande a
conseguire i disegni suoi, potendo imprimere in loro facilmente qualunque nuova
forma. E sanza dubbio, chi volesse ne' presenti tempi fare una republica più
facilità troverrebbe negli uomini montanari, dove non è alcuna civilità, che in
quelli che sono usi a vivere nelle cittadi, dove la civilità è corrotta: ed uno
scultore trarrà più facilmente una bella statua d'un marmo rozzo, che d'uno
male abbozzato da altrui.
Considerato
adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da Numa fu intra le prime
cagioni della felicità di quella città: perché quella causò buoni ordini; i
buoni ordini fanno buona fortuna; e dalla buona fortuna nacquero i felici
successi delle imprese. E come la osservanza del culto divino è cagione della
grandezza delle republiche, così il dispregio di quello è cagione della rovina
d'esse. Perché, dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini,
o che sia sostenuto dal timore d'uno principe che sopperisca a' difetti della
religione. E perché i principi sono di corta vita, conviene che quel regno
manchi presto, secondo che manca la virtù d'esso. Donde nasce che gli regni i
quali dipendono solo dalla virtù d'uno uomo, sono poco durabili, perché quella
virtù manca con la vita di quello e rade volte accade che la sia rinfrescata
con la successione, come prudentemente Dante dice:
Rade
volte discende per li rami
L'umana
probitate; e questo vuole
Quel
che la dà, perché da lui si chiami.
Non
è, adunque, la salute di una republica o d'uno regno avere uno principe che
prudentemente governi mentre vive; ma uno che l'ordini in modo, che, morendo
ancora, la si mantenga. E benché agli uomini rozzi più facilmente si persuada
uno ordine o una opinione nuova, non è però per questo impossibile persuaderla
ancora agli uomini civili e che presumono non essere rozzi. Al popolo di
Firenze non pare essere né ignorante né rozzo: nondimeno da frate Girolamo
Savonarola fu persuaso che parlava con Dio. Io non voglio giudicare s'egli era
vero o no, perché d'uno tanto uomo se ne debbe parlare con riverenza: ma io
dico bene, che infiniti lo credevono sanza avere visto cosa nessuna
straordinaria, da farlo loro credere; perché la vita sua la dottrina e il
suggetto che prese, erano sufficienti a fargli prestare fede. Non sia,
pertanto, nessuno che si sbigottisca di non potere conseguire quel che è stato
conseguito da altri; perché gli uomini, come nella prefazione nostra si disse,
nacquero, vissero e morirono, sempre, con uno medesimo ordine.
12
Di
quanta importanza sia tenere conto della religione, e come la Italia, per
esserne mancata mediante la Chiesa romana, è rovinata.
Quelli
principi o quelle republiche, le quali si vogliono mantenere incorrotte, hanno
sopra ogni altra cosa a mantenere incorrotte le cerimonie della loro religione,
e tenerle sempre nella loro venerazione; perché nessuno maggiore indizio si
puote avere della rovina d'una provincia, che vedere dispregiato il culto
divino. Questo è facile a intendere, conosciuto che si è in su che sia fondata
la religione dove l'uomo è nato; perché ogni religione ha il fondamento della
vita sua in su qualche principale ordine suo. La vita della religione Gentile
era fondata sopra i responsi degli oracoli e sopra la setta degli indovini e
degli aruspici: tutte le altre loro cerimonie sacrifici e riti, dependevano da
queste perché loro facilmente credevono che quello Iddio che ti poteva predire
il tuo futuro bene o il tuo futuro male, te lo potessi ancora concedere. Di qui
nascevano i templi, di qui i sacrifici, di qui le supplicazioni, ed ogni altra
cerimonia in venerarli: perché l'oracolo di Delo, il tempio di Giove Ammone, ed
altri celebri oracoli, i quali riempivano il mondo di ammirazione e divozione.
Come costoro cominciarono dipoi a parlare a modo de' potenti, e che questa
falsità si fu scoperta ne' popoli, diventarono gli uomini increduli, ed atti a
perturbare ogni ordine buono.
Debbono,
adunque i principi d'una republica o d'uno regno, i fondamenti della religione
che loro tengono, mantenergli; e fatto questo sarà loro facil cosa mantenere la
loro republica religiosa, e, per conseguente buona e unita. E debbono, tutte le
cose che nascano in favore di quella come che le giudicassono false, favorirle
e accrescerle; e tanto più lo debbono fare quanto più prudenti sono, e quanto
più conoscitori delle cose naturali. E perché questo modo è stato osservato
dagli uomini savi, ne è nato l'opinione dei miracoli, che si celebrano nelle
religioni eziandio false; perché i prudenti gli augumentano, da qualunque
principio e' si nascano; e l'autorità loro dà poi a quelli fede appresso a
qualunque.
Di
questi miracoli ne fu a Roma assai; intra i quali fu, che, saccheggiando i
soldati romani la città de' Veienti, alcuni di loro entrarono nel tempio di
Giunone, ed accostandosi alla imagine di quella, e dicendole: «Vis venire
Romam?» parve a alcuno vedere che la accennasse, a alcuno altro che la
dicesse di sì. Perché sendo quegli uomini ripieni di religione (il che dimostra
Tito Livio, perché, nello entrare nel tempio, vi entrarono sanza tumulto, tutti
devoti e pieni di riverenza), parve loro udire quella risposta che alla domanda
loro per avventura si avevano presupposta: la quale opinione e credulità da
Cammillo a dagli altri principi della città fu al tutto favorita ed
accresciuta. La quale religione se ne' principi della republica cristiana si
fusse mantenuta, secondo che dal datore d'essa ne fu ordinato, sarebbero gli
stati e le republiche cristiane più unite, più felici assai, che le non sono.
Né si può fare altra maggiore coniettura della declinazione d'essa, quanto è
vedere come quelli popoli che sono più propinqui alla Chiesa romana, capo della
religione nostra hanno meno religione. E chi considerasse i fondamenti suoi, e
vedesse l'uso presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe essere
propinquo, sanza dubbio, o la rovina o il fragello.
E
perché molti sono d'opinione, che il bene essere delle città d'Italia nasca
dalla Chiesa romana, voglio, contro a essa, discorrere quelle ragioni che mi
occorrono: e ne allegherò due potentissime ragioni le quali, secondo me, non
hanno repugnanzia. La prima è, che, per gli esempli rei di quella corte, questa
provincia ha perduto ogni divozione e ogni religione: il che si tira dietro
infiniti inconvenienti e infiniti disordini; perché, così come dove è religione
si presuppone ogni bene, così, dove quella manca, si presuppone il contrario.
Abbiamo, adunque, con la Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obligo,
di essere diventati sanza religione e cattivi: ma ne abbiamo ancora uno
maggiore, il quale è la seconda cagione della rovina nostra. Questo è che la
Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa. E veramente, alcuna provincia
non fu mai unita o felice, se la non viene tutta alla ubbidienza d'una
republica o d'uno principe, come è avvenuto alla Francia ed alla Spagna. E la
cagione che la Italia non sia in quel medesimo termine, né abbia anch'ella o
una republica o uno principe che la governi, è solamente la Chiesa: perché,
avendovi quella abitato e tenuto imperio temporale, non è stata sì potente né
di tanta virtù che l'abbia potuto occupare la tirannide d'Italia e farsene
principe; e non è stata, dall'altra parte, sì debole, che, per paura di non
perdere il dominio delle sue cose temporali, la non abbia potuto convocare uno
potente che la difenda contro a quello che in Italia fusse diventato troppo
potente: come si è veduto anticamente per assai esperienze, quando, mediante
Carlo Magno, la ne cacciò i Longobardi, ch'erano già quasi re di tutta Italia;
e quando ne' tempi nostri ella tolse la potenza a' Viniziani con l'aiuto di
Francia; di poi ne cacciò i Franciosi con l'aiuto de' Svizzeri.
Non
essendo, adunque, stata la Chiesa potente da potere occupare la Italia, né
avendo permesso che un altro la occupi, è stata cagione che la non è potuta
venire sotto uno capo; ma è stata sotto più principi e signori, da' quali è
nata tanta disunione e tanta debolezza, che la si è condotta a essere stata
preda, non solamente de' barbari potenti, ma di qualunque l'assalta. Di che noi
altri Italiani abbiamo obbligo con la Chiesa, e non con altri. E chi ne volesse
per esperienza certa vedere più pronta la verità, bisognerebbe che fusse di
tanta potenza che mandasse ad abitare la corte romana, con l'autorità che l'ha
in Italia, in le terre de' Svizzeri; i quali oggi sono, solo, popoli che
vivono, e quanto alla religione e quanto agli ordini militari, secondo gli antichi:
e vedrebbe che in poco tempo farebbero più disordine in quella provincia i rei
costumi di quella corte, che qualunque altro accidente che in qualunque tempo
vi potesse surgere.
13
Come
i Romani si servivono della religione per riordinare la città e seguire le loro
imprese e fermare i tumulti.
Ei
non mi pare fuora di proposito addurre alcuno esemplo dove i Romani si
servivono della religione per riordinare la città, e per seguire le imprese
loro; e quantunque in Tito Livio ne siano molti, nondimeno voglio essere
contento a questi. Avendo creato il Popolo romano i Tribuni di potestà
consolare, e, fuora che uno, tutti plebei; ed essendo occorso, quello anno,
peste e fame, e venuto certi prodigi, usorono questa occasione i Nobili nella
nuova creazione de' Tribuni, dicendo che gl'Iddii erano adirati per avere Roma
male usato la maiestà del suo imperio, e che non era altro rimedio a placare
gl'Iddii che ridurre la elezione de' Tribuni nel luogo suo: di che nacque che
la plebe, sbigottita da questa religione, creò i Tribuni tutti nobili. Vedesi
ancora, nella espugnazione della città de' Veienti, come i capitani degli
eserciti si valevano della religione per tenergli disposti a una impresa; che,
essendo il lago Albano, quello anno, cresciuto mirabilmente, ed essendo i
soldati romani infastiditi per la lunga ossidione, e volendo tornarsene a Roma,
trovarono i Romani come Apollo e certi altri risponsi dicevano che quello anno
si espugnerebbe la città de' Veienti, che si derivassi il lago Albano: la quale
cosa fece ai soldati sopportare i fastidi della ossidione, presi da questa
speranza di espugnare la terra: e stettono contenti a seguire la impresa, tanto
che Cammillo fatto Dittatore espugnò detta città, dopo dieci anni che la era
stata assediata. E così la religione, usata bene, giovò e per la espugnazione
di quella città, e per la restituzione del Tribunato nella Nobilità che, sanza
detto mezzo, difficilmente si sarebbe condotto e l'uno e l'altro.
Non
voglio mancare di addurre a questo proposito un altro esemplo. Erano nati in
Roma assai tumulti per cagione di Terentillo tribuno, volendo lui proporre
certa legge, per le cagioni che di sotto, nel suo luogo, si diranno; e tra i
primi rimedi che vi usò la Nobilità, fu la religione, della quale si servirono
in due modi. Nel primo, fecero vedere i libri Sibillini, e rispondere come alla
città, mediante la civile sedizione, soprastavano quello anno pericoli di non
perdere la libertà: la quale cosa, ancora che fusse scoperta da' tribuni,
nondimeno messe tanto terrore ne' petti della plebe, che la raffreddò nel
seguirli. L'altro modo fu che, avendo un Appio Erdonio, con una moltitudine di
sbanditi e di servi, in numero di quattromila uomini, occupato di notte il
Campidoglio, in tanto che si poteva temere che, se gli Equi e i Volsci,
perpetui inimici al nome romano, ne fossero venuti a Roma, la arebbono
espugnata; e non cessando i tribuni, per questo, continovare nella pertinacia
loro, di proporre la legge Terentilla, dicendo che quello insulto era simulato
e non vero; uscì fuori del Senato un Publio Ruberio, cittadino grave e di
autorità, con parole, parte amorevoli, parte minaccianti, mostrandogli i
pericoli della città, e la intempestiva domanda loro; tanto ch'ei costrinse la
plebe a giurare di non si partire dalla voglia del consolo: tanto che la plebe,
ubbidiente, per forza ricuperò il Campidoglio. Ma essendo in tale espugnazione
morto Publio Valerio consolo, subito fu rifatto consolo Tito Quinzio, il quale,
per non lasciare riposare la plebe, né darle spazio a pensare alla legge
Terentilla, le comandò s'uscisse di Roma per andare contro ai Volsci, dicendo
che per quel giuramento aveva fatto di non abbandonare il consolo, era obligata
a seguirlo: a che i tribuni si opponevano, dicendo come quel giuramento s'era
dato al consolo morto, e non a lui. Nondimeno Tito Livio mostra come la Plebe,
per paura della religione, volle più tosto ubbidire al consolo, che credere a'
tribuni, dicendo in favore della antica religione queste parole: «Nondum
haec, quae nunc tenet saeculum, negligentia Deum venerat, nec interpretando
sibi quisque jusjurandum et leges aptas faciebat». Per la quale cosa
dubitando i Tribuni di non perdere allora tutta la lor dignità, si accordarono
col consolo di stare alla ubbidienza di quello; e che per uno anno non si
ragionasse della legge Terentilla, ed i Consoli per uno anno non potessero
trarre fuori la plebe alla guerra. E così la religione fece al Senato vincere
quelle difficultà, che, sanza essa, mai averebbe vinte.
14
I
Romani interpetravano gli auspizi secondo la necessità, e con la prudenza
mostravano di osservare la religione, quando forzati non la osservavano; e se
alcuno temerariamente la dispregiava, punivano.
Non
solamente gli augurii, come di sopra si è discorso, erano il fondamento, in
buona parte, dell'antica religione de' Gentili, ma ancora erano quelli che
erano cagione del bene essere della Republica romana. Donde i Romani ne avevano
più cura che di alcuno altro ordine di quella; ed usavongli ne' comizi
consolari, nel principiare le imprese, nel trar fuora gli eserciti, nel fare le
giornate, ed in ogni azione loro importante, o civile o militare; né mai
sarebbono iti ad una espedizione, che non avessono persuaso ai soldati che gli
Dei promettevano loro la vittoria. Ed in fra gli altri auspicii, avevano negli
eserciti certi ordini di aruspici, ch'e' chiamavano pullarii: e qualunque volta
eglino ordinavano di fare la giornata con il nimico, ei volevano che i pullarii
facessono i loro auspicii; e, beccando i polli, combattevono con buono augurio,
non beccando, si astenevano dalla zuffa. Nondimeno, quando la ragione mostrava
loro una cosa doversi fare, non ostante che gli auspicii fossero avversi, la
facevano in ogni modo; ma rivoltavanla con termini e modi tanto attamente, che
non paresse che la facessino con dispregio della religione.
Il
quale termine fu usato da Papirio consolo in una zuffa che ei fece
importantissima coi Sanniti, dopo la quale restarono in tutto deboli ed
afflitti. Perché, sendo Papirio in su' campi rincontro ai Sanniti, e parendogli
avere nella zuffa la vittoria certa, e volendo per questo fare la giornata,
comandò ai pullarii che facessono i loro auspicii; ma non beccando i polli, e
veggendo il principe de' pullarii la gran disposizione dello esercito di
combattere, e la opinione che era nel capitano ed in tutti i soldati di
vincere, per non tôrre occasione di bene operare a quello esercito, riferì al
consolo come gli auspicii procedevono bene: talché Papirio, ordinando le
squadre, ed essendo da alcuni de' pullarii detto a certi soldati, i polli non
avere beccato, quelli lo dissono a Spurio Papirio nepote del consolo; e quello
riferendolo al consolo, rispose subito, ch'egli attendessi a fare l'ufficio suo
bene; che, quanto a lui ed allo esercito, gli auspicii erano buoni; e se il
pullario aveva detto le bugie, le tornerebbono in pregiudizio suo. E perché lo
effetto corrispondesse al pronostico, comandò ai legati che constituissono i
pullarii nella prima fronte della zuffa. Onde nacque che, andando contro a'
nimici, sendo da un soldato romano tratto uno dardo, a caso ammazzò il principe
de' pullarii: la quale cosa udita, il consolo disse come ogni cosa procedeva
bene, e col favore degli Dei; perché lo esercito con la morte di quel bugiardo
s'era purgato da ogni colpa e da ogni ira che quelli avessono presa contro a di
lui. E così, col sapere bene accomodare i disegni suoi agli auspicii, prese
partito di azzuffarsi, sanza che quello esercito si avvedesse che in alcuna
parte quello avesse negletti gli ordini della loro religione.
Al
contrario fece Appio Pulcro in Sicilia, nella prima guerra punica: che, volendo
azzuffarsi con l'esercito cartaginese, fece fare gli auspicii a' pullarii; e
riferendogli quelli, come i polli non beccavano, disse: Veggiamo se volessero bere! e gli fece gittare in mare. Donde che
azzuffandosi, perdé la giornata: di che egli fu a Roma condannato, e Papirio
onorato, non tanto per avere l'uno vinto, e l'altro perduto, quanto per avere
l'uno fatto contro agli auspicii prudentemente, e l'altro temerariamente. Né ad
altro fine tendeva questo modo dello aruspicare, che di fare i soldati
confidentemente ire alla zuffa; dalla quale confidenza quasi sempre nasce la
vittoria. La qual cosa fu non solamente usata dai Romani, ma dagli esterni: di
che mi pare da addurne uno esemplo nel seguente capitolo.
15
I
Sanniti, per estremo rimedio alle cose loro afflitte, ricorsero alla religione.
Avendo
i Sanniti avute più rotte da' Romani, ed essendo stati per ultimo distrutti in
Toscana, e morti i loro eserciti e gli loro capitani; ed essendo stati vinti i
loro compagni, come Toscani, Franciosi ed Umbri; «nec suis nec externis
viribus jam stare poterant, tamen bello non abstinebant adeo ne infeliciter
quidem defensae libertatis taedebat, et vinci, quam non tentare victoriam,
malebant». Onde deliberarono fare l'ultima prova: e perché ei sapevano che,
a volere vincere, era necessario indurre ostinazione negli animi de' soldati, e
che a indurvela non era migliore mezzo che la religione; pensarono di ripetere
uno antico loro sacrificio, mediante Ovio Paccio, loro sacerdote. Il quale
ordinarono in questa forma: che, fatto il sacrificio solenne e fatto, intra le
vittime morte e gli altari accesi, giurare tutti i capi dell'esercito di non
abbandonare mai la zuffa, citorono i soldati ad uno ad uno: ed intra quegli
altari, nel mezzo di più centurioni con le spade nude in mano gli facevano
prima giurare che non ridirebbono cosa che vedessono o sentissono; dipoi, con
parole esecrabili e versi pieni di spavento, gli facevano promettere agli Dei,
d'essere presti dove gl'imperadori gli mandassono, e di non si fuggire mai
dalla zuffa, e d'ammazzare qualunque ei vedessono che si fuggisse: la quale
cosa non osservata, tornassi sopra il capo della sua famiglia e della sua
stirpe. Ed essendo sbigottiti alcuni di loro, non volendo giurare, subito da'
loro centurioni erano morti, talché gli altri che succedevono poi, impauriti
dalla ferocità dello spettacolo, giurarono tutti. E per fare questo loro
assembramento più magnifico, sendo quarantamila uomini, ne vestirono la metà di
panni bianchi, con creste e pennacchi sopra le celate; e così ordinati si
posero presso ad Aquilonia. Contro a costoro venne Papirio; il quale, nel
confortare i suoi soldati, disse: «non enim cristas vulnera facere, et picta
atque aurata scuta transire romanum pilum». E per debilitare la opinione
che avevono i suoi soldati de' nimici per il giuramento preso, disse che quello
era a timore non a fortezza loro; perché in quel medesimo tempo gli avevano
avere paura de' cittadini, degl'Iddii, e de' nimici. E venuti al conflitto,
furono superati i Sanniti; perché la virtù romana, e il timore conceputo per le
passate rotte, superò qualunque ostinazione ei potessero avere presa per virtù
della religione e per il giuramento preso. Nondimeno si vede come a loro non
parve potere avere altro rifugio, né tentare altro rimedio a potere pigliare
speranza di ricuperare la perduta virtù. Il che testifica appieno, quanta
confidenza si possa avere mediante la religione bene usata. E benché questa
parte più tosto, per avventura, si richiederebbe essere posta intra le cose
estrinseche; nondimeno, dependendo da uno ordine de' più importanti della Republica
di Roma, mi è parso da connetterlo in questo luogo, per non dividere questa
materia e averci a ritornare più volte.
16
Uno
popolo, uso a vivere sotto uno principe, se per qualche accidente diventa
libero, con difficultà mantiene la libertà.
Quanta
difficultà sia a uno popolo, uso a vivere sotto uno principe, perservare dipoi
la libertà, se per alcuno accidente l'acquista, come l'acquistò Roma dopo la
cacciata de' Tarquinii, lo dimostrono infiniti esempli che si leggono nelle
memorie delle antiche istorie. E tale difficultà è ragionevole; perché quel
popolo è non altrimenti che un animale bruto, il quale, ancora che di natura
feroce e silvestre, sia stato nutrito sempre in carcere ed in servitù; che
dipoi lasciato a sorte in una campagna libero, non essendo uso a pascersi, né
sappiendo i luoghi dove si abbia a rifuggire, diventa preda del primo che cerca
rincatenarlo.
Questo
medesimo interviene a uno popolo, il quale, sendo uso a vivere sotto i governi
d'altri, non sappiendo ragionare né delle difese o offese pubbliche, non
conoscendo i principi né essendo conosciuto da loro, ritorna presto sotto uno
giogo, il quale il più delle volte è più grave che quello che, poco inanzi, si
aveva levato d'in sul collo: e trovasi in queste difficultà, quantunque che la
materia non sia corrotta. Perché un popolo dove in tutto è entrata la
corruzione, non può, non che piccol tempo, ma punto vivere libero come di sotto
si discorrerà: e però i ragionamenti nostri sono di quelli popoli dove la
corruzione non sia ampliata assai, e dove sia più del buono che del guasto.
Aggiungesi
alla soprascritta un'altra difficultà, la quale è, che lo stato che diventa
libero si fa partigiani inimici, e non partigiani amici. Partigiani inimici gli
diventono tutti coloro che dello stato tirannico si prevalevono, pascendosi
delle ricchezze del principe; a' quali sendo tolta la facultà del valersi, non
possono vivere contenti, e sono forzati ciascuno di tentare di ripigliare la
tirannide, per ritornare nell'autorità loro. Non si acquista, come ho detto,
partigiani amici; perché il vivere libero prepone onori e premii, mediante
alcune oneste e determinate cagioni, e fuora di quelle non premia né onora
alcuno, e quando uno ha quegli onori e quegli utili che gli pare meritare, non
confessa avere obligo con coloro che lo rimunerano.
Oltre
a di questo, quella comune utilità che del vivere libero si trae, non è da
alcuno, mentre che ella si possiede conosciuta: la quale è di potere godere
liberamente le cose sue sanza alcuno sospetto, non dubitare dell'onore delle
donne, di quel de' figliuoli, non temere di sé; perché nessuno confesserà mai
avere obligo con uno che non l'offenda.
Però,
come di sopra si dice, viene ad avere, lo stato libero e che di nuovo surge,
partigiani inimici, e non partigiani amici. E volendo rimediare a questi
inconvenienti, e a quegli disordini che le soprascritte difficultà
arrecherebbono seco, non ci è più potente rimedio, né più valido né più sicuro
né più necessario, che ammazzare i figliuoli di Bruto: i quali, come la istoria
mostra, non furono indotti, insieme con altri giovani romani, a congiurare
contro alla patria per altro, se non perché non si potevono valere
straordinariamente sotto i consoli come sotto i re; in modo che la libertà di
quel popolo pareva che fosse diventata la loro servitù. E chi prende a
governare una moltitudine, o per via di libertà o per via di principato, e non
si assicura di coloro che a quell'ordine nuovo sono inimici, fa uno stato di
poca vita. Vero è che io giudico infelici quelli principi che, per assicurare
lo stato loro hanno a tenere vie straordinarie, avendo per nimici la
moltitudine: perché quello che ha per nimici i pochi, facilmente e sanza molti
scandoli, si assicura, ma chi ha per nimico l'universale non si assicura mai, e
quanta più crudeltà usa tanto più debole diventa il suo principato. Talché il
maggiore rimedio che ci abbia, è cercare di farsi il popolo amico.
E
benché questo discorso sia disforme dal soprascritto, parlando qui d'uno
principe e quivi d'una republica; nondimeno, per non avere a tornare più in su
questa materia, ne voglio parlare brevemente. Volendo, pertanto, uno principe
guadagnarsi uno popolo che gli fosse inimico, parlando di quelli principi che
sono diventati della loro patria tiranni, dico ch'ei debbe esaminare prima
quello che il popolo desidera, e troverrà sempre che desidera due cose: l'una,
vendicarsi contro a coloro che sono cagione che sia servo; l'altra, di riavere
la sua libertà. Al primo desiderio il principe può sodisfare in tutto, al
secondo in parte. Quanto al primo, ce n'è lo esemplo appunto. Clearco, tiranno
di Eraclea, sendo in esilio, occorse che, per controversia venuta intra il
popolo e gli ottimati di Eraclea, che, veggendosi gli ottimati inferiori, si
volsono a favorire Clearco e congiuratisi seco lo missono, contro alla
disposizione popolare, in Eraclea e tolsono la libertà al popolo. In modo che,
trovandosi Clearco intra la insolenzia degli ottimati, i quali non poteva in
alcuno modo né contentare né correggere, e la rabbia de' popolari, che non
potevano sopportare lo avere perduta la libertà, diliberò a un tratto liberarsi
dal fastidio de' grandi, e guadagnarsi il popolo. E presa, sopr'a questo,
conveniente occasione, tagliò a pezzi tutti gli ottimati, con una estrema
sodisfazione de' popolari. E così egli per questa via sodisfece a una delle
voglie che hanno i popoli, cioè di vendicarsi. Ma quanto all'altro popolare
desiderio, di riavere la sua libertà, non potendo il principe sodisfargli,
debbe esaminare quali cagioni sono quelle che gli fanno desiderare d'essere
liberi; e troverrà che una piccola parte di loro desidera di essere libera per
comandare; ma tutti gli altri, che sono infiniti, desiderano la libertà per
vivere sicuri. Perché in tutte le republiche, in qualunque modo ordinate, ai
gradi del comandare non aggiungono mai quaranta o cinquanta cittadini: e perché
questo è piccolo numero, è facil cosa assicurarsene, o con levargli via, o con
fare loro parte di tanti onori, che, secondo le condizioni loro, e' si abbino
in buona parte a contentare. Quelli altri, ai quali basta vivere sicuri, si
sodisfanno facilmente, faccendo ordini e leggi, dove insieme con la potenza sua
si comprenda la sicurtà universale. E quando uno principe faccia questo, e che
il popolo vegga che, per accidente nessuno, ei non rompa tali leggi, comincerà
in breve tempo a vivere sicuro e contento. In esemplo ci è il regno di Francia,
il quale non vive sicuro per altro che per essersi quelli re obligati a
infinite leggi, nelle quali si comprende la sicurtà di tutti i suoi popoli. E
chi ordinò quello stato, volle che quelli re, dell'armi e del danaio facessero
a loro modo, ma che d'ogni altra cosa non ne potessono altrimenti disporre che
le leggi si ordinassero. Quello principe, adunque, o quella republica che non
si assicura nel principio dello stato suo, conviene che si assicuri nella prima
occasione, come fecero i Romani. Chi lascia passare quella, si pente tardi di
non avere fatto quello che doveva fare.
Sendo,
pertanto, il popolo romano ancora non corrotto quando ei ricuperò la libertà,
potette mantenerla, morti i figliuoli di Bruto e spenti i Tarquinii, con tutti
quelli modi ed ordini che altra volta si sono discorsi. Ma se fusse stato quel
popolo corrotto, né in Roma né altrove si truova rimedi validi a mantenerla;
come nel seguente capitolo mosterreno.
17
Uno
popolo corrotto, venuto in libertà,si può con difficultà grandissima mantenere
libero.
Io
giudico ch'egli era necessario, o che i re si estinguessono in Roma, o che Roma
in brevissimo tempo divenisse debole e di nessuno valore; perché, considerando
a quanta corruzione erano venuti quelli re, se fossero seguitati così due o tre
successioni, e che quella corruzione, che era in loro, si fosse cominciata ad
istendere per le membra, come le membra fossero state corrotte, era impossibile
mai più riformarla. Ma perdendo il capo quando il busto era intero, poterono
facilmente ridursi a vivere liberi ed ordinati. E debbesi presupporre per cosa
verissima, che una città corrotta che viva sotto uno principe, come che quel
principe con tutta la sua stirpe si spenga, mai non si può ridurre libera, anzi
conviene che l'un principe spenga l'altro: e sanza creazione d'uno nuovo
signore non si posa mai, se già la bontà d'uno, insieme con la virtù, non la
tenesse libera; ma durerà tanto quella libertà, quanto durerà la vita di
quello: come intervenne, a Siracusa, di Dione e di Timoleone: la virtù de'
quali in diversi tempi, mentre vissono, tenne libera quella città; morti che
furono, si ritornò nell'antica tirannide. Ma non si vede il più forte esemplo
che quello di Roma; la quale, cacciati i Tarquinii, poté subito prendere e
mantenere quella libertà; ma, morto Cesare, morto Caio Caligola, morto Nerone,
spenta tutta la stirpe cesarea, non poté mai, non solamente mantenere, ma pure
dar principio alla libertà. Né tanta diversità di evento in una medesima città
nacque da altro, se non da non essere ne' tempi de' Tarquinii il popolo romano
ancora corrotto, ed in questi ultimi tempi essere corrottissimo.
Perché
allora, a mantenerlo saldo e disposto a fuggire i re, bastò solo farlo giurare
che non consentirebbe mai che a Roma alcuno regnasse; e negli altri tempi non
bastò l'autorità e severità di Bruto, con tutte le legioni orientali, a tenerlo
disposto a volere mantenersi quella libertà che esso, a similitudine del primo
Bruto, gli aveva renduta. Il che nacque da quella corruzione che le parti
mariane avevano messa nel popolo; delle quali sendo capo Cesare, potette
accecare quella moltitudine, ch'ella non conobbe il giogo che da sé medesima si
metteva in sul collo.
E
benché questo esemplo di Roma sia da preporre a qualunque altro esemplo,
nondimeno voglio a questo proposito addurre innanzi popoli conosciuti ne'
nostri tempi. Pertanto dico, che nessuno accidente, benché grave e violento,
potrebbe ridurre mai Milano o Napoli liberi, per essere quelle membra tutte
corrotte. Il che si vide dopo la morte di Filippo Visconti; che, volendosi
ridurre Milano alla libertà, non potette e non seppe mantenerla. Però, fu
felicità grande quella di Roma, che questi rediventassero corrotti presto,
acciò ne fussono cacciati, ed innanzi che la loro corruzione fusse passata
nelle viscere di quella città: la quale incorruzione fu cagione che gl'infiniti
tumulti che furono in Roma, avendo gli uomini il fine buono, non nocerono, anzi
giovorono, alla Republica.
E
si può fare questa conclusione, che, dove la materia non è corrotta, i tumulti
ed altri scandoli non nuocono: dove la è corrotta, le leggi bene ordinate non
giovano, se già le non sono mosse da uno che con una estrema forza le faccia
osservare, tanto che la materia diventi buona. Il che non so se si è mai
intervenuto o se fusse possibile ch'egli intervenisse: perché e' si vede, come
poco di sopra dissi, che una città venuta in declinazione per corruzione di
materia, se mai occorre che la si rilievi, occorre per la virtù d'uno uomo che
è vivo allora, non per la virtù dello universale che sostenga gli ordini buoni;
e subito che quel tale è morto, la si ritorna nel suo pristino abito: come intervenne
a Tebe, la quale, per la virtù di Epaminonda, mentre lui visse, potette tenere
forma di republica e di imperio; ma, morto quello, la si ritornò ne' primi
disordini suoi. La cagione è, che non può essere uno uomo di tanta vita, che 'l
tempo basti ad avvezzare bene una città lungo tempo male avvezza. E se uno
d'una lunghissima vita, o due successione virtuose continue, non la dispongano;
come la manca di loro, come di sopra è detto, rovina, se già con dimolti
pericoli e dimolto sangue e' non la facesse rinascere. Perché tale corruzione e
poca attitudine alla vita libera, nasce da una inequalità che è in quella
città: e volendola ridurre equale, è necessario usare grandissimi straordinari,
i quali pochi sanno o vogliono usare; come in altro luogo più particularmente
si dirà.
18
In
che modo nelle città corrotte si potesse mantenere uno stato libero, essendovi;
o, non vi essendo, ordinarvelo.
Io
credo che non sia fuora di proposito, né disforme dal soprascritto discorso,
considerare se in una città corrotta si può mantenere lo stato libero, sendovi;
o quando e' non vi fusse, se vi si può ordinare. Sopra la quale cosa, dico,
come gli è molto difficile fare o l'uno o l'altro: e benché sia quasi
impossibile darne regola, perché sarebbe necessario procedere secondo i gradi
della corruzione; nondimanco, essendo bene ragionare d'ogni cosa, non voglio
lasciare questa indietro. E presupporrò una città corrottissima, donde verrò ad
accrescere più tale difficultà; perché non si truovano né leggi né ordini che bastino
a frenare una universale corruzione. Perché, così come gli buoni costumi, per
mantenersi, hanno bisogno delle leggi; così le leggi, per osservarsi, hanno
bisogno de' buoni costumi. Oltre a di questo, gli ordini e le leggi fatte in
una republica nel nascimento suo, quando erano gli uomini buoni, non sono dipoi
più a proposito, divenuti che ei sono rei. E se le leggi secondo gli accidenti
in una città variano, non variano mai, o rade volte, gli ordini suoi: il che fa
che le nuove leggi non bastano, perché gli ordini, che stanno saldi, le
corrompono. E per dare ad intendere meglio questa parte, dico come in Roma era
l'ordine del governo, o vero dello stato; e le leggi dipoi, che con i
magistrati frenavano i cittadini. L'ordine dello stato era l'autorità del
Popolo, del Senato, de' Tribuni, de' Consoli, il modo di chiedere e del creare
i magistrati, ed il modo di fare le leggi. Questi ordini poco o nulla variarono
negli accidenti. Variarono le leggi che frenavano i cittadini; come fu la legge
degli adulterii, la suntuaria, quella della ambizione, e molte altre; secondo
che di mano in mano i cittadini diventavano corrotti. Ma tenendo fermi gli
ordini dello stato, che nella corruzione non erano più buoni, quelle legge, che
si rinnovavano, non bastavano a mantenere gli uomini buoni, ma sarebbono bene
giovate, se con la innovazione delle leggi si fussero rimutati gli ordini.
E
che sia il vero, che tali ordini nella città corrotta non fussero buoni, si
vede espresso in doi capi principali, quanto al creare i magistrati e le leggi.
Non dava il popolo romano il consolato, e gli altri primi gradi della città, se
non a quelli che lo domandavano. Questo ordine fu, nel principio, buono, perché
e' non gli domandavano se non quelli cittadini che se ne giudicavano degni ed
averne la repulsa era ignominioso sì che, per esserne giudicati degni, ciascuno
operava bene. Diventò questo modo, poi, nella città corrotta, perniziosissimo;
perché non quelli che avevano più virtù, ma quelli che avevano più potenza
domandavano i magistrati; e gl'impotenti, comecché virtuosi, se ne astenevano
di domandarli, per paura. Vennesi a questo inconveniente, non a un tratto, ma
per i mezzi, come si cade in tutti gli altri inconvenienti: perché avendo i
Romani domata l'Africa e l'Asia, e ridotta quasi tutta la Grecia a sua
ubbidienza, erano divenuti sicuri della libertà loro, né pareva loro avere più
nimici che dovessono fare loro paura. Questa sicurtà e questa debolezza de'
nimici fece che il popolo romano, nel dare il consolato, non riguardava più la
virtù, ma la grazia; tirando a quel grado quelli che meglio sapevano
intrattenere gli uomini, non quelli che sapevano meglio vincere i nimici: dipoi
da quelli che avevano più grazia, ei discesono a darlo a quegli che avevano più
potenza; talché i buoni, per difetto di tale ordine, ne rimasero al tutto
esclusi. Poteva uno tribuno, e qualunque altro cittadino, preporre al Popolo
una legge; sopra la quale ogni cittadino poteva parlare, o in favore o
incontro, innanzi che la si deliberasse. Era questo ordine buono, quando i
cittadini erano buoni; perché sempre fu bene che ciascuno che intende uno bene
per il publico lo possa preporre; ed è bene che ciascuno sopra quello possa
dire l'opinione sua, acciocché il popolo, inteso ciascuno, possa poi eleggere
il meglio. Ma diventati i cittadini cattivi, diventò tale ordine pessimo;
perché solo i potenti proponevono leggi, non per la comune libertà, ma per la
potenza loro; e contro a quelle non poteva parlare alcuno, per paura di quelli:
talché il popolo veniva o ingannato o sforzato a diliberare la sua rovina.
Era
necessario, pertanto, a volere che Roma nella corruzione si mantenesse libera,
che, così come aveva nel processo del vivere suo fatto nuove leggi, l'avesse
fatto nuovi ordini: perché altri ordini e modi di vivere si debbe ordinare in
uno suggetto cattivo, che in uno buono; né può essere la forma simile in una
materia al tutto contraria. Ma perché questi ordini, o e' si hanno a rinnovare
tutti a un tratto, scoperti che sono non essere più buoni, o a poco a poco, in
prima che si conoschino per ciascuno; dico che l'una e l'altra di queste due
cose è quasi impossibile. Perché, a volergli rinnovare a poco a poco, conviene
che ne sia cagione uno prudente, che vegga questo inconveniente assai discosto,
e quando e' nasce. Di questi tali è facilissima cosa che in una città non ne
surga mai nessuno: e quando pure ve ne surgessi, non potrebbe persuadere mai a
altrui quello che egli proprio intendesse; perché gli uomini, usi a vivere in
un modo, non lo vogliono variare; e tanto più non veggendo il male in viso, ma
avendo a essere loro mostro per coniettura. Quanto all'innovare questi ordini a
un tratto, quando ciascuno conosce che non son buoni, dico che questa
inutilità, che facilmente si conosce, è difficile a ricorreggerla; perché, a
fare questo, non basta usare termini ordinari, essendo modi ordinari cattivi;
ma è necessario venire allo straordinario, come è alla violenza ed all'armi, e
diventare innanzi a ogni cosa principe di quella città, e poterne disporre a
suo modo. E perché il riordinare una città al vivere politico presuppone uno
uomo buono, e il diventare per violenza principe di una republica presuppone
uno uomo cattivo; per questo si troverrà che radissime volte accaggia che uno
buono, per vie cattive, ancora che il fine suo fusse buono, voglia diventare
principe; e che uno reo, divenuto principe, voglia operare bene, e che gli
caggia mai nello animo usare quella autorità bene, che gli ha male acquistata.
Da
tutte le soprascritte cose nasce la difficultà, o impossibilità, che è nelle
città corrotte, a mantenervi una republica, o a crearvela di nuovo. E quando
pure la vi si avesse a creare o a mantenere, sarebbe necessario ridurla più
verso lo stato regio, che verso lo stato popolare; acciocché quegli uomini i quali
dalle leggi, per la loro insolenzia, non possono essere corretti, fussero da
una podestà quasi regia in qualche modo frenati. E a volergli fare per altre
vie diventare buoni, sarebbe o crudelissima impresa o al tutto impossibile;
come io dissi, di sopra, che fece Cleomene: il quale se, per essere solo,
ammazzò gli Efori; e se Romolo, per le medesime cagioni, ammazzò il fratello e
Tito Tazio Sabino, e dipoi usarono bene quella loro autorità; nondimeno si
debbe avvertire che l'uno e l'altro di costoro non aveano il suggetto di quella
corruzione macchiato, della quale in questo capitolo ragioniamo, e però
poterono volere, e, volendo, colorire il disegno loro.
19
Dopo
uno eccellente principe si può mantenere uno principe debole; ma, dopo uno
debole, non si può con un altro debole mantenere alcuno regno.
Considerato
la virtù ed il modo del procedere di Romolo, Numa e di Tullo, i primi tre re
romani, si vede come Roma sortì una fortuna grandissima, avendo il primo re
ferocissimo e bellicoso, l'altro quieto e religioso, il terzo simile di
ferocità a Romolo, e più amatore della guerra che della pace. Perché in Roma
era necessario che surgesse ne' primi principii suoi un ordinatore del vivere
civile, ma era bene poi necessario che gli altri re ripigliassero la virtù di
Romolo; altrimenti quella città sarebbe diventata effeminata, e preda de' suoi
vicini. Donde si può notare che uno successore, non di tanta virtù quanto il
primo, può mantenere uno stato per la virtù di colui che lo ha retto innanzi, e
si può godere le sue fatiche: ma s'egli avviene o che sia di lunga vita, o che
dopo lui non surga un altro che ripigli la virtù di quel primo, è necessitato
quel regno a rovinare. Così, per il contrario, se dua, l'uno dopo l'altro, sono
di gran virtù, si vede spesso che fanno cose grandissime, e che ne vanno con la
fama in fino al cielo.
Davit,
sanza dubbio, fu un uomo, per arme, per dottrina, per giudizio,
eccellentissimo; e fu tanta la sua virtù, che, avendo vinti e battuti tutti i
suoi vicini, lasciò a Salomone suo figliuolo uno regno pacifico: quale egli si
potette con l'arte della pace, e non con la guerra, conservare; e si potette
godere felicemente la virtù di suo padre. Ma non potette già lasciarlo a Roboam
suo figliuolo; il quale, non essendo per virtù simile allo avolo, né per
fortuna simile al padre, rimase con fatica erede della sesta parte del regno.
Baisit, sultan de' Turchi, come che fussi più amatore della pace che della
guerra, potette godersi le fatiche di Maumetto suo padre; il quale avendo, come
Davit, battuto i suoi vicini, gli lasciò un regno fermo, e da poterlo con
l'arte della pace facilmente conservare. Ma se il figliuolo suo Salì, presente
signore, fusse stato simile al padre, e non all'avolo, quel regno rovinava; ma
e' si vede costui essere per superare la gloria dell'avolo. Dico pertanto con
questi esempli, che, dopo uno eccellente principe, si può mantenere uno
principe debole; ma, dopo un debole, non si può, con un altro debole, mantenere
alcun regno, se già e' non fusse come quello di Francia, che gli ordini suoi
antichi lo mantenessero: e quelli principi sono deboli, che non stanno in su la
guerra.
Conchiudo
pertanto, con questo discorso, che la virtù di Romolo fu tanta, che la potette
dare spazio a Numa Pompilio di potere molti anni con l'arte della pace reggere
Roma: ma dopo lui successe Tullo, il quale per la sua ferocità riprese la
riputazione di Romolo: dopo il quale venne Anco, in modo dalla natura dotato,
che poteva usare la pace e sopportare la guerra. E prima si dirizzò a volere tenere
la via della pace, ma subito conobbe come i vicini, giudicandolo effeminato, lo
stimavano poco: talmente che pensò che, a volere mantenere Roma, bisognava
volgersi alla guerra, e somigliare Romolo, e non Numa.
Da
questo piglino esemplo tutti i principi che tengono stato; che chi somiglierà
Numa, lo terrà o non terrà, secondo che i tempi o la fortuna gli girerà sotto;
ma chi somiglierà Romolo, e fia come esso armato di prudenza e d'armi, lo terrà
in ogni modo, se da una ostinata ed eccessiva forza non gli è tolto. E
certamente si può stimare che, se Roma sortiva per terzo suo re un uomo che non
sapesse con le armi renderle la sua riputazione non arebbe mai poi, o con
grandissima difficultà, potuto pigliare piede, né fare quegli effetti ch'ella
fece. E così, in mentre che la visse sotto i re la portò questi pericoli di
rovinare sotto uno re o debole o malvagio.
20
Dua
continove successioni di principi virtuosi fanno grandi effetti; e come le
republiche bene ordinate hanno di necessità virtuose successioni, e però gli
acquisti ed augumenti loro sono grandi.
Poiché
Roma ebbe cacciati i re, mancò di quelli pericoli, i quali di sopra sono detti
che la portava succedendo in lei uno re o debole o cattivo. Perché la somma
dello imperio si ridusse ne' consoli, i quali, non per eredità o per inganni o
per ambizione violenta, ma per suffragi liberi venivano a quello imperio, ed
erono sempre uomini eccellentissimi: de' quali godendosi Roma la virtù, e la
fortuna di tempo in tempo, poté venire a quella sua ultima grandezza in
altrettanti anni che la era stata sotto i re. Perché si vede, come due
continove successioni di principi virtuosi sono sufficienti ad acquistare il
mondo: come furano Filippo di Macedonia ed Alessandro Magno. Il che tanto più debba
fare una republica, avendo per il modo dello eleggere non solamente due
successioni ma infiniti principi virtuosissimi che sono l'uno dell'altro
successori: la quale virtuosa successione fia sempre in ogni republica bene
ordinata.
21
Quanto
biasimo meriti quel principe e quella republica che manca d'armi proprie.
Debbono
i presenti principi e le moderne republiche, le quali circa le difese ed offese
mancano di soldati propri, vergognarsi di loro medesime; e pensare con lo
esemplo di Tullo, tale difetto essere, non per mancamento di uomini atti alla
milizia, ma per colpa sua, che non han saputo fare i suoi uomini militari.
Perché Tullo, sendo stata Roma in pace quarant'anni, non trovò, succedendo egli
nel regno, uomo che fusse stato mai in guerra: nondimeno, disegnando esso fare
guerra, non pensò valersi né de' Sanniti, né de' Toscani, né di altri che
fussero consueti stare nell'armi, ma diliberò, come uomo prudentissimo, di
valersi de' suoi. E fu tanta la sua virtù, che in un tratto, sotto il suo governo
gli poté fare soldati eccellentissimi. Ed è più vero che alcuna altra verità,
che, se dove è uomini non è soldati, nasce per difetto del principe, e non per
altro difetto o di sito o di natura.
Di
che ce n'è un esemplo freschissimo. Perché ognuno sa, come ne' prossimi tempi
il re d'Inghilterra assaltò il regno di Francia, né prese altri soldati che
popoli suoi; e, per essere stato quel regno più che trenta anni sanza fare
guerra, non aveva né soldati né capitano che avesse mai militato: nondimeno, non
dubitò con quelli assaltare uno regno pieno di capitani e di buoni eserciti, i
quali erano stati continovamente sotto l'armi nelle guerre d'Italia. Tutto
nacque da essere quel re prudente uomo, e quel regno bene ordinato; il quale
nel tempo della pace non intermette gli ordini della guerra.
Pelopida
ed Epaminonda tebani, poiché gli ebbero libera Tebe, e trattala della servitù
dello imperio spartano, trovandosi in una città usa a servire, ed in mezzo di
popoli effeminati; non dubitarono, tanta era la virtù loro, di ridurgli sotto
l'armi, e con quelli andare a trovare alla campagna gli eserciti spartani, e
vincergli: e chi ne scrive, dice come questi duoi in brieve tempo mostrarono
che non solamente in Lacedemonia nascevano gli uomini da guerra, ma in ogni altra
parte dove nascessi uomini, pure che si trovasse chi li sapesse indirizzare
alla milizia, come si vede che Tullo seppe indirizzare i Romani. E Virgilio non
potrebbe meglio esprimere questa opinione, né con altre parole mostrare di
accostarsi a quella, dove dice:
Desidesque movebit
Tullus in arma viros.
22
Quello
che sia da notare nel caso de' tre Orazii romani e tre Curiazii albani.
Tullo
re di Roma, e Mezio, re di Alba, convennero che quello popolo fusse signore
dell'altro, di cui i soprascritti tre uomini vincessero. Furono morti tutti i
Curiazii albani, restò vivo uno degli Orazii romani: e per questo restò Mezio
re albano, con il suo popolo suggetto a' Romani. E tornando quello Orazio
vincitore in Roma, scontrando una sua sorella, che era a uno de' tre Curiazii
morti maritata, che piangeva la morte del marito, l'ammazzò. Donde quello
Orazio per questo fallo fu messo in giudizio, e dopo molte dispute fu libero,
più per li prieghi del padre, che per li suoi meriti. Dove sono da notare tre
cose: l'una, che mai non si debbe con parte delle sue forze arrischiare tutta
la sua fortuna; l'altra, che non mai in una città bene ordinata le colpe con
gli meriti si ricompensano; la terza, che non mai sono i partiti savi, dove si
debba o possa dubitare della inosservanza. Perché, gl'importa tanto a una città
lo essere serva, che mai non si doveva credere che alcuno di quelli re o di
quelli popoli stessero contenti che tre loro cittadini gli avessero sottomessi:
come si vide che volle fare Mezio, il quale, benché subito dopo la vittoria de'
Romani si confessassi vinto, e promettessi la ubbidienza a Tullo, nondimeno
nella prima espedizione che gli ebbero a convenire contro a' Veienti, si vide
come ei cercò d'ingannarlo; come quello che tardi si era avveduto della temerità
del partito preso da lui. E perché di questo terzo notabile se n'è parlato
assai, parlereno solo degli altri due ne' seguenti duoi capitoli.
23
Che
non si debbe mettere a pericolo tutta la fortuna e non tutte le forze; e, per
questo, spesso il guardare i passi è dannoso.
Non
fu mai giudicato partito savio mettere a pericolo tutta la fortuna tua e non
tutte le forze. Questo si fa in più modi. L'uno è faccendo come Tullo e Mezio,
quando e' commissono la fortuna tutta della patria loro, e la virtù di tanti
uomini quanti aveva l'uno e l'altro di costoro negli eserciti suoi alla virtù e
fortuna di tre de' loro cittadini, che veniva a essere una minima parte delle
forze di ciascuno di loro. Né si avvidono, come per questo partito tutta la
fatica che avevano durata i loro antecessori nell'ordinare la republica, per
farla vivere lungamente libera e per fare i suoi cittadini difensori della loro
libertà, era quasi che stata vana, stando nella potenza di sì pochi a perderla.
La quale cosa da quelli re non poté essere peggio considerata.
Cadesi
ancora in questo inconveniente quasi sempre per coloro, che, venendo il nimico,
disegnano di tenere i luoghi difficili, e guardare i passi: perché quasi sempre
questa diliberazione sarà dannosa, se già in quello luogo difficile
commodamente tu non potesse tenere tutte le forze tue. In questo caso, tale
partito è da prendere; ma sendo il luogo aspro, e non vi potendo tenere tutte
le forze, il partito è dannoso. Questo mi fa giudicare così lo esemplo di coloro,
che, essendo assaltati da un inimico potente, ed essendo il paese loro
circundato da' monti e luoghi alpestri, non hanno mai tentato di combattere il
nimico in su' passi ed in su' monti, ma sono iti a rincontrarlo di là da essi;
o, quando non hanno voluto fare questo, lo hanno aspettato dentro a essi monti,
in luoghi benigni e non alpestri. E la cagione ne è stata la preallegata:
perché, non si potendo condurre alla guardia de' luoghi alpestri molti uomini,
sì per non vi potere vivere lungo tempo, sì per essere i luoghi stretti e
capaci di pochi, non è possibile sostenere uno inimico che venga grosso a
urtarti: ed al nimico è facile il venire grosso perché la intenzione sua è
passare, e non fermarsi, ed a chi l'aspetta è impossibile aspettarlo grosso,
avendo ad alloggiarsi per più tempo, non sappiendo quando il nimico voglia
passare in luoghi, come io ho detto, stretti e sterili. Perdendo, adunque, quel
passo che tu ti avevi presupposto tenere, e nel quale i tuoi popoli e lo
esercito tuo confidava, entra il più delle volte ne' popoli e nel residuo delle
genti tua tanto terrore, che, sanza potere esperimentare la virtù d'esse,
rimani perdente; e così vieni a avere perduta tutta la tua fortuna con parte
delle tue forze.
Ciascuno
sa con quanta difficultà Annibale passasse l'alpe che dividono la Lombardia
dalla Francia, e con quanta difficultà passasse quelle che dividono la
Lombardia dalla Toscana: nondimeno i Romani l'aspettarono prima in sul Tesino,
e dipoi nel piano d'Arezzo: e vollon, più tosto, che il loro esercito fusse
consumato da il nimico nelli luoghi dove poteva vincere, che condurlo su per
l'alpe a essere distrutto dalla malignità del sito.
E
chi leggerà sensatamente tutte le istorie, troverrà pochissimi virtuosi
capitani avere tentato di tenere simili passi, e per le ragioni dette, e perché
e' non si possono chiudere tutti, sendo i monti come campagne, ed avendo non
solamente le vie consuete e frequentate, ma molte altre le quali, se non sono
note a' forestieri, sono note a paesani; con l'aiuto de' quali sempre sarai
condotto in qualunque luogo, contro alla voglia di chi ti si oppone. Di che se
ne può addurre uno freschissimo esemplo, nel 1515. Quando Francesco re di
Francia disegnava passare in Italia per la recuperazione dello stato di Lombardia,
il maggior fondamento che facevono coloro ch'erano alla sua impresa contrari,
era che gli Svizzeri lo terrebbono a' passi in su' monti. E, come per
esperienza poi si vidde, quel loro fondamento restò vano: perché, lasciato quel
Re da parte dua o tre luoghi guardati da loro, se ne venne per un'altra via
incognita; e fu prima in Italia, e loro apresso, che lo avessono presentito.
Talché loro sbigottiti si ritirarono in Milano, e tutti i popoli di Lombardia
si accostarono alle genti franciose; sendo mancati di quella opinione avevano,
che i Franciosi devessono essere ritenuti in su' monti.
24
Le
republiche bene ordinate costituiscono premii e pene a' loro cittadini, né
compensono mai l'uno con l'altro.
Erano
stati i meriti di Orazio grandissimi, avendo con la sua virtù vinti i Curiazii:
era stato il fallo suo atroce, avendo morto la sorella: nondimeno dispiacque
tanto tale omicidio a' Romani, che lo condussono a disputare della vita, non
ostante che gli meriti suoi fossero tanto grandi e sì freschi. La quale cosa, a
chi superficialmente la considerasse, parrebbe un esemplo d'ingratitudine
popolare: nondimeno, chi la esamina meglio e con migliore considerazione
ricerca quali debbono essere gli ordini delle republiche, biasimerà quel popolo
più tosto per averlo assoluto che per averlo voluto condannare. E la ragione è
questa, che nessuna republica bene ordinata non mai cancellò i demeriti con gli
meriti de' suoi cittadini; ma avendo ordinati i premii a una buona opera e le
pene a una cattiva ed avendo premiato uno per avere bene operato, se quel
medesimo opera dipoi male, lo gastiga, sanza avere riguardo alcuno alle sue
buone opere. E quando questi ordini sono bene osservati, una città vive libera
molto tempo: altrimenti sempre rovinerà tosto. Perché, se a un cittadino che
abbia fatto qualche egregia opera per la città, si aggiugne, oltre alla
riputazione che quella cosa gli arreca, una audacia e confidenza di poter,
senza temere pena, fare qualche opera non buona, diventerà in brieve tempo
tanto insolente che si risolverà ogni civilità.
È
bene necessario, volendo che sia tenuta la pena per le malvagie opere,
osservare i premii per le buone, come si vide che fece Roma. E benché una
republica sia povera, e possa dare poco, debbe da quel poco non astenersi,
perché sempre ogni piccol dono, dato ad alcuno per ricompenso di bene ancora
che grande, sarà stimato, da chi lo riceve, onorevole e grandissimo. È
notissima la istoria di Orazio Cocle, e quella di Muzio Scevola: come l'uno
sostenne i nimici sopra un ponte, tanto che si tagliasse; l'altro si arse la
mano, che aveva errato, volendo ammazzare Porsenna, re degli Toscani. A costoro
per queste due opere tanto egregie fu donato dal pubblico due staiora di terra
per ciascuno. È nota ancora la istoria di Manlio Capitolino. A costui, per
avere salvato il Campidoglio da' Franciosi che vi erano a campo, fu dato, da
quelli che insieme con lui vi erano assediati dentro, una piccola misura di
farina. Il quale premio, secondo la fortuna che allora correva in Roma fu
grande; e di qualità che, mosso poi Manlio o da invidia o dalla sua cattiva
natura, a fare nascere sedizione in Roma e cercando guadagnarsi il popolo, fu,
sanza rispetto alcuno de' suoi meriti, gittato precipite da quello Campidoglio
che esso prima, con tanta sua gloria, avea salvo.
25
Chi
vuole riformare uno stato anticato in una città libera, ritenga almeno l'ombra
de' modi antichi.
Colui
che desidera o che vuole riformare uno stato d'una città, a volere che sia
accetto, e poterlo con satisfazione di ciascuno mantenere, è necessitato a
ritenere l'ombra almanco de' modi antichi, acciò che a' popoli non paia avere
mutato ordine, ancorché, in fatto, gli ordini nuovi fussero al tutto alieni dai
passati; perché lo universale degli uomini si pascono così di quel che pare
come di quello che è: anzi, molte volte si muovono più per le cose che paiono
che per quelle che sono. Per questa cagione i Romani, conoscendo nel principio
del loro vivere libero questa necessità, avendo in cambio d'uno re creati duoi
consoli, non vollono ch'egli avessono più che dodici littori, per non passare
il numero di quelli che ministravano ai re. Oltre a di questo, faccendosi in
Roma uno sacrificio anniversario, il quale non poteva essere fatto se non dalla
persona del re, e volendo i Romani che quel popolo non avesse a desiderare per
la assenzia degli re alcuna cosa delle antiche; crearono uno capo di detto
sacrificio, il quale loro chiamarono Re Sacrificulo, e sottomessonlo al sommo
Sacerdote: talmente che quel popolo per questa via venne a sodisfarsi di quel
sacrificio, e non avere mai cagione, per mancamento di esso, di disiderare la
ritornata de' re. E questo si debbe osservare da tutti coloro che vogliono
scancellare un antico vivere in una città, e ridurla a uno vivere nuovo e
libero: perché, alterando le cose nuove le menti degli uomini, ti debbi
ingegnare che quelle alterazioni ritenghino più dello antico sia possibile; e
se i magistrati variano, e di numero e d'autorità e di tempo, degli antichi,
che almeno ritenghino il nome. E questo, come ho detto, debbe osservare colui
che vuole ordinare uno vivere politico, o per via di republica o di regno: ma
quello che vuole fare una potestà assoluta, la quale dagli autori è chiamata
tirannide, debbe rinnovare ogni cosa, come nel seguente capitolo si dirà.
26
Uno
principe nuovo, in una città o provincia presa da lui, debbe fare ogni cosa
nuova.
Qualunque
diventa principe o d'una città o d'uno stato, e tanto più quando i fondamenti
suoi fussono deboli e non si volga o per via di regno o di republica alla vita
civile, il megliore rimedio che egli abbia, a tenere quel principato, è, sendo
egli nuovo principe, fare ogni cosa, in quello stato, di nuovo: come è, nelle
città, fare nuovi governi con nuovi nomi, con nuove autorità, con nuovi uomini;
fare i ricchi poveri, i poveri ricchi come fece Davit quando ei diventò re: «qui
esurientes implevit bonis, et divites dimisit inanes»; edificare, oltra di
questo, nuove città, disfare delle edificate, cambiare gli abitatori da un
luogo a un altro; ed in somma, non lasciare cosa niuna intatta in quella
provincia e che non vi sia né grado, né ordine né stato, né ricchezza, che chi
la tiene non la riconosca da te; e pigliare per sua mira Filippo di Macedonia,
padre di Alessandro, il quale, con questi modi, di piccol re, diventò principe
di Grecia. E chi scrive di lui, dice che tramutava gli uomini di provincia in
provincia, come e' mandriani tramutano le mandrie loro. Sono questi modi
crudelissimi, e nimici d'ogni vivere, non solamente cristiano, ma umano; e
debbegli qualunque uomo fuggire, e volere piuttosto vivere privato, che re con
tanta rovina degli uomini; nondimeno, colui che non vuole pigliare quella prima
via del bene, quando si voglia mantenere conviene che entri in questo male. Ma
gli uomini pigliono certe vie del mezzo, che sono dannosissime; perché non
sanno essere né tutti cattivi né tutti buoni: come nel seguente capitolo, per
esemplo, si mosterrà.
27
Sanno
rarissime volte gli uomini essere al tutto cattivi o al tutto buoni.
Papa
Iulio secondo, andando nel 1505 a Bologna, per cacciare di quello stato la casa
de' Bentivogli, la quale aveva tenuto il principato di quella città cento anni,
voleva ancora trarre Giovampagolo Baglioni di Perugia, della quale era tiranno,
come quello che aveva congiurato contro a tutti i tiranni che occupavano le
terre della Chiesa. E pervenuto presso a Perugia con questo animo e
deliberazione, nota a ciascuno, non aspettò di entrare in quella città con lo
esercito suo, che lo guardasse, ma vi entrò disarmato, non ostante vi fusse
drento Giovampagolo con gente assai, quale per difesa di sé aveva ragunata. Sì
che, portato da quel furore con il quale governava tutte le cose, con la
semplice sua guardia si rimisse nelle mani del nimico; il quale dipoi ne menò
seco, lasciando un governatore in quella città, che rendesse ragione per la
Chiesa. Fu notata, dagli uomini prudenti che col papa erano, la temerità del
papa e la viltà di Giovampagolo; né potevono estimare donde si venisse che
quello non avesse, con sua perpetua fama, oppresso ad un tratto il nimico suo,
e sé arricchito di preda, sendo col papa tutti li cardinali, con tutte le loro
delizie. Né si poteva credere si fusse astenuto o per bontà o per conscienza
che lo ritenesse; perché in uno petto d'un uomo facinoroso, che si teneva la
sorella, che aveva morti i cugini e i nipoti per regnare, non poteva scendere
alcun pietoso rispetto: ma si conchiuse, nascesse che gli uomini non sanno
essere onorevolmente cattivi, o perfettamente buoni, e, come una malizia ha in
sé grandezza, o è in alcuna parte generosa, e' non vi sanno entrare. Così
Giovampagolo, il quale non stimava essere incesto e publico parricida, non
seppe, o, a dir meglio, non ardì, avendone giusta occasione, fare una impresa,
dove ciascuno avesse ammirato l'animo suo, e avesse di sé lasciato memoria
eterna, sendo il primo che avesse dimostro a' prelati, quanto sia da stimare
poco chi vive e regna come loro ed avessi fatto una cosa, la cui grandezza
avesse superato ogni infamia, ogni pericolo, che da quella potesse dependere.
28
Per
quale cagione i Romani furono meno ingrati contro agli loro cittadini che gli
Ateniesi.
Qualunque
legge le cose fatte dalle republiche, troverrà in tutte qualche spezie
d'ingratitudine contro a' suoi cittadini: ma ne troverrà meno in Roma che in
Atene, e per avventura in qualunque altra republica. E ricercando la cagione di
questo, parlando di Roma e d'Atene credo accadessi perché i Romani avevano meno
cagione di sospettare de' suoi cittadini, che gli Ateniesi. Perché a Roma,
ragionando di lei dalla cacciata de' Re infino a Silla e Mario, non fu mai
tolta la libertà da alcuno suo cittadino in modo che in lei non era grande
cagione di sospettare di loro, e, per conseguente, di offendergli
inconsideratamente. Intervenne bene ad Atene il contrario; perché, sendogli
tolta la libertà da Pisistrato nel suo più florido tempo, e sotto uno inganno
di bontà; come prima la diventò poi libera, ricordandosi delle ingiurie
ricevute e della passata servitù, diventò prontissima vendicatrice, non
solamente degli errori, ma della ombra degli errori de' suoi cittadini. Quinci
nacque lo esilio e la morte di tanti eccellenti uomini, quinci l'ordine
dell'ostracismo, ed ogni altra violenza che contro a' suoi ottimati in varii
tempi da quella città fu fatta. Ed è verissimo quello che dicono questi
scrittori della civilità: che i popoli mordono più fieramente poi ch'egli hanno
recuperata la libertà, che poi che l'hanno conservata. Chi considererà,
adunque, quanto è detto, non biasimerà in questo Atene, né lauderà Roma; ma ne
accuserà solo la necessità, per la diversità degli accidenti che in queste
città nacquero. Perché si vedrà, chi considererà le cose sottilmente che, se a
Roma fusse stata tolta la libertà come a Atene, non sarebbe stata Roma più pia
verso i suoi cittadini, che si fusse quella. Di che si può fare verissima
coniettura per quello che occorse, dopo la cacciata de' re, contro a Collatino
ed a Publio Valerio: de' quali il primo, ancora che si trovasse a liberare
Roma, fu mandato in esilio non per altra cagione che per tenere il nome de'
Tarquinii; l'altro, avendo solo dato di sé sospetto per edificare una casa in
sul monte Celio, fu ancora per esser fatto esule. Talché si può stimare, veduto
quanto Roma fu in questi due sospettosa e severa, che l'arebbe usata la
ingratitudine come Atene, se da' suoi cittadini come quella, ne' primi tempi ed
innanzi allo augumento suo, fusse stata ingiuriata. E per non avere a tornare
più sopra questa materia della ingratitudine, ne dirò, quello ne occorrerà, nel
seguente capitolo.
29
Quale
sia più ingrato, o uno popolo o uno principe.
Egli
mi pare, a proposito della soprascritta materia, da discorrere quale usi con
maggiori esempli questa ingratitudine, o uno popolo o uno principe. E per
disputare meglio questa parte, dico, come questo vizio della ingratitudine
nasce o dall'avarizia o da il sospetto. Perché, quando o uno popolo o uno
principe ha mandato fuori uno suo capitano in una espedizione importante, dove
quel capitano, vincendola, ne abbi acquistata assai gloria, quel principe o
quel popolo è tenuto allo incontro a premiarlo: e se, in cambio di premio, o e'
lo disonora o e' l'offende, mosso dall'avarizia, non volendo, ritenuto da
questa cupidità, satisfarli; fa uno errore che non ha scusa, anzi si tira
dietro una infamia eterna. Pure si truova molti principi che ci peccono. E
Cornelio Tacito dice, con questa sentenzia, la cagione: «Proclivius est
iniuriae, quam beneficio vicem exsolvere, quia gratia oneri, ultio in questu
habetur». Ma quando ei non lo premia, o, a dir meglio, l'offende, non mosso
da avarizia ma da sospetto, allora merita, e il popolo e il principe, qualche
scusa. E di queste ingratitudini, usate per tale cagione, se ne legge assai:
perché quello capitano il quale virtuosamente ha acquistato uno imperio al suo
signore, superando i nimici, e riempiendo sé di gloria e gli suoi soldati di
ricchezze, di necessità, e con i soldati suoi, e con i nimici, e con i sudditi
propri di quel principe, acquista tanta riputazione, che quella vittoria non
può sapere di buono a quel signore che lo ha mandato. E perché la natura degli
uomini è ambiziosa e sospettosa, e non sa porre modo a nessuna sua fortuna, è
impossibile che quel sospetto che subito nasce nel principe dopo la vittoria di
quel suo capitano, non sia da quel medesimo accresciuto per qualche suo modo o
termine usato insolentemente. Talché il principe non può pensare a altro che
assicurarsene: e, per fare questo, ei pensa o di farlo morire o di torgli la
riputazione, che si ha guadagnata nel suo esercito o ne' suoi popoli; e con
ogni industria mostrare che quella vittoria è nata non per la virtù di quello
ma per fortuna, o per viltà de' nimici, o per prudenza degli altri capi che
sono stati seco in tale fazione.
Poiché
Vespasiano, sendo in Giudea fu dichiarato dal suo esercito imperadore, Antonio
Primo, che si trovava con un altro esercito in Illiria, prese le parti sue, e
vennene in Italia contro a Vitellio, quale regnava a Roma, e virtuosissimamente
ruppe dua eserciti Vitelliani, e occupò Roma, talché Muziano, mandato da
Vespasiano, trovò, per la virtù d'Antonio, acquistato il tutto, e vinta ogni
difficultà. Il premio che Antonio ne riportò, fu che Muziano gli tolse subito
la ubbidienza dello esercito, e a poco a poco lo ridusse in Roma sanza alcuna
autorità: talché Antonio ne andò a trovare Vespasiano, quale era ancora in
Asia, dal quale fu in modo ricevuto, che, in breve tempo, ridotto in nessuno
grado, quasi disperato morì. E di questi esempli ne sono piene le istorie.
Ne'
nostri tempi, ciascuno che al presente vive, sa con quanta industria e virtù
Consalvo Ferrante, militando nel regno di Napoli contro a' Franciosi, per
Ferrando re di Ragona, conquistassi e vincessi quel regno; e come, per premio
di vittoria, ne riportò che Ferrando si partì da Ragona, e, venuto a Napoli, in
prima gli levò la ubbidienza delle genti d'armi, dipoi gli tolse le fortezze,
ed appresso lo menò seco in Spagna; dove, poco tempo poi, inonorato, morì. È
tanto, dunque, naturale questo sospetto ne' principi, che non se ne possono
difendere; ed è impossibile ch'egli usino gratitudine a quelli che con vittoria
hanno fatto, sotto le insegne loro, grandi acquisti. E da quello che non si
difende un principe, non è miracolo, né cosa degna di maggior memoria, se uno
popolo non se ne difende. Perché, avendo una città che vive libera, duoi fini,
l'uno lo acquistare, l'altro il mantenersi libera; conviene che nell'una cosa e
nell'altra per troppo amore erri. Quanto agli errori nello acquistare, se ne
dirà nel luogo suo. Quanto agli errori per mantenersi libera, sono, intra gli
altri, questi: di offendere quegli cittadini che la doverrebbe premiare; avere
sospetto di quegli in cui la si doverrebbe confidare. E benché questi modi in
una republica venuta alla corruzione sieno cagione di gran mali, e che molte
volte piuttosto la viene alla tirannide, come intervenne a Roma di Cesare, che
per forza si tolse quello che la ingratitudine gli negava; nondimeno in una
republica non corrotta sono cagione di gran beni, e fanno che la ne vive
libera; più mantenendosi, per paura di punizione, gli uomini migliori e meno
ambiziosi. Vero è che infra tutti i popoli che mai ebbero imperio, per le
cagioni di sopra discorse, Roma fu la meno ingrata: perché della sua
ingratitudine si può dire che non ci sia altro esemplo che quello di Scipione;
perché Coriolano e Cammillo furono fatti esuli per ingiuria che l'uno e l'altro
avea fatto alla plebe. Ma all'uno non fu perdonato, per aversi sempre riserbato
contro al popolo l'animo inimico; l'altro, non solamente fu richiamato, ma per
tutti i tempi della sua vita adorato come principe. Ma la ingratitudine usata a
Scipione nacque da uno sospetto che i cittadini cominciarono avere di lui, che
degli altri non si era avuto: il quale nacque dalla grandezza del nimico che
Scipione aveva vinto, dalla riputazione che gli aveva data la vittoria di sì
lunga e pericolosa guerra, dalla celerità di essa, dai favori che la gioventù,
la prudenza, e le altre sue memorabili virtudi gli acquistavano. Le quali cose
furono tante, che, non che altro, i magistrati di Roma temevano della sua
autorità: la quale cosa dispiaceva agli uomini savi, come cosa inusitata in
Roma. E parve tanto straordinario il vivere suo, che Catone Prisco, riputato
santo, fu il primo a fargli contro; e a dire che una città non si poteva
chiamare libera, dove era uno cittadino che fusse temuto dai magistrati. Talché
se il popolo di Roma seguì in questo caso la opinione di Catone, merita quella
scusa che di sopra ho detto meritare quegli popoli e quegli principi che per
sospetto sono ingrati. Conchiudendo adunque questo discorso, dico che, usandosi
questo vizio della ingratitudine o per avarizia o per sospetto, si vedrà come i
popoli non mai per avarizia la usarono, e per sospetto assai manco che i
principi, avendo meno cagione di sospettare: come di sotto si dirà.
30
Quali
modi debbe usare uno principe o una republica per fuggire questo vizio della
ingratitudine; e quali quel capitano o quel cittadino per non essere oppresso
da quella.
Uno
principe, per fuggire questa necessità di avere a vivere con sospetto, o essere
ingrato, debbe personalmente andare nelle espedizioni, come facevono nel
principio quegli imperadori romani, come fa ne' tempi nostri il Turco, e come
hanno fatto e fanno quegli che sono virtuosi. Perché, vincendo, la gloria e lo
acquisto è tutto loro, e quando ei non vi sono, sendo la gloria d'altrui, non
par loro potere usare quello acquisto, se non spengano in altrui quella gloria
che loro non hanno saputo guadagnarsi; e diventono ingrati ed ingiusti: e sanza
dubbio è maggiore la loro perdita che il guadagno. Ma quando, o per negligenza
o per poca prudenza, e' si rimangono a casa oziosi, e mandano uno capitano; io
non ho che precetto dare loro, altro che quello che per loro medesimi si sanno.
Ma dico bene a quel capitano, giudicando io che non possa fuggire i morsi della
ingratitudine, che facci una delle due cose: o subito dopo la vittoria lasci lo
esercito, e rimettasi nelle mani del suo principe, guardandosi da ogni atto
insolente o ambizioso, acciocché quello, spogliato d'ogni sospetto, abbia
cagione o di premiarlo o di non lo offendere; o, quando questo non gli paia di
fare, prenda animosamente la parte contraria, e tenga tutti quelli modi per li
quali creda che quello acquisto sia suo proprio e non del principe suo,
faccendosi benivoli i soldati ed i sudditi; e facci nuove amicizie co' vicini,
occupi con li suoi uomini le fortezze, corrompa i principi del suo esercito, e
di quelli che non può corrompere si assicuri; e per questi modi cerchi di
punire il suo signore di quella ingratitudine che esso gli userebbe. Altre vie
non ci sono: ma, come di sopra si disse, gli uomini non sanno essere né al
tutto tristi, né al tutto buoni; e sempre interviene che, subito dopo la
vittoria, lasciare lo esercito non vogliono, portarsi modestamente non possono,
usare termini violenti e che abbiano in sé l'onorevole non sanno; talché,
stando ambigui, intra quella loro dimora ed ambiguità, sono oppressi. Quanto a
una republica, volendo fuggire questo vizio dello ingrato, non si può dare il
medesimo rimedio che al principe; cioè che vadia, e non mandi, nelle
espedizioni sue, sendo necessitata a mandare uno suo cittadino. Conviene,
pertanto, che per rimedio io le dia, che la tenga i medesimi modi che tenne la
Republica romana a essere meno ingrata che l'altre. Il che nacque dai modi del
suo governo. Perché, adoperandosi tutta la città, e gli nobili e gli ignobili,
nella guerra, surgeva sempre in Roma in ogni età tanti uomini virtuosi, ed
ornati di varie vittorie, che il popolo non aveva cagione di dubitare d'alcuno
di loro, sendo assai, e guardando l'uno l'altro. E in tanto si mantenevano
interi e respettivi di non dare ombra di alcuna ambizione né cagione al popolo,
come ambiziosi, l'offendergli, che, venendo alla dittatura quello maggiore
gloria ne riportava che più tosto la diponeva. E così, non potendo simili modi
generare sospetto, non generavano ingratitudine. In modo che, una republica che
non voglia avere cagione d'essere ingrata, si debba governare come Roma, e uno
cittadino che voglia fuggire quelli suoi morsi, debbe osservare i termini
osservati da' cittadini romani.
31
Che
i capitani romani per errore commesso non furano mai istraordinariamente
puniti; né furano mai ancora puniti quando per la ignoranza loro o tristi
partiti presi da loro ne fusse seguiti danni alla republica.
I
Romani non solamente, come di sopra avemo discorso, furano manco ingrati che
l'altre republiche, ma ancora furano più pii e più rispettivi nella punizione
de' loro capitani degli eserciti che alcuna altra. Perché se il loro errore
fusse stato per malizia, e' lo gastigavano umanamente; se gli era per
ignoranza, non che lo punissono, e' lo premiavano ed onoravano. Questo modo del
procedere era bene considerato da loro: perché e' giudicavano che fusse di
tanta importanza, a quelli che governavano gli eserciti loro, lo avere l'animo
libero ed espedito, e sanza altri estrinseci rispetti nel pigliare i partiti,
che non volevono aggiugnere, a una cosa per sé stessa difficile e pericolosa,
nuove difficultà e pericoli; pensando che, aggiugnendoveli, nessuno potessi
essere che operassi mai virtuosamente. Verbigrazia, e' mandavano uno esercito
in Grecia contro a Filippo di Macedonia, o in Italia contro a Annibale, o
contro a quelli popoli che vinsono prima.
Era,
questo capitano che era preposto a tale espedizione, angustiato da tutte quelle
cure che si arrecavano dietro quelle faccende, le quali sono gravi e
importantissime. Ora, se a tali cure si fussi aggiunto più esempli de' Romani
ch'eglino avessono crucifissi o altrimenti morti quelli che avessono perdute le
giornate, egli era inpossibile che quello capitano intra tanti sospetti potessi
deliberare strenuamente. Però, giudicando essi che a questi tali fusse assai
pena la ignominia dello avere perduto, non li vollono con altra maggiore pena
sbigottire. Uno esemplo ci è, quanto allo errore commesso non per ignoranza.
Erano Sergio e Virginio a campo a Veio, ciascuno preposto a una parte dello esercito;
de' quali Sergio era all'incontro donde potevono venire i Toscani, e Virginio
dall'altra parte. Occorse che, sendo assaltato Sergio da' Falisci e da altri
popoli, sopportò di essere rotto e fugato prima che mandare per aiuto a
Virginio. E dall'altra parte Virginio, aspettando che si umiliasse, volle più
tosto vedere il disonore della patria sua e la rovina di quello esercito, che
soccorrerlo. Caso veramente malvagio e degno d'essere notato, e da fare non
buona coniettura della Republica romana, se l'uno o l'altro non fussono stati
gastigati. Vero è che, dove un'altra republica gli averebbe puniti di pena
capitale, quella gli punì in denari. Il che nacque non perché i peccati loro
non meritassono maggiore punizione, ma perché gli Romani vollono in questo
caso, per le ragioni già dette, mantenere gli antichi costumi loro. E quando
agli errori per ignoranza, non ci è il più bello esemplo che quello di Varrone:
per la temerità del quale sendo rotti i Romani a Canne da Annibale, dove quella
Republica portò pericolo della sua libertà; nondimeno, perché vi fu ignoranza e
non malizia, non solamente non lo gastigarono ma lo onorarono; e gli andò
incontro, nella tornata sua in Roma, tutto l'ordine senatorio: e non lo potendo
ringraziare della zuffa, lo ringraziarono ch'egli era tornato in Roma, e non si
era disperato delle cose romane. Quando Papirio Cursore voleva fare morire
Fabio, per avere, contro al suo comandamento, combattuto co' Sanniti; intra le
altre ragioni che dal padre di Fabio erano assegnate contro alla ostinazione
del dittatore, era che il popolo romano in alcuna perdita de' suoi capitani non
aveva fatto mai quello che Papirio nelle vittorie voleva fare.
32
Una
republica o uno principe non debbe differire a beneficare gli uomini nelle sue
necessitadi.
Ancora
che ai Romani succedesse felicemente essere liberali al popolo, sopravvenendo
il pericolo, quando Porsenna venne a assaltare Roma per rimettere i Tarquinii;
dove il Senato, dubitando della plebe, che la non volesse più tosto accettare i
re che sostenere la guerra, per assicurarsene la sgravò delle gabelle del sale,
e d'ogni gravezza, dicendo come i poveri assai operavano in beneficio publico
se ei nutrivono i loro figliuoli; e che per questo beneficio quel popolo si
esponessi a sopportare ossidione, fame e guerra; non sia alcuno che,
confidatosi in questo esemplo, differisca ne' tempi de' pericoli a guadagnarsi
il popolo; però che mai gli riuscirà quello che riuscì ai Romani. Perché
l'universale giudicherà non avere quel bene da te, ma dagli avversari tuoi, e
dovendo temere che, passata la necessità, tu ritolga loro quello che hai
forzatamente loro dato, non arà teco obligo alcuno. E la cagione perché a'
Romani tornò bene questo partito, fu perché lo stato era nuovo, e non per
ancora fermo; e aveva veduto quel popolo, come innanzi si erano fatte leggi in
beneficio suo, come quella dell'appellagione alla plebe; in modo che ei potette
persuadersi che quel bene gli era fatto, non era tanto causato dalla venuta dei
nimici, quanto dalla disposizione del Senato in beneficarli. Oltre a questo, la
memoria dei re era fresca, dai quali erano stati in molti modi vilipesi e
ingiuriati. E perché simili cagioni accaggiono rade volte, occorrerà ancora
rade volte che simili rimedi giovino. Però, debbe qualunque tiene stato, così
republica come principe, considerare innanzi, quali tempi gli possono venire
addosso contrari, e di quali uomini ne' tempi avversi si può avere di bisogno;
e dipoi vivere con loro in quello modo che giudica, sopravvegnente qualunque
caso, essere necessitato vivere. E quello che altrimenti si governa, o principe
o republica, e massime un principe, e poi in sul fatto crede, quando il
pericolo sopravviene, con i beneficii riguadagnarsi gli uomini, se ne inganna:
perché, non solamente non se ne assicura, ma accelera la sua rovina.
33
Quando
uno inconveniente è cresciuto o in uno stato o contro a uno stato, è più
salutifero partito temporeggiarlo che urtarlo.
