Niccolò Machiavelli

 

I capitoli

 

 

 

Di Fortuna

 

A GIOVAN BATTISTA SODERINI

 

          Con che rime giammai o con che versi

canterò io del regno di Fortuna,

e de' suo' casi prosperi e avversi?

          E come iniuriosa ed importuna,

secondo iudicata è qui da noi,

sotto il suo seggio tutto il mondo aduna?

          Temer, Giovan Battista, tu non puoi,

né debbi in alcun modo aver paura

d'altre ferite che de' colpi suoi;

          perché questa volubil creatura

spesso si suole oppor con maggior forza,

dove più forza vede aver natura.

          Sua natural potenza ogni uomo sforza;

e 'l regno suo è sempre violento,

se virtù eccessiva non l'ammorza.

          Ond'io ti priego che tu sia contento

considerar questi miei versi alquanto,

se ci sia cosa di te degna drento.

          E la diva crudel rivolga intanto

ver di me gli occhi sua feroci, e legga

quel ch'or di lei e del suo regno canto.

          E benché in alto sopra tutti segga,

comandi e regni impetuosamente,

chi del suo stato ardisce cantar vegga.

          Questa da molti è detta onnipotente,

perché qualunche in questa vita viene,

o tardi o presto la sua forza sente.

          Costei spesso gli buon sotto i piè tiene,

gl'improbi innalza; e se mai ti promette

cosa veruna, mai te la mantiene.

          E sottosopra e regni e stati mette

secondo ch'a lei pare, e' giusti priva

del bene che agli ingiusti larga dette.

          Questa incostante dea e mobil diva

gl'indegni spesso sopra un seggio pone,

dove chi degno n'è, mai non arriva.

          Costei il tempo a suo modo dispone;

questa ci esalta, questa ci disface,

senza pietà, senza legge o ragione.

          Né favorire alcun sempre le piace

per tutt'i tempi, né sempre mai preme

colui che 'n fondo di sua rota giace.

          Di chi figliuola fussi, o di che seme

nascessi, non si sa; ben si sa certo

ch'infino a Giove sua potenzia teme.

          Sopra un palazzo d'ogni parte aperto

regnar si vede, e a verun non toglie

l'entrar in quel, ma è l'uscir incerto.

          Tutto il mondo d'intorno vi si accoglie,

desideroso veder cose nove,

e pien d'ambizione e pien di voglie.

          Lei si dimora in su la cima, dove

la vista sua a qualunque uom non niega;

ma piccol tempo la rivolve e muove.

          E ha duo volti questa antica strega,

l'un fero e l'altro mite; e mentre volta,

or non ti vede, or ti minaccia, or prega.

          Qualunque vuole entrar, benigna ascolta;

ma con chi vuole uscirne poi s'adira,

e spesso del partir gli ha la via tolta.

          Dentro, con tante ruote vi si gira

quant'è vario il salire a quelle cose

dove ciascun che vive pon la mira.

          Sospir, bestemmie e parole iniuriose

s'odon per tutto usar da quelle genti,

che dentro al segno suo fortuna ascose;

          e quanto son più ricchi e più potenti,

tanto in lor più discortesia si vede,

tanto son del suo ben men conoscenti.

          Perché tutto quel mal ch'in voi procede,

s'imputa a lei; e s'alcun ben l'uom truova,

per sua propria virtude averlo crede.

          Tra quella turba variata e nuova

di que' conservi che quel loco serra,

Audacia e Gioventù fa miglior pruova.

          Vedevisi il Timor prostrato in terra,

tanto di dubbii pien, che non fa nulla;

poi Penitenzia e Invidia li fan guerra.

          Quivi l'Occasion sol si trastulla,

e va scherzando fra le ruote attorno

la scapigliata e semplice fanciulla;

          e quelle ruoton sempre notte e giorno,

perché il ciel vuole (a cui non si contrasta)

ch'Ozio e Necessità le volti intorno.

          L'una racconcia il mondo, e l'altro il guasta.

Vedesi d'ogni tempo e ad ogni otta

quanto val Pazienzia e quanto basta.

          Usura e Fraude si godono in frotta

potenti e ricchi; e tra queste consorte

sta Liberalità stracciata e rotta.

          Veggonsi assisi sopra de le porte

che mai, come s'è detto, son serrate

senz'occhi e senza orecchi Caso e Sorte.

          Potenzia, onor, ricchezza e sanitate

stanno per premio; per pena e dolore,

servitù, infamia, morbo e povertate.

