Niccolò Machiavelli
Favola di Belfagor Arcidiavolo
Edizione di riferimento: Niccolò Machiavelli: Favola di Belfagor
Arcidiavolo, in Tutte le opere, a cura di Mario Martelli, Sansoni, Firenze 1971
Leggesi
nelle antiche memorie delle fiorentine cose come già s’intese, per relatione, di alcuno sanctissimo huomo, la cui vita, apresso
qualunque in quelli tempi viveva, era celebrata, che, standosi abstracto nelle sue orazioni, vide mediante quelle come,
andando infinite anime di quelli miseri mortali, che nella disgratia
di Dio morivano, all’inferno, tucte o la maggior
parte si dolevono, non per altro, che per havere preso moglie essersi a tanta infelicità condotte.
Donde che Minos et Radamanto
insieme con gli altri infernali giudici ne havevano maravigla grandissima. Et, non potendo credere, queste
calunnie, che costoro al sexo femmineo davano, essere
vere, et crescendo ogni giorno le querele, et havendo
di tutto facto a Plutone conveniente rapporto, fu
deliberato per lui di havere sopra questo caso con tucti gl’infernali principi maturo examine,
et piglarne dipoi quel partito che fussi giudicato miglore per
scoprire questa fallacia, o conoscerne in tutto la verità. Chiamatogli adunque a concilio, parlò Plutone
in questa sentenza: «Anchora che io, dilettissimi miei, per celeste dispositione
et fatale sorte al tutto inrevocabile possegga questo
regno, et che per questo io non possa essere obligato
ad alcuno iudicio o celeste o mondano, nondimeno,
perché gli è maggiore prudenza di quelli che possono più, sottomettersi più
alle leggi et più stimare l’altrui iuditio, ho
deliberato essere consiglato da voi come, in uno
caso, il quale potrebbe seguire con qualche infamia del nostro imperio, io mi
debba governare. Perché, dicendo tucte l’anime degli huomini, che vengono nel nostro regno, esserne stato
cagione la moglie, et parendoci questo impossibile, dubitiamo che, dando iuditio sopra questa relatione,
ne possiamo essere calunniati come troppo creduli, et, non ne dando, come manco
severi et poco amatori della iustitia. Et perché
l’uno peccato è da huomini leggieri, et l’altro da
ingiusti, et volendo fuggire quegli carichi, che da l’uno et l’altro potrebbono dependere, et non
trovandone il modo, vi habbiamo chiamati, acciò che, consiglandone, ci
aiutiate et siate cagione che questo regno, come per lo passato è vivuto sanza infamia, così per lo
advenire viva».
Parve
a ciascheduno di quegli princìpi il caso
importantissimo et di molta consideratione; et,
concludendo tucti come egli era necessario scoprirne
la verità, erano discrepanti del modo Perché, a chi pareva che si mandassi uno,
a chi più nel mondo, che sotto forma di huomo conoscessi
personalmente questo vero; a molti altri occorreva potersi fare sanza tanto disagio, costringendo varie anime con varii tormenti a scoprirlo. Pure, la maggior parte consiglando che si mandassi, s’indirizorno
a questa opinione. Et non si trovando alcuno, che voluntariamente
prehendessi questa impresa, deliberorno
che la sorte fussi quella che lo dichiarassi. La
quale cadde sopra Belfagor arcidiavolo, ma per lo adietro, avanti che cadessi di cielo, arcangelo. Il quale, anchora che male volentieri piglassi
questo carico, nondimeno, constretto da lo imperio di
Plutone, si dispose a seguire quanto nel concilio si
era determinato, et si obligò a quelle conditioni che infra loro
solennemente erano state deliberate. Le quali erano: che subito a colui che fussi a questa commissione deputato fussino consegnati
centomila ducati, con i quali doveva venire nel mondo, et sotto forma di huomo prender moglie et con quella vivere dieci anni, et
dipoi, fingendo di morire, tornarsene, et per esperienza fare fede a i suoi
superiori quali sieno i carichi et le incommodità del matrimonio. Dichiarossi
anchora che durante detto tempo ei fussi sottoposto a tucti quegli
disagi et mali, che sono sottoposti gli huomini et
che si tira drietro la povertà, le carcere, la
malattia et ogni altro infortunio nel quale gli huomini
incorrono, excepto se con inganno o astuzia se ne
liberassi.