Crescendo
la Republica romana in riputazione, forze ed imperio, i vicini, i quali prima
non avevano pensato quanto quella nuova republica potesse arrecare loro di
danno, cominciarono, ma tardi, a conoscere lo errore loro; e volendo rimediare
a quello che prima non aveano rimediato, congiurarono bene quaranta popoli
contro a Roma: donde i Romani intra gli altri rimedii soliti farsi da loro
negli urgenti pericoli, si volsono a creare il Dittatore, cioè dare potestà a
uno uomo che sanza alcuna consulta potesse diliberare, e sanza alcuna
appellagione potesse esequire le sue diliberazioni. Il quale rimedio, come
allora fu utile, e fu cagione che vincessero i soprastanti pericoli, così fu
sempre utilissimo in tutti quegli accidenti che, nello augumento dello imperio,
in qualunque tempo surgessono contro alla Republica. Sopra il quale accidente è
da discorrere prima, come, quando uno inconveniente, che surga o in una
republica o contro a una republica, causato da cagione intrinseca o estrinseca,
è diventato tanto grande che e' cominci a fare paura a ciascuno, è molto più
sicuro partito temporeggiarsi con quello, che tentare di estinguerlo. Perché,
quasi sempre, coloro che tentano di ammorzarlo fanno le sue forze maggiori, e
fanno accelerare quel male che da quello si sospettava. E di questi simili
accidenti ne nasce nella republica più spesso per cagione intrinseca che
estrinseca: dove molte volte, o e' si lascia pigliare ad uno cittadino più
forze che non è ragionevole, o e' si comincia a corrompere una legge, la quale
è il nervo e la vita del vivere libero; e lasciasi trascorrere questo errore in
tanto, che gli è più dannoso partito il volere rimediare che lasciarlo seguire.
E tanto è più difficile il conoscere questi inconvenienti quando e' nascono,
quanto e' pare più naturale agli uomini favorire sempre i principii delle cose:
e tali favori possano, più che in alcuna altra cosa, nelle opere che paiano che
abbiano in sé qualche virtù e siano operate da' giovani. Perché se in una
republica si vede surgere uno giovane nobile, quale abbia in sé virtù
istraordinaria, tutti gli occhi de' cittadini si cominciono a voltare verso lui
e concorrere,sanza alcuno rispetto, a onorarlo; in modo che, se in quello è
punto d'ambizione, accozzati i favori che gli dà la natura e questo accidente,
viene subito in luogo che, quando i cittadini si avveggono dello errore loro,
hanno pochi rimedi ad ovviarvi e volendo quegli tanti ch'egli hanno, operarli,
non fanno altro che accelerare la potenza sua. Di questo se ne potrebbe addurre
assai esempli, ma io ne voglio solamente dare uno della città nostra.
Cosimo
de' Medici, dal quale la casa de' Medici in la nostra città ebbe il principio
della sua grandezza, venne in tanta riputazione col favore che gli dette la sua
prudenza e la ignoranza degli altri cittadini, che ei cominciò a fare paura
allo stato, in modo che gli altri cittadini giudicavano l'offenderlo pericoloso
ed il lasciarlo stare così, pericolosissimo. Ma vivendo in quei tempi Niccolò
da Uzzano, il quale nelle cose civili era tenuto uomo espertissimo, ed avendo
fatto il primo errore di non conoscere i pericoli che dalla riputazione di
Cosimo potevano nascere; mentre che visse, non permesse mai che si facesse il
secondo, cioè che si tentasse di volerlo spegnere; giudicando tale tentazione
essere al tutto la rovina dello stato loro; come si vide in fatto, che fu, dopo
la sua morte: perché, non osservando quegli cittadini che rimasono, questo suo
consiglio, si feciono forti contro a Cosimo, e lo cacciorono da Firenze. Donde
ne nacque che la sua parte, per questa ingiuria risentitasi, poco di poi lo
richiamò, e lo fece principe della republica: a il quale grado sanza quella
manifesta opposizione non sarebbe mai potuto salire.
Questo
medesimo intervenne a Roma con Cesare, che, favorita da Pompeio e dagli altri
quella sua virtù, si convertì poco dipoi quel favore in paura: di che fa
testimone Cicerone, dicendo che Pompeio aveva tardi cominciato a temere Cesare.
La quale paura fece che pensarono ai rimedi; e gli rimedi che fecero,
accelerarono la rovina della loro Republica.
Dico,
adunque, che poi che gli è difficile conoscere questi mali quando ei surgano,
causata questa difficultà da uno inganno che ti fanno le cose in principio, è
più savio partito il temporeggiarle poi che le si conoscono, che l'oppugnarle:
perché, temporeggiandole, o per loro medesime si spengono, o almeno il male si
differisce in più lungo tempo. E in tutte le cose debbono aprire gli occhi i
principi che disegnano cancellarle o alle forze ed impeto loro opporsi; di non
dare loro, in cambio di detrimento, augumento; e, credendo sospingere una cosa,
tirarsela dietro, ovvero suffocare una pianta a annaffiarla. Ma si debbano
considerare bene le forze del malore, e quando ti vedi sufficiente a sanare
quello, metterviti sanza rispetto; altrimenti lasciarlo stare, né in alcun modo
tentarlo. Perché interverrebbe, come di sopra si discorre, come intervenne a'
vicini di Roma: ai quali, poiché Roma era cresciuta in tanta potenza, era più
salutifero con gli modi della pace cercare di placarla e ritenerla addietro,
che coi modi della guerra farle pensare ai nuovi ordini e alle nuove difese.
Perché quella loro congiura non fece altro che farli più uniti, più gagliardi,
e pensare a modi nuovi, mediante i quali in più breve tempo ampliarono la
potenza loro. Intra i quali fu la creazione del Dittatore; per lo quale nuovo ordine,
non solamente superarono i soprastanti pericoli ma fu cagione di ovviare a
infiniti mali, ne' quali sanza quello rimedio quella republica sarebbe incorsa.
34
L'autorità
dittatoria fece bene, e non danno, alla Republica romana: e come le autorità
che i cittadini si tolgono, non quelle che sono loro dai suffragi liberi date,
sono alla vita civile perniziose.
E'
sono stati dannati da alcuno scrittore quelli Romani che trovarono in quella
città modo di creare il Dittatore, come cosa che fosse cagione, col tempo,
della tirannide di Roma; allegando, come il primo tiranno che fosse in quella
città la comandò sotto questo titolo dittatorio; dicendo che, se non vi fusse
stato questo Cesare non arebbe potuto sotto alcuno titolo publico adonestare la
sua tirannide. La quale cosa non fu bene, da colui che tiene questa opinione,
esaminata, e fu fuori d'ogni ragione creduta. Perché, e' non fu il nome né il
grado del Dittatore che facesse serva Roma, ma fu l'autorità presa dai
cittadini per la lunghezza dello imperio: e se in Roma fusse mancato il nome
dittatorio, ne arebbono preso un altro; perché e' sono le forze che facilmente
si acquistano i nomi, non i nomi le forze. E si vede che 'l Dittatore, mentre
fu dato secondo gli ordini publici, e non per autorità propria, fece sempre
bene alla città. Perché e' nuocono alle republiche i magistrati che si fanno e
l'autoritadi che si dànno per vie istraordinarie, non quelle che vengono per
vie ordinarie: come si vede che seguì in Roma, in tanto processo di tempo, che
mai alcuno Dittatore fece se non bene alla Republica. Di che ce ne sono ragioni
evidentissime. Prima, perché a volere che un cittadino possa offendere, e
pigliarsi autorità istraordinaria, conviene ch'egli abbia molte qualità, le
quali in una republica non corrotta non può mai avere: perché gli bisogna
essere ricchissimo, ed avere assai aderenti e partigiani, i quali non può avere
dove le leggi si osservano; e quando pure ve gli avessi, simili uomini sono in
modo formidabili, che i suffragi liberi non concorrano in quelli. Oltra di
questo, il Dittatore era fatto a tempo, e non in perpetuo, e per ovviare
solamente a quella cagione mediante la quale era creato; e la sua autorità si
estendeva in potere diliberare per sé stesso circa i rimedi di quello urgente
pericolo, e fare ogni cosa sanza consulta, e punire ciascuno sanza
appellagione: ma non poteva fare cosa che fussi in diminuzione dello stato;
come sarebbe stato tôrre autorità al Senato o al Popolo, disfare gli ordini
vecchi della città, e farne de' nuovi. In modo che, raccozzato il breve tempo
della sua dittatura, e le autorità limitate che egli aveva, ed il popolo romano
non corrotto; era impossibile ch'egli uscisse de' termini suoi, e nocessi alla
città: e per esperienza si vede che sempre mai giovò.
E
veramente, infra gli altri ordini romani, questo è uno che merita essere
considerato e numerato infra quegli che furono cagione della grandezza di tanto
imperio; perché sanza uno simile ordine le cittadi con difficultà usciranno
degli accidenti istraordinari. Perché gli ordini consueti nelle republiche
hanno il moto tardo (non potendo alcuno consiglio né alcuno magistrato per sé
stesso operare ogni cosa, ma avendo in molte cose bisogno l'uno dell'altro, e
perché nel raccozzare insieme questi voleri va tempo) sono i rimedi loro
pericolosissimi, quando egli hanno a rimediare a una cosa che non aspetti
tempo. E però le republiche debbano intra loro ordini avere uno simile modo: e
la Republica viniziana, la quale intra le moderne republiche è eccellente, ha riservato
autorità a pochi cittadini, che ne' bisogni urgenti, sanza maggiore consulta,
tutti d'accordo possino deliberare. Perché, quando in una republica manca uno
simile modo, è necessario, o, servando gli ordini, rovinare, o, per non
ruinare, rompergli. Ed in una republica non vorrebbe mai accadere cosa che con
modi straordinari si avesse a governare. Perché, ancora che il modo
straordinario per allora facesse bene, nondimeno lo esemplo fa male; perché si
mette una usanza di rompere gli ordini per bene, che poi, sotto quel colore, si
rompono per male. Talché mai fia perfetta una republica, se con le leggi sue
non ha provisto a tutto, e ad ogni accidente posto il rimedio, e dato il modo a
governarlo. E però, conchiudendo, dico che quelle republiche, le quali negli
urgenti pericoli non hanno rifugio o al Dittatore o a simili autoritadi, sempre
ne' gravi accidenti rovineranno.
È
da notare in questo nuovo ordine il modo dello eleggerlo, quanto dai Romani fu
saviamente provisto. Perché, sendo la creazione del Dittatore con qualche
vergogna dei Consoli, avendo, di capi della città, a divenire sotto una
ubbidienza come gli altri; e presupponendo che di questo avessi a nascere
isdegno fra' cittadini; vollono che l'autorità dello eleggerlo fosse nei
Consoli: pensando che, quando l'accidente venisse che Roma avesse bisogno di
questa regia potestà, ei lo avessono a fare volentieri e facendolo loro, che
dolesse loro meno. Perché le ferite ed ogni altro male che l'uomo si fa da sé
spontaneamente e per elezione, dolgano di gran lunga meno, che quelle che ti
sono fatte da altrui. Ancora che poi negli ultimi tempi i Romani usassono, in
cambio del Dittatore, di dare tale autorità al Console, con queste parole: «Videat
Consul, ne Respublica quid detrimenti capiat». E per tornare alla materia
nostra, conchiudo, come i vicini di Roma, cercando opprimergli, gli fecerono
ordinare, non solamente a potersi difendere, ma a potere, con più forza, più
consiglio e più autorità, offendere loro.
35
La
cagione perché la creazione in Roma del Decemvirato fu nociva alla libertà di
quella republica, non ostante che fusse creato per suffragi publici e liberi.
E'
pare contrario a quel che di sopra è discorso, che quella autorità che si
occupa con violenza, non quella ch'è data con gli suffragi, nuoce alle
republiche, la elezione dei dieci cittadini creati dal Popolo romano per fare
le leggi in Roma: i quali ne diventarono con il tempo tiranni, e sanza alcuno
rispetto occuparono la libertà di quella. Dove si debbe considerare i modi del
dare l'autorità e il tempo per che la si dà. E quando e' si dia autorità
libera, col tempo lungo, chiamando il tempo lungo uno anno o più, sempre fia
pericolosa, e farà gli effetti o buoni o rei, secondo che siano rei o buoni
coloro a chi la sarà data. E se si considerrà l'autorità che ebbero i Dieci, e
quella che avevano i Dittatori, si vedrà, sanza comparazione, quella de' Dieci
maggiore. Perché, creato il Dittatore, rimanevano i Tribuni, i Consoli, il
Senato, con la loro autorità; né il Dittatore la poteva tôrre loro: e s'egli
avessi potuto privare, uno del Consolato, uno del Senato, ei non poteva
annullare l'ordine senatorio, e fare nuove leggi. In modo che il Senato, i
Consoli, i Tribuni, restando con l'autorità loro, venivano a essere come sua
guardia, a farlo non uscire della via diritta. Ma nella creazione de' Dieci
occorse tutto il contrario: perché gli annullorono i Consoli ed i Tribuni;
dettero loro autorità di fare legge, ed ogni altra cosa, come il Popolo romano.
Talché, trovandosi soli, sanza Consoli, sanza Tribuni, sanza appellagione al
Popolo; e per questo non venendo ad avere chi gli osservasse ei poterono, il
secondo anno, mossi dall'ambizione di Appio, diventare insolenti. E per questo
si debbe notare, che, quando e' si è detto che una autorità, data da' suffragi
liberi, non offese mai alcuna republica, si presuppone che un popolo non si
conduca mai a darla, se non con le debite circunstanze e ne' debiti tempi: ma
quando, o per essere ingannato, o per qualche altra cagione che lo accecasse,
e' si conducesse a darla imprudentemente, e nel modo che il Popolo romano la
dette a' Dieci gl'interverrà sempre come a quello. Questo si prova facilmente,
considerando quali cagioni mantenessero i Dittatori buoni, e quali facessero i
Dieci cattivi; e considerando ancora, come hanno fatto quelle republiche che
sono state tenute bene ordinate, nel dare l'autorità per lungo tempo, come
davano gli Spartani agli loro Re, e come dànno i Viniziani ai loro Duci: perché
si vedrà, all'uno ed all'altro modo di costoro essere poste guardie, che
facevano che ei non potevano usare male quella autorità. Né giova, in questo
caso, che la materia non sia corrotta; perché una autorità assoluta in
brevissimo tempo corrompe la materia e si fa amici e partigiani. Né gli nuoce,
o essere povero, o non avere parenti; perché le ricchezze ed ogni altro favore
subito gli corre dietro: come particularmente nella creazione de' detti Dieci
discorrereno.
36
Non
debbano i cittadini, che hanno avuti i maggiori onori, sdegnarsi de' minori.
Avevano
i Romani fatto Marco Fabio e G. Manilio consoli, e vinta una gloriosissima
giornata contro a' Veienti e gli Etruschi; nella quale fu morto Quinto Fabio,
fratello del consolo, quale lo anno davanti era stato consolo. Dove si debbe
considerare quanto gli ordini di quella città erano atti a farla grande; e
quanto le altre republiche, che si discostono da' modi suoi, s'ingannino.
Perché, ancora che i Romani fossono amatori grandi della gloria, nondimeno non
stimavano così disonorevole ubbidire ora a chi altra volta essi avevano
comandato, e trovarsi a servire in quello esercito del quale erano stati
principi. Il quale costume è contrario alla opinione, ordini e modi de'
cittadini de' tempi nostri: ed in Vinegia è ancora questo errore, che uno
cittadino, avendo avuto un grado grande, si vergogni di accettarne uno minore;
e la città gli consenta che se ne possa discostare. La quale cosa, quando fusse
onorevole per il privato, è al tutto inutile per il publico. Perché più
speranza debbe avere una republica, e più confidare in uno cittadino che da uno
grado grande scenda a governare uno minore che in quello che da uno minore
salga a governare uno maggiore. Perché a costui non può ragionevolmente
credere, se non gli vede uomini intorno, i quali siano di tanta riverenza o di
tanta virtù che la novità di colui possa essere, con il consiglio ed autorità
loro, moderata. E quando in Roma fosse stata la consuetudine quale è a Vinegia
e nell'altre republiche e regni moderni, che chi era stato una volta Consolo
non volesse mai più andare negli eserciti se non Consolo, ne sarebbero nate
infinite cose in disfavore del vivere libero; e per gli errori che arebbon
fatti gli uomini nuovi, e per l'ambizione che loro arebbono potuta usare
meglio, non avendo uomini intorno, nel cospetto de' quali ei temessono errare;
e così sarebbero venuti a essere più sciolti: il che sarebbe tornato tutto in
detrimento publico.
37
Quali
scandoli partorì in Roma la legge agraria: e come fare una legge in una
republica, che riguardi assai indietro, e sia contro a una consuetudine antica
della città, è scandolosissimo.
Egli
è sentenzia degli antichi scrittori, come gli uomini sogliono affliggersi nel
male e stuccarsi nel bene; e come dall'una e dall'altra di queste due passioni
nascano i medesimi effetti. Perché, qualunque volta è tolto agli uomini il
combattere per necessità, combattono per ambizione; la quale è tanto potente
ne' petti umani, che mai, a qualunque grado si salgano, gli abbandona. La
cagione è, perché la natura ha creati gli uomini in modo che possono desiderare
ogni cosa, e non possono conseguire ogni cosa: talché, essendo sempre maggiore
il desiderio che la potenza dello acquistare, ne risulta la mala contentezza di
quello che si possiede, e la poca sodisfazione d'esso. Da questo nasce il
variare della fortuna loro: perché, disiderando gli uomini, parte di avere più,
parte temendo di non perdere lo acquistato, si viene alle inimicizie ed alla
guerra; dalla quale nasce la rovina di quella provincia e la esaltazione di
quell'altra. Questo discorso ho fatto, perché alla Plebe romana non bastò
assicurarsi de' nobili per la creazione de' Tribuni, al quale desiderio fu
costretta per necessità; che lei, subito, ottenuto quello, cominciò a
combattere per ambizione, e volere con la Nobiltà dividere gli onori e le
sustanze, come cosa stimata più dagli uomini. Da questo nacque il morbo che
partorì la contenzione della legge agraria, che infine fu causa della
distruzione della Republica. E perché le republiche bene ordinate hanno a
tenere ricco il publico e gli loro cittadini, poveri, convenne che fusse nella
città di Roma difetto in questa legge: la quale o non fusse fatta nel principio
in modo che la non si avesse ogni dì a ritrattare, o che si differisse tanto in
farla, che fosse scandoloso il riguardarsi indietro o, sendo ordinata bene da
prima, era stata poi dall'uso corrotta, talché in qualunque modo si fusse, mai
non si parlò di questa legge in Roma, che quella città non andasse sottosopra.
Aveva
questa legge due capi principali. Per l'uno si disponeva che non si potesse
possedere per alcuno cittadino più che tanti iugeri di terra; per l'altro, che
i campi di che si privavano i nimici, si dividessono intra il popolo romano.
Veniva pertanto a fare di dua sorte offese ai nobili: perché quegli che possedevano
più beni non permetteva la legge (quali erano la maggiore parte de' nobili), ne
avevano a essere privi, e dividendosi intra la plebe i beni de' nimici, si
toglieva a quegli la via dello arricchire. Sicché, venendo a essere queste
offese contro a uomini potenti, e, che pareva loro, contrastandola, difendere
il publico, qualunque volta, come è detto, si ricordava, andava sottosopra
tutta quella città: e i nobili con pazienza ed industria la temporeggiavano o
con trarre fuora uno esercito o che a quel Tribuno che la proponeva si
opponesse un altro Tribuno, o talvolta cederne parte, ovvero mandare una
colonia in quel luogo che si avesse a distribuire: come intervenne del contado
di Anzio, per il quale surgendo questa disputa della legge, si mandò in quel
luogo una colonia, tratta di Roma, alla quale si consegnasse detto contado.
Dove Tito Livio usa un termine notabile, dicendo che con difficultà si trovò in
Roma chi desse il nome per ire in detta colonia: tanto era quella plebe più
pronta a volere desiderare le cose in Roma, che a possederle in Anzio. Andò
questo omore di questa legge, così, travagliandosi un tempo, tanto che gli
Romani cominciarono a condurre le loro armi nelle estreme parti di Italia, o
fuori di Italia; dopo al quale tempo parve che la cessassi. Il che nacque
perché i campi che possedevano i nimici di Roma essendo discosti agli occhi
della plebe, ed in luogo dove non gli era facile il cultivargli, veniva a
essere meno desiderosa di quegli: e ancora i Romani erano meno punitori de'
loro nimici in simil modo; e quando pure spogliavano alcuna terra del suo
contado, vi distribuivano colonie. Tanto che, per tali cagioni, questa legge
stette come addormentata infino ai Gracchi; da' quali essendo poi svegliata,
rovinò al tutto la libertà romana; perché la trovò raddoppiata la potenza de'
suoi avversari, e si accese, per questo, tanto odio intra la Plebe ed il
Senato, che si venne nelle armi ed al sangue, fuori d'ogni modo e costume
civile. Talché, non potendo i publici magistrati rimediarvi, né sperando più
alcuna delle fazioni in quegli, si ricorse ai rimedi privati, e ciascuna delle
parti pensò di farsi uno capo che la difendesse. Prevenne in questo scandolo e
disordine la plebe, e volse la sua riputazione a Mario tanto che la lo fece
quattro volte consule; ed in tanto continovò con pochi intervalli il suo
consolato, che si potette per sé stesso far consulo tre altre volte. Contro
alla quale peste non avendo la Nobilità alcuno rimedio, si volse a favorire
Silla; e fatto, quello, capo della parte sua, vennero alle guerre civili; e,
dopo molto sangue e variare di fortuna, rimase superiore la Nobilità.
Risuscitarono poi questi omori a tempo di Cesare e di Pompeio; perché, fattosi
Cesare capo della parte di Mario, e Pompeio di quella di Silla, venendo alle
mani, rimase superiore Cesare: il quale fu primo tiranno in Roma; talché mai fu
poi libera quella città.
Tale,
adunque, principio e fine ebbe la legge agraria. E benché noi mostrassimo
altrove, come le inimicizie di Roma intra il Senato e la Plebe mantenessero
libera Roma, per nascerne, da quelle, leggi in favore della libertà, e per
questo paia disforme a tale conclusione il fine di questa legge agraria; dico
come, per questo, io non mi rimuovo da tale opinione: perché gli è tanta
l'ambizione de' grandi, che, se per varie vie ed in vari modi ella non è in una
città sbattuta, tosto riduce quella città alla rovina sua. In modo che, se la
contenzione della legge agraria penò trecento anni a fare Roma serva, si
sarebbe condotta, per avventura, molto più tosto in servitù quando la plebe, e
con questa legge e con altri suoi appetiti, non avesse sempre frenato
l'ambizione de' nobili. Vedesi per questo ancora, quanto gli uomini stimano più
la roba che gli onori. Perché la Nobilità romana sempre negli onori cede sanza
scandoli straordinari alla plebe; ma come si venne alla roba fu tanta la
ostinazione sua nel difenderla, che la plebe ricorse, per isfogare l'appetito
suo, a quegli straordinari che di sopra si discorrono. Del quale disordine
furono motori i Gracchi, de' quali si debbe laudare più la intenzione che la
prudenzia. Perché, a volere levar via uno disordine cresciuto in una republica,
e per questo fare una legge che riguardi assai indietro, è partito male
considerato; e, come di sopra largamente si discorse, non si fa altro che
accelerare quel male, a che quel disordine ti conduce: ma, temporeggiandolo, o
il male viene più tardo, o per sé medesimo col tempo avanti che venga al fine
suo, si spegne.
38
Le
republiche deboli sono male risolute e non si sanno diliberare; e se le
pigliano mai alcun partito, nasce più da necessità che da elezione.
Essendo
in Roma una gravissima pestilenza, e parendo per questo agli Volsci ed agli
Equi che fusse venuto il tempo di potere oppressare Roma, fatto questi due
popoli uno grossissimo esercito, assaltarono i Latini e gli Ernici; e guastando
il loro paese, furono costretti i Latini e gli Ernici farlo intendere a Roma, e
pregare che fossero difesi da' Romani: ai quali, sendo i Romani gravati dal
morbo, risposero che pigliassero partito di difendersi da loro medesimi e con
le loro armi, perché essi non gli potevano difendere. Dove si conosce la
generosità e prudenza di quel Senato, e come sempre in ogni fortuna volle essere
quello che fusse principe delle diliberazioni che avessero a pigliare i suoi;
né si vergognò mai diliberare una cosa che fusse contraria al suo modo di
vivere o ad altre diliberazioni fatte da lui, quando la necessità gliene
comandava.
Questo
dico, perché altre volte il medesimo Senato aveva vietato ai detti popoli
l'armarsi e difendersi; talché a uno Senato meno prudente di questo sarebbe
paruto cadere del grado suo a concedere loro tale difensione. Ma quello sempre
giudicò le cose come si debbano giudicare, e sempre prese il meno reo partito
per migliore: perché male gli sapeva non potere difendere i suoi sudditi, male
gli sapeva che si armassero sanza loro, per le ragioni dette e per molte altre
che s'intendano: nondimeno, conoscendo che si sarebbono armati, per necessità,
a ogni modo, avendo il nimico addosso; prese la parte onorevole, e volle che
quello che gli aveano a fare, lo facessero con licenza sua, acciocché, avendo
disubbidito per necessità, non si avvezzassero a disubbidire per elezione. E benché
questo paia partito che da ciascuna republica dovesse essere preso,
nientedimeno le republiche deboli e male consigliate non gli sanno pigliare, né
si sanno onorare di simili necessità. Aveva il duca Valentino presa Faenza, e
fatto calare Bologna agli accordi suoi. Dipoi, volendo tornarsene a Roma per la
Toscana, mandò in Firenze uno suo uomo a domandare il passo per sé e per lo
esercito suo. Consultossi in Firenze come si avesse a governare questa cosa, né
fu mai consigliato per alcuno di concedergliene. In che non si seguì il modo
romano: perché, sendo il Duca armatissimo, ed i Fiorentini in modo disarmati
che non gli potevan vietare il passare, era molto più onore loro, che paresse
che passasse con volontà di quegli, che a forza; perché, dove vi fu al tutto il
loro vituperio, sarebbe stato in parte minore quando l'avessero governata
altrimenti. Ma la più cattiva parte che abbiano le republiche deboli, è essere
inresolute; in modo che tutti i partiti che le pigliono, gli pigliono per
forza; e se vien loro fatto alcun bene, lo fanno forzate, e non per prudenza
loro.
Io
voglio dare di questo due altri esempli, occorsi ne' tempi nostri, nello stato
della nostra città.
Nel
1500, ripreso che il re Luigi XII di Francia ebbe Milano, desideroso di
rendervi Pisa, per avere cinquantamila ducati che gli erano stati promessi da'
Fiorentini dopo tale restituzione, mandò gli suoi eserciti verso Pisa,
capitanati da monsignore di Beumonte; benché francese, nondimanco uomo in cui i
Fiorentini assai confidavano. Condussesi questo esercito e questo capitano
intra Cascina e Pisa, per andare a combattere le mura; dove dimorando alcuno
giorno per ordinarsi alla espugnazione, vennono oratori Pisani a Beumonte, e
gli offerirono di dare la città allo esercito francese con questi patti: che,
sotto la fede del re, promettesse non la mettere in mano de' Fiorentini, prima
che dopo quattro mesi. Il quale partito fu da' Fiorentini al tutto rifiutato,
in modo che si seguì nello andarvi a campo e partirsene con vergogna. Né fu
rifiutato il partito per altra cagione che per diffidare della fede del re;
come quegli che per debolezza di consiglio si erano per forza messi nelle mani
sue, e, dall'altra parte, non se ne fidavano, ne vedevano quanto era meglio che
il re potesse rendere loro Pisa sendovi dentro, e, non la rendendo, scoprire
l'animo suo, che, non la avendo, poterla loro promettere, e loro essere forzati
comperare quelle promesse. Talché, molto più utilmente arebbono fatto a
acconsentire che Beumonte l'avessi, sotto qualunque promessa, presa: come se ne
vide la esperienza dipoi nel 1502, che, essendosi ribellato Arezzo, venne ai
soccorsi de' Fiorentini mandato da il re di Francia monsignor Imbalt con gente
francese; il quale, giunto propinquo ad Arezzo, dopo poco tempo cominciò a praticare
accordo con gli Aretini, i quali sotto certa fede volevon dare la terra, a
similitudine de' Pisani. Fu rifiutato in Firenze tale partito; il che veggendo
monsignor Imbalt, e parendogli come i Fiorentini se ne intendessero poco,
cominciò a tenere le pratiche dello accordo da sé, sanza partecipazione de'
Commessari: tanto che ei lo conchiuse a suo modo, e, sotto quello, con le sue
genti se n'entrò in Arezzo, faccendo intendere ai Fiorentini come egli erano
matti, e non s'intendevano delle cose del mondo: che, se volevano Arezzo, lo
facessero intendere a il re, il quale lo poteva dare loro molto meglio, avendo
le sua gente in quella città, che fuori. Non si restava in Firenze di lacerare
e biasimare detto Imbalt; né si restò mai infino a tanto che si conobbe che, se
Beumonte fosse stato simile a Imbalt, si sarebbe avuto Pisa come Arezzo.
E
così, per tornare a proposito, le republiche inresolute non pigliono mai
partiti buoni, se non per forza, perché la debolezza loro non le lascia mai
deliberare dove è alcuno dubbio; e se quel dubbio non è cancellato da una
violenza che le sospinga, stanno sempre mai sospese.
39
In
diversi popoli si veggano spesso i medesimi accidenti.
E'
si conosce facilmente, per chi considera le cose presenti e le antiche, come in
tutte le città ed in tutti i popoli sono quegli medesimi desiderii e quelli
medesimi omori, e come vi furono sempre. In modo che gli è facil cosa, a chi
esamina con diligenza le cose passate, prevedere in ogni republica le future, e
farvi quegli rimedi che dagli antichi sono stati usati; o, non ne trovando
degli usati, pensarne de' nuovi, per la similitudine degli accidenti. Ma perché
queste considerazioni sono neglette, o non intese da chi legge, o, se le sono
intese, non sono conosciute da chi governa; ne seguita che sempre sono i
medesimi scandoli in ogni tempo.
Avendo
la città di Firenze, dopo il 94, perso parte dello imperio suo, come Pisa ed
altre terre, fu necessitata fare guerra a coloro che le occupavano. E perché
chi le occupava era potente, ne seguiva che si spendeva assai nella guerra,
sanza alcun frutto; dallo spendere assai, ne risultava assai gravezze; dalle
gravezze, infinite querele del popolo: e perché questa guerra era amministrata
da uno magistrato di dieci cittadini che si chiamavano i Dieci della guerra,
l'universale cominciò a recarselo in dispetto, come quello che fusse cagione e
della guerra e delle spese d'essa; e cominciò a persuadersi che, tolto via
detto magistrato, fusse tolto via la guerra, tanto che, avendosi a rifare, non se
gli fecero gli scambi; e lasciatosi spirare, si mandarono le azioni sue alla
Signoria. La quale diliberazione fu tanto perniziosa, che, non solamente non
levò la guerra, come lo universale si persuadeva, ma, tolto via quegli uomini
che con prudenza l'amministravano, ne seguì tanto disordine, che, oltre a Pisa,
si perdé Arezzo e molti altri luoghi: in modo che, ravvedutosi il popolo dello
errore suo, e come la cagione del male era la febbre e non il medico, rifece il
magistrato de' Dieci. Questo medesimo omore si levò in Roma contro al nome de'
Consoli: perché veggendo quello popolo nascere l'una guerra dall'altra, e non
poter mai riposarsi; dove e' dovevano pensare che la nascessi dall'ambizione
de' vicini che gli volevano opprimere, pensavano nascessi dall'ambizione de'
nobili, che, non potendo dentro in Roma gastigare la Plebe difesa dalla potestà
tribunizia, la volevon condurre fuora di Roma sotto i Consoli, per oppressarla
dove la non aveva aiuto alcuno. E pensarono, per questo, che fusse necessario o
levar via i Consoli, o regolare in modo la loro potestà, che e' non avessono
autorità sopra il popolo né fuori né in casa. Il primo che tentò questa legge,
fu uno Terentillo tribuno; il quale proponeva che si dovessero creare cinque
uomini che dovessero considerare la potenza de' Consoli, e limitarla. Il che
alterò assai la Nobilità, parendogli che la maiestà dello imperio fusse al
tutto declinata, talché alla Nobilità non restasse più alcun grado in quella
Republica. Fu nondimeno tanta l'ostinazione de' Tribuni, che 'l nome consolare
si spense; e furono in fine contenti, dopo qualche altro ordine, più tosto
creare Tribuni con potestà consolare, che Consoli: tanto avevano più in odio il
nome che l'autorità loro. E così seguitarono lungo tempo, infine che, conosciuto
l'errore loro, come i Fiorentini ritornarono a' Dieci, così loro ricreorno i
Consoli.
40
La
creazione del Decemvirato in Roma, e quello che in essa è da notare: dove si
considera, intra molte altre cose, come si può o salvare, per simile accidente,
o oppressare una republica.
Volendo
discorrere particularmente sopra gli accidenti che nacquero in Roma per la
creazione del Decemvirato, non mi pare soperchio narrare, prima, tutto quello
che seguì per simile creazione, e dopo disputare quelle parti che sono, in esse
azioni, notabili: le quali sono molte e di grande considerazione, così per
coloro che vogliono mantenere una republica libera, come per quelli che
disegnassono sottometterla. Perché in tale discorso si vedrà, molti errori
fatti dal Senato e dalla plebe in disfavore della libertà; e molti errori fatti
da Appio, capo del Decemvirato, in disfavore di quella tirannide che egli si
aveva presupposto stabilire in Roma. Dopo molte disputazioni e contenzioni
seguite intra il Popolo e la Nobilità per fermare nuove leggi in Roma, per le
quali si stabilisse più la libertà di quello stato, mandarono, d'accordo,
Spurio Pestumio, con duoi altri Cittadini, a Atene, per gli esempli di quelle
leggi che Solone dette a quella città, acciocché sopra quelle potessono fondare
le leggi romane. Andati e tornati costoro, si venne alla creazione degli uomini
che avessero ad esaminare e fermare dette leggi; e crearono dieci cittadini per
uno anno, intra i quali fu creato Appio Claudio, uomo sagace ed inquieto. E
perché e' potessono, sanza alcun rispetto, creare tali leggi, si levarono di
Roma tutti gli altri magistrati, ed in particulare i Tribuni ed i Consoli, e
levossi lo appello al Popolo; in modo che tale magistrato veniva a essere al
tutto principe di Roma. Appresso ad Appio si ridusse tutta l'autorità degli
altri suoi compagni, per i favori che gli faceva la Plebe; perché egli s'era
fatto in modo popolare con le dimostrazioni, che pareva maraviglia ch'egli
avesse preso sì presto una nuova natura e uno nuovo ingegno, essendo stato
tenuto, innanzi a questo tempo, uno crudele perseguitatore della plebe.
Governaronsi
questi Dieci assai civilmente, non tenendo più che dodici littori, i quali
andavano davanti a quello ch'era infra loro proposto. E benché gli avessono
l'autorità assoluta, nondimeno, avendosi a punire uno cittadino romano per
omicida, lo citorno nel cospetto del popolo, e da quello lo fecero giudicare.
Scrissero le loro leggi in dieci tavole; ed avanti che le confermassero, le
messono in publico, acciocché ciascuno le potesse leggere e disputarle;
acciocché si conoscesse se vi era alcun difetto, per poterle innanzi alla
confermazione loro emendare. Fece, in su questo, Appio nascere un romore per
Roma, che, se a queste dieci tavole se ne aggiugnesse due altre, si darebbe a
quelle la loro perfezione; talché questa opinione dette occasione al popolo di
rifare i Dieci per un altro anno: a che il popolo s'accordò volentieri, sì
perché i Consoli non si rifacessono, sì perché e' pareva loro potere stare
sanza Tribuni, sendo loro giudici delle cause, come disopra si disse. Preso,
dunque, partito di rifarli, tutta la Nobilità si mosse a cercare questi onori;
ed intra i primi era Appio; ed usava tanta umanità verso la plebe nel
domandarlo, che la cominciò a essere sospetta a' suoi compagni: «credebant
enim haud gratuitam in tanta superbia comitatem fore». E dubitando di
opporsegli apertamente, deliberarono farlo con arte, e benché e' fusse minore
di tempo di tutti dettono a lui autorità di proporre i futuri Dieci al popolo,
credendo ch'egli osservassi i termini degli altri di non proporre sé medesimo,
sendo cosa inusitata e ignominiosa in Roma. «Ille vero impedimentum pro
occasione arripuit» e nominò sé intra i primi, con maraviglia e dispiacere
di tutti i nobili; nominò dipoi nove altri, a suo proposito. La quale nuova
creazione, fatta per uno altro anno, cominciò a mostrare al Popolo ed alla
Nobilità lo errore suo. Perché subito «Appius finem fecit ferendae alienae
personae»; e cominciò a mostrare la innata sua superbia, ed in pochi dì
riempié de' suoi costumi i suoi compagni. E per isbigottire il popolo ed il
Senato in cambio di dodici littori, ne feciono cento venti.
Stette
la paura equale qualche giorno; ma cominciarono poi a intrattenere il Senato, e
batter la plebe: e se alcuno battuto dall'uno, appellava all'altro, era peggio
trattato nell'appellagione che nella prima sentenzia. In modo che la Plebe,
conosciuto lo errore suo, cominciò piena di afflizione a riguardare in viso i
nobili, «et inde libertatis captare auram, unde servitutem timendo, in eum
statum rempublicam adduxerunt». E alla Nobilità era grata questa loro
afflizione, «ut ipsi, taedio praesentium, Consules desiderarent».
Vennono i dì che terminavano l'anno: le due tavole delle leggi erano fatte, ma
non publicate. Da questo i Dieci presono occasione di continovare nel
magistrato; e cominciarono a tenere con violenza lo stato, e farsi satelliti
della gioventù nobile, alla quale davono i beni di quegli che loro
condennavano. «Quibus donis juventus corrumpebatur et malebat
licentiam suam, quam omnium libertatem». Nacque in questo tempo, che i Sabini ed i
Volsci mossero guerra a' Romani; in su la quale paura cominciarono i Dieci a
vedere la debolezza dello stato loro, perché sanza il Senato non potevono
ordinare la guerra, e, ragunando il Senato, pareva loro perdere lo stato. Pure,
necessitati, presono questo ultimo partito; e ragunati i senatori insieme,
molti de' senatori parlarono contro alla superbia de' Dieci, e in particulare
Valerio ed Orazio: e l'autorità loro si sarebbe al tutto spenta, se non che il
Senato, per invidia della Plebe, non volle mostrare l'autorità sua pensando
che, se i Dieci deponevano il magistrato voluntari, che potesse essere che i
Tribuni della plebe non si rifacessero.
Deliberossi
dunque la guerra uscissi fuori con dua eserciti guidati da parte di detti
Dieci; Appio rimase a governare la città. Donde nacque che si innamorò di
Virginia, e che, volendola tôrre per forza, il padre Virginio, per liberarla,
l'ammazzò: donde seguirono i tumulti di Roma e degli eserciti: i quali
riduttisi insieme con il rimanente della plebe romana, se ne andarono nel Monte
Sacro, dove stettero tanto che i Dieci deposono il magistrato, e che furono
creati i Tribuni ed i Consoli, e ridotta Roma nella forma della sua antica
libertà.
Notasi
adunque, per questo testo, in prima, essere nato in Roma questo inconveniente
di creare questa tirannide per quelle medesime cagioni che nascano la maggior
parte delle tirannidi nelle città: e questo è da troppo desiderio del popolo,
d'essere libero, e da troppo desiderio de' nobili, di comandare. E quando e'
non convengano a fare una legge in favore della libertà, ma gettasi qualcuna
delle parti a favorire uno, allora è che subito la tirannide surge. Convennono il
popolo ed i nobili di Roma a creare i Dieci, e crearli con tanta autorità, per
il desiderio che ciascuna delle parti aveva, l'una di spegnere il nome
consolare, l'altra il tribunizio. Creati che furono, parendo alla plebe che
Appio fusse diventato popolare e battessi la Nobilità, si volse il popolo a
favorirlo. E quando uno popolo si conduce a fare questo errore, di dare
riputazione a uno, perché batta quelli che egli ha in odio, e che quello uno
sia savio, sempre interverrà ch'e' diventerà tiranno di quella città. Perché
egli attenderà, insieme col favore del popolo, a spegnere la Nobilità; e non si
volterà mai alla oppressione del popolo, se non quando e' l'arà spenta; nel
quale tempo, conosciutosi il popolo essere servo, non abbi dove rifuggire.
Questo
modo hanno tenuto tutti coloro che hanno fondato tirannide in le republiche. E
se questo modo avesse tenuto Appio, quella sua tirannide arebbe presa più vita,
e non sarebbe mancata sì presto: ma e' fece tutto il contrario, né si potette
governare più imprudentemente; che, per tenere la tirannide, e' si fece inimico
di coloro che gliele avevano data e che gliele potevano mantenere, ed inimico
di quelli che non erano concorsi a dargliene e che non gliene arebbono potuta
mantenere; e perdessi coloro che gli erano amici, e cercò di avere amici quegli
che non gli potevano essere amici. Perché, ancora che i nobili desiderino
tiranneggiare, quella parte della Nobilità che si truova fuori della tirannide,
è sempre inimica al tiranno; né quello se la può guadagnare mai tutta, per
l'ambizione grande e grande avarizia che è in lei non potendo il tiranno avere
né tante ricchezze né tanti onori che a tutta satisfaccia. E così Appio,
lasciando il popolo ed accostandosi a' nobili, fece uno errore evidentissimo, e
per le ragioni dette di sopra, e perché, a volere con violenza tenere una cosa,
bisogna che sia più potente chi sforza che chi è sforzato.
Donde
nasce che quegli tiranni che hanno amico l'universale ed inimici i grandi, sono
più sicuri, per essere la loro violenza sostenuta da maggiori forze, che quella
di coloro che hanno per inimico il popolo e amica la Nobilità. Perché con
quello favore bastono a conservarsi le forze intrinseche: come bastarono a
Nabide, tiranno di Sparta, quando tutta Grecia e il Popolo romano lo assaltò:
il quale, assicuratosi di pochi nobili, avendo amico il Popolo, con quello si
difese; il che non arebbe potuto fare avendolo inimico. In quello altro grado
per avere pochi amici dentro, non bastono le forze intrinseche, ma gli conviene
cercare di fuora. Ed hanno a essere di tre sorte: l'una satelliti forestieri,
che ti guardino la persona, l'altra armare il contado, che faccia quello
ufficio che arebbe a fare la plebe, la terza accostarsi con vicini potenti che
ti difendino. Chi tiene questi modi e gli osserva bene, ancora ch'egli avesse
per inimico il popolo, potrebbe in qualche modo salvarsi. Ma Appio non poteva
fare questo, di guadagnarsi il contado, sendo una medesima cosa il contado e
Roma: e quel che poteva fare, non seppe: talmente che rovinò ne' primi
principii suoi. Fecero il Senato ed il Popolo in questa creazione del
Decemvirato errori grandissimi: perché, avvenga che di sopra si dica, in quel
discorso che si fa del Dittatore, che quegli magistrati che si fanno da per
loro, non quelli che fa il popolo, sono nocivi alla libertà; nondimeno il
popolo debbe, quando egli ordina i magistrati, fargli in modo che gli abbino
avere qualche rispetto a diventare scelerati. E dove e' si debbe preporre loro
guardia per mantenergli buoni, i Romani la levarono, faccendolo solo magistrato
in Roma, ed annullando tutti gli altri, per la eccessiva voglia (come di sopra
dicemo) che il Senato aveva di spegnere i Tribuni, e la plebe di spegnere i
Consoli; la quale gli accecò in modo, che concorsono in tale disordine. Perché
gli uomini, come diceva il re Ferrando, spesso fanno come certi minori uccelli
di rapina; ne' quali è tanto desiderio di conseguire la loro preda, a che la
natura gl'incita, che non sentono uno altro maggiore uccello che sia loro sopra
per ammazzarli. Conoscesi, adunque, per questo discorso, come nel principio
preposi, lo errore del popolo romano, volendo salvare la libertà, e gli errori
di Appio, volendo occupare la tirannide.
41
Saltare
dalla umiltà alla superbia, dalla piatà alla crudeltà, sanza i debiti mezzi, è
cosa imprudente e inutile.
Oltre
agli altri termini male usati da Appio per mantenere la tirannide, non fu di
poco momento saltare troppo presto da una qualità a un'altra. Perché l'astuzia
sua nello ingannare la plebe simulando d'essere uomo popolare, fu bene usata;
furono ancora bene usati i termini che tenne perché i Dieci si avessono a
rifare; fu ancora bene usata quella audacia di creare sé stesso contro alla
opinione della Nobilità; fu bene usato creare compagni a suo proposito: ma non
fu già bene usato, come egli ebbe fatto questo, secondo che disopra dico,
mutare, in uno subito, natura; e, di amico, mostrarsi inimico alla plebe; di
umano, superbo; di facile, difficile; e farlo tanto presto, che, sanza scusa
niuna, ogni uomo avesse a conoscere la fallacia dello animo suo. Perché chi è
paruto buono un tempo, e vuole a suo proposito diventar cattivo, lo debbe fare
per i debiti mezzi; ed in modo condurvisi con le occasioni, che, innanzi che la
diversa natura ti tolga de' favori vecchi, la te ne abbia dati tanti de' nuovi,
che tu non venga a diminuire la tua autorità: altrimenti, trovandoti scoperto e
sanza amici, rovini.
42
Quanto
gli uomini facilmente si possono corrompere.
Notasi
ancora, in questa materia del Decemvirato, quanto facilmente gli uomini si
corrompono, e fannosi diventare di contraria natura, quantunque buoni e bene
ammaestrati; considerando quanto quella gioventù che Appio si aveva eletta
intorno, cominciò a essere amica della tirannide per uno poco di utilità che
gliene conseguiva; e come Quinto Fabio, uno del numero de' secondi Dieci, sendo
uomo ottimo, accecato da uno poco d'ambizione, e persuaso dalla malignità di
Appio, mutò i suoi buoni costumi in pessimi, e diventò simile a lui. Il che
esaminato bene, farà tanto più pronti i latori di leggi delle republiche o de'
regni a frenare gli appetiti umani, e tôrre loro ogni speranza di potere impune
errare.
43
Quegli
che combattono per la gloria propria, sono buoni e fedeli soldati.
Considerasi
ancora, per il soprascritto trattato, quanta differenzia è da uno esercito
contento e che combatte per la gloria sua, a quello che è male disposto e che
combatte per l'ambizione d'altrui. Perché, dove gli eserciti romani solevano
sempre essere vittoriosi sotto i Consoli, sotto i Decemviri sempre perderono.
Da questo esemplo si può conoscere, in parte, delle cagioni della inutilità de'
soldati mercenari; i quali non hanno altra cagione che gli tenga fermi, che un
poco di stipendio che tu dai loro. La qual cagione non è né può essere bastante
a fargli fedeli, né tanto tuoi amici, che voglino morire per te. Perché in
quegli eserciti che non è un'affezione verso di quello per chi e' combattono,
che gli faccia diventare suoi partigiani, non mai vi potrà essere tanta virtù
che basti a resistere a uno nimico un poco virtuoso. E perché questo amore non
può nascere, né questa gara, da altro che da' sudditi tuoi; è necessario, a
volere tenere uno stato, a volere mantenere una republica o uno regno, armarsi
de' sudditi suoi: come si vede che hanno fatto tutti quelli che con gli
eserciti hanno fatto grandi profitti. Avevano gli eserciti romani sotto i Dieci
quella medesima virtù; ma perché in loro non era quella medesima disposizione,
non facevono gli usitati loro effetti.
Ma
come prima il magistrato de' Dieci fu spento, e che loro come liberi
cominciorono a militare, ritornò in loro il medesimo animo; e per consequente,
le loro imprese avevono il loro fine felice, secondo l'antica consuetudine
loro.
44
Una
moltitudine sanza capo è inutile: e come e' non si debbe minacciare prima, e
poi chiedere l'autorità.
Era
la plebe romana, per lo accidente di Virginia, ridotta armata nel Monte Sacro.
Mandò il Senato suoi ambasciadori a dimandare con quale autorità gli avevano
abbandonati i loro capitani, e ridottosi nel Monte. E tanto era stimata
l'autorità del Senato, che, non avendo la plebe intra loro capi, niuno si
ardiva a rispondere. E Tito Livio dice, che e' non mancava loro materia a
rispondere, ma mancava loro chi facesse la risposta. La qual cosa dimostra
appunto la inutilità d'una moltitudine sanza capo. Il quale disordine fu
conosciuto da Virginio, e per suo ordine si creò venti Tribuni militari, che
fossero loro capi, a rispondere e convenire col Senato. Ed avendo chiesto che
si mandasse loro Valerio ed Orazio, a' quali loro direbbono la voglia loro, non
vi vollono andare se prima i Dieci non deponevano il magistrato: e arrivati
sopra il Monte dove era la Plebe, fu domandato loro da quella, che volevano che
si creassero i Tribuni della Plebe, e che si avesse a appellare al Popolo da
ogni magistrato, e che si dessono loro tutti i Dieci che gli volevono ardere
vivi. Laudarono Valerio ed Orazio le prime loro domande; biasimarono l'ultima
come impia, dicendo: «Crudelitatem damnatis, in crudelitatem ruitis»; e
consigliarongli che dovessono lasciare il fare menzione de' Dieci, e ch'egli
attendessero a ripigliare l'autorità e potestà loro: dipoi non mancherebbe loro
modo a sodisfarsi. Dove apertamente si conosce quanta stultizia e poca prudenza
è domandare una cosa, e dire prima: io voglio fare il tale male con essa;
perché non si debbe mostrare l'animo suo, ma vuolsi cercare di ottenere quel
suo desiderio in ogni modo. Perché e' basta a domandare a uno l'arme, sanza
dire: io ti voglio ammazzare con esse; potendo, poi che tu hai l'arme in mano,
soddisfare allo appetito tuo.
45
È
cosa di malo esemplo non osservare una legge fatta, e massime dallo autore
d'essa; e rinfrescare ogni dì nuove ingiurie in una città, è, a chi la governa,
dannosissimo.
Seguito
lo accordo, e ridotta Roma in l'antica sua forma, Virginio citò Appio innanzi
al Popolo, a difendere la sua causa. Quello comparse accompagnato da molti
nobili: Virginio comandò che fusse messo in prigione. Cominciò Appio a gridare,
ed appellare al Popolo. Virginio diceva che non era degno di avere quella
appellagione che egli aveva distrutta, ed avere per difensore quel Popolo che
egli aveva offeso: Appio replicava, come e' non avevano a violare quella
appellagione che gli aveva con tanto desiderio ordinata. Pertanto egli fu
incarcerato, ed avanti al dì del giudizio ammazzò se stesso. E benché la
scelerata vita di Appio meritasse ogni supplicio, nondimeno fu cosa poco civile
violare le leggi, e tanto più quella che era fatta allora. Perché io non credo
che sia cosa di più cattivo esemplo in una republica, che fare una legge e non
la osservare; e tanto più, quanto la non è osservata da chi l'ha fatta. Essendo
Firenze, dopo al 94, stata riordinata nello stato suo con lo aiuto di frate Girolamo
Savonerola, gli scritti del quale mostrono la dottrina, la prudenza, e la virtù
dello animo suo; ed avendo, intra le altre costituzioni per assicurare i
cittadini, fatto fare una legge, che si potesse appellare al Popolo dalle
sentenzie che, per casi di stato, gli Otto e la Signoria dessono; la quale
legge persuase più tempo, e con difficultà grandissima ottenne; occorse che,
poco dopo la confermazione d'essa, furono condannati a morte dalla Signoria,
per conto di stato, cinque cittadini; e volendo quegli appellare, non furono
lasciati, e non fu osservata la legge. Il che tolse più riputazione a quel
frate, che alcuno altro accidente: perché, se quella appellagione era utile, e'
doveva farla osservare, se la non era utile, non doveva farla vincere. E tanto
più fu notato questo accidente, quanto che il frate, in tante predicazioni che
fece poi che fu rotta questa legge, non mai o dannò chi l'aveva rotta, o lo
scusò; come quello che dannare non la voleva come cosa che gli tornava a
proposito, e scusare non la poteva. Il che avendo scoperto l'animo suo
ambizioso e partigiano, gli tolse riputazione, e dettegli assai carico.
Offende
ancora uno stato assai, rinfrescare ogni dì nello animo de' tuoi cittadini
nuovi umori per nuove ingiurie che a questo e quello si facciano: come
intervenne a Roma dopo il Decemvirato. Perché tutti i Dieci, ed altri cittadini
in diversi tempi, furono accusati e condennati; in modo che gli era uno
spavento grandissimo in tutta la Nobilità, giudicando che e' non si avesse mai
a porre fine a simili condennagioni, fino a tanto che tutta la Nobilità non
fusse distrutta. Ed arebbe generato, in quella città, grande inconveniente, se
da Marco Duellio tribuno non vi fusse stato proveduto; il quale fece uno
editto, che per uno anno non fusse lecito a alcuno citare o accusare alcuno
cittadino romano: il che rassicurò tutta la Nobilità. Dove si vede quanto sia
dannoso a una republica o a un principe, tenere con le continove pene ed offese
sospesi e paurosi gli animi de' sudditi. E sanza dubbio non si può tenere il
più pernizioso ordine: perché gli uomini che cominciono a dubitare di avere a
capitare male, in ogni modo si assicurano ne' pericoli, e diventono più audaci,
e meno respettivi a tentare cose nuove. Però è necessario o non offendere mai alcuno,
o fare le offese a un tratto: e dipoi rassicurare gli uomini, e dare loro
cagione di quietare e fermare l'animo.
46
Li
uomini salgono da una ambizione a un'altra; e prima si cerca non essere offeso,
dipoi si offende altrui.
Avendo
il Popolo romano recuperata la libertà e ritornato nel suo pristino grado ed in
tanto maggiore quanto si erano fatte di molte leggi nuove in confermazione
della sua potenza; pareva ragionevole che Roma qualche volta quietassi.
Nondimeno, per esperienza si vide in contrario; perché ogni dì vi surgeva nuovi
tumulti e nuove discordie. E perché Tito Livio prudentissimamente rende la
ragione donde questo nasceva, non mi pare se non a proposito referire appunto
le sue parole, dove dice che sempre o il Popolo o la Nobilità insuperbiva,
quando l'altro si umiliava; e stando la plebe quieta intra i termini suoi,
cominciarono i giovani nobili a ingiuriarla; ed i Tribuni vi potevon fare pochi
rimedi, perché, loro anche, erano violati. La Nobilità, dall'altra parte,
ancora che gli paresse che la sua gioventù fusse troppo feroce, nonpertanto
aveva a caro che, avendosi a trapassare il modo, lo trapassassono i suoi, e non
la plebe. E così il disiderio di difendere la libertà faceva che ciascuno tanto
si prevaleva ch'egli oppressava l'altro. E l'ordine di questi accidenti è che,
mentre che gli uomini cercono di non temere, cominciono a fare temere altrui; e
quella ingiuria che gli scacciano da loro, la pongono sopra un altro; come se
fusse necessario offendere o essere offeso. Vedesi, per questo, in quale modo,
fra gli altri, le republiche si risolvono, ed in che modo gli uomini salgono da
un'ambizione a un'altra, e come quella sentenza sallustiana, posta in bocca di
Cesare, e verissima: «quod omnia mala exempla bonis initiis orta sunt».
Cercono, come di sopra è detto, quegli cittadini che ambiziosamente vivono in
una republica, la prima cosa, di non potere essere offesi, non solamente dai
privati, ma etiam da' magistrati: cercono, per poter fare questo, amicizie; e
quelle acquistano per vie in apparenza oneste, o con sovvenire di danari, o con
difenderli da' potenti: e perché questo pare virtuoso, inganna facilmente
ciascuno, e per questo non vi si pone rimedi; in tanto che lui, sanza ostaculo
perseverando, diventa di qualità che i privati cittadini ne hanno paura, ed i
magistrati gli hanno rispetto. E quando egli è salito a questo grado, e non si
sia prima ovviato alla sua grandezza, viene a essere in termine, che volerlo
urtare è pericolosissimo, per le ragioni che io dissi, di sopra, del pericolo
ch'è nello urtare un inconveniente che abbi di già fatto assai augumento in una
città: tanto che la cosa si riduce in termine che bisogna, o cercare di
spegnerlo con pericolo d'una subita rovina, o, lasciandolo fare, entrare in una
servitù manifesta, se morte o qualche accidente non te ne libera. Perché,
venuto a' soprascritti termini, che i cittadini e magistrati abbino paura a
offendere lui e gli amici suoi, non dura dipoi molta fatica a fare che
giudichino ed offendino a suo modo. Donde una republica intra gli ordini suoi
debbe avere questo, di vegghiare che i suoi cittadini, sotto ombra di bene non
possino fare male; e ch'egli abbino quella riputazione che giovi, e non nuoca,
alla libertà, come nel suo luogo da noi sarà disputato.
47
Gli
uomini, come che s'ingannino ne' generali, ne' particulari non s'ingannono.
Essendosi
il Popolo romano, come di sopra si disse, recato a noia il nome consolare, e
volendo che potessono essere fatti Consoli uomini plebei, o che fusse diminuita
la loro autorità; la Nobilità, per non maculare l'autorità consolare né con
l'una né con l'altra cosa, prese una via di mezzo, e fu contenta che si creassi
quattro Tribuni con potestà consolare, i quali potessono essere così plebei
come nobili. Fu contenta a questo la plebe, parendole spegnere il Consolato, ed
avere in questo sommo grado la parte sua. Nacquene di questo uno caso notabile:
che, venendosi alla creazione di questi Tribuni, e potendosi creare tutti
plebei, furono dal Popolo romano creati tutti nobili. Onde Tito Livio dice
queste parole: «Quorum comitiorum eventus docuit, alios animos in
contentione libertatis et honoris, alios secundum deposita certamina in
incorrupto iudicio esse». Ed esaminando donde possa procedere questo, credo
proceda che gli uomini nelle cose generali s'ingannono assai, nelle particulari
non tanto. Pareva generalmente alla Plebe romana di meritare il Consolato, per
avere più parte in la città, per portare più pericolo nelle guerre, per essere
quella che con le braccia sue manteneva Roma libera, e la faceva potente. E
parendogli, come è detto, questo suo desiderio ragionevole, volse ottenere
questa autorità in ogni modo. Ma come la ebbe a fare giudicio degli uomini suoi
particularmente, conobbe la debolezza di quegli, e giudicò che nessuno di loro
meritasse quello che tutta insieme gli pareva meritare. Talché, vergognatasi di
loro, ricorse a quegli che lo meritavano. Della quale diliberazione
maravigliandosi meritamente Tito Livio, dice queste parole: «Hanc modestiam
aequitatemque et altitudinem animi, ubi nunc in uno inveneris, quae tunc populi
universi fuit?».
In
confirmazione di questo, se ne può addurre un altro notabile esemplo, seguito
in Capova da poi che Annibale ebbe rotti i Romani a Canne. Per la quale rotta
sendo tutta sollevata Italia, Capova ancora stava per tumultuare, per l'odio
che era intra 'l popolo ed il Senato: e trovandosi in quel tempo nel supremo
magistrato Pacuvio Calano, e conoscendo il pericolo che portava quella città di
tumultuare, disegnò con suo grado riconciliare la Plebe con la Nobilità; e
fatto questo pensiero, fece ragunare il Senato, e narrò loro l'odio che il
popolo aveva contro di loro, ed i pericoli che portavano di essere ammazzati da
quello, e data la città a Annibale, sendo le cose de' Romani afflitte: dipoi
soggiunse che, se volevano lasciare governare questa cosa a lui, farebbe in
modo che si unirebbono insieme; ma gli voleva serrare dentro al palagio, e, col
fare potestà al popolo di potergli gastigare, salvargli. Cederono a questa sua
opinione i Senatori; e quello chiamò il popolo a concione, avendo rinchiuso in
palagio il Senato; e disse com'egli era venuto il tempo che potevano domare la
superbia della Nobilità, e vendicarsi delle ingiurie ricevute da quella,
avendogli rinchiusi tutti sotto la sua custodia: ma perché credeva che loro non
volessono che la loro città rimanessi sanza governo, era necessario, volendo
ammazzare i Senatori vecchi, crearne de' nuovi: e per tanto aveva messo tutti i
nomi de' Senatori in una borsa, e comincerebbe a tragli in loro presenza; e gli
farebbe, i tratti, di mano in mano morire, come prima loro avessono trovato il
successore. E cominciato a trarne uno, fu al nome di quello levato uno romore
grandissimo, chiamandolo uomo superbo, crudele ed arrogante: e chiedendo
Pacuvio che facessono lo scambio, si racchetò tutta la concione; e dopo
alquanto spazio, fu nominato uno della plebe; al nome del quale chi cominciò a
fischiare, chi a ridere, chi a dirne male in uno modo, e chi in uno altro. E
così seguitando di mano in mano, tutti quegli che furono nominati, gli
giudicavano indegni del grado senatorio. Di modo che Pacuvio, preso sopra
questo occasione, disse: Poiché voi giudicate che questa città stia male sanza
il Senato, e, a fare gli scambi a' Senatori vecchi non vi accordate, io penso
che sia bene che voi vi riconciliate insieme; perché questa paura in la quale i
Senatori sono stati, gli arà fatti in modo raumiliare che quella umanità che
voi cercavi altrove, troverrete in loro. Ed accordatisi a questo, ne seguì la
unione di questo ordine; e quello inganno in che egli erano si scoperse, come
e' furno costretti venire a' particulari. Ingannonsi, oltra di questo, i popoli
generalmente nel giudicare le cose e gli accidenti di esse; le quali, dipoi si
conoscono particularmente, mancano di tale inganno.
Dopo
il 1494, sendo stati i principi della città cacciati da Firenze, e non vi
essendo alcuno governo ordinato, ma più tosto una certa licenza ambiziosa, ed
andando le cose publiche di male in peggio; molti popolari, veggendo la rovina
della città, e non ne intendendo altra cagione, ne accusavano la ambizione di
qualche potente che nutrisse i disordini, per potere fare uno stato a suo
proposito, e tôrre loro la libertà; e stavano questi tali per le logge e per le
piazze, dicendo male di molti cittadini, minacciandogli che, se mai si
trovassino de' Signori, scoprirebbero questo loro inganno, e gli
gastigarebbero. Occorreva spesso che di simili ne ascendeva al supremo
magistrato; e come egli era salito in quel luogo, e che vedeva le cose più da
presso, conosceva i disordini donde nascevano, ed i pericoli che soprastavano,
e la difficultà del rimediarvi. E veduto come i tempi, e non gli uomini,
causavano il disordine, diventava subito d'un altro animo, e d'un'altra fatta;
perché la cognizione delle cose particulari gli toglieva via quello inganno che
nel considerarle generalmente si aveva presupposto. Dimodoché, quelli che lo
avevano prima, quando era privato, sentito parlare, e vedutolo poi nel supremo
magistrato stare quieto, credevono che nascessi, non per più vera cognizione
delle cose, ma perché fusse stato aggirato e corrotto dai grandi. Ed accadendo
questo a molti uomini, e molte volte, ne nacque tra loro uno proverbio che
diceva: Costoro hanno uno animo in piazza, ed uno in palazzo. Considerando,
dunque, tutto quello si è discorso, si vede come e' si può fare tosto aprire
gli occhi a' popoli, trovando modo, veggendo che uno generale gl'inganna,
ch'egli abbino a discendere a' particulari; come fece Pacuvio in Capova, ed il
Senato in Roma. Credo ancora, che si possa conchiudere, che mai un uomo
prudente non debba fuggire il giudicio populare nelle cose particulari, circa
le distribuzioni de' gradi e delle dignità: perché solo in questo il popolo non
s'inganna; e se s'inganna qualche volta, fia sì rado, che s'inganneranno più
volte i pochi uomini che avessono a fare simili distribuzioni. Né mi pare
superfluo mostrare, nel seguente capitolo, l'ordine che teneva il Senato per
ingannare il popolo nelle distribuzioni sue.
48
Chi
vuole che uno magistrato non sia dato a uno vile o a uno cattivo, lo facci
domandare o a uno troppo vile e troppo cattivo o a uno troppo nobile e troppo
buono.
Quando
il Senato dubitava che i Tribuni con potestà consolare non fussero fatti
d'uomini plebei, teneva uno de' due modi: o egli faceva domandare ai più
riputati uomini di Roma; o veramente, per i debiti mezzi, corrompeva qualche
plebeio vile ed ignobilissimo, che mescolati con i plebei che, di migliore
qualità, per l'ordinario se lo domandavano, anche loro lo domandassono. Questo
ultimo modo faceva che la plebe si vergognava a darlo; quel primo faceva che la
si vergognava a torlo. Il che tutto torna a proposito del precedente discorso,
dove si mostra che il popolo, se s'inganna de' generali, de' particulari non
s'inganna.
49
Se
quelle cittadi che hanno avuto il principio libero, come Roma, hanno difficultà
a trovare legge che le mantenghino: quelle che lo hanno immediate servo, ne
hanno quasi una impossibilità.
Quanto
sia difficile, nello ordinare una republica, provedere a tutte quelle leggi che
la mantengono libera, lo dimostra assai bene il processo della Republica
romana: dove, non ostante che fussono ordinate di molte leggi da Romolo prima,
dipoi da Numa, da Tullo Ostilio e Servio, ed ultimamente dai dieci cittadini
creati a simile opera; nondimeno sempre nel maneggiare quella città si
scoprivono nuove necessità, ed era necessario creare nuovi ordini: come
intervenne quando crearono i Censori i quali furono uno di quegli provvedimenti
che aiutarono tenere Roma libera, quel tempo che la visse in libertà. Perché,
diventati arbitri de' costumi di Roma, furono cagione potissima che i Romani
differissono più a corrompersi. Feciono bene nel principio della creazione di
tale magistrato uno errore, creando quello per cinque anni; ma, dipoi non molto
tempo, fu corretto dalla prudenza di Mamerco dittatore, il quale per nuova
legge ridusse detto magistrato a diciotto mesi. Il che i Censori, che
vegghiavano ebbero tanto per male, che privarono Mamerco del Senato: la quale
cosa e dalla Plebe e dai Padri fu assai biasimata. E perché la istoria non
mostra che Mamerco se ne potessi difendere, conviene o che lo istorico sia
difettivo, o gli ordini di Roma in questa parte non buoni: perché e' non è bene
che una republica sia in modo ordinata, che uno cittadino per promulgare una
legge conforme al vivere libero, ne possa essere, sanza alcuno rimedio, offeso.
Ma tornando al principio di questo discorso, dico che si debbe, per la
creazione di questo nuovo magistrato, considerare che, se quelle città che
hanno avuto il principio loro libero, e che per sé medesimo si è retto, come
Roma, hanno difficultà grande a trovare leggi buone per mantenerle libere; non
è maraviglia che quelle città che hanno avuto il principio loro immediate
servo, abbino, non che difficultà, ma impossibilità a ordinarsi mai in modo che
le possino vivere civilmente e quietamente. Come si vede che è intervenuto alla
città di Firenze; la quale, per avere avuto il principio suo sottoposto allo
Imperio romano, ed essendo vivuta sempre sotto il governo d'altrui, stette un
tempo abietta, e sanza pensare a sé medesima: dipoi, venuta la occasione di
respirare, cominciò a fare suoi ordini; i quali sendo mescolati con gli
antichi, che erano cattivi, non poterono essere buoni: e così è ita
maneggiandosi, per dugento anni che si ha di vera memoria, sanza avere mai
avuto stato, per il quale la possa veramente essere chiamata republica. E
queste difficultà, che sono state in lei, sono state sempre in tutte quelle
città che hanno avuto i principii simili a lei. E, benché molte volte, per
suffragi pubblici e liberi, si sia data ampla autorità a pochi cittadini di
potere riformarla; non pertanto non mai l'hanno ordinata a comune utilità, ma
sempre a proposito della parte loro: il che ha fatto, non ordine, ma maggiore
disordine in quella città. E per venire a qualche esemplo particulare, dico
come, intra le altre cose che si hanno a considerare da uno ordinatore d'una
republica è esaminare nelle mani di quali uomini ei ponga l'autorità del sangue
contro de' suoi cittadini. Questo era bene ordinato in Roma, perché e' si
poteva appellare al Popolo ordinariamente: e se pure fosse occorso cosa
importante, dove il differire la esecuzione mediante l'appellagione fusse pericoloso,
avevano il refugio del Dittatore, il quale eseguiva immediate; al quale rimedio
non refuggivano mai, se non per necessità. Ma Firenze, e le altre città nate
nel modo di lei, sendo serve, avevano questa autorità collocata in uno
forestiero, il quale, mandato dal principe, faceva tale ufficio. Quando dipoi
vennono in libertà, mantennono questa autorità in uno forestiero, il quale
chiamavono capitano: il che, per potere essere facilmente corrotto da'
cittadini potenti, era cosa perniziosissima. Ma dipoi, mutandosi per la
mutazione degli stati questo ordine, crearono otto cittadini che facessino
l'uffizio di quel capitano. El quale ordine, di cattivo, diventò pessimo, per
le ragioni che altre volte sono dette; che i pochi furono sempre ministri de'
pochi, e de' più potenti. Da che si è guardata la città di Vinegia; la quale ha
dieci cittadini, che, sanza appello, possono punire ogni cittadino. E perché e'
non basterebbono a punire i potenti, ancora che ne avessino autorità, vi hanno
constituito la Quarantia: e di più, hanno voluto che il Consiglio de' Pregai,
che è il Consiglio maggiore, possa gastigargli; in modo che, non vi mancando lo
accusatore, non vi manca il giudice a tenere gli uomini potenti a freno. Non è
adunque maraviglia, veggendo come in Roma, ordinata da sé medesima e da tanti
uomini prudenti, surgevano ogni dì nuove cagioni per le quali si aveva a fare
nuovi ordini in favore del viver libero; se nell'altre città, che hanno più
disordinato principio, vi surgano tante difficultà, che le non si possino
riordinarsi mai.
50
Non
debba uno consiglio o uno magistrato potere fermare le azioni delle città.
Erano
consoli in Roma Tito Quinzio Cincinnato e Gneo Giulio Mento, i quali, sendo
disuniti, avevono ferme tutte le azioni di quella Republica. Il che veggendo il
Senato, gli confortava a creare il Dittatore, per fare quello che per le
discordie loro non potevon fare. Ma i Consoli, discordando in ogni altra cosa,
solo in questo erano d'accordo, di non volere creare il Dittatore. Tanto che il
Senato, non avendo altro rimedio, ricorse allo aiuto de' Tribuni; i quali, con
l'autorità del Senato, sforzarono i Consoli a ubbidire. Dove si ha a notare, in
prima, la utilità del Tribunato; il quale non era solo utile a frenare
l'ambizione che i potenti usavano contro alla Plebe, ma quella ancora ch'egli
usavano infra loro: l'altra, che mai si debbe ordinare in una città, che i
pochi possino tenere alcuna diliberazione di quelle che ordinariamente sono
necessarie a mantenere la republica. Verbigrazia, se tu dài una autorità a uno
consiglio di fare una distribuzione di onori e d'utile, o ad uno magistrato di
amministrare una faccenda; conviene o imporgli una necessità perché ci l'abbia
a fare in ogni modo, o ordinare, quando non la voglia fare egli, che la possa e
debba fare uno altro: altrimenti, questo ordine sarebbe difettivo e pericoloso;
come si vedeva che era in Roma, se alla ostinazione di quegli Consoli non si
poteva opporre l'autorità de' Tribuni. Nella Republica viniziana il Consiglio
grande distribuisce gli onori e gli utili: occorreva alle volte che
l'universalità, per isdegno o per qualche falsa persuasione, non creava i
successori a' magistrati della città, ed a quelli che fuori amministravano lo
imperio loro. Il che era disordine grandissimo: perché in un tratto, e le terre
suddite e la città propria mancavano de' suoi legittimi giudici, né si poteva
ottenere cosa alcuna, se quella universalità di quel Consiglio o non si
soddisfaceva o non si sgannava. Ed avrebbe ridotta questo inconveniente quella
città a mal termine, se dagli cittadini prudenti non vi si fusse proveduto: i
quali, presa occasione conveniente, fecero una legge, che tutti i magistrati
che sono o fusseno dentro e fuori della città, mai vacassero, se non quando
fussono fatti gli scambi e i successori loro. E così si tolse la commodità a
quel Consiglio di potere, con pericolo della republica, fermare le azioni
publiche.
51
Una
republica o uno principe debbe mostrare di fare per liberalità quello a che la
necessità lo constringe.
Gli
uomini prudenti si fanno grado delle cose sempre e in ogni loro azione, ancora
che la necessità gli constringesse a farle in ogni modo. Questa prudenza fu
usata bene dal Senato romano, quando ei diliberò, che si desse il soldo del
publico agli uomini che militavano, essendo consueti militare del loro proprio.
Ma veggendo il Senato come in quel modo non si poteva fare lungamente guerra, e
per questo non potendo né assediare terre né condurre gli eserciti discosto; e
giudicando essere necessario potere fare l'uno e l'altro, deliberò che si
dessono detti stipendi: ma lo feciono in modo che si fecero grado di quello a
che la necessità gli constringeva. E fu tanto accetto alla plebe questo
presente, che Roma andò sottosopra per l'allegrezza, parendole uno beneficio grande,
quale mai speravono di avere, e quale mai per loro medesimi arebbono cerco. E
benché i Tribuni s'ingegnassero di cancellare questo grado, mostrando come ella
era cosa che aggravava, non alleggeriva, la plebe, sendo necessario porre i
tributi per pagare questo soldo: nientedimeno non potevano fare tanto che la
plebe non lo avesse accetto: il che fu ancora augumentato dal Senato per il
modo che distribuivano i tributi, perché i più gravi e i maggiori furono quelli
ch'ei posano alla Nobilità, e gli primi che furono pagati.
52
A
reprimere la insolenzia d'uno che surga in una republica potente, non vi è più
sicuro e meno scandoloso modo, che preoccuparli quelle vie per le quali viene a
quella potenza.
Vedesi,
per il soprascritto discorso, quanto credito acquistasse la Nobilità con la
plebe, per le dimostrazioni lette in beneficio suo, sì del soldo ordinato, sì
ancora del modo del porre i tributi. Nel quale ordine se la Nobilità si fosse
mantenuta, si sarebbe levato via ogni tumulto in quella città, e sarebbesi
tolto ai Tribuni quel credito che gli avevano con la plebe, e, per consequente,
quella autorità. E veramente, non si può in una republica, e massime in quelle
che sono corrotte, con miglior modo, meno scandoloso e più facile, opporsi
all'ambizione di alcuno cittadino, che preoccupandogli quelle vie, per le quali
si vede che esso cammina per arrivare al grado che disegna. Il quale modo se
fusse stato usato contro a Cosimo de' Medici, sarebbe stato miglior partito
assai per gli suoi avversari, che cacciarlo da Firenze: perché, se quegli
cittadini che gareggiavano seco avessero preso lo stile suo, di favorire il
popolo, gli venivano, sanza tumulto e sanza violenza, a trarre di mano quelle
armi di che egli si valeva più. Piero Soderini si aveva fatto riputazione nella
città di Firenze con questo solo, di favorire l'universale; il che nello
universale gli dava riputazione, come amatore della libertà della città. E
veramente, a quegli cittadini che portavano invidia alla grandezza sua, era
molto più facile, ed era cosa molto più onesta, meno pericolosa, e meno dannosa
per la republica, preoccupargli quelle vie con le quali si faceva grande, che
volere contrapporsegli, acciocché con la rovina sua rovinassi tutto il restante
della republica. Perché, se gli avessero levato di mano quelle armi con le
quali si faceva gagliardo (il che potevono fare facilmente), arebbono potuto in
tutti i consigli e in tutte le diliberazioni publiche opporsegli sanza sospetto
e sanza rispetto alcuno. E se alcuno replicasse che, se i cittadini che
odiavano Piero, feciono errore a non gli preoccupare le vie con le quali ei si
guadagnava riputazione nel popolo, Piero ancora venne a fare errore, a non
preoccupare quelle vie per le quali quelli suoi avversari lo facevono temere.
Di che Piero merita scusa, sì perché gli era difficile il farlo, sì perché le
non erano oneste a lui; imperocché le vie con le quali era offeso, erano il
favorire i Medici; con li quali favori essi lo battevano, ed alla fine lo
rovinarono. Non poteva, pertanto, Piero onestamente pigliare questa parte, per
non potere distruggere con buona fama quella libertà, alla quale egli era stato
preposto guardia: dipoi, non potendo questi favori farsi segreti e a un tratto,
erano per Piero pericolosissimi; perché comunche ei si fusse scoperto amico ai
Medici, sarebbe diventato sospetto ed odioso al popolo: donde ai nimici suoi
nasceva molto più commodità di opprimerlo, che non avevano prima.
Debbono,
pertanto, gli uomini in ogni partito considerare i difetti ed i pericoli di
quello, e non gli prendere, quando vi sia più del pericoloso che dell'utile;
nonostante che ne fussi stata data sentenzia conforme alla diliberazione loro.
Perché, faccendo altrimenti, in questo caso interverrebbe a quelli come
intervenne a Tullio; il quale, volendo tôrre i favori a Marc'Antonio, gliene
accrebbe. Perché, sendo Marc'Antonio stato giudicato inimico del Senato, ed
avendo quello grande esercito insieme adunato, in buona parte, de' soldati che
avevano seguitato le parte di Cesare; Tullio, per torgli questi soldati,
confortò il Senato a dare riputazione ad Ottaviano, e mandarlo con Irzio e
Pansa consoli contro a Marc'Antonio: allegando, che, subito che i soldati che
seguivano Marc'Antonio, sentissero il nome di Ottaviano nipote di Cesare, e che
si faceva chiamare Cesare, lascerebbono quello, e si accosterebbono a costui; e
così restato Marc'Antonio ignudo di favori, sarebbe facile lo opprimerlo. La
quale cosa riuscì tutta al contrario; perché Marc'Antonio si guadagnò
Ottaviano; e, lasciato Tullio e il Senato, si accostò a lui. La quale cosa fu
al tutto la distruzione della parte degli ottimati. Il che era facile a
conietturare: né si doveva credere quel che si persuase Tullio, ma tener sempre
conto di quel nome che con tanta gloria aveva spenti i nimici suoi, ed
acquistatosi il principato in Roma; né si doveva credere mai potere, o da suoi
eredi o da suoi fautori, avere cosa che fosse conforme al nome libero.
53
Il
popolo molte volte disidera la rovina sua, ingannato da una falsa spezie di
beni: e come le grandi speranze e gagliarde promesse facilmente lo muovono.
Espugnata
che fu la città de' Veienti, entrò nel popolo romano un'opinione, che fosse
cosa utile per la città di Roma, che la metà de' Romani andasse ad abitare a
Veio; argomentando che, per essere quella città ricca di contado, piena di
edificii e propinqua a Roma, si poteva arricchire la metà de' cittadini romani,
e non turbare per la propinquità del sito nessuna azione civile. La quale cosa
parve al Senato ed a' più savi Romani tanto inutile e tanto dannosa, che
liberamente dicevano, essere più tosto per patire la morte che consentire a una
tale diliberazione. In modo che, venendo questa cosa in disputa, si accese
tanto la plebe contro al Senato, che si sarebbe venuto alle armi ed al sangue,
se il Senato non si fusse fatto scudo di alcuni vecchi ed estimati cittadini,
la riverenza de' quali frenò la plebe, che la non procedé più avanti con la sua
insolenzia. Qui si hanno a notare due cose. La prima che il popolo molte volte,
ingannato da una falsa immagine di bene, disidera la rovina sua; e se non gli è
fatto capace, come quello sia male, e quale sia il bene, da alcuno in chi esso
abbia fede, si porta in le republiche infiniti pericoli e danni. E quando la
sorte fa che il popolo non abbi fede in alcuno, come qualche volta occorre,
sendo stato ingannato per lo addietro o dalle cose o dagli uomini, si viene
alla rovina, di necessità. E Dante dice a questo proposito, nel discorso suo
che fa De Monarchia, che il popolo molte volte grida Viva la sua morte! e Muoia
la sua vita! Da questa incredulità nasce che qualche volta in le republiche i
buoni partiti non si pigliono: come di sopra si disse de' Viniziani, quando,
assaltati da tanti inimici, non poterono prendere partito di guadagnarsene
alcuno con la restituzione delle cose tolte ad altri (per le quali era mosso
loro la guerra, e fatta la congiura de' principi loro contro), avanti che la
rovina venisse.