          Fortuna il rabbioso suo furore

dimostra con quest'ultima famiglia;

quell'altra porge a chi lei porta amore.

          Colui con miglior sorte si consiglia,

tra tutti gli altri che in quel loco stanno,

che ruota al suo voler conforme piglia;

          perché gli umor ch'adoperar ti fanno,

secondo che convengon con costei,

son cagion del tuo bene e del tuo danno.

          Non però che fidar ti possa in lei

né creder d'evitar suo duro morso

suo' duri colpi impetuosi e rei;

          perché, mentre girato sei dal dorso

di ruota per allor felice e buona

la suol cangiar le volte a mezzo il corso;

          e, non potendo tu cangiar persona

né lasciar l'ordin di che 'l ciel ti dota

nel mezzo del cammin la t'abbandona.

          Però, se questo si comprende e nota,

sarebbe un sempre felice e beato,

che potessi saltar di rota in rota;

          ma perché poter questo ci è negato

per occulta virtù che ci governa,

si muta col suo corso il nostro stato.

          Non è nel mondo cosa alcuna eterna:

Fortuna vuol così, che se n'abbella,

acciò che 'l suo poter più si discerna.

          Però si vuol lei prender per sua stella

e quanto a noi è possibile, ogni ora

accomodarsi al variar di quella.

          Tutto quel regno suo, dentro e di fuora

istoriato si vede e dipinto

di que' trionfi de' qua' più s'onora.

          Nel primo loco, colorato e tinto,

si vede come già sotto l'Egitto

il mondo stette subiugato e vinto:

          e come lungamente il tenne vitto

con lunga pace, e come quivi fue

ciò ch'è di bel ne la natura scritto;

          veggonsi poi gli Assirii ascender sue

ad alto scettro, quand'ella non volse

che quel d'Egitto dominassi piue;

          poi, come a' Medi lieta si rivolse;

da' Medi a' Persi: e de' Greci la chioma

ornò di quello onor ch'a' Persi tolse.

          Quivi si vede Menfi e Tebe doma,

Babilon, Troia e Cartagin con quelle,

Ierusalem, Atene, Sparta e Roma.

          Quivi si mostran quanto furon belle

alte, ricche, potenti e come al fine

fortuna a' lor nimici in preda dielle.

          Quivi si veggon l'opre alte e divine

de l'imperio roman, poi, come tutto

il mondo infranse con le sue rovine.

          Come un torrente rapido, ch'al tutto

superbo è fatto, ogni cosa fracassa,

dovunque aggiugne il suo corso per tutto;

          e questa parte accresce e quella abbassa,

varia le ripe, varia il letto e 'l fondo

e fa tremar la terra donde passa;

          così Fortuna, col suo furibondo

impeto, molte volte or qui or quivi

va tramutando le cose del mondo.

          Se poi con gli occhi tuoi più oltre arrivi,

Cesare e Alessandro in una faccia

vedi fra que' che fur felici vivi.

          Da questo esempio, quanto a costei piaccia,

quanto grato le sia, si vede scorto,

chi l'urta, chi la pigne o chi la caccia.

          Pur nondimanco al desiato porto

l'un non pervenne, e l'altro, di ferite

pieno, fu a l'ombra del nimico morto.

          Appresso questi son genti infinite,

che per cadere in terra maggior botto,

son con costei altissimo salite.

          Con questi iace preso, morto e rotto

Ciro e Pompeio, poi che ciascheduno

fu da Fortuna infin al ciel condotto.

          Avresti tu mai visto in loco alcuno

come una aquila irata si trasporta,

cacciata da la fame e dal digiuno?

          E come una testudine alto porta

acciò che 'l colpo del cader la 'nfranga,

e pasca sé di quella carne morta?

          Così Fortuna, non, ch'ivi rimanga,

porta uno in alto, ma che, ruinando,

lei se ne goda e lui cadendo pianga.

          Ancor si vien dopo costor mirando

come d'infimo stato alto si saglia,

e come ci si viva variando.

          Dove si vede come la travaglia

e Tullio e Mario, e li splendidi corni

più volte di lor gloria or cresce, or taglia.

          Vedesi alfin che tra' passati giorni

pochi sono e' felici; e que' son morti

prima che la lor ruota indrieto torni,

          o che voltando al basso ne li porti.