Presa
adunque Belfagor la
condizione et i danari, ne venne nel mondo; et ordinato di sua masnade cavagli
et compagni, entrò honoratissimamente in Firenze; la
quale città innanzi a tucte l’altre elesse per suo
domicilio, come quella che gli pareva più atta a sopportare chi con arte
usurarie exercitassi i suoi danari[...] Et, factosi chiamare Roderigo di Castigla,
prese una casa a ficto nel Borgo d’Ognisanti; et perché non si potessino
rinvenire le sue conditioni, dixe
essersi da piccolo partito di Spagna et itone in Soria et havere in Aleppe guadagnato tucte le sue facultà; donde s’era poi partito per venire in Italia a prehender donna in luoghi più humani
et alla vita civile et allo animo suo più conformi. Era Roderigo bellissimo huomo et monstrava una età di
trenta anni; et havendo in pochi giorni dimostro di
quante richeze abundassi et
dando essempli di sé di essere umano et liberale,
molti nobili cittadini, che havevano assai figlole et pochi danari, se gli offerivano.
Intra le quali tucte Roderigo scelse una bellissima
fanciulla chiamata Onesta, figluola di Amerigo
Donati, il quale ne aveva tre altre insieme con tre figluoli
maschi tucti huomini, et
quelle erano quasi che da marito; et benché fussi
d’una nobilissima famigla
et di lui fussi in Firenze tenuto buono conto, nondimanco era, rispetto alla brigata havea
et alla nobilità, poverissimo. Fecie
Roderigo magnifiche et splendidissime noze, né lasciò indietro alcuna di quelle cose, che in
simili feste si desiderano. Et essendo, per la legge che gli era stata data
nello uscire d’inferno, sottoposto a tucte le
passioni humane, subito cominciò a piglare piacere degli honori et
delle pompe del mondo et havere caro di essere laudato intra gli huomini, il che
gli arrecava spesa non piccola. Oltr’a di questo non
fu dimorato molto con la sua mona Onesta, che se ne innamorò fuori di misura,
né poteva vivere qualunque volta la vedeva stare trista et havere
alcuno dispiacere. Haveva mona Onesta portato in casa
di Roderigo, insieme con la nobilità et con la belleza, tanta superbia che non ne ebbe mai tanta Lucifero;
et Roderigo, che aveva pro vata l’una et l’altra,
giudicava quella della moglie superiore; ma diventò di lunga maggiore, come
prima quella si accorse dello amore che il marito le portava; et parendole
poterlo da ogni parte signoreggiare, sanza alcuna piatà o rispetto lo comandava, né dubitava, quando da lui
alcuna cosa gli era negata, con parole villane et iniuriose
morderlo: il che era a Roderigo cagione di inestimabile noia.
Pur
nondimeno il suocero, i frategli, il parentado, l’obligo del matrimonio et, sopratutto, il grande amore le
portava gli faceva havere pazienza. Io voglo lasciare ire le grande spese, che, per contentarla,
faceva in vestirla di nuove usanze et contentarla di nuove fogge, che
continuamente la nostra città per sua naturale consuetudine varia; ché fu
necessitato, volendo stare in pace con lei, aiutare al suocero maritare l’altre
sue figluole: dove spese grossa somma di danari. Dopo
questo, volendo havere bene con quella, gli convenne
mandare uno de’ frategli in
Levante con panni, un altro in Ponemte con drappi,
all’altro aprire uno battiloro in Firenze: nelle quali cose dispensò la maggiore
parte delle sue fortune. Oltre a di questo, ne’ tempi de’
carnasciali et de’ San
Giovanni, quando tutta la città per antica consuetudine festeggia et che molti
cittadini nobili et richi con splendidissimi
conviti si honorono, per non essere mona Onesta
all’altre donne inferiore, voleva che il suo Roderigo con simili feste tucti gli altri superassi. Le quali cose tucte erano da lui per le sopradette cagioni sopportate; né
gli sarebbono, anchora che
gravissime, parute gravi a farle, se da questo ne fussi nata la quiete della casa sua et s’egli havessi potuto pacificamente aspettare i tempi della sua
rovina. Ma gl’interveniva l’opposito, perché con le
insopportabili spese, la insolente natura di lei infinite incommodità
gli arrecava; et non erano in casa sua né servi né serventi che, nonché molto
tempo, ma brevissimi giorni la potessino sopportare;
donde ne nascevano a Roderigo disagi gravissimi per non potere tenere servo
fidato che havessi amore alle cose sua; et, nonché
altri, quegli diavoli, i quali in persona di famigli haveva
condotti seco, più tosto elessono di tornarsene in
inferno a stare nel fuoco, che vivere nel mondo sotto lo imperio di quella.
