AMORUM LIBER
di Matteo Maria Boiardo
LIBER PRIMUS
INCIPIT
1
Amor, che me scaldava al suo bel sole
nel dolce tempo de mia età fiorita,
a ripensar ancor oggi me invita
quel che alora mi piacque, ora mi dole.
Così racolto ho ciò che il pensier fole
meco parlava a l'amorosa vita,
quando con voce or leta or sbigotita
formava sospirando le parole.
Ora de amara fede e dolci inganni
l'alma mia consumata, non che lassa,
fuge sdegnosa il puerile errore.
Ma certo chi nel fior de' soi primi anni
sanza caldo de amore il tempo passa,
se in vista è vivo, vivo è sanza core.
2
Non fia da altrui creduta e non fia intesa
la celeste beltà de che io ragiono,
poiché io, che tutto in lei posto mi sono,
sì poca parte ancor n'hagio compresa.
Ma la mia mente che è di voglia accesa
mi fa sentir nel cor sì dolce sono
che il cominciato stil non abandono,
benché sia disequale a tanta empresa.
Così comincio, ma nel cominciare
al cor se agira un timoroso gielo
che l'amoroso ardir da me diparte.
Chi fia che tal beltà venga a ritrare?
Con qual inzegno scenderà dal cielo
che la descriva degnamente in carte?
3
Tanto son peregrine al mondo e nove
le dote in che costei qui par non have,
che solo intento al bel guardo suave
a l'alte soe virtù pensier non move.
Ma più non se ralegra el summo Jove
aver fiorito el globo infimo e grave
di vermiglie fogliete e bianche e flave,
quando fresca rogiada el ciel ne piove;
né tanto se ralegra aver adorno
il ciel di stelle, e aver creato il sole
che gira al mondo splendido d'intorno,
quanto creato aver costei, che sole
scoprir in terra a meza notte un giorno
e ornar di rose il verno e di viole.
4
Ordito avea Natura il degno effetto
ch'or se dimostra a nostra etade rea,
ne l'amoroso tempo in che volea
donar a li ochi umani alto diletto.
Ragiunti insieme al più felice aspetto
se ritrovarno Jove e Citerea
quando se aperse la celeste Idea
e diette al mondo il suo gentil concetto.
Sieco dal ciel discese Cortesia,
che da le umane gente era fugita,
Purità sieco e sieco Ligiadria.
Con lei ritorna quella antica vita
che con lo effetto il nome de oro avia,
e con lei inseme al ciel tornar ce invita.
5
Novellamente le benegne stelle
escon da l'occeano al nostro clima,
la terra il duol passato più non stima
e par che il verde manto rinovelle.
Amor, che le dorate sue quadrelle
più tien forbite, e il suo potere in cima,
questa beltà non mai veduta in prima
vuol dimostrar con l'altre cose belle.
Con bianchi zigli e con vermiglie rose,
coi vaghi fiori e con l'erbetta nova
l'ha dimostrata al parangone Amore.
Così natura e lui fra sé dispose
veder d'ogni beltà l'ultima prova
e dar il pregio a lei come a magiore.
6
Il canto de li augei de fronda in fronda
e lo odorato vento per li fiori
e lo ischiarir de' lucidi liquori
che rendon nostra vista più ioconda,
son perché la Natura e il Ciel seconda
costei, che vuol che 'l mondo se inamori;
così di dolce voce e dolci odori
l'aer, la terra è già ripiena e l'onda.
Dovunque e' passi move on gira il viso
fiamegia un spirto sì vivo d'amore
che avanti a la stagione el caldo mena.
Al suo dolce guardare, al dolce riso
l'erba vien verde e colorito il fiore
e il mar se aqueta e il ciel se raserena.
7
Aventurosa etade in cui se mira
quanto mirar non puote uman pensiero,
tempo beato e degnamente altero
a cui tanto di grazia el Cielo aspira
che solo a' zorni toi donar desira
uno effetto celeste, un ben intero,
qual non ha questo on quel altro emispero
né tutto quel che 'l sol volando agira;
quella stagion che fu detta felice
e par che al nome de auro ancor se alumi,
quanto può invidiarti, o nostra etade!
Ché se nectare avea ben nei soi fiumi
e mele avean le querce e le mirice,
giamai non ebbe lei tanta beltade.
8
MANDRIALIS
Cantati meco, inamorati augelli,
poiché vosco a cantar Amor me invita;
e voi, bei rivi e snelli,
per la piagia fiorita
teneti a le mie rime el tuon suave.
La beltà de che io canto è sì infinita
che il cor ardir non have
pigliar lo incargo solo,
ché egli è debole e stanco, e il peso è grave.
Vagi augelleti, voi ne giti a volo
perché forsi credeti
che il mio cor senta dolo,
e la zoglia che io sento non sapeti.
Vaghi augeleti, odeti:
che quanto gira in tondo
il mare e quanto spira zascun vento,
non è piacer nel mondo
che aguagliar se potesse a quel che io sento.
9
AD AMOREM
Alto diletto che ralegri il mondo
e le tempeste e i venti fai restare,
l'erbe fiorite e fai tranquillo il mare,
ed a' mortali il cor lieto e iocondo,
se Jove su nel cielo e giù nel fondo
fecisti il crudo Dite inamorare,
se non se vide ancora contrastare
a le tue forze primo né secondo,
qual fia che or te resista, avendo apreso
foco insueto e disusato dardo
che dolcemente l'anima disface?
Con questo m'hai, Signor, già tanto inceso
per un suave e mansueto guardo
che in altra sorte vita non mi piace.
10
Pura mia neve che ei dal ciel discesa,
candida perla dal lito vermiglio,
bianco ligustro, bianchissimo ziglio,
pura biancheza che hai mia vita presa;
o celeste biancheza, non intesa
da li ochi umani e da lo uman consiglio,
se a le cose terrene te assumiglio
quando fia tua vagheza mai compresa?
Ché nulla piuma del più bianco olore
né avorio né alabastro può aguagliare
il tuo splendente e lucido colore.
Natura tal beltà non può creare,
ma quel tuo gentil lustro vien da Amore,
che sol, che tanto puote, te 'l pò dare.
11
Rosa gentil, che sopra a' verdi dumi
dai tanto onor al tuo fiorito chiostro,
suffusa da Natura di tal ostro
che nel tuo lampegiar il mondo alumi,
tutti li altri color son ombre e fumi
che mostrerà la terra on ha già mostro:
tu sola sei splendor al secol nostro,
che altrui ne la vista ardi, e me consumi.
Rosa gentil, che sotto il giorno extinto
fai l'aria più chiarita e luminosa
e di vermiglia luce il ciel depinto,
quanto tua nobilitade è ancor nascosa!
Ché il sol, che da tua vista in tutto è vinto,
apena te cognosce, o gentil rosa.
12
A la rete d'Amor, che è texta d'oro
e da Vagheza ordita con tanta arte
che Ercule il forte vi fu preso e Marte,
son anche io preso, e dolcemente moro.
Così morendo il mio Signor adoro
che dal lacio zentil non me diparte,
né morir voglio in più felice parte
ca religato in questo bel lavoro.
Non fia mai sciolto da le treze bionde,
crespe, lunghe, legiadre e peregrine
che m'han legato in sì suave loco.
E se ben sua adorneza me confonde
e vame consumando a poco a poco,
trovar non posso più beato fine.
13
Ride nel mio pensier la bella luce
che intorno a li ochi di costei sintilla,
e levame legier come favilla
e nel salir del ciel se me fa duce.
Là veramente Amor me la riluce
e con sua man nel cor me la sigilla;
ma l'alma de dolceza se distilla
tanto che in forsi la mia vita aduce.
Così, rapto nel ciel fuor di me stesso,
comprendo del zoir di paradiso
quanto mortal aspetto mai ne vide.
E se io tornasse a quel piacer più spesso,
sarebbe il spirto mo' da me diviso,
se il soverchio diletto l'omo occide.
14
CAPITALIS
Arte de Amore e forze di Natura
Non fur comprese e viste in mortal velo
Tutte giamai, dapoi che terra e cielo
Ornati for di luce e di verdura:
Non da la prima età simplice e pura,
In cui non se sentio caldo né gielo,
A questa nostra, che de l'altrui pelo
Coperto ha il dosso e fatta è iniqua e dura,
Accolte non for mai più tutte quante
Prima né poi, se non in questa mia
Rara nel mondo, anci unica fenice.
Ampla beltade e summa ligiadria,
Regal aspetto e piacevol sembiante
Agiunti ha insieme questa alma felice.
15
CANTUS COMPERATIVUS
Chi troverà parole e voce equale
che giugnan nel parlare al pensier mio?
Chi darà piume al mio intelletto ed ale
sì che volando segua el gran desio?
Se lui per sé non sale,
né giugne mia favella
al loco ove io la invio,
chi canterà giamai de la mia stella?
Lei sopra l'altre cose belle è bella,
né col pensier se ariva a sua belleza,
perché a lo inzegno umano il Ciel la cella
né vuol che se salisca a la sua alteza,
se forsi Amor non degna darci aita
acciò che la vagheza
sia del suo regno qui tra noi sentita.
Porgime aita, Amor, se non comprende
il debol mio pensier la nobiltade
che a questo tempo tanta grazia rende,
che gloriosa ne è la nostra etade.
Sì come più resplende,
alor che il giorno è spento,
intra le stelle rade
la luna di color di puro argento,
quando ha di fiame il bianco viso cento
e le sue corne ha più di lume piene,
solo a sua vista è il nostro guardo intento,
ché da lei sola a nui la luce viene:
così splende qua giù questa lumiera,
e lei sola contiene
valor, beltade e gentileza intiera.