 

 

 

 

Dell'Ingratitudine

 

A GIOVANNI FOLCHI

 

 

          Giovanni Folchi, il viver mal contento,

pe 'l dente de l'Invidia che mi morde,

mi darebbe più doglie e più tormento,

          se non fussi ch'ancor le dolci corde

d'una mia cetra che suave suona,

fanno le Muse al mio cantar non sorde;

          non sì ch'i' speri averne altra corona

non sì ch'io creda che per me s'aggiunga

una gocciola d'acqua ad Elicona.

          Io so ben quanto quella via sie lunga;

conosco non aver cotanta lena

che sopra 'l colle disiato giunga;

          per tutta volta un tal disìo mi mena,

ch'io credo forse andando posser còrre

qualche arbuscel di che la piaggia è piena.

          Cantando, adunque, cerco dal cor tOrre

e frenar quel dolor de' casi avversi,

che drieto a l'almo mio furioso corre;

          e come del servir gli anni sien persi,

come infra rena si semini ed acque,

sarà or la materia de' miei versi.

          Quando a le stelle, quando al ciel dispiacque

la gloria de' viventi, in lor dispetto

allor nel mondo Ingratitudo nacque.

          Fu d'Avarizia figlia e di Sospetto:

nutrita ne le braccia de la Invidia:

de' principi e de' re vive nel petto.

          Quivi il suo seggio principale annidia;

di quindi il cor di tutta l'altra gente

col venen tinge de la sua perfidia;

          onde, per tutto, questo mal si sente,

perch'ogni cosa de la sua nutrice

trafigge e morde l'arrabbiato dente.

          E s'alcun prima si chiama felice

pe 'l ciel benigno e suo' lieti favori,

non dopo molto tempo si ridice,

          come e' vede il suo sangue e sua sudori

e che 'l suo viver ben servendo, stanco,

con Iniuria e calunnia si ristori.

          Tien questa peste (e mai non vengon manco,

ché dopo l'una poi l'altra rimette

ne la faretra ch'ell'ha sopra 'l fianco)

          di venen tinte tre crudel saette,

con le qual punto di ferir non cessa

questo e quell'altro, ove la mira mette.

          La prima de le tre, che vien da essa,

fa che l'uom solo il benefizio allega,

ma senza premiarlo lo confessa;

          e la seconda che di poi si spiega,

fa del ben ricevuto l'uom si scorda,

ma sanza iniuriarlo solo il niega;

          l'ultima fa che l'uom mai non ricorda

né premia il ben, ma che, iusta sua possa

il suo benefattor laceri e morda.

          Questo colpo trapassa dentro a l'ossa;

questa terza ferita è più mortale;

questa saetta vien con maggior possa.

          Mai vien men, mai si spegne questo male;

mille volte rinasce, s'una more,

perch'ha suo padre e sua madre immortale;

          e, come io dissi, trionfa nel core

d'ogni potente, ma più si diletta

nel cor del popul quando egli è signore.

          Questo è ferito da ogni saetta

più crudelmente, perché sempre avviene

che dove men si sa, più si sospetta;

          e le sue genti, d'ogni invidia piene,

tengon desto il sospetto sempre, ed esso

gli orecchi a le calunnie aperti tiene.

          Di qui resulta che si vede spesso

com'un buon cittadino un frutto miete

contrario al seme che nel campo ha messo.

          Era di pace priva e di quiete

Italia, allor che 'l punico coltello

saziata avea la barbarica sete,

          quando già nato nel romano ostello,

anzi da ciel mandato, un uom divino

qual mai fu ne mai fie simile a quello;

          questo, ancor giovinetto, in sul Tesino

suo padre col suo petto ricoperse:

primo presagio al suo lieto destino;

          e quando Canne tanti Roman perse,

con un coltello in man, feroce e solo,

d'abbandonar l'Italia non sofferse.

          Poco di poi, nello Ispanico sòlo,

volle il senato a far vendetta gisse

del comun danno e del privato dolo.

          Come in Affrica ancor le insegne misse,

prima Siface, e di poi d'Anniballe

e la fortuna e la sua patria afflisse.

          Allor gli diè il gran barbaro le spalle;

allora il roman sangue vendicò,

sparso da quel per l'italiche valle.

          Di quivi in Asia col fratello andò,

dove, per sua prudenza e sua bontà,

di Asia a Roma il trionfo ne portò.

          E tutte le provincie e le città,

dovunqu'e' fu, lasciò piene d'esempi

di pietà, di fortezza e castità.

          Qual lingua fia che tante laudi adempi?

Quale occhio che contempli tanta luce?