Pertanto,
considerando quello che è facile o quello che è difficile persuadere a uno
popolo, si può fare questa distinzione: o quel che tu hai a persuadere
rappresenta in prima fronte guadagno, o perdita; o veramente ci pare partito
animoso, o vile. E quando nelle cose che si mettono innanzi al popolo, si vede
guadagno, ancora che vi sia nascosto sotto perdita; e quando e' pare animoso,
ancora che vi sia nascosto sotto la rovina della republica, sempre sarà facile
persuaderlo alla moltitudine: e così fia sempre difficile persuadere quegli
partiti dove apparisse o viltà o perdita, ancora che vi fusse nascosto sotto
salute e guadagno. Questo che io ho detto, si conferma con infiniti esempli,
romani e forestieri, moderni ed antichi. Perché da questo nacque la malvagia
opinione che surse, in Roma, di Fabio Massimo, il quale non poteva persuadere
al Popolo romano, che fusse utile a quella Republica procedere lentamente in
quella guerra, e sostenere sanza azzuffarsi l'impeto d'Annibale; perché quel
popolo giudicava questo partito vile, e non vi vedeva dentro quella utilità vi
era; né Fabio aveva ragioni bastanti a dimostrarla loro: e tanto sono i popoli
accecati in queste opinioni gagliarde, che, benché il Popolo romano avesse
fatto quello errore di dare autorità al Maestro de' cavagli di Fabio, di
potersi azzuffare, ancora che Fabio non volesse; e che per tale autorità il
campo romano fusse per essere rotto, se Fabio con la sua prudenza non vi
rimediava, non gli bastò questa isperienza, che fece di poi consule Varrone, non
per altri suoi meriti che per avere, per tutte le piazze e tutti i luoghi
publici di Roma, promesso di rompere Annibale, qualunque volta gliene fusse
data autorità. Di che ne nacque la zuffa e la rotta di Canne, e presso che la
rovina di Roma. Io voglio addurre, a questo proposito, ancora uno altro esemplo
romano. Era stato Annibale in Italia otto o dieci anni, aveva ripieno di
occisione de' Romani tutta questa provincia, quando venne in Senato Marco
Centenio Penula, uomo vilissimo (nondimanco aveva avuto qualche grado nella
milizia), ed offersesi, che, se gli davano autorità di potere fare esercito
d'uomini volontari in qualunque luogo volesse in Italia, ei darebbe loro, in
brevissimo tempo, preso o morto Annibale. Al Senato parve la domanda di costui
temeraria; nondimeno, ei, pensando, che s'ella se gli negasse e nel popolo si
fusse dipoi saputa la sua chiesta, che non ne nascesse qualche tumulto, invidia
e mal grado contro all'ordine senatorio, gliene concessono: volendo più tosto
mettere a pericolo tutti coloro che lo seguitassono, che fare surgere nuovi
sdegni nel popolo; sapendo quanto simile partito fusse per essere accetto, e
quanto fusse difficile il dissuaderlo. Andò, adunque, costui con una
moltitudine inordinata ed incomposta a trovare Annibale; e non gli fu prima
giunto all'incontro, che fu, con tutti quegli che lo seguitarono, rotto e
morto.
In
Grecia, nella città di Atene, non potette mai Nicia, uomo gravissimo e
prudentissimo, persuadere a quel Popolo che non fusse bene andare a assaltare
Sicilia; talché, presa quella diliberazione contro alla voglia de' savi, ne
seguì al tutto la rovina di Atene. Scipione, quando fu fatto consolo, e che
desiderava la provincia di Africa, promettendo al tutto la rovina di Cartagine,
a che non si accordando il Senato per la sentenzia di Fabio Massimo, minacciò
di proporla nel Popolo, come quello che conosceva benissimo quanto simili
diliberazioni piaccino a' popoli.
Potrebbesi
a questo proposito dare esempli della nostra città; come fu quando messere
Ercole Bentivogli governatore delle genti fiorentine, insieme con Antonio
Giacomini, poiché ebbono rotto Bartolommeo d'Alviano a San Vincenti andarono a
campo a Pisa la quale impresa fu diliberata dal popolo in su le promesse
gagliarde di messere Ercole, ancora che molti savi cittadini la biasimassero:
nondimeno non vi ebbono rimedio, spinti da quella universale volontà, la quale
era fondata in su le promesse gagliarde del governatore. Dico, adunque, come e'
non è la più facile via a fare rovinare una republica dove il popolo abbia
autorità, che metterla in imprese gagliarde; perché, dove il popolo sia di
alcuno momento, sempre fiano accettate, né vi arà, chi sarà d'altra opinione,
alcuno rimedio. Ma se di questo nasce la rovina della città, ne nasce ancora, e
più spesso, la rovina particulare de' cittadini che sono preposti a simili
imprese: perché, avendosi il popolo presupposto la vittoria, come ei viene la
perdita, non ne accusa né la fortuna né la impotenzia di chi ha governato, ma
la malvagità e ignoranza sua; e quello, il più delle volte, o ammazza o
imprigiona o confina: come intervenne a infiniti capitani Cartaginesi ed a
molti Ateniesi. Né giova loro alcuna vittoria che per lo addietro avessero
avuta, perché tutto la presente perdita cancella: come intervenne ad Antonio
Giacomini nostro, il quale, non avendo espugnata Pisa, come il popolo si aveva
presupposto ed egli promesso, venne in tanta disgrazia popolare, che, non
ostante infinite sue buone opere passate, visse più per umanità di coloro che
ne avevano autorità, che per alcuna altra cagione che nel popolo lo difendesse.
54
Quanta
autorità abbi uno uomo grave a frenare una moltitudine concitata.
Il
secondo notabile sopra il testo nel superiore capitolo allegato, è, che veruna
cosa è tanto atta a frenare una moltitudine concitata, quanto è la riverenzia
di qualche uomo grave e di autorità, che se le faccia incontro; né sanza
cagione dice Virgilio:
Tum
pietate gravem ac meritis si forte virum quem
Conspexere, silent, arrectisque
auribus adstant.
Per
tanto, quello che è preposto a uno esercito, o quello che si trova in una
città, dove nascesse tumulto debba rappresentarsi in su quello con maggiore
grazia e più onorevolmente che può, mettendosi intorno le insegne di quello
grado che tiene, per farsi più riverendo.
Era,
pochi anni sono, Firenze divisa in due fazioni, Fratesca ed Arrabbiata, che
così si chiamavano; e venendo all'armi, ed essendo superati i Frateschi, intra
i quali era Pagolantonio Soderini, assai in quegli tempi riputato cittadino, ed
andandogli in quelli tumulti il popolo armato a casa per saccheggiarla; messere
Francesco suo fratello, allora vescovo di Volterra, ed oggi cardinale, si
trovava a sorte in casa; il quale, subito sentito il romore e veduta la turba,
messosi i più onorevoli panni indosso, e di sopra il roccetto episcopale, si
fece incontro a quegli armati, e con la presenzia e con le parole gli fermò; la
quale cosa fu per tutta la città per molti giorni notata e celebrata.
Conchiudo,
adunque, come e' non è il più fermo né il più necessario rimedio a frenare una
moltitudine concitata, che la presenzia d'uno uomo che per presenzia paia e sia
riverendo. Vedesi, adunque, per tornare al preallegato testo, con quanta
ostinazione la plebe romana accettava quel partito d'andare a Veio, perché lo
giudicava utile, né vi conosceva, sotto, il danno vi era; e come, nascendone
assai tumulti, ne sarebbe nati scandoli, se il Senato con uomini gravi e pieni
di riverenza non avesse frenato il loro furore.
55
Quanto
facilmente si conduchino le cose in quella città dove la moltitudine non è
corrotta: e che, dove è equalità, non si può fare principato; e dove la non è,
non si può fare republica.
Ancora
che di sopra si sia discorso assai quello è da temere o sperare delle cittadi
corrotte, nondimeno non mi pare fuori di proposito considerare una
diliberazione del Senato circa il voto che Cammillo aveva fatto di dare la
decima parte a Apolline della preda de' Veienti: la quale preda sendo venuta
nelle mani della Plebe romana, né se ne potendo altrimenti rivedere conto, fece
il Senato uno editto, che ciascuno dovessi rappresentare in publico la decima
parte di quello ch'egli aveva predato. E benché tale diliberazione non avesse
luogo, avendo dipoi il Senato preso altro modo, e per altra via sodisfatto a
Apolline, in sodisfazione della plebe; nondimeno si vede per tale diliberazione
quanto quel Senato confidava nella bontà di quella, e come ei giudicava che
nessuno fusse per non rappresentare appunto tutto quello che per tale editto
gli era comandato. E dall'altra parte si vede come la plebe non pensò di
fraudare in alcuna parte lo editto con il dare meno che non doveva, ma di
liberarsi di quello con il mostrarne aperte indegnazioni.
Questo
esemplo, con molti altri che di sopra si sono addotti, mostrano quanta bontà e
quanta religione fusse in quel popolo, e quanto bene fusse da sperare di lui. E
veramente, dove non è questa bontà, non si può sperare nulla di bene; come non
si può sperare nelle provincie che in questi tempi si veggono corrotte: come è
la Italia sopra tutte l'altre, ed ancora la Francia e la Spagna di tale
corrozione ritengono parte. E se in quelle provincie non si vede tanti
disordini quanti nascono in Italia ogni dì, diriva non tanto dalla bontà de' popoli,
la quale in buona parte è mancata, quanto dallo avere uno re che gli mantiene
uniti, non solamente per la virtù sua, ma per l'ordine di quegli regni, che
ancora non sono guasti.
Vedesi
bene, nella provincia della Magna, questa bontà e questa religione ancora in
quelli popoli essere grande; la quale fa che molte republiche vi vivono libere,
ed in modo osservono le loro leggi che nessuno di fuori né di dentro ardisce
occuparle. E che e' sia vero che, in loro, regni buona parte di quella antica
bontà, io ne voglio dare uno esemplo simile a questo, detto di sopra, del
Senato e della plebe romana. Usono quelle republiche, quando gli occorre loro
bisogno di avere a spendere alcuna quantità di danari per conto publico, che
quegli magistrati o consigli che ne hanno autorità, ponghino a tutti gli
abitanti della città uno per cento, o due, di quello che ciascuno ha di
valsente. E fatta tale diliberazione, secondo l'ordine della terra si
rappresenta ciascuno dinanzi agli riscotitori di tale imposta; e, preso prima
il giuramento di pagare la conveniente somma, getta in una cassa a ciò diputata
quello che secondo la conscienza sua gli pare dovere pagare: del quale
pagamento non è testimone alcuno, se non quello che paga. Donde si può
conietturare quanta bontà e quanta religione sia ancora in quegli uomini. E
debbesi stimare che ciascuno paghi la vera somma: perché, quando la non si
pagasse, non gitterebbe quella imposizione quella quantità che loro
disegnassero secondo le antiche che fossino usitate riscuotersi, e non
gittando, si conoscerebbe la fraude: e conoscendo si arebbe preso altro modo
che questo. La quale bontà è tanto più da ammirare in questi tempi, quanto ella
è più rada: anzi si vede essere rimasa solo in quella provincia.
Il
che nasce da dua cose: l'una, non avere avute conversazioni grandi con i
vicini; perché né quelli sono iti a casa loro, né essi sono iti a casa altrui,
perché sono stati contenti di quelli beni, vivere di quelli cibi, vestire di
quelle lane, che dà il paese; d'onde è stata tolta via la cagione d'ogni
conversazione, ed il principio d'ogni corruttela; perché non hanno possuto
pigliare i costumi, né franciosi, né spagnuoli, né italiani; le quali nazioni
tutte insieme sono la corruttela del mondo. L'altra cagione è, che quelle
republiche dove si è mantenuto il vivere politico ed incorrotto, non sopportono
che alcuno loro cittadino né sia né viva a uso di gentiluomo: anzi mantengono
intra loro una pari equalità, ed a quelli signori e gentiluomini, che sono in
quella provincia, sono inimicissimi; e se per caso alcuni pervengono loro nelle
mani, come principii di corruttele e cagione d'ogni scandolo, gli ammazzono. E
per chiarire questo nome di gentiluomini quale e' sia, dico che gentiluomini
sono chiamati quelli che oziosi vivono delle rendite delle loro possessioni
abbondantemente, sanza avere cura alcuna o di coltivazione o di altra
necessaria fatica a vivere. Questi tali sono perniziosi in ogni republica ed in
ogni provincia, ma più perniziosi sono quelli che, oltre alle predette fortune,
comandano a castella, ed hanno sudditi che ubbidiscono a loro. Di queste due
spezie di uomini ne sono pieni il regno di Napoli, Terra di Roma, la Romagna e
la Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie non è mai surta alcuna
republica né alcuno vivere politico; perché tali generazioni di uomini sono al
tutto inimici d'ogni civilità. Ed a volere in provincie fatte in simil modo
introdurre una republica, non sarebbe possibile: ma a volerle riordinare, se
alcuno ne fusse arbitro, non arebbe altra via che farvi uno regno. La ragione è
questa che, dove è tanto la materia corrotta che le leggi non bastano a
frenarla, vi bisogna ordinare insieme con quelle maggior forza; la quale è una
mano regia, che con la potenza assoluta ed eccessiva ponga freno alla eccessiva
ambizione e corruttela de' potenti. Verificasi questa ragione con lo esemplo di
Toscana: dove si vede in poco spazio di terreno state lungamente tre
republiche, Firenze, Siena e Lucca; e le altre città di quella provincia essere
in modo serve, che, con lo animo e con l'ordine, si vede o che le mantengono o
che le vorrebbono mantenere la loro libertà. Tutto è nato per non essere in
quella provincia alcuno signore di castella, e nessuno o pochissimi
gentiluomini; ma esservi tanta equalità, che facilmente da uno uomo prudente, e
che delle antiche civilità avesse cognizione, vi s'introdurrebbe uno vivere
civile. Ma lo infortunio suo è stato tanto grande, che infino a questi tempi
non si è abattuta a alcuno uomo che lo abbia possuto o saputo fare.
Trassi
adunque di questo discorso questa conclusione: che colui che vuole fare dove
sono assai gentiluomini una republica, non la può fare se prima non gli spegne
tutti: e che colui che, dov'è assai equalità, vuole fare uno regno o uno
principato, non lo potrà mai fare se non trae di quella equalità molti d'animo
ambizioso ed inquieto, e quelli fa gentiluomini in fatto, e non in nome,
donando loro castella e possessioni, e dando loro favore di sustanze e di
uomini; acciocché, posto in mezzo di loro, mediante quegli mantenga la sua
potenza; ed essi, mediante quello, la loro ambizione; e gli altri siano
constretti a sopportare quel giogo che la forza, e non altro mai, può fare
sopportare loro. Ed essendo per questa via proporzione da chi sforza a chi è
sforzato, stanno fermi gli uomini ciascuno negli ordini loro. E perché il fare
d'una provincia atta a essere regno una republica, e d'una atta a essere
republica farne uno regno, è materia da uno uomo che per cervello e per
autorità sia raro: sono stati molti che lo hanno voluto fare e pochi che lo
abbino saputo condurre. Perché la grandezza della cosa, parte sbigottisce gli
uomini, parte in modo gl'impedisce, che ne' principii primi mancano.
Credo
che a questa mia opinione, che dove sono gentiluomini non si possa ordinare republica,
parrà contraria la esperienza della Republica viniziana, nella quale non
possono avere alcuno grado se non coloro che sono gentiluomini. A che si
risponde, come questo esemplo non ci fa alcuna oppugnazione, perché i
gentiluomini in quella Republica sono più in nome che in fatto; perché loro non
hanno grandi entrate di possessioni, sendo le loro ricchezze grandi fondate in
sulla mercanzia e cose mobili, e di più, nessuno di loro tiene castella, o ha
alcuna iurisdizione sopra gli uomini: ma quel nome di gentiluomo in loro è nome
di degnità e di riputazione, sanza essere fondato sopra alcuna di quelle cose
che fa che nell'altre città si chiamano i gentiluomini. E come le altre
republiche hanno tutte le loro divisioni sotto vari nomi, così Vinegia si divide
in gentiluomini e popolari: e vogliono che quegli abbino, ovvero possino avere,
tutti gli onori; quelli altri ne siano al tutto esclusi. Il che non fa
disordine in quella terra, per le ragioni altra volta dette. Constituisca,
adunque, una republica colui dove è, o è fatta, una grande equalità; ed
all'incontro ordini un principato dove è grande inequalità: altrimenti farà
cosa sanza proporzione e poco durabile.
56
Innanzi
che seguino i grandi accidenti in una città o in una provincia, vengono segni che
gli pronosticono, o uomini che gli predicano.
Donde
ei si nasca io non so, ma ei si vede per gli antichi e per gli moderni esempli,
che mai non venne alcuno grave accidente in una città o in una provincia, che
non sia stato, o da indovini o da rivelazioni o da prodigi o da altri segni
celesti, predetto. E per non mi discostare da casa nel provare questo, sa
ciascuno quanto da frate Girolamo Savonerola fosse predetta innanzi la venuta
del re Carlo VIII di Francia in Italia; e come, oltre a di questo, per tutta
Toscana si disse essere sentite in aria e vedute genti d'armi, sopra Arezzo,
che si azzuffavano insieme. Sa ciascuno, oltre a questo, come, avanti alla
morte di Lorenzo de' Medici vecchio, fu percosso il duomo nella sua più alta
parte con una saetta celeste, con rovina grandissima di quello edifizio. Sa
ciascuno ancora, come, poco innanzi che Piero Soderini, quale era stato fatto
gonfalonieri a vita dal popolo fiorentino, fosse cacciato e privo del suo
grado, fu il palazzo medesimamente da uno fulgure percosso. Potrebbonsi, oltre
a di questo, addurre più esempli i quali, per fuggire il tedio, lascerò.
Narrerò solo quello che Tito Livio dice, innanzi alla venuta de' Franciosi a
Roma: cioè, come uno Marco Cedicio plebeio riferì al Senato avere udito di
mezza notte, passando per la Via nuova, una voce, maggiore che umana, la quale
lo ammuniva che riferissi a' magistrati come e' Franciosi venivano a Roma. La
cagione di questo credo sia da essere discorsa e interpretata da uomo che abbi
notizia delle cose naturali e soprannaturali: il che non abbiamo noi. Pure,
potrebbe essere che, sendo questo aere, come vuole alcuno filosofo, pieno di
intelligenze, le quali per naturali virtù preveggendo le cose future, ed avendo
compassione agli uomini, acciò si possino preparare alle difese, gli
avvertiscono con simili segni. Pure, comunque e' si sia, si vede così essere la
verità; e che sempre dopo tali accidenti sopravvengono cose istraordinarie e
nuove alle provincie.
57
La
Plebe insieme è gagliarda, di per sé è debole.
Erano
molti Romani, sendo seguita per la passata dei Franciosi la rovina della loro
patria, andati ad abitare a Veio, contro la constituzione ed ordine del Senato:
il quale, per rimediare a questo disordine, comandò per i suoi editti publici
che ciascuno, infra certo tempo, e sotto certe pene, tornasse a abitare a Roma.
De' quali editti, da prima per coloro contro a chi e' venivano, si fu fatto
beffe; dipoi, quando si appressò il tempo dello ubbidire, tutti ubbidirono. E
Tito Livio dice queste parole «Ex ferocibus universis singuli metu suo
obedientes fuere». E veramente, non si può mostrare meglio la natura d'una
moltitudine in questa parte, che si dimostri in questo testo. Perché la
moltitudine è audace nel parlare, molte volte contro alle diliberazioni del
loro principe; dipoi, come ei veggono la pena in viso, non si fidando l'uno
dell'altro, corrono ad ubbidire. Talché si vede certo che, di quel che si dica
uno popolo circa la buona o mala disposizione sua, si debba tenere non gran
conto, quando tu sia ordinato in modo da poterlo mantenere, s'egli è bene
disposto; s'egli è male disposto, da potere provedere che non ti offenda.
Questo s'intende per quelle male disposizioni che hanno i popoli, nate da
qualunque altra cagione che o per avere perduto la libertà o il loro principe
stato amato da loro e che ancora sia vivo: imperocché le male disposizioni che
nascono da queste cagioni sono sopra ogni cosa formidabili, e che hanno bisogno
di grandi rimedi a frenarle: l'altre sue indisposizioni fiano facili, quando e'
non abbia capi a chi rifuggire. Perché non ci è cosa, dall'un canto, più
formidabile che una moltitudine sciolta e sanza capo; e, dall'altra parte, non
è cosa più debole: perché, quantunque ella abbia l'armi in mano, fia facile
ridurla, purché tu abbi ridotto da poter fuggire il primo empito; perché quando
gli animi sono un poco raffreddi, e che ciascuno vede di aversi a tornare a
casa sua, cominciano a dubitare di loro medesimi, e pensare alla salute loro o
col fuggirsi o con l'accordarsi. Però una moltitudine così concitata, volendo
fuggire questi pericoli, ha subito a fare infra sé medesima uno capo che la
corregga, tenghila unita e pensi alla sua difesa; come fece la plebe romana,
quando, dopo la morte di Virginia, si partì da Roma, e per salvarsi feciono
infra loro venti Tribuni: e non faccendo questo, interviene loro sempre quel
che dice Tito Livio nelle soprascritte parole che tutti insieme sono gagliardi,
e, quando ciascuno poi comincia a pensare al proprio pericolo, diventa vile e
debole.
58
La
moltitudine è più savia e più costante che uno principe.
Nessuna
cosa essere più vana e più incostante che la moltitudine, così Tito Livio
nostro, come tutti gli altri istorici, affermano. Perché spesso occorre, nel
narrare le azioni degli uomini, vedere la moltitudine avere condannato alcuno a
morte, e quel medesimo dipoi pianto e sommamente desiderato: come si vede aver
fatto il popolo romano, di Manlio Capitolino, il quale avendo condannato a
morte, sommamente dipoi desiderava quello. E le parole dello autore sono
queste: «Populum brevi, posteaquam ab eo periculum nullum erat, desiderium
eius tenuit». Ed altrove, quando mostra gli accidenti che nacquono in
Siracusa dopo la morte di Girolamo nipote di Ierone, dice: «Haec natura
multitudinis est: aut humiliter servit, aut superbe dominatur». Io non so
se io mi prenderò una provincia dura e piena di tanta difficultà, che mi
convenga o abbandonarla con vergogna, o seguirla con carico; volendo difendere
una cosa, la quale, come ho detto, da tutti gli scrittori è accusata. Ma,
comunque si sia, io non giudico né giudicherò mai essere difetto difendere
alcuna opinione con le ragioni, sanza volervi usare o l'autorità o la forza.
Dico, adunque, come di quello difetto di che accusano gli scrittori la moltitudine,
se ne possono accusare tutti gli uomini particularmente, e massime i principi;
perché ciascuno, che non sia regolato dalle leggi, farebbe quelli medesimi
errori che la moltitudine sciolta. E questo si può conoscere facilmente, perché
ei sono e sono stati assai principi, e de' buoni e de' savi ne sono stati
pochi: io dico de' principi che hanno potuto rompere quel freno che gli può
correggere; intra i quali non sono quegli re che nascevano in Egitto, quando,
in quella antichissima antichità, si governava quella provincia con le leggi;
né quegli che nascevano in Sparta; né quegli che a' nostri tempi nascano in
Francia; il quale regno è moderato più dalle leggi che alcuno altro regno di
che ne' nostri tempi si abbia notizia. E questi re che nascono sotto tali
constituzioni non sono da mettere in quel numero, donde si abbia a considerare
la natura di ciascuno uomo per sé, e vedere s'egli è simile alla moltitudine;
perché a rincontro si debbe porre una moltitudine medesimamente regolata dalle
leggi come sono loro; e si troverrà in lei essere quella medesima bontà che noi
vediamo essere in quelli, e vedrassi quella né superbamente dominare né
umilmente servire: come era il popolo romano, il quale, mentre durò la
Republica incorrotta, non servì mai umilmente né mai dominò superbamente; anzi
con li suoi ordini e magistrati tenne il suo grado onorevolmente. E quando era
necessario commuoversi contro a un potente, lo faceva; come si vide in Manlio,
ne' Dieci ed in altri che cercorono opprimerla: e quando era necessario
ubbidire a' Dittatori ed a' Consoli per la salute publica, lo faceva. E se il
popolo romano desiderava Manlio Capitolino morto, non è maraviglia, perché ei
desiderava le sue virtù, le quali erano state tali, che la memoria di esse
recava compassione a ciascuno, ed arebbono avuto forza di fare quel medesimo
effetto in un principe, perché la è sentenzia di tutti gli scrittori, come la
virtù si lauda e si ammira ancora negli inimici suoi: e se Manlio, intra tanto
desiderio, fusse risuscitato, il popolo di Roma arebbe dato di lui il medesimo
giudizio, come ei fece, tratto che lo ebbe di prigione, che poco di poi lo
condannò a morte; nonostante che si vegga de' principi, tenuti savi, i quali
hanno fatto morire qualche persona, e poi sommamente desideratola: come
Alessandro, Clito ed altri suoi amici; ed Erode, Marianne. Ma quello che lo
istorico nostro dice della natura della moltitudine, non dice di quella che è
regolata dalle leggi, come era la romana; ma della sciolta, come era la
siragusana: la quale fece quegli errori che fanno gli uomini infuriati e
sciolti, come fece Alessandro Magno, ed Erode, ne' casi detti. Però non è più
da incolpare la natura della moltitudine che de' principi, perché tutti
equalmente errano, quando tutti sanza rispetto possono errare. Di che, oltre a
quel che ho detto, ci sono assai esempli, ed intra gl'imperadori romani, ed
intra gli altri tiranni e principi; dove si vede tanta incostanzia e tanta
variazione di vita, quanta mai non si trovasse in alcuna moltitudine.
Conchiudo
adunque, contro alla commune opinione; la quale dice come i popoli, quando sono
principi, sono varii, mutabili ed ingrati; affermando che in loro non sono
altrimenti questi peccati che siano ne' principi particulari. Ed accusando
alcuno i popoli ed i principi insieme, potrebbe dire il vero; ma traendone i
principi, s'inganna: perché un popolo che comandi e sia bene ordinato, sarà
stabile, prudente e grato non altrimenti che un principe, o meglio che un
principe, eziandio stimato savio: e dall'altra parte, un principe, sciolto
dalle leggi, sarà ingrato, vario ed imprudente più che un popolo. E che la
variazione del procedere loro nasce non dalla natura diversa, perché in tutti è
a un modo, e, se vi è vantaggio di bene, è nel popolo; ma dallo avere più o
meno rispetto alle leggi, dentro alle quali l'uno e l'altro vive. E chi
considererà il popolo romano, lo vedrà essere stato per quattrocento anni
inimico del nome regio, ed amatore della gloria e del bene commune della sua
patria; vedrà tanti esempli usati da lui, che testimoniano l'una cosa e
l'altra. E se alcuno mi allegasse la ingratitudine ch'egli usò contra a
Scipione, rispondo quello che di sopra lungamente si discorse in questa
materia, dove si mostrò i popoli essere meno ingrati de' principi. Ma quanto
alla prudenzia ed alla stabilità, dico, come un popolo è più prudente, più
stabile e di migliore giudizio che un principe. E non sanza cagione si
assomiglia la voce d'un popolo a quella di Dio: perché si vede una opinione
universale fare effetti maravigliosi ne' pronostichi suoi; talché pare che per
occulta virtù ei prevegga il suo male ed il suo bene. Quanto al giudicare le
cose, si vede radissime volte, quando egli ode duo concionanti che tendino in
diverse parti, quando ei sono di equale virtù, che non pigli la opinione
migliore, e che non sia capace di quella verità che egli ode. E se nelle cose
gagliarde, o che paiano utili, come di sopra si dice, egli erra; molte volte
erra ancora un principe nelle sue proprie passioni, le quali sono molte più che
quelle de' popoli. Vedesi ancora, nelle sue elezioni ai magistrati, fare, di
lunga, migliore elezione che un principe, né mai si persuaderà a un popolo, che
sia bene tirare alle degnità uno uomo infame e di corrotti costumi: il che
facilmente e per mille vie si persuade a un principe. Vedesi uno popolo
cominciare ad avere in orrore una cosa, e molti secoli stare in quella
opinione: il che non si vede in un principe. E dell'una e dell'altra di queste
due cose voglio mi basti per testimone il popolo romano: il quale in tante
centinaia d'anni, in tante elezioni di Consoli e di Tribuni, non fece quattro
elezioni di che quello si avesse a pentire. Ed ebbe, come ho detto, tanto in
odio il nome regio, che nessuno obligo di alcuno suo cittadino, che tentasse
quel nome, poté fargli fuggire le debite pene. Vedesi, oltra di questo, le
città, dove i popoli sono principi, fare in brevissimo tempo augumenti
eccessivi, e molto maggiori che quelle che sempre sono state sotto uno
principe: come fece Roma dopo la cacciata de' re, ed Atene da poi che la si
liberò da Pisistrato. Il che non può nascere da altro, se non che sono migliori
governi quegli de' popoli che quegli de' principi. Né voglio che si opponga a
questa mia opinione tutto quello che lo istorico nostro ne dice nel preallegato
testo, ed in qualunque altro; perché, se si discorreranno tutti i disordini de'
popoli, tutti i disordini de' principi, tutte le glorie de' popoli e tutte
quelle de' principi, si vedrà il popolo di bontà e di gloria essere, di lunga,
superiore. E se i principi sono superiori a' popoli nello ordinare leggi,
formare vite civili, ordinare statuti ed ordini nuovi; i popoli sono tanto
superiori nel mantenere le cose ordinate, ch'egli aggiungono sanza dubbio alla
gloria di coloro che l'ordinano. Ed insomma, per conchiudere questa materia,
dico come hanno durato assai gli stati de' principi, hanno durato assai gli
stati delle republiche, e l'uno e l'altro ha avuto bisogno d'essere regolato
dalle leggi: perché un principe che può fare ciò ch'ei vuole, è pazzo; un popolo
che può fare cio che vuole, non è savio. Se, adunque, si ragionerà d'un
principe obligato alle leggi, e d'un popolo incatenato da quelle, si vedrà più
virtù nel popolo che nel principe: se si ragionerà dell'uno e dell'altro
sciolto, si vedrà meno errori nel popolo che nel principe e quelli minori, ed
aranno maggiori rimedi. Però che a un popolo licenzioso e tumultuario, gli può
da un uomo buono essere parlato, e facilmente può essere ridotto nella via
buona: a un principe cattivo non è alcuno che possa parlare né vi è altro
rimedio che il ferro. Da che si può fare coniettura della importanza della
malattia dell'uno e dell'altro: ché se a curare la malattia del popolo bastan
le parole, ed a quella del principe bisogna il ferro, non sarà mai alcuno che non
giudichi, che, dove bisogna maggior cura, siano maggiori errori. Quando un
popolo è bene sciolto, non si temano le pazzie che quello fa, né si ha paura
del male presente, ma di quel che ne può nascere, potendo nascere, infra tanta
confusione, uno tiranno. Ma ne' principi cattivi interviene il contrario: che
si teme il male presente, e nel futuro si spera; persuadendosi gli uomini che
la sua cattiva vita possa fare surgere una libertà. Sì che vedete la differenza
dell'uno e dell'altro, la quale è quanto, dalle cose che sono, a quelle che
hanno a essere. Le crudeltà della moltitudine sono contro a chi ei temano che
occupi il bene commune: quelle d'un principe sono contro a chi ei temano che
occupi il bene proprio. Ma la opinione contro ai popoli nasce perché de' popoli
ciascuno dice male sanza paura e liberamente, ancora mentre che regnano: de'
principi si parla sempre con mille paure e mille rispetti. Né mi pare fuor di
proposito, poiché questa materia mi vi tira, disputare, nel seguente capitolo,
di quali confederazioni altri si possa più fidare; o di quelle fatte con una
republica, o di quelle fatte con uno principe.
59
Di
quale confederazione o lega altri si può più fidare; o di quella fatta con una
republica, o di quella fatta con uno principe.
Perché,
ciascuno dì, occorre che l'uno principe con l'altro, o l'una republica con
l'altra, fanno lega ed amicizia insieme: ed ancora similmente si contrae
confederazione ed accordo intra una republica ed uno principe: mi pare da
esaminare qual fede è più stabile, e di quale si debba tenere più conto, o di
quella d'una republica, o di quella d'uno principe. Io, esaminando tutto, credo
che in molti casi ei sieno simili ed in alcuni vi sia qualche disformità.
Credo, per tanto, che gli accordi fatti per forza non ti saranno né da uno
principe né da una republica osservati; credo che, quando la paura dello stato
venga, l'uno e l'altro, per non lo perdere, ti romperà la fede, e ti userà
ingratitudine. Demetrio, quel che fu chiamato espugnatore delle cittadi, aveva
fatto agli Ateniesi infiniti beneficii: occorse dipoi, che, sendo rotto da'
suoi inimici, e rifuggendosi in Atene come in città amica ed a lui obligata,
non fu ricevuto da quella: il che gli dolse assai più che non aveva fatto la
perdita delle genti e dello esercito suo. Pompeio, rotto che fu da Cesare in
Tessaglia, si rifuggì in Egitto a Tolomeo, il quale era per lo adietro da lui
stato rimesso nel regno; e fu da lui morto. Le quali cose si vede che ebbero le
medesime cagioni: nondimeno fu più umanità usata e meno ingiuria dalla
republica, che dal principe. Dove è, pertanto, la paura, si troverrà in fatto
la medesima fede. E se si troverrà o una republica o uno principe, che, per
osservarti la fede, aspetti di rovinare, può nascere questo ancora da simili cagioni.
E quanto al principe, può molto bene occorrere che egli sia amico d'uno
principe potente, che, se bene non ha occasione allora di difenderlo, ei può
sperare che col tempo ei lo ristituisca nel principato suo; o veramente che,
avendolo seguito come partigiano, ei non creda trovare né fede né accordi con
il nimico di quello. Di questa sorte sono stati quegli principi del reame di
Napoli, che hanno seguite le parti franciose. E quanto alle republiche, fu di
questa sorte Sagunto in Ispagna, che aspettò la rovina per seguire le parti
romane; e di questa Firenze, per seguire nel 1512 le parti franciose. E credo,
computato ogni cosa, che in questi casi, dove è il pericolo urgente, si
troverrà qualche stabilità più nelle republiche, che ne' principi. Perché, sebbene
le republiche avessero quel medesimo animo e quella medesima voglia che uno
principe, lo avere il moto loro tardo, farà che le perranno sempre più a
risolversi che il principe, e per questo perranno più a rompere la fede di lui.
Romponsi le confederazioni per lo utile. In questo le republiche sono, di
lunga, più osservanti degli accordi, che i principi. E potrebbesi addurre
esempli, dove uno minimo utile ha fatto rompere la fede a uno principe, e dove
una grande utilità non ha fatto rompere la fede a una republica: come fu quello
partito che propose Temistocle agli Ateniesi, a' quali nella concione disse che
aveva uno consiglio da fare alla loro patria grande utilità, ma non lo poteva
dire per non lo scoprire, perché, scoprendolo, si toglieva la occasione del
farlo. Onde il popolo di Atene elesse Aristide, al quale si comunicasse la
cosa, e secondo dipoi che paresse a lui se ne diliberasse: al quale Temistocle
mostrò come l'armata di tutta Grecia, ancora che la stesse sotto la fede loro,
era in lato che facilmente si poteva guadagnare o distruggere; il che faceva
gli Ateniesi al tutto arbitri di quella provincia. Donde Aristide riferì al
popolo, il partito di Temistocle essere utilissimo ma disonestissimo: per la
quale cosa il popolo al tutto lo ricusò. Il che non arebbe fatto Filippo
Macedone, e gli altri principi che più utile hanno cerco e guadagnato con il
rompere la fede, che con alcuno altro modo. Quanto a rompere i patti per
qualche cagione di inosservanzia, di questo io non parlo, come di cosa ordinaria;
ma parlo di quelli che si rompono per cagioni istraordinarie: dove io credo,
per le cose dette, che il popolo facci minori errori che il principe, e per
questo si possa fidar più di lui che del principe.
60
Come
il Consolato e qualunque altro magistrato in Roma si dava sanza rispetto di
età.
Ei
si vede per l'ordine della istoria, come la Republica romana, poiché il
Consolato venne nella Plebe, concesse quello ai suoi cittadini sanza rispetto
di età o di sangue; ancora che il rispetto della età mai non fusse in Roma, ma
sempre si andò a trovare la virtù, o in giovane o in vecchio che la fusse. Il
che si vede per il testimone di Valerio Corvino, che fu fatto Consolo in
ventitré anni: e Valerio detto, parlando ai suoi soldati, disse come il Consolato
era «praemium virtutis, non sanguinis». La quale cosa se fu bene
considerata o no, sarebbe da disputare assai. E quanto al sangue, fu concesso
questo per necessità; e quella necessità che fu in Roma, sarebbe in ogni città
che volesse fare gli effetti che fece Roma, come altra volta si è detto: perché
e' non si può dare agli uomini disagio sanza premio, né si può tôrre loro la
speranza di conseguire il premio sanza pericolo. E però a buona ora convenne
che la Plebe avessi speranza di avere il Consolato: e di questa speranza si
nutrì un pezzo sanza averlo; dipoi non bastò la speranza, che e' convenne che
si venisse allo effetto. Ma la città che non adopera la sua plebe a alcuna cosa
gloriosa, la può trattare a suo modo come altrove si disputò: ma quella che vuol
fare quel che fe' Roma, non ha a fare questa distinzione. E dato che così sia,
quella del tempo non ha replica anzi è necessaria: perché nello eleggere uno
giovane in un grado che abbi bisogno d'una prudenza di vecchio, conviene,
avendovelo a eleggere la moltitudine, che a quel grado lo facci pervenire
qualche sua notabilissima azione. E quando uno giovane è di tanta virtù, che si
sia fatto in qualche cosa notabile conoscere; sarebbe cosa dannosissima che la
città non se ne potessi valere allora, e che l'avesse a aspettare che fosse
invecchiato con lui quel vigore dell'animo e quella prontezza, della quale in
quella età la patria sua si poteva valere: come si valse Roma di Valerio
Corvino, di Scipione e di Pompeio, e di molti altri, che trionfarono giovanissimi.
LIBRO
SECONDO
Laudano
sempre gli uomini, ma non sempre ragionevolmente, gli antichi tempi, e gli
presenti accusano: ed in modo sono delle cose passate partigiani, che non
solamente celebrano quelle etadi che da loro sono state, per la memoria che ne
hanno lasciata gli scrittori, conosciute; ma quelle ancora che, sendo già
vecchi, si ricordano nella loro giovanezza avere vedute. E quando questa loro
opinione sia falsa, come il più delle volte è, mi persuado varie essere le
cagioni che a questo inganno gli conducono. E la prima credo sia, che delle
cose antiche non s'intenda al tutto la verità; e che di quelle il più delle
volte si nasconda quelle cose che recherebbono a quelli tempi infamia; e quelle
altre che possano partorire loro gloria, si rendino magnifiche ed amplissime.
Perché il più degli scrittori in modo alla fortuna de' vincitori ubbidiscano,
che, per fare le loro vittorie gloriose, non solamente accrescano quello che da
loro è virtuosamente operato, ma ancora le azioni de' nimici in modo
illustrano, che, qualunque nasce dipoi in qualunque delle due provincie, o
nella vittoriosa o nella vinta, ha cagione di maravigliarsi di quegli uomini e
di quelli tempi, ed è forzato sommamente laudarli ed amarli. Oltra di questo,
odiando gli uomini le cose o per timore o per invidia, vengono ad essere spente
due potentissime cagioni dell'odio nelle cose passate, non ti potendo quelle
offendere, e non ti dando cagione d'invidiarle. Ma al contrario interviene di
quelle cose che si maneggiano e veggono; le quali, per la intera cognizione di
esse, non ti essendo in alcuna parte nascoste, e conoscendo in quelle insieme
con il bene molte altre cose che ti dispiacciono, sei forzato giudicarle alle
antiche molto inferiori, ancora che, in verità, le presenti molto più di quelle
di gloria e di fama meritassoro: ragionando, non delle cose pertinenti alle
arti, le quali hanno tanta chiarezza in sé, che i tempi possono tôrre o dare
loro poco più gloria che per loro medesime si meritino; ma parlando di quelle
pertinenti alla vita e costumi degli uomini, delle quali non se ne veggono sì
chiari testimoni.
Replico,
pertanto, essere vera quella consuetudine del laudare e biasimare soprascritta:
ma non essere già sempre vero che si erri nel farlo. Perché qualche volta è necessario
che giudichino la verità; perché, essendo le cose umane sempre in moto, o le
salgano, o le scendano. E vedesi una città o una provincia essere ordinata al
vivere politico da qualche uomo eccellente, ed, un tempo, per la virtù di
quello ordinatore, andare sempre in augumento verso il meglio. Chi nasce allora
in tale stato, ed ei laudi più gli antichi tempi che i moderni, s'inganna; ed è
causato il suo inganno da quelle cose che di sopra si sono dette. Ma coloro che
nascano dipoi, in quella città o provincia, che gli è venuto il tempo che la
scende verso la parte più ria, allora non s'ingannano. E pensando io come
queste cose procedino, giudico il mondo sempre essere stato ad uno medesimo
modo, ed in quello essere stato tanto di buono quanto di cattivo; ma variare
questo cattivo e questo buono, di provincia in provincia: come si vede per
quello si ha notizia di quegli regni antichi, che variavano dall'uno all'altro
per la variazione de' costumi; ma il mondo restava quel medesimo. Solo vi era
questa differenza, che dove quello aveva prima allogata la sua virtù in
Assiria, la collocò in Media, dipoi in Persia, tanto che la ne venne in Italia
ed a Roma; e se dopo lo Imperio romano non è seguito Imperio che sia durato, né
dove il mondo abbia ritenuta la sua virtù insieme, si vede nondimeno essere
sparsa in di molte nazioni dove si viveva virtuosamente; come era il regno de'
Franchi, il regno de' Turchi, quel del Soldano; ed oggi i popoli della Magna; e
prima quella setta Saracina che fece tante gran cose, ed occupò tanto mondo,
poiché la distrusse lo Imperio romano orientale. In tutte queste provincie,
adunque, poiché i Romani rovinorno, ed in tutte queste sette è stata quella
virtù, ed è ancora in alcuna parte di esse, che si disidera, e che con vera
laude si lauda. E chi nasce in quelle, e lauda i tempi passati più che i
presenti, si potrebbe ingannare; ma chi nasce in Italia ed in Grecia, e non sia
diventato o in Italia oltramontano o in Grecia turco, ha ragione di biasimare i
tempi suoi, e laudare gli altri: perché in quelli vi sono assai cose che gli
fanno maravigliosi; in questi non è cosa alcuna che gli ricomperi da ogni
estrema miseria, infamia e vituperio: dove non è osservanza di religione, non
di leggi, non di milizia; ma sono maculati d'ogni ragione bruttura. E tanto
sono questi vizi più detestabili, quanto ei sono più in coloro che seggono pro
tribunali, comandano a ciascuno, e vogliono essere adorati.
Ma
tornando al ragionamento nostro, dico che se il giudicio degli uomini è
corrotto in giudicare quale sia migliore, o il secolo presente o l'antico, in
quelle cose dove per l'antichità e' non ne ha possuto avere perfetta cognizione
come egli ha de' suoi tempi; non doverebbe corrompersi ne' vecchi nel giudicare
i tempi della gioventù e vecchiezza loro avendo quelli e questi equalmente
conosciuti e visti. La quale cosa sarebbe vera, se gli uomini per tutti i tempi
della lor vita fossero di quel medesimo giudizio, ed avessono quegli medesimi
appetiti: ma variando quegli ancora che i tempi non variino, non possono parere
agli uomini quelli medesimi, avendo altri appetiti, altri diletti, altre
considerazioni nella vecchiezza, che nella gioventù. Perché, mancando gli
uomini, quando gl'invecchiano, di forze, e crescendo di giudizio e di prudenza,
è necessario che quelle cose che in gioventù parevano loro sopportabili e
buone, rieschino poi, invecchiando, insopportabili e cattive; e dove quegli ne
doverrebbono accusare il giudizio loro, ne accusano i tempi. Sendo, oltra di
questo, gli appetiti umani insaziabili, perché, avendo, dalla natura, di potere
e volere desiderare ogni cosa, e, dalla fortuna, di potere conseguitarne poche;
ne risulta continuamente una mala contentezza nelle menti umane, ed uno
fastidio delle cose che si posseggono: il che fa biasimare i presenti tempi,
laudare i passati, e desiderare i futuri; ancora che a fare questo non fussono
mossi da alcuna ragionevole cagione.
Non
so, adunque, se io meriterò d'essere numerato tra quelli che si ingannano, se
in questi mia discorsi io lauderò troppo i tempi degli antichi Romani, e
biasimerò i nostri. E veramente, se la virtù che allora regnava, ed il vizio
che ora regna, non fussino più chiari che il sole andrei col parlare più
rattenuto, dubitando non incorrere in questo inganno di che io accuso alcuni.
Ma essendo la cosa sì manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso in dire
manifestamente quello che io intenderò di quelli e di questi tempi; acciocché
gli animi de' giovani che questi mia scritti leggeranno, possino fuggire
questi, e prepararsi ad imitar quegli, qualunque volta la fortuna ne dessi loro
occasione. Perché gli è offizio di uomo buono, quel bene che per la malignità
de' tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri,
acciocché, sendone molti capaci, alcuno di quelli, più amato dal Cielo, possa
operarlo. Ed avendo ne' discorsi del superior libro, parlato delle
diliberazioni fatte da' Romani, pertinenti al di dentro della città, in questo
parleremo di quelle, che 'l Popolo romano fece pertinenti allo augumento dello
imperio suo.
1
Quale
fu più cagione dello imperio che acquistarono i romani, o la virtù, o la
fortuna.
Molti
hanno avuta opinione, ed in tra' quali Plutarco, gravissimo scrittore, che 'l
popolo romano nello acquistare lo imperio fosse più favorito dalla fortuna che
dalla virtù. Ed intra le altre ragioni che ne adduce, dice che per confessione
di quel popolo si dimostra, quello avere riconosciute dalla fortuna tutte le
sue vittorie, avendo quello edificati più templi alla Fortuna che ad alcuno
altro iddio. E pare che a questa opinione si accosti Livio; perché rade volte è
che facci parlare ad alcuno Romano, dove ei racconti della virtù, che non vi
aggiunga la fortuna. La qual cosa io non voglio confessare in alcuno modo, né
credo ancora si possa sostenere. Perché, se non si è trovata mai republica che
abbi fatti i profitti che Roma, è nato che non si è trovata mai republica che
sia stata ordinata a potere acquistare come Roma. Perché la virtù degli
eserciti gli fecero acquistare lo imperio; e l'ordine del procedere, ed il modo
suo proprio, e trovato dal suo primo latore delle leggi gli fece mantenere lo
acquistato: come di sotto largamente in più discorsi si narrerà.
Dicono
costoro, che non avere mai accozzate due potentissime guerre in uno medesimo tempo,
fu fortuna e non virtù del Popolo romano; perché e' non ebbero guerra con i
Latini, se non quando egli ebbero, non tanto battuti i Sanniti, quanto che la
guerra fu fatta da' Romani in defensione di quelli; non combatterono con i
Toscani, se prima non ebbero soggiogati i Latini, ed enervati con le spesse
rotte quasi in tutto i Sanniti: che se due di queste potenze intere si fossero,
quando erano fresche, accozzate insieme, senza dubbio si può facilmente
conietturare che ne sarebbe seguito la rovina della romana Republica. Ma,
comunque questa cosa nascesse, mai non intervenne che eglino avessero due
potentissime guerre in uno medesimo tempo: anzi parve sempre che, o, nel
nascere dell'una, l'altra si spegnesse, o nello spegnersi dell'una, l'altra
nascesse. Il che si può facilmente vedere per l'ordine delle guerre fatte da
loro: perché, lasciando stare quelle che fecero prima che Roma fosse presa dai
Franciosi, si vede che, mentre che combatterno con gli Equi e con i Volsci,
mai, mentre che questi popoli furono potenti, non scesero contro di loro altre
genti. Domi costoro, nacque la guerra contro a' Sanniti; e benché, innanzi che
finisse tale guerra, i popoli latini si ribellassero da' Romani; nondimeno,
quando tale ribellione seguì, i Sanniti erano in lega con Roma, e con i loro
eserciti aiutarono i Romani domare la insolenzia latina. I quali domi, risurse
la guerra di Sannio. Battute per molte rotte date a' Sanniti le loro forze,
nacque la guerra de' Toscani; la quale composta, si rilevarono di nuovo i Sanniti
per la passata di Pirro in Italia. Il quale come fu ributtato, e rimandato in
Grecia, appiccarono la prima guerra con i Cartaginesi: né prima fu tale guerra
finita, che tutti i Franciosi, e di là e di qua dall'Alpi, congiurarono contro
ai Romani; tanto che intra Populonia e Pisa, dove è oggi la torre a San
Vincenti, furono con massima strage superati. Finita questa guerra, per spazio
di venti anni ebbero guerre di non molta importanza; perché non combatterono
con altri che con Liguri, e con quel rimanente de' Franciosi che era in
Lombardia. E così stettero tanto che nacque la seconda guerra cartaginese, la
quale per sedici anni tenne occupata Italia. Finita questa con massima gloria,
nacque la guerra macedonica; la quale finita, venne quella d'Antioco e d'Asia.
Dopo la quale vittoria, non restò in tutto il mondo né principe né republica
che, di per sé, o tutti insieme, che si potessero opporre alle forze romane. Ma
innanzi a quella ultima vittoria chi considererà bene l'ordine di queste
guerre, ed il modo del procedere loro, vi vedrà dentro mescolate con la fortuna
una virtù e prudenza grandissima. Talché, chi esaminassi la cagione di tale
fortuna, la ritroverebbe facilmente: perché gli è cosa certissima, che come uno
principe e uno popolo viene in tanta riputazione, che ciascuno principe e
popolo vicino abbia di per sé paura ad assaltarlo e ne tema, sempre interverrà
che ciascuno d'essi mai lo assalterà, se non necessitato; in modo che e' sarà
quasi come nella elezione di quel potente, fare guerra con quale di quei sua
vicini gli parrà, e gli altri con la sua industria quietare. E' quali, parte
rispetto alla potenza sua, parte ingannati da que' modi ch'egli terrà per
adormentargli, si quietano facilmente; quegli altri potenti, che sono discosto
e che non hanno commerzio seco, curano la cosa come cosa longinqua, e che non
appartenga a loro. Nel quale errore stanno tanto che questo incendio venga loro
presso: il quale venuto, non hanno rimedio a spegnerlo se non con le forze
proprie le quali dipoi non bastono, sendo colui diventato potentissimo. Io
voglio lasciare andare come i Sanniti stettero a vedere vincere dal Popolo
romano i Volsci e gli Equi; e per non essere troppo prolisso, mi farò da'
Cartaginesi: i quali erano di gran potenza e di grande estimazione, quando i
Romani combattevano co' Sanniti e con i Toscani; perché di già tenevano tutta
l'Africa, tenevano la Sardigna e la Sicilia, avevano dominio in parte della
Spagna. La quale potenza loro, insieme con lo essere discosto ne' confini dal
popolo romano, fece che non pensarono mai di assaltare quello, né di soccorrere
i Sanniti ed i Toscani: anzi fecero come si fa nelle cose che crescano più
tosto in loro favore, collegandosi con quegli e cercando l'amicizia loro. Né si
avviddono prima dello errore fatto, che i Romani, domi tutti i popoli mezzi in
fra loro ed i Cartaginesi, cominciarono a combattere insieme dello imperio di
Sicilia e di Spagna. Intervenne questo medesimo a' Franciosi che a'
Cartaginesi, e così a Filippo re de' Macedoni, e a Antioco; e ciascuno di loro
credea, mentre che il Popolo romano era occupato con l'altro, che quello altro
lo superasse, ed essere a tempo, o con pace o con guerra, difendersi da lui. In
modo che io credo che la fortuna che ebbero in questa parte i Romani,
l'arebbono tutti quegli principi che procedessono come i Romani, e fossero
della medesima virtù che loro.
Sarebbeci
da mostrare a questo proposito il modo tenuto dal Popolo romano nello entrare
nelle provincie d'altrui, se nel nostro trattato de' Principati non ne avessimo
parlato a lungo: perché, in quello, questa materia è diffusamente disputata.
Dirò solo questo lievemente, come sempre s'ingegnarono avere nelle provincie
nuove qualche amico che fussi scala o porta a salirvi o entrarvi, o mezzo a
tenerla: come si vede che per il mezzo de' Capuani entrarono in Sannio, de'
Camertini in Toscana, de' Mamertini in Sicilia, de' Saguntini in Spagna, di
Massinissa in Africa, degli Etoli in Grecia, di Eumene ed altri principi in
Asia, de' Massiliensi e delli Edui in Francia. E così non mancorono mai di
simili appoggi, per potere facilitare le imprese loro, e nello acquistare le
provincie e nel tenerle. Il che quegli popoli che osserveranno, vedranno avere
meno bisogno della fortuna, che quelli che ne saranno non buoni osservatori. E
perché ciascuno possa meglio conoscere, quanto possa più la virtù che la
fortuna loro ad acquistare quello imperio, noi discorrereno, nel seguente
capitolo, di che qualità furono quelli popoli con e' quali egli ebbero a
combattere, e quanto erano ostinati a difendere la loro libertà.
2
Con
quali popoli i Romani ebbero a combattere, e come ostinatamente quegli
difendevono la loro libertà.
Nessuna
cosa fe' più faticoso a' Romani superare i popoli d'intorno e parte delle
provincie discosto, quanto lo amore che in quelli tempi molti popoli avevano
alla libertà, la quale tanto ostinatamente difendevano, che mai se non da una
eccessiva virtù sarebbono stati soggiogati. Perché, per molti esempli si
conosce a quali pericoli si mettessono per mantenere o ricuperare quella; quali
vendette ei facessono contro a coloro che l'avessero loro occupata. Conoscesi
ancora nella lezione delle istorie, quali danni i popoli e le città ricevino
per la servitù. E dove in questi tempi ci è solo una provincia, la quale si possa
dire che abbi in sé città libere, ne' tempi antichi in tutte le provincie erano
assai popoli liberissimi. Vedesi come in quelli tempi de' quali noi parliamo al
presente, in Italia, dall'Alpi che dividono ora la Toscana da Lombardia, infino
alla punta d'Italia, erano tutti popoli liberi; come erano i Toscani, i Romani,
i Sanniti, e molti altri popoli che in quel resto d'Italia abitavano. Né si
ragiona mai che vi fusse alcuno re, fuora di quegli che regnorono in Roma, e
Porsenna re di Toscana; la stirpe del quale come si estinguesse, non ne parla
la istoria. Ma si vede bene, come in quegli tempi che i Romani andarono a campo
a Veio, la Toscana era libera: e tanto si godeva della sua libertà, e tanto
odiava il nome del principe, che, avendo fatto i Veienti per loro difensione
uno re in Veio, e domandando aiuto a' Toscani contro a' Romani, quegli, dopo
molte consulte fatte, deliberarono di non dare aiuto a' Veienti, infino a tanto
che vivessono sotto il re; giudicando non essere bene difendere la patria di
coloro che l'avevano di già sottomessa a altrui. E facil cosa è conoscere donde
nasca ne' popoli questa affezione del vivere libero; perché si vede per
esperienza, le cittadi non avere mai ampliato nè di dominio né di ricchezza, se
non mentre sono state in libertà. E veramente maravigliosa cosa è a
considerare, a quanta grandezza venne Atene per spazio di cento anni, poiché la
si liberò dalla tirannide di Pisistrato. Ma sopra tutto maravigliosissima è a
considerare a quanta grandezza venne Roma, poiché la si liberò da' suoi Re. La
ragione è facile a intendere; perché non il bene particulare, ma il bene comune
è quello che fa grandi le città. E senza dubbio, questo bene comune non è
osservato se non nelle republiche; perché tutto quello che fa a proposito suo,
si esequisce; e quantunque e' torni in danno di questo o di quello privato, e'
sono tanti quegli per chi detto bene fa, che lo possono tirare innanzi contro
alla disposizione di quegli pochi che ne fussono oppressi. Al contrario
interviene quando vi è uno principe; dove il più delle volte quello che fa per
lui, offende la città; e quello che fa per la città, offende lui. Dimodoché,
subito che nasce una tirannide sopra uno vivere libero, il manco male che ne
resulti a quelle città è non andare più innanzi, né crescere più in potenza o
in ricchezze; ma il più delle volte, anzi sempre, interviene loro, che le
tornano indietro. E se la sorte facesse che vi surgesse uno tiranno virtuoso il
quale per animo e per virtù d'arme ampliasse il dominio suo, non ne risulterebbe
alcuna utilità a quella republica, ma a lui proprio: perché e' non può onorare
nessuno di quegli cittadini che siano valenti e buoni, che egli tiranneggia,
non volendo avere ad avere sospetto di loro.
Non
può ancora le città che esso acquista, sottometterle o farle tributarie a
quella città di che egli è tiranno: perché il farla potente non fa per lui; ma
per lui fa tenere lo stato disgiunto, e che ciascuna terra e ciascuna provincia
riconosca lui. Talché, de' suoi acquisti, solo egli ne profitta, e non la sua
patria. E chi volessi confermare questa opinione con infinite altre ragioni,
legga Senofonte nel suo trattato che fa De Tyrannide. Non è maraviglia,
adunque, che gli antichi popoli con tanto odio perseguitassono i tiranni ed
amassino il vivere libero, e che il nome della libertà fusse tanto stimato da
loro: come intervenne quando Girolamo, nipote di Ierone siracusano, fu morto in
Siracusa, che, venendo le novelle della sua morte in nel suo esercito, che non
era molto lontano da Siracusa, cominciò prima a tumultuare, e pigliare l'armi
contro agli ucciditori di quello; ma come ei sentì che in Siracusa si gridava
libertà, allettato da quel nome, si quietò tutto, pose giù l'ira, contro a'
tirannicidi, e pensò come in quella città si potessi ordinare uno vivere
libero.
Non
è maraviglia ancora, che e' popoli faccino vendette istraordinarie contro a
quegli che gli hanno occupata la libertà. Di che ci sono stati assai esempli,
de' quali ne intendo referire solo uno, seguito in Corcira, città di Grecia,
ne' tempi della guerra peloponnesiaca; dove, sendo divisa quella provincia in
due parti, delle quali l'una seguitava gli Ateniesi l'altra gli Spartani, ne
nasceva che di molte città, che erano infra loro divise, l'una parte seguiva
l'amicizia di Sparta, l'altra di Atene: ed essendo occorso che nella detta
città prevalessono i nobili, e togliessono la libertà al popolo, i popolari per
mezzo degli Ateniesi ripresero le forze, e, posto le mani addosso a tutta la
Nobilità, gli rinchiusero in una prigione capace di tutti loro; donde gli
traevono a otto o dieci per volta, sotto titolo di mandargli in esilio in
diverse parti, e quegli con molti crudeli esempli facevano morire. Di che
sendosi, quelli che restavano, accorti, deliberarono in quanto era a loro
possibile, fuggire quella morte ignominiosa: ed armatisi di quello potevano,
combattendo con quelli che vi volevano entrare, la entrata della prigione
difendevano; di modo che il popolo, a questo romore fatto uno concorso,
scoperse la parte superiore di quel luogo, e quegli con quelle rovine suffocò.
Seguirono ancora in detta provincia molti altri simili casi orrendi e notabili;
talché si vede essere vero che con maggiore impeto si vendica una libertà che
ti è suta tolta, che quella che ti è voluta tôrre.
Pensando
dunque donde possa nascere, che, in quegli tempi antichi, i popoli fossero più
amatori della libertà che in questi; credo nasca da quella medesima cagione che
fa ora gli uomini manco forti: la quale credo sia la diversità della educazione
nostra dall'antica. Perché, avendoci la nostra religione mostro la verità e la
vera via, ci fa stimare meno l'onore del mondo: onde i Gentili, stimandolo
assai, ed avendo posto in quello il sommo bene, erano nelle azioni loro più
feroci. Il che si può considerare da molte loro constituzioni, cominciandosi
dalla magnificenza de' sacrifizi loro, alla umiltà de' nostri; dove è qualche
pompa più delicata che magnifica, ma nessuna azione feroce o gagliarda. Qui non
mancava la pompa né la magnificenza delle cerimonie, ma vi si aggiugneva
l'azione del sacrificio pieno di sangue e di ferocità, ammazzandovisi
moltitudine d'animali; il quale aspetto, sendo terribile, rendeva gli uomini
simili a lui.
La
religione antica, oltre a di questo, non beatificava se non uomini pieni di
mondana gloria; come erano capitani di eserciti e principi di republiche. La
nostra religione ha glorificato più gli uomini umili e contemplativi, che gli
attivi. Ha dipoi posto il sommo bene nella umiltà, abiezione, e nel dispregio
delle cose umane: quell'altra lo poneva nella grandezza dello animo, nella
fortezza del corpo, ed in tutte le altre cose atte a fare gli uomini
fortissimi. E se la religione nostra richiede che tu abbi in te fortezza, vuole
che tu sia atto a patire più che a fare una cosa forte. Questo modo di vivere,
adunque, pare che abbi renduto il mondo debole, e datolo in preda agli uomini
scelerati; i quali sicuramente lo possono maneggiare, veggendo come
l'università degli uomini, per andarne in Paradiso, pensa più a sopportare le
sue battiture che a vendicarle. E benché paia che si sia effeminato il mondo, e
disarmato il Cielo, nasce più sanza dubbio dalla viltà degli uomini, che hanno
interpretato la nostra religione secondo l'ozio, e non secondo la virtù.
Perché, se considerassono come la ci permette la esaltazione e la difesa della
patria, vedrebbono come la vuole che noi l'amiamo ed onoriamo, e prepariamoci a
essere tali che noi la possiamo difendere. Fanno adunque queste educazioni, e
sì false interpretazioni, che nel mondo non si vede tante republiche quante si
vedeva anticamente; né, per consequente, si vede ne' popoli tanto amore alla
libertà quanto allora: ancora che io creda più tosto essere cagione di questo,
che lo Imperio romano con le sue arme e sua grandezza spense tutte le republiche
e tutti e' viveri civili. E benché poi tale Imperio si sia risoluto, non si
sono potute le città ancora rimettere insieme né riordinare alla vita civile,
se non in pochissimi luoghi di quello Imperio. Pure, comunque si fusse, i
Romani in ogni minima parte del mondo trovarono una congiura di republiche
armatissime ed ostinatissime alla difesa della libertà loro. Il che mostra che
il popolo romano sanza una rara ed estrema virtù mai non le arebbe potute
superare.
E
per darne esemplo di qualche membro, voglio mi basti lo esemplo de' Sanniti: i
quali pare cosa mirabile, e Tito Livio lo confessa, che fussero sì potenti, e
l'arme loro sì valide, che potessono infino al tempo di Papirio Cursore
consolo, figliuolo del primo Papirio, resistere a' Romani (che fu uno spazio di
quarantasei anni), dopo tante rotte, rovine di terre, e tante strage ricevute
nel paese loro; massime veduto ora quel paese, dove erano tante cittadi e tanti
uomini, essere quasi che disabitato; ed allora vi era tanto ordine e tanta
forza, che gli era insuperabile, se da una virtù romana non fosse stato
assaltato. E facil cosa è considerare donde nasceva quello ordine, e donde
proceda questo disordine; perché tutto viene dal vivere libero allora, ed ora
dal vivere servo. Perché tutte le terre e le provincie che vivono libere in
ogni parte, come di sopra dissi, fanno profitti grandissimi. Perché quivi si
vede maggiori popoli, per essere e' connubi più liberi, più desiderabili dagli
uomini: perché ciascuno procrea volentieri quegli figliuoli che crede potere
nutrire, non dubitando che il patrimonio gli sia tolto; e ch'ei conosce non
solamente che nascono liberi e non schiavi, ma ch'ei possono mediante la virtù
loro diventare principi. Veggonvisi le ricchezze multiplicare in maggiore
numero, e quelle che vengono dalla cultura, e quelle che vengono dalle arti.
Perché ciascuno volentieri multiplica in quella cosa, e cerca di acquistare
quei beni, che crede, acquistati, potersi godere. Onde ne nasce che gli uomini
a gara pensono a' privati e publici commodi; e l'uno e l'altro viene
maravigliosamente a crescere. Il contrario di tutte queste cose segue in quegli
paesi che vivono servi; e tanto più scemono dal consueto bene, quanto più è
dura la servitù. E di tutte le servitù dure, quella è durissima che ti sottomette
a una republica: l'una, perché la è più durabile, e manco si può sperare
d'uscirne; l'altra, perché il fine della republica è enervare ed indebolire,
per accrescere il corpo suo, tutti gli altri corpi. Il che non fa uno principe
che ti sottometta, quando quel principe non sia qualche principe barbaro,
destruttore de' paesi e dissipatore di tutte le civiltà degli uomini, come sono
i principi orientali. Ma s'egli ha in sé ordini umani ed ordinari, il più delle
volte ama le città sue suggette equalmente, ed a loro lascia l'arti tutte, e
quasi tutti gli ordini antichi. Talché, se le non possono crescere come libere,
elle non rovinano anche come schiave; intendendosi della servitù in quale
vengono le città servendo a un forestiero, perché di quelle d'uno loro
cittadino ne parlai di sopra. Chi considererà, adunque, tutto quello che si è
detto, non si maraviglierà della potenza che i Sanniti avevano, sendo liberi, e
della debolezza in che e' vennono poi, servendo: e Tito Livio ne fa fede in più
luoghi, e massime nella guerra di Annibale, dove e' mostra che, sendo i Sanniti
oppressi da una legione di uomini che era in Nola, mandarono oratori ad
Annibale, a pregarlo che gli soccorressi; i quali, nel parlare loro, dissono,
che avevano per cento anni combattuto con i Romani con i propri loro soldati e
propri loro capitani, e molte volte aveano sostenuto dua eserciti consolari e
dua consoli, e che allora a tanta bassezza erano venuti, che non si potevano a
pena difendere da una piccola legione romana che era in Nola.
3
Roma
divenne gran città rovinando le città circunvicine, e ricevendo i forestieri
facilmente a' suoi onori.
«Crescit
interea Roma Albae ruinis». Quegli che disegnono che una città faccia
grande imperio, si debbono con ogni industria ingegnare di farla piena di
abitatori; perché, sanza questa abbondanza di uomini, mai non riuscirà di fare
grande una città. Questo si fa in due modi: per amore e per forza. Per amore,
tenendo le vie aperte e sicure a' forestieri che disegnassono venire ad abitare
in quella, acciocché ciascuno vi abiti volentieri: per forza, disfacendo le
città vicine, e mandando gli abitatori di quelle ad abitare nella tua città. Il
che fu in tanto osservato da Roma, che, nel tempo del sesto re, in Roma
abitavano ottantamila uomini da portare arme. Perché i Romani vollono fare ad
uso del buono cultivatore; il quale, perché una pianta ingrossi, e possa
produrre e maturare i frutti suoi, gli taglia i primi rami che la mette,
acciocché, rimasa quella virtù nel piede di quella pianta, possano col tempo
nascervi più verdi e più fruttiferi. E che questo modo, tenuto per ampliare e
fare imperio, fusse necessario e buono lo dimostra lo esemplo di Sparta e di
Atene: le quali essendo dua republiche armatissime, ed ordinate di ottime
leggi, nondimeno non si condussono alla grandezza dello Imperio romano; e Roma
pareva più tumultuaria, e non tanto bene ordinata come quelle. Di che non se ne
può addurre altra cagione, che la preallegata: perché Roma, per avere
ingrossato per quelle due vie il corpo della sua città, potette di già mettere
in arme dugentottantamila uomini; e Sparta ed Atene non passarono mai ventimila
per ciascuna. Il che nacque, non da essere il sito di Roma più benigno che
quello di coloro, ma solamente da diverso modo di procedere. Perché Licurgo,
fondatore della republica spartana, considerando nessuna cosa potere più
facilmente risolvere le sue leggi che la commistione di nuovi abitatori, fece
ogni cosa perché i forestieri non avessono a conversarvi: ed oltre a non gli
ricevere ne' matrimoni, alla civilità, ed alle altre conversazioni che fanno
convenire gli uomini insieme, ordinò che in quella sua republica si spendesse
monete di cuoio, per tor via a ciascuno il disiderio di venirvi per portarvi
mercanzie, o portarvi alcuna arte; di qualità che quella città non potette mai
ingrossare di abitatori. E perché tutte le azioni nostre imitano la natura, non
è possibile né naturale che uno pedale sottile sostenga uno ramo grosso. Però
una republica piccola non può occupare città né regni che sieno più validi né
più grossi di lei; e, se pure gli occupa, gl'interviene come a quello albero
che avesse più grosso il ramo che il piede, che, sostenendolo con fatica, ogni
piccol vento lo fiacca: come si vide che intervenne a Sparta; la quale avendo
occupate tutte le città di Grecia, non prima se gli ribellò Tebe, che tutte le
altre città se gli ribellarono, e rimase il pedale solo sanza rami. Il che non
potette intervenire a Roma, avendo il piè sì grosso, che qualunque ramo poteva
facilmente sostenere. Questo modo adunque di procedere, insieme con gli altri
che di sotto si diranno, fece Roma grande e potentissima. Il che dimostra Tito
Livio in due parole, quando disse: «Crescit interea Roma Albae ruinis».
4
Le
republiche hanno tenuti tre modi circa lo ampliare.
Chi
ha osservato le antiche istorie, trova come le republiche hanno tenuti tre modi
circa lo ampliare. L'uno è stato quello che osservarono i Toscani antichi, di
essere una lega di più republiche insieme, dove non sia alcuna che avanzi
l'altra né di autorità né di grado; e, nello acquistare, farsi l'altre città
compagne, in simil modo come in questo tempo fanno i Svizzeri, e come ne' tempi
antichi fecero in Grecia gli Achei e gli Etoli. E perché i Romani feciono assai
guerra co' Toscani, per mostrare meglio le qualità di questo primo modo, mi
distenderò in dare notizia di loro particularmente. In Italia, innanzi allo
Imperio romano, furono i Toscani per mare e per terra potentissimi: e benché
delle cose loro non ce ne sia particulare istoria, pure c'è qualche poco di
memoria, e qualche segno della grandezza loro; e si sa come e' mandarono una
colonia in su 'l mare di sopra, la quale chiamarono Adria, che fu sì nobile,
che la dette nome a quel mare che ancora i Latini chiamono Adriatico. Intendesi
ancora, come le loro armi furono ubbidite dal Tevere per infino a piè delle
Alpi che ora cingono il grosso di Italia; non ostante che, dugento anni innanzi
che i Romani crescessono in molte forze, detti Toscani perderono lo imperio di
quel paese che oggi si chiama la Lombardia; la quale provincia fu occupata da'
Franciosi: i quali, mossi o da necessità o dalla dolcezza dei frutti, e massime
del vino vennono in Italia sotto Belloveso loro duca; e rotti e cacciati i
provinciali, si posono in quello luogo, dove edificarono di molte cittadi, e
quella provincia chiamarono Gallia, dal nome che tenevano allora; la quale
tennono fino che da' Romani fussero domi. Vivevono, adunque, i Toscani con quella
equalità, e procedevano nello ampliare in quel primo modo che di sopra si dice:
e furono dodici città, tra le quali era Chiusi, Veio, Arezzo, Fiesole,
Volterra, e simili: i quali per via di lega governavano lo Imperio loro; né
poterono uscire d'Italia con gli acquisti; e di quella ancora rimase intatta
gran parte, per le cagioni che di sotto si diranno. L'altro modo è farsi
compagni: non tanto però che non ti rimanga il grado del comandare, la sedia
dello Imperio, ed il titolo delle imprese: il quale modo fu osservato da'
Romani. Il terzo modo è farsi immediate sudditi, e non compagni; come fecero
gli Spartani e gli Ateniesi. De' quali tre modi, questo ultimo è al tutto
inutile; come si vide ch'ei fu nelle soprascritte due republiche: le quali non
rovinarono per altro, se non per avere acquistato quel dominio che le non
potevano tenere. Perché, pigliare cura di avere a governare città con violenza,
massime quelle che fussono consuete a vivere libere, è una cosa difficile e
faticosa. E se tu non sei armato, e grosso d'armi, non le puoi né comandare né
reggere. Ed a volere essere così fatto, è necessario farsi compagni che ti
aiutino, e ingrossare la tua città di popolo. E perché queste due città non
fecero né l'uno né l'altro, il modo di procedere loro fu inutile. E perché
Roma, la quale è nello esemplo del secondo modo, fece l'uno e l'altro, però
salse a tanta eccessiva potenza. E perché la è stata sola a vivere così, è
stata ancora sola a diventare tanto potente: perché, avendosi lei fatti di
molti compagni per tutta Italia, i quali in di molte cose con equali leggi
vivevano seco; e, dall'altro canto, come di sopra è detto, sendosi riserbata
sempre la sedia dello Imperio ed il titolo del comandare, questi suoi compagni
venivano, che non se ne avvedevano, con le fatiche e con il sangue loro a
soggiogare sé stessi. Perché, come ei cominciarono a uscire con gli eserciti di
Italia, e ridurre i regni in provincie, e farsi suggetti coloro che, per essere
consueti a vivere sotto i re, non si curavano di essere suggetti, ed avendo
governatori romani, ed essendo stati vinti da eserciti con il titolo romano,
non riconoscevano per superiore altro che Roma. Di modo che quegli compagni di
Roma che erano in Italia, si trovarono in un tratto cinti da' sudditi romani,
ed oppressi da una grossissima città come era Roma; e quando ei s'avviddono
dello inganno sotto il quale erano vissuti, non furono a tempo a rimediarvi;
tanta autorità aveva presa Roma con le provincie esterne, e tanta forza si
trovava in seno, avendo la sua città grossissima ed armatissima. E benché
quelli suoi compagni, per vendicarsi delle ingiurie, le congiurassero contro,
furono in poco tempo perditori della guerra, peggiorando le loro condizioni;
perché, di compagni, diventarono ancora loro sudditi. Questo modo di procedere,
come è detto, è stato solo osservato da' Romani: né può tenere altro modo una
republica che voglia ampliare; perché la esperienza non ce ne ha mostro nessuno
più certo o più vero.
Il
modo preallegato delle leghe, come viverono i Toscani, gli Achei e gli Etoli e
come oggi vivono i Svizzeri è, dopo a quello de' Romani, il migliore modo;
perché, non si potendo con quello ampliare assai, ne séguita due beni; l'uno,
che facilmente non ti tiri guerra a dosso; l'altro, che quel tanto che tu pigli,
lo tieni facilmente. La cagione del non potere ampliare è lo essere una
republica disgiunta e posta in varie sedie: il che fa che difficilmente possono
consultare e diliberare. Fa, ancora, che non sono desiderosi di dominare:
perché, essendo molte comunità a participare di quel dominio, non stimano tanto
tale acquisto quanto fa una republica sola, che spera di goderselo tutto.
Governonsi, oltra di questo, per concilio, e conviene che sieno più tardi ad
ogni diliberazione, che quelli che abitono drento a uno medesimo cerchio.
Vedesi ancora per sperienza, che simile modo di procedere ha un termine fisso,
il quale non ci è esemplo che mostri che si sia trapassato: e questo è di
aggiugnere a dodici o quattordici comunità; dipoi, non cercare di andare più avanti:
perché, sendo giunti a grado che pare loro potersi difendere da ciascuno, non
cercono maggiore dominio; sì perché la necessità non gli stringe di avere più
potenza; sì per non conoscere utile negli acquisti, per le cagioni dette di
sopra. Perché gli arebbono a fare una delle due cose; o a seguitare di farsi
compagni, e questa moltitudine farebbe confusione; o egli arebbono a farsi
sudditi, e perché e' veggono in questo difficultà, e non molto utile nel
tenergli, non lo stimano. Pertanto, quando e' sono venuti a tanto numero che
paia loro vivere sicuri, si voltono a due cose: l'una a ricevere raccomandati,
e pigliare protezioni; e per questi mezzi trarre da ogni parte danari, i quali
facilmente infra loro si possono distribuire: l'altra è militare per altrui, e
pigliare soldo da questo e da quel principe che per sue imprese gli solda; come
si vede che fanno oggi i Svizzeri, e come si legge che facevano i preallegati.
Di che n'è testimone Tito Livio, dove dice che, venendo a parlamento Filippo re
di Macedonia con Tito Quinzio Flaminio, e ragionando d'accordo alla presenza
d'uno pretore degli Etoli, e venendo a parole detto pretore con Filippo, gli fu
da quello rimproverato la avarizia e la infidelità dicendo che gli Etoli non si
vergognavano militare con uno, e poi mandare loro uomini ancora a servigio del
nimico; talché molte volte intra due contrari eserciti si vedevano le insegne
di Etolia. Conoscesi, pertanto, come questo modo di procedere per leghe, è
stato sempre simile, ed ha fatto simili effetti. Vedesi ancora, che quel modo
di fare sudditi è stato sempre debole, ed avere fatto piccoli profitti; e
quando pure egli hanno passato il modo, essere rovinati tosto. E se questo modo
di fare sudditi è inutile nelle republiche armate, in quelle che sono disarmate
è inutilissimo: come sono state ne' nostri tempi le republiche d'Italia.
Conoscesi, pertanto, essere vero modo quello che tennono i Romani, il quale è
tanto più mirabile, quanto e' non ce n'era innanzi a Roma esemplo, e dopo Roma
non è stato alcuno che gli abbi imitati. E quanto alle leghe, si trovano solo i
Svizzeri e la lega di Svezia che gli imita. E, come nel fine di questa materia
si dirà, tanti ordini osservati da Roma, così pertinenti alle cose di dentro
come a quelle di fuora, non sono ne' presenti nostri tempi non solamente
imitati, ma non n'è tenuto alcuno conto: giudicandoli alcuni non veri, alcuni
impossibili, alcuni non a proposito ed inutili; tanto che, standoci con questa
ignoranzia, siamo preda di qualunque ha voluto correre questa provincia. E
quando la imitazione de' Romani paresse difficile, non doverrebbe parere così
quella degli antichi Toscani, massime a' presenti Toscani. Perché, se quelli
non poterono, per le cagioni dette, fare uno Imperio simile a quel di Roma,
poterono acquistare in Italia quella potenza che quel modo del procedere
concesse loro. Il che fu, per un gran tempo, sicuro, con somma gloria d'imperio
e d'arme, e massime laude di costumi e di religione. La quale potenza e gloria
fu prima diminuita da' Franciosi, dipoi spenta da' Romani: e fu tanto spenta,
che, ancora che, dumila anni fa, la potenza de' Toscani fusse grande, al
presente non ce n'è quasi memoria. La quale cosa mi ha fatto pensare donde
nasca questa oblivione delle cose: come nel seguente capitolo si discorrerà.
5
Che
la variazione delle sètte e delle lingue, insieme con l'accidente de' diluvii o
della peste, spegne le memorie delle cose.
A
quegli filosofi che hanno voluto che il mondo sia stato eterno, credo che si
potesse replicare che, se tanta antichità fusse vera, e' sarebbe ragionevole
che ci fussi memoria di più che cinquemila anni; quando e' non si vedesse come
queste memorie de' tempi per diverse cagioni si spengano: delle quali, parte
vengono dagli uomini, parte dal cielo. Quelle che vengono dagli uomini sono le
variazioni delle sètte e delle lingue. Perché, quando e' surge una setta nuova,
cioè una religione nuova, il primo studio suo è, per darsi riputazione,
estinguere la vecchia; e, quando gli occorre che gli ordinatori della nuova
setta siano di lingua diversa, la spengono facilmente. La quale cosa si conosce
considerando e' modi che ha tenuti la setta Cristiana contro alla Gentile; la
quale ha cancellati tutti gli ordini, tutte le cerimonie di quella, e spenta
ogni memoria di quella antica teologia. Vero è che non gli è riuscito spegnere
in tutto la notizia delle cose fatte dagli uomini eccellenti di quella: il che
è nato per avere quella mantenuta la lingua latina; il che feciono
forzatamente, avendo a scrivere questa legge nuova con essa. Perché, se
l'avessono potuta scrivere con nuova lingua, considerato le altre persecuzioni
gli feciono, non ci sarebbe ricordo alcuno delle cose passate. E chi legge i
modi tenuti da San Gregorio, e dagli altri capi della religione cristiana,
vedrà con quanta ostinazione e' perseguitarono tutte le memorie antiche,
ardendo le opere de' poeti e degli istorici, ruinando le imagini e guastando
ogni altra cosa che rendesse alcun segno della antichità. Talché, se a questa
persecuzione egli avessono aggiunto una nuova lingua, si sarebbe veduto in
brevissimo tempo ogni cosa dimenticare. È da credere, pertanto, che quello che
ha voluto fare la setta Cristiana contro alla setta Gentile, la Gentile abbia
fatto contro a quella che era innanzi a lei. E perché queste sètte in cinque o
in seimila anni variano due o tre volte, si perde la memoria delle cose fatte
innanzi a quel tempo; e se pure ne resta alcun segno, si considera come cosa
favolosa, e non è prestato loro fede: come interviene alla istoria di Diodoro
Siculo, che, benché e' renda ragione di quaranta o cinquantamila anni,
nondimeno è riputato, come io credo, che sia cosa mendace.
Quanto
alle cause che vengono dal cielo, sono quelle che spengono la umana
generazione, e riducano a pochi gli abitatori di parte del mondo. E questo
viene o per peste o per fame o per una inondazione d'acque: e la più importante
è questa ultima, sì perché la è più universale, sì perché quegli che si salvono
sono uomini tutti montanari e rozzi, i quali, non avendo notizia di alcuna
antichità, non la possono lasciare a' posteri. E se infra loro si salvasse
alcuno che ne avessi notizia, per farsi riputazione e nome, la nasconde, e la
perverte a suo modo; talché ne resta solo a' successori quanto ei ne ha voluto
scrivere, e non altro. E che queste inondazioni, peste e fami venghino, non
credo sia da dubitarne; sì perché ne sono piene tutte le istorie, sì perché si
vede questo effetto della oblivione delle cose, sì perché e' pare ragionevole
ch'e' sia: perché la natura, come ne' corpi semplici, quando e' vi è ragunato
assai materia superflua, muove per sé medesima molte volte, e fa una
purgazione, la quale è salute di quel corpo; così interviene in questo corpo
misto della umana generazione, che, quando tutte le provincie sono ripiene di
abitatori, in modo che non possono vivervi, né possono andare altrove, per
essere occupati e ripieni tutti i luoghi; e quando la astuzia e la malignità
umana è venuta dove la può venire, conviene di necessità che il mondo si purghi
per uno de' tre modi; acciocché gli uomini, sendo divenuti pochi e battuti,
vivino più comodamente, e diventino migliori. Era dunque, come di sopra è
detto, già la Toscana potente, piena di religione e di virtù, aveva i suoi
costumi e la sua lingua patria: il che tutto è suto spento dalla potenza
romana. Talché, come si è detto, di lei ne rimane solo la memoria del nome.