Come in la notte liquida e serena
vien la stella d'Amore avanti al giorno,
de ragi d'oro e di splendor sì piena
che l'orizonte è di sua luce adorno,
ed ella a tergo mena
l'altre stelle minore
che a lei d'intorno intorno
cedon parte del cielo e fangli onore;
indi rorando splendido liquore
da l'umida sua chioma, onde se bagna
la verde erbetta e il colorito fiore,
fa rogiadosa tutta la campagna:
così costei de l'altre el pregio acquista,
perché Amor la accompagna
e far sparir ogni altra bella vista.
Chi mai vide al matin nascer l'aurora,
di rose coronata e de jacinto,
che fuor del mar el dì non esce ancora
e del suo lampegiar è il ciel depinto,
e lei più se incolora
de una luce vermiglia,
da la qual fora vinto
qual ostro più tra noi se gli asomiglia;
e il rozo pastorel se maraviglia
del vago rossegiar de lo oriente
che a poco a poco su nel ciel se apiglia,
e con più mira più se fa lucente:
vedrà così ne lo angelico viso,
se alcun fia che possente
se trovi a rigurdarla in vista fiso.
Qual fuor de l'occean, di raggi acceso,
risurge il sole al giorno matutino,
e sì come fra l'unde e il ciel suspeso
va tremolando sopra il suol marino;
e poi che il freno ha preso
de' soi corsier focosi,
con le rote d'or fino
ad erto adriza e' corsi luminosi;
vista non è che amirar fermo lo osi,
ché di vermiglio e d'oro ha un color misto
che abaglia gli ochi nostri tenebrosi
e fa l'uman veder più corto e tristo:
tal è amirar questo mirabil volto,
che, da li ochi mei visto,
ogn'altro remirar a lor ha tolto.
Vago pensier, che con Amor tanto alto
volando vai, e del bel viso canti
che ti fa nel pensar il cor di smalto,
membrando di sua forma e dei sembianti,
rimasti da la impresa sì soprana,
però che tanto avanti
non va la possa de natura umana.
16
Già tra le folte rame aparir veggio
ambe le torre ove il mio cor aspira;
già l'ochio corporale anche lui mira
la terra che ha l'effetto e 'l nome reggio.
Alma cittade, ove Amor tien suo seggio
e te sopravolando sempra agira,
qual nascosta cagion tanto me tira
che altro che esser in te giammai non chieggio?
Deh, che dico io? ché la cagion è aperta
a le fiere, a li augelli ai fiumi ai sassi
e ne l'abisso e in terra e in mare e in celo.
Ormai del mio furor per tutto sciassi,
ché a poco a poco è consumato il gielo
che un tempo ebbe mia fiama in sé coperta.
17
Sono ora in terra, on sono al ciel levato?
sono io me stesso, on dal corpo diviso?
son dove io veni, on sono in paradiso,
che tanto son da quel che era mutato?
Oh felice ciascun, ciascun beato
a cui lice amirar questo bel viso
che avanza ogni diletto e zoglia e riso
che possa al core umano esser donato!
Mirate, donne, se mai fu beltate
equal a questa, e se son tal costumi
or ne la nostra, on fur ne l'altra etate!
Dolci, amorosi e mansueti lumi,
come sconvenne a quel che for mostrate
che per mirarvi un cor se arda e consumi.
18
AD GUIDONEM SCAIOLAM
De avorio e d'oro e de corali è ordita
la navicella che mia vita porta;
vento suave e fresco me conforta,
e il mar tranquillo a navicar me invita.
Vago desir coi remi a gir me aita,
governa el temo Amor, che è la mia scorta,
Speranza tien in man la fune intorta
per porre il ferro adunco a la finita.
Così cantando me ne vo legiero
e non temo de' colpi de Fortuna
come tu che li fugi e non sciai dove.
Crede a me, Guido mio, che io dico il vero:
cangiasse mortal sorte or bianca or bruna,
ma meglio è morte qua che vita altrove.
19
AD AMOREM INTEROGATIO
– Che augello è quello, Amor, che batte l'ale
tieco nel cielo ed ha la piuma d'oro,
mirabil sì che in croce mi lo adoro,
ché al senso mio non par cosa mortale?
Hanne Natura al mondo un altro tale?
formolo in terra, on sopra al summo coro?
fece tra noi più mai altro lavoro
che a questo di beltade fusse equale? –
– Là dove il giorno spunta e' ragi in prima,
nasce questa fenice, al mondo sola,
che di sua morte la vita ripiglia.
Più mai non la vedete il nostro clima:
però, se e' toi pensieri al tutto invola
vista sì rara, non è maraviglia. –
20
CHORUS SINPLEX
L'alta beltà, dove Amor m'ha legato
con la catena d'oro,
ne la sua servitù me fa beato.
Né più lieto di noglia esce e di stento,
sciolto da' laci, il misero captivo,
quanto io, di poter privo
e posto in forza altrui, lieto me sento.
Quel vago cerchio d'or che me tien vivo
ed hami l'alma e il core intorno avento,
me fa tanto contento,
che de alegreza su nel cielo arivo.
E così quando io penso e quando io scrivo
del mio caro tesoro,
me par sopra le stelle esser levato.
21
COMPERATIVUS
Né più dolce a' nostri ochi il ciel sfavilla
de' lumi adorno che la notte inchina,
né il vago tremolar de la marina
al sol nascente lucida e tranquilla,
né quella stella che de su ne stilla
fresca rogiada a l'ora matutina,
né in giazio terso né in candida brina
ragio di sol che sparso resintilla;
né tanto al veder nostro a sé ritira
qual cosa più gentil ed amorosa
su nel ciel splende on qua giù in terra spira,
quanto la dolce vista e graziosa
da quei begli ochi che Amor volve e gira:
e chi no il crede, de mirar non gli osa.
22
CRUCIATUS
L'ora del giorno che ad amar ce invita
dentro dal petto il cor mi raserena,
vegendo uscir l'aurora colorita,
e a la dolce ombra cantar Filomena.
La stella matutina è tanto piena
che ogn'altra intorno a lei se è dispartita,
ed essa appo le spalle il sol si mena,
di sua stessa belleza insuperbita.
Ciò che odo e vedo suave ed ornato
a lo amoroso viso rasumiglio,
e convenirse al tutto l'ho trovato.
Più volte già nel rogiadoso prato
ora a la rosa l'hagio ed ora al ziglio,
ora ad entrambi insieme acomperato.
23
Io vado tratto da sì ardente voglia,
che 'l sol tanto non arde ora nel cielo,
benché la neve a l'alpe, a' rivi il gielo,
l'umor a l'erbe, a' fonti l'unda toglia.
Quando io penso al piacer che 'l cor me invoglia,
nel qual dal caldo sol me copro e velo,
io non ho sangue in core o in dosso pelo
che non mi tremi da amorosa zoglia.
Spreza lo ardor del sole il foco mio,
qualor più caldo sopra a' Garamanti
on sopra a gli Etioppi o gli Indi preme.
Chi ha di sofrenza on di virtù desio
il viver forte segua de li amanti,
ché amor né caldo né fatica teme.
24
Qual benigno pianetto o stella pia
in questo gentil loco m'ha drizato?
Qual felice destin, qual dextro fato
tanto ablandisse a la ventura mia?
Canti suavi e dolce melodia
intorno a me risonan d'ogni lato;
null'altro è di me in terra più beato,
né scio se forsi in cielo alcun ne sia.
Quello angelico viso, anci quel Sole,
che tole al core umano el tristo zelo
e del mio petto fuor la notte serra,
e lo accento gentil de le parole
che sopra noi risona insino al celo,
me fan de li altri più felice in terra.
25
CHORUS UNISONUS
Deh, non chinar quel gentil guardo a terra.
lume del mondo e spechio de li Dei,
ché fuor di questa corte Amor si serra
e sieco se ne porta i pensier mei.
Perché non posso io star dove io vorei,
eterno in questo gioco,
dove è il mio dolce foco
da quel tanto di caldo già prendei?
Ma se ancor ben volesse io non potrei
partir quindi il mio core assai o poco,
né altrove troveria pace né loco
e sanza questa vista io morerei.
Deh, vedi se in costei
Pietade e Gentileza ben s'afferra,
come alcia li ochi bei
per donar pace a la mia lunga guerra.
26
IN NATALI DOMINAE
Ecco quella che il giorno ce riduce,
che di color rosato il cielo abella;
ecco davanti a lei la chiara stella
che il suo bel nome prese da la luce.
Principio sì giolivo ben conduce
a la annual giornata, che fu quella
che tolse giù dal ciel questa facella
di cui la gente umana arde e riluce.
Questo è quel giorno in cui Natura piglia
tanta arroganza del suo bel lavoro
che de l'opra sua stessa ha maraviglia.
Più de l'usato sparge e' ragi d'oro
il sol più bello e l'alba più vermiglia:
oggi nacque colei che in terra adoro.
27
RODUNDELUS INTEGER AD IMITACIONEM RANIBALDI FRANCI
Se alcun de amor sentito
ha l'ultimo valor, sì come io sento,
pensi quanto è contento
uno amoroso cor al ciel salito
Da terra son levato al ciel son gito,
e gli ochi ho nel sol fisi al gran splendore
e il mio veder magiore
fatto è più assai di quel che esser solia.
Qual inzegno potria
mostrar al mio voler e' penser mei?
Perché io stesso vorei
cantar mia zoglia, e non esser odito.
Se alcun de amor sentito.
Io son del mio diletto sì invagito
che a ragionarni altrui prendo terrore;
né in alcun tempo amore
fu mai né sarà senza zelosia.
Ben fora gran folia
a scoprir la belleza di costei,
ché ben ne morerei
se io fusse per altrui da lei partito.
Se alcun de amor sentito.
Beato viso che al viso fiorito
fusti tanto vicin che il dolce odore
ancor me sta nel core,
e starà sempre insin che in vita sia,
tu l'alta legiadria
vedesti sì di presso e gli ochi bei;
tu sol beato sei,
se il gentil spechio tuo non t'è rapito
Se alcun de amor sentito.