O felici Roman! felici tempi!

          Da questo invitto e glorioso duce

fu a ciascun dimostro quella via

ch'a la più alta gloria l'uom conduce.

          Non mai negli uman cuor fu visto o fia,

quantunque degni, gloriosi e divi,

tanto valore e tanta cortesia;

          e tra que' che son morti e che son vivi

e tra l'antiche e le moderne genti,

non si truova uom che a Scipione arrivi.

          Non però invidia di mostrargli i denti

temé de la sua rabbia, e riguardarlo

con le pupille de' suoi occhi ardenti.

          Costei fece nel populo accusarlo,

e volle uno infinito benefizio

con infinita iniuria accompagnarlo.

          Ma poi che vidde questo comun vizio

armato contro a sé, volse costui

voluntario lasciar lo 'ngrato ospizio;

          e dette luogo al mal voler d'altrui,

tosto che vidde com'e' bisognava

Roma perdesse o libertate o lui.

          Né l'almo suo d'altra vendetta armava;

solo a la patria sua lasciar non volse

quell'ossa che d'aver non meritava.

          E così il cerchio di sua vita volse

fuor del suo patrio nido; e così frutto

a la sementa sua contrario colse.

          Non fu già sola Roma ingrata al tutto:

riguarda Atene, dove Ingratitudo

pose il suo nido più ch'altrove brutto.

          Né valse contro a lei prender lo scudo,

quando a l'incontro assai legge creolle,

per reprimer tal vizio atroce e crudo.

          E tanto più fu quella città folle,

quanto si vidde come con ragione

conobbe il bene e seguitar nol volle.

          Milziade, Aristide e Focione,

di Temistocle ancor la dura sorte

furno del viver suo buon testimone.

          Questi, per l'opre loro egregie e forte,

furno e' trionfi ch'egli ebbon da quella:

prigione, esilio, vilipendio e morte.

          Perché nel vulgo le vinte castella,

il sangue sparso e l'oneste ferite,

di picciol fallo ogni infamia cancella.

          Ma le triste calunnie e tanto ardite

contr'a' buon cittadin, tal volta fanno

tirannico uno ingegno umano e mite.

          Spesso diventa un cittadin tiranno,

e del viver civil trapassa il segno,

per non sentir d'Ingratitudo il danno.

          A Cesare occupar fe' questo il regno;

e quel che Ingratitudo non concesse,

li dette la iusta ira e 'l iusto sdegno.

          Ma lasciamo ir del popul l'interesse:

a' principi e moderni mi rivolto,

dove anco ingrato cor natura messe.

          Acomatto bascià, non dopo molto

ch'egli ebbe dato il regno a Baiasitte,

morì col laccio intorno al collo avvolto.

          Ha le parti di Puglia derelitte

Consalvo, e al suo re sospetto vive

in premio de le galliche sconfitte.

          Cerca del mondo tutte le sue rive;

troverai pochi principi esser grati,

se leggerai quel che di lor si scrive;

          e vedrai come e' mutator di stati

e donator di regni sempre mai

son con esilio o morte ristorati.

          Perché, quando uno stato mutar fai,

dubita chi tu hai principe fatto,

tu non gli tolga quel che dato gli hai;

          e non ti osserva poi fede né patto,

perché gli è più potente la paura

ch'egli ha di te, che l'obligo contratto.

          E tanto tempo questo timor dura,

quanto pena a veder tua stirpe spenta,

e di te e de' tuoi la sepoltura.

          Onde che spesso servendo si stenta

e poi del ben servir se ne riporta

misera vita e morte violenta.

          Dunque, non sendo Ingratitudo morta

ciascun fuggir le corti e' stati debbe;

che non c'è via che guidi l'uom più corta

          a pianger quel che volle, poi che l'ebbe.

 

 

 

 

Dell'Ambizione

 

A LUIGI GUICCIARDINI

 

 

          Luigi, poi che tu ti maravigli

di questo caso ch'a Siena è seguìto,

non mi par che pe 'l verso il mondo pigli;

          e se nuovo ti par quel ch'hai sentito,

come tu m'hai certificato e scritto,

pensa un po' meglio a l'umano appetito.

          Perché dal sòl di Scizia a quel d'Egitto,

da l'Inghilterra a l'opposita riva,

si vede germinar questo delitto.

          Qual regione o qual città n'è priva?

Qual borgo, qual tugurio? In ogni lato

l'Ambizione e l'Avarizia arriva.