6
Come
i Romani procedevano nel fare la guerra.
Avendo
discorso come i Romani procedevano nello ampliare, discorrereno ora come e'
procedevano nel fare la guerra; ed in ogni loro azione si vedrà con quanta
prudenzia ei deviarono dal modo universale degli altri, per facilitarsi la via
a venire a una suprema grandezza. La intenzione di chi fa guerra per elezione,
o vero per ambizione, è acquistare e mantenere lo acquistato; e procedere in
modo con essa, che l'arricchisca e non impoverisca il paese e la patria sua. È
necessario dunque, e nello acquistare e nel mantenere, pensare di non spendere;
anzi fare ogni cosa con utilità del publico suo. Chi vuole fare tutte queste
cose, conviene che tenga lo stile e modo romano: il quale fu in prima di fare
le guerre, come dicano i Franciosi, corte e grosse; perché, venendo in campagna
con eserciti grossi, tutte le guerre che gli ebbono con i Latini, Sanniti e
Toscani, le spedirano in brevissimo tempo. E se si noteranno tutte quelle che
feciono dal principio di Roma infino alla ossidione de' Veienti, tutte si
vedranno ispedite, quale in sei, quale in dieci, quale in venti dì. Perché
l'uso loro era questo: subito che era scoperta la guerra, egli uscivano fuora
con gli eserciti allo incontro del nimico, e subito facevano la giornata. La
quale vinta, i nimici, perché non fosse guasto loro il contado affatto venivano
alle condizioni ed i Romani gli condannavano in terreni: i quali terreni gli convertivano
in privati commodi o gli consegnavano ad una colonia; la quale posta in su le
frontiere di coloro veniva ad essere guardia de' confini romani, con utile di
essi coloni, che avevano quegli campi, e con utile del publico di Roma, che
sanza spesa teneva quella guardia. Né poteva questo modo essere più sicuro, o
più forte, o più utile: perché mentre che i nimici non erano in su i campi,
quella guardia bastava: come e' fossono usciti fuori grossi per opprimere
quella colonia, ancora i Romani uscivano fuori grossi, e venivano a giornata
con quegli, e fatta e vinta la giornata, imponendo loro più grave condizione,
si tornavano in casa. Così venivano ad acquistare di mano in mano riputazione
sopra di loro, e forze in sé medesimi. E questo modo vennono tenendo infino che
mutarono modo di procedere in guerra: il che fu dopo la ossidione de' Veienti;
dove, per potere fare guerra lungamente, gli ordinarono di pagare i soldati,
che prima, per non essere necessario, essendo le guerre brevi, non gli
pagavano. E benché i Romani dessino il soldo, e che per virtù di questo ei
potessono fare le guerre più lunghe, e per farle più discosto la necessità gli
tenesse più in su' campi; nondimeno non variarono mai dal primo ordine di
finirle presto, secondo il luogo ed il tempo; né variarono mai dal mandare le
colonie. Perché nel primo ordine gli tenne, circa il fare le guerre brevi oltra
a il loro naturale uso, l'ambizione de' Consoli; i quali avendo a stare uno
anno e di quello anno sei mesi alle stanze, volevano finire la guerra per
trionfare. Nel mandare le colonie gli tenne l'utile e la commodità grande che
ne risultava.
Variarono
bene alquanto circa le prede, delle quali non erano così liberali come erano
stati prima; sì perché e' non pareva loro tanto necessario, avendo i soldati lo
stipendio; sì perché, essendo le prede maggiori, disegnavano d'ingrassare di
quelle in modo il publico che non fussono constretti a fare le imprese con
tributi della città. Il quale ordine in poco tempo fece il loro erario
ricchissimo. Questi dua modi, adunque, e circa il distribuire la preda, e circa
il mandare le colonie, feciono che Roma arricchiva della guerra; dove gli altri
principi e republiche non savie ne impoveriscono. E si ridusse la cosa in
termine, che a uno Consolo non pareva potere trionfare, se non portava col suo
trionfo assai oro ed argento, e d'ogni altra sorta preda, nello erario. Così i
Romani, con i soprascritti termini, e con il finire le guerre presto, sendo
valenti con lunghezza straccare i nimici, e con le rotte e con le scorrerie e
con accordi a loro vantaggi, diventarono sempre più ricchi e più potenti.
7
Quanto
terreno i Romani davano per colono.
Quanto
terreno i Romani distribuissono per colono, credo sia difficile trovarne la
verità. Perché io credo ne dessino più o manco, secondo i luoghi dove e'
mandavano le colonie. Giudicasi che ad ogni modo ed in ogni luogo la
distribuzione fussi parca: prima, per potere mandare più uomini, sendo quelli
diputati per guardia di quel paese; dipoi perché, vivendo loro poveri a casa,
non era ragionevole che volessono che i loro uomini abbondassino troppo fuora.
E Tito Livio dice come, preso Veio, e' vi mandarono una colonia, e
distribuirono a ciascuno tre iugeri e sètte once di terra; che sono, al modo
nostro.... Perché, oltre alle cose soprascritte, e'giudicavano che non lo assai
terreno, ma il bene cultivato, bastasse. È necessario bene, che tutta la
colonia abbi campi publici dove ciascuno possa pascere il suo bestiame, e selve
dove prendere del legname per ardere; sanza le quali cose non può una colonia
ordinarsi.
8
La
cagione perché i popoli si partono da' luoghi patrii, ed inondano il paese
altrui.
Poiché
di sopra si è ragionato del modo nel procedere nella guerra osservato da'
Romani, e come i Toscani furono assaltati da' Franciosi, non mi pare alieno
dalla materia discorrere, come le si fanno di dua generazioni guerre. L'una è
fatta per ambizione de' principi o delle republiche, che cercano di propagare
lo imperio; come furono le guerre che fece Alessandro Magno, e quelle che
fecero i Romani, e quelle che fanno, ciascuno dì, l'una potenza con l'altra. Le
quali guerre sono pericolose, ma non cacciano al tutto gli abitatori d'una
provincia; perché e' basta, al vincitore, solo la ubbidienza de' popoli, e il
più delle volte gli lascia vivere con le loro leggi, e sempre con le loro case,
e ne' loro beni. L'altra generazione di guerra è quando uno popolo intero con
tutte le sue famiglie si lieva d'uno luogo, necessitato o dalla fame o dalla
guerra, e va a cercare nuova sede e nuova provincia; non per comandarla, come
quegli di sopra, ma per possederla tutta particularmente, e cacciarne o
ammazzare gli abitatori antichi di quella. Questa guerra è crudelissima e
paventosissima. E di queste guerre ragiona Sallustio nel fine dell'Iugurtino,
quando dice che, vinto Iugurta, si sentì il moto de' Franciosi che venivano in
Italia: dove ei dice che il Popolo romano con tutte le altre genti combatté
solamente per chi dovesse comandare, ma con i Franciosi combatté sempre per la
salute di ciascuno. Perché a un principe o a una republica, che assalta una
provincia, basta spegnere solo coloro che comandano; ma a queste populazioni
conviene spegnere ciascuno, perché vogliono vivere di quello che altri viveva.
I Romani ebbero tre di queste guerre pericolosissime. La prima fu quella quando
Roma fu presa, la quale fu occupata da quei Franciosi che avevano tolto, come
di sopra si disse, la Lombardia a' Toscani, e fattone loro sedia; della quale
Tito Livio ne allega due cagioni: la prima, come di sopra si disse, che furono
allettati dalla dolcezza delle frutte e del vino d'Italia, delle quali
mancavano in Francia; la seconda che, essendo quel regno francioso multiplicato
in tanto di uomini, che non vi si potevono più nutrire, giudicarono i principi
di quelli luoghi, che e' fusse necessario che una parte di loro andasse a
cercare nuova terra, e, fatta tale deliberazione, elessono, per capitani di
quegli che si avevano a partire, Belloveso e Sicoveso, duoi re de' Franciosi:
de' quali Belloveso venne in Italia, e Sicoveso passò in Ispagna. Dalla passata
del quale Belloveso nacque la occupazione di Lombardia, e di quindi la guerra
che prima i Franciosi fecero a Roma. Dopo questa, fu quella che fecero dopo la
prima guerra cartaginese, quando intra Piombino e Pisa ammazzarono più che
dugentomila Franciosi. La terza, fu quando i Tedeschi e' Cimbri vennero in
Italia: i quali, avendo vinti più eserciti romani, furono vinti da Mario.
Vinsero adunque i Romani queste tre guerre pericolosissime. Né era necessario
minore virtù a vincerle, perché si vide poi, come la virtù romana mancò e che
quelle armi perderono il loro antico valore, fu quello imperio destrutto da
simili popoli: i quali furono Gotti, Vandali, e simili, che occuparono tutto lo
Imperio occidentale.
Escono
tali popoli de' paesi loro, come di sopra si disse, cacciati dalla necessità: e
la necessità nasce o dalla fame, o da una guerra ed oppressione che ne' paesi
propri è loro fatta: talché e' son constretti cercare nuove terre. E questi tali,
o e' sono gran numero; ed allora con violenza entrano ne' paesi d'altrui,
ammazzano gli abitatori, posseggono i loro beni, fanno uno nuovo regno, mutano
il nome della provincia: come fece Moisè, e quelli popoli che occuparono lo
Imperio romano. Perché questi nomi nuovi che sono nella Italia e nelle altre
provincie, non nascono da altro che da essere state nomate così da nuovi
occupatori: come è la Lombardia, che si chiamava Gallia Cisalpina: la Francia
si chiamava Gallia Transalpina, ed ora è nominata da' Franchi, che così si
chiamavono quelli popoli che la occuparono: la Schiavonia si chiamava Illiria;
l'Ungheria, Pannonia; l'Inghilterra, Britannia; e molte altre provincie che
hanno mutato nome, le quali sarebbe tedioso raccontare. Moisè ancora chiamò
Giudea quella parte di Soria occupata da lui. E perché io ho detto, di sopra,
che qualche volta tali popoli sono cacciati dalla propria sede per guerra,
donde sono constretti cercare nuove terre; ne voglio addurre lo esemplo de'
Maurusii, popoli anticamente in Soria: i quali, sentendo venire i popoli
ebraici, e giudicando non potere loro resistere, pensarono essere meglio
salvare loro medesimi, e lasciare il paese proprio, che, per volere salvare
quello, perdere ancora loro; e levatisi con loro famiglie, se ne andarono in
Africa, dove posero la loro sedia, cacciando via quelli abitatori che in quegli
luoghi trovarono. E così quegli che non avevano potuto difendere il loro paese,
potettono occupare quello d'altrui. E Procopio, che scrive la guerra che fece Belisario
coi Vandali, occupatori della Africa, riferisce avere letto lettere scritte in
certe colonne, ne' luoghi dove questi Maurusii abitavano, le quali dicevano: «Nos
Maurusii, qui fugimus a facie Jesu latronis filii Navae». Dove apparisce la
cagione della partita loro di Soria. Sono, pertanto, questi popoli
formidolosissimi, sendo cacciati da una ultima necessità; e se e' non
riscontrano buone armi, non mai saranno sostenuti. Ma quando quegli che sono
costretti abbandonare la loro patria non sono molti, non sono sì pericolosi
come quelli popoli di chi si è ragionato; perché non possono usare tanta
violenza, ma conviene loro con arte occupare qualche luogo, e, occupatolo,
mantenervisi per via d'amici e di confederati: come si vede che fece Enea,
Didone, i Massiliesi e simili; i quali tutti, per consentimento de' vicini,
dov'e' posono, poterono mantenervisi. Escono i popoli grossi, e sono usciti
quasi tutti, de' paesi di Scizia; luoghi freddi e poveri: dove, per essere
assai uomini, ed il paese di qualità da non gli potere nutrire, sono forzati
uscirne, avendo molte cose che gli cacciono, e nessuna che gli ritenga. E se,
da cinquecento anni in qua, non è occorso che alcuni di questi popoli abbiano
inondato alcuno paese, è nato per più cagioni. La prima, la grande evacuazione
che fece quel paese nella declinazione dello Imperio, donde uscirono più di
trenta popoli. La seconda è che la Magna e l'Ungheria, donde ancora uscivano di
queste genti hanno ora il loro paese bonificato in modo che vi possono vivere
agiatamente; talché non sono necessitati di mutare luogo. Dall'altra parte,
sendo loro uomini bellicosissimi, sono come uno bastione a tenere che gli
Sciti, i quali con loro confinano, non presumino di potere vincergli o
passarli. E spesse volte occorrono movimenti grandissimi de' Tartari che sono
dipoi dagli Ungheri e da quelli di Polonia sostenuti; e spesso si gloriano,
che, se non fussono l'armi loro, la Italia e la Chiesa arebbe molte volte
sentito il peso degli eserciti tartari. E questo voglio basti quanto ai prefati
popoli.
9
Quali
cagioni comunemente faccino nascere le guerre intra i potenti.
La
cagione che fece nascere guerra intra i Romani ed i Sanniti, che erano stati in
lega gran tempo, è una cagione comune che nasce infra tutti i principati potenti.
La quale cagione o la viene a caso o la è fatta nascere da colui che disidera
muovere la guerra. Quella che nacque intra i Romani ed i Sanniti fu a caso;
perché la intenzione de' Sanniti non fu, movendo guerra a' Sidicini, e dipoi ai
Campani, muoverla ai Romani. Ma, sendo i Campani oppressati, e ricorrendo a
Roma fuora della opinione de' Romani e de' Sanniti, furono forzati, dandosi i
Campani ai Romani, come cosa loro defendergli, e pigliare quella guerra che a
loro parve non potere con loro onore fuggire. Perché e' pareva bene ai Romani
ragionevole non potere difendere i Campani come amici, contro a' Sanniti amici,
ma pareva ben loro vergogna non gli difendere come sudditi ovvero raccomandati;
giudicando, quando e' non avessino presa tale difesa, tôrre la via a tutti
quegli che disegnassino venire sotto la potestà loro. Perché, avendo Roma per
fine lo imperio e la gloria, e non la quiete, non poteva ricusare questa
impresa.
Questa
medesima cagione dette principio alla prima guerra contro ai Cartaginesi, per
la defensione che i Romani presono de' Messinesi in Sicilia: la quale fu ancora
a caso. Ma non fu già a caso, dipoi, la seconda guerra che nacque infra loro;
perché Annibale capitano cartaginese assaltò i Saguntini amici de' Romani in
Ispagna, non per offendere quelli, ma per muovere l'armi romane, ed avere
occasione di combatterli, e passare in Italia.
Questo
modo nello appiccare nuove guerre è stato sempre consueto intra i potenti, e
che si hanno, e della fede e d'altro, qualche rispetto. Perché, se io voglio
fare guerra con uno principe, ed infra noi siano fermi capitoli per un gran
tempo osservati, con altra giustificazione e con altro colore assalterò io uno
suo amico che lui proprio; sappiendo, massime, che, nello assaltare lo amico, o
ei si risentirà, ed io arò lo intento mio di farli guerra, o, non si
risentendo, si scoprirà la debolezza o la infidelità sua, di non difendere uno
suo raccomandato. E l'una e l'altra di queste due cose è per tôrli riputazione,
e per fare più facili i disegni miei. Debbesi notare, adunque, e per la
dedizione de' Campani, circa al muovere guerra, quanto di sopra si è detto; e
di più, quale rimedio abbia una città che non si possa per sé stessa difendere,
e vogliasi difendere in ogni modo da quello che l'assalta: il quale è darsi
liberamente a quello che tu disegni che ti difenda, come feciono i Capovani a'
Romani, e i Fiorentini a il re Ruberto di Napoli: il quale non gli volendo
difendere come amici, gli difese poi come sudditi contro alle forze di
Castruccio da Lucca, che gli opprimeva.
10
I
danari non sono il nervo della guerra, secondo che è la comune opinione.
Perché
ciascuno può cominciare una guerra a sua posta, ma non finirla, debbe uno
principe, avanti che prenda una impresa, misurare le forze sue, e secondo
quelle governarsi. Ma debbe avere tanta prudenza, che delle sue forze ei non
s'inganni; ed ogni volta s'ingannerà, quando le misuri o dai danari, o dal
sito, o dalla benivolenza degli uomini, mancando, dall'altra parte, d'armi
proprie. Perché le cose predette ti accrescono bene le forze, ma ben non te le
danno; e per sé medesime sono nulla; e non giovono alcuna cosa sanza l'armi
fedeli. Perché i danari assai non ti bastano sanza quelle; non ti giova la
fortezza del paese e la fede e benivolenza degli uomini non dura, perché questi
non ti possono essere fedeli, non gli potendo difendere. Ogni monte, ogni lago,
ogni luogo inaccessibile diventa piano, dove i forti difensori mancano. I
danari ancora, non solo non ti difendono, ma ti fanno predare più presto. Né
può essere più falsa quella comune opinione che dice, che i danari sono il
nervo della guerra. La quale sentenza è detta da Quinto Curzio nella guerra che
fu intra Antipatro macedone e il re spartano: dove narra, che, per difetto di
danari, il re di Sparta fu necessitato azzuffarsi, e fu rotto; ché se ei
differiva la zuffa pochi giorni, veniva la nuova in Grecia della morte di
Alessandro, donde ei sarebbe rimaso vincitore sanza combattere: ma, mancandogli
i danari, e dubitando che lo esercito suo per difetto di quegli non lo
abbandonasse, fu constretto tentare la fortuna della zuffa: talché Quinto
Curzio per questa cagione afferma, i danari essere il nervo della guerra. La
quale sentenza è allegata ogni giorno, e da' principi, non tanto prudenti che
basti, seguitata. Perché, fondatisi sopra quella, credono che basti loro, a
difendersi, avere tesoro assai, e non pensano che se il tesoro bastasse a
vincere, che Dario arebbe vinto Alessandro; i Greci arebbono vinto i Romani;
ne' nostri tempi il duca Carlo arebbe vinti i Svizzeri; e pochi giorni sono, il
Papa ed i Fiorentini insieme non arebbono avuta difficultà in vincere Francesco
Maria, nipote di papa Iulio II, nella guerra di Urbino. Ma tutti i soprannominati
furono vinti da coloro che non il danaio ma i buoni soldati stimano essere il
nervo della guerra. Intra le altre cose che Creso re de' Lidii mostrò a Solone
ateniese, fu uno tesoro innumerabile, e domandando quel che gli pareva della
potenza sua, gli rispose Solone, che per quello e' non lo giudicava più
potente; perché la guerra si faceva con il ferro e non con l'oro, e che poteva
venire uno che avessi più ferro di lui, e torgliene. Oltre a di questo, quando,
dopo la morte di Alessandro Magno, una moltitudine di Franciosi passò in
Grecia, e poi in Asia, e, mandando i Franciosi oratori a il re di Macedonia per
trattare certo accordo; quel re, per mostrare la potenza sua e per sbigottirli,
mostrò loro oro ed ariento assai: donde quelli Franciosi, che di già avevano
come ferma la pace, la ruppono; tanto desiderio in loro crebbe di torgli
quell'oro: e così fu quel re spogliato per quella cosa che egli aveva per sua
difesa accumulata. I Viniziani, pochi anni sono, avendo ancora lo erario loro
pieno di tesoro, perderno tutto lo stato, sanza potere essere difesi da quello.
Dico pertanto, non l'oro, come grida la comune opinione, essere il nervo della
guerra, ma i buoni soldati: perché l'oro non è sufficiente a trovare i buoni
soldati, ma i buoni soldati sono bene sufficienti a trovare l'oro.
Ai
Romani, s'eglino avessoro voluto fare la guerra più con i danari che con il
ferro, non sarebbe bastato avere tutto il tesoro del mondo, considerato le
grandi imprese che feciono, e le difficultà che vi ebbono dentro. Ma, faccendo
le loro guerre con il ferro, non patirono mai carestia dell'oro, perché da
quegli che gli temevano era portato loro infino ne' campi. E se quel re
spartano per carestia di danari ebbe a tentare la fortuna della zuffa,
intervenne a lui quello, per conto de' danari, che molte volte è intervenuto
per altre cagioni: perché si è veduto che, mancando a uno esercito le
vettovaglie, ed essendo necessitati o a morire di fame o azzuffarsi, si piglia
il partito sempre di azzuffarsi, per essere più onorevole, e dove la fortuna ti
può in qualche modo favorire. Ancora è intervenuto molte volte, che, veggendo
uno capitano al suo esercito inimico venire soccorso, gli conviene o azzuffarsi
con quello e tentare la fortuna della zuffa; o, aspettando ch'egli ingrossi,
avere a combattere in ogni modo, con mille suoi disavvantaggi. Ancora si è
visto (come intervenne a Asdrubale, quando nella Marca fu assaltato da Claudio
Nerone, insieme con l'altro console romano) che un capitano, necessitato o a
fuggirsi o a combattere, come sempre elegge il combattere; parendogli in questo
partito, ancora che dubbiosissimo, potere vincere; ed in quello altro avere a
perdere in ogni modo.
Sono,
adunque, molte necessitadi che fanno a un capitano fuor della sua intenzione
pigliare partito di azzuffarsi, intra le quali qualche volta può essere la
carestia de' danari; né per questo si debbono i danari giudicare essere il
nervo della guerra, più che le altre cose che inducano gli uomini a simile
necessità. Non è, adunque, replicandolo di nuovo, l'oro il nervo della guerra,
ma i buoni soldati. Son bene necessari i danari in secondo luogo, ma è una
necessità che i soldati buoni per sé medesimi la vincono; perché è impossibile
che ai buoni soldati manchino i danari, come che i danari per loro medesimi
trovino i buoni soldati. Mostra, questo che noi diciamo essere vero, ogni
istoria in mille luoghi; non ostante che Pericle consigliasse gli Ateniesi a
fare guerra con tutto il Peloponnesso, mostrando ch'e' potevano vincere quella
guerra con la industria e con la forza del danaio. E benché in tale guerra gli
Ateniesi prosperassino qualche volta, in ultimo la perderono; e valson più il
consiglio e li buoni soldati di Sparta, che la industria ed il danaio di Atene.
Ma Tito Livio è di questa opinione più vero testimone che alcuno altro, dove,
discorrendo se Alessandro Magno fussi venuto in Italia, s'egli avesse vinto i
Romani, mostra essere tre cose necessarie nella guerra; assai soldati e buoni,
capitani prudenti, e buona fortuna: dove, esaminando quali o i Romani o
Alessandro prevalessero in queste cose, fa dipoi la sua conclusione sanza
ricordare mai i danari. Doverono i Capovani, quando furono richiesti da'
Sidicini che prendessono l'armi per loro contro ai Sanniti, misurare la potenza
loro dai danari, e non da' soldati: perché, preso ch'egli ebbero partito di
aiutargli, dopo due rotte furono constretti farsi tributari de' Romani, se si
vollono salvare.
11
Non
è partito prudente fare amicizia con uno principe che abbia più opinione che
forze.
Volendo
Tito Livio mostrare lo errore de' Sidicini a fidarsi dello aiuto de' Campani, e
lo errore de' Campani a credere potergli difendere, non lo potrebbe dire con
più vive parole, dicendo: «Campani magis nomen in auxilium Sidicinorum, quam
vires ad praesidium attulerunt». Dove si debbe notare che le leghe che si
fanno coi principi, che non abbino o commodità di aiutarti per la distanza del
sito, o forze da farlo per suo disordine o altra sua cagione, arrecono più fama
che aiuto a coloro che se ne fidano: come intervenne, ne' dì nostri, ai
Fiorentini, quando, nel 1479, il Papa ed il re di Napoli gli assaltarono: ché,
essendo amici del re di Francia, trassono di quella amicizia «magis nomen,
quam praesidium», come interverrebbe ancora a quel principe, che, confidatosi
di Massimiliano imperadore, facesse qualche impresa; perché questa è una di
quelle amicizie che arrecherebbe a chi la facesse «magis nomen, quam
praesidium», come si dice, in questo testo, che arrecò quella de' Capovani
a' Sidicini. Errarono, adunque, in questa parte i Capovani, per parere loro
avere più forze che non avevano. E così fa la poca prudenzia degli uomini,
qualche volta, che, non sappiendo né potendo difendere sé medesimi, vogliono
prendere impresa di difendere altrui: come fecero ancora i Tarentini, i quali,
sendo gli eserciti romani allo incontro dello esercito Sannite, mandarono
ambasciadori al Console romano, a fargli intendere come ei volevano pace intra
quegli due popoli, e come erano per fare guerra contro a quello che dalla pace si
discostasse; talché il Console, ridendosi di questa proposta, alla presenza di
detti ambasciadori fece sonare a battaglia, ed al suo esercito comandò che
andasse a trovare il nimico, mostrando ai Tarentini, con la opera e non con le
parole, di che risposta essi erano degni. Ed avendo nel presente capitolo
ragionato de' partiti che pigliono i principi, al contrario, per la difesa
d'altrui, voglio, nel seguente, parlare di quegli che si pigliano per la difesa
propria.
12
S'egli
è meglio, temendo di essere assaltato, inferire o aspettare la guerra.
Io
ho sentito da uomini, assai pratichi nelle cose della guerra, qualche volta
disputare, se sono dua principi quasi di equali forze, e quello più gagliardo
abbi bandito la guerra contro a quell'altro, quale sia migliore partito per
l'altro, o aspettare il nimico dentro a' confini suoi, o andarlo a trovare in
casa ed assaltare lui: e ne ho sentito addurre ragioni da ogni parte. E chi
difende lo andare assaltare altri, ne allega il consiglio che Creso dette a Ciro,
quando, arrivato in su' confini de' Massageti per fare loro guerra, la loro
regina Tamiri gli mandò a dire, che eleggessi quale de' due partiti volesse; o
entrare nel regno suo, dove ella lo aspetterebbe; o volesse che ella venisse a
trovare lui. E venuta la cosa in discettazione, Creso, contro alla opinione
degli altri, disse che si andasse a trovare lei; allegando che, s'egli la
vincesse discosto a il suo regno, che non le torrebbe il regno, perché ella
arebbe tempo a rifarsi, ma se la vincesse dentro ai suoi confini, potrebbe
seguirla in su la fuga, e, non le dando spazio a rifarsi, torle lo stato.
Allegane ancora il consiglio che dette Annibale ad Antioco, quando quel re
disegnava fare guerra ai Romani: dove ei mostra come i Romani non si potevano vincere
se non in Italia, perché quivi altrui si poteva valere delle armi e delle
ricchezze e degli amici loro; ma chi gli combatteva fuora d'Italia, e lasciava
loro la Italia libera, lasciava loro quella fonte che mai le manca vita a
somministrare forze dove bisogna; e conchiuse che ai Romani si poteva prima
tôrre Roma che lo imperio, e prima la Italia che le altre provincie. Allega
ancora Agatocle che, non potendo sostenere la guerra di casa, assaltò i
Cartaginesi che gliene facevano, e gli ridusse a domandare pace. Allega
Scipione che, per levare la guerra di Italia, assaltò la Africa. Chi parla al
contrario, dice che chi vuole fare capitare male uno inimico, lo discosti da
casa. Allegane gli Ateniesi, che, mentre che feciono la guerra commoda alla
casa loro, restarono superiori; e come si discostarono, ed andarono con gli
eserciti in Sicilia, perderono la libertà. Allega le favole poetiche, dove si
mostra che Anteo, re di Libia, assaltato da Ercole Egizio, fu insuperabile
mentre che lo aspettò dentro a' confini del suo regno; ma, come ei se ne
discostò per astuzia di Ercole, perdé lo stato e la vita. Onde è dato luogo
alla favola che Anteo, sendo in terra, ripigliava le forze da sua madre, che
era la Terra, e che Ercole, avvedutosi di questo, lo levò in alto, e
discostollo dalla terra. Allegane ancora i giudicii moderni. Ciascuno sa come
Ferrando re di Napoli fu ne' suoi tempi tenuto uno savissimo principe: e
venendo la fama, due anni davanti la sua morte, come il re di Francia Carlo
VIII voleva venire a assaltarlo, avendo fatte assai preparazioni, ammalò; e,
venendo a morte, intra gli altri ricordi che lasciò a Alfonso suo figliuolo, fu
ch'egli aspettasse il nimico dentro a il regno; e per cosa del mondo non
traesse forze fuora dello stato suo, ma lo aspettasse dentro a' suoi confini
tutto intero: il che non fu osservato da quello; ma, mandato uno esercito in
Romagna, sanza combattere perdé quello e lo stato.
Le
ragioni che, oltre alle cose dette, da ogni parte si adducono, sono: che chi
assalta viene con maggiore animo che chi aspetta, il che fa più confidente lo
esercito: toglie, oltre a di questo, molte commodità al nimico di potersi
valere delle sue cose, non si potendo valere di que' sudditi che siano
saccheggiati; e, per avere il nimico in casa, è constretto il signore avere più
rispetto a trarne da loro danari ed affaticargli: sicché ei viene a seccare
quella fonte, come disse Annibale, che fa che colui può sostenere la guerra.
Oltra di questo, i suoi soldati, per trovarsi nel paese d'altrui, sono più necessitati
a combattere; e quella necessità fa virtù, come più volte abbiamo detto.
Dall'altra parte si dice: come, aspettando il nimico, si aspetta con assai
vantaggio, perché, sanza disagio alcuno, tu puoi dare a quello molti disagi di
vettovaglie, e d'ogni altra cosa che abbia bisogno uno esercito: puoi meglio
impedirgli i disegni suoi, per la notizia del paese che tu hai più di lui: puoi
con più forze incontrarlo, per poterle facilmente tutte unire, ma non potere
già tutte discostarle da casa: puoi, sendo rotto, rifarti facilmente; sì perché
del tuo esercito se ne salverà assai, per avere i rifugi propinqui; sì perché
il supplimento non ha a venire discosto: tanto che tu vieni ad arristiare tutte
le forze, e non tutta la fortuna; e, discostandoti, arrischi tutta la fortuna,
e non tutte le forze. Ed alcuni sono stati che, per indebolire meglio il suo
nimico, lo lasciono entrare parecchi giornate in su il paese loro, e pigliare
assai terre; acciò che, lasciando i presidii in tutte, indebolisca il suo
esercito, e possinlo dipoi combattere più facilmente.
Ma,
per dire ora io quello che io ne intendo, io credo che si abbia a fare questa
distinzione: o io ho il mio paese armato, come i Romani, o come hanno i
Svizzeri, o io l'ho disarmato, come avevano i Cartaginesi, o come l'hanno il re
di Francia e gli Italiani. In questo caso, si debbe tenere il nimico discosto a
casa; perché, sendo la tua virtù nel danaio e non negli uomini, qualunque volta
ti è impedita la via di quello, tu sei spacciato; né cosa veruna te lo impedisce
quanto la guerra di casa. In esempli ci sono i Cartaginesi; i quali, mentre che
ebbono la casa loro libera, potettono con le rendite fare guerra con i Romani;
e quando l'avevano assaltata, non potevano resistere ad Agatocle. I Fiorentini
non avevano rimedio alcuno con Castruccio signore di Lucca, perché ei faceva
loro la guerra in casa; tanto che gli ebbero a darsi, per essere difesi, al re
Ruberto di Napoli. Ma, morto Castruccio, quelli medesimi Fiorentini ebbono
animo di assaltare il duca di Milano in casa, ed operare di torgli il regno:
tanta virtù mostrarono nelle guerre longinque, e tanta viltà nelle propinque.
Ma quando i regni sono armati, come era armata Roma e come sono i Svizzeri,
sono più difficili a vincere quanto più ti appressi loro: perché questi corpi
possono unire più forze a resistere a uno impeto, che non possono ad assaltare
altrui. Né mi muove in questo caso l'autorità d'Annibale, perché la passione e
l'utile suo gli faceva così dire a Antioco. Perché, se i Romani avessono avute
in tanto spazio di tempo quelle tre rotte in Francia ch'egli ebbero in Italia
da Annibale, sanza dubbio erano spacciati: perché non si sarebbono valuti de'
residui degli eserciti, come si valsono in Italia; non arebbono avuto, a
rifarsi, quelle commodità; né potevono con quelle forze resistere al nimico,
che poterono. Non si truova, per assaltare una provincia, che loro mandassino
mai fuora eserciti che passassino cinquantamila persone; ma per difendere la
casa ne missero in arme contro ai Franciosi, dopo la prima guerra punica,
diciotto centinaia di migliaia. Né arebbono potuto poi rompere quegli in
Lombardia, come gli ruppono in Toscana; perché contro a tanto numero di inimici
non arebbono potuto condurre tante forze sì discosto, né combattergli con quella
commodità. I Cimbri ruppono uno esercito romano nella Magna, né vi ebbono i
Romani rimedio. Ma come gli arrivarono in Italia, e che ei poterono mettere
tutte le loro forze insieme, gli spacciarono. I Svizzeri è facile vincergli
fuori di casa, dove ei non possono mandare più che un trenta o quarantamila
uomini; ma vincergli in casa, dove ei ne possono raccozzare centomila, è
difficilissimo. Conchiuggo adunque, di nuovo, che quel principe che ha i suoi
popoli armati ed ordinati alla guerra, aspetti sempre in casa una guerra
potente e pericolosa, e non la vadia a rincontrare: ma quello che ha i suoi
sudditi disarmati, ed il paese inusitato alla guerra, se le discosti sempre da
casa il più che può. E così l'uno e l'altro, ciascuno nel suo grado si
difenderà meglio.
13
Che
si viene di bassa a gran fortuna più con la fraude; che con la forza.
Io
stimo essere cosa verissima che rado, o non mai, intervenga che gli uomini di
piccola fortuna venghino a gradi grandi, sanza la forza e sanza la fraude; pure
che quel grado al quale altri è pervenuto non li sia o donato o lasciato per
eredità. Né credo si truovi mai che la forza sola basti, ma si troverrà bene
che la fraude sola basterà: come chiaro vedrà colui che leggerà la vita di
Filippo di Macedonia, quella di Agatocle siciliano, e di molti altri simili,
che d'infima ovvero di bassa fortuna, sono pervenuti o a regno o a imperii
grandissimi. Mostra Senofonte, nella sua vita di Ciro, questa necessità dello
ingannare, considerato che la prima ispedizione che fe' fare a Ciro contro al
re di Armenia è piena di fraude, e come con inganno, e non con forza, gli fe'
occupare il suo regno; e non conchiude altro, per tale azione, se non che a un
principe che voglia fare gran cose, è necessario imparare a ingannare. Fegli
ingannare, oltra di questo, Ciassare, re de' Medii, suo zio materno, in più
modi; sanza la quale fraude mostra che Ciro non poteva pervenire a quella
grandezza che venne. Né credo che si truovi mai alcuno, costituto in bassa
fortuna, pervenuto a grande imperio solo con la forza aperta ed ingenuamente,
ma sì bene solo con la fraude: come fece Giovan Galeazzo per tôrre lo stato e
lo imperio di Lombardia a messer Bernabò suo zio. E quel che sono necessitati
fare i principi ne' principii degli augumenti loro, sono ancora necessitate a
fare le republiche, infino che le siano diventate potenti, e che basti la forza
sola. E perché Roma tenne in ogni parte, o per sorte o per elezione, tutti i
modi necessari a venire a grandezza, non mancò ancora di questo. Né poté usare,
nel principio, il maggiore inganno, che pigliare il modo, discorso di sopra da
noi, di farsi compagni; perché sotto questo nome se gli fece servi: come furono
i Latini, ed altri popoli a lo intorno. Perché prima si valse dell'armi loro in
domare i popoli convicini, e pigliare la riputazione dello stato; dipoi,
domatogli, venne in tanto augumento, che la poteva battere ciascuno. Ed i
Latini non si avvidono mai, di essere al tutto servi, se non poi che vidono
dare due rotte ai Sanniti, e constrettigli ad accordo. La quale vittoria, come
ella accrebbe gran riputazione ai Romani co' principi longinqui, che mediante
quella sentirono il nome romano, e non l'armi, così generò invidia e sospetto
in quelli che vedevano e sentivano l'armi, intra i quali furono i Latini. E
tanto poté questa invidia e questo timore, che non solo i Latini ma le colonie
che essi avevano in Lazio, insieme con i Campani, stati poco innanzi difesi,
congiurarono contro a il nome romano. E mossono questa guerra i Latini nel modo
che si dice di sopra che si muovono la maggior parte delle guerre, assaltando
non i Romani, ma difendendo i Sidicini contro ai Sanniti; a' quali i Sanniti
facevano guerra con licenza de' Romani. E che sia vero che i Latini si
movessono per avere conosciuto questo inganno, lo dimostra Tito Livio nella
bocca di Annio Setino pretore latino, il quale nel concilio loro disse queste
parole: «Nam si etiam nunc sub umbra foederis aequi servitutem pati possumus
etc.». Vedesi pertanto i Romani ne' primi augumenti loro non essere mancati
etiam della fraude; la quale fu sempre necessaria a usare a coloro che di
piccoli principii vogliono a sublimi gradi salire: la quale è meno vituperabile
quanto è più coperta, come fu questa de' Romani.
14
Ingannansi
molte volte gli uomini, credendo con la umiltà vincere la superbia.
Vedesi
molte volte come l'umiltà non solamente non giova ma nuoce, massimamente
usandola con gli uomini insolenti, che, o per invidia o per altra cagione,
hanno concetto odio teco. Di che ne fa fede lo istorico nostro in questa
cagione di guerra intra i Romani e i Latini. Perché, dolendosi i Sanniti con i
Romani che i Latini gli avevano assaltati, i Romani non vollono proibire ai
Latini tale guerra, disiderando non gli irritare: il che non solamente non gli
irritò ma gli fece diventare più animosi contro a loro, e si scopersono più
presto inimici. Di che ne fanno fede le parole usate dal prefato Annio pretore
latino nel medesimo concilio, dov'e' dice: «Tentastis patientiam negando
militem: quis dubitat exarsisse eos? Pertulerunt
tamen hunc dolorem. Exercitus nos parare adversus Samnites, foederatos suos,
audierunt, nec moverunt se ab urbe. Unde haec illis tanta modestia, nisi conscientia
virium, et nostrarum et suarum?». Conoscesi, pertanto, chiarissimo per questo
testo, quanto la pazienza de' Romani accrebbe l'arroganza de' Latini. E però,
mai un principe debbe volere mancare del grado suo, e non debbe mai lasciare
alcuna cosa d'accordo, volendola lasciare onorevolmente, se non quando e' la
può, o ei si crede che la possa tenere: perché gli è meglio, quasi sempre,
sendosi condotta la cosa in termine che tu non la possa lasciare nel modo
detto, lasciarsela tôrre con le forze, che con la paura delle forze. Perché, se
tu la lasci con la paura, lo fai per levarti la guerra, ed il più delle volte
non te la lievi: perché colui a chi tu arai con una viltà scoperta concesso
quella, non istarà saldo, ma ti vorrà tôrre delle altre cose, e si accenderà
più contro a di te, stimandoti meno; e, dall'altra parte, in tuo favore
troverrai i difensori più freddi, parendo loro che tu sia o debole o vile: ma
se tu, subito scoperta la voglia dello avversario, prepari le forze, ancora che
le siano inferiori a lui, quello ti comincerà a stimare; stimanti più gli altri
principi allo intorno; e a tale viene voglia di aiutarti, sendo in su l'armi,
che, abbandonandoti, non ti aiuterebbe mai. Questo s'intende quando tu abbia
uno inimico; ma quando ne avessi più, rendere delle cose che tu possedessi a
alcuno di loro per riguadagnarselo, ancora che fussi di già scoperta la guerra,
e per ismembrarlo dagli altri confederati tuoi nimici, fia sempre partito
prudente.
15
Gli
stati deboli sempre fiano ambigui nel risolversi: e sempre le diliberazioni
lente sono nocive.
In
questa medesima materia, ed in questi medesimi principii di guerra intra i
Latini ed i Romani, si può notare come in ogni consulta è bene venire allo
individuo di quello che si ha a diliberare, e non stare sempre in ambiguo né in
su lo incerto della cosa. Il che si vede manifesto nella consulta che feciono i
Latini, quando ei pensavano alienarsi dai Romani. Perché, avendo i Romani
presentito questo cattivo umore che ne' popoli latini era entrato, per certificarsi
della cosa, e per veder se potevano sanza mettere mano alle armi riguadagnarsi
quegli popoli, fecero loro intendere, come e' mandassono a Roma otto cittadini
perché avevano a consultare con loro. I Latini, inteso questo, ed avendo
coscienza di molte cose fatte contro alla voglia de' Romani, fecioro concilio
per ordinare chi dovesse ire a Roma e darli commissione di quello ch'egli
avesse a dire. E stando nel concilio in questa disputa, Annio loro pretore
disse queste parole: «Ad summam rerum nostrarum pertinere arbitror, ut
cogitetis magis, quid agendum nobis, quam quid loquendum sit. Facile erit,
explicatis consiliis, accommodare rebus verba». Sono, sanza dubbio, queste
parole verissime e debbono essere da ogni principe e da ogni republica gustate:
perché, nella ambiguità e nella incertitudine di quello che altri voglia fare,
non si sanno accomodare le parole, ma, fermo una volta l'animo, e diliberato
quello sia da esequire, è facil cosa trovarvi le parole. Io ho notata questa
parte più volentieri, quanto io ho molte volte conosciuto tale ambiguità avere
nociuto alle publiche azioni, con danno e con vergogna della republica nostra.
E sempre mal avverrà che ne' partiti dubbi e dove bisogna animo a diliberargli,
sarà questa ambiguità, quando abbiano a essere consigliati e diliberati da
uomini deboli.
Non
sono meno nocive ancora le diliberazioni lente e tarde, che le ambigue; massime
quelle che si hanno a diliberare in favore di alcuno amico; perché con la
lentezza loro non si aiuta persona, e nuocesi a sé medesimo.
Queste
diliberazioni così fatte procedono o da debolezza d'animo e di forze, o da
malignità di coloro che hanno a diliberare i quali, mossi dalla passione
propria di volere rovinare lo stato o adempiere qualche altro loro disiderio,
non lasciano seguire la diliberazione, ma la impediscono e la attraversono.
Perché i buoni cittadini, ancora che vegghino una foga popolare voltarsi alla
parte perniziosa, mai impediranno il diliberare, massime di quelle cose che non
aspettano tempo. Morto che fu Girolamo tiranno in Siragusa, essendo la guerra
grande intra i Cartaginesi ed i Romani, vennono i Siracusani in disputa se
dovevano seguire l'amicizia romana o la cartaginese. E tanto era lo ardore
delle parti, che la cosa stava ambigua, né se ne prendeva alcuno partito:
insino a tanto che Apollonide, uno de' primi in Siracusa, con una sua orazione
piena di prudenza, mostrò come e' non era da biasimare chi teneva la opinione
di aderirsi ai Romani, né quelli che volevano seguire la parte cartaginese; ma
era bene da detestare quella ambiguità e tardità di pigliare il partito, perché
vedeva al tutto in tale ambiguità la rovina della republica; ma preso che si
fussi il partito, qualunque si fusse, si poteva sperare qualche bene. Né
potrebbe mostrare più Tito Livio, che si faccia in questa parte, il danno che
si tira dietro lo stare sospeso. Dimostralo ancora in questo caso de' Latini:
poiché, essendo i Lavinii ricerchi da loro d'aiuto contro ai Romani,
differirono tanto a diliberarlo, che, quando eglino erano usciti appunto fuora
della porta con le genti per dare loro soccorso, venne la nuova i Latini essere
rotti. Donde Milionio loro pretore disse: «Questo poco della via ci costerà
assai col Popolo romano». Perché, se si diliberavano prima, o di aiutare o di non
aiutare i Latini, non li aiutando, ei non irritavano i Romani; aiutandogli,
essendo lo aiuto in tempo, potevono con la aggiunta delle loro forze fargli
vincere; ma differendo, venivano a perdere in ogni modo, come intervenne loro.
E se i Fiorentini avessono notato questo testo, non arebbono avuto co'
Franciosi né tanti danni né tante noie quante ebbono nella passata che il re
Luigi di Francia XII fece in Italia contro a Lodovico duca di Milano. Perché,
trattando il re tale passata, ricercò i Fiorentini d'accordo: e gli oratori,
che erano appresso al re, accordarono con lui che si stessino neutrali, e che
il re venendo in Italia gli avesse a mantenere nello stato e ricevere in
protezione: e dette tempo un mese alla città a ratificarlo. Fu differita tale
ratificazione da chi per poca prudenza favoriva le cose di Lodovico: intanto
che, il re già sendo in su la vittoria, e volendo poi i Fiorentini ratificare,
non fu la ratificazione accettata; come quello che conobbe i Fiorentini essere
venuti forzati e non voluntari nella amicizia sua. Il che costò alla città di
Firenze assai danari, e fu per perdere lo stato: come poi altra volta per
simile causa le intervenne. E tanto più fu dannabile quel partito, perché non
si servì ancora a il duca Lodovico; il quale, se avesse vinto, arebbe mostri
molti più segni d'inimicizia contro ai Fiorentini, che non fece il re. E benché
del male che nasce, alle republiche, di questa debolezza, se ne sia di sopra in
uno altro capitolo discorso, nondimeno, avendone di nuovo occasione per uno
nuovo accidente, ho voluto replicarne parendomi, massime, materia che debba
essere dalle republiche, simili alla nostra, notata.
16
Quanto
i soldati de' nostri tempi si disformino dagli antichi ordini.
La
più importante giornata che fu mai fatta in alcuna guerra con alcuna nazione
dal Popolo romano, fu questa che ei fece con i popoli latini, nel consolato di
Torquato e di Decio. Perché ogni ragione vuole che, così come i Latini per
averla perduta diventarono servi, così sarebbero stati servi i Romani, quando
non l'avessino vinta. E di questa opinione è Tito Livio; perché in ogni parte
fa gli eserciti pari di ordine, di virtù, d'ostinazione e di numero: solo vi fa
differenza, che i capi dello esercito romano furono più virtuosi che quelli
dello esercito latino. Vedesi ancora come nel maneggio di questa giornata
nacquono due accidenti, non prima nati, e che dipoi hanno radi esempli: che, di
due Consoli, per tenere fermi gli animi de' soldati, ed ubbidienti a'
comandamenti loro, e diliberati al combattere l'uno ammazzò sé stesso, e
l'altro il figliuolo. La parità, che Tito Livio dice essere in questi eserciti,
era che, per avere militato gran tempo insieme, erano pari di lingua, d'ordine
e d'armi: perché nello ordinare la zuffa tenevano uno modo medesimo; e gli
ordini e i capi degli ordini avevano i medesimi nomi.
Era
dunque necessario, sendo di pari forze e di pari virtù, che nascesse qualche
cosa istraordinaria, che fermasse e facesse più ostinati gli animi dell'uno che
dell'altro: nella quale ostinazione consiste, come altre volte si è detto, la
vittoria; perché, mentre che la dura ne' petti di quelli che combattono, mai
non dànno volta gli eserciti. E perché la durasse più ne' petti de' Romani che
de' Latini, parte la sorte, parte la virtù de' Consoli fece nascere che
Torquato ebbe a ammazzare il figliuolo, e Decio sé stesso. Mostra Tito Livio,
nel mostrare questa parità di forze, tutto l'ordine che tenevono i Romani nelli
eserciti e nelle zuffe. Il quale esplicando egli largamente, non replicherò altrimenti;
ma solo discorrerò quello che io vi giudico notabile, e quello che, per essere
negletto da tutti i capitani di questi tempi, ha fatto, negli eserciti e nelle
zuffe, di molti disordini. Dico, adunque, che per il testo di Livio si
raccoglie come lo esercito romano aveva tre divisioni principali, le quali
toscanamente si possono chiamare tre schiere; e nominavano la prima astati, la
seconda principi, la terza triari: e ciascuna di queste aveva i suoi cavagli.
Nello ordinare una zuffa, ei mettevano gli astati innanzi; nel secondo luogo,
per ritto, dietro alle spalle di quelli, ponevano i principi; nel terzo, pure
nel medesimo filo, collocavano i triari. I cavagli di tutti questi ordini gli
ponevano a destra ed a sinistra di queste tre battaglie; le stiere de' quali
cavagli, dalla forma loro, e dal luogo, si chiamavano «alae» perché
parevano come due alie di quel corpo. Ordinavono la prima stiera, degli astati,
che era nella fronte, serrata in modo insieme, che la potesse spignere e
sostenere il nimico. La seconda stiera, de' principi, perché non era la prima a
combattere, ma bene le conveniva soccorrere alla prima quando fussi battuta o
urtata, non la facevano stretta, ma mantenevano i suoi ordini radi, e di
qualità che la potessi ricevere in sé, sanza disordinarsi, la prima, qualunque
volta, spinta dal nimico, fusse necessitata ritirarsi. La terza stiera, de'
triari, aveva ancora gli ordini più radi che la seconda, per potere ricevere in
sé, bisognando, le due prime stiere, de' principi e degli astati. Collocate,
dunque, queste stiere in questa forma, appiccavano la zuffa: e, se gli astati
erano sforzati o vinti, si ritiravano nella radità degli ordini de' principi;
e, tutti uniti insieme, fatto di due stiere uno corpo, rappiccavano la zuffa:
se questi ancora erano ributtati, sforzati si ritiravano tutti nella rarità
degli ordini de' triari; e tutt'a tre le stiere, diventate uno corpo,
rinnovavano la zuffa: dove essendo superati, per non avere più da rifarsi,
perdevono la giornata. E perché ogni volta che questa ultima stiera de' triari
si adoperava, lo esercito era in pericolo, ne nacque quel proverbio: «Res
redacta est ad triarios», che, a uso toscano, vuole dire:«Noi abbiamo messa
l'ultima posta». I capitani de' nostri tempi, come egli hanno abbandonati tutti
gli altri ordini, e della antica disciplina non ne osservano parte alcuna, così
hanno abbandonata questa parte, la quale non è di poca importanza: perché chi
si ordina di potersi rifare nelle giornate tre volte, ha ad avere tre volte
inimica la fortuna a volere perdere, ed ha ad avere per iscontro una virtù che
sia atta tre volte a vincerlo. Ma chi non sta se non in sul primo urto, come
stanno oggi tutti gli eserciti cristiani, può facilmente perdere; perché ogni
disordine, ogni mezzana virtù gli può tôrre la vittoria.
Quello
che fa agli eserciti nostri mancare di potersi rifare tre volte, è lo avere
perduto il modo di ricevere l'una stiera nell'altra. Il che nasce perché al
presente s'ordinano le giornate con uno di questi due disordini: o ei mettono le
loro stiere a spalle l'una dell'altra, e fanno la loro battaglia, larga per
traverso, e sottile per diritto; il che la fa più debole, per avere poco dal
petto alle stiene. E quando pure, per farla più forte, ei riducano le stiere
per il verso de' Romani, se la prima fronte è rotta, non avendo ordine di
essere ricevuta dalla seconda, s'ingarbugliano insieme tutte, e rompano sé
medesime: perché, se quella dinanzi è spinta, ella urta la seconda; se la
seconda si vuole fare innanzi, ella è impedita dalla prima: donde che, urtando
la prima la seconda, e la seconda la terza, ne nasce tanta confusione, che
spesso un minimo accidente rovina uno esercito. Gli eserciti spagnuoli e
franciosi nella zuffa di Ravenna, dove morì monsignor de Fois capitano delle
genti di Francia (la quale fu, secondo i nostri tempi, assai bene combattuta
giornata), s'ordinarono con l'uno de' soprascritti modi; cioè che l'uno e
l'altro esercito venne con tutte le sue genti ordinate a spalle: in modo che
non venivano avere né l'uno né l'altro se non una fronte, ed erano assai più
per il traverso che per il diritto. E questo avviene loro sempre, dove egli
hanno la campagna grande, come gli avevano a Ravenna: perché, conoscendo il
disordine che fanno nel ritirarsi, mettendosi per un filo, lo fuggono, quando
ei possono, col fare la fronte larga, come è detto; ma quando il paese gli
ristrigne, si stanno nel disordine soprascritto, sanza pensare al rimedio. Con
questo medesimo disordine cavalcano per il paese inimico, o se ei predano, o se
fanno altro maneggio di guerra. Ed a Santo Regolo in quel di Pisa, ed altrove,
dove i Fiorentini furono rotti da' Pisani ne' tempi della guerra che fu tra i
Fiorentini e quella città, per la sua ribellione dopo la passata di Carlo re di
Francia in Italia, non nacque tale rovina d'altronde che dalla cavalleria
amica; la quale, sendo davanti e ributtata da' nimici, percosse nella fanteria
fiorentina, e quella ruppe: donde tutto il restante delle genti dierono volta:
e messer Ciriaco dal Borgo, capo antico delle fanterie fiorentine, ha affermato
alla presenza mia molte volte, non essere mai stato rotto se non dalla
cavalleria degli amici. I Svizzeri, che sono i maestri delle moderne guerre,
quando ei militano con i Franciosi, sopra tutte le cose hanno cura di mettersi in
lato, che la cavalleria amica, se fusse ributtata, non gli urti. E benché
queste cose paiano facili ad intendere, e facilissime a farsi, nondimeno non si
è trovato ancora alcuno de' nostri contemporanei capitani, che gli antichi
ordini imiti, e i moderni corregga. E benché gli abbino ancora loro tripartito
lo esercito, chiamando l'una parte antiguardo, l'altra battaglia, e l'altra
retroguardo; non se ne servono ad altro che a comandarli nelli alloggiamenti,
ma nello adoperargli, rade volte è, come di sopra è detto, che a tutti questi
corpi non faccino correre una medesima fortuna. E perché molti, per scusarne la
ignoranza loro, allegano che la violenza delle artiglierie non patisce che in
questi tempi si usino molti ordini de gli antichi, voglio disputare nel
seguente capitolo questa materia, e vo' esaminare se le artiglierie impediscano
che non si possa usare l'antica virtù.
17
Quanto
si debbino stimare dagli eserciti ne' presenti tempi le artiglierie;e se quella
opinione, che se ne ha in universale, è vera.
Considerando
io, oltre alle cose soprascritte, quante zuffe campali (chiamate ne' nostri
tempi, con vocabolo francioso, giornate, e, dagli Italiani, fatti d'arme)
furono fatte da' Romani in diversi tempi, mi è venuto in considerazione la
opinione universale di molti, che vuole che, se in quegli tempi fussono state
le artiglierie, non sarebbe stato lecito ai Romani, né sì facile, pigliare le
provincie, farsi tributari i popoli, come ei fecero; né arebbono in alcuno modo
fatto sì gagliardi acquisti. Dicono ancora, che, mediante questi instrumenti
de' fuochi, gli uomini non possono usare né mostrare la virtù loro, come ei
potevano anticamente. E soggiungano una terza cosa: che si viene con più
difficultà alle giornate che non si veniva allora, né vi si può tenere dentro
quegli ordini di quegli tempi; talché la guerra si ridurrà col tempo in su le
artiglierie. E giudicando non fuora di proposito disputare se tali opinioni
sono vere, e quanto le artiglierie abbino accresciuto o diminuito di forze agli
eserciti, e se le tolgano o danno occasione ai buoni capitani di operare
virtuosamente, comincerò a parlare quanto alla prima loro opinione: che gli
eserciti antichi romani non arebbano fatto gli acquisti che feciono, se le
artiglierie fussono state. Sopra che, rispondendo, dico come e' si fa guerra o
per difendersi o per offendere; donde si ha prima a esaminare a quale di questi
due modi di guerra le faccino più utile o più danno. E benché sia che dire da
ogni parte, nondimeno io credo che sanza comparazione faccino più danno a chi
si difende, che a chi offende. La ragione che io ne dico è, che quel che si
difende, o egli è dentro a una terra, o egli è in su i campi dentro a uno
steccato. S'egli è dentro a una terra, o questa terra è piccola, come sono la
maggior parte delle fortezze, o la è grande: nel primo caso, chi si difende è
al tutto perduto, perché l'impeto delle artiglierie è tale che non truova muro,
ancoraché grossissimo, che in pochi giorni ei non abbatta; e se chi è dentro
non ha buoni spazi da ritirarsi e con fossi e con ripari, si perde; né può
sostenere l'impeto del nimico che volessi dipoi entrare per la rottura del
muro, né a questo gli giova artiglieria che avessi: perché questa è una
massima, che dove gli uomini in frotta e con impeto possono andare, le
artiglierie non gli sostengono. Però i furori oltramontani nella difesa delle
terre non sono sostenuti: son bene sostenuti gli assalti italiani, i quali, non
in frotta ma spicciolati, si conducano alle battaglie, le quali loro, per nome
molto proprio, chiamano scaramucce. E questi che vanno con questo disordine e
questa freddezza a una rottura d'un muro dove siano artiglierie, vanno a una
manifesta morte, e contro a loro le artiglierie vagliano: ma quegli che in
frotta condensati, e che l'uno spinge l'altro, vengono a una rottura, se non
sono sostenuti o da fossi o da ripari, entrono in ogni luogo, e le artiglierie
non gli tengono; e, se ne muore qualcuno, non possono essere tanti che
gl'impedischino la vittoria.
Questo,
essere vero, si è conosciuto in molte espugnazioni fatte dagli oltramontani in
Italia, e massime in quella di Brescia: perché, sendosi quella terra ribellata
da' Franciosi, e tenendosi ancora per il re di Francia la fortezza, avevano i
Viniziani, per sostenere l'impeto che da quella potesse venire nella terra,
munita tutta la strada d'artiglierie, che dalla fortezza alla città scendeva, e
postene a fronte e ne' fianchi, ed in ogni altro luogo opportuno. Delle quali
monsignor di Fois non fece alcuno conto; anzi, quello con il suo squadrone,
disceso a piede, passando per il mezzo di quelle, occupò la città, né per
quelle si sentì ch'egli avesse ricevuto alcuno memorabile danno. Talché, chi si
difende in una terra piccola, come è detto, e truovisi le mura in terra, e non
abbia spazio da ritirarsi con i ripari e con fossi ed abbiasi a fidare in su le
artiglierie, si perde subito. Se tu difendi una terra grande, e che tu abbia
commodità di ritirarti, sono nondimanco sanza comparazione più utili le artiglierie
a chi è di fuori, che a chi è dentro. Prima, perché, a volere che una
artiglieria nuoca a quegli che sono di fuora, tu se' necessitato levarti con
essa dal piano della terra; perché, stando in sul piano, ogni poco d'argine e
di riparo che il nimico faccia, rimane sicuro, e tu non gli puoi nuocere. Tanto
che, avendoti a alzare, e tirarti in sul corridoio delle mura, o in qualunque
modo levarti da terra, tu ti tiri dietro due difficultà: la prima, che tu non
puoi condurvi artiglierie della grossezza e della potenza che può trarre colui
di fuora, non si potendo ne' piccoli spazii maneggiare le cose grandi: l'altra
è, quando bene tu ve le potessi condurre, tu non puoi fare quegli ripari fedeli
e sicuri, per salvare detta artiglieria, che possono fare quegli di fuori,
essendo in sul terreno, ed avendo quelle commodità e quello spazio che loro
medesimi vogliono: talmenteché, gli è impossibile, a chi difende una terra,
tenere le artiglierie ne' luoghi alti, quando quegli che sono di fuori abbino
assai artiglierie e potente; e se egli hanno a venire con essa ne' luoghi
bassi, ella diventa in buona parte inutile, come è detto. Talché la difesa
della città si ha a ridurre a difenderla con le braccia, come anticamente si
faceva, e con l'artiglieria minuta: di che se si trae un poco di utilità,
rispetto a questa artiglieria minuta, se ne cava incommodità che contrappesa
alla commodità dell'artiglieria; perché, rispetto a quella, si riducano le mura
delle terre, basse e quasi sotterrate ne' fossi: talché, come si viene alla
battaglia di mano, o per essere battute le mura o per essere ripieni i fossi,
ha, chi è dentro, molti più disavvantaggi che non aveva allora. E però, come di
sopra si disse, giovano questi instrumenti molto più a chi campeggia le terre,
che a chi è campeggiato.
Quanto
alla terza cosa, di ridursi in un campo dentro a uno steccato, per non fare
giornata se non a tua comodità o vantaggio, dico che in questa parte tu non hai
più rimedio, ordinariamente, a difenderti di non combattere, che si avessono
gli antichi; e qualche volta, per conto delle artiglierie, hai maggiore
disavvantaggio. Perché, se il nimico ti giugne addosso, ed abbia un poco di
vantaggio del paese, come può facilmente intervenire, e truovisi più alto di
te; o che nello arrivare suo tu non abbia ancora fatti i tuoi argini, e
copertoti bene con quegli; subito, e sanza che tu abbia alcun rimedio, ti
disalloggia, e sei forzato uscire delle fortezze tue, e venire alla zuffa. Il
che intervenne agli Spagnuoli nella giornata di Ravenna; i quali essendosi
muniti tra 'l fiume del Ronco ed uno argine, per non lo avere tirato tanto alto
che bastasse, e per avere i Franciosi un poco il vantaggio del terreno, furono
costretti dalle artiglierie uscire delle fortezze loro, e venire alla zuffa. Ma
dato, come il più delle volte debbe essere, che il luogo che tu avessi preso
con il campo fosse più eminente che gli altri all'incontro, e che gli argini
fussono buoni e sicuri, talché, mediante il sito e l'altre tue preparazioni il
nimico non ardisse d'assaltarti; si verrà in questo caso a quegli modi che
anticamente si veniva, quando uno era con il suo esercito in lato da non potere
essere offeso: i quali sono, correre il paese, pigliare o campeggiare le terre
tue amiche, impedirti le vettovaglie, tanto che tu sarai forzato da qualche
necessità a disalloggiare, e venire a giornata; dove le artiglierie, come di
sotto si dirà, non operano molto. Considerato, adunque, di quali ragioni guerre
feciono i Romani, e veggendo come ei feciono quasi tutte le loro guerre per
offendere altrui e non per difendere loro, si vedrà, quando siano vere le cose
dette di sopra, come quelli arebbono avuto più vantaggio, e più presto arebbono
fatto i loro acquisti, se le fossono state in quelli tempi.
Quanto
alla seconda cosa, che gli uomini non possono mostrare la virtù loro, come ei
potevano anticamente, mediante l'artiglieria; dico ch'egli è vero, che, dove
gli uomini spicciolati si hanno a mostrare, che ei portano più pericoli che
allora, quando avessono a scalare una terra, o fare simili assalti, dove gli
uomini non ristretti insieme ma di per sé l'uno dall'altro avessono a
comparire. È vero ancora, che gli capitani e capi degli eserciti stanno
sottoposti più a il pericolo della morte che allora, potendo essere aggiunti
con le artiglierie in ogni luogo; né giova loro lo essere nelle ultime squadre,
e muniti di uomini fortissimi. Nondimeno si vede che l'uno e l'altro di questi
dua pericoli fanno rade volte danni istraordinari: perché le terre munite bene
non si scalano, né si va con assalti deboli ad assaltarle; ma, a volerle
espugnare, si riduce la cosa a una ossidione, come anticamente si faceva. Ed in
quelle che pure per assalto si espugnano, non sono molto maggiori i pericoli
che allora: perché non mancavano anche in quel tempo, a chi difendeva le terre,
cose da trarre; le quali, se non erano così furiose, facevano, quanto allo
ammazzare gli uomini, il simile effetto. Quanto alla morte de' capitani e
condottieri, ce ne sono, in ventiquattro anni che sono state le guerre ne' prossimi
tempi in Italia, meno esempli che non era in dieci anni di tempo appresso agli
antichi. Perché, dal conte Lodovico della Mirandola, che morì a Ferrara quando
i Viniziani, pochi anni sono, assaltarono quello stato, ed il Duca di Nemors,
che morì alla Cirignuola, in fuori, non è occorso che d'artiglierie ne sia
morto alcuno; perché monsignore di Fois a Ravenna morì di ferro, e non di
fuoco. Tanto che, se gli uomini non dimostrano particularmente la loro virtù,
nasce, non dalle artiglierie, ma dai cattivi ordini e dalla debolezza degli
eserciti; i quali, mancando di virtù nel tutto, non la possono mostrare nella
parte.
Quanto
alla terza cosa detta da costoro, che non si possa venire alle mani, e che la
guerra si condurrà tutta in su l'artiglierie, dico questa opinione essere al
tutto falsa; e così fia sempre tenuta da coloro che secondo l'antica virtù
vorranno adoperare gli eserciti loro. Perché, chi vuole fare uno esercito
buono, gli conviene, con esercizi o fitti o veri, assuefare gli uomini sua ad
accostarsi al nimico, e venire con lui al menare della spada ed a pigliarsi per
il petto; e si debbe fondare più in su le fanterie che in su' cavagli, per le
ragioni che di sotto si diranno. E quando si fondi in su i fanti ed in su i
modi predetti, diventono al tutto le artiglierie inutili; perché con più
facilità le fanterie, nello accostarsi al nimico, possono fuggire il colpo
delle artiglierie, che non potevano anticamente fuggire l'impeto degli
elefanti, de' carri falcati, e d'altri riscontri inusitati, che le fanterie
romane riscontrarono; contro ai quali sempre trovarono il rimedio: e tanto più
facilmente lo arebbono trovato contro a queste, quanto egli è più breve il
tempo nel quale le artiglierie ti possano nuocere, che non era quello nel quale
potevano nuocere gli elefanti ed i carri. Perché quegli nel mezzo della zuffa
ti disordinavano, queste, solo innanzi alla zuffa, t'impediscano: il quale
impedimento facilmente le fanterie fuggono, o con andare coperte dalla natura
del sito, o con abbassarsi in su la terra quando le tirano. Il che anche, per
isperienza, si è visto non essere necessario, massime per difendersi dalle
artiglierie grosse; le quali non si possono in modo bilanciare, o che, se le
vanno alto, le non ti trovino, o che, se le vanno basso, le non ti arrivino.
Venuti poi gli eserciti alle mani, questo è chiaro più che la luce, che né le
grosse né le piccole ti possono offendere: perché, se quello che ha
l'artiglierie è davanti, diventa tuo prigione; s'egli è dietro, egli offende
prima l'amico che te; a spalle ancora non ti può ferire in modo che tu non lo
possa ire a trovare, e ne viene a seguitare lo effetto detto. Né questo ha
molta disputa; perché se ne è visto l'esemplo de' Svizzeri, i quali a Novara
nel 1513, sanza artiglierie e sanza cavagli, andarono a trovare lo esercito
francioso, munito d'artiglierie, dentro alle fortezze sue, e lo roppono sanza
avere alcuno impedimento da quelle. E la ragione è, oltre alle cose dette di
sopra, che l'artiglieria ha bisogno di essere guardata, a volere che la operi,
o da mura o da fossi o da argini; e come le mancherà una di queste guardie,
ella è prigione, o la diventa inutile: come le interviene quando la si ha a
difendere con gli uomini; il che le interviene nelle giornate e zuffe campali.
Per fianco le non si possono adoperare, se non in quel modo che adoperavano gli
antichi gli instrumenti da trarre; che gli mettevano fuori delle squadre,
perché ei combattessono fuori degli ordini; ed ogni volta che o da cavalleria o
da altri erano spinti, il rifugio loro era dietro alle legioni. Chi altrimenti
ne fa conto, non la intende bene, e fidasi sopra una cosa che facilmente lo può
ingannare. E se il Turco, mediante l'artiglieria, contro al Sofi ed il Soldano
ha avuto vittoria, è nato non per altra virtù di quella che per lo spavento che
lo inusitato romore messe nella cavalleria loro.
Conchiuggo
pertanto, venendo al fine di questo discorso, l'artiglieria essere utile in uno
esercito quando vi sia mescolata l'antica virtù; ma, sanza quella, contro a uno
esercito virtuoso è inutilissima.
18
Come
per l'autorità de' Romani, e per lo esemplo della antica milizia, si debba
stimare più le fanterie che i cavagli.
E'
si può per molte ragioni e per molti esempli dimostrare chiaramente, quanto i
Romani in tutte le militari azioni estimassono più la milizia a piede che a
cavallo, e sopra quella fondassino tutti i disegni delle forze loro: come si
vede per molti esempli, ed infra gli altri, quando si azzuffarono con i Latini
appresso al lago Regillo; dove essendo già inclinato lo esercito romano, per
soccorrere ai suoi, fecero discendere, degli uomini a cavallo, a piede, e per
quella via, rinnovata la zuffa, ebbono la vittoria. Dove si vede
manifestamente, i Romani avere più confidato in loro sendo a piede, che
mantenendoli a cavallo.
Questo
medesimo termine usarono in molte altre zuffe, e sempre lo trovarono ottimo
rimedio alli loro pericoli. Né si opponga a questo la opinione d'Annibale, il
quale, veggendo in la giornata di Canne che i Consoli avevano fatto discendere
a piè li loro cavalieri, facendosi beffe di simile partito, disse: «Quam
mallem vinctos mihi traderent equites!», cioè: «Io arei più caro che me gli
dessino legati». La quale opinione, ancoraché la sia stata in bocca d'un uomo
eccellentissimo, nondimanco, se si ha ad ire dietro alla autorità, si debbe più
credere a una Republica romana, e a tanti capitani eccellentissimi che furono
in quella, che a uno solo Annibale. Ancoraché, sanza le autorità, ce ne sia
ragioni manifeste: perché l'uomo a piede può andare in di molti luoghi, dove
non può andare il cavallo; puossi insegnarli servare l'ordine, e, turbato che
fussi, come e' lo abbia a riassumere: a' cavagli è difficile fare servare
l'ordine, ed impossibile, turbati che sono, riordinargli. Oltre a questo, si
truova, come negli uomini, de' cavagli che hanno poco animo, e di quegli che ne
hanno assai: e molte volte interviene che un cavallo animoso è cavalcato da un
uomo vile, e uno cavallo vile da uno animoso; ed in qualunque modo che segua
questa disparità, ne nasce inutilità e disordine. Possono le fanterie,
ordinate, facilmente rompere i cavagli, e difficilmente essere rotte da quegli.
La quale opinione è corroborata, oltre a molti esempli antichi e moderni, dalla
autorità di coloro che danno delle cose civili regola: dove ei mostrano come in
prima le guerre si cominciarono a fare con i cavagli, perché non era ancora
l'ordine delle fanterie; ma come queste si ordinarono, si conobbe subito quanto
loro erano più utili che quelli.
Non
è per questo però che i cavagli non siano necessarii negli eserciti, e per fare
scoperte, per iscorrere e predare i paesi, per seguitare i nimici quando ei
sono in fuga, e per essere ancora in parte una opposizione ai cavagli degli
avversari: ma il fondamento e il nervo dello esercito, e quello che si debbe
più stimare, debbano essere le fanterie.
Ed
infra i peccati de' principi italiani, che hanno fatto Italia serva de'
forestieri, non ci è il maggiore che avere tenuto poco conto di questo ordine,
ed avere volto tutta la sua cura alla milizia a cavallo. Il quale disordine è
nato per la malignità de' capi, e per la ignoranza di coloro che tenevano
stato. Perché, essendosi ridotta la milizia italiana da' venticinque anni
indietro, in uomini che non avevano stato, ma erano come capitani di ventura,
pensarono subito come potessero mantenersi la riputazione, stando armati loro e
disarmati i principi. E perché uno numero grosso di fanti non poteva loro
essere continovamente pagato, e non avendo sudditi da potere valersene, ed uno
piccol numero non dava loro riputazione, si volsono a tenere cavagli: perché
dugento o trecento cavagli che erano pagati ad uno condottiere, lo mantenevano
riputato, ed il pagamento non era tale, che dagli uomini che tenevono stato non
potesse essere adempiuto. E perché questo seguisse più facilmente, e per
mantenersi più in riputazione, levarono tutta l'affezione e la riputazione da'
fanti, e ridussonla in quelli loro cavagli: e in tanto crebbono in questo
disordine, che in qualunque grossissimo esercito era una minima parte di
fanteria. La quale usanza fece in modo debole, insieme con molti altri
disordini che si mescolarono con quella, questa milizia italiana, che questa
provincia è stata facilmente calpesta da tutti gli oltramontani. Mostrasi più
apertamente questo errore, di stimare più i cavagli che le fanterie, per uno
altro esemplo romano. Erano i Romani a campo a Sora, ed essendo uscito fuori
della terra una turma di cavagli per assaltare il campo, se gli fece allo
incontro il Maestro de' cavagli romano con la sua cavalleria; e datosi di
petto, la sorte dette che nel primo scontro i capi dell'uno e dell'altro
esercito morirono; e restati gli altri sanza governo, e durando nondimeno la
zuffa, i Romani, per superare più facilmente il nimico, scesono a piede, e
constrinsono i cavalieri inimici, se si vollono difendere, a fare il simile: e,
con tutto questo, i Romani ne riportarono la vittoria. Non può essere questo
esemplo maggiore in dimostrare quanto sia più virtù nelle fanterie che ne'
cavagli: perché, se nelle altre fazioni i Consoli facevano discendere i
cavalieri romani, era per soccorrere alle fanterie che pativano, e che avevano
bisogno di aiuto; ma in questo luogo e' discesono, non per soccorrere alle
fanterie né per combattere con uomini a piè de' nimici, ma combattendo a
cavallo, con cavagli, giudicarono, non potendo superargli a cavallo, potere,
scendendo, più facilmente vincergli. Io voglio adunque conchiudere, che una
fanteria ordinata non possa sanza grandissima difficultà essere superata se non
da un'altra fanteria. Crasso e Marc'Antonio romani corsono per il dominio de'
Parti molte giornate con pochissimi cavagli ed assai fanteria, ed allo incontro
avevano innumerabili cavagli de' Parti. Crasso vi rimase, con parte dello
esercito, morto; Marc'Antonio virtuosamente si salvò. Nondimanco in queste
azioni romane si vide quanto le fanterie prevalevano ai cavagli: perché,
essendo in uno paese largo, dove i monti sono radi, i fiumi radissimi, le
marine longinque, e discosto da ogni commodità, nondimanco Marc'Antonio, al
giudicio de' Parti medesimi, virtuosissimamente si salvò; né mai ebbeno ardire
tutta la cavalleria partica tentare gli ordini dello esercito suo. Se Crasso vi
rimase, chi leggerà bene le sue azioni vedrà come e' vi fu piuttosto ingannato
che sforzato: né mai, in tutti i suoi disordini, i Parti ardirono d'urtarlo;
anzi, sempre andando costeggiandolo, impedendogli le vettovaglie, e
promettendogli e non gli osservando, lo condussono a una estrema miseria.
Io
crederei avere a durare più fatica in persuadere quanto la virtù delle fanterie
è più potente che quella de' cavalli se non ci fossono assai moderni esempli
che ne rendano testimonianza pienissima. E' si è veduto novemila Svizzeri a
Novara, da noi di sopra allegata, andare a affrontare diecimila cavagli ed
altrettanti fanti, e vincergli: perché i cavagli non gli potevano offendere: i
fanti, per essere gente in buona parte guascona e male ordinata, la stimavano
poco. Videsi di poi ventiseimila Svizzeri andare a trovare sopra a Milano
Francesco re di Francia, che aveva seco ventimila cavagli, quarantamila fanti,
e cento carra d'artiglierie; e se non vinsono la giornata come a Novara, ei la
combatterono dua giorni virtuosamente e dipoi, rotti ch'ei furono, la metà di
loro si salvarono. Presunse Marco Regolo Attilio, non solo con la fanteria sua
sostenere i cavagli, ma gli elefanti; e se il disegno non gli riuscì, non fu
però che la virtù della sua fanteria non fosse tanta, ch' e' non confidasse
tanto in lei che credesse superare quella difficultà. Replico, pertanto, che, a
volere superare i fanti ordinati, è necessario opporre loro fanti meglio
ordinati di quegli: altrimenti, si va a una perdita manifesta. Ne' tempi di
Filippo Visconti, duca di Milano, scesono in Lombardia circa sedicimila
Svizzeri: donde quel Duca, avendo per suo capitano allora il Carmignuola, lo
mandò con circa mille cavagli e pochi fanti all'incontro loro. Costui, non
sappiendo l'ordine del combattere loro, ne andò a incontrarli con i suoi
cavagli, presumendo poterli subito rompere. Ma trovatigli immobili, avendo
perduti molti de' suoi uomini, si ritirò: ed essendo valentissimo uomo, e
sappiendo negli accidenti nuovi pigliare nuovi partiti, rifattosi di gente gli
andò a trovare; e, venuto loro all'incontro, fece smontare a piè tutte le sue
genti d'armi, e, fatto testa di quelle alle sue fanterie, andò ad investire i
Svizzeri. I quali non ebbono alcuno rimedio: perché, sendo le genti d'armi del
Carmignuola a piè e bene armate, poterono facilmente entrare intra gli ordini
de' Svizzeri, sanza patire alcuna lesione ed entrati tra quegli poterono
facilmente offenderli: talché di tutto il numero di quegli, ne rimase quella
parte viva, che per umanità del Carmignuola fu conservata.
Io
credo che molti conoschino questa differenzia di virtù che è intra l'uno e
l'altro di questi ordini: ma è tanta la infelicità di questi tempi, che né gli
esempli antichi né i moderni né la confessione dello errore è sufficiente a
fare che i moderni principi si ravvegghino; e pensino che, a volere rendere
riputazione alla milizia d'una provincia o d'uno stato, sia necessario
risuscitare questi ordini, tenergli appresso, dare loro riputazione, dare loro
vita, acciocché a lui e vita e riputazione rendino. E come ei deviano da questi
modi, così deviano dagli altri modi, detti di sopra: onde ne nasce che gli
acquisti sono a danno, non a grandezza, d'uno stato; come di sotto si dirà.
19
Che
gli acquisti nelle republiche non bene ordinate, e che secondo la romana virtù
non procedano, sono a ruina, non ad esaltazione di esse.
Queste
contrarie opinioni alla verità fondate in su i mali esempli che da questi
nostri corrotti secoli sono stati introdotti, fanno che gli uomini non pensono
a deviare dai consueti modi. Quando si sarebbe potuto persuadere uno Italiano,
da trenta anni in dietro che diecimila fanti potessono assaltare in un piano
diecimila cavagli ed altrettanti fanti, e con quelli non solamente combattere
ma vincergli, come si vide per lo esemplo da noi più volte allegato, a Novara?
E benché le istorie ne siano piene, tamen non ci arebbero prestato fede; e se
ci avessero prestato fede, arebbero detto che in questi tempi s'arma meglio, e
che una squadra di uomini d'arme sarebbe atta ad urtare uno scoglio, non che una
fanteria: e così con queste false scuse corrompevano il giudizio loro; né
arebbero considerato che Lucullo con pochi fanti ruppe cento cinquantamila
cavalli di Tigrane, e che fra quelli cavalieri era una sorte di cavalleria
simile al tutto agli uomini d'arme nostri: e così, come questa fallacia è stata
scoperta dallo esemplo delle genti oltramontane. E come e' si vede, per quello,
essere vero, quanto alla fanteria, quello che nelle istorie si narra, così
doverrebbero credere essere veri e utili tutti gli altri ordini antichi. E
quando questo fusse creduto, le republiche ed i principi errerebbero meno;
sariano più forti a opporsi a uno impeto che venisse loro addosso; non
spererebbero nella fuga; e quegli che avessono nelle mani uno vivere civile, lo
saperebbono meglio indirizzare, o per la via dello ampliare, o per la via del
mantenere; e crederebbono che lo accrescere la città sua di abitatori, farsi
compagni e non sudditi, mandare colonie a guardare i paesi acquistati, fare
capitale delle prede, domare il nimico con le scorrerie e con le giornate e non
con le ossidioni, tenere ricco il publico, povero il privato, mantenere con
sommo studio gli esercizi militari, fusse la vera via a fare grande una
republica, e ad acquistare imperio. E quando questo modo dello ampliare non gli
piacessi, penserebbe che gli acquisti per ogni altra via sono la rovina delle
republiche, e porrebbe freno a ogni ambizione; regolando bene la sua città
dentro con le leggi e co' costumi, proibendole lo acquistare, e solo pensando a
difendersi, e le difese tenere ordinate bene: come fanno le republiche della
Magna, le quali in questi modi vivano e sono vivute libere un tempo.
Nondimeno,
come altra volta dissi quando discorsi la differenza che era, da ordinarsi per
acquistare e ordinarsi per mantenere; è impossibile che ad una republica riesca
lo stare quieta, e godersi la sua libertà e gli pochi confini: perché, se lei
non molesterà altrui, sarà molestata ella; e dallo essere molestata le nascerà
la voglia e la necessità dello acquistare; e quando non avessi il nimico fuora,
lo troverrebbe in casa: come pare necessario intervenga a tutte le gran
cittadi. E se le republiche della Magna possono vivere loro in quel modo, ed
hanno potuto durare un tempo, nasce da certe condizioni che sono in quel paese,
le quali non sono altrove, sanza le quali non potrebbero tenere simile modo di
vivere.
Era
quella parte della Magna di che io parlo, sottoposta allo Imperio romano come
la Francia e la Spagna: ma venuto dipoi in declinazione e ridottosi il titolo
di tale Imperio in quella provincia, cominciarono quelle città più potenti,
secondo la viltà o necessità degl'imperadori, a farsi libere, ricomperandosi
dallo Imperio, con riservargli un piccol censo annuario; tanto che, a poco a
poco, tutte quelle città che erano immediate dello imperadore, e non erano
suggette d'alcuno principe, si sono in simil modo ricomperate. Occorse, in
questi medesimi tempi che queste città si ricomperavano, che certe comunità
sottoposte al duca di Austria si ribellarono da lui; tra le quali fu Filiborg,
e i Svizzeri, e simili; le quali prosperando nel principio, pigliarono a poco a
poco tanto augumento, che, non che e' siano tornati sotto il giogo di Austria,
sono in timore a tutti i loro vicini: e questi sono quegli che si chiamano i
Svizzeri. È, adunque, questa provincia compartita in Svizzeri, republiche che
chiamano terre franche, principi, ed imperadore. E la cagione che, intra tante
diversità di vivere, non vi nascano, o, se le vi nascano, non vi durano molto
le guerre, è quel segno dello imperadore; il quale, avvenga che non abbi forze,
nondimeno ha infra loro tanta riputazione ch'egli è un loro conciliatore, e con
l'autorità sua, interponendosi come mezzano, spegne subito ogni scandolo.