Felice guardo mio che tanto ardito
fusti ne lo amirar quel vivo ardore,
che te potrà mai tore
lo amoroso pensier che al ciel te invia?
Ben scio certo che pria
e l'alma e il core e il senso perderei;
ben scio che io sosterei
anzi di cielo e terra esser bandito.
Se alcun de amor sentito.
Ligato sia con meco e sempre unito:
se meco insieme l'anima non more,
non se trarà mai fore
questo unico mio ben de l'alma mia.
Dolce mia segnoria,
a cui ne' mei primi anni me rendei,
senza te che sarei?
Inculto rozo misero e stordito,
Se alcun de amor sentito.
Per te, candida rosa, son guarnito
di spene e zoglia, e voto di dolore;
per te fugi' lo errore
che in falsa sospizione el cor me apria.
Tu sola sei la via
che me conduce al regno de gli Dei;
tu sola e' pensier rei
tutti hai rivolti, e me di novo ordito.
Se alcun de amor sentito.
Per te sum, rosa mia, del vulgo uscito,
e forsi fia ancor letto el mio furore,
e forsi alcun calore
de la mia fiamma ancor inceso fia;
e se alcuna armonia
oguagliar se potesse ai pensier mei,
forsi che ancor farei
veder un cor di marmo intenerito.
Se alcun de amor sentito.
Cantiamo adunque il viso colorito,
cantiamo in dolce notte il zentil fiore
che dà tanto de onore
a nostra etade che l'antiqua oblia.
Ma l'alta fantasia
ne la qual già pensando me perdei,
nel rimembrar di lei
da me m'ha tolto e sopra al ciel m'ha sito.
Se alcun de amor sentito.
28
Chi tole il canto e pene al vago augello,
le foglie e il color vivo tole al fiore,
a l'erbe la verdura e il primo odore,
e il fiore e l'erbe tole al praticello,
e le ramose corne al cervo isnello,
al cielo e stelle e sole e ogni splendore,
quel puote a un cor gentil togliere amore,
e la speranza al dolce amor novello.
Ché sanza amore è un core sanza spene,
un arbor sanza rame e sanza foglie,
fiume sanza unde, e fonte sanza vene.
Amore ogni tristeza a l'alma toglie,
e quanto la Natura ha in sé di bene
nel core inamorato se racoglie.
29
CUM IN SUBURBANO VACARET LUDIS PUELLARIBUS
Gentil città, come ei fatta soletta!
come ei del tuo splendor fatta ozi priva!
E un picol fiumicel su la sua riva
di tanto ben felice se diletta.
Io me ne vado dove Amor me aspetta,
che è gito in compagnia de la mia Diva;
Amor che ogn'altra cosa ha vile e sciva
e di lasciar costei sempre sospetta.
Sanza di lei né tu né altro me piace,
né sanza lei tra l'Isole Beate
né in ciel, ch'io creda, sentiria mai pace.
Rimanti adunque tu, gentil citate,
poiché una tua villeta è tanto audace
che ozi te spoglia di tua nobiltate.
30
Qual nei prati de Idalo on de Citero
se Amor de festegiar più voglia avea,
le due sorelle agiunte a Pasitea
cantando di sé cerchio intorno fero,
tal se fece oggi, e più legiadro e altero,
essendo in compagnia della mia Dea
e de l'altre doe belle, onde tenea
la cima di sua forza e il summo impero.
Gioiosamente in mezzo a lor si stava
voltando le sue ale in più colori,
e sua belleza tutta fuor mostrava.
La terra lieta germinava fiori
e il loco aventuroso sospirava
di dolce foco e d'amorosi odori.
31
Ben se ha trovato il più legiadro seggio
Amor che fabricasse mai natura;
ed io presumo a scriver sua figura
perché d'ognor nel cor me la vagheggio.
La sua materia è de alabastro egreggio
e d'or coperta è la suprema altura,
sotto a cui splende luce viva e pura
tal ch'io non la scio dir come io la veggio:
ché di cristallo è tutta la cornice,
de ebbano ha sopra uno arco rivoltato;
chi dentro può mirar ben è felice.
Qui sede Amor de raggi incoronato,
dolce cantando a' riguardanti dice:
– Piacer più vago il Ciel non v'ha mostrato. –
32
Perché non corresponde alcuno accento
de la mia voce a l'aria del bel viso?
ch'io faria in terra un altro paradiso
e il mondo ne l'odir di lei contento.
Farebbe ad ascoltarmi a forza intento
ogni animal d'umanità diviso,
e se mostrar potesse il dolce riso,
faria movere e' saxi e star il vento.
Ben ho più volte nel pensier stampite
parole elette e notte sì suave
che assai presso giugneano a sua belleza;
ma poi che l'ho legiadramente ordite,
par che a ritrarle el mio parlar se inchiave
e la voce mi manche per dolceza.
33
CANTUS RITHMO INTERCISO CONTINUATUS
L'alta vagheza che entro al cor me impose
con l'amorose ponte il mio volere,
il spirto me sotrage al suo piacere,
ché a lei volando l'alma se desvia:
se stessa oblia, ed io non ho potere
di ratenere il fren come io solia,
ché più non stano da la parte mia
arte né inzegno, forza né sapere.
Hagio quel foco in me che io soglio avere
e quel vedere usato e quella voglia,
ma il poter più tener mie fiame ascose
mi è tolto in tutto, e il ricoprir mia noglia
che un tempo occultamente il cor mi rose,
mentre potei celar, come io dispose.
Già son le rose a la sua fin extrema,
e pur non scema de mia fiama el fiore,
anzi più caldo ha preso e più vigore,
come più largo il giro or prende il sole.
Ma non mi dole or tanto questo ardore
che me arde il core assai più che non sole:
sia quel che il Ciel dispone e che Amor vole,
pur che altri non cognosca il mio furore.
Ma che posso io? Ché 'l tempo mostra l'ore,
e il viso amore, e però cerco invano
mostrar di fora ardir, se 'l cor mi trema.
Se pietà non mi porge il viso umano,
e proveda che Amor sì non mi prema,
ancor convien ch'io cridi, non ch'io gema.
Come vuol frema il mare o il ciel intoni,
ché a tutti e' soni a me dansar convene,
né in zoglia altrui voria cangiar mie pene,
se amirar quel potesse ond'io tanto ardo.
L'ochio fu tardo, e già non se sostene,
ché più non vene il fugitivo pardo;
tenir non posso el cor sanza quel guardo,
ché mal se può tenir chi non ha spene.
Qual capestro qual freno on qual catene,
qual forza tene el destrier ch'è già mosso
nel corso furioso, ed ha chi el sproni?
Sapiati, alma gentil, che più non posso,
quando convien che alfine io me abandoni:
on che io me mori, on che al guardar perdoni.
Queste cagioni furno al mio fallire,
se altri vuol dire un fallo il guardar mio;
ma se più mai signor benigno e pio
odì suo servo, odeti mia ragione:
ne la stagione che il mio cor sentio
l'alto desio e dolce passione,
sì lieto el viso vostro se mostrone
che in lui pusi speranza come in Dio.
Fatto se è poi, non scio perché, restio,
e tanto rio e del suo guardo avaro
che il cor degiuno più non può soffrire.
Usato non è lui pascer d'amaro;
perciò li è forza al suo fonte venire,
on a spegner la sette on a morire.
Se pur languire io debo in questa etate,
vostra beltate non sarà mai quella,
ch'io scio che non potria cosa sì bella
esser cagion di morte a chi l'adora.
Or ride or plora l'alma tapinella,
d'una facella avampa e discolora:
a voi sta che la viva e che la mora;
voi la regina seti, e lei l'ancella.
Perché s'asconde adunque la mia stella?
perché se cella il mio lume sereno?
Se cor gentil asdegna crudeltate,
come assentite voi ch'io venga meno?
Pur vostra forma è di tal nobiltate
che esser non può ribella di pietate.
Ma sia quel che esser vuole: io quel che sono
tutto abandono in vostre braza alfine;
né mia fortuna ha scampo in altro porto.
Abi la terra l'osse mie meschine.
e il cor, che del suo spirto è privo a torto,
vostro fu vivo e vostro sarà morto.
34
CAPITALIS
Anzelica vagheza in cui Natura
Ne mostra ciò che bel puote operare,
Tal che a sì chiara luce a comperare
Ogni stella del ciel parebbe oscura,
Non si può aconciamente anima dura
In graziosa vista colorare;
A voi una umiltà ne li ochi appare
Che de pietate ogn'alma rassicura.
A che mostrare adunqua che le pene
Per voi portate sian portate invano,
Ridendo el foco che 'l mio cor disface?
Alma ligiadra, tropo disconvene
Risposta dura a un viso tanto umano:
Aiuto adunque, on morte, qual vi piace.
35
Se cosa bella sempre fu gentile,
né mai mentì Pietade a Gentileza,
ancor sarà che giù ponga l'aspreza
quel magnanimo core e signorile.
Sdegno regal se placca al servo umile,
e in picol tempo se dilegua e speza;
l'ira crudiel e l'odio e la dureza
non han ricetto fuor che in alma vile.
Ma se pur forsi il Ciel novo destino
fatto ha per me, né vuol che io me conforte
de aver mercè dal mio viso divino,
tacito porterò la dura sorte,
e sol, piangendo, me morrò meschino,
per non incolpar lei de la mia morte.
36
Datime a piena mano e rose e zigli,
spargete intorno a me viole e fiori;
ciascun che meco pianse e' mei dolori,
de mia leticia meco il frutto pigli.
Datime e' fiori e candidi e vermigli,
confano a questo giorno e' bei colori;
spargeti intorno d'amorosi odori,
ché il loco a la mia voglia se assumigli.
Perdon m'ha dato ed hami dato pace
la dolce mia nemica, e vuol ch'io campi,
lei che sol di pietà se pregia e vanta.