          Queste nel mondo, come l'uom fu nato,

nacquono ancora; e se non fussi quelle,

sarebbe assai felice il nostro stato.

          Di poco aveva Dio fatto le stelle,

il ciel, la luce, gli elementi e l'uomo

dominator di tante cose belle,

          e la superbia degli Angeli domo,

di paradiso Adam fatto ribello

con la sua donna pe 'l gustar del pomo;

          quando che, nati Cain ed Abello,

col padre loro e de la lor fatica

vivendo lieti nel povero ostello,

          potenzia occulta che 'n ciel si nutrica,

tra le stelle che quel girando serra,

a la natura umana poco amica,

          per privarci di pace e porne in guerra,

per torci ogni quiete e ogni bene,

mandò duo furie ad abitare in terra.

          Nude son queste, e ciascheduna viene

con grazia tale, che agli occhi di molti

paion di quella e di diletto piene.

          Ha ciascheduna d'esse quattro volti

con otto mani; e queste cose fanno

ti prenda e vegga ovunque una si volti.

          Con queste, Invidia, Accidia e Odio vanno

de la lor peste riempiendo il mondo,

e con lor Crudeltà, Superbia e Inganno.

          Da queste Concordia è cacciata al fondo;

e, per mostrar la lor voglia infinita,

portano in mano una urna sanza fondo.

          Per costor la quieta e dolce vita,

di che l'albergo di Adam era pieno,

si fu, con Pace e Carità, fuggita.

          Queste del lor pestifero veneno,

contr'al suo buon fratel, Cain armaro,

empiendogliene il grembo, il petto e 'l seno.

          E loro alta potenzia demostraro

poi che posserno far ne' primi tempi

un petto ambizioso, un petto avaro,

          quando gli uomin vivieno e nudi e scempi

d'ogni fortuna, e quando ancor non era

di povertà e di ricchezze esempi.

          O mente umana insaziabil, altera,

subdola e varia, e sopra ogni altra cosa

maligna, iniqua, impetuosa e fera,

          poi che, per la tua voglia ambiziosa,

si fe' la prima morte violenta

nel mondo, e la prima erba sanguinosa!

          Cresciuta poi questa mala sementa,

multiplicata la cagion del male,

non c'è ragion che di mal far si penta.

          Di qui nasce ch'un scende e l'altro sale;

di qui dipende, sanza legge o patto,

Il variar d'ogni stato mortale.

          Questa ha di Francia il re più volte tratto;

questa del re Alfonso e Lodovico

e di san Marco ha lo stato disfatto.

          Né sol quel che di bene ha il suo nimico,

ma quel che pare (e così sempre fue

il mondo fatto, moderno e antico)

          ogni uom stima, ogni uom spera piue

sormontare, opprimendo or quello or questo,

che per qualunche sua propria virtue.

          A ciascun l'altrui ben sempre è molesto;

e però sempre, con affanno e pena

al mal d'altrui è vigilante e desto.

          A questo, istinto natural ci mena

per proprio moto e propria passione,

se legge o maggior forza non ci affrena.

          Ma se volessi saper la cagione,

perch'una gente imperi e l'altra pianga,

regnando in ogni loco Ambizione;

          e perché Francia vittrice rimanga;

da l'altra parte, perché Italia tutta

un mar d'affanni tempestoso franga;

          e perché 'n queste parti sia redutta

la penitenzia di quel tristo seme

che Ambizione ed Avarizia frutta:

          se con Ambizion congiunto e insieme

un cor feroce, una virtute armata,

quivi del proprio mal raro si teme.

          Quando una region vive effrenata

per sua natura, e poi, per accidente,

di buone leggi instrutta e ordinata;

          l'Ambizion contr'a l'esterna gente

usa il furor ch'usarlo infra se stessa

né la legge né il re gliene consente;

          onde il mal proprio quasi sempre cessa;

ma suol ben disturbar l'altrui ovile,

dove quel suo furor l'insegna ha messa.

          Fie, per adverso, quel loco servile,

ad ogni danno, ad ogni iniuria esposto,

dove sie gente ambiziosa e vile.

          Se Viltà e trist'ordin siede accosto

a questa Ambizione, ogni sciaura,

ogni ruina, ogni altro mal vien tosto.

          E quando alcun colpassi la natura

se in Italia, tanto afflitta e stanca,

non nasce gente sì feroce e dura,

          dico che questo non escusa e franca

la viltà nostra, perché può supplire

l'educazion dove natura manca.