E
le maggiori e le più lunghe guerre vi siano state, sono quelle che sono seguite
intra i Svizzeri ed il duca d'Austria: e benché da molti anni in qua lo
imperadore ed il duca d'Austria sia una medesima cosa, non pertanto non ha mai
possuto superare l'audacia de' Svizzeri; dove non è stato mai modo d'accordo,
se non per forza. Né il resto della Magna gli ha porti molti aiuti; sì perché
le comunità non sanno offendere chi vuole vivere libero come loro; sì perché
quelli principi, parte non possono, per essere poveri, parte non vogliono, per
avere invidia alla potenza sua. Possono vivere, adunque, quelle comunità
contente del piccolo loro dominio, per non avere cagione, rispetto all'autorità
imperiale, di disiderarlo maggiore: possono vivere unite dentro alle mura loro,
per avere il nimico propinquo, e che piglierebbe le occasioni di occuparle,
qualunque volta le discordassono. Ché, se quella provincia fusse condizionata
altrimenti, converrebbe loro cercare di ampliare e rompere quella loro quiete.
E perché altrove non sono tali condizioni, non si può prendere questo modo di
vivere; e bisogna o ampliare per via di leghe, o ampliare come i Romani. E chi
si governa altrimenti, cerca non la sua vita, ma la sua morte e rovina: perché
in mille modi e per molte cagioni gli acquisti sono dannosi; perché gli sta
molto bene, insieme acquistare imperio e non forze; e chi acquista imperio e
non forze insieme, conviene che rovini. Non può acquistare forze chi
impoverisce nelle guerre, ancora che sia vittorioso, che ei mette più che non
trae degli acquisti: come hanno fatto i Viniziani ed i Fiorentini, i quali sono
stati molto più deboli, quando l'uno aveva la Lombardia e l'altro la Toscana,
che non erano quando l'uno era contento del mare, e l'altro di sei miglia di
confini. Perché tutto è nato da avere voluto acquistare e non avere saputo
pigliare il modo: e tanto più meritano biasimo, quanto eglino hanno meno scusa,
avendo veduto il modo hanno tenuto i Romani, ed avendo potuto seguitare il loro
esemplo, quando i Romani, sanza alcuno esemplo, per la prudenza loro, da loro
medesimi lo seppono trovare. Fanno, oltra di questo, gli acquisti qualche volta
non mediocre danno ad ogni bene ordinata republica, quando e' si acquista una
città o una provincia piena di delizie, dove si può pigliare di quegli costumi
per la conversazione che si ha con quegli: come intervenne a Roma, prima, nello
acquisto di Capova, e dipoi, a Annibale. E se Capova fusse stata più longinqua
dalla città, che lo errore de' soldati non avesse avuto il rimedio propinquo, o
che Roma fusse stata in alcuna parte corrotta, era, sanza dubbio, quello
acquisto la rovina della romana Repubblica. E Tito Livio fa fede di questo con
queste parole: «Iam tunc minime salubris militari disciplinae Capua,
instrumentum omnium voluptatum, delinitos militum animos avertit a memoria
patriae». E veramente, simili città o provincie si vendicano contro al
vincitore sanza zuffa e sanza sangue; perché, riempiendogli de' suoi tristi
costumi, gli espongono a essere vinti da qualunque gli assalti. E Iuvenale non
potrebbe meglio, nelle sue satire, avere considerata questa parte, dicendo che
ne' petti romani per gli acquisti delle terre peregrine erano entrati i costumi
peregrini; ed in cambio di parsimonia e d'altre eccellentissime virtù, «gula
et luxuria incubuit, victumque ulciscitur orbem». Se, adunque, lo
acquistare fu per essere pernizioso a' Romani ne' tempi che quegli con tanta
prudenzia e tanta virtù procedevono, che sarà adunque a quegli che discosto dai
modi loro procedono? e che, oltre agli altri errori che fanno, di che se n'è di
sopra discorso assai, si vagliano de' soldati o mercenari o ausiliari? Donde ne
risulta loro spesso quelli danni di che nel seguente capitolo si farà menzione.
20
Quale
pericolo porti quel principe o quella republica che si vale della milizia
ausiliare o mercenaria.
Se
io non avessi lungamente trattato, in altra mia opera, quanto sia inutile la
milizia mercenaria ed ausiliare, e quanto utile la propria, io mi stenderei in
questo discorso assai più che non farò; ma avendone altrove parlato a lungo,
sarò, in questa parte, brieve. Né mi è paruto in tutto da passarla, avendo
trovato in Tito Livio, quanto a' soldati ausiliari, sì largo esemplo; perché i
soldati ausiliari sono quegli che un principe o una republica manda, capitanati
e pagati da lei, in tuo aiuto. E venendo al testo di Livio, dico che, avendo i
Romani, in due diversi luoghi, rotti due eserciti de' Sanniti con gli eserciti
loro, i quali avevano mandati al soccorso de' Capovani; e per questo liberi i
Capovani da quella guerra che i Sanniti facevano loro; e volendo ritornare
verso Roma, ed a ciò che i Capovani, spogliati di presidio, non diventassono di
nuovo preda de' Sanniti; lasciarono due legioni nel paese di Capova, che gli
difendesse. Le quali legioni marcendo nell'ozio, cominciarono a dilettarsi in
quello; tanto che, dimenticata la patria e la reverenza del Senato, pensarono
di prendere l'armi ed insignorirsi di quel paese che loro con la loro virtù
avevano difeso; parendo loro che gli abitatori non fussono degni di possedere
quegli beni che non sapevano difendere. La quale cosa presentita, fu da' Romani
oppressa e corretta: come, dove noi parleremo delle congiure, largamente si
mosterrà.
Dico
pertanto, di nuovo, come di tutte l'altre qualità de' soldati, gli ausiliari
sono i più dannosi: perché in essi quel principe o quella repubblica che gli
adopera in suo aiuto, non ha autorità alcuna, ma vi ha solo l'autorità colui
che gli manda. Perché gli soldati ausiliarii sono quegli che ti sono mandati da
uno principe, come ho detto, sotto i suoi capitani, sotto sue insegne e pagati
da lui: come fu questo esercito che i Romani mandarono a Capova.
Questi
tali soldati, vinto ch'eglino hanno, il più delle volte predano così colui che
gli ha condotti, come colui contro a chi e' sono condotti; e lo fanno o per
malignità del principe che gli manda, o per ambizione loro. E benché la
intenzione de' Romani non fusse di rompere l'accordo e le convenzioni avevano
fatto co' Capovani; non per tanto la facilità che pareva a quegli soldati di
opprimergli fu tanta, che gli potette persuadere a pensare di tôrre a' Capovani
la terra e lo stato. Potrebbesi di questo dare assai esempli, ma voglio mi
basti questo, e quello de' Regini, a' quali fu tolto la vita e la terra da una
legione che i Romani vi avevano messa in guardia. Debbe, dunque, un principe o
una republica pigliare prima ogni altro partito, che ricorrere a condurre nello
stato suo per sua difesa genti ausiliarie, quando al tutto e' si abbia a fidare
sopra quelle; perché ogni patto, ogni convenzione, ancora che dura, ch'egli arà
col nimico gli sarà più leggieri che tale partito. E se si leggeranno bene le
cose passate, e discorrerannosi le presenti, si troverrà, per uno che ne abbi
avuto buono fine, infiniti esserne rimasi ingannati.
Ed
un principe o una republica ambiziosa non può avere la maggiore occasione di
occupare una città o una provincia, che essere richiesto che mandi gli eserciti
suoi alla difesa di quella. Pertanto, colui che è tanto ambizioso che, non
solamente per difendersi ma per offendere altri, chiama simili aiuti, cerca
d'acquistare quello che non può tenere, e che, da quello che gliene acquista,
gli può facilmente essere tolto. Ma l'ambizione dell'uomo è tanto grande, che,
per cavarsi una presente voglia, non pensa al male che è in breve tempo per
risultargliene. Né lo muovono gli antichi esempli, così in questo come
nell'altre cose discorse; perché, se e' fussono mossi da quegli, vedrebbero
come, quanto più si mostra liberalità con i vicini, e di essere più alieno da
occupargli, tanto più si gettono in grembo: come di sotto, per lo esemplo de'
Capovani, si dirà.
21
Il
primo Pretore ch'e' Romani mandarono in alcuno luogo, fu a Capova, dopo
quattrocento anni che cominciarono a fare guerra.
Quanto
i Romani, nel modo del procedere loro circa lo acquistare, fossero differenti
da quegli che ne' presenti tempi ampliano la giurisdizione loro, si è assai di
sopra discorso; e come e' lasciavano quelle terre, che non disfacevano, vivere
con le leggi loro, eziandio quelle che, non come compagne, ma come suggette si
arrendevano loro; ed in esse non lasciavano alcuno segno d'imperio per il
Popolo romano, ma le obligavano a alcune condizioni, le quali osservando le
mantenevano nello stato e dignità loro. E conoscesi questi modi essere stati
osservati infino che gli uscirono d'Italia, e che cominciarono a indurre i
regni e gli stati in provincie.
Di
questo ne è chiarissimo esemplo, che il primo Pretore che fussi mandato da loro
in alcun luogo, fu a Capova: il quale vi mandarono, non per loro ambizione, ma
perché e' ne furono ricerchi dai Capovani: i quali, essendo intra loro
discordia, giudicarono essere necessario avere dentro nella città uno cittadino
romano che gli riordinasse e riunisse. Da questo esemplo gli Anziati mossi, e
constretti dalla medesima necessità, domandarono, ancora loro, uno Prefetto; e
Tito Livio dice, in su questo accidente, ed in su questo nuovo modo d'imperare
«quod jam non solum arma, sed iura romana pollebant». Vedesi, pertanto,
quanto questo modo facilitò lo augumento romano. Perché quelle città, massime
che sono use a vivere libere, o consuete governarsi per sua provinciali, con
altra quiete stanno contente sotto uno dominio che non veggono, ancora ch'egli
avesse in sé qualche gravezza, che sotto quello che veggendo ogni giorno, pare
loro che ogni giorno sia rimproverata loro la servitù. Appresso, ne seguita uno
altro bene per il principe: che, non avendo i suoi ministri in mano i giudicii
ed i magistrati che civilmente o criminalmente rendono ragione in quelle
cittadi, non può nascere mai sentenza con carico o infamia del principe: e
vengono per questa via a mancare molte cagioni di calunnia e d'odio verso di
quello. E che questo sia il vero, oltre agli antichi esempli che se ne
potrebbero addurre, ce n'è uno esemplo fresco in Italia. Perché, come ciascuno
sa, sendo Genova stata più volte occupata da' Franciosi, sempre quel re,
eccetto che ne' presenti tempi, vi ha mandato uno governatore francioso che in
suo nome la governi. Al presente solo, non per elezione del re, ma perché così
ha ordinato la necessità, ha lasciato governarsi quella città per sé medesima,
e da uno governatore genovese. E sanza dubbio, chi ricercasse quali di questi
due modi rechi più sicurtà al re, dello imperio d'essa, e più contentezza a
quegli popolari, sanza dubbio approverebbe questo ultimo modo. Oltre a di
questo, gli uomini tanto più ti si gettono in grembo, quanto più tu pari alieno
dallo occupargli; e tanto meno ti temano per conto della loro libertà, quanto
più se' umano e dimestico con loro. Questa dimestichezza e liberalità fece i
Capovani correre a chiedere il Pretore a' Romani: ché se a' Romani si fusse dimostro
una minima voglia di mandarvelo, subito sariano ingelositi, e si sarebbero
discostati da loro.
Ma
che bisogna ire per gli esempli a Capova ed a Roma, avendone in Firenze ed in
Toscana? Ciascuno sa quanto tempo è che la città di Pistoia venne volontariamente
sotto lo imperio fiorentino. Ciascuno ancora sa quanta inimicizia è stata intra
i Fiorentini, e' Pisani, Lucchesi e Sanesi: e questa diversità di animo non è
nata, perché i Pistolesi non prezzino la loro libertà come gli altri, e non si
giudichino da quanto gli altri; ma per essersi i Fiorentini portati con loro
sempre come frategli, e con gli altri come inimici. Questo ha fatto che i
Pistolesi sono corsi volontari sotto lo imperio loro: gli altri hanno fatto e
fanno ogni forza per non vi pervenire. E sanza dubbio, se i Fiorentini o per
vie di leghe o di aiuti avessero dimesticati e non insalvatichiti i suoi
vicini, a questa ora, sanza dubbio, e' sarebbero signori di Toscana. Non è per
questo che io giudichi che non si abbia adoperare l'armi e le forze; ma si
debbono riservare in ultimo luogo dove e quando gli altri modi non bastino.
22
Quanto
siano false molte volte le opinioni degli uomini nel giudicare le cose grandi.
Quanto
siano false molte volte le opinioni degli uomini, lo hanno visto e veggono
coloro che si truovono testimoni delle loro diliberazioni: le quali, molte
volte, se non sono diliberate da uomini eccellenti, sono contrarie ad ogni
verità. E perché gli eccellenti uomini nelle republiche corrotte, nei tempi
quieti massime, e per invidia e per altre ambiziose cagioni, sono inimicati, si
va dietro a quello che o, da uno comune inganno è giudicato bene, o, da uomini
che più presto vogliono i favori che il bene dello universale, è messo innanzi.
Il quale inganno dipoi si scuopre nei tempi avversi, e per necessità si rifugge
a quegli che nei tempi quieti erano come dimenticati: come nel suo luogo in
questa parte appieno si discorrerà.
Nascono
ancora certi accidenti, dove facilmente sono ingannati gli uomini che non hanno
grande isperienza delle cose, avendo in sé, quello accidente che nasce, molti
verisimili, atti a fare credere quello che gli uomini sopra tale caso si
persuadono. Queste cose si sono dette per quello che Numicio pretore, poiché i
Latini furono rotti dai Romani, persuase loro, e per quello che, pochi anni
sono si credeva per molti, quando Francesco I re di Francia venne allo acquisto
di Milano, che era difeso da' Svizzeri. Dico pertanto che, sendo morto Luigi
XII, e succedendo nel regno di Francia Francesco d'Angolem, e desiderando
restituire al regno il ducato di Milano, stato, pochi anni davanti, occupato
da' Svizzeri mediante i conforti di Papa Iulio II, desiderava avere aiuti in
Italia che gli facilitassero la impresa; ed oltre a' Viniziani, che Luigi si
aveva riguadagnati, tentava i Fiorentini e papa Leone X; parendogli la sua
impresa più facile, qualunque volta si avesse riguadagnati costoro, per essere
genti del re di Spagna in Lombardia, ed altre forze dello imperadore in Verona.
Non cedé Papa Leone alle voglie del re, ma fu persuaso da quegli che lo
consigliavano (secondo si disse) si stesse neutrale, mostrandogli in questo
partito consistere la vittoria certa: perché per la Chiesa non si faceva avere
potenti in Italia né il re né i Svizzeri ma, volendola ridurre nell'antica
libertà, era necessario liberarla dalla servitù dell'uno e dell'altro. E perché
vincere l'uno e l'altro, o di per sé o tutti a dua insieme, non era possibile;
conveniva che superassino l'uno l'altro, e che la Chiesa con gli suoi amici
urtasse quello, poi, che rimanesse vincitore. Ed era impossibile trovare
migliore occasione che la presente, sendo l'uno e l'altro in su i campi, ed
avendo il Papa le sue forze a ordine da potere rappresentarsi in su i confini
di Lombardia, e propinquo a l'uno e l'altro esercito, sotto colore di volere
guardare le cose sue, e quivi stare tanto che venissono alla giornata, la quale
ragionevolmente, sendo l'uno e l'altro esercito virtuoso, doverrebbe essere
sanguinosa per tutte a due le parti, e lasciare in modo debilitato il vincitore
che fusse al Papa facile assaltarlo e romperlo: e così verrebbe con sua gloria
a rimanere signore di Lombardia, ed arbitro di tutta Italia. E quanto questa
opinione fusse falsa, si vide per lo evento della cosa: perché, sendo dopo una
lunga zuffa suti superati i Svizzeri, non che le genti del Papa e di Spagna
presumessero assaltare i vincitori, ma si prepararono alla fuga; la quale
ancora non sarebbe loro giovata, se non fusse stato o la umanità o la freddezza
del re, che non cercò la seconda vittoria, ma li bastò fare accordo con la
Chiesa.
Ha
questa opinione certe ragioni che discosto paiono vere, ma sono al tutto aliene
dalla verità. Perché, rade volte accade che il vincitore perda assai suoi
soldati: perché de' vincitori ne muore nella zuffa, non nella fuga; e nello
ardore del combattere, quando gli uomini hanno volto il viso l'uno all'altro,
ne cade pochi, massime perché la dura poco tempo, il più delle volte; e quando
pure durasse assai tempo e de' vincitori ne morisse assai, è tanta la
riputazione che si tira dietro la vittoria, ed il terrore che la porta seco,
che di lungi avanza il danno che per la morte de' suoi soldati avesse
sopportato. Talché, se uno esercito il quale, in su la opinione che fusse
debilitato, andasse a trovarlo, si troverrebbe ingannato; se già, e' non fusse
lo esercito tale che d'ogni tempo, e innanzi alla vittoria e poi, potesse
combatterlo. In questo caso ei potrebbe, secondo la sua fortuna e virtù,
vincere e perdere; ma quello che si fusse azzuffato prima, ed avesse vinto,
arebbe più tosto vantaggio dall'altro. Il che si conosce certo per la
isperienza de' Latini, e per la fallacia che Numizio pretore prese, e per il
danno che ne riportarono quegli popoli che gli crederono: il quale, vinto che i
Romani ebbero i Latini, gridava per tutto il paese di Lazio, che allora era
tempo assaltare i Romani debilitati per la zuffa avevano fatta con loro; e che
solo appresso a' Romani era rimaso il nome della vittoria, ma tutti gli altri
danni avevano sopportati come se fussino stati vinti; e che ogni poco di forza
che di nuovo gli assaltasse, era per spacciargli. Donde quegli popoli, che gli
crederono, fecero nuovo esercito, e subito furono rotti, e patirono quel danno
che patiranno sempre coloro che terranno simile opinione.
23
Quanto
i Romani nel giudicare i sudditi per alcuno accidente che necessitasse tale
giudizio fuggivano la via del mezzo.
«Iam Latio is status erat rerum, ut neque pacem
neque bellum pati possent». Di tutti gli stati infelici, è infelicissimo
quello d'uno principe o d'una republica che è ridotto in termine che non può
ricevere la pace o sostenere la guerra: a che si riducono quegli che sono dalle
condizioni della pace troppo offesi; e dall'altro canto, volendo fare guerra,
conviene loro o gittarsi in preda di chi gli aiuti o rimanere preda del nimico.
Ed a tutti questi termini si viene, pe' cattivi consigli e cattivi partiti, da
non avere misurato bene le forze sue, come di sopra si disse. Perché quella
republica o quel principe che bene le misurasse, con difficultà si condurrebbe
nel termine si condussono i Latini: i quali, quando non dovevano accordare con
i Romani, accordarono; e quando ei non dovevano rompere loro guerra, la
ruppono: e così seppono fare in modo, che la inimicizia ed amicizia de' Romani
fu loro equalmente dannosa. Erano, dunque, vinti i Latini ed al tutto afflitti,
prima da Manlio Torquato, e dipoi da Cammillo: il quale, avendogli costretti a
darsi e rimettersi nelle braccia de' Romani, ed avendo messo la guardia per
tutte le terre di Lazio, e preso da tutte gli statichi; tornato in Roma, referì
al Senato come tutto Lazio era nelle mani del Popolo romano. E perché questo
giudizio è notabile, e merita di essere osservato, per poterlo imitare quando
simili occasioni sono date a' principi, io voglio addurre le parole di Livio,
poste in bocca di Cammillo; le quali fanno fede e del modo che i Romani tennono
in ampliare, e come ne' giudizi di stato sempre fuggirono la via del mezzo, e
si volsono agli estremi. Perché uno governo non è altro che tenere in modo i
sudditi che non ti possano o debbano offendere: questo si fa o con
assicurarsene in tutto, togliendo loro ogni via da nuocerti, o con benificarli
in modo, che non sia ragionevole ch'eglino abbiano a desiderare di mutare
fortuna. Il che tutto si comprende, e prima per la proposta di Cammillo, e poi
per il giudizio dato dal Senato sopra quella. Le parole sue furono queste: «Dii
immortales ita vos potentes huius consilii fecerunt, ut, sit Latium an non sit,
in vestra manu posuerint. Itaque pacem vobis, quod ad Latinos attinet, parare
in perpetuum, vel saeviendo vel ignoscendo potestis. Vultis crudelius consulere
in dedititios victosque? licet delere omne Latium. Vultis, exemplo maiorum,
augere rem romanam, victos in civitatem accipiendo? materia crescendi per
summam gloriam suppeditat. Certe id firmissimum imperium est, quo obedientes
gaudent. Illorum igitur animos, dum expectatione stupent, seu poena seu
beneficio praeoccupari oportet». A questa proposta successe la
diliberazione del Senato: la quale fu secondo le parole del Consolo, che,
recatosi innanzi, terra per terra, tutti quegli ch'erano di momento, o e' gli
benificarono o e' gli spensono, faccendo ai beneficati esenzioni, privilegi,
donando loro la città, e da ogni parte assicurandogli; di quegli altri
sfasciarono le terre, mandoronvi colonie, ridussongli in Roma, dissiparongli
talmente che con l'armi e con il consiglio non potevono più nuocere. Né usarono
mai la via neutrale in quelli, come ho detto, di momento. Questo giudizio
debbono i principi imitare. A questo dovevano accostarsi i Fiorentini, quando
nel 1502 si ribellò Arezzo, e tutta la Val di Chiana: il che se avessono fatto,
arebbero assicurato lo imperio loro, e fatto grandissima la città di Firenze, e
datogli quegli campi che per vivere gli mancono. Ma loro usorono quella via del
mezzo, la quale è dannosissima nel giudicare gli uomini; e parte degli Aretini
confinarono, parte ne condennarono; a tutti tolsono gli onori e gli loro
antichi gradi nella città; e lasciarono la città intera. E se alcuno cittadino
nelle diliberazioni consigliava che Arezzo si disfacesse; a quegli che pareva
essere più savi, dicevano come e' sarebbe poco onore della republica disfarla,
perché e' parrebbe che Firenze mancasse di forze da tenerli. Le quali ragioni
sono di quelle che paiono e non sono vere; perché con questa medesima ragione
non si arebbe a ammazzare uno parricida, uno scelerato e scandoloso, sendo
vergogna di quel principe mostrare di non avere forze da potere frenare uno
uomo solo. E non veggono, questi tali che hanno simili opinioni, come gli
uomini particularmente ed una città tutta insieme pecca tal volta contro a uno
stato, che, per esemplo agli altri, per sicurtà di sé, non ha altro rimedio uno
principe che spegnerla. E l'onore consiste nel potere e sapere gastigarla, non
nel potere con mille pericoli tenerla: perché quel principe che non gastiga chi
erra, in modo che non possa più errare, è tenuto o ignorante o vile. Questo
giudizio che i Romani dettero, quanto sia necessario si conferma ancora per la
sentenza che dettero de' Privernati. Dove si debbe, per il testo di Livio,
notare due cose: l'una, quello che di sopra si dice, ch'e' sudditi si debbono o
benificare o spegnere: l'altra, quanto la generosità dell'animo, quanto il
parlare il vero giovi, quando egli è detto nel conspetto di uomini prudenti.
Era ragunato il Senato romano per giudicare de' Privernati, i quali, sendosi
ribellati, erano di poi per forza ritornati sotto la ubbidienza romana. Erano
mandati dal popolo di Priverno molti cittadini per impetrare perdono dal
Senato; ed essendo venuti al conspetto di quello, fu detto a uno di loro da uno
de' Senatori, «quam poenam meritos Privernates censeret». Al quale il
Privernate rispose: «Eam, quam merentur qui se libertate dignos censent».
Al quale il Consolo replicò: «Quid si poenam remittimus vobis, qualem nos
pacem vobiscum habituros speremus?». A che quello rispose: «Si bonam
dederitis, et fidelem et perpetuam, si malam, haud diuturnam». Donde la più
savia parte del Senato, ancora che molti se ne alterassono, disse: «se
audivisse vocem et liberi et viri; nec credi posse ullum populum, aut hominem,
denique in ea conditione cuius eum poeniteat diutius quam necesse sit,
mansurum. Ibi pacem esse fidam, ubi voluntarii pacati sint, neque eo loco ubi
servitutem esse velint, fidem sperandam esse». Ed in su queste parole,
deliberarono che i Privernati fossero cittadini romani, e de' privilegi della
civilità gli onorarono, dicendo: «eos demum qui nihil praeterquam de
libertate cogitant, dignos esse, qui Romani fiant». Tanto piacque agli
animi generosi questa vera e generosa risposta; perché ogni altra risposta
sarebbe stata bugiarda e vile.
E
coloro che credono degli uomini altrimenti, massime di quegli che sono usi o a
essere o a parere loro essere liberi, se ne ingannono; e sotto questo inganno
pigliano partiti non buoni per sé, e da non satisfare a loro. Di che nascano le
spesse ribellioni, e le rovine degli stati. Ma per tornare al discorso nostro,
conchiudo, e per questo e per quel giudizio dato de' Latini: quando si ha a
giudicare cittadi potenti e che sono use a vivere libere, conviene o spegnerle
o carezzarle; altrimenti, ogni giudizio è vano. E debbesi fuggire al tutto la
via del mezzo, la quale è dannosa, come la fu ai Sanniti quando avevano
rinchiusi i Romani alle Forche Gaudine; quando non vollero seguire il parere di
quel vecchio, che consigliò che i Romani si lasciassero andare onorati, o che
si ammazzassero tutti; ma pigliando una via di mezzo, disarmandogli e
mettendogli sotto il giogo, gli lasciarono andare pieni d'ignominia e di
sdegno. Talché poco dipoi conobbono con loro danno la sentenza di quel vecchio
essere stata utile, e la loro diliberazione dannosa: come nel suo luogo più a
pieno si discorrerà.
24
Le
fortezze generalmente sono molto più dannose che utili.
E'
parrà forse a questi savi de' nostri tempi cosa non bene considerata, che i
Romani, nel volere assicurarsi de' popoli di Lazio e della città di Priverno,
non pensassono di edificarvi qualche fortezza, la quale fosse uno freno a
tenergli in fede; sendo, massime, un detto in Firenze, allegato da' nostri
savi, che Pisa e l'altre simili città si debbono tenere con le fortezze. E
veramente, se i Romani fussono stati fatti come loro, egli arebbero pensato di
edificarle; ma perché gli erano d'altra virtù, d'altro giudizio, d'altra
potenza, e' non le edificarono. E mentre che Roma visse libera, e che la seguì
gli ordini suoi e le sue virtuose constituzioni, mai n'edificò per tenere o
città o provincie, ma salvò bene alcuna delle edificate. Donde veduto il modo
del procedere de' Romani in questa parte, e quello de' principi de' nostri
tempi, mi pare da mettere in considerazione, s'egli è bene edificare fortezze,
o se le fanno danno o utile a quello che l'edifica.
Debbesi,
adunque, considerare come le fortezze si fanno o per difendersi dagl'inimici o
per difendersi da' suggetti. Nel primo caso le non sono necessarie; nel
secondo, dannose. E cominciando a rendere ragione perché, nel secondo caso, le
siano dannose, dico che quel principe o quella republica che ha paura de'
sudditi suoi e della rebellione loro, prima conviene che tale paura nasca da
odio che abbiano i suoi sudditi seco; l'odio, da' mali suoi portamenti; i mali
portamenti nascono o da potere credere tenergli con forza, o da poca prudenza
di chi gli governa: ed una delle cose che fa credere potergli forzare, è
l'avere loro addosso le fortezze; perché e' mali trattamenti, che sono cagione
dell'odio, nascono in buona parte per avere quel principe o quella republica le
fortezze: le quali, quando sia vero questo, di gran lunga sono più nocive che
utili. Perché in prima, come è detto, le ti fanno essere più audace e più
violento ne' sudditi; dipoi, non vi è quella sicurtà, dentro, che tu ti
persuadi: perché tutte le forze, tutte le violenze che si usono per tenere uno
popolo, sono nulla, eccetto che due; o che tu abbia sempre da mettere in
campagna uno buono esercito, come avevano i Romani, o che gli dissipi, spenga,
disordini e disgiunga, in modo che non possano convenire a offenderti. Perché,
se tu gl'impoverisci, «spoliatis arma supersunt»; se tu gli disarmi, «furor
arma ministrat»; se tu ammazzi i capi, e gli altri segui d' ingiuriare,
rinascono i capi, come quelli della Idra, se tu fai le fortezze, le sono utili
ne' tempi di pace, perché ti dànno più animo a fare loro male ma ne' tempi di
guerra sono inutilissime, perché le sono assaltate dal nimico e da' sudditi, né
è possibile che le faccino resistenza ed all'uno ed all'altro. E se mai furono
disutili, sono, ne' tempi nostri, rispetto alle artiglierie; per il furore
delle quali i luoghi piccoli e dove altri non si possa ritirare con gli ripari,
è impossibile difendere, come di sopra discorremo.
Io
voglio questa materia disputarla più tritamente. O tu, principe, vuoi con
queste fortezze tenere in freno il popolo della tua città; o tu, principe, o
republica, vuoi frenare una città occupata per guerra. Io mi voglio voltare al
principe, e gli dico: che tale fortezza, per tenere in freno i suoi cittadini,
non può essere più inutile per le cagioni dette di sopra; perché la ti fa più
pronto e men rispettivo a oppressargli; e quella oppressione gli fa sì disposti
alla tua rovina, e gli accende in modo, che quella fortezza, che ne è cagione, non
ti può poi difendere. Tanto che un principe savio e buono, per mantenersi
buono, per non dare cagione né ardire a' figliuoli di diventare tristi, mai non
farà fortezza, acciocché quelli, non in su le fortezze, ma in su la benivolenza
degli uomini si fondino. E se il conte Francesco Sforza, diventato duca di
Milano, fu riputato savio, e nondimeno fece in Milano una fortezza, dico che in
questo ei non fu savio, e lo effetto ha dimostro come tale fortezza fu a danno,
e non a sicurtà de' suoi eredi. Perché giudicando mediante quella vivere
sicuri, e potere offendere i cittadini e sudditi loro, non perdonarono a alcuna
generazione di violenza; talché, diventati sopra modo odiosi, perderono quello
stato come prima il nimico gli assaltò: né quella fortezza gli difese, né fece
loro nella guerra utile alcuno, e nella pace aveva fatto loro danno assai.
Perché se non avessono avuto quella, e se per poca prudenza avessono agramente
maneggiati i loro cittadini, arebbono scoperto il pericolo più tosto, e
sarebbonsene ritirati; e arebbono poi potuto più animosamente resistere allo
impeto francioso, co' sudditi amici sanza fortezza, che, con quelli inimici,
con la fortezza: le quali non ti giovano in alcuna parte; perché, o le si
perdono per fraude di chi le guarda, o per violenza di chi le assalta, o per
fame. E se tu vuoi che le ti giovino, e ti aiutino ricuperare uno stato
perduto, dove ti sia rimasa solo la fortezza; ti conviene avere uno esercito,
con il quale tu possa assaltare colui che ti ha cacciato: e quando tu abbi
questo esercito, tu riaresti lo stato in ogni modo, eziandio la fortezza non vi
fosse; e tanto più facilmente, quanto gli uomini ti fossono più amici che non
ti erano avendogli male trattati per l'orgoglio della fortezza. E per
isperienza si è visto, come questa fortezza di Milano, né agli Sforzeschi né a'
Franciosi, ne' tempi avversi dell'uno e dell'altro, non ha fatto a alcuno di
loro utile alcuno, anzi a tutti ha arrecato danno e rovine assai, non avendo
pensato, mediante quella, a più onesto modo di tenere quello stato. Guidubaldo
duca di Urbino, figliuolo di Federigo, che fu ne' suoi tempi tanto stimato
capitano, sendo cacciato da Cesare Borgia, figliuolo di papa Alessandro VI,
dello stato; come dipoi, per uno accidente nato, vi ritornò, fece rovinare
tutte le fortezze che erano in quella provincia, giudicandole dannose. Perché,
sendo quello amato dagli uomini, per rispetto di loro non le voleva; e, per
conto de' nimici, vedeva non le potere difendere, avendo quelle bisogno d'uno
esercito in campagna, che le difendesse: talché si volse a rovinarle. Papa
Iulio, cacciati i Bentivogli di Bologna fece in quella città una fortezza; e
dipoi faceva assassinare quel popolo da uno suo governatore: talché quel popolo
si ribellò; e subito perdé la fortezza; e così non gli giovò la fortezza; e
l'offese, intanto che, portandosi altrimenti, gli arebbe giovato. Niccolò da
Castello, padre de' Vitelli, tornato nella sua patria donde era esule, subito
disfece due fortezze vi aveva edificate papa Sisto IV, giudicando, non la
fortezza, ma la benivolenza del popolo lo avesse a tenere in quello stato. Ma
di tutti gli altri esempli il più fresco ed il più notabile in ogni parte ed
atto a mostrare la inutilità dello edificarle e l'utilità del disfarle, è
quello di Genova, seguito ne' prossimi tempi. Ciascuno sa come, nel 1507,
Genova si ribellò da Luigi XII re di Francia, il quale venne personalmente e
con tutte le forze sue a riacquistarla; e ricuperata che la ebbe, fece una
fortezza, fortissima di tutte le altre delle quali al presente si avesse
notizia: perché era, per sito e per ogni altra circunstanza, inespugnabile,
posta in su una punta di colle che si estende nel mare, chiamato da' Genovesi
Codefà; e, per questo, batteva tutto il porto e gran parte della città di
Genova. Occorse poi, nel 1512, che, sendo cacciate le genti franciose d'Italia,
Genova, nonostante la fortezza, si ribellò, e prese lo stato di quella
Ottaviano Fregoso; il quale con ogni industria, in termine di sedici mesi, per
fame la espugnò. E ciascuno credeva, e da molti n'era consigliato, che la
conservasse per suo refugio in ogni accidente; ma esso, come prudentissimo,
conoscendo che non le fortezze, ma la volontà degli uomini mantenevono i
principi in stato, la rovinò. E così, sanza fondare lo stato suo in su la
fortezza, ma in su la virtù e prudenza sua, lo ha tenuto e tiene. E dove a
variare lo stato di Genova solevano bastare mille fanti, gli avversari suoi lo
hanno assaltato con diecimila, e non lo hanno potuto offendere. Vedesi adunque
per questo, come il disfare la fortezza non ha offeso Ottaviano, ed il farla
non difese il re. Perché, quando ei potette venire in Italia con lo esercito,
ei potette ricuperare Genova, non vi avendo fortezza; ma quando ei non potette
venire in Italia con lo esercito, ei non potette tenere Genova, avendovi la
fortezza. Fu, adunque, di spesa a il re il farla, e vergognoso il perderla; a
Ottaviano, glorioso il riacquistarla, ed utile il rovinarla.
Ma
vegnamo alle republiche che fanno le fortezze non nella patria, ma nelle terre
che le acquistano. Ed a mostrare questa fallacia, quando e' non bastasse lo
esemplo detto, di Francia e di Genova, voglio mi basti Firenze e Pisa: dove i
Fiorentini fecero le fortezze per tenere quella città; e non conobbero che una
città stata sempre inimica del nome fiorentino, vissuta libera, e che ha alla
rebellione per rifugio la libertà, era necessario, volendola tenere, osservare
il modo romano; o farsela compagna, o disfarla. Perché la virtù delle fortezze
si vide nella venuta del re Carlo; al quale si dettono o per poca fede di chi
le guardava o per timore di maggiore male: dove, se le non fussono state, i
Fiorentini non arebbero fondato il potere tenere Pisa sopra quelle, e quel re
non arebbe potuto per quella via privare i Fiorentini di quella città; e i modi
con gli quali si fusse mantenuta infino a quel tempo, sarebbono stati per
avventura sufficienti conservarla, e sanza dubbio non arebbero fatto più
cattiva prova che le fortezze. Conchiudo adunque, che, per tenere la patria
propria, la fortezza è dannosa; per tenere le terre che si acquistono, le
fortezze sono inutili: e voglio mi basti l'autorità de' Romani, i quali, nelle
terre che volevano tenere con violenza, smuravano, e non muravano. E chi contro
a questa opinione mi allegasse negli antichi tempi Taranto, e ne' moderni
Brescia, i quali luoghi mediante le fortezze furono recuperati dalla ribellione
de' sudditi, rispondo che alla ricuperazione di Taranto, in capo di uno anno,
fu mandato Fabio Massimo con tutto lo esercito, il quale sarebbe stato atto a
ricuperarlo eziandio se non vi fusse stata la fortezza, e se Fabio usò quella
via, quando la non vi fusse stata, ne arebbe usata un'altra che arebbe fatto il
medesimo effetto. Ed io non so di che utilità sia una fortezza che, a renderti
la terra, abbia bisogno, per la ricuperazione d'essa, d'uno esercito consolare
e d'uno Fabio Massimo per capitano. E che i Romani l'avessono ripresa in ogni
modo, si vede per l'esemplo di Capova; dove non era fortezza, e per virtù dello
esercito la riacquistarono. Ma vegnamo a Brescia. Dico, come rade volte occorre
quello che occorse in quella rebellione, che la fortezza che rimane nelle forze
tua, sendo ribellata la terra, abbi uno esercito grosso e propinquo, come era
quel de' Franciosi: perché, sendo monsignor di Fois, capitano del re, con lo
esercito a Bologna, intesa la perdita di Brescia, sanza differire ne andò a
quella volta, ed in tre giorni arrivato a Brescia, per la fortezza riebbe la
terra. Ebbe, pertanto, ancora la fortezza di Brescia, a volere che la giovasse,
bisogno d'un monsignor di Fois, e d'uno esercito francioso che in tre dì la
soccorresse. Sì che lo esemplo di questo, allo incontro delli esempli contrari,
non basta; perché assai fortezze sono state, nelle guerre de' nostri tempi,
prese e riprese con la medesima fortuna che si è ripresa e presa la campagna,
non solamente in Lombardia, ma in Romagna, nel regno di Napoli, e per tutte le
parti d'Italia. Ma, quanto allo edificare fortezze per difendersi da' nimici di
fuori, dico che le non sono necessarie a quelli popoli ed a quelli regni che
hanno buoni eserciti; ed a quegli che non hanno buoni eserciti, sono inutili:
perché i buoni eserciti sanza le fortezze sono sofficienti a difendersi; le
fortezze sanza i buoni eserciti non ti possono difendere. E questo si vede per
isperienza di quegli che sono stati e ne' governi e nell'altre cose tenuti
eccellenti; come si vede de' Romani e degli Spartani: che, se i Romani non
edificavano fortezze, gli Spartani, non solamente si astenevano da quelle, ma
non permettevano di avere mura alle loro città; perché volevono che la virtù
dell'uomo particulare, non altro defensivo, gli difendesse. Dond'è che, sendo
domandato uno Spartano da uno Ateniese, se le mura di Atene gli parevano belle,
gli rispose: «Sì, s'elle fussono abitate da donne». Quello principe, adunque,
che abbi buoni eserciti, quando in sulle marine e alla fronte dello stato suo
abbia qualche fortezza che possa qualche dì sostenere el nimico infino che sia
a ordine, sarebbe cosa utile, qualche volta, ma non è necessaria. Ma quando il
principe non ha buono esercito, avere le fortezze per il suo stato, o alle
frontiere, gli sono o dannose o inutili: dannose, perché facilmente le perde, e
perdute gli fanno guerra; o, se pure le fussono sì forti che il nimico non le
potessi occupare, sono lasciate indietro dallo esercito inimico, e vengono a
essere di nessuno frutto; perché i buoni eserciti, quando non hanno
gagliardissimo riscontro, entrano ne' paesi inimici sanza rispetto di città o
di fortezze che si lascino indietro; come si vede nelle antiche istorie, e come
si vede fece Francesco Maria, il quale, ne' prossimi tempi, per assaltare
Urbino si lasciò indietro dieci città inimiche, sanza alcuno rispetto. Quel
principe, adunque, che può fare buono esercito, può fare sanza edificare
fortezze; quello che non ha lo esercito buono, non debbe edificarle. Debbe bene
afforzare la città dove abita, e tenerla munita, e bene disposti i cittadini di
quella, per potere sostenere tanto uno impeto inimico, o che accordo o che
aiuto esterno lo liberi. Tutti gli altri disegni sono di spesa ne' tempi di
pace, ed inutili ne' tempi di guerra. E così, chi considererà tutto quello ho
detto, conoscerà i Romani, come savi in ogni altro loro ordine, così furono
prudenti in questo giudizio de' Latini e de' Privernati; dove, non pensando a
fortezze, con più virtuosi modi e più savi se ne assicurarono.
25
Che
lo assaltare una città disunita, per occuparla mediante la sua disunione, è
partito contrario.
Era
tanta disunione nella Republica romana intra la Plebe e la Nobilità, che i
Veienti, insieme con gli Etrusci, mediante tale disunione, pensarono potere
estinguere il nome romano. Ed avendo fatto esercito, e corso sopra i campi di
Roma, mandò il Senato, loro contro, Gaio Manilio e Marco Fabio; i quali avendo
condotto il loro esercito propinquo allo esercito de' Veienti, non cessavano i
Veienti, e con assalti e con obbrobri, offendere e vituperare il nome romano: e
fu tanta la loro temerità ed insolenzia, che i Romani, di disuniti diventarono
uniti; e venendo alla zuffa, gli ruppano e vinsono. Vedesi pertanto, quanto gli
uomini s'ingannano, come di sopra discorremo, nel pigliare de' partiti; e come
molte volte credono guadagnare una cosa, e la perdono. Credettono i Veienti,
assaltando i Romani disuniti, vincergli; e quello assalto fu cagione della
unione di quegli, e della rovina loro. Perché la cagione della disunione delle
republiche il più delle volte è l'ozio e la pace; la cagione della unione è la
paura e la guerra. E però, se i Veienti fussono stati savi, eglino arebbero,
quanto più disunita vedevon Roma, tanto più tenuta da loro la guerra discosto,
e con l'arti della pace cerco di oppressargli. Il modo è cercare di diventare
confidente di quella città che è disunita; ed infino che non vengono all'armi,
come arbitro maneggiarsi intra le parti. Venendo alle armi, dare lenti favori
alla parte più debole; sì per tenergli più in su la guerra, e fargli consumare;
sì perché le assai forze non gli facessero dubitare tutti, che tu volessi opprimergli
e diventare loro principe. E quando questa parte è governata bene, interverrà,
quasi sempre, che l'arà quel fine che tu ti hai presupposto. La città di
Pistoia, come in altro discorso ed a altro proposito dissi, non venne sotto
alla Republica di Firenze con altra arte che con questa: perché sendo quella
divisa, e favorendo i Fiorentini ora l'una parte ora l'altra, sanza carico
dell'una e dell'altra la condussono in termine, che, stracca in quel suo vivere
tumultuoso, venne spontaneamente a gittarsi in le braccia di Firenze. La città
di Siena non ha mai mutato stato, col favore de' Fiorentini, se non quando i
favori sono stati deboli e pochi. Perché, quando ei sono stati assai e
gagliardi, hanno fatto quella città unita alla difesa di quello stato che regge.
Io voglio aggiugnere ai soprascritti uno altro esemplo. Filippo Visconti, duca
di Milano, più volte mosse guerra a' Fiorentini, fondatosi sopra le disunioni
loro, e sempre ne rimase perdente; talché gli ebbe a dire, dolendosi delle sue
imprese, come le pazzie de' Fiorentini gli avevano fatto spendere inutilmente
due milioni d'oro. Restarono adunque, come di sopra si dice, ingannati i
Veienti e gli Toscani da questa opinione, e furano alfine in una giornata
superati da' Romani. E così per lo avvenire ne resterà ingannato qualunque per
simile via e per simile cagione crederrà oppressare uno popolo.
26
Il
vilipendio e l'improperio genera odio contro a coloro che l'usano, sanza alcuna
loro utilità.
Io
credo che sia una delle grandi prudenze che usono gli uomini, astenersi o dal
minacciare o dallo ingiuriare alcuno con le parole: perché l'una cosa e l'altra
non tolgono forze al nimico; ma l'una lo fa più cauto, l'altra gli fa avere
maggiore odio contro di te, e pensare con maggiore industria di offenderti.
Vedesi questo per lo esemplo de' Veienti, de' quali nel capitolo superiore si è
discorso; i quali alla ingiuria della guerra, aggiunsono, contro a' Romani,
l'obbrobrio delle parole; dal quale ogni capitano prudente debbe fare astenere
i suoi soldati; perché le sono cose che infiammano ed accendano il nimico alla
vendetta, ed in nessuna parte lo impediscono, come è detto, alla offesa; tanto
che le sono tutte armi che vengono contro a te. Di che ne seguì già uno esemplo
notabile in Asia: dove Gabade, capitano de' Persi, essendo stato a campo a
Amida più tempo, ed avendo deliberato, stracco dal tedio della ossidione,
partirsi; levandosi già con il campo, quegli della terra, venuti tutti in su le
mura, insuperbiti della vittoria, non perdonarono a nessuna qualità d'ingiuria,
vituperando, accusando, e rimproverando la viltà e la poltroneria del nimico.
Da che Gabade irritato, mutò consiglio; e ritornato alla ossidione tanta fu la
indegnazione della ingiuria, che in pochi giorni gli prese e saccheggiò. E
questo medesimo intervenne a' Veienti: a' quali, come è detto, non bastando il
fare guerra a' Romani, ancora con le parole gli vituperarono, ed andando infino
in su lo steccato del campo a dire loro ingiuria, gl'irritarono molto più con
le parole che con le armi: e quegli soldati che prima combattevano mal
volentieri, costrinsero i Consoli a appiccare la zuffa, talché i Veienti
portarono la pena, come gli antedetti, della contumacia loro. Hanno dunque i
buoni principi di eserciti, ed i buoni governatori di republica, a fare ogni
opportuno rimedio, che queste ingiurie e rimproveri non si usino o nella città
o nello esercito suo, né infra loro, né contro al nimico: perché, usati contro
al nimico, ne riescono gl'inconvenienti soprascritti; infra loro, farebbero
peggio, non vi si riparando, come vi hanno sempre gli uomini prudenti riparato.
Avendo le legioni romane, state lasciate a Capova, congiurato contro a'
Capovani, come nel suo luogo si narrerà; ed essendone di questa congiura nata
una sedizione, la quale fu poi da Valerio Corvino quietata, intra le altre
constituzioni che nella convenzione si fece ordinarono pene gravissime a coloro
che rimproverassero mai a alcuni di quegli soldati tale sedizione. Tiberio
Gracco, fatto, nella guerra di Annibale, capitano sopra certo numero di servi
che i Romani, per carestia d'uomini, avevano armati, ordinò, intra le prime
cose, pena capitale a qualunque rimproverasse la servitù a alcuno di loro.
Tanto fu stimato dai Romani, come di sopra si è detto, cosa dannosa il
vilipendere gli uomini ed il rimproverare loro alcuna vergogna; perché non è
cosa che accenda tanto gli animi loro, né generi maggiore isdegno, o da vero o
da beffe che si dica: «Nam facetiae asperae, quando nimium ex vero traxere,
acrem sui memoriam relinquunt».
27
Ai
principi e republiche prudenti debbe bastare vincere; perché, il più delle
volte, quando e' non basta, si perde.
Lo
usare parole contro al nimico poco onorevoli, nasce il più delle volte da una
insolenzia che ti dà o la vittoria o la falsa speranza della vittoria; la quale
falsa speranza fa gli uomini non solamente errare nel dire, ma ancora nello
operare. Perché questa speranza, quando la entra ne' petti degli uomini, fa
loro passare il segno; e perdere, il più delle volte, quella occasione
dell'avere uno bene certo, sperando di avere un meglio incerto. E perché questo
è un termine che merita considerazione, ingannandocisi dentro gli uomini molto
spesso, e con danno dello stato loro, e' mi pare da dimostrarlo particularmente
con esempli antichi e moderni, non si potendo con le ragioni così distintamente
dimostrare. Annibale, poi ch'egli ebbe rotti i Romani a Canne, mandò suoi
oratori a Cartagine a significare la vittoria, e chiedere sussidi. Disputossi
in Senato di quello che si avesse a fare. Consigliava Annone, uno vecchio e
prudente cittadino cartaginese, che si usasse questa vittoria saviamente in
fare pace con i Romani, potendola avere con condizioni oneste, avendo vinto; e
non si aspettasse di averla a fare dopo la perdita: perché la intenzione de' Cartaginesi
doveva essere, mostrare a' Romani come e' bastavano a combatterli; ed
avendosene avuto vittoria, non si cercasse di perderla per la speranza d'una
maggiore. Non fu preso questo partito; ma fu bene poi, dal Senato cartaginese,
conosciuto savio, quando la occasione fu perduta.
Avendo
Alessandro Magno già preso tutto l'oriente, la republica di Tiro, nobile in
quelli tempi, e potente per avere la loro città in acqua come i Viniziani,
veduta la grandezza di Alessandro, gli mandarono oratori a dirli, come volevano
essere suoi buoni servidori e darli quella ubbidienza voleva, ma che non erano
già per accettare né lui né sue genti nella terra; donde sdegnato Alessandro,
che una città gli volesse chiudere quelle porte che tutto il mondo gli aveva
aperte, gli ributtò, e, non accettate le condizioni loro vi andò a campo. Era
la terra in acqua, e benissimo, di vettovaglie e di altre munizioni necessarie
alla difesa, munita: tanto che Alessandro, dopo quattro mesi, si avvide che una
città gli toglieva quel tempo alla sua gloria che non gli avevano tolto molti
altri acquisti; e diliberò di tentare lo accordo, e concedere loro quello che
per loro medesimi avevano domandato. Ma quegli di Tiro, insuperbiti, non
solamente non vollero accettare lo accordo, ma ammazzarono chi venne a
praticarlo. Di che Alessandro sdegnato, con tanta forza si misse alla
ispugnazione, che la prese, disfece, ed ammazzò e fece schiavi gli uomini.
Venne,
nel 1512, uno esercito spagnuolo in sul dominio fiorentino per rimettere i
Medici in Firenze, e taglieggiare la città, condotti da cittadini d'entro, i
quali avevano dato loro speranza, che, subito fussono in sul dominio
fiorentino, piglierebbero l'armi in loro favore; ed essendo entrati nel piano,
e non si scoprendo alcuno, ed avendo carestia di vettovaglie, tentarono
l'accordo: di che insuperbito il popolo di Firenze, non lo accettò: donde ne
nacque la perdita di Prato, e la rovina di quello stato. Non possono, pertanto,
i principi, che sono assaltati, fare il maggiore errore, quando lo assalto è
fatto da uomini di gran lunga più potenti di loro, che recusare ogni accordo,
massime quando egli è offerto: perché non sarà mai offerto sì basso, che non vi
sia dentro in qualche parte il bene essere di colui che lo accetta, e vi sarà
parte della sua vittoria. Perché e' doveva bastare al popolo di Tiro, che
Alessandro accettasse quelle condizioni ch'egli aveva prima rifiutate ed era
assai vittoria la loro, quando con l'arme in mano avevano fatto condiscendere
uno tanto uomo alla voglia loro. Doveva bastare ancora al popolo fiorentino,
che gli era assai vittoria, se lo esercito spagnuolo cedeva a qualcuna delle
voglie di quello e le sue non adempiva tutte: perché la intenzione di quello
esercito era mutare lo stato in Firenze, levarlo dalla divozione di Francia, e
trarre da lui danari.
Quando
di tre cose e' ne avesse avute due, che son l'ultime, ed al popolo ne fusse
restata una, che era la conservazione dello stato suo, ci aveva dentro ciascuno
qualche onore e qualche satisfazione: né si doveva il popolo curare delle due
cose, rimanendo vivo; né doveva volere, quando bene egli avesse veduta maggiore
vittoria, e quasi certa, mettere quella in alcuna parte a discrezione della
fortuna, andandone l'ultima posta sua: la quale qualunque prudente mai arrischierà
se non necessitato.
Annibale,
partito d'Italia, dove era stato sedici anni glorioso, richiamato da' suoi
Cartaginesi a soccorrere la patria, trovò rotto Asdrubale e Siface; trovò
perduto il regno di Numidia e ristretta Cartagine intra i termini delle sue
mura, alla quale non restava altro refugio che esso e lo esercito suo.
Conoscendo come quella era l'ultima posta della sua patria, non volle prima
metterla a rischio, ch'egli ebbe tentato ogni altro rimedio; e non si vergognò
di domandare la pace, giudicando, se alcuno rimedio aveva la sua patria, era in
quella e non nella guerra: la quale sendogli poi negata, non volle mancare,
dovendo perdere, di combattere; giudicando potere pur vincere, o, perdendo,
perdere gloriosamente. E se Annibale, il quale era tanto virtuoso ed aveva il
suo esercito intero, cercò prima la pace che la zuffa, quando ei vidde che,
perdendo quella, la sua patria diveniva serva, che debbe fare un altro di manco
virtù e di manco isperienza di lui? Ma gli uomini fanno questo errore, che non
sanno porre termini alle speranze loro; ed in su quelle fondandosi, sanza
misurarsi altrimenti, rovinano.
28
Quanto
sia pericoloso a una republica o a uno principe non vendicare una ingiuria
fatta contro al publico o contro al privato.
Quello
che facciano fare gli sdegni agli uomini, facilmente si conosce per quello che
avvenne ai Romani quando ei mandarono i tre Fabii oratori a' Franciosi, che
erano venuti a assaltare la Toscana, ed in particulare Chiusi. Perché, avendo
mandato il popolo di Chiusi per aiuto a Roma contro a' Franciosi, i Romani
mandarono ambasciadori a' Franciosi, i quali, in nome del Popolo romano,
significassero loro che si astenessero di fare guerra a' Toscani. I quali
oratori, sendo in su 'l luogo, e più atti a fare che a dire, venendo i
Franciosi ed i Toscani alla zuffa, si messero in tra i primi a combattere
contro a quelli: onde ne nacque che, essendo conosciuti da loro, tutto lo
sdegno avevano contro a' Toscani, volsero contro a' Romani. Il quale sdegno
diventò maggiore, perché, avendo i Franciosi per loro ambasciadori fatto
querela con il Senato romano di tale ingiuria, e domandato che in soddisfazione
del danno fussino loro dati i soprascritti Fabii, non solamente non furono
consegnati loro, o in altro modo gastigati, ma venendo i comizi, furono fatti
Tribuni con potestà consolare. Talché, veggendo i Franciosi quelli onorati che
dovevano essere puniti, ripresono tutto essere fatto in loro dispregio e ignominia;
ed accesi di sdegno e d'ira, vennero a assaltare Roma, e quella presono,
eccetto il Campidoglio. La quale rovina nacque ai Romani solo per la
inosservanza della giustizia; perché, avendo peccato i loro ambasciatori «contra
ius gentium», e dovendo esserne gastigati, furono onorati. Però è da
considerare quanto ogni republica ed ogni principe debbe tenere conto di fare
simile ingiuria, non solamente contro a una universalità, ma ancora contro a
uno particulare. Perché, se uno uomo è offeso grandemente o dal publico o dal
privato e non sia vendicato secondo la soddisfazione sua; se e' vive in una
republica, cerca, ancora che con la rovina di quella, vendicarsi; se e' vive
sotto un principe, ed abbi in sé alcuna generosità, non si acquieta mai, in fino
che in qualunque modo si vendichi contro a di colui, come che egli vi vedesse,
dentro, il suo proprio male.
Per
verificare questo, non ci è il più bello né il più vero esemplo che quello di
Filippo re di Macedonia, padre d'Alessandro. Aveva costui in la sua corte
Pausania, giovane bello e nobile, del quale era inamorato Attalo, uno de' primi
uomini che fusse presso a Filippo ed avendolo più volte ricerco che dovesse
acconsentirgli, e trovandolo alieno da simili cose, diliberò di avere con
inganno e per forza quello che, per altro verso, vedea di non potere avere. E
fatto uno solenne convito, nel quale Pausania e molti altri nobili baroni
convennero, fece, poi che ciascuno fu pieno di vivande e di vino, prendere
Pausania, e, condottolo allo stretto, non solamente per forza sfogò la sua
libidine, ma ancora, per maggiore ignominia, lo fece da molti degli altri in
simile modo vituperare. Della quale ingiuria Pausania si dolse più volte con
Filippo; il quale, avendolo tenuto un tempo in speranza di vendicarlo, non
solamente non lo vendicò, ma prepose Attalo al governo d'una provincia di
Grecia: donde che Pausania, vedendo il suo nimico onorato e non gastigato,
volse tutto lo sdegno suo, non contro a quello che gli aveva fatto ingiuria, ma
contro a Filippo che non lo aveva vendicato. Ed una mattina solenne, in su le
nozze della figliuola di Filippo, ch'egli aveva maritata a Alessandro di Epiro,
andando Filippo al tempio, a celebrarle, in mezzo de' due Alessandri, genero e
figliuolo, lo ammazzò. Il quale esemplo è molto simile a quello de' Romani, e
notabile a qualunque governa: che mai non debbe tanto poco stimare un uomo, che
ei creda, aggiugnendo ingiuria sopra ingiuria, che colui che è ingiuriato non
pensi di vendicarsi con ogni suo pericolo e particulare danno.
29
La
fortuna acceca gli animi degli uomini, quando la non vuole che quegli si
opponghino a' disegni suoi.
Se
e' si considererà bene come procedono le cose umane, si vedrà molte volte
nascere cose e venire accidenti, a' quali i cieli al tutto non hanno voluto che
si provvegga. E quando, questo che io dico, intervenne a Roma, dove era tanta
virtù, tanta religione e tanto ordine, non è maraviglia che gli intervenga
molto più spesso in una città o in una provincia che manchi delle cose
sopradette. E perché questo luogo è notabile assai, a dimostrare la potenza del
cielo sopra le cose umane, Tito Livio largamente e con parole efficacissime lo
dimostra: dicendo come, volendo il cielo a qualche fine, che i Romani
conoscessono la potenza sua, fece prima errare quegli Fabii che andarono
oratori a' Franciosi, e, mediante l'opera loro, gli concitò a fare guerra a
Roma; dipoi ordinò, che, per reprimere quella guerra, non si facesse in Roma
alcuna cosa degna del Popolo romano; avendo prima ordinato che Cammillo, il quale
poteva essere solo unico remedio a tanto male, fusse mandato in esilio a Ardea;
dipoi, venendo i Franciosi verso Roma, coloro che, per rimediare allo impeto
de' Volsci ed altri finitimi loro inimici, avevano creato molte volte uno
Dittatore, venendo i Franciosi, non lo crearono. Ancora nel fare la elezione
de' soldati, la fecioro debole e sanza alcuna istraordinaria diligenza; e
furono tanto pigri al pigliare l'arme, che a fatica furono a tempo a scontrare
i Franciosi sopra il fiume di Allia, discosto a Roma dieci miglia. Quivi i
Tribuni posero il loro campo, sanza alcuna consueta diligenza; non prevedendo
il luogo prima, e non si circundando con fossa e con isteccato, non usando
alcuno rimedio umano e divino; e nello ordinare la zuffa, fecero gli ordini radi
e deboli: in modo che né i soldati né i capitani fecero cosa degna della romana
disciplina.
Combattessi
poi sanza alcuno sangue; perché ei fuggirono prima che fussono assaltati, e la
maggior parte se n'andò a Veio, l'altra si ritirò a Roma; i quali, sanza
entrare altrimenti nelle case loro, se ne entrarono in Campidoglio: in modo che
il Senato, sanza pensare di difendere Roma, non chiuse, non che altro, le
porte; e parte se ne fuggì, parte con gli altri se ne entrarono in Campidoglio.
Pure, nel difendere quello, usarono qualche ordine non tumultuario; perché ei
non aggravarono quello di gente inutile; messonvi tutti i frumenti che
poterono, acciocché potessono sopportare l'ossidione; e della turba inutile de'
vecchi, delle donne e de' fanciugli, la maggior parte se ne fuggì nelle terre
circunvicine, il rimanente restò in Roma in preda de' Franciosi. Talché, chi
avesse letto le cose fatte da quel popolo tanti anni innanzi, e leggessi dipoi
quelli tempi, non potrebbe a nessuno modo credere che fusse stato uno medesimo
popolo. E detto che Tito Livio ha tutti e' sopradetti disordini, conchiude
dicendo: «Adeo obcaecat animos fortuna, cum vim suam ingruentem refringi non
vult». Né può più essere vera questa conclusione: onde gli uomini che
vivono ordinariamente nelle grandi avversità o prosperità, meritano manco laude
o manco biasimo. Perché il più delle volte si vedrà quelli a una rovina ed a
una grandezza essere stati convinti da una commodità grande che gli hanno fatto
i cieli, dandogli occasione, o togliendogli, di potere operare virtuosamente.
Fa
bene la fortuna questo, che la elegge uno uomo, quando la voglia condurre cose
grandi, che sia di tanto spirito e di tanta virtù, che ei conosca quelle
occasioni che la gli porge. Così medesimamente, quando la voglia condurre
grandi rovine, ella vi prepone uomini che aiutino quella rovina. E se alcuno
fusse che vi potesse ostare, o la lo ammazza o la lo priva di tutte le facultà
da potere operare alcuno bene. Conoscesi questo benissimo per questo testo,
come la fortuna, per fare maggiore Roma, e condurla a quella grandezza venne,
giudicò fussi necessario batterla (come a lungo nel principio del seguente
libro discorrereno), ma non volle già in tutto rovinarla. E per questo si vede
che la fece esulare, e non morire, Cammillo; fece pigliare Roma, e non il
Campidoglio; ordinò che i Romani, per riparare Roma, non pensassono alcuna cosa
buona; per difendere poi il Campidoglio, non mancarono di alcuno buono ordine.
Fece, perché Roma fusse presa, che la maggior parte de' soldati che furono
rotti a Allia, se ne andorono a Veio; e così, per la difesa della città di
Roma, tagliò tutte le vie. E nell'ordinare questo, preparò ogni cosa alla sua
ricuperazione; avendo condotto uno esercito romano intero a Veio, e Cammillo a
Ardea, da potere fare grossa testa, sotto uno capitano non maculato d'alcuna
ignominia per la perdita, ed intero nella sua riputazione per la recuperazione
della patria sua.
Sarebbeci
da addurre in confermazione delle cose dette qualche esemplo moderno; ma, per non
gli giudicare necessari, potendo questo a qualunque satisfare, gli lascereno
indietro. Affermo, bene, di nuovo,questo essere verissimo, secondo che per
tutte le istorie si vede, che gli uomini possono secondare la fortuna e non
opporsegli; possono tessere gli orditi suoi, e non rompergli. Debbono, bene,
non si abbandonare mai; perché, non sappiendo il fine suo, e andando quella per
vie traverse ed incognite, hanno sempre a sperare, e sperando non si
abbandonare, in qualunque fortuna ed in qualunque travaglio si truovino.
30
Le
republiche e gli principi veramente potenti non comperono l'amicizie con
danari, ma con la virtù e con la riputazione delle forze.
Erano
i Romani assediati nel Campidoglio, e ancora ch'eglino aspettassono il soccorso
da Veio e da Cammillo, sendo cacciati dalla fame, vennono a composizione con i
Franciosi di ricomperarsi certa quantità d'oro; e sopra tale convenzione
pesandosi di già l'oro, sopravvenne Cammillo con lo esercito suo: il che fece,
dice lo istorico, la fortuna, «ut Romani auro redempti non viverent». La
quale cosa non solamente è notabile in questa parte, ma etiam nel processo
delle azioni di questa Republica; dove si vede che mai acquistarono terre con
danari, mai feciono pace con danari, ma sempre con la virtù dell'armi: il che
non credo sia mai intervenuto a alcuna altra republica. Ed intra gli altri
segni per gli quali si conosce la potenza d'uno stato forte, è vedere come egli
vive con gli vicini suoi. E quando ei si governa in modo che i vicini, per
averlo amico, sieno suoi pensionari, allora è certo segno che quello stato è
potente: ma quando detti vicini, ancora che inferiori a lui, traggono da quello
danari, allora è segno grande della debolezza di quello.
Legghinsi
tutte le istorie romane, e vedrete come i Massiliensi, gli Edui, i Rodiani,
Ierone siracusano, Eumene e Massinissa regi, i quali tutti erano vicini ai
confini dello imperio romano, per avere l'amicizia di quello concorrevono a
spese ed a tributi ne' bisogni d'esso, non cercando da lui altro premio che lo
essere difesi. Al contrario si vedrà negli stati deboli: e cominciandoci dal
nostro di Firenze, ne' tempi passati, nella sua maggiore riputazione, non era
signorotto in Romagna che non avessi da quello provvisione; e di più la dava a'
Perugini, a' Castellani, e a tutti gli altri suoi vicini. Che se questa città
fusse stata armata e gagliarda, sarebbe tutto ito per il contrario; perché
molti, per avere la protezione di essa, arebbono dato danari a lei; e cerco,
non di vendere la loro amicizia, ma di comperare la sua. Né sono in questa
viltà vissuti soli i Fiorentini, ma i Viniziani, ed il re di Francia, il quale,
con un tanto regno, vive tributario di Svizzeri, e del re d'Inghilterra. Il che
tutto nasce dallo avere disarmati i popoli suoi, ed avere più tosto voluto,
quel re e gli altri prenominati, godersi un presente utile, di potere
saccheggiare i popoli, e fuggire uno immaginato più tosto che vero pericolo,
che fare cose che gli assicurino, e faccino i loro stati felici in perpetuo. Il
quale disordine, se partorisce qualche tempo qualche quiete, è cagione col
tempo di necessità, di danni e rovine irrimediabili. E sarebbe lungo raccontare
quante volte i Fiorentini, Viniziani, e questo regno, si sono ricomperati in su
le guerre, e quante volte ei si sono sottomessi a una ignominia; a che i Romani
una sola volta furono per sottomettersi.
Sarebbe
lungo raccontare quante terre i Fiorentini ed i Viniziani hanno comperate: di
che si è veduto poi il disordine, e come le cose che si acquistano con l'oro,
non si sanno difendere con il ferro. Osservarono i Romani questa generosità e
questo modo di vivere, mentre che ei vissono liberi; ma poi che gli entrarono
sotto gl'imperadori, e che gl'imperadori cominciarono a essere cattivi, ed
amare più l'ombra che il sole, cominciarono ancora essi a ricomperarsi, ora dai
Parti, ora dai Germani, ora da altri popoli convicini: il che fu principio
della rovina di tanto Imperio.
Procedono,
pertanto, simili inconvenienti dallo avere disarmati i tuoi popoli: di che ne
risulta uno altro, maggiore, che quanto il nimico più ti si appressa, tanto ti
truova più debole. Perché chi vive ne' modi detti di sopra, tratta male quelli
sudditi che sono dentro allo imperio suo, e bene quegli che sono in su i
confini dello imperio suo, per avere uomini ben disposti a tenere il nimico
discosto. Da questo nasce che, per tenerlo più discosto, ei dà provvisione a
quelli signori e popoli che sono propinqui ai confini suoi. Donde nasce che
questi stati così fatti fanno un poco di resistenza in sui confini, ma, come il
nimico gli ha passati, ei non hanno rimedio alcuno. E non si avveggono, come
questo modo del loro procedere è contro a ogni buono ordine. Perché il cuore e
le parti vitali d'uno corpo si hanno a tenere armate, e non le estremità
d'esso; perché sanza quelle si vive, e, offeso questo, si muore: e questi stati
tengono il cuore disarmato, e le mani e li piedi armati.
Quello
che abbia fatto questo disordine a Firenze, si è veduto, e vedesi ogni dì: e
come uno esercito passa i confini, e che gli entra dentro propinquo al cuore,
non truova più alcuno rimedio. De' Viniziani si vide, pochi anni sono, la
medesima pruova; e se la loro città non era fasciata dalle acque, se ne sarebbe
veduto il fine. Questa isperienza non si è vista sì spesso in Francia, per
essere quello sì gran regno, ch'egli ha pochi inimici superiori: nondimanco,
quando gli Inghilesi, nel 1513, assaltarono quel regno, tremò tutta quella
provincia: ed il re medesimo, e ciascuno altro, giudicava che una rotta sola
gli potessi tôrre il regno e lo stato. Ai Romani interveniva il contrario;
perché, quanto più il nimico s'appressava a Roma, tanto più trovava potente
quella città a resistergli. E si vide nella venuta d'Annibale in Italia, che,
dopo tre rotte e dopo tante morti di capitani e di soldati, ei poterono, non
solo sostenere il nimico, ma vincere la guerra.
Tutto
nacque dallo avere bene armato il cuore, e delle estremità tenere meno conto.
Perché il fondamento dello stato suo era il popolo di Roma, il nome latino, le
altre terre compagne in Italia, e le loro colonie; donde ei traevano tanti
soldati, che furono sufficienti con quegli a combattere e tenere il mondo. E
che sia vero, si vede per la domanda che fece Annone cartaginese a quelli
oratori d'Annibale dopo la rotta di Canne, i quali avendo magnificato le cose
fatte da Annibale, furono domandati da Annone, se del popolo romano alcuno era
venuto a domandare pace, e se del nome latino e delle colonie alcuna terra si
era ribellata dai Romani; e negando quegli l'una e l'altra cosa, replicò
Annone: «Questa guerra è ancora intera come prima».
Vedesi,
pertanto, e per questo discorso, e per quello che più volte abbiamo altrove
detto, quanta diversità sia, dal modo del procedere delle republiche presenti,
a quello delle antiche. Vedesi ancora, per questo, ogni dì, miracolose perdite
e miracolosi acquisti. Perché, dove gli uomini hanno poca virtù, la fortuna
mostra assai la potenza sua; e, perché la è varia, variano le republiche e gli
stati spesso; e varieranno sempre, infino che non surga qualcuno che sia della
antichità tanto amatore, che la regoli in modo, che la non abbia cagione di
mostrare, a ogni girare di sole, quanto ella puote.
31
Quanto
sia pericoloso credere agli sbanditi.
E'
non mi pare fuori di proposito ragionare, intra questi altri discorsi, quanto
sia cosa pericolosa credere a quelli che sono cacciati della patria sua,
essendo cose che ciascuno dì si hanno a praticare da coloro che tengono stati;
potendo, massime, dimostrare questo con uno memorabile esemplo addotto da Tito
Livio nelle sue istorie, ancora che sia fuora del presupposto suo.
Quando
Alessandro Magno passò con lo esercito suo in Asia, Alessandro di Epiro,
cognato e zio di quello, venne con gente in Italia, chiamato dagli sbanditi
Lucani, i quali gli dettono speranza che potrebbe, mediante loro, occupare
tutta quella provincia. Donde che quello, sotto la fede e speranza loro venuto
in Italia fu morto da quelli, sendo loro promessa la ritornata nella patria dai
loro cittadini, se lo ammazzavano. Debbesi considerare, pertanto, quanto sia
vana e la fede e le promesse di quelli che si truovano privi della loro patria.
Perché, quanto alla fede, si ha a estimare che, qualunque volta e' possano per
altri mezzi che per gli tuoi rientrare nella patria loro, che lasceranno te ed
accosterannosi a altri, nonostante qualunque promesse ti avessono fatte. E
quanto alle vane promesse e speranze, egli è tanta la voglia estrema che è in
loro di ritornare in casa, che ei credono naturalmente molte cose che sono
false e molte a arte ne aggiungano: talché, tra quello che ei credono e quello
che ei dicono di credere, ti riempiono di speranza talmente che, fondatoti in
su quella, o tu fai una spesa in vano o tu fai una impresa dove tu rovini.
Io
voglio per esemplo mi basti Alessandro predetto, e di più Temistocle ateniese;
il quale, essendo fatto ribello, se ne fuggì in Asia a Dario; dove gli promisse
tanto, quando ei volessi assaltare la Grecia, che Dario si volse alla impresa.
Le quali promesse non gli potendo poi Temistocle osservare, o per vergogna o
per tema di supplizio, avvelenò sé stesso. E se questo errore fu fatto da
Temistocle, uomo eccellentissimo, si debbe stimare che tanto più vi errino
coloro che, per minore virtù, si lasceranno più tirare dalla voglia e dalla
passione loro. Debbe, adunque, uno principe andare adagio a pigliare imprese
sopra la relazione d'uno confinato, perché il più delle volte se ne resta o con
vergogna o con danno gravissimo. E perché ancora rade volte riesce il pigliare
le terre di furto, e per intelligenzia che altri avesse in quelle, non mi pare
fuora di proposito discorrerne nel sequente capitolo; aggiugnendovi con quanti
modi i Romani le acquistavano.
32
In
quanti modi i Romani occupavano le terre.
Essendo
i Romani tutti volti alla guerra, fecero sempremai quella con ogni vantaggio, e
quanto alla spesa, e quanto a ogni altra cosa che in essa si ricerca. Da questo
nacque che si guardarono da il pigliare le terre per ossidione; perché
giudicavano questo modo di tanta spesa e di tanto scommodo, che superassi di
gran lunga la utilità che dello acquisto si potessi trarre: e per questo
pensarono che fosse meglio e più utile soggiogare le terre per ogni altro modo
che assediandole, donde in tante guerre ed in tanti anni ci sono pochissimi
esempli di ossidioni fatte da loro. I modi, adunque, con i quali gli
acquistavano le città, erano o per espugnazione o per dedizione. La
espugnazione era o per forza e violenza aperta, o per forza mescolata con
fraude. La violenza aperta era o con assalto, sanza percuotere le mura (il che
loro chiamavano «aggredi urbem corona» perché con tutto lo esercito
circundavono la città, e da tutte le parti la combattevano); e molte volte
riuscì loro che in uno assalto pigliarono una città, ancora che grossissima,
come quando Scipione prese Cartagine Nuova in Ispagna; o, quando questo assalto
non bastava, si dirizzavano a rompere le mura con arieti, o con altre loro
machine belliche: o ei facevano una cava, e per quella entravano nella città
(nel quale modo presono la città de' Veienti); o, per essere equali a quegli
che difendevano le mura, facevono torri di legname, o ei facevono argini di
terra appoggiati alle mura di fuori, per venire all'altezza d'esse sopra
quegli.
Contro
a questi assalti, chi difendeva la terra, nel primo caso, circa lo essere
assaltato intorno intorno, portava più subito pericolo, ed aveva più dubbi
rimedi: perché, bisognandogli in ogni luogo avere assai difensori, o quegli
ch'egli aveva non erano tanti che potessero o sopperire per tutto o cambiarsi;
o, se potevano, non erano tutti di equale animo a resistere, e da una parte che
fusse inchinata la zuffa, si perdevano tutti. Però occorse, come io ho detto,
che molte volte questo modo ebbe felice successo. Ma quando non riusciva al
primo, non lo ritentavono molto, per essere modo pericoloso per lo esercito;
perché, distendendosi in tanto spazio, restava per tutto debole a potere
resistere a una eruzione che quelli di dentro avessono fatta; ed anche si
disordinavano e straccavano i soldati; ma per una volta ed allo improvviso
tentavano tale modo. Quanto alla rottura delle mura, si opponevano, come ne'
presenti tempi, con ripari. E per resistere alle cave, facevano una contracava,
e per quella si opponevano al nimico, o con le armi o con altri ingegni: intra
i quali era questo, che gli empievano dogli di penne, nelle quali appiccavano
il fuoco, ed accesi gli mettevano nella cava, i quali con il fumo e con il
puzzo impedivano la entrata a' nimici. E se con le torre gli assaltavano,
s'ingegnavano con il fuoco rovinarle. E quanto agli argini di terra, rompevano
il muro da basso, dove lo argine s'appoggiava, tirando dentro la terra che
quegli di fuori vi ammontavano; talché, ponendosi di fuora la terra, e
levandosi di drento, veniva a non crescere l'argine. Questi modi di espugnare
non si possono lungamente tentare: ma bisogna o levarsi da campo o cercare per
altri modi vincere la guerra; come fe' Scipione, quando, entrato in Africa,
avendo assaltato Utica e non gli riuscendo pigliarla, si levò da campo, e cercò
di rompere gli eserciti cartaginesi: ovvero volgersi alla ossidione, come
fecero a Veio, Capova, Cartagine e Ierusalem e simili terre, che per ossidione
occuparono. Quanto allo acquistare le terre per violenza furtiva, occorre come
intervenne di Palepoli, che per trattato di quelli di dentro i Romani la
occuparono. Di questa sorte espugnazioni, dai Romani e da altri ne sono state
tentate molte, e poche ne sono riuscite: la ragione è che ogni minimo
impedimento rompe il disegno, e gl'impedimenti vengano facilmente. Perché, o la
congiura si scuopre innanzi che si venga allo atto, e scuopresi non con molta
difficultà, sì per la infedelità di coloro con chi la è communicata, sì per la
difficultà del praticarla, avendo a convenire con i nimici, e con chi non ti è
lecito, se non sotto qualche colore, parlare. Ma quando la congiura non si
scoprisse nel maneggiarla, vi surgono poi, nel metterla in atto, mille
difficultà. Perché, o se tu vieni innanzi al tempo disegnato, o se tu vieni
dopo, si guasta ogni cosa: se si lieva uno romore fortuito, come l'oche del
Campidoglio, se si rompe un ordine consueto; ogni minimo errore, ogni minima
fallacia che si piglia, rovina la impresa. Aggiungonsi a questo le tenebre
della notte, le quali mettono più paura a chi travaglia in quelle cose
pericolose. Ed essendo la maggiore parte degli uomini che si conducono a simili
imprese, inesperti del sito del paese, e de' luoghi dove ei sono menati, si
confondono, inviliscono ed implicano per ogni minimo e fortuito accidente, ed
ogni immagine falsa è per fargli mettere in volta. Né si trovò mai alcuno che
fosse più felice in queste ispedizioni fraudolente e notturne, che Arato
Sicioneo; il quale, quanto valeva in queste, tanto nelle diurne ed aperte
fazioni era pusillanime: il che si può giudicare fosse più tosto per una
occulta virtù che era in lui, che perché in quelle naturalmente dovesse essere
più felicità.
Di
questi modi, adunque, se ne pratica assai, pochi se ne conduce alla pruova, e
pochissimi ne riescono. Quanto allo acquistare le terre per dedizione, o le si
danno volontarie, o forzate. La volontà nasce, o per qualche necessità
estrinseca che gli costringe a rifuggirtisi sotto, come fece Capova ai Romani,
o per desiderio di essere governati bene, sendo allettati da il governo buono
che quel principe tiene in coloro che se gli sono, volontari, rimessi in
grembo, come fecero i Rodiani, i Massiliensi ed altre simile cittadi, che si
dettono al Popolo romano. Quanto alla dedizione forzata, o tale forza nasce da
una lunga ossidione, come di sopra è detto; o la nasce da una continova
oppressione di scorrerie, di predazioni, ed altri mali trattamenti; i quali volendo
fuggire, una città si arrende. Di tutti i modi detti, i Romani usarono più
questo ultimo che nessuno; ed attesono per più che quattrocento cinquanta anni
a straccare i vicini con le rotte e con le scorrerie, e pigliare, mediante gli
accordi, riputazione sopra di loro, come altre volte abbiamo discorso. E sopra
tale modo si fondarono sempre, ancora che gli tentassino tutti; ma negli altri
trovarono cose o pericolose o inutili. Perché nella ossidione è la lunghezza e
la spesa; nella espugnazione, dubbio e pericolo; nelle congiure, la
incertitudine. E viddono che con una rotta di esercito inimico acquistavano un
regno in un giorno; e, nel pigliare per ossidione una città ostinata,
consumavano molti anni.
33
Come
i Romani davano agli loro capitani degli eserciti le commissioni libere.