Non vi maravigliati perch'io avampi,
ché maraviglia è più che non se sface
il cor in tutto de alegreza tanta.
37
CHORUS TRIPLEX RITHMO INTERCISO
Doppo la pugna dispietata e fera
Amor m'ha dato pace,
a cui despiace che un suo servo pera.
Come più dolce a' navicanti pare,
poi che fortuna gli ha sbatuti intorno,
veder le stelle e più tranquillo il mare
e la terra vicina e il novo giorno,
cotale è dolce a me, che al porto torno
da l'unda aspra e falace,
la chiara face che mi dà lumera.
E qual al peregrin de nimbi carco
doppo notturna pioggia e fredo vento
se mostra al sole averso il celeste arco,
che sol de la speranza il fa contento,
tal quel Sol ch'io credea che fusse spento
or più che mai me piace,
e più vivace è assai che già non era.
38
CUM MISISSET LOCULUM AURO TEXTUM
Grazioso mio dono e caro pegno
che sei de quella man gentil ordito
qual sola può sanar quel che ha ferito
e a la errante mia vita dar sostegno,
dono amoroso e sopra l'altri degno,
distinto in tante parte e colorito,
perché non è con teco il spirto unito
che già te fabricò con tanto inzegno?
Perché non è la man legiadra teco?
perché teco non son or quei desiri
che sì te han fatto di beltate adorno?
Sempre ne la mia vita sarai meco,
avrai sempre da me mille sospiri,
mille basi la notte e mille il zorno.
39
Già vidi uscir de l'onde una matina
il sol di ragi d'or tutto jubato,
e di tal luce in facia colorato
che ne incendeva tutta la marina;
e vidi a la rogiada matutina
la rosa aprir d'un color sì infiamato
che ogni luntan aspetto avria stimato
che un foco ardesse ne la verde spina;
e vidi aprir a la stagion novella
la molle erbetta, sì come esser sole
vaga più sempre in giovenil etade;
e vidi una legiadra donna e bella
su l'erba coglier rose al primo sole
e vincer queste cose di beltade.
40
AD LUCIFERUM
Rendece il giorno e l'alba rinovella,
che io possa riveder la luce mia;
stella d'amor che sei benigna e pia,
rendece il giorno che la notte cella.
Tu sei sola nel cielo ultima stella,
per te si sta la notte e non va via:
se non fusse per una, io pur diria
che dispetosa al mondo è chiunque è bella.
Rendece il giorno, ché il desir me strugge,
perché la mia speranza al giorno aspetto
e lo aspettar nel cor dentro me adugge.
Stella crudel c'hai del mio mal diletto,
ché ogn'altra fuor del ciel la luce fugge,
e tu ferma ti stai per mio dispetto!
41
Questa matina nel scoprir del giorno
il ciel s'aperse, e giù dal terzo coro
discese un spiritel con l'ale d'oro,
di fiame vive e di splendor adorno.
– Non vi maravigliati s'io ritorno –
dicea cantando – al mio caro tesoro,
ché in sé non have il più zentil lavoro
la spera che più larga gira intorno.
Quanto ablandisse il Celo a voi mortali
che v'ha donato questa cosa bella,
ristoro immenso a tutti e' vostri mali! –
Così cantando quel spirto favella,
battendo motti a le sue voce equali,
e tornasi zoglioso a sua stella.
42
Chi non ha visto ancora il gentil viso
che solo in terra se pareggia al sole,
e l'acorte sembiance al mondo sole
e l'atto dal mortal tanto diviso;
chi non vide fiorir quel vago riso
che germina de rose e de viole;
chi non audì le angeliche parole
che sonan d'armonia di paradiso;
chi più non vide sfavilar quel guardo
che come stral di foco il lato manco
sovente incende, e mette fiamme al core;
e chi non vide il volger dolce e tardo
del suave splendor tra il nero e il bianco,
non scia né sente quel che vaglia Amore.
43
SOMNIUM CANTU UNISONO TRIVOCO
Ancor dentro dal cor vago mi sona
il dolce ritentir di quella lira;
ancor a sé me tira
la armonia disusata, e il novo canto
tanto suave ancor nel cor me spira
che me fa audace de redirne alquanto,
abenché del mio pianto
la dolce melodia nel fin ragiona.
Quando l'Aurora il suo vechio abandona
e de le stelle a sé richiama il coro,
poiché la porta vuol aprir al giorno,
veder me parve un giovenetto adorno,
che aveva facia di rose e capei d'oro,
d'oro e di rose avea la veste intorno;
cinta la chioma avea di verde aloro,
che ancor dentro amoroso il cor gli morde,
ché l'amor perso eternamente dole.
Indi movendo il plectro su le corde
sì come far si sole,
la voce sciolse poi con tal parole:
– Quando Natura imaginando adopra,
quanto di bello in vista può creare,
ha voluto mostrare
in questa ultima etate al mondo ingrato;
né possi a tal belleza acomperare
il mio splendor, che il cielo ha illuminato,
e ciò che fu creato
primeramente, cede a l'ultima opra.
Tanto è questa beltate a l'altre sopra
quanto a noi Marte, e quanto a Marte Jove,
quanto a lui sopra sta l'ultima spera.
Formata fu questa legiadra fera
che paro in terra di beltà non trove,
perché il regno d'Amor qua giù non pera.
Amor la sua possanza da lei move,
come tu senti e può vedere il mondo,
e più degli altri il cor tuo questo intende.
Quando Amor vien dal suo regno jocondo,
da questa l'arme prende,
perché sua forza sol da lei descende.
Beato il cielo e felice quel clima
sotto al quale nacque e quella regione;
beata la stagione
a cui tanto di ben pervenne in sorte;
beato te, che a la real pregione
per te stesso sei chiuso entro a le porte,
ché non pregion, ma corte
questa se de' nomar, se ben se stima;
beati li occhi toi, che veder prima
quel nero aguto e quel bianco suave
che a l'amorosa zoglia apre la via;
beato il cor che ogn'altra cosa oblia
né altro diletto né pensier non have
fuor che di sua ligiadra campagnia.
Quanto beata è l'amorosa chiave
che apre e dissera l'anima zentile
nel dolce contemplar de li atti bei!
Fatto è beato e nobile il tuo stile
nel cantar di colei
che in terra è ninfa, e Diva è fra gli Dei.
Quando costei dal cielo a vui discese
una piogia qua giù cadea de zigli,
e rose e fior vermigli
avean di bel color la terra piena.
Non voglio che perciò sospetto pigli,
ma al vero in cielo io mi rateni apena,
e in vista più serena
mostrai la zoglia mia di fuor palese.
Jove, che meco a mano alor se prese,
mirava in terra con benigno aspetto,
e fesse a nostra vista il mondo lieto.
A noi stava summesso ogni pianeto,
fioria la terra e stava con diletto,
tranquillo il mare e il vento era quieto.
Così a noi venne questo ben perfetto,
favorito dal Cielo e da le stelle
più che mai fusse ancor cosa formata.
Questa dal petto l'alma a te divelle:
ma se al ver ben se guata,
mal per te fo cotal beltà creata.
Mal fo per te creata, il ver ragiono;
sciai che io so Febo e non soglio mentire:
per farti alfin languire
venuta è in terra questa cosa bella.
Misero te che tanto hai da soffrire
da questa fera fugitiva e snella!
Miser, quanta procella
porrà ancor la tua barca in abandono!
E se io de lo advenir presago sono,
nulla ti giova lo amonir ch'io facio,
ché distor non te posso a chi te guida.
Tristo chi d'alma feminil se fida,
acciò che doppo il danno e doppo il straccio
sovente del suo male altri se rida!
Nel foco, che t'arde ora, vedo un giaccio
che te farà tremar l'osse e la polpa,
mancar il corpo e il spirto venir meno.
Non te doler de altrui, ché l'è tua colpa,
e tu lo vidi apieno
che dovevi al desir por prima il freno.
Così cantava, e querelando al fine
la citera suave sospirava
voce più chetta e notte peregrine.
Qual vanitate noi mortali agrava!
Credere al sogno ne la notte oscura
ed al cieco veder dar chiara fede!
Ma benché io non sia sciolto da paura,
il mio cor già non crede
aver del suo servir cotal merzede.
44
Ocio amoroso e cura giovenile,
gesti legiadri e lieta compagnia,
solazo fuor di noglia e di folia,
alma rimota da ogni pensier vile,
donesco festegiar, atto virile,
parlar accorto e giunto a cortesia,
son quelle cose, per sentenzia mia,
che il viver fan più lieto e più zentile.
Chi così vise, al mondo vise assai,
se ben nel fior de gli anni il suo fin colse,
ché più che assai quel campa e che ben vive.
Passata zoglia non se lassa mai;
ma chi pote ben vivere, e non volse,
par che anzi tempo la sua vita arive.
45
Tornato è il tempo rigido e guazoso,
che la notte su crese e il giorno manca,
il ciel se anera e la terra se imbianca,
l'unda è concreta e il vento è ruinoso.
Ed io come di prima son focoso,
né per fredura il mio voler se stanca;
la fiama che egli ha intorno sì lo affranca
che nulla teme il fredo aspro e noglioso.
Io la mia estate eterna haggio nel petto,
e non la muta il turbido Orione
né Iade né Pliade né altra stella.
Scaldami il cor Amor con tal diletto
che verdegiar lo fa d'ogni stagione
che il suo bel Sole a li ochi mei non cella.
46
FLOS FRIGORE FRACTUS
Che non fa il tempo infin? Questo è quel fiore
che fu da quella man gentile accolto,
e sì legiadramente ad oro involto
che eterno esser dovea di tanto onore.
Or secco, sanza foglie e sanza odore,
discolorito, misero e disciolto,
ciò che gli die' Natura il tempo ha tolto,
il tempo che volando afretta l'ore.
Ben se assumiglia a un fior la nostra etate,
che stato cangia da matino a sera,
e sempre va scemando sua beltate.