Standosi
adunque Roderigo in questa tumultuosa et inquieta
vita, et havendo per le disordinate spese già
consumato quanto mobile si haveva riserbato, cominciò
a vivere sopra la speranza de’ ritracti,
che di Ponente et di Levante aspettava; et havendo anchora buono credito, per non mancare di suo grado, prese
a cambio. Et girandogli già molti marchi adosso, fu
presto notato da quegli, che in simile exercizio in
Mercato si travaglano. Et essendo di già il caso suo
tenero, vennero in un sùbito di Levante et di Ponente
nuove come l’uno de’ frategli
di mona Onesta s’haveva giucato
tutto il mobile di Roderigo, et che l’altro, tornando sopra una nave carica di
sue mercatantie sanza
essersi altrimenti assicurato, era insieme con quelle annegato. Né fu prima publicata questa cosa che i creditori di Roderigo si ristrinsono insieme; et giudicando che fussi
spacciato, né possendo anchora
scoprirsi per non essere venuto il tempo de’
pagamenti loro, conclusono che fussi
bene osservarlo così dextramente, acciò
che dal detto al facto di nascoso non se ne fuggissi.
Roderigo, da l’altra parte, non veggiendo al caso suo
rimedio et sapiendo a quanto la leggie
infernale lo costringeva, pensò di fuggirsi in ogni modo. Et montato una
mattina a cavallo, abitando propinquo alla Porta al Prato, per quella se ne
uscì. Né prima fu veduta la partita sua, che il romore
si levò fra i creditori, i quali ricorsi ai magistrati, non solamente con i
cursori, ma popularmente si missono
a seguirlo. Non era Roderigo, quando se gli lievò drieto il romore, dilungato da la
città uno miglo; in modo che, vedendosi a male
partito, deliberò, per fuggire più segreto, uscire di strada et atraverso per gli campi cercare sua fortuna. Ma sendo, a fare questo, impedito da le assai fosse, che atraversano il paese, né potendo per questo ire a cavallo,
si misse a fuggire a piè et, lasciata la cavalcatura
in su la strada, atraversando di campo in campo,
coperto da le vigne et da’ canneti, di che quel paese abonda,
arrivò sopra Peretola a casa Gianmatteo
del Brica, lavoratore di Giovanni del Bene, et a
sorte trovò Gianmatteo che arrecava a casa da rodere
a i buoi, et se gli raccomandò promettendogli, che se lo salvava dalle mani de’ suoi nimici, i quali, per
farlo morire in prigione, lo seguitavano, che lo farebbe ricco et gliene
darebbe innanzi alla sua partita tale saggio che gli crederrebbe;
et quando questo non facessi, era contento che esso proprio lo ponessi in mano
a i suoi aversarii. Era Gianmatteo,
anchora che contadino, huomo
animoso, et giudicando non potere perdere a piglare
partito di salvarlo, liene promisse;
et cacciatolo in uno monte di letame, quale haveva
davanti a la sua casa, lo ricoperse con cannucce et altre mondigle
che per ardere haveva ragunate.
Non era Roderigo apena fornito di nascondersi, che i
suoi perseguitatori sopradgiunsono
et, per spaventi che facessino a Gianmatteo,
non trassono mai da lui che lo havessi
visto; talché passati più innanzi, havendolo invano
quel dì et quell’altro cerco, strachi se ne tornorno a Firenze. Gianmatteo adunque, cessato il romore et tractolo del loco dove era, lo richiese della fede data. Al
quale Roderigo dixe: – Fratello mio, io ho con teco
un grande obligo et lo voglo
in ogni modo sodisfare; et perché tu creda che io
possa farlo, ti dirò chi io sono. – Et quivi gli narrò di suo essere et delle
leggi avute allo uscire d’inferno et della moglie tolta; et di più gli dixe il modo, con il quale lo voleva arichire:
che insumma sarebbe questo, che, come ei sentiva che
alcuna donna fussi spiritata, credessi lui essere
quello che le fussi adosso;
né mai se n’uscirebbe, s’egli non venissi a trarnelo;
donde arebbe occasione di farsi a suo modo pagare da
i parenti di quella. Et, rimasi in questa conclusione, sparì via.