Io
estimo che sia da considerare, leggendo questa liviana istoria, volendone fare
profitto, tutti e' modi del procedere del Popolo e Senato romano. Ed intra le
altre cose che meritano considerazione, sono: vedere con quale autorità ei
mandavano fuori i loro Consoli, Dittatori ed altri capitani degli eserciti; de'
quali si vede l'autorità essere stata grandissima, ed il Senato non si
riservare altro che l'autorità di muovere nuove guerre e di confirmare le paci;
e tutte l'altre cose rimetteva nello arbitrio e potestà del Consolo. Perché,
deliberata ch'era dal Popolo e dal Senato una guerra, verbigrazia contro a'
Latini, tutto il resto rimettevano nello arbitrio del Consolo, il quale poteva
o fare una giornata o non la fare, e campeggiare questa o quell'altra terra,
come a lui pareva. Le quali cose si verificano per molti esempli, e massime per
quello che occorse in una espedizione contro a' Toscani. Perché, avendo Fabio
consolo vinto quelli presso a Sutri, e disegnando con lo esercito dipoi passare
la selva Cimina ed andare in Toscana, non solamente non si consigliò col
Senato, ma non gliene dette alcuna notizia, ancora che la guerra fusse per
aversi a fare in paese nuovo, dubbio e pericoloso. Il che si testifica ancora
per le deliberazioni che allo incontro di questo furono fatte dal Senato: il
quale avendo intesa la vittoria che Fabio aveva avuta, e dubitando che quello
non pigliasse partito di passare per le dette selve in Toscana, giudicando che
fosse bene non tentare quella guerra e correre quel pericolo, mandò a Fabio due
Legati a fargli intendere non passasse in Toscana; i quali arrivarono ch'e' vi
era già passato, ed aveva avuta la vittoria, ed in cambio di impeditori della
guerra tornarono ambasciadori dello acquisto e della gloria avuta. E chi
considererà bene questo termine, lo vedrà prudentissimamente usato; perché, se
il Senato avesse voluto che un Consolo procedessi nella guerra di mano in mano,
secondo che quello gli commetteva, lo faceva meno circunspetto e più lento:
perché non gli sarebbe paruto che la gloria della vittoria fusse tutta sua, ma
che ne participasse il Senato, con el consiglio del quale ei si fusse
governato. Oltra di questo, il Senato si obligava a volere consigliare una cosa
che non se ne poteva intendere; perché, nonostante che in quello fossono tutti
uomini esercitatissimi nella guerra nondimeno, non essendo in sul luogo e non
sappiendo infiniti particulari che sono necessari sapere, a volere consigliare
bene, arebbono, consigliando, fatti infiniti errori. E per questo ei volevano
che il Consolo per sé facesse, e che la gloria fosse tutta sua; lo amore della
quale giudicavano che fusse freno e regola a farlo operare bene. Questa parte
si è più volentieri notata da me, perché io veggo che le republiche de'
presenti tempi, come è la Viniziana e Fiorentina, la intendono altrimenti; e se
gli loro capitani, provveditori o commessari hanno a piantare una artiglieria,
lo vogliono intendere e consigliare. Il quale modo merita quella laude che
meritano gli altri, i quali tutti insieme le hanno condotte ne' termini in che
al presente si truovano.
LIBRO
TERZO
1
A
volere che una setta o una republica viva lungamente, è necessario ritirarla
spesso verso il suo principio.
Egli
è cosa verissima, come tutte le cose del mondo hanno il termine della vita
loro; ma quelle vanno tutto il corso che è loro ordinato dal cielo,
generalmente, che non disordinano il corpo loro, ma tengonlo in modo ordinato,
o che non altera, o, s'egli altera, è a salute, e non a danno suo. E perché io
parlo de' corpi misti, come sono le republiche e le sètte, dico che quelle
alterazioni sono a salute, che le riducano inverso i principii loro. E però
quelle sono meglio ordinate, ed hanno più lunga vita, che mediante gli ordini
suoi si possono spesso rinnovare; ovvero che, per qualche accidente fuori di
detto ordine, vengono a detta rinnovazione. Ed è cosa più chiara che la luce,
che, non si rinnovando, questi corpi non durano. Il modo del rinnovargli, è,
come è detto, ridurgli verso e' principii suoi. Perché tutti e' principii delle
sètte, e delle republiche e de' regni, conviene che abbiano in sé qualche
bontà, mediante la quale ripiglio la prima riputazione ed il primo augumento
loro. E perché nel processo del tempo quella bontà si corrompe, se non
interviene cosa che la riduca al segno, ammazza di necessità quel corpo. E
questi dottori di medicina dicono, parlando de' corpi degli uomini, «quod
quotidie aggregatur aliquid, quod quandoque indiget curatione».
Questa
riduzione verso il principio, parlando delle republiche, si fa o per accidente
estrinseco o per prudenza intrinseca. Quanto al primo, si vede come egli era
necessario che Roma fussi presa dai Franciosi, a volere che la rinascesse e
rinascendo ripigliasse nuova vita e nuova virtù; e ripigliasse la osservanza
della religione e della giustizia, le quali in lei cominciavano a macularsi. Il
che benissimo si comprende per la istoria di Livio, dove ei mostra che nel trar
fuori lo esercito contro ai Franciosi e nel creare e' Tribuni con la potestà
consolare, non osservorono alcuna religiosa cerimonia. Così medesimamente, non
solamente non punirono i tre Fabii, i quali «contra ius gentium» avevano
combattuto contro ai Franciosi, ma gli crearono Tribuni. E debbesi facilmente
presuppore, che dell'altre constituzioni buone, ordinate da Romolo e da quegli
altri principi prudenti, si cominciasse a tenere meno conto che non era
ragionevole e necessario a mantenere il vivere libero. Venne, dunque, questa
battitura estrinseca, acciocché tutti gli ordini di quella città si
ripigliassono, e si mostrasse a quel popolo, non solamente essere necessario
mantenere la religione e la giustizia, ma ancora stimare i suoi buoni
cittadini, e fare più conto della loro virtù che di quegli commodi che e'
paresse loro mancare, mediante le opere loro. Il che si vede che successe
appunto; perché, subito ripresa Roma, rinnovarono tutti gli ordini dell'antica
religione loro; punirono quegli Fabii che avevano combattuto «contra ius
gentium»; ed appresso tanto stimorono la virtù e bontà di Cammillo, che
posposto, il Senato e gli altri, ogni invidia, rimettevano in lui tutto il
pondo di quella republica. È necessario, adunque, come è detto, che gli uomini
che vivono insieme in qualunque ordine, spesso si riconoschino, o per questi
accidenti estrinseci o per gl'intrinseci. E quanto a questi, conviene che nasca
o da una legge, la quale spesso rivegga il conto agli uomini che sono in quel
corpo; o veramente da uno uomo buono che nasca fra loro, il quale con i suoi
esempli e con le sue opere virtuose faccia il medesimo effetto che l'ordine.
Surge, adunque, questo bene nelle republiche, o per virtù d'un uomo o per virtù
d'uno ordine. E quanto a questo ultimo, gli ordini che ritirarono la Republica
romana verso il suo principio furono i Tribuni della plebe, i Censori, e tutte
l'altre leggi che venivano contro all'ambizione ed alla insolenzia degli
uomini. I quali ordini hanno bisogno di essere fatti vivi dalla virtù d'uno
cittadino, il quale animosamente concorre ad esequirli contro alla potenza di
quegli che gli trapassano. Delle quali esecuzioni, innanzi alla presa di Roma
da' Franciosi, furono notabili, la morte de' figliuoli di Bruto, la morte de'
dieci cittadini, quella di Melio frumentario: dopo la presa di Roma, fu la
morte di Manlio Capitolino, la morte del figliuolo di Manlio Torquato, la
esecuzione di Papirio Cursore contro a Fabio suo Maestro de' cavalieri,
l'accusa degli Scipioni. Le quali cose, perché erano eccessive e notabili,
qualunque volta ne nasceva una, facevano gli uomini ritirare verso il segno: e
quando le cominciarono ad essere più rare, cominciarono anche a dare più spazio
agli uomini di corrompersi, e farsi con maggiore pericolo e più tumulto. Perché
dall'una all'altra di simili esecuzioni non vorrebbe passare, il più, dieci
anni: perché, passato questo tempo, gli uomini cominciano a variare con i
costumi e trapassare le leggi; e se non nasce cosa per la quale si riduca loro
a memoria la pena, e rinnuovisi negli animi loro la paura, concorrono tosto
tanti delinquenti, che non si possono più punire sanza pericolo. Dicevano, a
questo proposito quegli che hanno governato lo stato di Firenze dal 1434
infino
al 1494, come egli era necessario ripigliare ogni cinque anni lo stato,
altrimenti, era difficile mantenerlo: e chiamavano ripigliare lo stato, mettere
quel terrore e quella paura negli uomini che vi avevano messo nel pigliarlo,
avendo in quel tempo battuti quegli che avevano, secondo quel modo del vivere,
male operato. Ma come di quella battitura la memoria si spegne, gli uomini
prendono ardire di tentare cose nuove, e di dire male; e però è necessario
provvedervi, ritirando quello verso i suoi principii. Nasce ancora questo
ritiramento delle republiche verso il loro principio dalla semplice virtù d'un
uomo, sanza dependere da alcuna legge che ti stimoli ad alcuna esecuzione:
nondimanco sono di tale riputazione e di tanto esemplo, che gli uomini buoni
disiderano imitarle e gli cattivi si vergognano a tenere vita contraria a
quelle. Quegli che in Roma particularmente feciono questi buoni effetti, furono
Orazio Cocle, Scevola, Fabrizio, i dua Deci, Regolo Attilio, ed alcuni altri i
quali con i loro esempli rari e virtuosi facevano in Roma quasi il medesimo
effetto che si facessino le leggi e gli ordini. E se le esecuzioni
soprascritte, insieme con questi particulari esempli, fossono almeno seguite
ogni dieci anni in quella città, ne seguiva di necessità che la non si sarebbe
mai corrotta: ma come ei cominciorono a diradare l'una e l'altra di queste due
cose, cominciarono a multiplicare le corrozioni. Perché dopo Marco Regolo non
vi si vide alcuno simile esemplo: e benché in Roma surgessono i due Catoni, fu
tanta distanza da quello a loro, ed intra loro dall'uno all'altro, e rimasono
sì soli, che non potettono con gli esempli buoni fare alcuna buona opera; e
massime l'ultimo Catone, il quale, trovando in buona parte la città corrotta,
non potette con lo esemplo suo fare che i cittadini diventassino migliori. E
questo basti quanto alle republiche.
Ma
quanto alle sètte, si vede ancora queste rinnovazioni essere necessarie, per lo
esemplo della nostra religione, la quale, se non fossi stata ritirata verso il
suo principio da Santo Francesco e da Santo Domenico sarebbe al tutto spenta.
Perché questi, con la povertà e con lo esemplo della vita di Cristo, la
ridussono nella mente degli uomini, che già vi era spenta: e furono sì potenti
gli ordini loro nuovi, che ei sono cagione che la disonestà de' prelati e de'
capi della religione non la rovinino; vivendo ancora poveramente, ed avendo
tanto credito nelle confessioni con i popoli e nelle predicazioni, che ci dànno
loro a intendere come egli è male dir male del male, e che sia bene vivere
sotto la obedienza loro, e, se fanno errore, lasciargli gastigare a Dio: e così
quegli fanno il peggio che possono, perché non temono quella punizione che non
veggono e non credono. Ha, adunque, questa rinnovazione mantenuto, e mantiene,
questa religione.
Hanno
ancora i regni bisogno di rinnovarsi, e ridurre le leggi di quegli verso i suoi
principii. E si vede quanto buono effetto fa questa parte nel regno di Francia;
il quale regno vive sotto le leggi e sotto gli ordini più che alcuno altro
regno. Delle quali leggi ed ordini ne sono mantenitori i parlamenti, e massime quel
di Parigi; le quali sono da lui rinnovate qualunque volta ei fa una esecuzione
contro ad un principe di quel regno, e che ei condanna il Re nelle sue
sentenze. Ed infino a qui si è mantenuto per essere stato uno ostinato
esecutore contro a quella Nobilità: ma qualunque volta ei ne lasciassi alcuna
impunita, e che le venissono a multiplicare, sanza dubbio ne nascerebbe o che
le si arebbono a correggere con disordine grande, o che quel regno si
risolverebbe.
Conchiudesi,
pertanto, non essere cosa più necessaria in uno vivere comune, o setta o regno
o republica che sia, che rendergli quella riputazione ch'egli aveva ne'
principii suoi; ed ingegnarsi che siano o gli ordini buoni o i buoni uomini che
facciano questo effetto, e non lo abbia a fare una forza estrinseca. Perché,
ancora che qualche volta la sia ottimo rimedio, come fu a Roma, ella è tanto
pericolosa, che non è in modo alcuno da disiderarla. E per dimostrare a
qualunque, quanto le azioni degli uomini particulari facessono grande Roma, e
causassino in quella città molti buoni effetti, verrò alla narrazione e
discorso di quegli: intra e' termini de' quali questo terzo libro, ed ultima
parte di questa prima Deca, si concluderà. E benché le azioni degli re fossono
grandi e notabili nondimeno, dichiarandole la istoria diffusamente, le lascerò
indietro; né parlereno altrimenti di loro, eccetto che di alcuna cosa che
avessono operata appartenente alli loro privati commodi; e comincerenci da
Bruto, padre della romana libertà.
2
Come
egli è cosa sapientissima simulare in tempo la pazzia.
Non
fu alcuno mai tanto prudente, né tanto estimato savio per alcuna sua egregia
operazione, quanto merita d'esser tenuto Iunio Bruto nella sua simulazione
della stultizia. Ed ancora che Tito Livio non esprima altro che una cagione che
lo inducesse a tale simulazione, quale fu di potere più sicuramente vivere e
mantenere il patrimonio suo; nondimanco, considerato il suo modo di procedere,
si può credere che simulasse ancora questo per essere manco osservato, ed avere
più commodità di opprimere i Re e di liberare la sua patria, qualunque volta
gliele fosse data occasione. E, che pensassi a questo, si vide, prima, nello
interpetrare l'oracolo d'Apolline, quando simulò cadere per baciare la terra,
giudicando per quello avere favorevole gl'Iddii a' pensieri suoi; e dipoi,
quando, sopra la morta Lucrezia, intra 'l padre ed il marito ed altri parenti
di lei, ei fu il primo a trarle il coltello della ferita, e fare giurare ai
circustanti, che mai sopporterebbono che, per lo avvenire, alcuno regnasse in
Roma. Dallo esemplo di costui hanno ad imparare tutti coloro che sono male
contenti d'uno principe: e debbono prima misurare e prima pesare le forze loro;
e, se sono sì potenti che possino scoprirsi suoi inimici e fargli apertamente
guerra, debbono entrare per questa via, come manco pericolosa e più onorevole.
Ma se sono di qualità che a fargli guerra aperta le forze loro non bastino,
debbono con ogni industria cercare di farsegli amici: ed a questo effetto,
entrare per tutte quelle vie che giudicano essere necessarie, seguendo i
piàciti suoi, e pigliando dilettazione di tutte quelle cose che veggono quello
dilettarsi. Questa dimestichezza, prima, ti fa vivere sicuro; e, sanza portare
alcuno pericolo, ti fa godere la buona fortuna di quel principe insieme con
esso lui, e ti arreca ogni comodità di sodisfare allo animo tuo. Vero è che
alcuni dicono che si vorrebbe con gli principi non stare sì presso che la
rovina loro ti coprisse, né sì discosto che, rovinando quegli, tu non fosse a
tempo a salire sopra la rovina loro: la quale via del mezzo sarebbe la più
vera, quando si potesse osservare; ma perché io credo che sia impossibile,
conviene ridursi a' duoi modi soprascritti, cioè o di allargarsi o di
stringersi con loro. Chi fa altrimenti, e sia uomo, per la qualità sua,
notabile, vive in continovo pericolo. Né basta dire: Io non mi curo di alcuna cosa, non disidero
né onori né utili, io mi voglio vivere quietamente e sanza briga! perché queste scuse sono udite e non accettate:
né possono gli uomini che hanno qualità, eleggere lo starsi, quando bene lo
eleggessono veramente e sanza alcuna ambizione, perché non è loro creduto;
talché, se si vogliono stare loro, non sono lasciati stare da altri. Conviene
adunque fare il pazzo, come Bruto; ed assai si fa il matto, laudando, parlando,
veggendo, faccendo cose contro allo animo tuo, per compiacere al principe. E
poiché noi abbiamo parlato della prudenza di questo uomo per ricuperare la
libertà a Roma, parlereno ora della sua severità nel mantenerla.
3
Come
egli è necessario, a volere mantenere una libertà acquistata di nuovo,
ammazzare i figliuoli di Bruto.
Non
fu meno necessaria che utile la severità di Bruto nel mantenere in Roma quella
libertà che elli vi aveva acquistata; la quale è di uno esemplo raro in tutte
le memorie delle cose: vedere il padre sedere pro tribunali, e non solamente
condennare i suoi figliuoli a morte ma essere presente alla morte loro. E
sempre si conoscerà questo per coloro che le cose antiche leggeranno: come,
dopo una mutazione di stato, o da republica in tirannide o da tirannide in
republica è necessaria una esecuzione memorabile contro a' nimici delle
condizioni presenti. E chi piglia una tirannide e non ammazza Bruto, e chi fa
uno stato libero e non ammazza i figliuoli di Bruto, si mantiene poco tempo. E
perché di sopra è discorso questo luogo largamente, mi rimetto a quello che
allora se ne disse: solo ci addurrò uno esemplo, stato, ne' dì nostri e nella
nostra patria, memorabile. E questo è Piero Soderini, il quale si credeva
superare con la pazienza e bontà sua quello appetito che era ne' figliuoli di
Bruto, di ritornare sotto un altro governo e se ne ingannò. E benché quello,
per la sua prudenza, conoscesse questa necessità; e che la sorte e l'ambizione
di quelli che lo urtavano, gli dessi occasione a spegnerli; nondimeno non volse
mai l'animo a farlo. Perché, oltre al credere di potere con la pazienza e con
la bontà estinguere i mali omori, e con i premii verso qualcuno consummare
qualche sua inimicizia; giudicava (e molte volte ne fece con gli amici fede)
che, a volere gagliardamente urtare le sue opposizioni, e battere suoi
avversari, gli bisognava pigliare istraordinaria autorità, e rompere con le
leggi la civile equalità: la quale cosa, ancora che dipoi non fosse da lui
usata tirannicamente, arebbe tanto sbigottito l'universale, che non sarebbe mai
poi concorso, dopo la morte di quello, a rifare un gonfalonieri a vita; il
quale ordine elli giudicava fosse bene augumentare e mantenere. Il quale rispetto
era savio e buono: nondimeno, e' non si debbe mai lasciare scorrere un male,
rispetto ad uno bene, quando quel bene facilmente possa essere, da quel male,
oppressato. E doveva credere che, avendosi a giudicare l'opere sue e la
intenzione sua dal fine, quando la fortuna e la vita l'avessi accompagnato, che
poteva certificare ciascuno, come, quello l'aveva fatto, era per salute della
patria, e non per ambizione sua; e poteva regolare le cose in modo, che uno suo
successore non potesse fare per male quello che elli avessi fatto per bene. Ma
lo ingannò la prima opinione, non conoscendo che la malignità non è doma da
tempo né placata da alcuno dono. Tanto che, per non sapere somigliare Bruto, e'
perdé, insieme con la patria sua, lo stato e la riputazione. E come egli è cosa
difficile salvare uno stato libero, così è difficile salvarne uno regio; come
nel sequente capitolo si mosterrà.
4
Non
vive sicuro uno principe in uno principato, mentre vivono coloro che ne sono
stati spogliati.
La
morte di Tarquinio Prisco causata dai figliuoli di Anco, e la morte di Servio
Tullo causata da Tarquinio Superbo, mostra quanto difficil sia, e pericoloso,
spogliare uno del regno, e quello lasciare vivo, ancora che cercassi con merito
guadagnarselo. E vedesi come Tarquinio Prisco fu ingannato da parergli
possedere quel regno giuridicamente, essendogli stato dato dal Popolo e
confermato dal Senato: né credette che ne' figliuoli di Anco potesse tanto lo
sdegno, che non avessono a contentarsi di quello che si contentava tutta Roma.
E Servio Tullo s'ingannò, credendo potere con nuovi meriti guadagnarsi i
figliuoli di Tarquinio. Dimodoché, quanto al primo, si può avvertire ogni
principe, che non viva mai sicuro del suo principato, finché vivono coloro che
ne sono stati spogliati. Quanto al secondo, si può ricordare ad ogni potente,
che mai le ingiurie vecchie furono cancellate da' beneficii nuovi; e, tanto
meno, quanto il beneficio nuovo è minore che non è stata la ingiuria. E sanza
dubbio, Servio Tullo fu poco prudente a credere che i figliuoli di Tarquinio
fussono pazienti ad essere generi di colui di chi e' giudicavano dovere essere
re. E questo appitito del regnare è tanto grande, che non solamente entra ne'
petti di coloro a chi si aspetta il regno, ma di quelli a chi e' non si
aspetta: come fu nella moglie di Tarquinio, giovane, figliuola di Servio; la
quale, mossa da questa rabbia, contro ogni piatà paterna, mosse il marito
contro al padre a torgli la vita ed il regno: tanto stimava più essere regina
che figliuola di re. Se, adunque, Tarquinio Prisco e Servio Tullo, perderono il
regno per non si sapere assicurare di coloro a chi ei lo avevano usurpato,
Tarquinio Superbo lo perdé per non osservare gli ordini degli antichi re: come
nel sequente capitolo si mosterrà.
5
Quello
che fa perdere uno regno ad uno re che sia, di quello, ereditario.
Avendo
Tarquinio Superbo morto Servio Tullo, e di lui non rimanendo eredi, veniva a
possedere il regno sicuramente, non avendo a temere di quelle cose che avevano
offeso i suoi antecessori. E, benché il modo dell'occupare il regno fosse stato
istraordinario ed odioso, nondimeno quando elli avesse osservato gli antichi
ordini delli altri re, sarebbe stato comportato, né si sarebbe concitato il
Senato e la plebe contro di lui per torgli lo stato. Non fu, adunque, cacciato
costui per avere Sesto suo figliuolo stuprata Lucrezia, ma per avere rotte le
leggi del regno, e governatolo tirannicamente; avendo tolto al Senato ogni
autorità, e ridottola a sé proprio; e quelle faccende che ne' luoghi publici
con sodisfazione del Senato romano si facevano, le ridusse a fare nel palazzo
suo, con carico ed invidia sua; talché in breve tempo gli spoliò Roma di tutta
quella libertà ch'ella aveva sotto gli altri re mantenuta. Né gli bastò farsi
inimici i Padri, che si concitò ancora, contro, la Plebe, affaticandola in cose
mecaniche e tutte aliene da quello a che gli avevano adoperati i suoi
antecessori: talché, avendo ripiena Roma di esempli crudeli e superbi, aveva
disposto già gli animi di tutti i Romani alla ribellione, qualunque volta ne
avessono occasione. E, se lo accidente di Lucrezia non fosse venuto, come prima
ne fosse nato un altro, arebbe partorito il medesimo effetto. Perché se
Tarquinio fosse vissuto come gli altri re, e Sesto suo figliuolo avessi fatto
quello errore, sarebbono Bruto e Collatino ricorsi a Tarquinio, per la vendetta
contro a Sesto, e non al Popolo romano. Sappino adunque i principi, come a
quella ora ei cominciano a perdere lo stato che cominciano a rompere le leggi,
e quelli modi e quelle consuetudini che sono antiche, e sotto le quali lungo
tempo gli uomini sono vivuti. E se, privati che ei sono dello stato, ei
diventassono mai tanto prudenti che ei conoscessono con quanta facilità i
principati si tenghino da coloro che saviamente si consigliano, dorrebbe molto
più loro tale perdita, ed a maggiore pena si condannerebbono, che da altri
fossono condannati. Perché egli è molto più facile essere amato dai buoni che
dai cattivi, ed ubidire alle leggi che volere comandare loro. E volendo intendere
il modo avessono a tenere a fare questo, non hanno a durare altra fatica che
pigliare per loro specchio la vita de' principi buoni, come sarebbe Timoleone
Corintio, Arato Sicioneo, e simili: nella vita dei quali ei troveria tanta
sicurtà e tanta sodisfazione di chi regge e di chi è retto, che doverrebbe
venirgli voglia di imitargli, potendo facilmente, per le ragioni dette, farlo.
Perché gli uomini, quando sono governati bene, non cercono né vogliono altra
libertà: come intervenne a' popoli governati dai dua prenominati; che gli
costrinsono ad essere principi mentre che vissono, ancora che da quegli più
volte fosse tentato di ridursi in vita privata. E perché in questo, e ne' due
antecedenti capitoli, si è ragionato degli omori concitati contro a' principi,
e delle congiure fatte da' figliuoli di Bruto contro alla patria, e di quelle
fatte contro a Tarquinio Prisco ed a Servio Tullo; non mi pare cosa fuor di
proposito, nel sequente capitolo, parlarne diffusamente, sendo materia degna
d'essere notata da' principi e da' privati.
6
Delle
congiure.
Ei
non mi è parso da lasciare indietro il ragionare delle congiure, essendo cosa
tanto pericolosa ai principi ed ai privati; perché si vede per quelle molti più
principi avere perduta la vita e lo stato, che per guerra aperta. Perché il
poter fare aperta guerra ad uno principe, è conceduto a pochi: il poterli
congiurare contro, è concesso a ciascuno. Dall'altra parte, gli uomini privati
non entrano in impresa più pericolosa né più temeraria di questa; perché la è
difficile e pericolosissima in ogni sua parte. Donde ne nasce che molte se ne
tentino, e pochissime hanno il fine desiderato. Acciocché, adunque, i principi
imparino a guardarsi da questi pericoli, e che i privati più timidamente vi si
mettino, anzi imparino ad essere contenti a vivere sotto quello imperio che
dalla sorte è stato loro proposto; io ne parlerò diffusamente, non lasciando
indietro alcuno caso notabile in documento dell'uno e dell'altro. E veramente,
quella sentenzia di Cornelio Tacito è aurea, che dice: che gli uomini hanno ad
onorare le cose passate e ad ubbidire alle presenti; e debbono desiderare i
buoni principi, e, comunque ei si sieno fatti, tollerargli. E veramente, chi fa
altrimenti, il più delle volte rovina sé e la sua patria.
Dobbiamo
adunque, entrando nella materia, considerare prima contro a chi si fanno le
congiure; e troverreno farsi o contro alla patria, o contro ad uno principe:
delle quali due voglio che al presente ragioniamo; perché, di quelle che si
fanno per dare una terra a' nimici che la assediano, o che abbino, per
qualunque cagione, similitudine con questa, se n'è parlato di sopra a
sufficienza. E trattereno, in questa prima parte, di quelle contro al principe,
e prima esaminereno le cagioni di esse: le quali sono molte, ma una ne è
importantissima più che tutte le altre. E questa è lo essere odiato dallo
universale, perché il principe che si è concitato questo universale odio, è
ragionevole che abbi de' particulari i quali da lui siano stati più offesi, e
che desiderino vendicarsi. Questo desiderio è accresciuto loro da quella mala
disposizione universale che veggono essergli concitata contro. Debbe, adunque,
un principe fuggire questi carichi privati; e come debba fare a fuggirli,
avendone altrove trattato, non ne voglio parlare qui; perché, guardandosi da
questo, le semplice offese particulari gli faranno meno guerra. L'una, perché
si riscontra rade volte in uomini che stimino tanto una ingiuria, che si
mettino a tanto pericolo per vendicarla; l'altra, che, quando pure ei fossono
d'animo e di potenza da farlo, sono ritenuti da quella benivolenza universale
che veggono avere ad uno principe. Le ingiurie, conviene che siano nella roba,
nel sangue o nell'onore. Di quelle del sangue sono più pericolose le minacce
che le esecuzioni; anzi, le minacce sono pericolosissime, e nelle esecuzioni
non vi è pericolo alcuno; perché chi è morto non può pensare alla vendetta;
quelli che rimangono vivi, il più delle volte ne lasciano il pensiero a te. Ma
colui che è minacciato, e che si vede costretto da una necessità o di fare o di
patire, diventa uno uomo pericolosissimo per il principe: come nel suo luogo
particularmente direno. Fuora di questa necessità, la roba e l'onore sono
quelle due cose che offendono più gli uomini che alcun'altra offesa, e dalle
quali il principe si debbe guardare: perché e' non può mai spogliare uno,
tanto, che non gli rimanga uno coltello da vendicarsi; non può mai tanto
disonorare uno, che non gli resti uno animo ostinato alla vendetta. E degli
onori che si tolgono agli uomini, quello delle donne importa più; dopo questo,
il vilipendio della sua persona. Questo armò Pausania contro a Filippo di
Macedonia, questo ha armato molti altri contro a molti altri principi: e ne'
nostri tempi Luzio Belanti non si mosse a congiurare contro a Pandolfo tiranno
di Siena, se non per averli quello data e poi tolta per moglie una sua
figliuola; come nel suo loco direno. La maggiore cagione che fece che i Pazzi
congiurarono contro ai Medici, fu la eredità di Giovanni Bonromei, la quale fu
loro tolta per ordine di quegli. Un'altra cagione ci è, e grandissima, che fa
gli uomini congiurare contro al principe; la quale è il desiderio di liberare
la patria, stata da quello occupata.
Questa
cagione mosse Bruto e Cassio contro a Cesare; questa ha mosso molti altri
contro a' Falari, Dionisii, ed altri occupatori della patria loro. Né può, da
questo omore, alcuno tiranno guardarsi, se non con diporre la tirannide. E
perché non si truova alcuno che faccia questo, si truova pochi che non capitino
male; donde nacque quel verso di Iuvenale:
Ad
generum Cereris sine caede et vulnere pauci
Descendunt
reges, et sicca morte tiranni.
I
pericoli che si portano, come io dissi di sopra, nelle congiure, sono grandi,
portandosi per tutti i tempi; perché in tali casi si corre pericolo nel
maneggiarli, nello esequirli, ed esequiti che sono. Quegli che congiurano, o ei
sono uno, o ei sono più. Uno, non si può dire che sia congiura, ma è una ferma
disposizione nata in uno uomo di ammazzare il principe. Questo solo, de' tre
pericoli che si corrono nelle congiure, manca del primo; perché, innanzi alla
esecuzione non porta alcuno pericolo, non avendo altri il suo secreto, né
portando pericolo che torni il disegno suo all'orecchio del principe. Questa
deliberazione così fatta può cadere in qualunque uomo, di qualunque sorte,
grande, piccolo, nobile, ignobile, familiare e non familiare al principe;
perché ad ognuno è lecito qualche volta parlarli; ed a chi è lecito parlare, è
lecito sfogare l'animo suo. Pausania, del quale altre volte si è parlato,
ammazzò Filippo di Macedonia che andava al tempio, con mille armati d'intorno,
ed in mezzo intra il figliuolo ed il genero. Ma costui fu nobile e cognito al
principe. Uno spagnuolo, povero ed abietto, dette una coltellata in su el collo
al re Ferrando, re di Spagna: non fu la ferita mortale, ma per questo si vide
che colui ebbe animo e commodità a farlo. Uno dervis, sacerdote turchesco,
trasse d'una scimitarra a Baisit, padre del presente Turco: non lo ferì, ma
ebbe pure animo e commodità a volerlo fare. Di questi animi fatti così, se ne
truova, credo, assai che lo vorrebbono fare, perché nel volere non è pena né
pericolo alcuno; ma pochi che lo facciano: ma di quelli che lo fanno,
pochissimi o nessuno che non siano ammazzati in sul fatto; però non si truova
chi voglia andare ad una certa morte. Ma lasciamo andare queste uniche volontà,
e veniamo alle congiure intra i più. Dico, trovarsi nelle istorie, tutte le
congiure essere fatte da uomini grandi, o familiarissimi del principe: perché
gli altri, se non sono matti affatto, non possono congiurare; perché gli uomini
deboli, e non familiari al principe, mancano di tutte quelle speranze e di
tutte quelle commodità che si richiede alla esecuzione d'una congiura. Prima,
gli uomini deboli non possono trovare riscontro di chi tenga loro fede; perché
uno non può consentire alla volontà loro, sotto alcuna di quelle speranze che
fa entrare gli uomini ne' pericoli grandi: in modo che, come ei si sono
allargati in dua o in tre persone, ci trovono lo accusatore e rovinano: ma
quando pure si fossono tanto felici che mancassino di questo accusatore, sono
nella esecuzione intorniati da tale difficultà, per non avere l'entrata facile
al principe, che gli è impossibile che in essa esecuzione ei non rovinino.
Perché, se gli uomini grandi, e che hanno l'entrata facile, sono oppressi da
quelle difficultà che di sotto si diranno, conviene che in costoro quelle
difficultà sanza fine creschino.
Pertanto
gli uomini (perché, dove ne va la vita e la roba, non sono al tutto insani)
quando e' si veggono deboli, se ne guardano; e quando egli hanno a noia uno
principe, attendono a bestemmiarlo, ed aspettono che quelli che hanno maggiore
qualità di loro, gli vendichino. E se pure si trovasse che alcuno di questi
simili avessi tentato qualche cosa, si debbe laudare in loro la intenzione, e
non la prudenza. Vedesi, pertanto, quelli che hanno congiurato, essere stati
tutti uomini grandi, o familiari, del principe; de' quali molti hanno
congiurato, mossi così da troppi beneficii, come dalle troppe ingiurie: come fu
Perennio contro a Commodo, Plauziano contro a Severo, Seiano contro a Tiberio.
Costoro tutti furono dai loro imperadori constituiti in tanta ricchezza, onore
e grado, che non pareva che mancasse loro, alla perfezione della potenza, altro
che lo imperio; e di questo non volendo mancare, si mossono a congiurare contro
al principe; ed ebbono le loro congiure tutte quel fine che meritava la loro
ingratitudine: ancora che di queste simili ne' tempi più freschi ne avessi
buono fine quella di Iacopo di Appiano contro a messer Piero Gambacorti,
principe di Pisa: il quale Iacopo, allevato e nutrito e fatto riputato da lui,
gli tolse poi lo stato. Fu di queste quella del Coppola, ne' nostri tempi,
contro il re Ferrando d'Aragona; il quale Coppola, venuto a tanta grandezza che
non gli pareva gli mancassi se non il regno, per volere ancora quello, perdé la
vita. E veramente, se alcuna congiura contro ai principi, fatta da uomini
grandi, dovesse avere buono fine, doverrebbe essere questa; essendo fatta da un
altro re, si può dire, e da chi ha tanta commodità di adempiere il suo
disiderio: ma quella cupidità del dominare che gli accieca, gli accieca ancora
nel maneggiare questa impresa; perché, se ei sapessono fare questa cattività
con prudenza, sarebbe impossibile non riuscisse loro. Debbe, adunque, uno
principe che si vuole guardare dalle congiure, temere più coloro a chi elli ha
fatto troppi piaceri, che quelli a chi egli avesse fatte troppe ingiurie.
Perché questi mancono di commodità, quelli ne abondano; e la voglia è simile,
perché gli è così grande o maggiore il desiderio del dominare, che non è quello
della vendetta. Debbono, pertanto, dare tanta autorità agli loro amici, che da
quella al principato sia qualche intervallo, e che vi sia in mezzo qualche cosa
da desiderare: altrimenti, sarà cosa rada se non interverrà loro, come a'
principi soprascritti. Ma torniamo all'ordine nostro.
Dico
che, avendo ad essere, quelli che congiurano, uomini grandi, e che abbino l'adito
facile al principe, si ha a discorrere i successi di queste loro imprese quali
siano stati, e vedere la cagione che gli ha fatti essere felici ed infelici. E
come io dissi di sopra ci si truovano dentro, in tre tempi, pericoli: prima, in
su 'l fatto e poi. Se ne truova poche che abbino buono esito, perché gli è
impossibile, quasi, passarli tutti felicemente. E cominciando a discorrere e'
pericoli di prima, che sono i più importanti, dico, come e' bisogna essere
molto prudente, ed avere una gran sorte, che, nel maneggiare una congiura, la
non si scuopra. E si scuoprono o per relazione, o per coniettura. La relazione
nasce da trovare poca fede, o poca prudenza, negli uomini con chi tu la
comunichi. La poca fede si truova facilmente, perché tu non puoi comunicarla se
non con tuoi fidati, che per tuo amore si mettino alla morte, o con uomini che
siano male contenti del principe. De' fidati se ne potrebbe trovare uno o due;
ma, come tu ti distendi in molti, è impossibile gli truovi: dipoi, e' bisogna
bene che la benivolenza che ti portano sia grande, a volere che non paia loro
maggiore il pericolo e la paura della pena. Dipoi gli uomini s'ingannano, il
più delle volte, dello amore che tu giudichi che uno uomo ti porti; né te ne
puoi mai assicurare, se tu non ne fai esperienza: e farne esperienza in questo
è pericolosissimo. E sebbene ne avessi fatto esperienza in qualche altra cosa
pericolosa dove e' ti fossono stati fedeli, non puoi da quella fede misurare
questa, passando, questo, di gran lunga, ogni altra qualità di pericolo. Se
misuri la fede dalla mala contentezza che uno abbia del principe, in questo tu
ti puoi facilmente ingannare: perché, subito che tu hai manifestato a quel male
contento l'animo tuo, tu gli dài materia di contentarsi, e conviene bene, o che
l'odio sia grande, o che l'autorità tua sia grandissima a mantenerlo in fede.
Di qui nasce che assai ne sono rivelate, ed oppresse ne' primi principii loro;
e che, quando una è stata infra molti uomini segreta lungo tempo, è tenuta cosa
miracolosa: come fu quella di Pisone contro a Nerone, e, ne' nostri tempi,
quella de' Pazzi contro a Lorenzo e Giuliano de' Medici: delle quali erano
consapevoli più che cinquanta uomini; e condussonsi, alla esecuzione, a
scoprirsi. Quanto a scoprirsi per poca prudenza, nasce quando uno congiurato ne
parla poco cauto, in modo che uno servo o altra terza persona t'intenda, come
intervenne ai figliuoli di Bruto, che, nel maneggiare la cosa con i legati di
Tarquinio, furono intesi da uno servo, che gli accusò: ovvero quando per
leggerezza ti viene communicata a donna o a fanciullo che tu ami o a simile
leggieri persona; come fece Dimmo, uno de' congiurati con Filota contro a
Alessandro Magno, il quale communicò la congiura a Nicomaco, fanciullo amato da
lui; il quale subito la disse a Ciballino suo fratello, e Ciballino ad el re.
Quanto a scoprirsi per coniettura, ce n'è in esemplo la congiura Pisoniana
contro a Nerone; nella quale Scevino, uno de' congiurati, il dì dinanzi ch'egli
aveva ad ammazzare Nerone, fece testamento, ordinò che Milichio, suo liberto,
facessi arrotare un suo pugnale vecchio e rugginoso, liberò tutti i suoi servi
e dette loro danari, fece ordinare fasciature da legare ferite: per le quali
conietture accortosi Milichio della cosa, lo accusò a Nerone. Fu preso Scevino,
e con lui Natale un altro congiurato, i quali erano stati veduti parlare a
lungo e di segreto insieme, il dì davanti; e non si accordando del ragionamento
avuto, furono forzati a confessare il vero talché la congiura fu scoperta, con
rovina di tutti i congiurati. Da queste cagioni dello scoprire le congiure è
impossibile guardarsi che, per malizia, per imprudenza o per leggerezza, la non
si scuopra, qualunque volta i conscii d'essa passono il numero di tre o di
quattro. E come e' ne è preso più che uno, è impossibile non riscontrarla,
perché due non possano essere convenuti insieme di tutti e' ragionamenti loro.
Quando e' ne sia preso solo uno, che sia uomo forte, può elli, con la fortezza
dello animo, tacere i congiurati; ma conviene che i congiurati non abbiano meno
animo di lui a stare saldi, e non si scoprire con la fuga: perché da una parte
che l'animo manca o da chi è sostenuto o da chi è libero, la congiura è
scoperta. Ed è rado lo esemplo indotto da Tito Livio nella congiura fatta contro
a Girolamo, re di Siracusa; dove, sendo Teodoro, uno de' congiurati, preso,
celò con una virtù grande tutti i congiurati, ed accusò gli amici del re, e
dall'altra parte, i congiurati confidarono tanto nella virtù di Teodoro, che
nessuno si partì di Siracusa, o fece alcuno segno di timore. Passasi, adunque,
per tutti questi pericoli nel maneggiare una congiura innanzi che si venga alla
esecuzione di essa: i quali volendo fuggire, ci sono questi rimedi. Il primo ed
il più vero, anzi, a dire meglio, unico, è non dare tempo ai congiurati di
accusarti; e comunicare loro la cosa quando tu la vuoi fare, e non prima.
Quelli che hanno fatto così, fuggono al certo i pericoli che sono nel
praticarla, e, il più delle volte, gli altri; anzi hanno tutte avuto felice fine:
e qualunque prudente arebbe commodità di governarsi in questo modo. Io voglio
che mi basti addurre due esempli.
Nelemato,
non potendo sopportare la tirannide di Aristotimo, tiranno di Epiro, ragunò in
casa sua molti parenti ed amici, e, confortatogli a liberare la patria, alcuni
di loro chiesono tempo a diliberarsi ed ordinarsi, donde Nelemato fece a' suoi
servi serrare la casa, ed a quelli che esso aveva chiamati disse: «O voi
giurerete di andare ora a fare questa esecuzione, o io vi darò tutti prigioni
ad Aristotimo». Dalle quali parole mossi coloro, giurarono; ed andati, sanza
intermissione di tempo, felicemente l'ordine di Nelemato esequirono. Avendo uno
Mago, per inganno, occupato il regno de' Persi, ed avendo Ortano, uno de'
grandi uomini del regno, intesa e scoperta la fraude, lo conferì con sei altri
principi di quello stato, dicendo come gli era da vendicare il regno dalla
tirannide di quel Mago; e domandando, alcuno di loro, tempo, si levò Dario, uno
de' sei chiamati da Ortano, e disse: «O noi andreno ora a fare questa
esecuzione, o io vi andrò ad accusare tutti». E così d'accordo levatisi, sanza
dare tempo ad alcuno di pentirsi, esequirono felicemente i disegni loro. Simile
a questi due esempli ancora è il modo che gli Etoli tennono ad ammazzare
Nabide, tiranno spartano; i quali mandarono Alessameno loro cittadino, con
trenta cavagli e dugento fanti, a Nabide, sotto colore di mandargli aiuto; ed
il segreto solamente comunicorono ad Alessameno; ed agli altri imposono che lo
ubbidissoro in ogni e qualunque cosa, sotto pena di esilio. Andò costui in
Sparta, e non comunicò mai la commissione sua se non quando e' la volle
esequire: donde gli riuscì d'ammazzarlo. Costoro, adunque per questi modi,
hanno fuggiti quelli pericoli che si portano nel maneggiare le congiure; e chi
imiterà loro, sempre gli fuggirà.
E
che ciascuno possa fare come loro io ne voglio dare lo esemplo di Pisone
preallegato di sopra. Era Pisone grandissimo e riputatissimo uomo, e familiare
di Nerone, ed in chi elli confidava assai. Andava Nerone ne' suoi orti spesso a
mangiare seco. Poteva, adunque, Pisone farsi amici uomini, d'animo e di cuore e
di disposizione atti ad una tale esecuzione (il che ad uno grande è
facilissimo); e quando Nerone fosse stato ne' i suoi orti, comunicare loro la
cosa, e con le parole convenienti inanimarli a fare quello che loro non avevano
tempo a ricusare, e che era impossibile che non riuscisse. E così, se si
esamineranno tutte l'altre, si troverrà poche non essere potute condursi nel
medesimo modo: ma gli uomini, per l'ordinario, poco intendenti delle azioni del
mondo, spesso fanno errori gravissimi, e tanto maggiori in quelle che hanno più
dello istraordinario, come è questa. Debbesi, adunque, non comunicare mai la
cosa se non necessitato ed in sul fatto; e se pure la vuoi comunicare,
comunicarla ad uno solo, del quale abbia fatto lunghissima isperienza, o che
sia mosso dalle medesime cagioni che tu. Trovarne uno così fatto è molto più
facile che trovarne più, e per questo vi è meno pericolo, dipoi, quando pure ei
ti ingannassi, vi è qualche rimedio a difendersi, che non è dove siano
congiurati assai: perché da alcuno prudente ho sentito dire che con uno si può
parlare ogni cosa, perché tanto vale, se tu non ti lasci condurre a scrivere di
tua mano, il sì dell'uno quanto il no dell'altro; e dallo scrivere ciascuno
debbe guardarsi come da uno scoglio, perché non è cosa che più facilmente ti
convinca, che lo scritto di tua mano. Plauziano, volendo fare ammazzare Severo
imperadore ed Antonino suo figliuolo, commisse la cosa a Saturnino tribuno; il
quale, volendo accusarlo e non ubbidirlo, e dubitando che, venendo all'accusa,
e' non fussi più creduto a Plauziano che a lui, gli chiese una cedola di sua
mano, che facessi fede di questa commissione; la quale Plauziano, accecato
dall'ambizione, gli fece: donde seguì che fu, dal tribuno, accusato e convinto;
e sanza quella cedola, e certi altri contrassegni, sarebbe stato Plauziano
superiore; tanto audacemente negava. Truovasi, adunque, nell'accusa d'uno,
qualche rimedio, quando tu non puoi essere da una scrittura, o altri
contrasegni, convinto: da che uno si debbe guardare.
Era
nella congiura Pisoniana una femina chiamata Epicari, stata per lo adietro
amica di Nerone; la quale giudicando che fussi a proposito mettere tra i
congiurati uno capitano di alcune trireme che Nerone teneva per sua guardia,
gli comunicò la congiura ma non i congiurati. Donde, rompendogli quello
capitano la fede ed accusandola a Nerone, fu tanta l'audacia di Epicari nel
negarlo, che Nerone, rimaso confuso, non la condannò.
Sono,
adunque, nel comunicare la cosa ad uno solo, due pericoli: l'uno, che non ti
accusi in pruova; l'altro, che non ti accusi convinto e constretto dalla pena,
sendo egli preso per qualche sospetto o per qualche indizio avuto di lui. Ma
nell'uno e nell'altro di questi due pericoli è qualche rimedio, potendosi
negare l'uno, allegandone l'odio che colui avesse teco; e negare l'altro,
allegandone la forza che lo constringesse a dire le bugie. È, adunque, prudenza
non comunicare la cosa a nessuno, ma fare secondo gli esempli soprascritti; o,
quando pure la comunichi, non passare uno; dove, se è qualche più pericolo, ve
n'è meno assai che comunicarla con molti. Propinquo a questo modo è quando una
necessità ti costringa a fare quello al principe che tu vedi che 'l principe
vorrebbe fare a te, la quale sia tanto grande che non ti dia tempo se non a
pensare ad assicurarti. Questa necessità conduce quasi sempre la cosa al fine
desiderato: ed a provarlo voglio bastino due esempli. Aveva Commodo,
imperadore, Leto ed Eletto, capi de' soldati pretoriani, ed intra' primi amici
e familiari suoi; aveva Marzia in nelle prime sue concubine o amiche; e perché
egli era da costoro qualche volta ripreso de' modi con i quali maculava la
persona sua e lo Imperio, diliberò di farli morire; e scrisse in su una listra
Marzia, Leto ed Eletto ed alcuni altri che voleva, la notte sequente fare
morire; e quella listra messe sotto il capezzale del suo letto. Ed essendo ito
a lavarsi, un fanciullo favorito da lui, scherzando per camera e su pel letto,
gli venne trovato questa listra, ed uscendo fuora con essa in mano, riscontrò
Marzia; la quale gliene tolse, e, lettala, e veduto il contenuto di essa,
subito mandò per Leto ed Eletto; e conosciuto tutti a tre il pericolo in quale
erano, deliberorono prevenire; e, sanza mettere tempo in mezzo, la notte
sequente ammazzorono Commodo. Era Antonino Caracalla, imperadore, con gli
eserciti suoi in Mesopotamia, ed aveva per suo prefetto Macrino, uomo più
civile che armigero; e, come avviene ch'e' principi non buoni temono sempre che
altri non operi, contro a loro, quello che par loro meritare, scrisse Antonino
a Materniano suo amico a Roma, che intendessi dagli astrologi, s'egli era
alcuno che aspirasse allo imperio, e gliene avvisasse. Donde Materniano gli
scrisse, come Macrino era quello che vi aspirava; e pervenuta la lettera, prima
alle mani di Macrino che dello imperadore, e, per quella, conosciuta la
necessità o d'ammazzare lui prima che nuova lettera venisse da Roma o di
morire, commisse a Marziale centurione, suo fidato, ed a chi Antonino aveva
morto, pochi giorni innanzi uno fratello, che lo ammazzasse: il che fu esequito
da lui felicemente. Vedesi, adunque, che questa necessità che non dà tempo, fa
quasi quel medesimo effetto che il modo, da me sopra detto, che tenne Nelemato
di Epiro. Vedesi ancora quello che io dissi, quasi nel principio di questo
discorso, come le minacce offendono più i principi, e sono cagione di più
efficace congiure che le offese: da che uno principe si debbe guardare; perché
gli uomini si hanno o accarezzare o assicurarsi di loro; e non li ridurre mai
in termine che gli abbiano a pensare che bisogni loro o morire o far morire
altrui.
Quanto
ai pericoli che si corrono in su la esecuzione, nascono questi o da variare
l'ordine, o da mancare l'animo a colui che esequisce, o da errore che lo
esecutore faccia per poca prudenza, o per non dare perfezione alla cosa,
rimanendo vivi parte di quelli che si disegnavano ammazzare. Dico, adunque,
come e' non è cosa alcuna che faccia tanto sturbo o impedimento a tutte le
azioni degli uomini, quanto è in uno instante, sanza avere tempo, avere a
variare un ordine e a pervertirlo da quello che si era ordinato prima. E se
questa variazione fa disordine in cosa alcuna, lo fa nelle cose della guerra,
ed in cose simili a quelle di che noi parliano; perché in tali azioni non è
cosa tanto necessaria a fare, quanto che gli uomini fermino gli animi loro ad
esequire quella parte che tocca loro: e se gli uomini hanno volto la fantasia
per più giorni ad uno modo e ad uno ordine, e quello subito varii, è
impossibile che non si perturbino tutti, e non rovini ogni cosa; in modo che
gli è meglio assai esequire una cosa secondo l'ordine dato, ancora che vi si
vegga qualche inconveniente, che non è, per volere cancellare quello, entrare
in mille inconvenienti. Questo interviene quando e' non si ha tempo a
riordinarsi; perché, quando si ha tempo, si può l'uomo governare a suo modo.
La
congiura de' Pazzi contro a Lorenzo e Giuliano de' Medici, è nota. L'ordine
dato era che dessino desinare al cardinale di San Giorgio, ed a quel desinare
ammazzargli: dove si era distribuito chi aveva a ammazzargli, chi aveva a
pigliare il palazzo, e chi correre la città e chiamare alla libertà il popolo.
Accadde che, essendo nella chiesa cattedrale in Firenze i Pazzi, i Medici ed il
Cardinale ad uno ufficio solenne, s'intese come Giuliano la mattina non vi
desinava: il che fece che i congiurati s'adunorono insieme e quello che gli
avevano a fare in casa i Medici, deliberarono di farlo in chiesa. Il che venne
a perturbare tutto l'ordine, perché Giovambatista da Montesecco non volle
concorrere all'omicidio, dicendo non lo volere fare in chiesa: talché gli
ebbono a mutare nuovi ministri in ogni azione; i quali, non avendo tempo a
fermare l'animo, fecero tali errori, che in essa esecuzione furono oppressi.
Manca
l'animo a chi esequisce, o per riverenza, o per propria viltà dello esecutore.
È tanta la maestà e la riverenza che si tira dietro la presenza d'uno principe,
ch'egli è facil cosa o che mitighi o che gli sbigottisca uno esecutore. A
Mario, essendo preso da' Minturnesi, fu mandato uno servo che lo ammazzasse; il
quale, spaventato dalla presenza di quello uomo e dalla memoria del nome suo,
divenuto vile, perdé ogni forza ad ucciderlo. E se questa potenza è in uomo
legato e prigione, ed affogato nella mala fortuna; quanto si può tenere che la
sia maggiore in uno principe sciolto, con la maestà degli ornamenti, della
pompa e della comitiva sua! talché ti può questa tale pompa spaventare, o vero
con qualche grata accoglienza raumiliare. Congiurorono alcuni contro a Sitalce
re di Tracia, deputorono il dì della esecuzione; convennono al luogo diputato,
dove era il principe; nessuno di loro si mosse per offenderlo: tanto che si
partirono sanza avere tentato alcuna cosa e sanza sapere quello che se gli
avessi impediti; ed incolpavano l'uno l'altro. Caddono in tale errore più
volte; tanto che, scopertasi la congiura, portarono pena di quello male che
potettono e non vollono fare. Congiurarono contro a Alfonso, duca di Ferrara,
due sui frategli, ed usarono mezzano Giannes, prete e cantore del duca; il
quale più volte, a loro richiesta, condusse il duca fra loro, talché gli
avevano arbitrio d'ammazzarlo: nondimeno, mai nessuno di loro non ardì di
farlo; tanto che, scoperti, portarono la pena della cattività e poca prudenza
loro. Questa negligenza non potette nascere da altro, se non che convenne o che
la presenza gli sbigottisse o che qualche umanità del principe gli umiliasse.
Nasce in tali esecuzioni inconveniente o errore per poca prudenza o per poco
animo; perché l'una e l'altra di queste due cose ti invasa, e portato da quella
confusione di cervello ti fa dire e fare quello che tu non debbi.
E
che gli uomini invasino e si confondino, non lo può meglio dimostrare Tito
Livio quando discrive di Alessameno etolo, quando ei volle ammazzare Nabide
spartano, di che abbiamo di sopra parlato; che, venuto il tempo della
esecuzione, scoperto che egli ebbe ai suoi quello che si aveva a fare, dice
Tito Livio queste parole: «Collegit et ipse animum, confusum tantae
cogitatione rei». Perché gli è impossibile che alcuno, ancora che di animo
fermo, ed uso alla morte degli uomini e adoperare il ferro, non si confunda.
Però si debba eleggere uomini isperimentati in tali maneggi, ed a nessuno altro
credere, ancora che tenuto animosissimo. Perché, dello animo nelle cose grandi,
sanza averne fatto isperienza, non sia alcuno che se ne prometta cosa certa.
Può, adunque, questa confusione o farti cascare l'armi di mano, o farti dire
cose che facciano il medesimo effetto.
Lucilla,
sirocchia di Commodo, ordinò che Quinziano lo ammazzassi. Costui aspettò
Commodo nella entrata dello anfiteatro e con un pugnale ignudo accostandosegli,
gridò: Questo ti manda il Senato! le quali parole fecero che fu prima preso
ch'egli avesse calato il braccio per ferire. Messer Antonio da Volterra,
diputato, come di sopra si disse, ad ammazzare Lorenzo de' Medici, nello
accostarsegli disse: Ah traditore! la quale voce fu la salute di Lorenzo, e la
rovina di quella congiura. Può non si dare perfezione alla cosa, quando si
congiura contro ad uno capo, per le cagioni dette: ma facilmente non se le dà
perfezione quando si congiura contro a due capi, anzi è tanto difficile, che
gli è quasi impossibile che la riesca. Perché fare una simile azione in uno
medesimo tempo in diversi luoghi, è quasi impossibile; perché in diversi tempi
non si può fare, non volendo che l'una guasti l'altra. In modo che, se il
congiurare contro ad uno principe è cosa dubbia, pericolosa e poco prudente;
congiurare contro a due, è al tutto vana e leggieri. E se non fosse la
riverenza dello istorico, io non crederrei mai che fosse possibile quello che
Erodiano dice di Plauziano, quando ei commisse a Saturnino centurione, che elli
solo ammazzasse Severo ed Antonino, abitanti in diversi paesi: perché la è cosa
tanto discosto da il ragionevole che altro che questa autorità non me lo
farebbe credere.
Congiurorono
certi giovani ateniesi contro a Diocle ed Ippia, tiranni di Atene. Ammazzarono
Diocle ed Ippia, che rimase, lo vendicò. Chione e Leonide eraclensi e discepoli
di Platone, congiurarono contro a Clearco e Satiro, tiranni; ammazzarono
Clearco; e Satiro, che restò vivo, lo vendicò. Ai Pazzi, più volte da noi
allegati, non successe di ammazzare se non Giuliano. In modo che di simili
congiure contro a più capi, se ne debbe astenere ciascuno, perché non si fa
bene né a sé né alla patria né ad alcuno: anzi quelli che rimangono, diventono
più insopportabili e più acerbi; come sa Firenze, Atene ed Eraclea, state da me
preallegate. È vero che la congiura che Pelopida fece per liberare Tebe sua
patria, ebbe tutte le difficultà: nondimeno ebbe felicissimo fine; perché
Pelopida non solamente congiurò contro a due tiranni, ma contro a dieci, non
solamente non era confidente e non gli era facile la entrata a e' tiranni, ma
era ribello: nondimanco ei poté venire in Tebe, ammazzare i tiranni, e liberare
la patria. Pure nondimanco fece tutto, con l'aiuto d'uno Carione, consigliere
de' tiranni, dal quale ebbe l'entrata facile alla esecuzione sua. Non sia
alcuno, nondimanco, che pigli lo esemplo da costui: perché come ella fu impresa
impossibile, e cosa maravigliosa a riuscire, così fu, ed è tenuta dagli scrittori,
i quali la celebrano, come cosa rara e quasi sanza esemplo. Può essere
interrotta tale esecuzione da una falsa immaginazione o da uno accidente
imprevisto che nasca in su 'l fatto. La mattina che Bruto e gli altri
congiurati volevano ammazzare Cesare, accadde che quello parlò a lungo con Gneo
Popilio Lenate, uno de' congiurati; e vedendo gli altri questo lungo
parlamento, dubitarono che detto Popilio non rivelasse a Cesare la congiura: e
furono per tentare di ammazzare Cesare quivi, e non aspettare che fosse in
Senato; ed arebbonlo fatto, se non che il ragionamento finì, e, visto non fare
a Cesare moto alcuno istraordinario, si rassicurarono. Sono queste false
immaginazioni da considerarle, ed avervi, con prudenza, rispetto; e tanto più,
quanto egli è facile ad averle. Perché chi ha la sua conscienza macchiata,
facilmente crede che si parli di lui: puossi sentire una parola, detta ad uno
altro fine, che ti faccia perturbare l'animo, e credere che la sia detta sopra
il caso tuo, e farti o con la fuga scoprire la congiura da te, o confondere
l'azione con acceleralla fuora di tempo. E questo tanto più facilmente nasce,
quando ei sono molti ad essere conscii della congiura.
Quanto
alli accidenti, perché sono inisperati, non si può se non con gli esempli mostrarli,
e fare gli uomini cauti secondo quegli. Luzio Belanti da Siena, del quale di
sopra abbiamo fatto menzione, per lo sdegno aveva contro a Pandolfo, che gli
aveva tolto la figliuola che prima gli aveva data per moglie, diliberò
d'ammazzarlo, ed elesse questo tempo. Andava Pandolfo quasi ogni giorno a
vicitare uno suo parente infermo, e nello andarvi passava dalle case di Iulio.
Costui, adunque, veduto questo, ordinò di avere i suoi congiurati in casa ad
ordine per ammazzare Pandolfo nel passare; e, messisi dentro all'uscio armati,
teneva uno alla finestra, che, passando Pandolfo, quando ei fussi presso
all'uscio, facessi un cenno. Accadde che, venendo Pandolfo, ed avendo fatto
colui il cenno, riscontrò uno amico che lo fermò; ed alcuni di quelli che erano
con lui, vennono a trascorrere innanzi; e veduto, e sentito il romore d'arme,
scopersono l' agguato; in modo che Pandolfo si salvò, e Iulio ed i compagni si
ebbono a fuggire di Siena. Impedì quello accidente di quello scontro quella
azione, e fece a Iulio rovinare la sua impresa. Ai quali accidenti, perché e'
son rari, non si può fare alcuno rimedio. È bene necessario esaminare tutti
quegli che possono nascere, e rimediarvi.
Restaci
al presente, solo a disputare de' pericoli che si corrono dopo la esecuzione: i
quali sono solamente uno; e questo è, quando e' rimane alcuno che vendichi il
principe morto. Possono, adunque, rimanere suoi frategli, o suoi figliuoli, o
altri aderenti, a chi si aspetti il principato; e possono rimanere o per tua
negligenzia o per le cagioni dette di sopra, che faccino questa vendetta: come
intervenne a Giovanni Andrea da Lampognano, il quale, insieme con i suoi
congiurati, avendo morto il duca di Milano, ed essendo rimaso uno suo figliuolo
e due suoi frategli, furono a tempo a vendicare il morto. E veramente, in
questi casi, i congiurati sono scusati, perché non ci hanno rimedio; ma quando
ne rimane vivo alcuno, per poca prudenza, o per loro negligenza, allora è che
non meritano scusa. Ammazzarono alcuni congiurati Forlivesi il conte Girolamo
loro signore, presono la moglie, ed i suoi figliuoli, che erano piccoli; e non
parendo loro potere vivere sicuri se non si insignorivano della fortezza, e non
volendo il castellano darla loro, Madonna Caterina (che così si chiamava la
contessa) promisse ai congiurati, che, se la lasciavano entrare in quella, di
farla consegnare loro, e che ritenessono a presso di loro i suoi figliuoli per
istatichi. Costoro, sotto questa fede, ve la lasciarono entrare; la quale, come
fu dentro, dalle mura rimproverò loro la morte del marito, e minacciogli d'ogni
qualità di vendetta. E per mostrare che de' suoi figliuoli non si curava,
mostrò loro le membra genitali, dicendo che aveva ancora il modo a rifarne.
Così costoro, scarsi di consiglio e tardi avvedutisi del loro errore, con uno
perpetuo esilio patirono pena della poca prudenza loro. Ma di tutti i pericoli
che possono dopo la esecuzione avvenire, non ci è il più certo né quello che
sia più da temere, che quando il popolo è amico del principe che tu hai morto:
perché a questo i congiurati non hanno rimedio alcuno, perché e' non se ne
possono mai assicurare. In esemplo ci è Cesare, il quale, per avere il popolo
di Roma amico, fu vendicato da lui; perché, avendo cacciati i congiurati, di
Roma, fu cagione che furono tutti, in varii tempi e in varii luoghi, ammazzati.
Le
congiure che si fanno contro alla patria sono meno pericolose, per coloro che
le fanno, che non sono quelle contro ai principi: perché nel maneggiarle vi
sono meno pericoli che in quelle; nello esequirle vi sono quelli medesimi; dopo
la esecuzione non ve ne è alcuno. Nel maneggiarle non vi è pericoli molti:
perché uno cittadino può ordinarsi alla potenza sanza manifestare lo animo e
disegno suo ad alcuno; e, se quegli suoi ordini non gli sono interrotti,
seguire felicemente la impresa sua; se gli sono interrotti con qualche legge,
aspettare tempo ed entrare per altra via. Questo s'intende in una republica
dove è qualche parte di corrozione; perché, in una non corrotta, non vi avendo
luogo nessuno principio cattivo, non possono cadere in uno suo cittadino questi
pensieri. Possono, adunque, i cittadini per molti mezzi e molte vie aspirare al
principato dove e' non portano pericolo di essere oppressi: sì perché le
republiche sono più tarde che uno principe, dubitano meno, e per questo sono
manco caute; sì perché hanno più rispetto ai loro cittadini grandi, e per
questo quelli sono più audaci e più animosi a fare loro contro. Ciascuno ha
letto la congiura di Catilina scritta da Sallustio, e sa come, poi che la
congiura fu scoperta, Catilina non solamente stette in Roma, ma venne in
Senato, e disse villania al Senato ed al Consolo, tanto era il rispetto che
quella città aveva ai suoi cittadini. E partito che fu di Roma, e ch'egli era
di già in su gli eserciti, non si sarebbe preso Lentulo e quelli altri, se non
si fossoro avute lettere di loro mano che gli accusavano manifestamente.
Annone, grandissimo cittadino in Cartagine, aspirando alla tirannide, aveva
ordinato nelle nozze d'una sua figliuola di avvelenare tutto il Senato, e dipoi
farsi principe. Questa cosa intesasi, non vi fece il Senato altra provisione
che d'una legge, la quale poneva termini alle spese de' conviti e delle nozze:
tanto fu il rispetto che gli ebbero alle qualità sue. È bene vero, che nello
esequire una congiura contro alla patria, vi è difficultà più, e maggiori
pericoli, perché rade volte è che bastino le tue forze proprie conspirando
contro a tanti; e ciascuno non è principe d'uno esercito, come era Cesare o
Agatocle o Cleomene, e simili, che hanno ad un tratto e con le forze loro
occupato la patria. Perché a simili è la via assai facile ed assai sicura, ma
gli altri, che non hanno tante aggiunte di forze, conviene che facciano le
cose, o con inganno ed arte, o con forze forestiere. Quanto allo inganno ed
all'arte, avendo Pisistrato ateniese vinti i Megarensi, e per questo acquistata
grazia nel popolo, uscì una mattina fuora, ferito, dicendo che la Nobilità per
invidia lo aveva ingiuriato, e domandò di potere menare armati seco per guardia
sua.
Da
questa autorità facilmente salse a tanta grandezza, che diventò tiranno di
Atene. Pandolfo Petrucci tornò, con altri fuora usciti, in Siena, e gli fu data
la guardia della piazza con governo, come cosa mecanica, e che gli altri
rifiutarono; nondimanco quelli armati, con il tempo, gli dierono tanta
riputazione, che, in poco tempo, ne diventò principe. Molti altri hanno tenute
altre industrie ed altri modi, e con ispazio di tempo e sanza pericolo vi si
sono condotti. Quegli che con forze loro, o con eserciti esterni, hanno
congiurato per occupare la patria, hanno avuti varii eventi, secondo la
fortuna. Catilina preallegato vi rovinò sotto. Annone, di chi di sopra facemo
menzione, non gli essendo riuscito il veleno, armò, di suoi partigiani, molte
migliaia di persone, e loro ed elli furono morti. Alcuni primi cittadini di
Tebe per farsi tiranni chiamorono in aiuto uno esercito spartano, e presono la
tirannide di quella città. Tanto che, esaminate tutte le congiure fatte contro
alla patria, non ne troverrai alcuna, o poche, che, nel maneggiarle, siano
oppresse; ma tutte, o sono riuscite o sono rovinate, nella esecuzione. Esequite
che le sono, ancora non portano altri periculi che si porti la natura del
principato in sé: perché divenuto che uno è tiranno, ha i suoi naturali ed
ordinari pericoli che gli arreca la tirannide, alli quali non ha altri rimedi
che si siano di sopra discorsi.
Questo
è quanto mi è occorso scrivere delle congiure; e se io ho ragionato di quelle
che si fanno con il ferro, e non col veneno, nasce che le hanno tutte uno
medesimo ordine. Vero è che quelle del veneno sono più pericolose, per essere
più incerte, perché non si ha commodità per ognuno; e bisogna conferirlo con
chi la ha, e questa necessità del conferire ti fa pericolo. Dipoi, per molte
cagioni, uno beveraggio di veleno non può essere mortale: come intervenne a
quelli che ammazzarono Commodo, che, avendo quello ributtato il veleno che gli
avevano dato, furono forzati a strangolarlo, se vollono che morisse. Non hanno,
pertanto, i principi il maggiore nimico che la congiura: perché, fatta che è
una congiura loro contro, o la gli ammazza, o la gli infama. Perché, se la
riesce, e' muoiono; se la si scuopre, e loro ammazzino i congiurati, si crede
sempre che la sia stata invenzione di quel principe, per isfogare l'avarizia e
la crudeltà sua contro al sangue e la roba di quegli che egli ha morti. Non
voglio però mancare di avvertire quel principe o quella republica contro a chi
fosse congiurato, che abbino avvertenza, quando una congiura si manifesta loro,
innanzi che facciano impresa di vendicarla, cercare ed intendere molto bene la
qualità di essa, e misurino bene le condizioni de' congiurati e le loro; e
quando la truovino grossa e potente, non la scuoprino mai, infino a tanto che
si siano preparati con forze sufficienti ad opprimerla: altrimenti facendo,
scoprirebbono la loro rovina. Però, debbono con ogni industria dissimularla;
perché i congiurati, veggendosi scoperti, cacciati da necessità, operano sanza
rispetto. In esemplo ci sono i Romani; i quali, avendo lasciate due legioni di
soldati a guardia de' Capovani contro ai Sanniti, come altrove dicemo,
congiurarono quelli capi delle legioni insieme di opprimere i Capovani: la
quale cosa intesasi a Roma, commissono a Rutilio nuovo Consolo che vi
provvedesse; il quale, per addormentare i congiurati, pubblicò come il Senato
aveva raffermo le stanze alle legioni capovane. Il che credendosi quelli
soldati, e parendo loro avere tempo ad esequire il disegno loro, non cercarono
di accelerare la cosa; e così stettono infino che cominciarono a vedere che il
Consolo gli separava l'uno dall'altro: la quale cosa generò in loro sospetto,
fece che si scopersono e mandarono ad esecuzione la voglia loro. Né può essere
questo maggiore esemplo nell'una e nell'altra parte: perché per questo si vede,
quanto gli uomini sono lenti nelle cose dove credono avere tempo, e quanto e'
sono presti dove la necessità gli caccia. Né può uno principe o una republica,
che vuole differire lo scoprire una congiura a suo vantaggio, usare termine
migliore che offerire, di prossimo, occasione con arte ai congiurati acciocché,
aspettando quella, o parendo loro avere tempo, diano tempo a quello o a quella
a gastigarli. Chi ha fatto altrimenti, ha accelerato la sua rovina: come fece
il duca di Atene, e Guglielmo de' Pazzi. Il duca, diventato tiranno di Firenze,
ed intendendo esserli congiurato contro, fece, sanza esaminare altrimenti la
cosa, pigliare uno de' congiurati: il che fece subito pigliare l'armi agli
altri; e torgli lo stato.
Guglielmo,
sendo commessario in Val di Chiana nel 1501, ed avendo inteso come in Arezzo
era una congiura in favore de' Vitelli per tôrre quella terra ai Fiorentini,
subito se n'andò in quella città, e sanza pensare alle forze de' congiurati o
alle sue, e, sanza prepararsi di alcuna forza, con il consiglio del vescovo suo
figliuolo, fece pigliare uno de' congiurati: dopo la quale presura, gli altri
subito presono l'armi, e tolsono la terra ai Fiorentini; e Guglielmo, di
commessario, diventò prigione. Ma quando le congiure sono deboli, si possono e
debbono sanza rispetto opprimerle. Non è ancora da imitare in alcuno modo due
termini usati, quasi contrari l'uno all'altro, l'uno dal prenominato duca di
Atene, il quale, per mostrare di credere di avere la benivolenza de' cittadini
fiorentini, fece morire uno che gli manifestò una congiura; l'altro da Dione
siragusano, il quale, per tentare l'animo di alcuno che elli aveva a sospetto,
consentì a Callippo, nel quale ei confidava, che mostrasse di farli una
congiura contro. E tutti a due questi capitorono male: perché l'uno tolse
l'animo agli accusatori, e dettelo a chi volesse congiurare, l'altro dette la
via facile alla morte sua, anzi fu elli proprio capo della sua congiura; come
per isperienza gl'intervenne, perché Callippo, potendo sanza rispetto praticare
contro a Dione, praticò tanto che gli tolse lo stato e la vita.
7
Donde
nasce che le mutazioni dalla libertà alla servitù, e dalla servitù alla
libertà, alcuna ne è sanza sangue, alcuna ne è piena.
Dubiterà
forse alcuno donde nasca che molte mutazioni, che si fanno dalla vita libera
alla tirannica, e per contrario, alcuna se ne faccia con sangue, alcuna sanza;
perché, come per le istorie si comprende, in simili variazioni alcuna volta
sono stati morti infiniti uomini, alcuna volta non è stato ingiurato alcuno:
come intervenne nella mutazione che fe' Roma dai Re a' Consoli, dove non furono
cacciati altri che i Tarquinii, fuora della offensione di qualunque altro. Il
che depende da questo: perché quello stato che si muta, nacque con violenza, o
no: e perché, quando e' nasce con violenza, conviene nasca con ingiuria di
molti, è necessario poi, nella rovina sua, che gl'ingiuriati si voglino
vendicare; e da questo desiderio di vendetta nasce il sangue e la morte degli
uomini. Ma quando quello stato è causato da uno comune consenso d'una
universalità che lo ha fatto grande, non ha cagione poi, quando rovina detta
universalità, di offendere altri che il capo. E di questa sorte fu lo stato di
Roma, e la cacciata de' Tarquinii; come fu ancora in Firenze lo stato de'
Medici, che poi nelle rovine loro, nel 1494, non furono offesi altri che loro.
E così tali mutazioni non vengono ad essere molto pericolose: ma sono bene
pericolosissime quelle che sono fatte da quegli che si hanno a vendicare; le
quali furono sempre mai di sorte, da fare, non che altro, sbigottire chi le
legge. E perché di questi esempli ne sono piene le istorie, io le voglio
lasciare indietro.
8
Chi
vuole alterare una republica, debbe considerare il suggetto di quella.
Egli
si è di sopra discorso, come uno tristo cittadino non può male operare in una
republica che non sia corrotta: la quale conclusione si fortifica, oltre alle
ragioni che allora si dissono, con lo esemplo di Spurio Cassio e di Manlio
Capitolino. Il quale Spurio, essendo uomo ambizioso, e volendo pigliare
autorità istraordinaria in Roma, e guadagnarsi la plebe con il fargli molti
beneficii, come era dividergli quegli campi che i Romani avevano tolto agli
Ernici; fu scoperta dai Padri questa sua ambizione, ed in tanto recata a
sospetto, che, parlando egli al popolo, ed offerendo di darli quelli danari che
si erano ritratti dei grani che il publico aveva fatti venire di Sicilia, al
tutto gli recusò, parendo a quello che Spurio volessi dare loro il prezzo della
loro libertà. Ma se tale popolo fusse stato corrotto, non arebbe recusato detto
prezzo, e gli arebbe aperta alla tirannide quella via che gli chiuse. Fa molto
maggiore essemplo di questo, Manlio Capitolino: perché mediante costui si vede
quanta virtù d'animo e di corpo, quante buone opere fatte in favore della
patria, cancella dipoi una brutta cupidità di regnare: la quale, come si vede,
nacque in costui per la invidia che lui aveva degli onori erano fatti a
Cammillo; e venne in tanta cecità di mente, che, non pensando al modo del
vivere della città, non esaminando il suggetto, quale esso aveva, non atto a
ricevere ancora trista forma, si misse a fare tumulti in Roma contro al Senato
e contro alle leggi patrie. Dove si conosce la perfezione di quella città, e la
bontà della materia sua: perché nel caso suo nessuno della Nobilità, come che
fossero agrissimi difensori l'uno dell'altro, si mosse a favorirlo; nessuno de'
parenti fece impresa in suo favore: e con gli altri accusati solevano
comparire, sordidati, vestiti di nero, tutti mesti per accattare misericordia
in favore dello accusato, e con Manlio non se ne vide alcuno. I Tribuni della
plebe, che solevano sempre favorire le cose che pareva venissono in beneficio
del popolo; e quanto erano più contro a' nobili, tanto più le tiravano innanzi;
in questo caso si unirono co' nobili, per opprimere una comune peste. Il popolo
di Roma desiderosissimo dell'utile proprio, ed amatore delle cose che venivano
contro alla Nobilità, avvenga che facesse a Manlio assai favori, nondimeno,
come i Tribuni lo citarono, e che rimessono la causa sua al giudicio del
popolo, quel popolo, diventato di difensore giudice, sanza rispetto alcuno lo
condannò a morte. Pertanto io non credo che sia esemplo in questa istoria, più
atto a mostrare la bontà di tutti gli ordini di quella Republica, quanto è
questo; veggendo che nessuno di quella città si mosse a difendere uno cittadino
pieno d'ogni virtù, e che publicamente e privatamente aveva fatte moltissime opere
laudabili. Perché in tutti loro poté più lo amore della patria che alcuno altro
rispetto; e considerarono molto più a' pericoli presenti che da lui dependevano
che a' meriti passati: tanto che con la morte sua e' si liberarono. E Tito
Livio dice: «Hunc exitum habuit vir, nisi in libera civitate natus esset,
memorabilis». Dove sono da considerare due cose: l'una, che per altri modi
si ha a cercare gloria in una città corrotta, che in una che ancora viva
politicamente; l'altra (che è quasi quel medesimo che la prima), che gli uomini
nel procedere loro, è tanto più nelle azioni grandi, debbono considerare i
tempi, e accommodarsi a quegli. E coloro che, per cattiva elezione o per
naturale inclinazione, si discordono dai tempi, vivono, il più delle volte, infelici,
ed hanno cattivo esito le azioni loro, al contrario l'hanno quegli che si
concordano col tempo. E sanza dubbio, per le parole preallegate dello istorico,
si può conchiudere, che, se Manlio fusse nato ne' tempi di Mario e di Silla,
dove già la materia era corrotta e dove esso arebbe potuto imprimere la forma
dell'ambizione sua, arebbe avuti quegli medesimi séguiti e successi che Mario e
Silla, e gli altri poi, che, dopo loro, alla tirannide aspirarono. Così
medesimamente, se Silla e Mario fussono stati ne' tempi di Manlio, sarebbero
stati, in tra le prime loro imprese, oppressi. Perché un uomo può bene
cominciare con suoi modi e con suoi tristi termini a corrompere uno popolo di
una città, ma gli è impossibile che la vita d'uno basti a corromperla in modo
che egli medesimo ne possa trarre frutto; e quando bene e' fussi possibile, con
lunghezza di tempo, che lo facesse, sarebbe impossibile, quanto al modo del
procedere degli uomini, che sono impazienti, e non possono lungamente differire
una loro passione. Appresso, s'ingannano nelle cose loro, ed in quelle,
massime, che desiderono assai; talché, o per poca pazienza o per ingannarsene,
entrerebbero in impresa contro a tempo, e capiterebbono male. Però è bisogno, a
volere pigliare autorità in una republica e mettervi trista forma, trovare la
materia disordinata dal tempo, e che, a poco a poco, e di generazione in
generazione, si sia condotta al disordine: la quale vi si conduce di necessità,
quando la non sia, come di sopra si discorse, spesso rinfrescata di buoni
esempli, o con nuove leggi ritirata verso i principii suoi. Sarebbe, dunque,
stato Manlio uno uomo raro e memorabile, se e' fussi nato in una città
corrotta. E però debbeno i cittadini che nelle republiche fanno alcuna impresa
o in favore della libertà o in favore della tirannide, considerare il suggetto
che eglino hanno, e giudicare da quello la difficultà delle imprese loro.
Perché tanto è difficile e pericoloso volere fare libero uno popolo che voglia
vivere servo, quanto è volere fare servo uno popolo che voglia vivere libero. E
perché di sopra si dice, che gli uomini nell'operare debbono considerare le
qualità de' tempi e procedere secondo quegli, ne parlereno a lungo nel sequente
capitolo.
9
Come
conviene variare co' tempi volendo sempre avere buona fortuna.
Io
ho considerato più volte come la cagione della trista e della buona fortuna
degli uomini è riscontrare il modo del procedere suo con i tempi: perché e' si
vede che gli uomini nelle opere loro procedono, alcuni con impeto, alcuni con
rispetto e con cauzione. E perché nell'uno e nell'altro di questi modi si
passano e' termini convenienti, non si potendo osservare la vera via, nell'uno
e nell'altro si erra. Ma quello viene ad errare meno, ed avere la fortuna
prospera, che riscontra, come ho detto, con il suo modo il tempo, e sempre mai
si procede, secondo ti sforza la natura. Ciascuno sa come Fabio Massimo
procedeva con lo esercito suo rispettivamente e cautamente, discosto da ogni
impeto e da ogni audacia romana, e la buona fortuna fece che questo suo modo
riscontrò bene con i tempi. Perché, sendo venuto Annibale in Italia, giovane e
con una fortuna fresca, ed avendo già rotto il popolo romano due volte; ed
essendo quella republica priva quasi della sua buona milizia, e sbigottita; non
potette sortire migliore fortuna, che avere uno capitano il quale, con la sua
tardità e cauzione, tenessi a bada il nimico. Né ancora Fabio potette
riscontrare tempi più convenienti a' modi suoi: di che ne nacque che fu
glorioso. E che Fabio facessi questo per natura, e non per elezione, si vide,
che, volendo Scipione passare in Affrica con quegli eserciti per ultimare la
guerra, Fabio la contradisse assai, come quello che non si poteva spiccare da'
suoi modi e dalla consuetudine sua; talché, se fusse stato a lui Annibale
sarebbe ancora in Italia; come quello che non si avvedeva che gli erano mutati
i tempi, e che bisognava mutare modo di guerra. E se Fabio fusse stato re di
Roma, poteva facilmente perdere quella guerra; perché non arebbe saputo
variare, col procedere suo, secondo che variavono i tempi: ma essendo nato in
una republica dove erano diversi cittadini e diversi umori, come la ebbe Fabio,
che fu ottimo ne' tempi debiti a sostenere la guerra, così ebbe poi Scipione,
ne' tempi atti a vincerla.
Quinci
nasce che una republica ha maggiore vita, ed ha più lungamente buona fortuna,
che uno principato, perché la può meglio accomodarsi alla diversità de'
temporali, per la diversità de' cittadini che sono in quella, che non può uno
principe. Perché un uomo che sia consueto a procedere in uno modo, non si muta
mai, come è detto; e conviene di necessità che, quando e' si mutano i tempi
disformi a quel suo modo, che rovini.
Piero
Soderini, altre volte preallegato, procedeva in tutte le cose sue con umanità e
pazienza. Prosperò egli e la sua patria, mentre che i tempi furono conformi al
modo del procedere suo: ma come e' vennero dipoi tempi dove e' bisognava
rompere la pazienza e la umiltà, non lo seppe fare; talché insieme con la sua
patria rovinò.
Papa
Iulio II procedette in tutto il tempo del suo pontificato con impeto e con
furia; e perché gli tempi l'accompagnarono bene gli riuscirono le sua imprese
tutte. Ma se fossero venuti altri tempi che avessono ricerco altro consiglio,
di necessità rovinava; perché no arebbe mutato né modo né ordine nel
maneggiarsi. E che noi non ci possiamo mutare, ne sono cagioni due cose: l'una,
che noi non ci possiamo opporre a quello che ci inclina la natura; l'altra,
che, avendo uno con uno modo di procedere prosperato assai, non è possibile
persuadergli che possa fare bene a procedere altrimenti: donde ne nasce che in
uno uomo la fortuna varia, perché ella varia i tempi, ed elli non varia i modi.
Nascene ancora le rovine delle cittadi, per non si variare gli ordini delle
republiche co' tempi; come lungamente di sopra discorremo: ma sono più tarde,
perché le penono più a variare, perché bisogna che venghino tempi che
commuovino tutta la republica, a che uno solo, col variare il modo del
procedere, non basta.