A questo guarda, disdegnosa e altera:
abi, se non di me, di te pietate,
aciò che indarno tua beltà non pera.
47
Con qual piogia noiosa e con qual vento
Fortuna a lo andar mio si fa molesta!
Gelata neve intorno me tempesta
aciò che io giunga al mio desir più lento.
Ed io del ciel turbato non pavento,
ché per mal tempo il bon voler non resta,
ed ho dentro dal cor fiamma sì desta
che del guazoso fredo nulla sento.
Stretto ne vado in compagnia de Amore,
che me mostra la strata obliqua e persa
e fatto è guida al mio dritto camino.
Or mi par bianca rosa e bianco fiore
la folta neve che dal ciel riversa,
pensando al vivo Sol che io me avicino.
48
Io non scio se io son più quel ch'io solea,
ché 'l mio veder non è già quel che sole;
veduto ho zigli e rose e le viole
tra neve e giazi a la stagion più rea.
Qual erbe mai da Pindo ebbe Medea?
qual di Gargano la figlia del Sole?
qual pietre ebbe ciascuna e qual parole
che dimostrasse quel ch'io mo' vedea?
Io vidi in quel bel viso primavera,
de erbetta adorna e de ogni gentil fiore,
vermiglia tutta, d'or, candida e nera.
Ne l'ultima partita stava Amore
e in man tenea di fiame una lumera
che l'altri ardea ne li ochi, e me nel core.
49
Quando ebbe il mondo mai tal maraviglia?
Fiamma di rose in bianca neve viva,
auro che 'l sol de la sua luce priva,
un foco che nel spirto sol se impiglia,
candide perle e purpura vermiglia,
che fanno una armonia celeste e diva,
una altereza che è d'orgoglio schiva,
che ad altro che a se stessa non sumiglia.
Questo è il monstro ch'io canto sì giolivo,
dal qual lo inzegno e la alta voce piglio,
di cui sempre ragiono e penso e scrivo.
Questa è la augella da l'aurato artiglio,
che tanto me alcia che nel cielo arivo
a rivederla nel divin conciglio.
50
EPTHALOGOS CANTU PER SUMA DEDUCTO
Quella amorosa voglia
che a ragionar me invita
in rime ascose e crude
di lungi a la mia diva,
doni soccorso a la mia stanca mente,
poiché me fa parlar
come Madona fosse a me presente.
Candida mia columba,
qual è toa forma degna?
Qual cosa più somiglia
a la toa gran beltate?
Augella de l'Amor, segno di pace,
come deb'io nomarti,
che nulla cosa quanto te me piace?
Arbosel mio fronzuto
dal paradiso colto,
qual forza di natura
te ha fatto tanto adorno
di schieto tronco e de odorate foglie,
e de tanta vagheza
che in te racolte son tutte mie voglie?
Gentil mia fera e snella,
agile in vista, candida e ligiera,
sendo cotanto bella,
come esser puote in te mai mente altera
né de pietà ribella?
Però se in cosa umana il mio cor spera,
tu sola in terra ei quella.
Lucida perla colta ove se coglie
di preciose gemme ogni richeza,
dove l'onda vermiglia abunda in zoglie
e sopra el lito suo le sparge entorno,
serà giamai ventura
che a me dimostri sì benigno il volto,
che da te speri aiuto?
Vago fioreto, io non ho vista audace
che fissamente ardisca de guardarti;
perciò tua forma e il tuo color se tace,
ché tanta è tua belleza e nobiltate,
e di tal maraviglia,
che esser da noi cantata se disdegna,
e chiede magior trumba.
Canzon, il cor mio lasso ormai se pente
sua dona ad altro più rasumigliare,
ché sua beltate immensa no 'l consente.
Lassa che Amor con sua man la descriva
tra le tre Ninfe nude:
la voce lor diversamente unita
dimostri tanta zoglia.
51
Quello amoroso ben de ch'io ragiono
tanto è in sugetto nobile e soprano
che dimostrar no 'l pò lo inzegno umano,
però che al cel non giunge il nostro sono.
Unde io la impresa più volte abandono,
vegendo ben che io me affatico invano,
ma pui, cacciato da desir insano,
nel corso già lassato ancor me sprono.
Così ritorno a ragionar d'amore
con mente ardita e con la voce stanca,
da ragion fiaco e punto da speranza.
Di questo pasco il deboleto core,
or di luce vermiglia ed or di bianca,
ché quel pensiero ogni diletto avanza.
52
Qualunque più de amar fu schiffo in pria
e dal camin de Amor più dilungato,
cognosca l'alegreza del mio stato,
e tornerase a la amorosa via;
qualunque in terra ha più quel che ei desia,
di forza, senno e di belleza ornato,
qualunque sia nel mondo più beato,
non se pareggia a la fortuna mia:
ché il legiadro desire e la vagheza
che dentro mi riluce nel pensiero
me fan tra l'altre gente singulare.
Tal che io non stimo la indica richeza
né del gran re di Sciti il vasto impero,
che un sol piacer de amor non può aguagliare.
53
La smisurata ed incredibil voglia
che dentro fu renchiusa nel mio core,
non potendo capervi, esce de fore,
e mostra altrui cantando la mia zoglia.
Cingete il capo a me di verde foglia,
ché grande è il mio trionfo, e vie magiore
che quel de Augusto on d'altro imperatore
che ornar di verder lauro il crin si soglia.
Felice bracia mia, che mo' tanto alto
giugnesti che a gran pena io il credo ancora,
qual fia de vostra gloria degna lode?
Ché tanto de lo ardir vostro me exalto
che non più meco, ma nel ciel dimora
il cor che ancor del ben passato gode.
54
Ben se è ricolto in questa lieta danza
ciò che può far Natura e il Cielo e Amore;
ben se dimostra a' nostri ochi di fuore
ciò che dentro dal petto avean speranza.
Ma quella dolce angelica sembianza
che sempre fu scolpita nel mio core,
è pur la stella in cielo, in prato il fiore,
che non che l'altre ma se stessa avanza.
Il suave tacer, il star altero,
lo accorto ragionar, il dolce guardo,
il perregrin dansar ligiadro e novo,
m'hano sì forte acceso nel pensiero
che sin ne le medole avampo ed ardo,
né altrove pace che in quel
AMORUM LIBER PRIMUS
INCIPIT
1
Amor, che me scaldava al suo bel sole
nel dolce tempo de mia età fiorita,
a ripensar ancor oggi me invita
quel che alora mi piacque, ora mi dole.
Così racolto ho ciò che il pensier fole
meco parlava a l'amorosa vita,
quando con voce or leta or sbigotita
formava sospirando le parole.
Ora de amara fede e dolci inganni
l'alma mia consumata, non che lassa,
fuge sdegnosa il puerile errore.
Ma certo chi nel fior de' soi primi anni
sanza caldo de amore il tempo passa,
se in vista è vivo, vivo è sanza core.
2
Non fia da altrui creduta e non fia intesa
la celeste beltà de che io ragiono,
poiché io, che tutto in lei posto mi sono,
sì poca parte ancor n'hagio compresa.
Ma la mia mente che è di voglia accesa
mi fa sentir nel cor sì dolce sono
che il cominciato stil non abandono,
benché sia disequale a tanta empresa.
Così comincio, ma nel cominciare
al cor se agira un timoroso gielo
che l'amoroso ardir da me diparte.
Chi fia che tal beltà venga a ritrare?
Con qual inzegno scenderà dal cielo
che la descriva degnamente in carte?
3
Tanto son peregrine al mondo e nove
le dote in che costei qui par non have,
che solo intento al bel guardo suave
a l'alte soe virtù pensier non move.
Ma più non se ralegra el summo Jove
aver fiorito el globo infimo e grave
di vermiglie fogliete e bianche e flave,
quando fresca rogiada el ciel ne piove;
né tanto se ralegra aver adorno
il ciel di stelle, e aver creato il sole
che gira al mondo splendido d'intorno,
quanto creato aver costei, che sole
scoprir in terra a meza notte un giorno
e ornar di rose il verno e di viole.
4
Ordito avea Natura il degno effetto
ch'or se dimostra a nostra etade rea,
ne l'amoroso tempo in che volea
donar a li ochi umani alto diletto.
Ragiunti insieme al più felice aspetto
se ritrovarno Jove e Citerea
quando se aperse la celeste Idea
e diette al mondo il suo gentil concetto.
Sieco dal ciel discese Cortesia,
che da le umane gente era fugita,
Purità sieco e sieco Ligiadria.
Con lei ritorna quella antica vita
che con lo effetto il nome de oro avia,
e con lei inseme al ciel tornar ce invita.
5
Novellamente le benegne stelle
escon da l'occeano al nostro clima,
la terra il duol passato più non stima
e par che il verde manto rinovelle.
Amor, che le dorate sue quadrelle
più tien forbite, e il suo potere in cima,
questa beltà non mai veduta in prima
vuol dimostrar con l'altre cose belle.
Con bianchi zigli e con vermiglie rose,
coi vaghi fiori e con l'erbetta nova
l'ha dimostrata al parangone Amore.
Così natura e lui fra sé dispose
veder d'ogni beltà l'ultima prova
e dar il pregio a lei come a magiore.
6
Il canto de li augei de fronda in fronda
e lo odorato vento per li fiori
e lo ischiarir de' lucidi liquori
che rendon nostra vista più ioconda,
son perché la Natura e il Ciel seconda
costei, che vuol che 'l mondo se inamori;
così di dolce voce e dolci odori
l'aer, la terra è già ripiena e l'onda.
Dovunque e' passi move on gira il viso
fiamegia un spirto sì vivo d'amore
che avanti a la stagione el caldo mena.
Al suo dolce guardare, al dolce riso
l'erba vien verde e colorito il fiore
e il mar se aqueta e il ciel se raserena.