Né
passorno molti giorni, che si sparse per tutto
Firenze, come una figluola di messer Ambruogio Amidei, la quale haveva maritata a Bonaiuto Tebalducci, era indemoniata; né mancorno
i parenti di farvi tucti quegli remedii,
che in simili accidenti si fanno, ponendole in capo la testa di san Zanobi et il mantello di san Giovanni Gualberto. Le quali
cose tucte da Roderigo erano uccellate. Et, per
chiarire ciascuno come il male della fanciulla era uno spirito et non altra
fantastica imaginazione, parlava in latino et
disputava delle cose di philosophia et scopriva i
peccati di molti; intra i quali scoperse quelli d’uno frate che si haveva tenuta una femmina vestita ad uso di fraticino più di quattro anni nella sua cella: le quali
cose facevano maraviglare ciascuno. Viveva pertanto
messer Ambruogio mal contento; et havendo
invano provati tucti i remedi,
haveva perduta ogni speranza di guarirla, quando Gianmatteo venne a trovarlo et gli promisse
la salute de la sua figluola, quando gli vogla donare cinquecento fiorini per comperare uno podere a
Peretola. Acceptò messer Ambruogio il partito: donde Gianmatteo,
fatte dire prima certe messe et facte sua cerimonie
per abbellire la cosa, si accostò a gli orechi della
fanciulla et dixe: – Roderigo, io sono venuto a
trovarti perché tu mi osservi la promessa. – Al quale Roderigo rispose: – Io
sono contento. Ma questo non basta a farti ricco. Et però, partito che io sarò
di qui, enterrò nella figluola
di Carlo, re di Napoli, né mai n’uscirò sanza te. Farà’ti alhora fare una mancia a
tuo modo. Né poi mi darai più briga. – Et detto questo s’uscì da dosso a colei
con piacere et ammirazione di tucta Firenze.
Non
passò dipoi molto tempo, che per tutta Italia si sparse l’accidente venuto a la
figluola del re Carlo. Né vi si trovando rimedio,
avuta il re notitia di Gianmatteo,
mandò a Firenze per lui. Il quale, arrivato a Napoli, dopo qualche finta
cerimonia la guarì. Ma Roderigo, prima che partissi, dixe:
– Tu vedi, Gianmatteo, io ti ho observato
le promesse di haverti arrichito.
Et però, sendo disobligo,
io non ti sono più tenuto di cosa alcuna. Pertanto sarai contento non mi
capitare più innanzi, perché, dove io ti ho facto bene, ti farei per lo advenire male. – Tornato adunque
a Firenze Gianmatteo richissimo,
perché haveva avuto da il re meglo
che cinquantamila ducati, pensava di godersi quelle richeze
pacificamente, non credendo però che Roderigo pensassi di offenderlo. Ma questo
suo pensiero fu sùbito turbato da una nuova che
venne, come una figluola di Lodovico septimo, re di Francia, era spiritata. La quale nuova
alterò tutta la mente di Gianmatteo, pensando a l’auctorità di quel re et a le parole che gli haveva Roderigo dette. Non trovando adunque
quel re a la sua figluola rimedio, et intendendo la
virtù di Gianmatteo, mandò prima a richiederlo
semplicemente per uno suo cursore. Ma, allegando quello certe indispositioni, fu forzato quel re a richiederne la
Signoria. La quale forzò Gianmatteo a ubbidire.