E
perché noi abbiamo fatto menzione di Fabio Massimo che tenne a bada Annibale,
mi pare da discorrere nel capitolo sequente, se uno capitano, volendo fare la
giornata in ogni modo col nimico, può essere impedito, da quello, che non lo
faccia.
10
Che
uno capitano non può fuggire la giornata, quando l'avversario la vuol fare in
ogni modo.
«Cneus Sulpitius dictator adversus Gallos bellum
trahebat, nolens se fortunae committere adversus hostem, quem tempus deteriorem
in dies, et locus alienus, faceret». Quando e' séguita uno errore, dove tutti gli
uomini o la maggiore parte s'ingannino, io non credo che sia male molte volte
riprovarlo. Pertanto, come che io abbia di sopra più volte mostro quanto le
azioni circa le cose grandi sieno disformi a quelle delli antichi tempi,
nondimeno non mi pare superfluo al presente replicarlo. Perché, se in alcuna
parte si devia dagli antichi ordini si devia massime nelle azioni militari,
dove al presente non è osservata alcuna di quelle cose che dagli antichi erano
stimate assai. Ed è nato questo inconveniente, perché le republiche ed i
principi hanno imposta questa cura ad altrui; e per fuggire i pericoli si sono
discostati da questo esercizio: e se pure si vede qualche volta uno re de'
tempi nostri andare in persona, non si crede, però, che da lui nasca altri modi
che meritino più laude. Perché quello esercizio, quando pure lo fanno, lo fanno
a pompa, e non per alcuna altra laudabile cagione. Pure, questi fanno minori
errori rivedendo i loro eserciti qualche volta in viso, tenendo a presso di
loro il titolo dello imperio, che non fanno le republiche, e massime le
italiane; le quali, fidandosi d'altrui, né s'intendendo in alcuna cosa di
quello che appartenga alla guerra; e, dall'altro canto, volendo, per parere
d'essere loro il principe, deliberarne, fanno in tale deliberazione mille
errori. E benché di alcuno ne abbi discorso altrove, voglio al presente non ne
tacere uno importantissimo. Quando questi principi oziosi, o republiche
effeminate, mandono fuora uno loro capitano, la più savia commissione che paia
loro dargli, è quando gl'impongono che per alcuno modo venga a giornata, anzi,
sopra ogni cosa, si guardi dalla zuffa; e parendo loro, in questo, imitare la
prudenza di Fabio Massimo, che, differendo il combattere, salvò lo stato ai
Romani, non intendono che, la maggiore parte delle volte, questa commissione è
nulla o è dannosa. Per che si debbe pigliare questa conclusione: che uno
capitano, che voglia stare alla campagna, non può fuggire la giornata, qualunque
volta il nemico la vuole fare in ogni modo. E non è altro questa commissione
che dire: fa' la giornata a posta del nimico, e non a tua. Perché a volere
stare in campagna, e non fare la giornata, non ci è altro rimedio sicuro che
porsi cinquanta miglia almeno discosto al nimico; e di poi tenere buone spie,
che, venendo quello verso di te, tu abbi tempo a discostarti. Uno altro partito
ci è; inchiudersi in una città. E l'uno e l'altro di questi due partiti è
dannosissimo. Nel primo si lascia in preda il paese suo al nimico; ed uno
principe valente vorrà più tosto tentare la fortuna della zuffa, che allungare
la guerra con tanto danno de' sudditi. Nel secondo partito è la perdita
manifesta; perché e' conviene che, riducendoti con uno esercito in una città,
tu venga ad essere assediato, ed in poco tempo patire fame, e venire a
dedizione. Talché fuggire la giornata, per queste due vie, è dannosissimo. Il
modo che tenne Fabio Massimo, di stare ne' luoghi forti, è buono quando tu hai
sì virtuoso esercito, che il nimico non abbia ardire di venirti a trovare
dentro a' tuoi vantaggi. Né si può dire che Fabio fuggissi la giornata, ma più
tosto che la volessi fare a suo vantaggio. Perché, se Annibale fusse ito a
trovarlo, Fabio l'arebbe aspettato, e fatto la giornata seco: ma Annibale non
ardì mai di combattere con lui a modo di quello. Tanto che la giornata fu
fuggita così da Annibale come da Fabio: ma se uno di loro l'avessi voluta fare
in ogni modo, l'altro non vi aveva se non uno de' tre rimedi; i due sopradetti,
o fuggirsi.
E
che questo che io dico sia vero, si vede manifestamente con mille esempli, e
massime nella guerra che i Romani feciono con Filippo di Macedonia, padre di
Perse: perché Filippo, sendo assaltato dai Romani, deliberò non venire alla
zuffa; e, per non vi venire, volle fare prima come aveva fatto Fabio Massimo in
Italia; e si pose con il suo esercito sopra la sommità d'uno monte, dove si
afforzò assai, giudicando ch'e' Romani non avessero ardire di andare a
trovarlo. Ma, andativi e combattutolo, lo cacciarono di quel monte; ed egli,
non potendo resistere, si fuggì con la maggiore parte delle genti. E quel che
lo salvò che non fu consumato in tutto, fu la iniquità del paese, qual fece che
i Romani non poterono seguirlo. Filippo, adunque, non volendo azzuffarsi, ed
essendosi posto con il campo presso a' Romani, si ebbe a fuggire; ed avendo
conosciuto per questa isperienza, come, non volendo combattere, non gli bastava
stare sopra i monti, e nelle terre non volendo rinchiudersi, deliberò pigliare l'altro
modo, di stare discosto molte miglia al campo romano. Donde, se i Romani erano
in una provincia, e' se ne andava nell'altra, e così sempre, donde i Romani
partivano esso entrava. E veggendo, alla fine, come nello allungare la guerra
per questa via, le sue condizioni peggioravano, e che i suoi suggetti ora da
lui ora dai nimici erano oppressi, deliberò di tentare la fortuna della zuffa;
e così venne con i Romani ad una giornata giusta. È utile adunque non
combattere, quando gli eserciti hanno queste condizioni che aveva lo esercito
di Fabio, e che ora ha quello di Gneo Sulpizio, cioè avere uno esercito sì
buono, che il nimico non ardisca venirti a trovare drento alle fortezze tue; e
che il nimico sia in casa tua sanza avere preso molto piè, dove e' patisca
necessità del vivere. Ed è in questo caso il partito utile, per le ragioni che
dice Tito Livio: «nolens se fortunae committere adversus hostem, quem tempus
deteriorem in dies, et locus alienus, faceret». Ma in ogni altro termine
non si può fuggire giornata, se non con tuo disonore e pericolo. Perché
fuggirsi, come fece Filippo, è come essere rotto; e con più vergogna, quanto
meno si è fatto pruova della tua virtù. E se a lui riuscì salvarsi, non
riuscirebbe ad uno altro che non fussi aiutato dal paese come egli. Che
Annibale non fussi maestro di guerra, alcuno mai non lo dirà ed essendo allo
incontro di Scipione in Affrica, s'egli avessi veduto vantaggio in allungare la
guerra, ei lo arebbe fatto; e per avventura, sendo lui buono capitano, ed
avendo buono esercito, lo arebbe potuto fare, come fece Fabio in Italia: ma non
lo avendo fatto, si debbe credere che qualche cagione importante lo movessi.
Perché uno principe che abbi uno esercito messo insieme, e vegga che per
difetto di danari o d'amici e' non può tenere lungamente tale esercito, è matto
al tutto se non tenta la fortuna innanzi che tale esercito si abbia a
risolvere: perché, aspettando e' perde il certo; tentando, potrebbe vincere.
Un'altra
cosa ci è ancora da stimare assai: la quale è che si debbe, eziandio perdendo,
volere acquistare gloria; e più gloria si ha, ad essere vinto per forza, che
per altro inconveniente che ti abbi fatto perdere. Sì che Annibale doveva
essere constretto da queste necessità. E dall'altro canto, Scipione, quando Annibale
avessi differita la giornata, e non gli fusse bastato l'animo irlo a trovare
ne' luoghi forti, non pativa, per avere di già vinto Siface ed acquistato tante
terre in Affrica, che vi poteva stare sicuro e con commodità come in Italia. Il
che non interveniva ad Annibale, quando era all'incontro di Fabio; né a questi
Franciosi, che erano allo incontro di Sulpizio. Tanto meno ancora può fuggire
la giornata colui che con lo esercito assalta il paese altrui; perché, se vuole
entrare nel paese del nimico, gli conviene, quando il nimico se gli facci
incontro, azzuffarsi seco, e se si pone a campo ad una terra, si obliga tanto
più alla zuffa: come ne' tempi nostri intervenne al duca Carlo di Borgogna,
che, sendo accampato a Moratto, terra de' Svizzeri, fu da' Svizzeri assaltato e
rotto, e come intervenne allo esercito di Francia, che, campeggiando Novara, fu
medesimamente da' Svizzeri rotto.
11
Che
chi ha a fare con assai, ancora che sia inferiore, pure che possa sostenere gli
primi impeti, vince.
La
potenza de' Tribuni della plebe nella città di Roma fu grande; e fu necessaria,
come molte volte da noi è stato discorso, perché altrimenti non si sarebbe
potuto porre freno all'ambizione della Nobilità, la quale arebbe molto tempo
innanzi corrotta quella republica, che la non si corroppe. Nondimeno, perché in
ogni cosa, come altre volte si è detto, è nascoso qualche proprio male, che fa
surgere nuovi accidenti, è necessario a questo con nuovi ordini provvedere.
Essendo, pertanto, divenuta l'autorità tribunizia insolente, e formidabile alla
Nobilità e a tutta Roma, e' ne sarebbe nato qualche inconveniente, dannoso alla
libertà romana, se da Appio Claudio non fosse stato mostro il modo con il quale
si avevano a difendere contro all'ambizione de' Tribuni: il quale fu che
trovarono sempre infra loro qualcuno che fussi, o pauroso, o corrottibile, o
amatore del comune bene; talmente che lo disponevano ad opporsi alla volontà di
quegli altri, che volessono tirare innanzi alcuna deliberazione contro alla
volontà del Senato. Il quale rimedio fu un grande temperamento a tanta
autorità, e per molti tempi giovò a Roma. La quale cosa mi ha fatto considerare
che, qualunche volta e' sono molti potenti uniti contro a un altro potente
ancora che tutti insieme siano molto più potenti di quello, nondimanco si debbe
sempre sperare più in quel solo e men gagliardo che in quelli assai, ancora che
gagliardissimi. Perché, lasciando stare tutte quelle cose delle quali uno solo
si può, più che molti, prevalere (che sono infinite), sempre occorrerà questo:
che potrà, usando un poco d'industria, disunire gli assai; e quel corpo, ch'era
gagliardo, fare debole. Io non voglio in questo addurre antichi esempli, che ce
ne sarebbono assai; ma voglio mi bastino i moderni, seguiti ne' tempi nostri.
Congiurò
nel 1483 tutta Italia contro ai Viniziani; e poiché loro al tutto erano persi,
e non potevano stare più con lo esercito in campagna, corruppono il signor
Lodovico che governava Milano, e per tale corrozione feciono uno accordo, nel
quale non solamente riebbono le terre perse ma usurparono parte dello stato di
Ferrara. E così coloro che perdevano nella guerra, restarono superiori nella
pace. Pochi anni sono, congiurò contro a Francia tutto il mondo: nondimeno,
avanti che si vedesse il fine della guerra, Spagna si ribellò da' confederati,
e fece accordo seco; in modo che gli altri confederati furono constretti, poco
dipoi, ad accordarsi ancora essi. Talché, sanza dubbio, si debbe sempre mai
fare giudicio, quando e' si vede una guerra mossa da molti contro ad uno, che
quello uno abbia a restare superiore, quando sia di tale virtù, che possa
sostenere i primi impeti, e col temporeggiarsi aspettare tempo. Perché, quando
ei non fosse così, porterebbe mille pericoli: come intervenne a' Viniziani
nell'otto, i quali, se avessero potuto temporeggiare con lo esercito francioso,
ed avere tempo a guadagnarsi alcuno di quegli che gli erano collegati contro,
averiano fuggita quella rovina; ma, non avendo virtuose armi da potere
temporeggiare il nimico, e per questo non avendo avuto tempo a separarne
alcuno, rovinarono. Per che si vide che il Papa, riavuto ch'egli ebbe le cose
sue, si fece loro amico, e così Spagna: e molto volentieri l'uno e l'altro di
questi due principi arebbero salvato loro lo stato di Lombardia contro a
Francia, per non la fare sì grande in Italia, se gli avessono potuto. Potevano,
dunque, i Viniziani dare parte per salvare il resto: il che se loro avessono
fatto in tempo che paressi che la non fussi stata necessità, ed innanzi ai moti
della guerra, era savissimo partito; ma in su' moti era vituperoso, e per
avventura di poco profitto. Ma, innanzi a tali moti, pochi in Vinegia de'
cittadini potevano vedere il pericolo, pochissimi vedere il rimedio, e nessuno
consigliarlo. Ma, per tornare al principio di questo discorso, conchiudo: che
così come il Senato romano ebbe rimedio per la salute della patria contro
all'ambizione de' Tribuni, per essere molti, così arà rimedio qualunque
principe che sia assaltato da molti, qualunque volta ei saprà con prudenza
usare termini convenienti a disgiungerli.
12
Come
uno capitano prudente debbe imporre ogni necessità di combattere a' suoi
soldati, e, a quegli degli inimici, torla.
Altre
volte abbiamo discorso quanto sia utile alle umane azioni la necessità, ed a quale
gloria siano sute condutte da quella; e, come da alcuni morali filosofi è stato
scritto, le mani e la lingua degli uomini, duoi nobilissimi instrumenti a
nobilitarlo, non arebbero operato perfettamente, né condotte le opere umane a
quella altezza si veggono condotte, se dalla necessità non fussoro spinte.
Sendo conosciuta, adunque, dagli antichi capitani degli eserciti la virtù di
tale necessità, e quanto per quella gli animi de' soldati diventavono ostinati
al combattere; facevano ogni opera perché i soldati loro fussero constretti da
quella; e, dall'altra parte, usavono ogni industria perché gli nimici se ne
liberassero: e per questo molte volte apersono al nimico quella via che loro
gli potevano chiudere; ed a' suoi soldati propri chiusono quella che potevano
lasciare aperta. Quello, adunque, che desidera o che una città si defenda
ostinatamente, o che uno esercito in campagna ostinatamente combatta, debbe,
sopra ogni altra cosa, ingegnarsi di mettere, ne' petti di chi ha a combattere,
tale necessità. Onde uno capitano prudente, che avesse a andare ad una
espugnazione d'una città, debbe misurare la facilità o la difficultà dello
espugnarla, dal conoscere e considerare quale necessità constringa gli
abitatori di quella a difendersi: e quando vi truovi assai necessità che gli
constringa alla difesa, giudichi la espugnazione difficile; altrimenti, la
giudichi facile. Quinci nasce che le terre, dopo la rebellione, sono più
difficili ad acquistare, che le non sono nel primo acquisto; perché, nel
principio, non avendo cagione di temere di pena, per non avere offeso, si
arrendono facilmente; ma parendo loro, sendosi dipoi ribellate, avere offeso, e
per questo temendo la pena, diventono difficili ad essere espugnate. Nasce
ancora tale ostinazione da e' naturali odii che hanno i principi vicini, e le
republiche vicine, l'uno con l'altro: il che procede da ambizione di dominare e
gelosia del loro stato, massimamente se le sono republiche, come interviene in
Toscana; la quale gara e contenzione ha fatto e farà sempre difficile la
espugnazione l'una dell'altra. Pertanto, chi considera bene i vicini della
città di Firenze ed i vicini della città di Vinegia, non si maraviglierà, come
molti fanno, che Firenze abbia più speso nelle guerre, ed acquistato meno di
Vinegia: perché tutto nasce da non avere avuto i Viniziani le terre vicine sì
ostinate alla difesa, quanto ha avuto Firenze; per essere state tutte le
cittadi finitime a Vinegia use a vivere sotto uno principe, e non libere; e
quegli che sono consueti a servire, stimono molte volte poco il mutare padrone,
anzi molte volte lo desiderano. Talché Vinegia, benché abbia avuto i vicini più
potenti che Firenze, per avere trovato le terre meno ostinate, le ha potuto più
tosto vincere, che non ha fatto quella sendo circundata da tutte città libere.
Debbe adunque uno capitano, per tornare al primo discorso, quando egli assalta
una terra, con ogni diligenza ingegnarsi di levare, a' difensori di quella,
tale necessità, e, per consequenzia, tale ostinazione; promettendo perdono, se
gli hanno paura della pena; e se gli avessono paura della libertà, mostrare di
non andare contro al comune bene, ma contro a pochi ambiziosi della città; la
quale cosa molte volte ha facilitato le imprese e le espugnazioni delle terre.
E benché simili colori sieno facilmente conosciuti, e massime dagli uomini
prudenti; nondimeno vi sono spesso ingannati i popoli, i quali, cupidi della
presente pace, chiuggono gli occhi a qualunque altro laccio che sotto le larghe
promesse si tendesse. E per questa via infinite città sono diventate serve:
come intervenne a Firenze ne' prossimi tempi; e come intervenne a Crasso ed
allo esercito suo: il quale, come che conoscesse le vane promesse de' Parti, le
quali erano fatte per tôrre via la necessità a' suoi soldati del difendersi,
non per tanto non potette tenergli ostinati, accecati dalle offerte della pace
che erano fatte loro da' loro inimici; come si vede particularmente leggendo la
vita di quello. Dico pertanto, che avendo i Sanniti, fuora delle convenzioni
dello accordo, per l'ambizione di pochi, corso e predato sopra i campi de'
confederati romani; ed avendo dipoi mandati imbasciadori a Roma a chiedere
pace, offerendo di ristituire le cose predate, e di dare prigioni gli autori
de' tumulti e della preda; furono ributtati dai Romani. E ritornati in Sannio
sanza speranza di accordo, Claudio Ponzio, capitano allora dello esercito de'
Sanniti, con una sua notabile orazione mostrò come i Romani volevono in ogni
modo guerra, e, benché per loro si desiderasse la pace, necessità gli faceva
seguire la guerra dicendo queste parole: «Iustum est bellum quibus
necessarium, et pia arma quibus nisi in armis spes est»; sopra la quale
necessità egli fondò con gli suoi soldati la speranza della vittoria. E per non
avere a tornare più sopra questa materia, mi pare di addurci quelli esempli
romani che sono più degni di notazione. Era Gaio Manilio con lo esercito,
all'incontro de' Veienti; ed essendo parte dello esercito veientano entrato
dentro agli steccati di Manilio, corse Manilio con una banda al soccorso di
quegli; e perché i Veienti non potessino salvarsi, occupò tutti gli aditi del
campo; donde veggendosi i Veienti rinchiusi, cominciarono a combattere con
tanta rabbia, che gli ammazzarono Manilio; ed arebbero tutto il resto de' Romani
oppressi, se dalla prudenza d'uno Tribuno non fusse stato loro aperta la via ad
andarsene. Dove si vede come, mentre la necessità costrinse i Veienti a
combattere, e' combatterono ferocissimamente; ma quando viddero aperta la via,
pensarono più a fuggire che a combattere.
Erano
entrati i Volsci e gli Equi con gli eserciti loro ne' confini romani. Mandossi
loro allo incontro i Consoli. Talché, nel travagliare la zuffa, lo esercito de'
Volsci, del quale era capo Vezio Messio, si trovò, ad un tratto, rinchiuso
intra gli steccati suoi, occupati dai Romani, e l'altro esercito romano; e
veggendo come gli bisognava o morire o farsi la via con il ferro, disse a' suoi
soldati queste parole: «Ite mecum; non murus nec vallum, armati armatis
obstant; virtute pares, quae ultimum ac maximum telum est, necessitate
superiores estis». Sì che questa necessità è chiamata da Tito Livio «ultimum
ac maximum telum». Cammillo, prudentissimo di tutti i capitani romani,
sendo già dentro nella città de' Veienti con il suo esercito, per facilitare il
pigliare quella, e tôrre ai nimici una ultima necessità di difendersi, comandò,
in modo che i Veienti udirono, che nessuno offendessi quegli che fussono
disarmati; talché, gittate l'armi in terra, si prese quella città quasi sanza
sangue. Il quale modo fu dipoi da molti capitani osservato.
13
Dove
sia più da confidare, o in uno buono capitano che abbia lo esercito debole, o
in uno buono esercito che abbia il capitano debole.
Essendo
diventato Coriolano esule di Roma, se n'andò ai Volsci; dove contratto uno
esercito per vendicarsi contro ai suoi cittadini, se ne venne a Roma; donde
dipoi si partì, più per la piatà della sua madre, che per le forze de' Romani.
Sopra il quale luogo Tito Livio dice, essersi per questo conosciuto, come la Republica
romana crebbe più per la virtù de' capitani che de' soldati; considerato come i
Volsci per lo addietro erano stati vinti, e solo poi avevano vinto che
Coriolano fu loro capitano. E benché Livio tenga tale opinione, nondimeno si
vede in molti luoghi della sua istoria la virtù de' soldati sanza capitano
avere fatto maravigliose pruove, ed essere stati più ordinati e più feroci dopo
la morte de' Consoli loro, che innanzi che morissono: come occorse nello
esercito che i Romani avevano in Ispagna sotto gli Scipioni; il quale, morti i
due capitani, poté, con la virtù sua, non solamente salvare sé stesso, ma
vincere il nimico, e conservare quella provincia alla Republica. Talché,
discorrendo tutto, si troverrà molti esempli, dove solo la virtù de' soldati arà
vinta la giornata; e molti altri, dove solo la virtù de' capitani arà fatto il
medesimo effetto: in modo che si può giudicare, l'uno abbia bisogno dell'altro,
e l'altro dell'uno.
Ècci
bene da considerare, prima, quale sia più da temere, o d'uno buono esercito
male capitanato, o d'uno buono capitano accompagnato da cattivo esercito. E
seguendo in questo la opinione di Cesare, si debbe estimare poco l'uno e
l'altro. Perché, andando egli in Ispagna contro a Afranio e Petreio, che
avevano uno ottimo esercito, disse che gli stimava poco, «quia ibat ad
exercitum sine duce», mostrando la debolezza de' capitani. Al contrario,
quando andò in Tessaglia contro a Pompeio, disse: «Vado ad ducem sine
exercitu».
Puossi
considerare un'altra cosa: a quale è più facile, o ad uno buono capitano fare
uno buono esercito, o ad uno buono esercito fare uno buono capitano. Sopra che
dico che tale questione pare decisa: perché più facilmente molti buoni
troverranno o instruiranno uno, tanto che diventi buono, che non farà uno molti.
Lucullo, quando fu mandato contro a Mitridate, era al tutto inesperto della
guerra; nondimanco quel buono esercito, dove era assai capi ottimi, lo feciono
tosto uno buono capitano. Armorono i Romani, per difetto di uomini, assai
servi, e gli dieno ad esercitare a Sempronio Gracco, il quale in poco tempo
fece uno buon esercito. Pelopida ed Epaminonda, come altrove dicemo, poi che
gli ebbono tratta Tebe loro patria della servitù degli Spartani, in poco tempo
fecero, de' contadini tebani, soldati ottimi, che poterono non solamente
sostenere la milizia spartana ma vincerla. Sì che la cosa è pari, perché l'uno
buono può trovare l'altro. Nondimeno uno esercito buono sanza capo buono suole
diventare insolente e pericoloso; come diventò lo esercito di Macedonia dopo la
morte di Alessandro, e come erano i soldati veterani nelle guerre civili. Tanto
che io credo che sia più da confidare assai in uno capitano che abbi tempo ad
instruire uomini e commodità di armargli, che in uno esercito insolente con uno
capo tumultuario fatto da lui. Però è da addoppiare la gloria e la laude a
quelli capitani che, non solamente hanno avuto a vincere il nimico, ma, prima
che venghino alle mani con quello, è convenuto loro instruire lo esercito loro,
e farlo buono: perché in questi si mostra doppia virtù, e tanto rada, che, se
tale ferità fosse stata data a molti, ne sarebbono stimati e riputati meno
assai che non sono.
14
Le
invenzioni nuove, che appariscono nel mezzo della zuffa, e le voci nuove che si
odino, quali effetti facciano.
Di
quanto momento sia ne' conflitti e nelle zuffe uno nuovo accidente che nasca
per cosa che di nuovo si vegga o oda, si dimostra in assai luoghi: e massime
per questo esemplo che occorse nella zuffa che i Romani fecero con i Volsci:
dove Quinzio, veggendo inclinare uno de' corni del suo esercito, cominciò a
gridare forte, che gli stessono saldi perché l'altro corno dello esercito era
vittorioso: con la quale parola avendo dato animo ai suoi e sbigottimento a'
nimici, vinse. E se tali voci in uno esercito bene ordinato fanno effetti
grandi, in uno tumultuario e male ordinato gli fanno grandissimi, perché il
tutto è mosso da simile vento. Io ne voglio addurre uno esemplo notabile,
occorso ne' tempi nostri. Era la città di Perugia, pochi anni sono, divisa in
due parti, Oddi e Baglioni. Questi regnavano; quelli altri erano esuli: i quali
avendo, mediante loro amici, ragunato esercito, e ridottisi in alcuna loro
terra propinqua a Perugia, con il favore della parte, una notte entrarono in
quella città, e, sanza essere iscoperti, se ne venivano per pigliare la piazza.
E perché quella città in su tutti i canti delle vie ha catene che la tengono
sbarrata, avevano le genti oddesche, davanti, uno che con una mazza di ferro
rompea i serrami di quelle, acciocché i cavagli potessero passare; e
restandogli a rompere solo quella che sboccava in piazza, ed essendo già levato
il romore all'armi, ed essendo colui che rompeva oppresso dalla turba che gli
veniva dietro, né potendo per questo alzare bene le braccia per rompere; per
potersi maneggiare, gli venne detto:
Fatevi indietro! la quale voce
andando di grado in grado dicendo «addietro!», cominciò a fare fuggire gli
ultimi, e di mano in mano gli altri, con tanta furia, che per loro medesimi si
ruppono: e così restò vano il disegno degli Oddi, per cagione di sì debole
accidente.
Dove
è da considerare che, non tanto gli ordini in uno esercito sono necessari per
potere ordinatamente combattere quanto perché ogni minimo accidenti non ti
disordini. Perché, non per altro le moltitudini popolari sono disutili per la
guerra, se non perché ogni romore ogni voce, ogni strepito, gli altera e fagli
fuggire. E però uno buono capitano in tra gli altri suoi ordini debbe ordinare
chi sono quegli che abbino a pigliare la sua voce e rimetterla ad altri, ed
assuefare gli suoi soldati che non credino se non a quelli; e gli suoi
capitani, che non dichino se non quel che da lui è commesso; perché, non
osservata bene questa parte, si è visto molte volte avere fatti disordini
grandissimi.
Quanto
al vedere cose nuove, debbe ogni capitano ingegnarsi di farne apparire alcuna,
mentre che gli eserciti sono alle mani, che dia animo a' suoi e tolgalo agli
inimici; perché, intra gli accidenti che ti diano la vittoria, questo è
efficacissimo. Di che se ne può addurre per testimone Caio Sulpizio, dittatore
romano; il quale venendo a giornata con i Franciosi, armò tutti i saccomanni e
gente vile del campo; e quegli fatti salire sopra i muli ed altri somieri con
armi ed insegne da parere gente a cavallo, gli messe sotto le insegne, dietro
ad uno colle, e comandò che, ad uno segno dato, nel tempo che la zuffa fosse
più gagliarda, si scoprissono e mostrassinsi a' nimici. La quale cosa così
ordinata e fatta, dette tanto terrore ai Franciosi, che perderono la giornata.
E però uno buono capitano debbe fare due cose: l'una, di vedere, con alcune di
queste nuove invenzioni, di sbigottire il nimico; l'altra, di stare preparato
che, essendo fatte dal nimico contro di lui, le possa scoprire, e fargliene
tornare vane. Come fece il re d'India a Semiramis; la quale, veggendo come quel
re aveva buono numero di elefanti, per isbigottirlo, e per mostrargli che
ancora essa n'era copiosa, ne formò assai con cuoia di bufoli e di vacche, e,
quegli messi sopra i cammegli, gli mandò davanti; ma conosciuto da il re lo
inganno, le tornò quel suo disegno, non solamente vano, ma dannoso. Era
Mamerco, dittatore, contro ai Fidenati, i quali, per isbigottire lo esercito
romano, ordinarono che, in su l'ardore della zuffa, uscisse fuori di Fidene
numero di soldati con fuochi in su le lance, acciocché i Romani, occupati dalla
novità della cosa, rompessono intra loro gli ordini. Sopra che è da notare,
che, quando tali invenzioni hanno più del vero che del fitto, si può bene
allora rappresentarle agli uomini, perché, avendo assai del gagliardo, non si
può scoprire così presto la debolezza loro: ma quando le hanno più del fitto
che del vero, è bene, o non le fare o, faccendole, tenerle discosto, di qualità
che le non possino essere così presto scoperte; come fece Caio Sulpizio de'
mulattieri. Perché, quando vi è dentro debolezza, appressandosi, le si
scuoprono tosto, e ti fanno danno, e non favore; come fero gli elefanti a
Semiramis, e ai Fidenati i fuochi: i quali benché nel principio turbassono un poco
lo esercito, nondimeno, come e' sopravenne il Dittatore, e cominciò a
gridargli, dicendo che non si vergognavano a fuggire il fumo come le pecchie, e
che dovessono rivoltarsi a loro; gridando: «Suis flammis delete Fidenas,
quas vestris beneficiis placare non potuistis»; tornò quello trovato ai
Fidenati inutile, e restarono perditori della zuffa.
15
Che
uno e non molti sieno preposti ad uno esercito, e come i più comandatori
offendono.
Essendosi
ribellati i Fidenati, ed avendo morto quella colonia che i Romani avevano
mandata in Fidene, crearono i Romani, per rimediare a questo insulto, quattro
Tribuni con potestà consolare de' quali lasciatone uno alla guardia di Roma, ne
mandarono tre contro ai Fidenati ed i Veienti: i quali, per essere divisi infra
loro e disuniti, ne riportarono disonore, e non danno: perché, del disonore, ne
furono cagione loro; del non ricevere danno, ne fu cagione la virtù de'
soldati. Donde i Romani, veggendo questo disordine, ricorsono alla creazione
del Dittatore, acciocché un solo riordinasse quello che tre avevano
disordinato. Donde si conosce la inutilità di molti comandadori in uno
esercito, o in una terra che si abbia a difendere; e Tito Livio non lo può più
chiaramente dire che con le infrascritte parole: «Tres Tribuni potestate
consulari documento fuere, quam plurium imperium bello inutile esset, tendendo
ad sua quisque consilia, cum alii aliud videretur, aperuerunt ad occasionem
locum hosti».
E
benché questo sia assai esemplo a provare il disordine che fanno nella guerra i
più comandatori, ne voglio addurre alcuno altro, e moderno ed antico, per
maggiore dichiarazione della cosa.
Nel
1500, dopo la ripresa che fece il re di Francia Luigi XII, di Milano, mandò le
sue genti a Pisa per ristituirla ai Fiorentini; dove furono mandati commessari
Giovambatista Ridolfi e Luca di Antonio degli Albizi. E perché Giovambatista
era uomo di riputazione, e di più tempo, Luca al tutto lasciava governare ogni
cosa a lui: e s'egli non dimostrava la sua ambizione con opporsegli, la
dimostrava col tacere, e con lo straccurare e vilipendere ogni cosa, in modo
che non aiutava le azioni del campo né con l'opere né con il consiglio, come se
fusse stato uomo di nessuno momento. Ma si vide poi tutto il contrario; quando
Giovambatista, per certo accidente seguito, se n'ebbe a tornare a Firenze; dove
Luca, rimasto solo, dimostrò quanto con l'animo, con la industria e col
consiglio, valeva: le quali tutte cose, mentre vi fu la compagnia, erano
perdute. Voglio di nuovo addurre, in confermazione di questo, parole di Tito
Livio; il quale, referendo come, essendo mandato da' Romani contro agli Equi
Quinzio ed Agrippa suo collega, Agrippa volle che tutta l'amministrazione della
guerra fosse appresso a Quinzio, e' dice: «Saluberrimum in administratione
magnarum rerum est, summam imperii apud unum esse». Il che è contrario a
quello che oggi fanno queste nostre republiche e principi di mandare ne'
luoghi, per amministrargli meglio, più d'uno commessario e più d'uno capo: il
che fa una inestimabile confusione. E se si cercassi le cagioni della rovina
degli eserciti italiani e franciosi ne' nostri tempi, si troveria la potissima
essere stata questa. E puossi conchiudere veramente, come egli è meglio mandare
in una ispedizione uno uomo solo di comunale prudenzia, che due valentissimi
uomini insieme con la medesima autorità.
16
Che
la vera virtù si va ne' tempi difficili, a trovare; e ne' tempi facili, non gli
uomini virtuosi, ma quegli che per ricchezze o per parentado hanno più grazia.
Egli
fu sempre, e sempre sarà, che gli uomini grandi e rari in una republica, ne'
tempi pacifichi, sono negletti; perché, per la invidia che si ha tirato dietro
la riputazione che la virtù d'essi ha dato loro, si truova in tali tempi assai
cittadini che vogliono, non che essere loro equali, ma essere loro superiori. E
di questo ne è uno luogo buono in Tucidide, istorico greco; il quale mostra
come, sendo la republica ateniese rimasa superiore in la guerra peloponnesiaca,
ed avendo frenato l'orgoglio degli Spartani, e quasi sottomessa tutta l'altra
Grecia, salse in tanta riputazione che la disegnò di occupare la Sicilia. Venne
questa impresa in disputa in Atene. Alcibiade e qualche altro cittadino
consigliavano che la si facesse, come quelli che, pensando poco al bene
publico, pensavono all'onore loro, disegnando essere capi di tale impresa. Ma
Nicia, che era il primo intra i reputati di Atene, la dissuadeva; e la maggiore
ragione che, nel concionare al popolo, perché gli fusse prestato fede,
adducesse, fu questa: che, consigliando esso che non si facesse questa guerra,
e' consigliava cosa che non faceva per lui; perché, stando Atene in pace,
sapeva come vi era infiniti cittadini che gli volevano andare innanzi; ma, faccendosi
guerra, sapeva che nessuno cittadino gli sarebbe superiore o equale.
Vedesi,
pertanto, adunque, come nelle republiche è questo disordine, di fare poca stima
de' valenti uomini, ne' tempi quieti. La quale cosa gli fa indegnare in due
modi: l'uno per vedersi mancare del grado loro; l'altro, per vedersi fare
compagni e superiori uomini indegni e di manco sofficienza di loro. Il quale
disordine nelle republiche ha causato di molte rovine; perché quegli cittadini
che immeritamente si veggono disprezzare, e conoscono che e' ne sono cagione i
tempi facili e non pericolosi, s'ingegnano di turbargli, movendo nuove guerre
in pregiudicio della republica. E pensando quali potessono essere e' rimedi, ce
ne truovo due: l'uno, mantenere i cittadini poveri, acciocché con le ricchezze
sanza virtù e' non potessino corrompere né loro né altri, l'altro, di ordinarsi
in modo alla guerra, che sempre si potesse fare guerra, e sempre si avesse
bisogno di cittadini riputati, come e' Romani ne' suoi primi tempi. Perché,
tenendo fuori quella città sempre eserciti, sempre vi era luogo alla virtù
degli uomini; né si poteva tôrre il grado a uno che lo meritasse, e darlo ad
uno che non lo meritasse: perché, se pure lo faceva qualche volta, per errore o
per provare, ne seguiva tosto tanto suo disordine e pericolo, che la ritornava
subito nella vera via. Ma le altre republiche, che non sono ordinate come
quella, e che fanno solo guerra quando la necessità le costringe, non si
possono difendere da tale inconveniente: anzi sempre v'incorreranno dentro; e
sempre ne nascerà disordine, quando quello cittadino, negletto e virtuoso, sia
vendicativo, ed abbia nella città qualche riputazione e aderenzia. E la città
di Roma uno tempo fece difesa; ma a quella ancora, poiché l'ebbe vinto
Cartagine ed Antioco (come altrove si disse), non temendo più le guerre, pareva
potere commettere gli eserciti a qualunque la voleva; non riguardando tanto
alla virtù, quanto alle altre qualità che gli dessono grazia nel popolo. Perché
si vide che Paulo Emilio ebbe più volte la ripulsa nel consolato, né fu prima
fatto consolo che surgesse la guerra macedonica; la quale giudicandosi
pericolosa, di consenso di tutta la città fu commessa a lui.
Sendo
nella nostra città di Firenze seguite dopo il 1494 di molte guerre, ed avendo
fatto i cittadini fiorentini tutti una cattiva pruova, si riscontrò a sorte la
città in uno che mostrò come si aveva a comandare agli eserciti; il quale fu
Antonio Giacomini. E mentre che si ebbe a fare guerre pericolose, tutta
l'ambizione degli altri cittadini cessò, e nella elezione del commessario e
capo degli eserciti non aveva competitore alcuno; ma come si ebbe a fare una
guerra dove non era alcuno dubbio, ed assai onore e grado, e' vi trovò tanti
competitori, che, avendosi ad eleggere tre commessari per campeggiare Pisa, e'
fu lasciato indietro. E benché e' non si vedesse evidentemente che male ne
seguisse al publico per non vi avere mandato Antonio, nondimeno se ne potette
fare facilissima coniettura; perché, non avendo più i Pisani da defendersi né
da vivere, se vi fusse stato Antonio, sarebbero stati tanto innanzi stretti,
che si sarebbero dati a discrezione de' Fiorentini. Ma, sendo loro assediati da
capi che non sapevano né stringergli né sforzargli, furono tanto intrattenuti
che la città di Firenze gli comperò, dove la gli poteva avere a forza. Convenne
che tale sdegno potesse assai in Antonio; e bisognava ch'e' fussi bene paziente
e buono, a non disiderare di vendicarsene, o con la rovina della città,
potendo, o con l'ingiuria di alcuno particulare cittadino. Da che si debbe una
republica guardare; come nel seguente capitolo si discorrerà.
17
Che
non si offenda uno, e poi quel medesimo si mandi in amministrazione e governo
d'importanza.
Debbe
una republica assai considerare di non preporre alcuno ad alcuna importante
amministrazione, al quale sia stato fatto da altri alcuna notabile ingiuria.
Claudio Nerone, il quale si partì dallo esercito che lui aveva a fronte ad
Annibale, e con parte d'esso ne andò nella Marca, a trovare l'altro Consolo per
combattere con Asdrubale avanti ch'e' si congiugnesse con Annibale, s'era
trovato per lo addietro in Ispagna a fronte di Asdrubale, ed avendolo serrato
in luogo con lo esercito, che bisognava o che Asdrubale combattesse con suo
disavvantaggio o si morisse di fame, fu da Asdrubale astutamente tanto
intrattenuto con certe pratiche d'accordo, che gli uscì di sotto, e tolsegli
quella occasione di oppressarlo. La quale cosa, saputa a Roma, gli dette carico
grande appresso a il Senato ed al popolo; e di lui fu parlato inonestamente per
tutta quella città, non sanza suo grande disonore e disdegno. Ma, sendo poi
fatto Consolo, e mandato allo incontro di Annibale, prese il soprascritto
partito, il quale fu pericolosissimo, talmente che Roma stette tutta dubbia e
sollevata infino a tanto che vennono le nuove della rotta di Asdrubale. Ed
essendo poi domandato Claudio, per quale cagione avesse preso sì pericoloso
partito, dove sanza una estrema necessità egli aveva giucato quasi la libertà
di Roma; rispose che lo aveva fatto perché sapeva che, se gli riusciva,
riacquistava quella gloria che si aveva perduta in Ispagna; e se non gli
riusciva, e che questo suo partito avesse avuto contrario fine, sapeva come e'
si vendicava contro a quella città ed a quegli cittadini che lo avevano tanto
ingratamente ed indiscretamente offeso. E quando queste passioni di tali offese
possono tanto in uno cittadino romano, e in quegli tempi che Roma ancora era
incorrotta, si debbe pensare quanto elle possano in uno cittadino d'un'altra città
che non sia fatta come era allora quella. E perché a simili disordini che
nascano nelle republiche non si può dare certo rimedio, ne seguita che gli è
impossibile ordinare una republica perpetua, perché per mille inopinate vie si
causa la sua rovina.
18
Nessuna
cosa è più degna d'uno capitano, che presentire i partiti del nimico.
Diceva
Epaminonda tebano, nessuna cosa essere più necessaria e più utile ad uno
capitano, che conoscere le diliberazioni e' partiti del nimico. E perché tale
cognizione è difficile, merita tanto più laude quello che adopera in modo che
le coniettura. E non tanto è difficile intendere i disegni del nimico, ch'egli
è qualche volta difficile intendere le azioni sue; e non tanto le azioni che
per lui si fanno discosto, quanto le presenti e le propinque. Perché molte
volte è accaduto che, sendo durata una zuffa infino a notte, chi ha vinto crede
avere perduto, e chi ha perduto crede avere vinto. Il quale errore ha fatto
diliberare cose contrarie alla salute di colui che ha diliberato: come
intervenne a Bruto e Cassio, i quali per questo errore perderono la guerra;
perché, avendo vinto Bruto dal corno suo, credette Cassio, che aveva perduto,
che tutto lo esercito fusse rotto; e disperatosi, per questo errore, della
salute, ammazzò sé stesso. Ne' nostri tempi, nella giornata che fece in
Lombardia, a Santa Cecilia, Francesco re di Francia, con i Svizzeri,
sopravvenendo la notte, credettero, quella parte de' Svizzeri che erano rimasti
interi, avere vinto, non sappiendo di quegli che erano stati rotti e morti: il
quale errore fece che loro medesimi non si salvarono, aspettando di
ricombattere la mattina con tanto loro disavantaggio; e fecero anche errare, e
per tale errore presso che rovinare, lo esercito del Papa e di Ispagna, il quale,
in su la falsa nuova della vittoria, passò il Po, e, se procedeva troppo
innanzi, restava prigione de' Franciosi che erano vittoriosi.
Questo
simile errore occorse ne' campi romani e in quegli degli Equi. Dove, sendo
Sempronio consolo con lo esercito allo incontro degl'inimici, ed appiccandosi
la zuffa, si travagliò quella giornata infino a sera, con varia fortuna
dell'uno e dell'altro: e venuta la notte, sendo l'uno e l'altro esercito mezzo
rotto, non ritornò alcuno di loro ne' suoi alloggiamenti; anzi ciascuno si
ritrasse ne' prossimi colli, dove credevano essere più sicuri; e lo esercito
romano si divise in due parti: l'una ne andò col Console; l'altra, con uno
Tempanio centurione, per la virtù del quale lo esercito romano quel giorno non
era stato rotto interamente. Venuta la mattina, il Consolo romano, sanza
intendere altro de' nimici, si tirò verso Roma; il simile fece lo esercito
degli Equi: perché ciascuno di questi credeva che il nimico avesse vinto, e
però ciascuno si ritrasse sanza curare di lasciare i suoi alloggiamenti in
preda. Accadde che Tempanio, ch'era con il resto dello esercito romano,
ritirandosi ancora esso, intese, da certi feriti degli Equi, come i capitani
loro s'erano partiti, ed avevano abbandonati gli alloggiamenti: donde che egli,
in su questa nuova, se n'entrò negli alloggiamenti romani, e salvogli; e dipoi
saccheggiò quegli degli Equi, e se ne tornò a Roma vittorioso. La quale
vittoria come si vede, consisté solo in chi prima di loro intese i disordini
del nimico. Dove si debbe notare, come e' può spesso occorrere che due
eserciti, che siano a fronte l'uno dell'altro, siano nel medesimo disordine, e
patischino le medesime necessità; e che quello resti poi vincitore che è il
primo ad intendere le necessità dello altro.
Io
voglio dare di questo uno esemplo domestico e moderno. Nel 1498, quando i
Fiorentini avevano uno esercito grosso in quel di Pisa, e stringevano forte
quella città; della quale avendo i Viniziani presa la protezione, non veggendo
altro modo a salvarla, diliberarono di divertire quella guerra, assaltando da
un'altra banda il dominio di Firenze; e, fatto uno esercito potente, entrarono
per la Val di Lamona, ed occuparono il borgo di Marradi, ed assediarono la
rocca di Castiglione, che è in sul colle di sopra. Il che sentendo i
Fiorentini, diliberarono soccorrere Marradi, e non diminuire le forze avevano
in quel di Pisa; e fatte nuove fanterie, ed ordinate nuove genti a cavallo, le
mandarono a quella volta: delle quali ne furono capi Iacopo IV d'Appiano,
signore di Piombino, ed il conte Rinuccio da Marciano. Sendosi adunque,
condotte queste genti in su il colle sopra Marradi, si levarono i nimici
d'intorno a Castiglione, e ridussersi tutti nel borgo. Ed essendo stato l'uno e
l'altro di questi due eserciti a fronte qualche giorno, pativa l'uno e l'altro
assai e di vettovaglie e d'ogni altra cosa necessaria: e non avendo ardire
l'uno d'affrontare l'altro, né sappiendo i disordini l'uno dell'altro,
deliberarono in una sera medesima l'uno e l'altro di levare gli alloggiamenti
la mattina vegnente, e ritirarsi in dietro; il Viniziano verso Bersighella e
Faenza, il Fiorentino verso Casaglia e il Mugello. Venuta adunque la mattina,
ed avendo ciascuno de' campi incominciato ad avviare i suoi impedimenti; a caso
una donna si partì del borgo di Marradi, e venne verso il campo fiorentino,
sicura per la vecchiezza e per la povertà, desiderosa di vedere certi suoi che
erano in quel campo: dalla quale intendendo i capitani delle genti fiorentine,
come il campo viniziano partiva, si fecero, in su questa nuova, gagliardi; e
mutato consiglio, come se gli avessono disalloggiati i nimici, ne andarono
sopra di loro, e scrissero a Firenze avergli ributtati e vinta la guerra. La
quale vittoria non nacque da altro che dallo avere inteso prima dei nimici come
e' se n'andavano: la quale notizia, se fusse prima venuta dall'altra parte,
arebbe fatto contro a' nostri il medesimo effetto.
19
Se
a reggere una moltitudine è più necessario l'ossequio che la pena.
Era
la Republica romana sollevata per le inimicizie de' nobili e de' plebei:
nondimeno, soprastando loro la guerra, mandarono fuori con gli eserciti Quinzio
ed Appio Claudio. Appio, per essere crudele e rozzo nel comandare, fu male
ubidito da' suoi, tanto che quasi rotto si fuggì della sua provincia; Quinzio,
per essere benigno e di umano ingegno ebbe i suoi soldati ubbidienti, e
riportonne la vittoria. Donde e' pare che e' sia meglio, a governare una
moltitudine, essere umano che superbo, pietoso che crudele. Nondimeno, Cornelio
Tacito, al quale molti altri scrittori acconsentano in una sua sentenza
conchiude il contrario, quando ait: «In multitudine regenda plus poena quam
obsequium valet». E considerando come si possa salvare l'una e l'altra di
queste opinioni dico: o che tu hai a reggere uomini che ti sono per l'ordinario
compagni, o uomini che ti sono sempre suggetti. Quando ti sono compagni, non si
può interamente usare la pena, né quella severità di che ragiona Cornelio; e
perché la plebe romana aveva in Roma equale imperio con la Nobilità, non poteva
uno, che ne diventava principe a tempo, con crudeltà e rozzezza maneggiarla. E
molte volte si vide che migliore frutto fecero i capitani romani che si
facevano amare dagli eserciti, e che con ossequio gli maneggiavano, che quegli
che si facevano istraordinariamente temere; se già e' non erano accompagnati da
una eccessiva virtù, come fu Manlio Torquato. Ma chi comanda a' sudditi, de'
quali ragiona Cornelio, acciocché non doventino insolenti, e che per troppa tua
facilità non ti calpestino, debbe volgersi più tosto alla pena che
all'ossequio. Ma questa anche debbe essere in modo moderata, che si fugga
l'odio; perché farsi odiare non tornò mai bene ad alcuno principe. Il modo del
fuggirlo è lasciare stare la roba de' sudditi: perché del sangue, quando non vi
sia sotto ascosa la rapina, nessuno principe ne è desideroso, se non
necessitato, e questa necessità viene rade volte; ma, sendovi mescolata la
rapina viene sempre, né mancano mai le cagioni ed il desiderio di spargerlo;
come in altro trattato sopra questa materia si è largamente discorso. Meritò
adunque, più laude Quinzio che Appio, e la sentenza di Cornelio, dentro ai
termini suoi, e non ne' casi osservati di Appio, merita d'essere approvata. E
perché noi abbiamo parlato della pena e dell'ossequio non mi pare superfluo
mostrare, come uno esemplo di umanità poté appresso i Falisci più che l'armi.
20
Uno
esemplo di umanità appresso i Falisci potette più che ogni forza romana.
Essendo
Cammillo con lo esercito intorno alla città de' Falisci, e quella assediando,
uno maestro di scuola de' più nobili fanciulli di quella città, pensando di
gratificarsi Cammillo ed il popolo romano, sotto colore di esercizio uscendo
con quegli fuori della terra, gli condusse tutti nel campo innanzi a Cammillo,
e presentandogli, disse, come, mediante loro quella terra si darebbe nelle sue
mani. Il quale presente non solamente non fu accettato da Cammillo; ma, fatto
spogliare quel maestro, e legatogli le mani di dietro, e dato a ciascuno di
quegli fanciulli una verga in mano, lo fece da quegli con di molte battiture
accompagnare nella terra. La quale cosa intesa da quegli cittadini, piacque
tanto loro la umanità ed integrità di Cammillo, che, sanza volere più
difendersi, diliberarono di darli la terra. Dove è da considerare, con questo
vero esemplo, quanto qualche volta possa più negli animi degli uomini uno atto
umano e pieno di carità, che uno atto feroce e violento; e come molte volte
quelle provincie e quelle città che le armi, gl'instrumenti bellici ed ogni
altra umana forza non ha potuto aprire, uno esemplo di umanità e di piatà, di
castità o di liberalità, ha aperte. Di che ne sono nelle istorie, oltre a
questo, molti altri esempli. E vedesi come l'armi romane non potevano cacciare
Pirro d'Italia, e ne lo cacciò la liberalità di Fabrizio, quando gli manifestò
l'offerta che aveva fatta ai Romani quello suo familiare, di avvelenarlo.
Vedesi ancora, come a Scipione Affricano non dette tanta riputazione in Ispagna
la espugnazione di Cartagine Nuova, quanto gli dette quello esemplo di castità,
di avere renduto la moglie, giovane, bella, ed intatta al suo marito; la fama
della quale azione gli fece amica tutta la Ispagna. Vedesi ancora, questa parte
quanto la sia desiderata da' popoli negli uomini grandi, e quanto sia laudata
dagli scrittori; e da quegli che descrivano la vita de' principi, e da quegli
che ordinano come ei debbano vivere. Intra i quali Senofonte si affatica assai
in dimostrare quanti onori, quante vittorie, quanta buona fama arrecasse a Ciro
lo essere umano ed affabile, e non dare alcuno esemplo di sé, né di superbo, né
di crudele, né di lussurioso né di nessuno altro vizio che macchi la vita degli
uomini. Pure nondimeno, veggendo Annibale, con modi contrari a questi, avere
conseguito gran fama e gran vittorie, mi pare da discorrere, nel seguente
capitolo, donde questo nasca.
21
Donde
nacque che Annibale, con diverso modo di procedere da Scipione fece quelli
medesimi effetti in Italia che quello in Ispagna.
Io
estimo che alcuni si potrebbono maravigliare veggendo come qualche capitano,
nonostante ch'egli abbia tenuto contraria vita, abbia nondimeno fatti simili
effetti a coloro che sono vissuti nel modo soprascritto: talché pare che la
cagione delle vittorie non dependa dalle predette cause; anzi pare che quelli
modi non ti rechino né più forza né più fortuna, potendosi per contrari modi
acquistare gloria e riputazione. E per non mi partire dagli uomini
soprascritti, e per chiarire meglio quello che io ho voluto dire, dico come e'
si vede Scipione entrare in Ispagna, e con quella sua umanità e piatà subito
farsi amica quella provincia, ed adorare ed ammirare da' popoli. Vedesi, allo
incontro, entrare Annibale in Italia, e con modi tutti contrari, cioè con
crudeltà, violenza e rapina ed ogni ragione infideltà, fare il medesimo effetto
che aveva fatto Scipione in Ispagna; perché, a Annibale, si ribellarono tutte
le città d'Italia, tutti i popoli lo seguirono. E pensando donde questa cosa
possa nascere, ci si vede dentro più ragioni. La prima è, che gli uomini sono desiderosi
di cose nuove; in tanto che così disiderano il più delle volte novità quegli
che stanno bene, come quegli che stanno male: perché, come altra volta si
disse, ed è il vero, gli uomini si stuccono nel bene, e nel male si affliggano.
Fa, adunque, questo desiderio aprire le porte a ciascuno che in una provincia
si fa capo d'una innovazione; e s'egli è forestiero, gli corrono dietro; s'egli
è provinciale, gli sono intorno, augumentanlo e favorisconlo: talmenteché, in
qualunque modo elli proceda, gli riesce il fare progressi grandi in quegli
luoghi. Oltre a questo, gli uomini sono spinti da due cose principali; o dallo
amore, o dal timore: talché, così gli comanda chi si fa amare, come lui che si
fa temere; anzi, il più delle volte è più seguito e più ubbidito chi si fa
temere che chi si fa amare.
Importa,
pertanto, poco ad uno capitano, per qualunque di queste vie e' si cammini, pure
che sia uomo virtuoso, e che quella virtù lo faccia riputato intra gli uomini.
Perché, quando la è grande, come la fu in Annibale ed in Scipione, ella
cancella tutti quegli errori che si fanno per farsi troppo amare o per farsi
troppo temere. Perché dall'uno e dall'altro di questi due modi possono nascere
inconvenienti grandi, ed atti a fare rovinare uno principe: perché colui che
troppo desidera essere amato, ogni poco che si parte dalla vera via, diventa
disprezzabile: quell'altro che desidera troppo di essere temuto, ogni poco
ch'egli eccede il modo, diventa odioso. E tenere la via del mezzo non si può
appunto, perché la nostra natura non ce lo consente: ma è necessario queste
cose che eccedono mitigare con una eccessiva virtù, come faceva Annibale e
Scipione. Nondimeno si vide come l'uno e l'altro furono offesi da questi loro
modi di vivere, e così furono esaltati.
La
esaltazione di tutti a due si è detta. L'offesa, quanto a Scipione, fu che gli
suoi soldati in Ispagna se gli ribellarono, insieme con parte de' suoi amici:
la quale cosa non nacque da altro che da non lo temere; perché gli uomini sono
tanto inquieti, che, ogni poco di porta che si apra loro all'ambizione,
dimenticano subito ogni amore che gli avessero posto al principe per la umanità
sua; come fecero i soldati ed amici predetti: tanto che Scipione, per rimediare
a questo inconveniente, fu costretto usare parte di quella crudeltà che elli
aveva fuggita. Quanto ad Annibale, non ci è esemplo alcuno particulare, dove
quella sua crudeltà e poca fede gli nocesse: ma si può bene presupporre che
Napoli, e molte altre terre che stettero in fede del popolo romano, stessero
per paura di quella. Viddesi bene questo che quel suo modo di vivere impio, lo
fece più odioso al popolo romano, che alcuno altro inimico che avesse mai
quella Republica: in modo che, dove a Pirro mentre che egli era con lo esercito
in Italia, manifestarono quello che lo voleva avvelenare, ad Annibale mai,
ancora che disarmato e disperso, perdonarono, tanto che lo fecioro morire.
Nacquene, adunque, ad Annibale, per essere tenuto impio e rompitore di fede e
crudele, queste incommodità; ma gliene risultò allo incontro una commodità
grandissima, la quale è ammirata da tutti gli scrittori: che, nel suo esercito,
ancoraché composto di varie generazioni di uomini, non nacque mai alcuna
dissensione, né infra loro medesimi, né contro di lui. Il che non potette dirivare
da altro, che dal terrore che nasceva dalla persona sua: il quale era tanto
grande, mescolato con la riputazione che gli dava la sua virtù, che teneva i
suoi soldati quieti ed uniti. Conchiudo, dunque, come e' non importa molto in
quale modo uno capitano si proceda, pure che in esso sia virtù grande che
condisca bene l'uno e l'altro modo di vivere: perché, come è detto, nell'uno e
nell'altro è difetto e pericolo, quando da una virtù istraordinaria non sia
corretto. E se Annibale e Scipione, l'uno con cose laudabili, l'altro con
detestabili, feciono il medesimo effetto; non mi pare da lasciare indietro il
discorrere ancora di due cittadini romani, che conseguirono con diversi modi,
ma tutti a due laudabili, una medesima gloria.
22
Come
la durezza di Manlio Torquato e la comità di Valerio Corvino acquistò a
ciascuno la medesima gloria.
E'
furno in Roma in uno medesimo tempo due capitani eccellenti, Manlio Torquato e
Valerio Corvino; i quali, di pari virtù, di pari trionfi e gloria, vissono in
Roma, e ciascuno di loro, in quanto si apparteneva al nimico, con pari virtù
l'acquistarono, ma quanto si apparteneva agli eserciti ed agl'intrattenimenti
de' soldati, diversissimamente procederono: perché Manlio con ogni generazione
di severità sanza intermettere a' suoi soldati o fatica o pena, gli comandava:
Valerio, dall'altra parte, con ogni modo e termine umano, e pieno di una
familiare domestichezza, gl'intratteneva. Per che si vide, che, per avere
l'ubbidienza de' soldati, l'uno ammazzò il figliuolo, e l'altro non offese mai
alcuno. Nondimeno, in tanta diversità di procedere, ciascuno fece il medesimo
frutto, e contro a' nimici ed in favore della republica e suo. Perché nessuno
soldato non mai o detrattò la zuffa o si ribellò da loro o fu, in alcuna parte,
discrepante dalla voglia di quegli; quantunque gl'imperi di Manlio fussero sì
aspri, che tutti gli altri imperi che eccedevano il modo, erano chiamati
«manliana imperia». Dove è da considerare, prima, donde nacque che Manlio fu
costretto procedere sì rigidamente; l'altro, donde avvenne che Valerio potette
procedere sì umanamente l'altro, quale cagione fe' che questi diversi modi
facessero il medesimo effetto; ed in ultimo, quale sia di loro meglio, e,
imitare, più utile. Se alcuno considera bene la natura di Manlio d'allora che
Tito Livio ne comincia a fare menzione, lo vedrà uomo fortissimo, pietoso verso
il padre e verso la patria, e reverentissimo a' suoi maggiori. Queste cose si
conoscono dalla morte di quel Francioso, dalla difesa del padre contro al
Tribuno; e come, avanti ch'egli andasse alla zuffa del Francioso, e' n'andò al
Consolo con queste parole: «Iniussu tuo adversus hostem nunquam pugnabo, non
si certam victoriam videam».
Venendo,
dunque, un uomo così fatto a grado che comandi, desidera di trovare tutti gli
uomini simili a sé; e l'animo suo forte gli fa comandare cose forti; e quel
medesimo, comandate che le sono, vuole si osservino. Ed è una regola verissima,
che, quando si comanda cose aspre, conviene con asprezza farle osservare;
altrimenti, te ne troverresti ingannato. Dove è da notare, che a volere essere
ubbidito, è necessario saper comandare: e coloro sanno comandare, che fanno
comparazione dalle qualità loro a quelle di chi ha ad ubbidire; e quando vi
veggono proporzione, allora comandino; quando sproporzione, se ne astenghino.
E
però diceva un uomo prudente, che, a tenere una republica, con violenza,
conveniva fusse proporzione da chi sforzava a quel che era sforzato. E
qualunque volta questa proporzione vi era, si poteva credere che quella
violenza fusse durabile; ma quando il violentato fusse più forte che il
violentante, si poteva dubitare che ogni giorno quella violenza cessasse. Ma
tornando al discorso nostro, dico che, a comandare le cose forti, conviene
essere forte; e quello che è di questa fortezza e che le comanda, non può poi
con dolcezza farle osservare. Ma chi non è di questa fortezza d'animo, si debbe
guardare dagl'imperi istraordinari, e negli ordinari può usare la sua umanità.
Perché le punizioni ordinarie non sono imputate al principe, ma alle leggi ed a
quegli ordini. Debbesi, dunque, credere che Manlio fusse costretto procedere sì
rigidamente dagli straordinari suoi imperi, a' quali lo inclinava la sua
natura: i quali sono utili in una republica, perché e' riducono gli ordini di
quella verso il principio loro, e nella sua antica virtù. E se una republica
fusse sì felice, ch'ella avesse spesso, come di sopra dicemo, chi con lo
esemplo suo le rinnovasse le leggi; e non solo la ritenesse che la non corresse
alla rovina, ma la ritirasse indietro; la sarebbe perpetua. Sì che Manlio fu
uno di quelli che con l'asprezza de' suoi imperi ritenne la disciplina militare
in Roma; costretto prima dalla natura sua, dipoi dal desiderio aveva, si
osservasse quello che il suo naturale appetito gli aveva fatto ordinare.
Dall'altro canto, Valerio potette procedere umanamente, come colui a cui
bastava si osservassono le cose consuete osservarsi negli eserciti romani. La
quale consuetudine, perché era buona, bastava ad onorarlo; e non era faticosa a
osservarla, e non necessitava Valerio a punire i transgressori: sì perché non
ve n'era; sì perché, quando e' ve ne fosse stati, imputavano, come è detto, la
punizione loro agli ordini e non alla crudeltà del principe. In modo che, Valerio
poteva fare nascere da lui ogni umanità, dalla quale ei potesse acquistare
grado con i soldati, e la contentezza loro. Donde nacque che, avendo l'uno e
l'altro la medesima ubbidienza, potettono, diversamente operando, fare il
medesimo effetto. Possono quelli che volessero imitare costoro, cadere in
quelli vizi di dispregio e di odio che io dico, di sopra, di Annibale e di
Scipione: il che si fugge con una virtù eccessiva che sia in te, e non
altrimenti.
Resta
ora a considerare quale di questi modi di procedere sia più laudabile. Il che
credo sia disputabile, perché gli scrittori lodano l'uno modo e l'altro.
Nondimeno, quegli che scrivono come uno principe si abbia a governare, si
accostano più a Valerio che a Manlio; e Senofonte, preallegato da me, dando di
molti esempli della umanità di Ciro, si conforma assai con quello che dice di
Valerio, Tito Livio. Perché, essendo fatto Consolo contro ai Sanniti, e venendo
il dì che doveva combattere, parlò a' suoi soldati con quella umanità con la
quale ei si governava; e dopo tale parlare, Tito Livio dice quelle parole: «Non
alias militi familiarior dux fuit, inter infimos milites omnia haud gravate
mundia obeundo. In ludo praeterea militari, cum velocitatis viriumque inter se
aequales certamina ineunt, comiter facilis vincere ac vinci vultu eodem; nec
quemquam aspernari parem qui se offerret; factis benignus pro re; dictis haud
minus libertatis alienae, quam suae dignitatis memor; et (quo nihil popularius
est) quibus artibus petierat magistratus, iisdem gerebat». Parla
medesimamente, di Manlio, Tito Livio onorevolmente, mostrando che la sua
severità nella morte del figliuolo fece tanto ubbidiente lo esercito al
Consolo, che fu cagione della vittoria che il popolo romano ebbe contro ai
Latini; ed in tanto procede in laudarlo, che, dopo tale vittoria, descritto
ch'egli ha tutto l'ordine di quella zuffa, e mostri tutti i pericoli che il
popolo romano vi corse, e le difficultà che vi furono a vincere fa questa
conclusione: che solo la virtù di Manlio dette quella vittoria ai Romani. E
faccendo comparazione delle forze dell'uno e dell'altro esercito, afferma come
quella parte arebbe vinto che avesse avuto per consolo Manlio. Talché
considerato tutto quello che gli scrittori ne parlano, sarebbe difficile
giudicarne. Nondimeno, per non lasciare questa parte indecisa, dico come in uno
cittadino che viva sotto le leggi d'una republica, credo sia più laudabile e
meno pericoloso il procedere di Manlio: perché questo modo tutto è in favore
del publico, e non risguarda in alcuna parte all'ambizione privata; perché tale
modo non si può acquistare partigiani, mostrandosi sempre aspro a ciascuno, ed
amando solo il bene commune; perché chi fa questo, non si acquista particulari
amici, quali noi chiamiamo, come di sopra si disse, partigiani. Talmenteché,
simile modo di procedere non può essere più utile né più disiderabile in una
republica; non mancando in quello la utilità publica, e non vi potendo essere
alcun sospetto della potenza privata. Ma nel modo del procedere di Valerio è il
contrario: perché, se bene in quanto al publico si fanno e' medesimi effetti,
nondimeno vi surgono molte dubitazioni per la particulare benivolenza che colui
si acquista con i soldati, da fare in uno lungo imperio cattivi effetti contro
alla libertà.
E
se in Publicola questi cattivi effetti non nacquono, ne fu cagione non essere
ancora gli animi de' Romani corrotti, e quello non essere stato lungamente e
continovamente al governo loro. Ma se noi abbiamo a considerare uno principe,
come considera Senofonte, noi ci accostereno al tutto a Valerio, e lasceremo
Manlio perché uno principe debbe cercare ne' soldati e ne' sudditi l'ubbidienza
e lo amore. La ubbidienza gli dà lo essere osservatore degli ordini e lo essere
tenuto virtuoso; lo amore gli dà l'affabilità, l'umanità, la piatà, e l'altre
parti che erano in Valerio, e che Senofonte scrive essere in Ciro. Perché lo
essere uno principe bene voluto particularmente, ed avere lo esercito suo
partigiano, si conforma con tutte l'altre parti dello stato suo: ma in uno
cittadino che abbia lo esercito suo partigiano, non si conforma già questa
parte con l'altre sue parti, che lo hanno a fare vivere sotto le leggi ed
ubidire ai magistrati.
Leggesi
intra le cose antiche della Republica viniziana, come, essendo le galee
viniziane tornate in Vinegia, e venendo certa differenza intra quegli delle
galee ed il popolo, donde si venne al tumulto ed all'armi, né si potendo la
cosa quietare né per forza di ministri né per riverenza di cittadini né timore
de' magistrati; subito a quelli marinai apparve innanzi uno gentiluomo che era,
l'anno davanti, stato capitano loro, per amore di quello si partirono, e
lasciarono la zuffa. La quale ubbidienza generò tanta suspizione al Senato,
che, poco tempo dipoi, i Viniziani, o per prigione o per morte, se ne
assicurarono.
Conchiudo
pertanto, il procedere di Valerio essere utile in uno principe e pernizioso in
uno cittadino; non solamente alla patria, ma a sé a lei, perché quelli modi
preparano la via alla tirannide; a sé, perché in sospettando la sua città del
modo del procedere suo è costretta assicurarsene con suo danno. E così, per il
contrario, affermo il procedere di Manlio in uno principe essere dannoso, ed in
uno cittadino utile, e massime alla patria: ed ancora rade volte offende; se
già questo odio che ti reca la tua severità, non è accresciuto da sospetto che
l'altre tue virtù per la gran riputazione ti arrecassono: come, di sotto, di
Cammillo si discorrerà.
23
Per
quale cagione Cammillo fusse cacciato di Roma.
Noi
abbiamo conchiuso di sopra, come, procedendo come Valerio, si nuoce alla patria
ed a sé; e, procedendo come Manlio, si giova alla patria, e nuocesi qualche
volta a sé. Il che si pruova assai bene per lo esemplo di Cammillo, il quale
nel procedere suo simigliava più tosto Manlio che Valerio. Donde Tito Livio,
parlando di lui, dice, come «eius virtutem milites oderant, et mirabantur».
Quello che lo faceva tenere maraviglioso era la sollicitudine, la prudenza, la
grandezza dello animo, il buon ordine che lui servava nello adoperarsi, e nel
comandare agli eserciti: quello che lo faceva odiare, era essere più severo nel
gastigargli che liberale nel rimunerargli. E Tito Livio ne adduce di questo
odio queste cagioni: la prima, che i danari che si trassono de' beni de'
Veienti che si venderono, esso gli applicò al publico, e non gli divise con la
preda: l'altra, che nel trionfo ei fece tirare il suo carro trionfale da
quattro cavagli bianchi, dove essi dissero che per la superbia e' si era voluto
agguagliare al Sole: la terza, che ei fece voto di dare a Apolline la decima
parte della preda de' Veienti, la quale, volendo sodisfare al voto, si aveva a
trarre delle mani de' soldati che l'avevano di già occupata. Dove si notano
bene e facilmente quelle cose che fanno uno principe odioso appresso il popolo;
delle quali la principale è privarlo d'uno utile. La quale è cosa d'importanza
assai, perché le cose che hanno in sé utilità, quando l'uomo n'è privo, non le
dimentica mai, ed ogni minima necessità te ne fa ricordare; e perché le necessità
vengono ogni giorno, tu te ne ricordi ogni giorno. L'altra cosa è lo apparire
superbo ed enfiato; il che non può essere più odioso a' popoli, e massime a'
liberi. E benché da quella superbia e da quel fasto non ne nascesse loro alcuna
incommodità, nondimeno hanno in odio chi l'usa: da che uno principe si debbe
guardare come da uno scoglio: perché tirarsi odio addosso senza suo profitto, è
al tutto partito temerario e poco prudente.
24
La
prolungazione degl'imperii fece serva Roma.
Se
si considera bene il procedere della Republica romana, si vedrà due cose essere
state cagione della risoluzione di quella Republica: l'una furon le contenzioni
che nacquono dalla legge agraria; l'altra, la prolungazione degli imperii: le
quali cose se fussono state conosciute bene da principio, e fattovi i debiti
rimedi, sarebbe stato il vivere libero più lungo, e per avventura più quieto. E
benché, quanto alla prolungazione dello imperio, non si vegga che in Roma
nascessi mai alcuno tumulto; nondimeno si vide in fatto, quanto nocé alla città
quella autorità che i cittadini per tali diliberazioni presono. E se gli altri
cittadini a chi era prorogato il magistrato, fussono stati savi e buoni come fu
Lucio Quinzio, non si sarebbe incorso in questo inconveniente. La bontà del
quale è di uno esemplo notabile, perché, essendosi fatto intra la Plebe ed il
Senato convenzione d'accordo, ed avendo la Plebe prolungato in uno anno lo
imperio ai Tribuni, giudicandogli atti a potere resistere all'ambizione de'
nobili, volle il Senato, per gara della Plebe e per non parere da meno di lei,
prolungare il consolato a Lucio Quinzio: il quale al tutto negò questa
diliberazione, dicendo che i cattivi esempli si voleva cercare di spegnergli,
non di accrescergli con uno altro più cattivo esemplo, e volle si facessono
nuovi Consoli. La quale bontà e prudenza se fosse stata in tutti i cittadini
romani, non arebbe lasciata introdurre quella consuetudine di prolungare i
magistrati, e da quelli non si sarebbe venuto alla prolungazione delli imperii:
la quale cosa, col tempo, rovinò quella Republica. Il primo a chi fu prorogato
lo imperio, fu a Publio Philone; il quale essendo a campo alla città di
Palepoli, e venendo la fine del suo consolato, e parendo al Senato ch'egli
avesse in mano quella vittoria, non gli mandarono il successore, ma lo fecero
Proconsolo; talché fu il primo Proconsolo. La quale cosa, ancora che mossa dal
Senato per utilità publica, fu quella che con il tempo fece serva Roma. Perché,
quanto più i Romani si discostarono con le armi, tanto più parve loro tale
prorogazione necessaria, e più la usarono. La quale cosa fece due
inconvenienti: l'uno, che meno numero di uomini si esercitarono negl'imperii, e
si venne per questo a ristringere la riputazione in pochi: l'altro, che, stando
uno cittadino assai tempo comandatore d'uno esercito, se lo guadagnava e
facevaselo partigiano; perché quello esercito col tempo dimenticava il Senato e
riconosceva quello capo. Per questo Silla e Mario poterono trovare soldati che
contro al bene publico gli seguitassono: per questo, Cesare potette occupare la
patria. Che se mai i Romani non avessono prolungati i magistrati e gli imperii,
se non venivano sì tosto a tanta potenza, e se fussono stati più tardi gli
acquisti loro, sarebbono ancora più tardi venuti nella servitù.
25
Della
povertà di Cincinnato e di molti cittadini romani.
Noi
abbiamo ragionato altrove come la più utile cosa che si ordini in uno vivere
libero è che si mantenghino i cittadini poveri. E benché in Roma non apparisca
quale ordine fusse quello che facesse questo effetto, avendo, massime, la legge
agraria avuta tanta oppugnazione; nondimeno per esperienza si vide, che, dopo
quattrocento anni che Roma era stata edificata, vi era una grandissima povertà;
né si può credere che altro ordine maggiore facesse questo effetto, che vedere
come per la povertà non ti era impedita la via a qualunque grado ed a qualunque
onore, e come e' si andava a trovare la virtù in qualunque casa l'abitasse. Il
quale modo di vivere faceva manco desiderabili le ricchezze. Questo si vede
manifesto; perché, sendo Minuzio consolo assediato con lo esercito suo dagli
Equi, si empié di paura Roma, che quello esercito non si perdesse; tanto che
ricorsero a creare il Dittatore, ultimo rimedio nelle loro cose afflitte. E
crearono Lucio Quinzio Cincinnato, il quale allora si trovava nella sua piccola
villa, la quale lavorava di sua mano. La quale cosa con parole auree e
celebrata da Tito Livio, dicendo: «Operae pretium est audire, qui omnia prae
divitiis humana spernunt, neque honori magno locum, neque virtuti putant esse,
nisi effusae affluant opes». Arava Cincinnato la sua piccola villa, la
quale non trapassava il termine di quattro iugeri quando da Roma vennero i
Legati del Senato a significargli la elezione della sua dittatura, a mostrargli
in quale pericolo si trovava la romana Republica. Egli, presa la sua toga,
venuto in Roma e ragunato uno esercito ne andò a liberare Minuzio, ed avendo
rotti e spogliati i nimici, e liberato quello, non volle che lo esercito
assediato fusse partecipe della preda, dicendogli queste parole: Io non voglio che tu participi della preda di
coloro de' quali tu se' stato per essere preda;
e privò Minuzio del consolato, e fecelo Legato, dicendogli: «Starai in
questo grado tanto, che tu impari a sapere essere Consolo». Aveva fatto suo
Maestro de' cavagli Lucio Tarquinio, il quale per la povertà militava a piede.
Notasi, come è detto, l'onore che si faceva in Roma alla povertà; e come a un
uomo buono e valente, quale era Cincinnato, quattro iugeri di terra bastavano a
nutrirlo. La quale povertà si vede come era ancora ne' tempi di Marco Regolo;
perché, sendo in Affrica con gli eserciti, domandò licenza al Senato per potere
tornare a custodire la sua villa, la quale gli era guasta da' suoi lavoratori.
Dove si vede due cose notabilissime: l'una, la povertà, e come vi stavano
dentro contenti, e come e' bastava a quelli cittadini trarre della guerra
onore, e l'utile tutto lasciavano al publico. Perché, s'egli avessero pensato
d'arricchire della guerra, gli sarebbe dato poca briga che i suoi campi fussono
stati guasti. L'altra è considerare la generosità dell'animo di quelli
cittadini, i quali, preposti ad uno esercito, saliva la grandezza dello animo
loro sopra ogni principe, non stimavono i re, non le republiche; non gli
sbigottiva né spaventava cosa alcuna; e tornati dipoi privati, diventavano
parchi, umili, curatori delle piccole facultà loro, ubbidienti a' magistrati,
reverenti alli loro maggiori: talché pare impossibile che uno medesimo animo
patisca tale mutazione.
Durò
questa povertà ancora infino a' tempi di Paulo Emilio, che furono quasi gli
ultimi felici tempi di quella Republica, dove uno cittadino, che col trionfo
suo arricchì Roma, nondimeno mantenne povero sé. Ed in tanto si stimava ancora
la povertà, che Paulo, nell'onorare chi si era portato bene nella guerra, donò
a uno suo genero una tazza d'ariento, il quale fu il primo ariento che fusse
nella sua casa. Potrebbesi, con un lungo parlare, mostrare quanto migliori
frutti produca la povertà che la ricchezza, e come l'una ha onorato le città,
le provincie, le sétte, e l'altra le ha rovinate; se questa materia non fusse
stata molte volte da altri uomini celebrata.
26
Come
per cagione di femine si rovina uno stato.
Nacque
nella città d'Ardea intra i patrizi e gli plebei una sedizione per cagione
d'uno parentado: dove, avendosi a maritare una femina ricca, la domandarono
parimente uno plebeo ed uno nobile; e non avendo quella padre, i tutori la
volevono congiugnere al plebeo, la madre al nobile: di che nacque tanto
tumulto, che si venne alle armi; dove tutta la Nobilità si armò in favore del
nobile, e tutta la plebe in favore del plebeo. Talché, essendo superata la
plebe, si uscì d'Ardea, e mandò a' Volsci per aiuto: i nobili mandarono a Roma.
Furono prima i Volsci, e, giunti intorno ad Ardea, si accamparono.
Sopravvennono i Romani, e rinchiusono i Volsci infra la terra e loro; tanto che
gli costrinsono, essendo stretti dalla fame, a darsi a discrezione. Ed entrati
i Romani in Ardea, e morti tutti i capi della sedizione, composono le cose di
quella città.
Sono
in questo testo più cose da notare. Prima, si vede come le donne sono state
cagioni di molte rovine, ed hanno fatti gran danni a quegli che governano una
città, ed hanno causato di molte divisioni in quelle: e, come si è veduto in
questa nostra istoria, lo eccesso fatto contro a Lucrezia tolse lo stato ai
Tarquinii; quell'altro, fatto contro a Virginia, privò i Dieci dell'autorità
loro. Ed Aristotile, intra le prime cause che mette della rovina de' tiranni, è
lo avere ingiuriato altrui per conto delle donne, o con stuprarle, o con
violarle, o con rompere i matrimonii; come di questa parte, nel capitolo dove
noi trattamo delle congiure, largamente si parlò. Dico, adunque, come i principi
assoluti ed i governatori delle republiche non hanno a tenere poco conto di
questa parte; ma debbono considerare i disordini che per tale accidente possono
nascere, e rimediarvi in tempo che il rimedio non sia con danno e vituperio
dello stato loro o della loro republica: come intervenne agli Ardeati; i quali,
per avere lasciato crescere quella gara intra i loro cittadini, si condussero a
dividersi infra loro; e, volendo riunirsi, ebbono a mandare per soccorsi
esterni: il che è uno grande principio d'una propinqua servitù.
Ma
veniamo allo altro notabile, del modo del riunire le città; del quale nel
futuro capitolo parlereno.
27
Come
e' si ha ad unire una città divisa; e come e' non è vera quella opinione, che,
a tenere le città, bisogni tenerle divise.
Per
lo esemplo de' Consoli romani che riconciliorono insieme gli Ardeati, si nota
il modo come si debbe comporre una città divisa: il quale non è altro, né
altrimenti si debbe medicare, che ammazzare i capi de' tumulti, perché gli è
necessario pigliare uno de' tre modi: o ammazzargli, come feciono costoro; o
rimuovergli della città; o fare loro fare pace insieme, sotto oblighi di non si
offendere. Di questi tre modi, questo ultimo è più dannoso, meno certo e più
inutile. Perché gli è impossibile, dove sia corso assai sangue, o altre simili
ingiurie, che una pace, fatta per forza, duri, riveggendosi ogni dì insieme in
viso; ed è difficile che si astenghino dallo ingiuriare l'uno l'altro, potendo
nascere infra loro ogni dì, per la conversazione, nuove cagioni di querele.
Sopra che non si può dare il migliore esemplo che la città di Pistoia. Era
divisa quella città, come è ancora, quindici anni sono, in Panciatichi e
Cancellieri; ma allora era in sull'armi, ed oggi le ha posate. E dopo molte
dispute infra loro vennono al sangue, alla rovina delle case, al predarsi la
roba, e ad ogni altro termine di nimico. Ed i Fiorentini, che gli avevano a
comporre, sempre vi usarono quel terzo modo; e sempre ne nacque maggiori
tumulti e maggiori scandali: tanto che, stracchi, e' si venne al secondo modo,
di rimuovere i capi delle parti; de' quali alcuni messono in prigione alcuni
altri confinarono in vari luoghi: tanto che l'accordo fatto potette stare, ed è
stato infino a oggi. Ma sanza dubbio più sicuro saria stato il primo. Ma perché
simili esecuzioni hanno il grande ed il generoso, una republica debole non le
sa fare, ed ènne tanto discosto, che a fatica la si conduce al rimedio secondo.
E questi sono di quegli errori che io dissi nel principio, che fanno i principi
de' nostri tempi, che hanno a giudicare le cose grandi; perché doverrebbono
volere udire come si sono governati coloro che hanno avuto a giudicare
anticamente simili casi. Ma la debolezza de' presenti uomini, causata dalla
debole educazione loro e dalla poca notizia delle cose, fa che si giudicano i
giudicii antichi, parte inumani, parte impossibili. Ed hanno certe loro moderne
opinioni, discosto al tutto dal vero, come è quella che dicevano e' savi della
nostra città, un tempo fa: che bisognava tenere Pistoia con le parti, e Pisa
con le fortezze; e non si avveggono, quanto l'una e l'altra di queste due cose
è inutile.