7
Aventurosa etade in cui se mira
quanto mirar non puote uman pensiero,
tempo beato e degnamente altero
a cui tanto di grazia el Cielo aspira
che solo a' zorni toi donar desira
uno effetto celeste, un ben intero,
qual non ha questo on quel altro emispero
né tutto quel che 'l sol volando agira;
quella stagion che fu detta felice
e par che al nome de auro ancor se alumi,
quanto può invidiarti, o nostra etade!
Ché se nectare avea ben nei soi fiumi
e mele avean le querce e le mirice,
giamai non ebbe lei tanta beltade.
8
MANDRIALIS
Cantati meco, inamorati augelli,
poiché vosco a cantar Amor me invita;
e voi, bei rivi e snelli,
per la piagia fiorita
teneti a le mie rime el tuon suave.
La beltà de che io canto è sì infinita
che il cor ardir non have
pigliar lo incargo solo,
ché egli è debole e stanco, e il peso è grave.
Vagi augelleti, voi ne giti a volo
perché forsi credeti
che il mio cor senta dolo,
e la zoglia che io sento non sapeti.
Vaghi augeleti, odeti:
che quanto gira in tondo
il mare e quanto spira zascun vento,
non è piacer nel mondo
che aguagliar se potesse a quel che io sento.
9
AD AMOREM
Alto diletto che ralegri il mondo
e le tempeste e i venti fai restare,
l'erbe fiorite e fai tranquillo il mare,
ed a' mortali il cor lieto e iocondo,
se Jove su nel cielo e giù nel fondo
fecisti il crudo Dite inamorare,
se non se vide ancora contrastare
a le tue forze primo né secondo,
qual fia che or te resista, avendo apreso
foco insueto e disusato dardo
che dolcemente l'anima disface?
Con questo m'hai, Signor, già tanto inceso
per un suave e mansueto guardo
che in altra sorte vita non mi piace.
10
Pura mia neve che ei dal ciel discesa,
candida perla dal lito vermiglio,
bianco ligustro, bianchissimo ziglio,
pura biancheza che hai mia vita presa;
o celeste biancheza, non intesa
da li ochi umani e da lo uman consiglio,
se a le cose terrene te assumiglio
quando fia tua vagheza mai compresa?
Ché nulla piuma del più bianco olore
né avorio né alabastro può aguagliare
il tuo splendente e lucido colore.
Natura tal beltà non può creare,
ma quel tuo gentil lustro vien da Amore,
che sol, che tanto puote, te 'l pò dare.
11
Rosa gentil, che sopra a' verdi dumi
dai tanto onor al tuo fiorito chiostro,
suffusa da Natura di tal ostro
che nel tuo lampegiar il mondo alumi,
tutti li altri color son ombre e fumi
che mostrerà la terra on ha già mostro:
tu sola sei splendor al secol nostro,
che altrui ne la vista ardi, e me consumi.
Rosa gentil, che sotto il giorno extinto
fai l'aria più chiarita e luminosa
e di vermiglia luce il ciel depinto,
quanto tua nobilitade è ancor nascosa!
Ché il sol, che da tua vista in tutto è vinto,
apena te cognosce, o gentil rosa.
12
A la rete d'Amor, che è texta d'oro
e da Vagheza ordita con tanta arte
che Ercule il forte vi fu preso e Marte,
son anche io preso, e dolcemente moro.
Così morendo il mio Signor adoro
che dal lacio zentil non me diparte,
né morir voglio in più felice parte
ca religato in questo bel lavoro.
Non fia mai sciolto da le treze bionde,
crespe, lunghe, legiadre e peregrine
che m'han legato in sì suave loco.
E se ben sua adorneza me confonde
e vame consumando a poco a poco,
trovar non posso più beato fine.
13
Ride nel mio pensier la bella luce
che intorno a li ochi di costei sintilla,
e levame legier come favilla
e nel salir del ciel se me fa duce.
Là veramente Amor me la riluce
e con sua man nel cor me la sigilla;
ma l'alma de dolceza se distilla
tanto che in forsi la mia vita aduce.
Così, rapto nel ciel fuor di me stesso,
comprendo del zoir di paradiso
quanto mortal aspetto mai ne vide.
E se io tornasse a quel piacer più spesso,
sarebbe il spirto mo' da me diviso,
se il soverchio diletto l'omo occide.
14
CAPITALIS
Arte de Amore e forze di Natura
Non fur comprese e viste in mortal velo
Tutte giamai, dapoi che terra e cielo
Ornati for di luce e di verdura:
Non da la prima età simplice e pura,
In cui non se sentio caldo né gielo,
A questa nostra, che de l'altrui pelo
Coperto ha il dosso e fatta è iniqua e dura,
Accolte non for mai più tutte quante
Prima né poi, se non in questa mia
Rara nel mondo, anci unica fenice.
Ampla beltade e summa ligiadria,
Regal aspetto e piacevol sembiante
Agiunti ha insieme questa alma felice.
15
CANTUS COMPERATIVUS
Chi troverà parole e voce equale
che giugnan nel parlare al pensier mio?
Chi darà piume al mio intelletto ed ale
sì che volando segua el gran desio?
Se lui per sé non sale,
né giugne mia favella
al loco ove io la invio,
chi canterà giamai de la mia stella?
Lei sopra l'altre cose belle è bella,
né col pensier se ariva a sua belleza,
perché a lo inzegno umano il Ciel la cella
né vuol che se salisca a la sua alteza,
se forsi Amor non degna darci aita
acciò che la vagheza
sia del suo regno qui tra noi sentita.
Porgime aita, Amor, se non comprende
il debol mio pensier la nobiltade
che a questo tempo tanta grazia rende,
che gloriosa ne è la nostra etade.
Sì come più resplende,
alor che il giorno è spento,
intra le stelle rade
la luna di color di puro argento,
quando ha di fiame il bianco viso cento
e le sue corne ha più di lume piene,
solo a sua vista è il nostro guardo intento,
ché da lei sola a nui la luce viene:
così splende qua giù questa lumiera,
e lei sola contiene
valor, beltade e gentileza intiera.
Come in la notte liquida e serena
vien la stella d'Amore avanti al giorno,
de ragi d'oro e di splendor sì piena
che l'orizonte è di sua luce adorno,
ed ella a tergo mena
l'altre stelle minore
che a lei d'intorno intorno
cedon parte del cielo e fangli onore;
indi rorando splendido liquore
da l'umida sua chioma, onde se bagna
la verde erbetta e il colorito fiore,
fa rogiadosa tutta la campagna:
così costei de l'altre el pregio acquista,
perché Amor la accompagna
e far sparir ogni altra bella vista.
Chi mai vide al matin nascer l'aurora,
di rose coronata e de jacinto,
che fuor del mar el dì non esce ancora
e del suo lampegiar è il ciel depinto,
e lei più se incolora
de una luce vermiglia,
da la qual fora vinto
qual ostro più tra noi se gli asomiglia;
e il rozo pastorel se maraviglia
del vago rossegiar de lo oriente
che a poco a poco su nel ciel se apiglia,
e con più mira più se fa lucente:
vedrà così ne lo angelico viso,
se alcun fia che possente
se trovi a rigurdarla in vista fiso.
Qual fuor de l'occean, di raggi acceso,
risurge il sole al giorno matutino,
e sì come fra l'unde e il ciel suspeso
va tremolando sopra il suol marino;
e poi che il freno ha preso
de' soi corsier focosi,
con le rote d'or fino
ad erto adriza e' corsi luminosi;
vista non è che amirar fermo lo osi,
ché di vermiglio e d'oro ha un color misto
che abaglia gli ochi nostri tenebrosi
e fa l'uman veder più corto e tristo:
tal è amirar questo mirabil volto,
che, da li ochi mei visto,
ogn'altro remirar a lor ha tolto.
Vago pensier, che con Amor tanto alto
volando vai, e del bel viso canti
che ti fa nel pensar il cor di smalto,
membrando di sua forma e dei sembianti,
rimasti da la impresa sì soprana,
però che tanto avanti
non va la possa de natura umana.
16
Già tra le folte rame aparir veggio
ambe le torre ove il mio cor aspira;
già l'ochio corporale anche lui mira
la terra che ha l'effetto e 'l nome reggio.
Alma cittade, ove Amor tien suo seggio
e te sopravolando sempra agira,
qual nascosta cagion tanto me tira
che altro che esser in te giammai non chieggio?
Deh, che dico io? ché la cagion è aperta
a le fiere, a li augelli ai fiumi ai sassi
e ne l'abisso e in terra e in mare e in celo.
Ormai del mio furor per tutto sciassi,
ché a poco a poco è consumato il gielo
che un tempo ebbe mia fiama in sé coperta.
17
Sono ora in terra, on sono al ciel levato?
sono io me stesso, on dal corpo diviso?
son dove io veni, on sono in paradiso,
che tanto son da quel che era mutato?
Oh felice ciascun, ciascun beato
a cui lice amirar questo bel viso
che avanza ogni diletto e zoglia e riso
che possa al core umano esser donato!
Mirate, donne, se mai fu beltate
equal a questa, e se son tal costumi
or ne la nostra, on fur ne l'altra etate!
Dolci, amorosi e mansueti lumi,
come sconvenne a quel che for mostrate
che per mirarvi un cor se arda e consumi.
18
AD GUIDONEM SCAIOLAM
De avorio e d'oro e de corali è ordita
la navicella che mia vita porta;
vento suave e fresco me conforta,
e il mar tranquillo a navicar me invita.
Vago desir coi remi a gir me aita,
governa el temo Amor, che è la mia scorta,
Speranza tien in man la fune intorta
per porre il ferro adunco a la finita.
Così cantando me ne vo legiero
e non temo de' colpi de Fortuna
come tu che li fugi e non sciai dove.
Crede a me, Guido mio, che io dico il vero:
cangiasse mortal sorte or bianca or bruna,
ma meglio è morte qua che vita altrove.