Andato pertanto costui tutto sconsolato a Parigi, mostrò prima a il re come
egli era certa cosa che per lo adrietro haveva guarita qualche indemoniata, ma che non era per
questo ch’egli sapessi o potessi guarire tucti,
perché se ne trovavano di sì perfida natura che non temevano né minacce né
incanti né alcuna religione; ma con tutto questo era per fare suo debito et,
non gli riuscendo, ne domandava scusa et perdono. Al quale il re turbato dixe che se non la guariva, che lo appenderebbe. Sentì per
questo Gianmatteo dolore grande; pure, facto buono
cuore, fece venire la indemoniata; et, acostatosi
all’orechio di quella, humilmente
si raccomandò a Roderigo, ricordandogli il benificio factogli et di quanta ingratitudine sarebbe exemplo, se lo abbandonassi in tanta necessità. Al quale
Roderigo dixe: – Do! villan
traditore, sì che tu hai ardire di venirmi innanzi? Credi tu poterti vantare
d’essere arichito per le mia mani? Io voglo mostrare a te et a ciascuno come io so dare et tòrre ogni cosa a mia posta; et innanzi che tu ti parta di
qui, io ti farò impiccare in ogni modo. – Donde che Gianmatteo,
non veggiendo per allora rimedio, pensò di tentare la
sua fortuna per un’altra via. Et facto andare via la spiritata, dixe al re: – Sire, come io vi ho detto, et’ sono di molti spiriti che sono sì maligni che con loro
non si ha alcuno buono partito, et questo è uno di quegli. Pertanto io voglo fare una ultima sperienza;
la quale se gioverà, la vostra Maestà et io areno la intenzione nostra; quando
non giovi, io sarò nelle tua forze et harai di me
quella compassione che merita la innocentia mia.
Farai pertanto fare in su la piaza di Nostra Dama un
palco grande et capace di tucti i tuoi baroni et di
tutto il crero di questa città; farai parare il palco
di drappi di seta et d’oro; fabbricherai nel mezo di
quello uno altare; et voglo che domenica mattina
prossima tu con il clero, insieme con tucti i tuoi
principi et baroni, con la reale pompa, con splendidi et richi
abiglamenti, conveniate sopra quello, dove celebrata
prima una solenne messa, farai venire la indemoniata. Voglo,
oltr’a di questo, che da l’uno canto de la piaza sieno insieme venti persone
almeno che abbino trombe, corni, tamburi, cornamuse, cembanelle,
cemboli et d’ogni altra qualità romori;
i quali, quando io alzerò uno cappello, dieno in
quegli strumenti, et, sonando, ne venghino verso il
palco: le quali cose, insieme con certi altri segreti rimedii,
credo che faranno partire questo spirito. –
Fu
sùbito da il re ordinato tutto; et, venuta la
domenica mattina et ripieno il palco di personaggi et la piaza
di populo, celebrata la messa, venne la spiritata conducta in sul palco per le mani di dua
vescovi et molti signori. Quando Roderigo vide tanto popolo insieme et tanto
apparato, rimase quasi che stupido, et fra sé dixe: –
Che cosa ha pensato di fare questo poltrone di questo villano? Crede egli
sbigottirmi con questa pompa? non sa egli che io sono uso a vedere le pompe del
cielo et le furie dello inferno? Io lo gastigherò in
ogni modo. – Et, accostandosegli Gianmatteo
et pregandolo che dovessi uscire, gli dixe: – O, tu
hai facto il bel pensiero! Che credi tu fare con questi tuoi apparati? Credi tu
fuggire per questo la potenza mia et l’ira del re? Villano ribaldo, io ti farò
impiccare in ogni modo. – Et così ripregandolo
quello, et quell’altro dicendogli villania, non parve a Gianmatteo
di perdere più tempo. Et facto il cenno con il cappello, tucti
quegli, che erano a romoreggiare diputati,
dettono in quegli suoni, et con romori
che andavono al cielo ne vennono verso il palco. Al
quale romore alzò Roderigo gli orechi
et, non sappiendo che cosa fussi
et stando forte maraviglato, tutto stupido domandò Gianmatteo che cosa quella fussi.
Al quale Gianmatteo tutto turbato dixe:
– Oimè, Roderigo mio! quella è móglata
che ti viene a ritrovare. – Fu cosa maraviglosa a
pensare quanta alterazione di mente recassi a Roderigo sentire ricordare il
nome della moglie. La quale fu tanta che, non pensando s’egli era possibile o
ragionevole se la fussi dessa,
senza replicare altro, tutto spaventato, se ne fuggì lasciando la fanciulla
libera, et volse più tosto tornarsene in inferno a rendere ragione delle sua actioni, che di nuovo con tanti fastidii,
dispetti et periculi sottoporsi al giogo
matrimoniale.
Et
così Belfagor, tornato in inferno, fece fede de’ mali che conduceva in una casa la moglie. Et Gianmatteo, che ne seppe più che il diavolo, se ne ritornò
tutto lieto a casa.
FINIS