Io
voglio lasciare le fortezze, perché di sopra ne parlamo a lungo; e voglio
discorrere la inutilità che si trae del tenere le terre, che tu hai in governo,
divise. In prima, egli è impossibile che tu ti mantenga tutte a due quelle
parti amiche, o principe o republica che le governi. Perché dalla natura è dato
agli uomini pigliare parte in qualunque cosa divisa, e piacergli più questa che
quella. Talché, avendo una parte di quella terra male contenta, fa che, la
prima guerra che viene, te la perdi; perché gli è impossibile guardare una
città che abbia e' nimici fuori e dentro. Se la è una republica che la governi,
non ci è il più bel modo a fare cattivi i tuoi cittadini ed a fare dividere la
tua città, che avere in governo una città divisa; perché ciascuna parte cerca
di avere favori, e ciascuna si fa amici con varie corruttele: talché ne nasce
due grandissimi inconvenienti; l'uno, che tu non ti gli fai mai amici, per non
gli potere governare bene, variando il governo spesso, ora con l'uno, ora con
l'altro omore; l'altro, che tale studio di parte divide di necessità la tua
republica. Ed il Biondo, parlando de' Fiorentini e de' Pistolesi, ne fa fede,
dicendo: «Mentre che i Fiorentini disegnavono di riunire Pistoia, divisono sé
medesimi». Pertanto, si può facilmente considerare il male che da questa
divisione nasca.
Nel
1502, quando si perdé Arezzo, e tutto Val di Tevere e Val di Chiana, occupatoci
dai Vitelli e dal duca Valentino, venne un monsignor di Lant, mandato dal re di
Francia a fare ristituire ai Fiorentini tutte quelle terre perdute; e trovando
Lant in ogni castello uomini che, nel vicitarlo, dicevano che erano della parte
di Marzocco, biasimò assai questa divisione: dicendo, che, se in Francia uno di
quegli sudditi del re dicesse di essere della parte del re, sarebbe gastigato,
perché tale voce non significherebbe altro, se non che in quella terra fusse
gente inimica del re, e quel re vuole che le terre tutte sieno sue amiche,
unite e sanza parte. Ma tutti questi modi e queste opinioni diverse dalla
verità, nascono dalla debolezza di chi è signore; i quali, veggendo di non
potere tenere gli stati con forza e con virtù, si voltono a simili industrie:
le quali qualche volta ne' tempi quieti giovano qualche cosa, ma, come e'
vengono le avversità ed i tempi forti, le mostrano la fallacia loro.
28
Che
si debbe por mente alle opere de' cittadini, perché molte volte sotto una opera
pia si nasconde uno principio di tirannide.
Essendo
la città di Roma aggravata dalla fame, e non bastando le provisioni publiche a
cessarla, prese animo uno Spurio Melio, essendo assai ricco, secondo quegli
tempi, di fare provisione privatamente di frumento, e pascerne col suo grado la
plebe. Per la quale cosa, egli ebbe tanto concorso di popolo in suo favore, che
il Senato, pensando all' inconveniente che di quella sua liberalità poteva
nascere, per opprimerla avanti che la pigliasse più forze, gli creò uno
Dittatore addosso, e fecelo morire. Qui è da notare, come molte volte le opere
che paiono pie e da non le potere ragionevolmente dannare, diventono crudeli, e
per una republica sono pericolosissime, quando le non siano a buona ora
corrette. E per discorrere questa cosa più particularmente, dico che una
republica sanza i cittadini riputati non può stare, né può governarsi in alcuno
modo bene. Dall'altro canto, la riputazione de' cittadini è cagione della
tirannide delle republiche. E volendo regolare questa cosa, bisogna ordinarsi
talmente, che i cittadini siano riputati, di riputazione che giovi, e non
nuoca, alla città ed alla libertà di quella. E però si debbe esaminare i modi
con i quali e' pigliano riputazione; che sono in effetto due: o publici o
privati. I modi publici sono, quando uno, consigliando bene, operando meglio,
in beneficio comune, acquista riputazione. A questo onore si debba aprire la
via ai cittadini, e preporre premii ed ai consigli ed alle opere, talché se ne
abbiano ad onorare e sodisfare. E quando queste riputazioni, prese per queste
vie, siano stiette e semplici, non saranno mai pericolose: ma quando le sono
prese per vie private, che è l'altro modo preallegato, sono pericolosissime ed
in tutto nocive. Le vie private sono, faccendo beneficio a questo ed a quello
altro privato, col prestargli danari, maritargli le figliuole, difenderlo dai
magistrati, e faccendogli simili privati favori, i quali si fanno gli uomini
partigiani, e danno animo, a chi è così favorito, di potere corrompere il
publico e sforzare le leggi. Debbe, pertanto, una republica bene ordinata
aprire le vie come è detto, a chi cerca favori per vie publiche, e chiuderle a
chi li cerca per vie private, come si vede che fece Roma perché in premio di
chi operava bene per il publico, ordinò i trionfi, e tutti gli altri onori che
la dava ai suoi cittadini, ed in danno di chi sotto vari colori per vie private
cercava di farsi grande, ordinò l'accuse; e quando queste non bastassero, per
essere accecato il popolo da una spezie di falso bene, ordinò il Dittatore, il
quale con il braccio regio facesse ritornare dentro al segno chi ne fosse
uscito, come la fece per punire Spurio Melio. Ed una che di queste cose si
lasci impunita, è atta a rovinare una republica; perché difficilmente con
quello esemplo si riduce dipoi in la vera via.
29
Che
gli peccati de' popoli nascono dai principi.
Non
si dolghino i principi di alcuno peccato che facciono i popoli ch'egli abbiano
in governo; perché tali peccati conviene che naschino o per la sua negligenza,
o per essere lui macchiato di simili errori. E chi discorrerà i popoli che ne'
nostri tempi sono stati tenuti pieni di ruberie e di simili peccati, vedrà che
sarà al tutto nato da quegli che gli governavano, che erano di simile natura.
La
Romagna, innanzi che in quella fussono spenti da papa Alessandro VI quegli
signori che la comandavano, era un esempio d'ogni sceleratissima vita, perché
quivi si vedeva per ogni leggiere cagione seguire occisioni e rapine grandissime.
Il che nasceva dalla tristitia di quelli principi; non dalla natura trista
degli uomini, come loro dicevano. Perché, sendo quegli principi poveri, e
volendo vivere da ricchi, erano necessitati volgersi a molte rapine, e quelle
per vari modi usare. Ed intra l'altre disoneste vie che tenevano, e' facevano
leggi, e proibivono alcuna azione; dipoi erano i primi che davano cagione della
inosservanza di esse, né mai punivano gli inosservanti, se non poi, quando
vedevano assai essere incorsi in simile pregiudizio; ed allora si voltavano
alla punizione, non per zelo della legge fatta, ma per cupidità di riscuotere
la pena. Donde nasceva molti inconvenienti, e sopra tutto, questo, che i popoli
s'impoverivano, e non si correggevano; e quegli che erano impoveriti,
s'ingegnavano, contro a' meno potenti di loro, prevalersi. Donde surgevano
tutti quelli mali che di sopra si dicano, de' quali era cagione il principe. E
che questo sia vero, lo mostra Tito Livio quando e' narra che, portando i
Legati romani il dono della preda de' Veienti ad Apolline, furono presi da'
corsali di Lipari in Sicilia, e condotti in quella terra: ed inteso Timasiteo,
loro principe, che dono era questo, dove gli andava e chi lo mandava, si portò,
quantunque nato a Lipari, come uomo romano, e mostrò al popolo quanto era impio
occupare simile dono; tanto che, con il consenso dello universale, ne lasciò
andare i Legati con tutte le cose loro. E le parole dello istorico sono queste:
«Timasitheus multitudinem religione implevit, quae semper regenti est
similis». E Lorenzo de' Medici, a confermazione di questa sentenza, dice:
E
quel che fa 'l signor, fanno poi molti;
Che
nel signor son tutti gli occhi volti.
30
A
uno cittadino che voglia nella sua republica fare di sua autorità alcuna opera
buona, è necessario, prima, spegnere l'invidia: e come, vedendo il nimico, si
ha a ordinare la difesa d'una città.
Intendendo
il Senato romano come la Toscana tutta aveva fatto nuovo deletto per venire a'
danni di Roma; e come i Latini e gli Ernici, stati per lo addietro amici del
Popolo romano, si erano accostati con i Volsci, perpetui inimici di Roma;
giudicò questa guerra dovere essere pericolosa. E trovandosi Cammillo tribuno
di potestà consolare, pensò che si potesse fare sanza creare il Dittatore,
quando gli altri Tribuni suoi collegi volessono cedergli la somma dello
imperio. Il che detti Tribuni fecero volontariamente: «Nec quicquam (dice
Tito Livio) de maiestate sua detractum credebant, quod maiestati eius
concessissent». Onde Cammillo, presa a parole questa ubbidienza, comandò
che si scrivesse tre eserciti. Del primo volle essere capo lui, per ire contro
a' Toscani. Del secondo fece capo Quinto Servilio, il quale volle stesse
propinquo a Roma, per ostare ai Latini ed agli Ernici, se si movessono. Al terzo
esercito prepose Lucio Quinzio, il quale scrisse per tenere guardata la città e
difese le porte e la curia, in ogni caso che nascesse. Oltre a di questo,
ordinò che Orazio, uno de' suoi collegi, provedesse l'armi ed il frumento e
l'altre cose che richieggono i tempi della guerra. Prepose Cornelio, ancora,
suo collega, al Senato ed al publico consiglio, acciocché potesse consigliare
le azioni che giornalmente si avevano a fare ed esequire: in modo furono quegli
Tribuni, in quelli tempi, per la salute della patria, disposti a comandare ed a
ubbidire. Notasi per questo testo, quello che faccia uno uomo buono e savio, e
di quanto bene sia cagione, e quanto utile e' possa fare alla sua patria,
quando, mediante la sua bontà e virtù, egli ha spenta la invidia; la quale è
molte volte cagione che gli uomini non possono operare bene, non permettendo
detta invidia che gli abbino quella autorità la quale è necessaria avere nelle
cose d'importanza. Spegnesi questa invidia in due modi. O per qualche accidente
forte e difficile, dove ciascuno, veggendosi perire, posposta ogni ambizione,
corre volontariamente ad ubbidire a colui che crede che con la sua virtù lo
possa liberare: come intervenne a Cammillo, il quale avendo dato di sé tanti
saggi di uomo eccellentissimo, ed essendo stato tre volte Dittatore, ed avendo
amministrato sempre quel grado ad utile publico, e non a propria utilità aveva
fatto che gli uomini non temevano della grandezza sua; e per esser tanto grande
e tanto riputato, non stimavano cosa vergognosa essere inferiori a lui (e però
dice Tito Livio saviamente quelle parole «Nec quicquam» ecc.) in un
altro modo si spegne l'invidia quando, o per violenza o per ordine naturale,
muoiono coloro che sono stati tuoi concorrenti nel venire a qualche riputazione
ed a qualche grandezza; quali, veggendoti riputato più di loro, è impossibile
che mai acquieschino, e stieno pazienti. E quando e' sono uomini che siano usi
a vivere in una città corrotta, dove la educazione non abbia fatto in loro
alcuna bontà, è impossibile che per accidente alcuno, mai si ridichino; e per
ottenere la voglia loro, e satisfare alla loro perversità d'animo sarebbero
contenti vedere la rovina della loro patria. A vincere questa invidia non ci è
altro rimedio che la morte di coloro che l'hanno; e quando la fortuna è tanto
propizia a quell'uomo virtuoso, che si muoiano ordinariamente, diventa, sanza
scandalo, glorioso, quando sanza ostacolo e sanza offesa e' può mostrare la sua
virtù; ma quando e' non abbi questa ventura, gli conviene pensare per ogni via
a torsegli dinanzi; e prima che e' facci cosa alcuna, gli bisogna tenere modi
che vinca questa difficultà. E chi legge la Bibbia sensatamente, vedrà Moisè
essere stato forzato, a volere che le sue leggi e che i suoi ordini andassero
innanzi, ad ammazzare infiniti uomini, i quali, non mossi da altro che dalla
invidia, si opponevano a' disegni suoi. Questa necessità conosceva benissimo
frate Girolamo Savonerola; conoscevala ancora Piero Soderini, gonfaloniere di
Firenze. L'uno non potette vincerla, per non avere autorità a poterlo fare (che
fu il frate), e per non essere inteso bene da coloro che lo seguitavano, che ne
arebbero avuto autorità. Nonpertanto per lui non rimase, e le sue prediche sono
piene di accuse de' savi del mondo e d'invettive contro a loro: perché chiamava
così questi invidi, e quegli che si opponevano agli ordini suoi. Quell'altro
credeva, col tempo, con la bontà, con la fortuna sua, col benificare alcuno,
spegnere questa invidia; vedendosi di assai fresca età, e con tanti nuovi favori
che gli arrecava el modo del suo procedere, che credeva potere superare quelli
tanti che per invidia se gli opponevano, sanza alcuno scandolo, violenza e
tumulto: e non sapeva che il tempo non si può aspettare, la bontà non basta, la
fortuna varia, e la malignità non truova dono che la plachi. Tanto che l'uno e
l'altro di questi due rovinarono, e la rovina loro fu causata da non avere
saputo o potuto vincere questa invidia.
L'altro
notabile è l'ordine che Cammillo dette, dentro e fuori, per la salute di Roma.
E veramente, non sanza cagione gli istorici buoni, come è questo nostro,
mettono particularmente e distintamente certi casi, acciocché i posteri
imparino come gli abbino in simili accidenti difendersi. E debbesi in questo
testo notare, che non è la più pericolosa né la più inutile difesa, che quella
che si fa tumultuariamente e sanza ordine. E questo si mostra per quello terzo
esercito che Cammillo fece scrivere per lasciarlo, in Roma, a guardia della
città: perché molti arebbero giudicato e giudicherebbero questa parte
superflua, sendo quel popolo, per l'ordinario, armato e bellicoso; e per
questo, che non bisognasse di scriverlo altrimenti, ma bastasse farlo armare
quando il bisogno venisse. Ma Cammillo, e qualunque fusse savio come era esso,
la giudica altrimenti; perché non permette mai che una moltitudine pigli
l'arme, se non con certo ordine e certo modo. E però, in su questo esemplo, uno
che sia preposto a guardia d'una città, debba fuggire come uno scoglio il fare
armare gli uomini tumultuosamente; ma debba avere prima scritti e scelti quegli
che voglia si armino, chi gli abbino ad ubbidire, dove a convenire, dove a
andare; e, quegli che non sono scritti, comandare che stieno ciascuno alle case
sue, a guardia di quelle. Coloro che terranno questo ordine in una città
assaltata, facilmente si potranno difendere: chi farà altrimenti, non imiterà
Cammillo, e non si difenderà.
31
Le
republiche forti e gli uomini eccellenti ritengono in ogni fortuna il medesimo
animo e la loro medesima dignità.
Intra
l'altre magnifiche cose che 'l nostro istorico fa dire e fare a Cammillo, per
mostrare come debbe essere fatto un uomo eccellente, gli mette in bocca queste
parole: «Nec mihi dictatura animos fecit, nec exilium ademit». Per le
quali si vede, come gli uomini grandi sono sempre in ogni fortuna quelli
medesimi; e se la varia, ora con esaltarli, ora con opprimerli, quegli non
variano, ma tengono sempre lo animo fermo, ed in tale modo congiunto con il
modo del vivere loro, che facilmente si conosce per ciascuno, la fortuna non
avere potenza sopra di loro. Altrimenti si governano gli uomini deboli perché
invaniscono ed inebriano nella buona fortuna, attribuendo tutto il bene che gli
hanno a quella virtù che non conobbono mai. D'onde nasce che diventano insopportabili
ed odiosi a tutti coloro che gli hanno intorno. Da che poi depende la subita
variazione della sorte; la quale come veggono in viso, caggiono subito
nell'altro difetto, e diventano vili ed abietti. Di qui nasce che i principi
così fatti pensano nelle avversità più a fuggirsi che a difendersi, come quelli
che, per avere male usata la buona fortuna, sono ad ogni difesa impreparati.
Questa
virtù, e questo vizio, che io dico trovarsi in un uomo solo, si truova ancora
in una republica, ed in esemplo ci sono i Romani ed i Viniziani. Quelli primi,
nessuna cattiva sorte gli fece mai diventare abietti né nessuna buona fortuna
gli fece mai essere insolenti; come si vide manifestamente dopo la rotta
ch'egli ebbero a Canne, e dopo la vittoria ch'egli ebbero contro a Antioco;
perché, per quella rotta, ancora che gravissima per essere stata la terza, non
invilirono mai; e mandarono fuori eserciti; non vollono riscattare i loro
prigioni contro agli ordini loro; non mandarono ad Annibale o a Cartagine a
chiedere pace: ma, lasciate stare tutte queste cose abiette indietro, pensarono
sempre alla guerra armando, per carestia di uomini, i vecchi ed i servi loro.
La quale cosa conosciuta da Annone cartaginese, come di sopra si disse, mostrò
a quel Senato quanto poco conto si aveva a tenere della rotta di Canne. E così
si vide come i tempi difficili non gli sbigottivono, né gli rendevono umili.
Dall'altra parte, i tempi prosperi non gli facevano insolenti: perché, mandando
Antioco oratori a Scipione, a chiedere accordo, avanti che fussono venuti alla
giornata, e ch'egli avesse perduto Scipione gli dette certe condizioni della
pace; quali erano, che si ritirasse dentro alla Soria, ed il resto lasciasse
nello arbitrio del Popolo romano. Il quale accordo recusando Antioco, e venendo
alla giornata, e perdendola, rimandò imbasciadori a Scipione, con commissione
che pigliassero tutte quelle condizioni erano date loro dal vincitore: alli
quali non propose altri patti che quegli si avesse offerti innanzi che
vincesse; soggiugnendo queste parole: «Quod Romani, si vincuntur, non
minuuntur animis; nec, si vincunt, insolescere solent».
Al
contrario appunto di questo si è veduto fare ai Viniziani: i quali nella buona
fortuna, parendo loro aversela guadagnata con quella virtù che non avevano,
erano venuti a tanta insolenza che chiamavano il re di Francia figliuolo di San
Marco; non stimavano la Chiesa; non capivano in modo alcuno in Italia; ed
eronsi presupposti nello animo di avere a fare una monarchia simile alla
romana. Dipoi, come la buona sorte gli abbandonò e ch'egli ebbono una mezza
rotta a Vailà, dal re di Francia, perderono non solamente tutto lo stato loro
per ribellione, ma buona parte ne dettero al papa ed al re di Spagna per viltà
ed abiezione d'animo; ed in tanto invilirono, che mandarono imbasciadori allo
imperadore a farsi tributari, scrissono al papa lettere piene di viltà e di
sommissione per muoverlo a compassione. Alla quale infelicità pervennono in
quattro giorni, e dopo una mezza rotta: perché, avendo combattuto il loro
esercito, nel ritirarsi venne a combattere ed essere oppresso circa la metà, in
modo che, l'uno de' Provveditori, che si salvò, arrivò a Verona con più di
venticinquemila soldati, intr'a piè ed a cavallo. Talmenteché, se a Vinegia e
negli ordini loro fosse stata alcuna qualità di virtù, facilmente si potevano
rifare, e rimostrare di nuovo il viso alla fortuna, ed essere a tempo o a
vincere o a perdere più gloriosamente, o ad avere accordo più onorevole. Ma la
viltà dello animo loro, causata dalla qualità de' loro ordini non buoni nelle
cose della guerra, gli fece ad un tratto perdere lo stato e l'animo. E sempre
interverrà così a qualunque si governa come loro. Perché questo diventare
insolente nella buona fortuna ed abietto nella cattiva, nasce dal modo del
procedere tuo, e dalla educazione nella quale ti se' nutrito: la quale, quando
è debole e vana, ti rende simile a sé; quando è stata altrimenti, ti rende
anche d'un'altra sorte; e, faccendoti migliore conoscitore del mondo, ti fa
meno rallegrare del bene, e meno rattristare del male. E quello che si dice
d'uno solo, si dice di molti che vivono in una republica medesima; i quali si
fanno di quella perfezione, che ha il modo del vivere di quella.
E
benché altra volta si sia detto come il fondamento di tutti gli stati è la
buona milizia; e come, dove non è questa, non possono essere né leggi buone né
alcuna altra cosa buona, non mi pare superfluo riplicarlo: perché ad ogni punto
nel leggere questa istoria si vede apparire questa necessità; e si vede come la
milizia non puoté essere buona, se la non è esercitata; e come la non si può
esercitare, se la non è composta di tuoi sudditi. Perché sempre non si sta in
guerra, né si può starvi. Però conviene poterla esercitare a tempo di pace; e
con altri che con sudditi non si può fare questo esercizio, rispetto alla
spesa. Era Cammillo andato, come di sopra dicemo, con lo esercito contro ai
Toscani; ed avendo i suoi soldati veduto la grandezza dello esercito de'
nimici, si erano tutti sbigottiti, parendo loro essere tanto inferiori da non
potere sostenere l'impeto di quegli. E pervenendo questa mala disposizione del
campo agli orecchi di Cammillo, si mostrò fuora, ed andando parlando per il
campo a questi e quelli soldati, trasse loro del capo questa opinione; e nello ultimo,
sanza ordinare altrimenti il campo, disse: «Quod quisque didicit, aut
consuevit, faciet». E chi considera bene questo termine, e le parole disse
loro, per inanimirli ad ire contro a' nimici, considerasi come e' non si poteva
né dire né fare fare alcuna di quelle cose a uno esercito che prima non fosse
stato ordinato ed esercitato ed in pace ed in guerra. Perché di quegli soldati
che non hanno imparato a fare cosa alcuna, non può uno capitano fidarsi, e
credere che faccino alcuna cosa che stia bene; e se gli comandasse uno nuovo
Annibale, vi rovinerebbe sotto. Perché, non potendo uno capitano essere, mentre
si fa la giornata, in ogni parte; se non ha prima in ogni parte ordinato di
potere avere uomini che abbino lo spirito suo e bene gli ordini e modi del
procedere suo, conviene di necessità che ci rovini. Se, adunque, una città sarà
armata ed ordinata come Roma; e che ogni dì ai suoi cittadini, ed in
particulare ed in publico, tocchi a fare isperienza e della virtù loro, e della
potenza della fortuna; interverrà sempre che in ogni condizione di tempo ei
fiano del medesimo animo, e manterranno la medesima loro degnità: ma quando e'
fiano disarmati, e che si appoggeranno solo agl'impeti della fortuna e non alla
propria virtù, varieranno col variare di quella, e daranno sempre, di loro,
esemplo tale che hanno dato i Viniziani.
32
Quali
modi hanno tenuti alcuni a turbare una pace.
Essendosi
ribellate dal Popolo romano Circei e Velitre, due sue colonie, sotto speranza
di essere difese dai Latini, ed essendo di poi i Latini, vinti, e mancando di
quella speranza, consigliavano assai cittadini che si dovesse mandare a Roma
oratori a raccomandarsi al Senato: il quale partito fu turbato da coloro che
erano stati autori della ribellione; i quali temevano che tutta la pena non si
voltasse sopra le teste loro. E per tôrre via ogni ragionamento di pace,
incitarono la moltitudine ad amarsi, ed a correre sopra i confini romani. E
veramente, quando alcuno vuole o che uno popolo o uno principe lievi al tutto
l'animo da uno accordo, non ci è altro rimedio più vero né più stabile, che
farli usare qualche grave sceleratezza contro a colui con il quale tu non vuoi
che l'accordo si faccia: perché sempre lo terrà discosto quella paura di quella
pena che a lui parrà per lo errore commesso avere meritata. Dopo la prima
guerra che i Cartaginesi ebbono con i Romani, quelli soldati che dai
Cartaginesi erano stati adoperati in quella guerra in Sicilia ed in Sardigna,
fatta che fu la pace, se ne andarono in Affrica; dove non essendo sodisfatti
del loro stipendio, mossono l'armi contro ai Cartaginesi; e fatti, di loro, due
capi, Mato e Spendio, occuparono molte terre ai Cartaginesi, e molte ne
saccheggiarono. I Cartaginesi, per tentare prima ogni altra via che la zuffa,
mandarono, a quelli, ambasciadore Asdrubale loro cittadino, il quale pensavano
avesse alcuna autorità con quelli, essendo stato per lo adietro loro capitano.
Ed arrivato costui, e volendo Spendio e Mato obligare tutti quelli soldati a
non sperare di avere mai più pace con i Cartaginesi e per questo obligarli alla
guerra; persuasono loro, ch'egli era meglio ammazzare costui, con tutti i
cittadini cartaginesi, quali erano appresso loro prigioni. Donde, non solamente
gli ammazzarono, ma con mille supplicii in prima gli straziorono; aggiugnendo a
questa sceleratezza uno editto che tutti i Cartaginesi, che per lo avvenire si
pigliassono, si dovessono in simile modo uccidere. La quale diliberazione ed
esecuzione fece quello esercito crudele ed ostinato contro ai Cartaginesi.
33
Egli
è necessario, a volere vincere una giornata, fare lo esercito confidente ed
infra loro e con il capitano.
A
volere che uno esercito vinca la giornata, è necessario farlo confidente, in
modo che creda dovere in ogni modo vincere. Le cose che lo fanno confidente
sono: che sia armato ed ordinato bene; conoschinsi l'uno l'altro. Né può
nascere questa confidenza o questo ordine, se non in quelli soldati che sono
nati e vissuti insieme. Conviene che il capitano sia stimato di qualità che
confidino nella prudenza sua: e sempre confideranno, quando lo vegghino
ordinato, sollecito ed animoso, e che tenga bene e con riputazione la maestà
del grado suo: e sempre la manterrà, quando gli punisca degli errori, e non gli
affatichi invano; osservi loro le promesse; mostri facile la via del vincere;
quelle cose che discosto potessino mostrare i pericoli, le nasconda o le
alleggerisca. Le quali cose, osservate bene, sono cagione grande che lo
esercito confida, e confidando vince. Usavano i Romani di fare pigliare agli eserciti
loro questa confidenza per via di religione: donde nasceva, che con gli augurii
ed auspicii creavano i Consoli, facevano il deletto, partivano con gli
eserciti, e venivano alla giornata. E sanza avere fatto alcuna di queste cose,
non mai arebbe uno buono capitano e savio tentata alcuna fazione, giudicando di
averla potuta perdere facilmente, s'e' suoi soldati non avessoro prima intesi
gli Dii essere da parte loro. E quando alcuno Consolo, o altro loro capitano,
avesse combattuto, contro agli auspicii, lo arebbero punito; come ei punirono
Claudio Pulcro. E benché questa parte in tutte le istorie romane si conosca,
nondimeno si pruova più certo per le parole che Livio usa nella bocca di Appio
Claudio; il quale, dolendosi col popolo della insolenzia de' Tribuni della
plebe, e mostrando che, mediante quelli, gli auspicii e le altre cose
pertinenti alla religione si corrompevano, dice così: «Eludant nunc licet
religiones. Quid enim interest, si pulli non pascentur, si ex cavea tardius
exiverint, si occinuerit avis? Parva sunt haec; sed parva ista non contemnendo,
maiores nostri maximam hanc rempublicam fecerunt». Perché in queste cose
piccole è quella forza di tenere uniti e confidenti i soldati: la quale cosa è
prima cagione d'ogni vittoria. Nonpertanto, conviene con queste cose sia
accompagnata la virtù: altrimenti, le non vagliano. I Prenestini, avendo contro
ai Romani fuori el loro esercito, se n'andarono ad alloggiare in sul fiume
d'Allia, il luogo dove i Romani furono vinti da i Franciosi; il che fecero per
mettere fiducia ne' loro soldati, e sbigottire i Romani per la fortuna del
luogo. E benché questo loro partito fusse probabile, per quelle ragioni che di
sopra si sono discorse; nientedimeno il fine della cosa mostrò che la vera
virtù non teme ogni minimo accidente. Il che lo istorico benissimo dice con
queste parole, in bocca poste del Dittatore, che parla così al suo Maestro de'
cavagli: «Vides tu, fortuna illos fretos ad Alliam consedisse; at tu, fretus
armis animisque, invade mediam aciem». Perché una vera virtù, un ordine
buono, una sicurtà presa da tante vittorie, non si può con cose di poco momento
spegnere; né una cosa vana fa loro paura, né un disordine gli offende: come si
vede certo, che, essendo due Manlii consoli contro a' Volsci, per avere mandato
temerariamente parte del campo a predare, ne seguì che, in un tempo, e quelli
che erano iti e quelli che erano rimasti si trovavono assediati; dal quale
pericolo, non la prudenza de' Consoli, ma la virtù de' propri soldati gli
liberò. Dove Tito Livio dice queste parole: «Militum, etiam sine rectore,
stabilis virtus tutata est».
Non
voglio lasciare indietro uno termine usato da Fabio, sendo entrato di nuovo con
lo esercito in Toscana, per farlo confidente, giudicando quella tale fidanza
essere più necessaria per averlo condotto in paese nuovo, incontro a nimici
nuovi: che, parlando avanti la zuffa a' soldati, e detto ch'ebbe molte ragioni,
mediante le quali ei potevono sperare la vittoria, disse che potrebbe ancora
dire loro certe cose buone, e dove ei vedrebbono la vittoria certa, se non
fusse pericoloso il manifestarle. Il quale modo, come e' fu saviamente usato,
così merita di essere imitato.
34
Quale
fama o voce o opinione fa che il popolo comincia a favorire uno cittadino: e se
ei distribuisce i magistrati con maggiore prudenza che un principe.
Altra
volta parlamo come Tito Manlio, che fu poi detto Torquato, salvò Lucio Manlio
suo padre da una accusa che gli aveva fatta Marco Pomponio tribuno della plebe.
E benché il modo del salvarlo fosse alquanto violento ed istraordinario,
nondimeno quella filiale piatà verso del padre fu tanto grata allo universale,
che, non solamente non ne fu ripreso, ma, avendosi a fare i Tribuni delle
legioni, fu fatto Tito Manlio nel secondo luogo. Per il quale successo, credo
che sia bene considerare il modo che tiene il popolo a giudicare gli uomini
nelle distribuzioni sue; e che, per quello noi veggiamo, s'egli è vero quanto
di sopra si conchiuse, che il popolo sia migliore distributore che uno
principe.
Dico,
adunque, come il popolo nel suo distribuire va dietro a quello che si dice
d'uno per publica voce e fama, quando per sue opere note non lo conosce
altrimenti, o per presunzione o opinione che si ha di lui. Le quali due cose
sono causate o da' padri di quelli tali che, per essere stati grandi uomini e
valenti nella città, si crede che i figliuoli debbeno essere simili a loro,
infino a tanto che per le opere di quegli non s'intenda il contrario; o la è
causata dai modi che tiene quello di chi si parla. I modi migliori che si
possino tenere, sono: avere compagnia di uomini gravi, di buoni costumi, e
riputati savi da ciascuno. E perché nessuno indizio si può avere maggiore d'un
uomo, che le compagnie con quali egli usa; meritamente uno che usa con compagnie
oneste, acquista buono nome, perché è impossibile che non abbia qualche
similitudine di quelle. O veramente si acquista questa publica fama per qualche
azione istraordinaria e notabile ancora che privata, la quale ti sia riuscita
onorevolmente.
E
di tutte a tre queste cose che danno nel principio buona riputazione ad uno,
nessuna la dà maggiore che questa ultima: perché quella prima de' parenti e de'
padri è sì fallace, che gli uomini vi vanno a rilento; ed in poco si consuma,
quando la virtù propria di colui che ha a essere giudicato non l'accompagna. La
seconda, che ti fa conoscere per via delle pratiche tue, è meglio della prima,
ma è molto inferiore alla terza, perché, infino a tanto che non si vede qualche
segno che nasca da te sta la riputazione tua fondata in su l'opinione, la quale
è facilissima a cancellarla. Ma quella terza, essendo principiata e fondata in
sul fatto ed in su la opera tua, ti dà nel principio tanto nome, che bisogna
bene che operi poi molte cose contrarie a questa, volendo annullarla. Debbono,
adunque, gli uomini che nascono in una republica pigliare questo verso, ed
ingegnarsi, con qualche operazione istraordinaria, cominciare a rilevarsi. Il
che molti a Roma in gioventù fecero o con il promulgare una legge che venisse
in comune utilità; o con accusare qualche potente cittadino come transgressore
delle leggi; o col fare simili cose notabili e nuove, di che si avesse a
parlare. Né solamente sono necessarie simili cose per cominciare a darsi la
riputazione ma sono ancora necessarie per mantenerla ed accrescerla. Ed a
volere fare questo, bisogna rinnovarle; come per tutto il tempo della sua vita
fece Tito Manlio: perché, difeso ch'egli ebbe il padre tanto virtuosamente e
istraordinariamente, e per questa azione presa la prima riputazione sua, dopo
certi anni combatté con quel Francioso, e, morto, gli trasse quella collana
d'oro che gli dette il nome di Torquato. Non bastò questo, che dipoi, già in
età matura, ammazzò il figliuolo per avere combattuto sanza licenza, ancora
ch'egli avesse superato il nimico. Le quali tre azioni allora gli dettero più
nome e per tutti i secoli lo fanno più celebre, che non lo fece alcuno trionfo
ed alcuna altra vittoria, di che elli fu ornato quanto alcuno altro Romano. E
la cagione è, perché in quelle vittorie Manlio ebbe moltissimi simili; in
queste particulari azioni n'ebbe o pochissimi o nessuno.
A
Scipione maggiore non arrecarono tanta gloria tutti i suoi trionfi, quanto gli
dette lo avere, ancora giovinetto, in sul Tesino, difeso il padre; e lo avere,
dopo la rotta di Canne, animosamente con la spada sguainata fatto giurare più
giovani romani che ei non abbandonerebbero l'Italia, come di già infra loro
avevano diliberato: le quali due azioni furono principio alla riputazione sua,
e gli feciono scala ai trionfi della Spagna e dell'Affrica. La quale opinione
da lui fu ancora accresciuta, quando ei rimandò la sua figliuola al padre, e la
moglie al marito, in Ispagna. Questo modo del procedere non è necessario
solamente a quelli cittadini che vogliono acquistare fama per ottenere gli
onori nella loro republica, ma è ancora necessario ai principi per mantenersi
la riputazione nel principato loro: perché nessuna cosa gli fa tanto stimare,
quanto dare di sé rari esempli con qualche fatto o detto rado, conforme al bene
comune, il quale mostri il signore o magnanimo o liberale o giusto, e che sia
tale che si riduca come in proverbio intra i suoi suggetti.
Ma,
per tornare donde noi cominciamo questo discorso, dico come il popolo, quando
ei comincia a dare uno grado a uno suo cittadino, fondandosi sopra quelle tre
cagioni soprascritte, non si fonda male; ma poi, quando gli assai esempli de'
buoni portamenti d'uno lo fanno più noto, si fonda meglio, perché in tale caso
non può essere che quasi mai s'inganni. Io parlo solamente di quelli gradi che
si dànno agli uomini nel principio, avanti che per ferma isperienza siano
conosciuti, o che passino da un'azione a un'altra dissimile: dove, e quanto
alla falsa opinione, e quanto alla corrozione, sempre faranno minori errori che
i principi. E perché e' può essere che i popoli s'ingannerebbono della fama,
della opinione e delle opere d'uno uomo, stimandole maggiori che in verità non
sono, il che non interverrebbe a uno principe, perché gli sarebbe detto, e
sarebbe avvertito da chi lo consigliasse; perché ancora i popoli non manchino
di questi consigli, i buoni ordinatori delle republiche hanno ordinato, che,
avendosi a creare i supremi gradi nelle città, dove fosse pericoloso mettervi
uomini insufficienti, e veggendosi la voga popolare essere diritta a creare
alcuno che fosse insufficiente, sia lecito a ogni cittadino, e gli sia imputato
a gloria, di publicare nelle concioni i difetti di quello, acciocché il popolo,
non mancando della sua conoscenza, possa meglio giudicare. E che questo si
usasse a Roma, ne rende testimonio l'orazione di Fabio Massimo, la quale ei
fece al popolo nella seconda guerra punica, quando nella creazione de' Consoli
i favori si volgevano a creare Tito Ottacilio; e giudicandolo Fabio
insufficiente a governare in quelli tempi il consolato, gli parlò contro,
mostrando la insufficienza sua; tanto che gli tolse quel grado, e volse i
favori del popolo a chi più lo meritava che lui. Giudicano, adunque, i popoli,
nella elezione a' magistrati, secondo quelli contrassegni che degli uomini si
possono avere più veri; e quando ei possono essere consigliati come i principi,
errano meno de' principi: e quel cittadino che voglia cominciare a avere i
favori del popolo, debbe con qualche fatto notabile, come fece Tito Manlio,
guadagnarseli.
35
Quali
pericoli si portano nel farsi capo a consigliare una cosa; e, quanto ella ha
più dello istraordinario, maggiori pericoli vi si corrono.
Quanto
sia cosa pericolosa farsi capo d'una cosa nuova che appartenga a molti, e
quanto sia difficile a trattarla ed a condurla, e, condotta, a mantenerla,
sarebbe troppo lunga e troppo alta materia a discorrerla: però, riserbandola a
luogo più conveniente, parlerò solo di quegli pericoli che portano i cittadini,
o quelli che consigliano uno principe a farsi capo d'una diliberazione grave ed
importante, in modo che tutto il consiglio di essa sia imputato a lui. Perché,
giudicando gli uomini le cose dal fine, tutto il male che ne risulta s'imputa
allo autore del consiglio; e, se ne risulta bene, ne è commendato: ma di lunge
il premio non contrappesa a il danno. Il presente Sultan Salì, detto Gran
Turco, essendosi preparato (secondo che ne riferiscono alcuni che vengono de'
suoi paesi) di fare la impresa di Soria e di Egitto, fu confortato da uno suo
Bascià, quale ei teneva ai confini di Persia, di andare contro al Sofì: dal
quale consiglio mosso andò con esercito grossissimo a quella impresa; e
arrivando in uno paese larghissimo, dove sono assai diserti e le fiumare rade,
e trovandovi quelle difficultà che già fecero rovinare molti eserciti romani,
fu in modo oppressato da quelle, che vi perdé, per fame e per peste, ancora che
nella guerra fosse superiore, gran parte delle sue genti: talché, irato contro
allo autore del consiglio, lo ammazzò.
Leggesi,
assai cittadini stati confortatori d'una impresa, e, per avere avuto quella
tristo fine, essere stati mandati in esilio. Fecionsi capi alcuni cittadini
romani, che si facesse in Roma il Consule plebeio. Occorse che il primo che
uscì fuori con gli eserciti, fu rotto; onde a quegli consigliatori sarebbe
avvenuto qualche danno, se non fosse stata tanto gagliarda quella parte, in
onore della quale tale diliberazione era venuta.
È
cosa adunque certissima, che quegli che consigliano una republica, e quegli che
consigliano uno principe, sono posti intra queste angustie, che, se non
consigliano le cose che paiono loro utili, o per la città o per il principe,
sanza rispetto, e' mancano dell'ufficio loro; se le consigliano, e' gli entrano
in pericolo della vita e dello stato: essendo tutti gli uomini in questo
ciechi, di giudicare i buoni e i cattivi consigli dal fine. E pensando in che
modo ei potessono fuggire o questa infamia o questo pericolo, non ci veggo
altra via che pigliare le cose moderatamente, e non ne prendere alcuna per sua
impresa, e dire la opinione sua sanza passione, e sanza passione con modestia
difenderla: in modo che, se la città o il principe la segue, che la segua
voluntario, e non paia che vi venga tirato dalla tua importunità. Quando tu faccia
così, non è ragionevole che uno principe ed uno popolo del tuo consiglio ti
voglia male, non essendo seguito contro alla voglia di molti: perché quivi si
porta pericolo dove molti hanno contradetto, i quali poi nello infelice fine
concorrono a farti rovinare. E se in questo caso si manca di quella gloria che
si acquista nello essere solo contro a molti a consigliare una cosa, quando
ella sortisce buono fine, ci sono a rincontro due beni: il primo, del mancare
di pericolo; il secondo, che, se tu consigli una cosa modestamente, e per la
contradizione il tuo consiglio non sia preso e per il consiglio d'altrui ne
seguiti qualche rovina, ne risulta a te gloria grandissima. E benché la gloria
che si acquista de' mali che abbia o la tua città o il tuo principe, non si
possa godere, nondimeno è da tenerne qualche conto.
Altro
consiglio non credo si possa dare agli uomini in questa parte: perché
consigliandogli che tacessono, e che non dicessono l'opinione loro, sarebbe
cosa inutile alla republica o al loro principe, e non fuggirebbono il pericolo;
perché in poco tempo diventerebbono sospetti: ed ancora potrebbe loro
intervenire come a quegli amici di Perse re de' Macedoni, il quale essendo
stato rotto da Paulo Emilio, e fuggendosi con pochi amici, accadde che, nel
replicare le cose passate, uno di loro cominciò a dire a Perse molti errori
fatti da lui, che erano stati cagione della sua rovina; al quale Perse
rivoltosi, disse: Traditore, sì che tu
hai indugiato a dirmelo ora che io non ho più rimedio! e sopra queste parole di sua mano lo ammazzò.
E così colui portò la pena d'essere stato cheto quando e' doveva parlare, e di
avere parlato quando e' doveva tacere; non fuggì il pericolo per non avere dato
il consiglio. Però credo che sia da tenere ed osservare i termini soprascritti.
36
Le
cagioni perché i Franciosi siano stati e siano ancora giudicati nelle zuffe, da
principio più che uomini.
La
ferocità di quello Francioso che provocava qualunque Romano, appresso al fiume
Aniene, a combattere seco, dipoi la zuffa fatta intra lui e Tito Manlio, mi fa
ricordare di quello che Tito Livio più volte dice, che i Franciosi sono nel
principio della zuffa più che uomini, e nel successo del combattere riescono
poi meno che femine. E pensando donde questo nasca, si crede per molti che sia
la natura loro così fatta: il che credo sia vero; ma non è per questo che
questa loro natura, che gli fa feroci nel principio, non si potesse in modo con
l'arte ordinare, che la gli mantenesse feroci infino nello ultimo. Ed a volere
provare questo, dico come e' sono di tre ragioni eserciti: l'uno dove è furore
ed ordine; perché dall'ordine nasce il furore e la virtù, come era quello de'
Romani: perché si vede in tutte le istorie, che in quello esercito era un
ordine buono, che vi aveva introdotto una disciplina militare per lungo tempo.
Perché in uno esercito, bene ordinato, nessuno debbe fare alcuna opera se non
regolarlo: e si troverrà, per questo, che nello esercito romano, dal quale,
avendo elli vinto il mondo, debbono prendere esemplo tutti gli altri eserciti,
non si mangiava, non si dormiva, non si meritricava, non si faceva alcuna
azione o militare o domestica sanza l'ordine del console. Perché quegli
eserciti che fanno altrimenti, non sono veri eserciti; e se fanno alcuna
pruova, la fanno per furore e per impeto, e non per virtù. Ma dove la virtù
ordinata usa il furore suo con i modi e co' tempi, né difficultà veruna lo
invilisce, né li fa mancare l'animo: perché gli ordini buoni gli rinfrescono
l'animo ed il furore, nutriti dalla speranza del vincere; la quale mai non
manca, infino a tanto che gli ordini stanno saldi. Al contrario interviene in
quelli eserciti dove è furore e non ordine, come erano i Franciosi, i quali
tuttavia nel combattere mancavano, perché, non riuscendo loro con il primo
impeto vincere, e non essendo sostenuto da una virtù ordinata quello loro
furore nel quale egli speravano né avendo fuori di quello cosa in la quale ei
cunfidassono come quello era raffreddo, mancavano. Al contrario i Romani,
dubitando meno de' pericoli per gli ordini loro buoni non diffidando della
vittoria, fermi ed ostinati combattevano col medesimo animo e con la medesima
virtù nel fine che nel principio: anzi, agitati dalle armi, sempre si
accendevano. La terza qualità di eserciti è dove non è furore naturale né
ordine accidentale: come sono gli eserciti italiani de' nostri tempi, i quali
sono al tutto inutili; e se non si abbattano a uno esercito che per qualche
accidente si fugga, mai non vinceranno. E sanza addurre altri esempli, si vede,
ciascuno dì, come ei fanno pruove di non avere alcuna virtù. E perché, con il
testimonio di Tito Livio, ciascuno intenda come debbe essere fatta la buona
milizia, e come è fatta la rea; io voglio addurre le parole di Papirio Cursore,
quando ei voleva punire Fabio, Maestro de' cavalli, quando disse: «Nemo
hominum, nemo Deorum, verecundiam habeat; non edicta imperatorum, non auspicia
observentur; sine commeatu vagi milites in pacato, in hostico errent; immemores
sacramenti, licentia sola se ubi velint exauctorent; infrequentia deserant
signa; neque conveniatur ad edictum, nec discernantur, interdiu nocte; aequo
iniquo loco, iussu iniussu imperatoris pugnent; et non signa, non ordines
servent: latrocinii modo, caeca et fortuita pro sollemni et sacrata militia sit».
E puossi per questo testo adunque, facilmente vedere se la milizia de' nostri
tempi è cieca e fortuita, o sacrata e solenne; e quanto le manca a essere
simile a quella che si può chiamare milizia; e quanto ella è discosto da essere
furiosa ed ordinata, come la romana, o furiosa solo, come la franciosa.
37
Se
le piccole battaglie innanzi alla giornata sono necessarie; e come si debbe
fare a conoscere uno inimico nuovo, volendo fuggire quelle.
E'
pare che nelle azioni degli uomini, come altra volta abbiamo discorso, si
truovi, oltre alle altre difficultà, nel volere condurre la cosa alla sua
perfezione, che sempre propinquo al bene sia qualche male, il quale con quel
bene sì facilmente nasca che pare impossibile potere mancare dell'uno, volendo
l'altro. E questo si vede in tutte le cose che gli uomini operano. E però si
acquista il bene con difficultà, se dalla fortuna tu non se' aiutato in modo,
che ella con la sua forza vinca questo ordinario e naturale inconveniente. Di
questo mi ha fatto ricordare la zuffa di Manlio e del Francioso, dove Tito
Livio dice: «Tanti ea dimicatio ad universi belli eventum momenti fuit, ut
Gallorum exercitus, relictis trepide Castris, in Tiburtem agrum mox in Campaniam
transierit». Perché io considero, dall'uno canto, che uno buono capitano
debbe fuggire, al tutto, di operare alcuna cosa, che, essendo di poco momento,
possa fare cattivi effetti nel suo esercito: perché cominciare una zuffa dove
non si operino tutte le forze e vi si arrischi tutta la fortuna, è cosa al
tutto temeraria; come io dissi di sopra, quando io dannai il guardare de'
passi.
Dall'altra
parte, io considero come i capitani savi, quando vengono allo incontro d'uno
nuovo nimico, e ch'e' sia riputato, ei sono necessitati, prima che venghino
alla giornata, fare provare, con leggieri zuffe, ai loro soldati, tali nimici;
acciocché, cominciandogli a conoscere e maneggiare, perdino quel terrore che la
fama e la riputazione aveva dato loro. E questa parte in uno capitano è
importantissima; perché ella ha in sé quasi una necessità che ti costringe a
farla, parendoti andare ad una manifesta perdita, sanza avere prima fatto, con
piccole isperienze, di tôrre ai tuoi soldati quello terrore che la riputazione
del nimico aveva messo negli animi loro.
Fu
Valerio Corvino mandato dai Romani con gli eserciti contro ai Sanniti nuovi
inimici, e che per lo addietro mai non avevano provate l'armi l'uno dell'altro,
dove dice Tito Livio, che Valerio fece fare ai Romani con i Sanniti alcune
leggieri zuffe «ne eos novum bellum, ne novus hostis terreret».
Nondimeno è pericolo gravissimo, che, restando i tuoi soldati in quelle
battaglie vinti, la paura e la viltà non cresca loro, e ne conseguitino
contrari effetti a' disegni tuoi: cioè, che tu gli sbigottisca, avendo
disegnato di assicurargli: tanto che questa è una di quelle cose che ha il male
sì propinquo al bene, e tanto sono congiunti insieme, che gli è facil cosa
prendere l'uno, credendo pigliare l'altro. Sopra che io dico, che uno buono
capitano debbe osservare con ogni diligenza, che non surga alcuna cosa che per
alcuno accidente possa tôrre l'animo allo esercito suo. Quello che gli può
tôrre l'animo è cominciare a perdere; e però si debbe guardare dalle zuffe
piccole, e non le permettere se non con grandissimo vantaggio, e con speranza
di certa vittoria: non debbe fare imprese di guardare passi, dove non possa
tenere tutto lo esercito suo: non debbe guardare terre, se non quelle che,
perdendole, di necessità ne seguisse la rovina sua; e quelle che guarda,
ordinarsi in modo, e con le guardie di esse e con lo esercito, che, trattandosi
della ispugnazione di esse, ei possa adoperare tutte le forze sue; l'altre
debbe lasciare indifese. Perché ogni volta che si perde una cosa che si
abbandoni, e lo esercito sia ancora insieme, non si perde la riputazione della
guerra né la speranza del vincerla: ma quando si perde una cosa che tu hai
disegnata difendere, e ciascuno crede che tu la difenda, allora è il danno e la
perdita; ed hai quasi, come i Franciosi, con una cosa di piccolo momento
perduta la guerra.
Filippo
di Macedonia, padre di Perse, uomo militare e di gran condizione ne' tempi
suoi, essendo assaltato dai Romani, assai de' suoi paesi, i quali elli
giudicava non potere guardare, abbandonò e guastò: come quello che, per essere
prudente, giudicava più pernizioso perdere la riputazione col non potere
difendere quello che si metteva a difendere, che, lasciandolo in preda al
nimico perderlo come cosa negletta. I Romani, quando dopo la rotta di Canne le
cose loro erano afflitte, negarono a molti loro raccomandati e sudditi gli
aiuti, commettendo loro che si difendessono il meglio potessono. I quali
partiti sono migliori assai, che pigliare difese e poi non le difendere: perché
in questo partito si perde amici e forze; in quello, amici solo. Ma tornando
alle piccole zuffe, dico che, se pure uno capitano è costretto per la novità
del nimico fare qualche zuffa, debbe farla con tanto suo vantaggio, che non vi
sia alcuno pericolo di perderla: o veramente fare come Mario (il che è migliore
partito), il quale, andando contro a' Cimbri, popoli ferocissimi, che venivano
a predare Italia, e venendo con uno spavento grande per la ferocità e
moltitudine loro, e per avere di già vinto uno esercito romano, giudicò Mario
essere necessario, innanzi che venisse alla zuffa, operare alcuna cosa per la
quale lo esercito suo deponesse quel terrore che la paura del nimico gli aveva
dato; e, come prudentissimo capitano, più che una volta collocò lo esercito suo
in luogo donde i Cimbri con lo esercito loro dovessono passare. E così, dentro
alle fortezze del suo campo, volle che i suoi soldati gli vedessono, ed
assuefacessono li occhi alla vista di quello nimico; acciocché, vedendo una
moltitudine inordinata, piena d'impedimenti, con armi inutili, e parte
disarmati, si rassicurassono, e diventassono desiderosi della zuffa. Il quale
partito, come fu da Mario saviamente preso, così dagli altri debbe essere
diligentemente imitato, per non incorrere in quelli pericoli che io dico
disopra, e non avere a fare come i Franciosi, «qui ob rem parvi ponderis
trepidi, in Tiburtem agrum et in Campaniam transierunt». E perché noi
abbiamo allegato in questo discorso Valerio Corvino, voglio, mediante le parole
sue, nel seguente capitolo, come debbe essere fatto uno capitano, dimostrare.
38
Come
debbe essere fatto uno capitano nel quale lo esercito suo possa confidare.
Era,
come di sopra dicemo, Valerio Corvino con lo esercito contro ai Sanniti, nuovi
nimici del Popolo romano: donde che, per assicurare i suoi soldati, e per farli
conoscere i nimici, fece fare a' suoi certe leggieri zuffe; e non gli bastando
questo, volle, avanti alla giornata, parlare loro, e mostrò, con ogni
efficacia, quanto ei dovevano stimare poco tali nimici, allegando la virtù de'
suoi soldati, e la propria. Dove si può notare, per le parole che Livio gli fa
dire, come debbe essere fatto uno capitano in chi lo esercito abbia a
confidare; le quali parole sono queste: «Tum etiam intueri, cuius ductu
auspicioque ineunda pugna sit, utrum, qui audiendus dumtaxat magnificus
adhortator sit, verbis tantum ferox, operum militarium expers, an qui et ipse
tela tractare, procedere ante signa, versari media in mole pugnae sciat. Facta
mea, non dicta, vos, milites, sequi volo; nec disciplinam modo, sed exemplum
etiam a me petere, qui hac dextra mihi tres consulatus, summamque laudem peperi».
Le quali parole, considerate bene, insegnano a qualunque, come ei debbe
procedere a volere tenere il grado del capitano: e quello che sarà fatto
altrimenti, troverrà, con il tempo, quel grado, quando per fortuna o per
ambizione vi sia condotto, torgli e non dargli riputazione; perché non i titoli
illustrono gli uomini, ma gli uomini i titoli. Debbesi ancora dal principio di
questo discorso considerare che, se gli capitani grandi hanno usati termini
istraordinari a fermare gli animi d'uno esercito veterano quando con i nimici
inconsueti debbe affrontarsi; quanto maggiormente si abbia a usare la industria
quando si comandi uno esercito nuovo, che non abbia mai veduto il nimico in
viso! Perché, se lo inusitato inimico allo esercito vecchio dà terrore, tanto
maggiormente lo debbe dare ogni inimico a uno esercito nuovo. Pure, si è veduto
molte volte dai buoni capitani tutte queste difficultà con somma prudenza
essere vinte: come fece quel Gracco romano, ed Epaminonda tebano, de' quali
altra volta abbiamo parlato, che con eserciti nuovi vinsono eserciti veterani
ed esercitatissimi. I modi che ei tenevano, era: parecchi mesi esercitargli in
battaglie fitte e assuefargli alla ubbidienza ed allo ordine; e da quelli poi,
con massima confidenza, nella vera zuffa gli adoperavano. Non si debba,
adunque, diffidare alcuno uomo militare di non potere fare buoni eserciti,
quando non gli manchi uomini; perché quel principe, che abbonda di uomini e
manca di soldati, debbe solamente, non della viltà degli uomini, ma della sua
pigrizia e poca prudenza, dolersi.
39
Che
uno capitano debbe essere conoscitore de' siti.
Intra
le altre cose che sono necessarie a uno capitano di eserciti, è la cognizione
de' siti e de' paesi; perché, sanza questa cognizione generale e particulare,
uno capitano di eserciti non può bene operare alcuna cosa. E perché tutte le
scienze vogliono pratica a volere perfettamente possederle, questa è una che
ricerca pratica grandissima. Questa pratica, ovvero questa particulare
cognizione, si acquista più mediante le cacce che per veruno altro esercizio.
Però gli antichi scrittori dicono che quelli eroi che governarono nel loro
tempo il mondo, si nutrirono nelle selve e nelle cacce; perché la caccia, oltre
a questa cognizione, c'insegna infinite cose che sono nella guerra necessarie.
E Senofonte, nella vita di Ciro, mostra che, andando Ciro ad assaltare il re
d'Armenia, nel divisare quella fazione, ricordò a quegli suoi, che questa non
era altro che una di quelle cacce le quali molte volte avevano fatte seco. E
ricordava a quelli che mandava in agguato in su e' monti, che gli erano simili
a quelli che andavano a tendere le reti in su e' gioghi; ed a quelli che
scorrevano per il piano, erano simili a quegli che andavano a levare del suo
covile la fiera, acciocché, cacciata, desse nelle reti.
Questo
si dice per mostrare come le cacce, secondo che Senofonte appruova, sono una
immagine d'una guerra: e per questo agli uomini grandi tale esercizio è
onorevole e necessario. Non si può ancora imparare questa cognizione de' paesi
in altro commodo modo, che per via di caccia, perché la caccia fa, a colui che
la usa sapere come sta particularmente quel paese dove elli la esercita. E
fatto che uno si è familiare bene una regione, con facilità comprende poi tutti
i paesi nuovi; perché ogni paese ed ogni membro di quelli hanno insieme qualche
conformità, in modo che dalla cognizione d'uno facilmente si passa alla
cognizione dell'altro. Ma chi non ne ha bene pratico uno, con difficultà, anzi
non mai se non con un lungo tempo, può conoscere l'altro. E chi ha questa
pratica, in uno voltare d'occhio sa come giace quel piano, come surge quel
monte, dove arriva quella valle, e tutte le altre simili cose, di che elli ha
per lo addietro fatto una ferma scienza. E che questo sia vero, ce lo mostra
Tito Livio con lo esemplo di Publio Decio; il quale, essendo Tribuno de'
soldati nello esercito che Cornelio consolo conduceva contro ai Sanniti, ed
essendosi il Consolo ridotto in una valle, dove lo esercito de' Romani poteva
dai Sanniti essere rinchiuso, e vedendosi in tanto pericolo, disse al Consolo:
«Vides tu, Aule Corneli, cacumen illud supra hostem? arx illa est spei
salutisque nostrae, si eam (quoniam caeci reliquere Samnites) impigre capimus».
Ed innanzi a queste parole, dette da Decio, Tito Livio dice: «Publius Decius
tribunus militum, conspicit unum editum in saltu collem, imminentem hostium
castris aditu arduum impedito agmini, expeditis haud difficilem». Donde,
essendo stato mandato sopra esso dal Consolo con tremila soldati, ed avendo
salvo lo esercito romano e disegnando, venente la notte, di partirsi, e salvare
ancora sé ed i suoi soldati, gli fa dire queste parole: «Ite mecum, ut, dum
lucis aliquid superest, quibus locis hostes praesidia ponant, qua pateat hinc
exitus, exploremus. Haec omnia sagulo militari amicus ne ducem circumire hostes
notarent, perlustravit». Chi considerrà, adunque, tutto questo testo, vedrà
quanto sia utile e necessario a uno capitano sapere la natura de' paesi:
perché, se Decio non gli avesse saputi e conosciuti, non arebbe potuto
giudicare quale utile faceva pigliare quel colle, allo esercito Romano, né
arebbe potuto conoscere di discosto, se quel colle era accessibile o no; e
condotto che si fu poi sopra esso, volendosene partire per ritornare al
Consolo, avendo i nimici intorno, non arebbe dal discosto potuto speculare le
vie dello andarsene, e gli luoghi guardati da' nimici. Tanto che, di necessità
conveniva, che Decio avesse tale cognizione perfetta: la quale fece che, con il
pigliare quel colle, ei salvò lo esercito romano; dipoi seppe, sendo assediato,
trovare la via a salvare sé e quegli che erano stati seco.
40
Come
usare la fraude nel maneggiare la guerra è cosa gloriosa.
Ancora
che lo usare la fraude in ogni azione sia detestabile, nondimanco nel
maneggiare la guerra è cosa laudabile e gloriosa; e, parimente è laudato colui
che con fraude supera il nimico, come quello che lo supera con le forze. E
vedesi questo per il giudicio che ne fanno coloro che scrivono le vite degli
uomini grandi; i quali lodono Annibale e gli altri che sono stati notabilissimi
in simili modi di procedere. Di che per leggersi assai esempli, non ne
replicherò alcuno. Dirò solo questo, che io non intendo quella fraude essere
gloriosa, che ti fa rompere la fede data ed i patti fatti; perché questa,
ancora che la ti acquisti, qualche volta, stato e regno, come di sopra si
discorse, la non ti acquisterà mai gloria. Ma parlo di quella fraude che si usa
con quel nimico che non si fida di te, e che consiste proprio nel maneggiare la
guerra; come fu quella di Annibale quando in sul lago di Perugia simulò la fuga
per rinchiudere il Consolo e lo esercito romano, e quando, per uscire di mano
di Fabio Massimo, accese le corna dello armento suo. Alle quali fraudi fu
simile questa che usò Ponzio capitano dei Sanniti, per rinchiudere lo esercito
romano dentro alle Forche Caudine: il quale, avendo messo lo esercito suo a
ridosso de' monti, mandò più suoi soldati sotto veste di pastori con assai
armento per il piano; i quali sendo presi dai Romani, e domandati dove era lo
esercito de' Sanniti, convennono tutti, secondo l'ordine dato da Ponzio, a dire
come egli era allo assedio di Nocera. La quale cosa, creduta dai Consoli, fece
che ei si rinchiusono dentro ai balzi caudini; dove entrati, furono subito
assediati dai Sanniti. E sarebbe stata questa vittoria, avuta per fraude,
gloriosissima a Ponzio, se egli avesse seguitati i consigli del padre il quale
voleva che i Romani o ei si salvassono liberamente o ei si ammazzassono tutti,
e che non si pigliasse la via del mezzo, «quae, neque amicos parat neque
inimicos tollit». La quale via fu sempre perniziosa nelle cose di stato
come di sopra in altro luogo si discorse.
41
Che
la patria si debbe difendere o con ignominia o con gloria; ed in qualunque modo
è bene difesa.
Era,
come di sopra si è detto, il Consolo e lo esercito romano assediato da'
Sanniti: i quali avendo posto ai Romani condizioni ignominiosissime (come era
volergli mettere sotto il giogo, e disarmati rimandargli a Roma), e per questo
stando i Consoli come attoniti, e tutto lo esercito disperato; Lucio Lentolo,
legato romano, disse che non gli pareva che fosse da fuggire qualunque partito
per salvare la patria: perché, consistendo la vita di Roma nella vita di quello
esercito, gli pareva da salvarlo in ogni modo; e che la patria è bene difesa in
qualunque modo la si difende, o con ignominia o con gloria: perché, salvandosi
quello esercito, Roma era a tempo a cancellare la ignominia; non si salvando,
ancora che gloriosamente morisse, era perduto Roma e la libertà sua. E così fu
seguitato il suo consiglio. La quale cosa merita di essere notata ed osservata
da qualunque cittadino si truova a consigliare la patria sua: perché dove si
dilibera al tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna
considerazione né di giusto né d'ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di
laudabile né d'ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al
tutto quel partito che le salvi la vita e mantenghile la libertà. La quale cosa
è imitata con i detti e con i fatti dai Franciosi, per difendere la maestà del
loro re e la potenza del loro regno; perché nessuna voce odono più
impazientemente che quella che dicesse:
Il tale partito è ignominioso per il re ; perché dicono che il loro re
non può patire vergogna in qualunque sua diliberazione, o in buona o in avversa
fortuna: perché, se perde, se vince, tutto dicono essere cose da re.
42
Che
le promesse fatte per forza, non si debbono osservare.
Tornati
i Consoli con lo esercito disarmato e con la ricevuta ignominia a Roma, il
primo che in Senato disse che la pace fatta a Caudio non si doveva osservare,
fu il consolo Spurio Postumio; dicendo, come il popolo romano non era obligato,
ma ch'egli era bene obligato esso e gli altri che avevano promessa la pace: e
però il popolo, volendosi liberare da ogni obligo, aveva a dare prigioni nelle
mani de' Sanniti lui e tutti gli altri che l'avevano promessa. E con tanta
ostinazione tenne questa conclusione, che il Senato ne fu contento; e mandando
prigioni lui e gli altri in Sannio, protestarono ai Sanniti la pace non valere.
E tanto fu in questo caso, a Postumio, favorevole la fortuna, che i Sanniti non
lo ritennono; e ritornato in Roma, fu Postumio appresso ai Romani più glorioso
per avere perduto, che non fu Ponzio appresso ai Sanniti per avere vinto. Dove
sono da notare due cose: l'una, che in qualunque azione si può acquistare
gloria, perché nella vittoria si acquista ordinariamente; nella perdita si
acquista o col mostrare tale perdita non essere venuta per tua colpa, o per
fare subito qualche azione virtuosa che la cancelli: l'altra è, che non è
vergognoso non osservare quelle promesse che ti sono state fatte promettere per
forza; e sempre le promesse forzate che riguardano il publico, quando e' manchi
la forza, si romperanno, e fia sanza vergogna di chi le rompe. Di che si
leggono in tutte le istorie vari esempli; e ciascuno dì, ne' presenti tempi, se
ne veggono. E non solamente non si osservano intra i principi le promesse
forzate, quando e' manca la forza; ma non si osservano ancora tutte le altre
promesse, quando e' mancano le cagioni che le feciono promettere. Il che se è
cosa laudabile o no, o se da uno principe si debbono osservare simili modi o
no, largamente è disputato da noi nel nostro trattato De Principe: però al
presente lo tacereno.
43
Che
gli uomini, che nascono in una provincia, osservino per tutti i tempi quasi
quella medesima natura.
Sogliono
dire gli uomini prudenti, e non a caso né immeritamente, che chi vuole vedere
quello che ha a essere, consideri quello che è stato; perché tutte le cose del
mondo, in ogni tempo, hanno il proprio riscontro con gli antichi tempi. Il che
nasce perché, essendo quelle operate dagli uomini, che hanno ed ebbono sempre
le medesime passioni, conviene di necessità che le sortischino il medesimo
effetto. Vero è, che le sono le opere loro ora in questa provincia più virtuose
che in quella, ed in quella più che in questa, secondo la forma della
educazione nella quale quegli popoli hanno preso il modo del vivere loro. Fa
ancora facilità il conoscere le cose future per le passate; vedere una nazione
lungo tempo tenere i medesimi costumi, essendo o continovamente avara, o
continovamente fraudolente, o avere alcuno altro simile vizio o virtù. E chi
leggerà le cose passate della nostra città di Firenze, e considererà quelle
ancora che sono ne' prossimi tempi occorse, troverrà i popoli tedeschi e
franciosi pieni di avarizia, di superbia, di ferocità e d'infidelità; perché
tutte queste quattro cose in diversi tempi hanno offeso molto la nostra città.
E quanto alla poca fede, ognuno sa quante volte si dette danari a re Carlo
VIII, ed elli prometteva rendere le fortezze di Pisa, e non mai le rendé. In
che quel re mostrò la poca fede, e l'assai avarizia sua. Ma lasciamo andare
queste cose fresche. Ciascuno può avere inteso quello che seguì nella guerra
che fece il popolo fiorentino contro a' Visconti duchi di Milano; ed essendo
Firenze privo degli altri ispedienti, pensò di condurre lo imperadore in
Italia, il quale con la riputazione e forze sue assaltasse la Lombardia.
Promisse lo imperadore venire con assai genti, e fare quella guerra contro a'
Visconti, e difendere Firenze dalla potenza loro, quando i Fiorentini gli
dessono centomila ducati per levarsi, e centomila poi ch'ei fosse in Italia. Ai
quali patti consentirono i Fiorentini; e pagatigli i primi danari, e dipoi i
secondi, giunto che fu a Verona, se ne tornò indietro sanza operare alcuna
cosa, causando essere restato da quegli che non avevano osservate le
convenzioni erano fra loro. In modo che, se Firenze non fosse stata o costretta
dalla necessità o vinta dalla passione, ed avesse letti e conosciuti gli
antichi costumi de' barbari, non sarebbe stata né questa né molte altre volte
ingannata da loro; essendo loro stati sempre a un modo, ed avendo in ogni parte
e con ognuno usati i medesimi termini. Come ei si vede ch'ei fecero anticamente
a' Toscani, i quali essendo oppressi dai Romani, per essere stati da loro più
volte messi in fuga e rotti; e veggendo mediante le loro forze non potere
resistere allo impeto di quegli; convennono, con i Franciosi che di qua
dall'Alpi abitavano in Italia, di dare loro somma di danari, e che fussono
obligati congiugnere gli eserciti con loro, ed andare contro ai Romani: donde
ne seguì che i Franciosi, presi i danari, non vollono dipoi pigliare l'armi per
loro, dicendo avergli avuti, non per fare guerra con i loro nimici, ma perché
si astenessino di predare il paese toscano. E così i popoli toscani, per
l'avarizia e poca fede de' Franciosi, rimasono ad un tratto privi de' loro
danari, e degli aiuti che gli speravono da quegli. Talché si vede, per questo
esemplo de' Toscani antichi, e per quello de' Fiorentini, i Franciosi avere
usati i medesimi termini; e per questo facilmente si può conietturare, quanto i
principi si possono fidare di loro.
44
E'
si ottiene con l'impeto e con l'audacia molte volte quello che con modi
ordinarii non si otterrebbe mai.
Essendo
i Sanniti assaltati dallo esercito di Roma, e non potendo con lo esercito loro
stare alla campagna a petto ai Romani, diliberarono lasciare guardate le terre
in Sannio e di passare con tutto lo esercito loro in Toscana, la quale era in
triegua con i Romani; e vedere, per tale passata, se ei potessono con la
presenzia dello esercito loro indurre i Toscani a ripigliare l'armi; il che
avevano negato ai loro ambasciadori. E nel parlare che feciono i Sanniti ai Toscani,
nel mostrare, massime, qual cagione gli aveva indotti a pigliare l'armi,
usarono uno termine notabile, dove dissono: «rebellasse, quod pax
servientibus gravior, quam liberis bellum esset». E così, parte con le
persuasioni, parte con la presenza dello esercito loro, gl'indussono a
ripigliare l'armi. Dove è da notare che quando uno principe desidera ottenere
una cosa da uno altro, debbe, se la occasione lo patisce, non gli dare spazio a
diliberarsi, e fare in modo che vegga la necessità della presta diliberazione;
la quale è quando colui che è domandato vede che dal negare o dal differire ne
nasca una subita e pericolosa indegnazione. Questo termine si è veduto bene
usare ne' nostri tempi da papa Iulio con i Franciosi, e da monsignore di Fois
capitano del re di Francia col marchese di Mantova: perché papa Iulio, volendo
cacciare i Bentivogli di Bologna, e giudicando, per questo, avere bisogno delle
forze franciose, e che i Viniziani stessono neutrali; ed avendone ricerco l'uno
e l'altro, e traendo da loro risposta dubbia e varia; diliberò col non dare
loro tempo fare venire l'uno e l'altro nella sentenza sua: e partitosi da Roma
con quelle tante genti ch'ei poté raccozzare, ne andò verso Bologna; ed ai
Viniziani mandò a dire che stessono neutrali, ed al re di Francia, che gli
mandasse le forze. Talché, rimanendo tutti distretti dal poco spazio di tempo,
e veggendo come nel papa doveva nascere una manifesta indegnazione differendo o
negando, cederono alle voglie sue, ed il re gli mandò aiuto, ed i Viniziani si
stettono neutrali. Monsignor di Fois, ancora, essendo con lo esercito in
Bologna, ed avendo intesa la ribellione di Brescia, e volendo ire alla
ricuperazione di quella, aveva due vie; l'una per il dominio del re, lunga e
tediosa; l'altra, breve, per il dominio di Mantova: e non solamente era
necessitato passare per il dominio di quel marchese, ma gli conveniva entrare
per certe chiuse intra paludi e laghi, di che è piena quella regione, le quali
con fortezze ed altri modi erano serrate e guardate da lui. Onde che Fois,
diliberato d'andare per la più corta, e per vincere ogni difficultà né dare
tempo al marchese a diliberarsi, a un tratto mosse le sue genti per quella via,
ed al marchese significò gli mandasse le chiavi di quel passo. Talché il marchese,
occupato da questa subita diliberazione, gli mandò le chiavi: le quali mai gli
arebbe mandate se Fois più trepidamente si fosse governato, essendo quello
marchese in lega con il Papa e con i Viniziani, ed avendo uno suo figliuolo
nelle mani del Papa; le quali cose gli davano molte oneste scuse a negarle. Ma
assaltato dal subito partito, per le cagioni che di sopra si dicono, le
concesse. Così feciono i Toscani coi Sanniti, avendo, per la presenza dello
esercito di Sannio, preso quelle armi che gli avevano negato, per altri tempi,
pigliare.
45
Quale
sia migliore partito nelle giornate, o sostenere l'impeto de' nimici, e,
sostenuto, urtargli; ovvero da prima con furia assaltargli.
Erano
Decio e Fabio, consoli romani, con due eserciti all'incontro degli eserciti de'
Sanniti e de' Toscani; e venendo alla zuffa ed alla giornata insieme, è da
notare, in tale fazione, quale de' due diversi modi di procedere tenuti dai due
Consoli sia migliore. Perché Decio con ogni impeto e con ogni suo sforzo
assaltò il nimico; Fabio solamente lo sostenne, giudicando lo assalto lento
essere più utile, riserbando l'impeto suo nello ultimo, quando il nimico avesse
perduto el primo ardore del combattere, e, come noi diciamo, la sua foga. Dove
si vede, per il successo della cosa, che a Fabio riuscì molto meglio il disegno
che a Decio: il quale si straccò ne' primi impeti; in modo che, vedendo la
banda sua più tosto in volta che altrimenti, per acquistare con la morte quella
gloria alla quale con la vittoria non aveva potuto aggiugnere, ad imitazione
del padre sacrificò sé stesso per le romane legioni. La quale cosa intesa da
Fabio, per non acquistare manco onore vivendo, che si avesse il suo collega
acquistato morendo, spinse innanzi tutte quelle forze che si aveva a tale
necessità riservate; donde ne riportò una felicissima vittoria. Donde si vede
che il modo del procedere di Fabio è più sicuro e più imitabile.
46
Donde
nasce che una famiglia in una città tiene un tempo i medesimi costumi.
E'
pare che non solamente l'una città dall'altra abbia certi modi ed instituti
diversi, e procrei uomini o più duri o più effeminati, ma nella medesima città
si vede tale differenza essere nelle famiglie, l'una dall'altra. Il che si
riscontra essere vero in ogni città, e nella città di Roma se ne leggono assai
esempli: perché e' si vede i Manlii essere stati duri ed ostinati, i Publicoli
uomini benigni ed amatori del popolo, gli Appii ambiziosi e nimici della Plebe:
e così molte altre famiglie avere avute ciascuna le qualità sue spartite dall'altre.
Le quali cose non possono nascere solamente dal sangue, perché conviene che
varii mediante la diversità de' matrimonii; ma è necessario venga dalla diversa
educazione che ha l'una famiglia dall'altra. Perché gl'importa assai che un
giovanetto da' teneri anni cominci a sentire dire bene o male d'una cosa;
perché conviene di necessità ne faccia impressione, e da quella poi regoli il
modo del procedere in tutti i tempi della sua vita. E se questo non fusse,
sarebbe impossibile che tutti gli Appii avessono avuto la medesima voglia, e
fossono stati agitati dalle medesime passioni, come nota Tito Livio in molti di
loro: e per ultimo, essendo uno di loro fatto Censore ed avendo il suo collega
alla fine de' diciotto mesi, come ne disponeva la legge, diposto il magistrato,
Appio non lo volle diporre, dicendo che lo poteva tenere cinque anni, secondo
la prima legge ordinata da' Censori. E benché sopra questo se ne facessero
assai concioni, e generassissene assai tumulti, non pertanto non ci fu mai
rimedio che volesse diporlo, contro alla volontà del Popolo e della maggiore
parte del Senato. E chi leggerà la orazione gli fece contro Publio Sempronio
tribuno della plebe, vi noterà tutte le insolenzie appiane, e tutte le bontà ed
umanità usate da infiniti cittadini per ubbidire alle leggi ed agli auspicii
della loro patria.
47
Che
uno buono cittadino per amore della patria debbe dimenticare le ingiurie
private.
Era
Marzio consolo con lo esercito contro ai Sanniti, ed essendo stato in una zuffa
ferito, e per questo portando le genti sue pericolo, giudicò il Senato essere
necessario mandarvi Papirio Cursore dittatore per sopperire ai difetti del
consolo. Ed essendo necessario che il Dittatore fosse nominato da Fabio, quale
era consolo con gli eserciti in Toscana; e dubitando, per essergli nimico, che
non volesse nominarlo; gli mandarono i Senatori due ambasciadori a pregarlo,
che, posto da parte i privati odii, dovesse per beneficio publico nominarlo. Il
che Fabio fece, mosso dalla carità della patria; ancora che col tacere e con
molti altri modi facesse segno che tale nominazione gli premesse. Dal quale
debbono pigliare esemplo tutti quelli che cercano di essere tenuti buoni
cittadini.
48
Quando
si vede fare uno errore grande a uno nimico, si debbe credere che vi sia sotto
inganno.
Essendo
rimaso Fulvio Legato nello esercito che e' Romani avevano in Toscana, essendo
ito il Consolo per alcune cerimonie a Roma, i Toscani, per vedere se potevano
avere quello alla tratta, posono uno aguato propinquo a' campi romani, e
mandarono alcuni soldati con veste di pastori con assai armento, e li feciono
venire alla vista dello esercito romano: i quali così travestiti si accostarono
allo steccato del campo; onde che il Legato, maravigliatosi di questa loro
presunzione, non gli parendo ragionevole, tenne modo ch'egli scoperse la
fraude; e così restò il disegno de' Toscani rotto. Qui si può commodamente
notare, che uno capitano di eserciti non debbe prestare fede ad uno errore che
evidentemente si vegga fare al nimico: perché sempre vi sarà sotto fraude, non
sendo ragionevole che gli uomini siano tanto incauti. Ma spesso il disiderio
del vincere acceca gli animi degli uomini, che non veggono altro che quello
pare facci per loro.
I
Franciosi, avendo vinto i Romani ad Allia, e venendo a Roma, e trovando le
porte aperte e sanza guardia, stettero tutto quel giorno e la notte sanza
entrarvi, temendo di fraude, e non potendo credere che fusse tanta viltà e
tanto poco consiglio ne' petti romani, che gli abbandonassono la patria. Quando
nel 1508, stando li Fiorentini, a campo a Pisa, Alfonso Del Mutolo, cittadino
pisano, si trovava prigione de' Fiorentini e' promisse che, s'egli era libero,
che darebbe una porta di Pisa allo esercito fiorentino. Fu costui libero:
dipoi, per praticare la cosa, venne molte volte a parlare con i legati de'
commessari; e veniva non di nascosto ma scoperto ed accompagnato da' Pisani; i
quali lasciava da parte, quando parlava con i Fiorentini. Talmenteché si poteva
conietturare il suo animo doppio; perché non era ragionevole, se la pratica
fosse stata fedele, ch'elli l'avesse trattata sì alla scoperta. Ma il disiderio
che si aveva di avere Pisa, accecò in modo i Fiorentini, che, condottisi con
l'ordine suo alla porta a Lucca, vi lasciarono più loro capi ed altre genti,
con disonore loro, per il tradimento doppio che fece detto Alfonso.
49
Una
republica, a volerla mantenere libera, ha ciascuno dì bisogno di nuovi
provvedimenti; e per quali meriti Quinto Fabio fu chiamato Massimo.
È
di necessità, come altre volte si è detto, che ciascuno dì in una città grande
naschino accidenti che abbiano bisogno del medico; e secondo che gl'importano
più, conviene trovare il medico più savio. E se in alcuna città nacquono mai simili
accidenti, nacquono in Roma e strani ed insperati; come fu quello quando e'
parve che tutte le donne romane avessono congiurato contro ai loro mariti di
ammazzargli: tante se ne trovò che gli avevano avvelenati, e tante che avevano
preparato il veleno per avvelenargli. Come fu ancora quella congiura de'
Baccanali, che si scoprì nel tempo della guerra macedonica, dove erano già
inviluppati molte migliaia di uomini e di donne; e, se la non si scopriva,
sarebbe stata pericolosa per quella città, o se pure i Romani non fussono stati
consueti a gastigare le moltitudini degli erranti: perché, quando e' non si
vedesse per altri infiniti segni la grandezza di quella Republica, e la potenza
delle esecuzioni sue, si vede per le qualità della pena che la imponeva a chi
errava. Né dubitò fare morire per via di giustizia una legione intera per
volta, ed una città; e di confinare otto o diecimila uomini con condizioni
istraordinarie, da non essere osservate da uno solo, non che da tanti: come
intervenne a quelli soldati che infelicemente avevano combattuto a Canne; i
quali confinò in Sicilia, ed impose loro che non albergassono in terra, e che
mangiassono ritti.
Ma
di tutte le altre esecuzioni era terribile il decimare gli eserciti, dove a
sorte, di tutto uno esercito, era morto di ogni dieci uno. Né si poteva, a
gastigare una moltitudine, trovare più spaventevole punizione di questa. Perché
quando una moltitudine erra, dove non sia l'autore certo, tutti non si possono
gastigare, per essere troppi; punirne parte, e parte lasciarne impuniti, si
farebbe torto a quegli che si punissono, e gli impuniti arebbono animo di
errare un'altra volta. Ma ammazzandone la decima parte a sorte, quando tutti lo
meritano, chi è punito si duole della sorte, chi non è punito ha paura che un'altra
volta non tocchi a lui, e guardasi da errare. Furono punite, adunque, le
venefiche e le baccanali, secondo che meritavano i peccati loro. E benché
questi morbi in una republica faccino cattivi effetti, non sono a morte, perché
sempre quasi si ha tempo a correggergli: ma non si ha già tempo in quelli che
riguardano lo stato, i quali, se non sono da uno prudente corretti, rovinano la
città.
Erano
in Roma, per la liberalità che i Romani usavano di donare la civiltà a'
forestieri, nate tante genti nuove, che le cominciavano avere tanta parte ne'
suffragi, che il governo cominciava variare, e partivasi da quelle cose e da
quelli uomini dove era consueto andare. Di che accorgendosi Quinto Fabio, che
era Censore, messe tutte queste genti nuove, da chi dipendeva questo disordine,
sotto quattro Tribù acciocché non potessono, ridutti in sì piccoli spazi,
corrompere tutta Roma. Fu questa cosa bene conosciuta da Fabio, e postovi,
sanza alterazione, conveniente rimedio; il quale fu tanto accetto a quella
civiltà, ch'e' meritò di essere chiamato Massimo.