19
AD AMOREM INTEROGATIO
– Che augello è quello, Amor, che batte l'ale
tieco nel cielo ed ha la piuma d'oro,
mirabil sì che in croce mi lo adoro,
ché al senso mio non par cosa mortale?
Hanne Natura al mondo un altro tale?
formolo in terra, on sopra al summo coro?
fece tra noi più mai altro lavoro
che a questo di beltade fusse equale? –
– Là dove il giorno spunta e' ragi in prima,
nasce questa fenice, al mondo sola,
che di sua morte la vita ripiglia.
Più mai non la vedete il nostro clima:
però, se e' toi pensieri al tutto invola
vista sì rara, non è maraviglia. –
20
CHORUS SINPLEX
L'alta beltà, dove Amor m'ha legato
con la catena d'oro,
ne la sua servitù me fa beato.
Né più lieto di noglia esce e di stento,
sciolto da' laci, il misero captivo,
quanto io, di poter privo
e posto in forza altrui, lieto me sento.
Quel vago cerchio d'or che me tien vivo
ed hami l'alma e il core intorno avento,
me fa tanto contento,
che de alegreza su nel cielo arivo.
E così quando io penso e quando io scrivo
del mio caro tesoro,
me par sopra le stelle esser levato.
21
COMPERATIVUS
Né più dolce a' nostri ochi il ciel sfavilla
de' lumi adorno che la notte inchina,
né il vago tremolar de la marina
al sol nascente lucida e tranquilla,
né quella stella che de su ne stilla
fresca rogiada a l'ora matutina,
né in giazio terso né in candida brina
ragio di sol che sparso resintilla;
né tanto al veder nostro a sé ritira
qual cosa più gentil ed amorosa
su nel ciel splende on qua giù in terra spira,
quanto la dolce vista e graziosa
da quei begli ochi che Amor volve e gira:
e chi no il crede, de mirar non gli osa.
22
CRUCIATUS
L'ora del giorno che ad amar ce invita
dentro dal petto il cor mi raserena,
vegendo uscir l'aurora colorita,
e a la dolce ombra cantar Filomena.
La stella matutina è tanto piena
che ogn'altra intorno a lei se è dispartita,
ed essa appo le spalle il sol si mena,
di sua stessa belleza insuperbita.
Ciò che odo e vedo suave ed ornato
a lo amoroso viso rasumiglio,
e convenirse al tutto l'ho trovato.
Più volte già nel rogiadoso prato
ora a la rosa l'hagio ed ora al ziglio,
ora ad entrambi insieme acomperato.
23
Io vado tratto da sì ardente voglia,
che 'l sol tanto non arde ora nel cielo,
benché la neve a l'alpe, a' rivi il gielo,
l'umor a l'erbe, a' fonti l'unda toglia.
Quando io penso al piacer che 'l cor me invoglia,
nel qual dal caldo sol me copro e velo,
io non ho sangue in core o in dosso pelo
che non mi tremi da amorosa zoglia.
Spreza lo ardor del sole il foco mio,
qualor più caldo sopra a' Garamanti
on sopra a gli Etioppi o gli Indi preme.
Chi ha di sofrenza on di virtù desio
il viver forte segua de li amanti,
ché amor né caldo né fatica teme.
24
Qual benigno pianetto o stella pia
in questo gentil loco m'ha drizato?
Qual felice destin, qual dextro fato
tanto ablandisse a la ventura mia?
Canti suavi e dolce melodia
intorno a me risonan d'ogni lato;
null'altro è di me in terra più beato,
né scio se forsi in cielo alcun ne sia.
Quello angelico viso, anci quel Sole,
che tole al core umano el tristo zelo
e del mio petto fuor la notte serra,
e lo accento gentil de le parole
che sopra noi risona insino al celo,
me fan de li altri più felice in terra.
25
CHORUS UNISONUS
Deh, non chinar quel gentil guardo a terra.
lume del mondo e spechio de li Dei,
ché fuor di questa corte Amor si serra
e sieco se ne porta i pensier mei.
Perché non posso io star dove io vorei,
eterno in questo gioco,
dove è il mio dolce foco
da quel tanto di caldo già prendei?
Ma se ancor ben volesse io non potrei
partir quindi il mio core assai o poco,
né altrove troveria pace né loco
e sanza questa vista io morerei.
Deh, vedi se in costei
Pietade e Gentileza ben s'afferra,
come alcia li ochi bei
per donar pace a la mia lunga guerra.
26
IN NATALI DOMINAE
Ecco quella che il giorno ce riduce,
che di color rosato il cielo abella;
ecco davanti a lei la chiara stella
che il suo bel nome prese da la luce.
Principio sì giolivo ben conduce
a la annual giornata, che fu quella
che tolse giù dal ciel questa facella
di cui la gente umana arde e riluce.
Questo è quel giorno in cui Natura piglia
tanta arroganza del suo bel lavoro
che de l'opra sua stessa ha maraviglia.
Più de l'usato sparge e' ragi d'oro
il sol più bello e l'alba più vermiglia:
oggi nacque colei che in terra adoro.
27
RODUNDELUS INTEGER AD IMITACIONEM RANIBALDI FRANCI
Se alcun de amor sentito
ha l'ultimo valor, sì come io sento,
pensi quanto è contento
uno amoroso cor al ciel salito
Da terra son levato al ciel son gito,
e gli ochi ho nel sol fisi al gran splendore
e il mio veder magiore
fatto è più assai di quel che esser solia.
Qual inzegno potria
mostrar al mio voler e' penser mei?
Perché io stesso vorei
cantar mia zoglia, e non esser odito.
Se alcun de amor sentito.
Io son del mio diletto sì invagito
che a ragionarni altrui prendo terrore;
né in alcun tempo amore
fu mai né sarà senza zelosia.
Ben fora gran folia
a scoprir la belleza di costei,
ché ben ne morerei
se io fusse per altrui da lei partito.
Se alcun de amor sentito.
Beato viso che al viso fiorito
fusti tanto vicin che il dolce odore
ancor me sta nel core,
e starà sempre insin che in vita sia,
tu l'alta legiadria
vedesti sì di presso e gli ochi bei;
tu sol beato sei,
se il gentil spechio tuo non t'è rapito
Se alcun de amor sentito.
Felice guardo mio che tanto ardito
fusti ne lo amirar quel vivo ardore,
che te potrà mai tore
lo amoroso pensier che al ciel te invia?
Ben scio certo che pria
e l'alma e il core e il senso perderei;
ben scio che io sosterei
anzi di cielo e terra esser bandito.
Se alcun de amor sentito.
Ligato sia con meco e sempre unito:
se meco insieme l'anima non more,
non se trarà mai fore
questo unico mio ben de l'alma mia.
Dolce mia segnoria,
a cui ne' mei primi anni me rendei,
senza te che sarei?
Inculto rozo misero e stordito,
Se alcun de amor sentito.
Per te, candida rosa, son guarnito
di spene e zoglia, e voto di dolore;
per te fugi' lo errore
che in falsa sospizione el cor me apria.
Tu sola sei la via
che me conduce al regno de gli Dei;
tu sola e' pensier rei
tutti hai rivolti, e me di novo ordito.
Se alcun de amor sentito.
Per te sum, rosa mia, del vulgo uscito,
e forsi fia ancor letto el mio furore,
e forsi alcun calore
de la mia fiamma ancor inceso fia;
e se alcuna armonia
oguagliar se potesse ai pensier mei,
forsi che ancor farei
veder un cor di marmo intenerito.
Se alcun de amor sentito.
Cantiamo adunque il viso colorito,
cantiamo in dolce notte il zentil fiore
che dà tanto de onore
a nostra etade che l'antiqua oblia.
Ma l'alta fantasia
ne la qual già pensando me perdei,
nel rimembrar di lei
da me m'ha tolto e sopra al ciel m'ha sito.
Se alcun de amor sentito.
28
Chi tole il canto e pene al vago augello,
le foglie e il color vivo tole al fiore,
a l'erbe la verdura e il primo odore,
e il fiore e l'erbe tole al praticello,
e le ramose corne al cervo isnello,
al cielo e stelle e sole e ogni splendore,
quel puote a un cor gentil togliere amore,
e la speranza al dolce amor novello.
Ché sanza amore è un core sanza spene,
un arbor sanza rame e sanza foglie,
fiume sanza unde, e fonte sanza vene.
Amore ogni tristeza a l'alma toglie,
e quanto la Natura ha in sé di bene
nel core inamorato se racoglie.
29
CUM IN SUBURBANO VACARET LUDIS PUELLARIBUS
Gentil città, come ei fatta soletta!
come ei del tuo splendor fatta ozi priva!
E un picol fiumicel su la sua riva
di tanto ben felice se diletta.
Io me ne vado dove Amor me aspetta,
che è gito in compagnia de la mia Diva;
Amor che ogn'altra cosa ha vile e sciva
e di lasciar costei sempre sospetta.
Sanza di lei né tu né altro me piace,
né sanza lei tra l'Isole Beate
né in ciel, ch'io creda, sentiria mai pace.
Rimanti adunque tu, gentil citate,
poiché una tua villeta è tanto audace
che ozi te spoglia di tua nobiltate.
30
Qual nei prati de Idalo on de Citero
se Amor de festegiar più voglia avea,
le due sorelle agiunte a Pasitea
cantando di sé cerchio intorno fero,
tal se fece oggi, e più legiadro e altero,
essendo in compagnia della mia Dea
e de l'altre doe belle, onde tenea
la cima di sua forza e il summo impero.
Gioiosamente in mezzo a lor si stava
voltando le sue ale in più colori,
e sua belleza tutta fuor mostrava.
La terra lieta germinava fiori
e il loco aventuroso sospirava
di dolce foco e d'amorosi odori.
31
Ben se ha trovato il più legiadro seggio
Amor che fabricasse mai natura;
ed io presumo a scriver sua figura
perché d'ognor nel cor me la vagheggio.