          Questa l'Italia già fece fiorire,

e di occupare il mondo tutto quanto

la fiera educazion le dette ardire.

          Or vive, se vita è vivere in pianto,

sotto quella ruina e quella sorte

ch'ha meritato l'ozio suo cotanto.

          Viltate è quello, con l'altre consorte;

d'Ambizione son quelle ferite

ch'hanno d'Italia le provincie morte.

          Lasciar ir di Siena le fraterne lite;

volta gli occhi, Luigi, a questa parte:

fra queste genti attonite e smarrite.

          Vedrai d'Ambizion l'una e l'altra arte:

come quel ruba e quell'altro si duole

de le fortune sue lacere e sparte.

          Rivolga gli occhi in qua chi veder vuole

l'altrui fatiche, e riguardi se ancora

cotanta crudeltà mai vidde il sole.

          Chi 'l padre morto e chi 'l marito plora;

quell'altro mesto del suo proprio tetto,

battuto e nudo, trar si vede fora.

          O quante volte, avendo il padre stretto

in braccio il figlio, con un colpo solo

è suto rotto a l'uno e l'altro il petto!

          Quello abbandona il suo paterno solo

accusando gli Dei crudeli e ingrati,

con la brigata sua piena di dolo.

          O esempli mai più nel mondo stati!

perché si vede ogni dì parti assai

per le ferite del lor ventre nati.

          Drieto a la figlia sua piena di guai

dice la madre: - A che infelici nozze,

a che crudel marito ti servai! -

          Di sangue son le fosse e l'acque sozze,

piene di teschi, di gambe e di mani,

e d'altre membra laniate e mozze.

          Rapaci uccei, fere silvestri, cani

son poi le lor paterne sepolture:

o sepulcri crudei, feroci e strani!

          Sempre son le lor faccie orride e scure,

a guisa d'uom che sbigottito ammiri

per nuovi danni o sùbite paure.

          Dovunche gli occhi tu rivolti, miri

di lacrime la terra e sangue pregna

e l'aria d'urla, singulti e sospiri.

          Se da altri imparare alcun si degna

come si debba Ambizione usarla,

l'esemplo tristo di costor lo 'nsegna.

          Da poi che l'uom da sé non può cacciarla,

debbe il iudicio e l'intelletto sano

con ordine e ferocia accompagnarla.

          San Marco, a le sue spese, e forse invano,

tardi conosce come li bisogna

tener la spada e non il libro in mano.

          Pur altrimenti di regnar s'agogna

per la più parte; e quanto più s'acquista,

si perde prima e con maggior vergogna.

          Dunque, se spesso qualche cosa è vista

nascere impetuosa ed importuna

che 'l petto di ciascun turba e contrista,

          non ne pigliare ammirazione alcuna,

perché nel mondo la parte maggiore

si lascia dominar da la fortuna.

          Lasso! che mentre ne l'altrui dolore

tengo or l'ingegno involto e la parola,

sono oppressato da maggior timore.

          Io sento Ambizion, con quella scola

ch'al principio del mondo el ciel sortille,

sopra de' monti di Toscana vola;

          e seminato ha già tante faville

tra quelle genti sì d'invidia pregne,

ch'arderà le sue terre e le sue ville,

          se grazia o miglior ordin non la spegne.

 

 

 

 

 

 

 

 

Dell'Occasione

 

A FILIPPO DE' NERLI

 

 

          - Chi se' tu, che non par' donna mortale,

di tanta grazia el ciel t'adorna e dota?

Perché non posi? e perché a' piedi hai l'ale? -

          - Io son l'Occasione, a pochi nota;

e la cagion che sempre mi travagli,

è perch'io tengo un piè sopra una rota.

          Volar non è ch'al mio correr s'agguagli;

e però l'ali a' piedi mi mantengo,

acciò nel corso mio ciascuno abbagli.

          Li sparsi mia capei dinanti io tengo;

con essi mi ricuopro il petto e 'l volto,

perch'un non mi conosca quando io vengo.

          Drieto dal capo ogni capel m'è tolto,

onde invan s'affatica un, se gli avviene

ch'i' l'abbi trapassato, o s'i' mi volto. -

          - Dimmi: chi è colei che teco viene? -

- È Penitenzia; e però nota e intendi:

chi non sa prender me, costei ritiene.

          E tu, mentre parlando il tempo spendi,

occupato da molti pensier vani,

già non t'avvedi, lasso! e non comprendi

          com'io ti son fuggita tra le mani. -