La sua materia è de alabastro egreggio
e d'or coperta è la suprema altura,
sotto a cui splende luce viva e pura
tal ch'io non la scio dir come io la veggio:
ché di cristallo è tutta la cornice,
de ebbano ha sopra uno arco rivoltato;
chi dentro può mirar ben è felice.
Qui sede Amor de raggi incoronato,
dolce cantando a' riguardanti dice:
– Piacer più vago il Ciel non v'ha mostrato. –
32
Perché non corresponde alcuno accento
de la mia voce a l'aria del bel viso?
ch'io faria in terra un altro paradiso
e il mondo ne l'odir di lei contento.
Farebbe ad ascoltarmi a forza intento
ogni animal d'umanità diviso,
e se mostrar potesse il dolce riso,
faria movere e' saxi e star il vento.
Ben ho più volte nel pensier stampite
parole elette e notte sì suave
che assai presso giugneano a sua belleza;
ma poi che l'ho legiadramente ordite,
par che a ritrarle el mio parlar se inchiave
e la voce mi manche per dolceza.
33
CANTUS RITHMO INTERCISO CONTINUATUS
L'alta vagheza che entro al cor me impose
con l'amorose ponte il mio volere,
il spirto me sotrage al suo piacere,
ché a lei volando l'alma se desvia:
se stessa oblia, ed io non ho potere
di ratenere il fren come io solia,
ché più non stano da la parte mia
arte né inzegno, forza né sapere.
Hagio quel foco in me che io soglio avere
e quel vedere usato e quella voglia,
ma il poter più tener mie fiame ascose
mi è tolto in tutto, e il ricoprir mia noglia
che un tempo occultamente il cor mi rose,
mentre potei celar, come io dispose.
Già son le rose a la sua fin extrema,
e pur non scema de mia fiama el fiore,
anzi più caldo ha preso e più vigore,
come più largo il giro or prende il sole.
Ma non mi dole or tanto questo ardore
che me arde il core assai più che non sole:
sia quel che il Ciel dispone e che Amor vole,
pur che altri non cognosca il mio furore.
Ma che posso io? Ché 'l tempo mostra l'ore,
e il viso amore, e però cerco invano
mostrar di fora ardir, se 'l cor mi trema.
Se pietà non mi porge il viso umano,
e proveda che Amor sì non mi prema,
ancor convien ch'io cridi, non ch'io gema.
Come vuol frema il mare o il ciel intoni,
ché a tutti e' soni a me dansar convene,
né in zoglia altrui voria cangiar mie pene,
se amirar quel potesse ond'io tanto ardo.
L'ochio fu tardo, e già non se sostene,
ché più non vene il fugitivo pardo;
tenir non posso el cor sanza quel guardo,
ché mal se può tenir chi non ha spene.
Qual capestro qual freno on qual catene,
qual forza tene el destrier ch'è già mosso
nel corso furioso, ed ha chi el sproni?
Sapiati, alma gentil, che più non posso,
quando convien che alfine io me abandoni:
on che io me mori, on che al guardar perdoni.
Queste cagioni furno al mio fallire,
se altri vuol dire un fallo il guardar mio;
ma se più mai signor benigno e pio
odì suo servo, odeti mia ragione:
ne la stagione che il mio cor sentio
l'alto desio e dolce passione,
sì lieto el viso vostro se mostrone
che in lui pusi speranza come in Dio.
Fatto se è poi, non scio perché, restio,
e tanto rio e del suo guardo avaro
che il cor degiuno più non può soffrire.
Usato non è lui pascer d'amaro;
perciò li è forza al suo fonte venire,
on a spegner la sette on a morire.
Se pur languire io debo in questa etate,
vostra beltate non sarà mai quella,
ch'io scio che non potria cosa sì bella
esser cagion di morte a chi l'adora.
Or ride or plora l'alma tapinella,
d'una facella avampa e discolora:
a voi sta che la viva e che la mora;
voi la regina seti, e lei l'ancella.
Perché s'asconde adunque la mia stella?
perché se cella il mio lume sereno?
Se cor gentil asdegna crudeltate,
come assentite voi ch'io venga meno?
Pur vostra forma è di tal nobiltate
che esser non può ribella di pietate.
Ma sia quel che esser vuole: io quel che sono
tutto abandono in vostre braza alfine;
né mia fortuna ha scampo in altro porto.
Abi la terra l'osse mie meschine.
e il cor, che del suo spirto è privo a torto,
vostro fu vivo e vostro sarà morto.
34
CAPITALIS
Anzelica vagheza in cui Natura
Ne mostra ciò che bel puote operare,
Tal che a sì chiara luce a comperare
Ogni stella del ciel parebbe oscura,
Non si può aconciamente anima dura
In graziosa vista colorare;
A voi una umiltà ne li ochi appare
Che de pietate ogn'alma rassicura.
A che mostrare adunqua che le pene
Per voi portate sian portate invano,
Ridendo el foco che 'l mio cor disface?
Alma ligiadra, tropo disconvene
Risposta dura a un viso tanto umano:
Aiuto adunque, on morte, qual vi piace.
35
Se cosa bella sempre fu gentile,
né mai mentì Pietade a Gentileza,
ancor sarà che giù ponga l'aspreza
quel magnanimo core e signorile.
Sdegno regal se placca al servo umile,
e in picol tempo se dilegua e speza;
l'ira crudiel e l'odio e la dureza
non han ricetto fuor che in alma vile.
Ma se pur forsi il Ciel novo destino
fatto ha per me, né vuol che io me conforte
de aver mercè dal mio viso divino,
tacito porterò la dura sorte,
e sol, piangendo, me morrò meschino,
per non incolpar lei de la mia morte.
36
Datime a piena mano e rose e zigli,
spargete intorno a me viole e fiori;
ciascun che meco pianse e' mei dolori,
de mia leticia meco il frutto pigli.
Datime e' fiori e candidi e vermigli,
confano a questo giorno e' bei colori;
spargeti intorno d'amorosi odori,
ché il loco a la mia voglia se assumigli.
Perdon m'ha dato ed hami dato pace
la dolce mia nemica, e vuol ch'io campi,
lei che sol di pietà se pregia e vanta.
Non vi maravigliati perch'io avampi,
ché maraviglia è più che non se sface
il cor in tutto de alegreza tanta.
37
CHORUS TRIPLEX RITHMO INTERCISO
Doppo la pugna dispietata e fera
Amor m'ha dato pace,
a cui despiace che un suo servo pera.
Come più dolce a' navicanti pare,
poi che fortuna gli ha sbatuti intorno,
veder le stelle e più tranquillo il mare
e la terra vicina e il novo giorno,
cotale è dolce a me, che al porto torno
da l'unda aspra e falace,
la chiara face che mi dà lumera.
E qual al peregrin de nimbi carco
doppo notturna pioggia e fredo vento
se mostra al sole averso il celeste arco,
che sol de la speranza il fa contento,
tal quel Sol ch'io credea che fusse spento
or più che mai me piace,
e più vivace è assai che già non era.
38
CUM MISISSET LOCULUM AURO TEXTUM
Grazioso mio dono e caro pegno
che sei de quella man gentil ordito
qual sola può sanar quel che ha ferito
e a la errante mia vita dar sostegno,
dono amoroso e sopra l'altri degno,
distinto in tante parte e colorito,
perché non è con teco il spirto unito
che già te fabricò con tanto inzegno?
Perché non è la man legiadra teco?
perché teco non son or quei desiri
che sì te han fatto di beltate adorno?
Sempre ne la mia vita sarai meco,
avrai sempre da me mille sospiri,
mille basi la notte e mille il zorno.
39
Già vidi uscir de l'onde una matina
il sol di ragi d'or tutto jubato,
e di tal luce in facia colorato
che ne incendeva tutta la marina;
e vidi a la rogiada matutina
la rosa aprir d'un color sì infiamato
che ogni luntan aspetto avria stimato
che un foco ardesse ne la verde spina;
e vidi aprir a la stagion novella
la molle erbetta, sì come esser sole
vaga più sempre in giovenil etade;
e vidi una legiadra donna e bella
su l'erba coglier rose al primo sole
e vincer queste cose di beltade.
40
AD LUCIFERUM
Rendece il giorno e l'alba rinovella,
che io possa riveder la luce mia;
stella d'amor che sei benigna e pia,
rendece il giorno che la notte cella.
Tu sei sola nel cielo ultima stella,
per te si sta la notte e non va via:
se non fusse per una, io pur diria
che dispetosa al mondo è chiunque è bella.
Rendece il giorno, ché il desir me strugge,
perché la mia speranza al giorno aspetto
e lo aspettar nel cor dentro me adugge.
Stella crudel c'hai del mio mal diletto,
ché ogn'altra fuor del ciel la luce fugge,
e tu ferma ti stai per mio dispetto!
41
Questa matina nel scoprir del giorno
il ciel s'aperse, e giù dal terzo coro
discese un spiritel con l'ale d'oro,
di fiame vive e di splendor adorno.
– Non vi maravigliati s'io ritorno –
dicea cantando – al mio caro tesoro,
ché in sé non have il più zentil lavoro
la spera che più larga gira intorno.
Quanto ablandisse il Celo a voi mortali
che v'ha donato questa cosa bella,
ristoro immenso a tutti e' vostri mali! –
Così cantando quel spirto favella,
battendo motti a le sue voce equali,
e tornasi zoglioso a sua stella.
42
Chi non ha visto ancora il gentil viso
che solo in terra se pareggia al sole,
e l'acorte sembiance al mondo sole
e l'atto dal mortal tanto diviso;
chi non vide fiorir quel vago riso
che germina de rose e de viole;
chi non audì le angeliche parole
che sonan d'armonia di paradiso;
chi più non vide sfavilar quel guardo
che come stral di foco il lato manco
sovente incende, e mette fiamme al core;
e chi non vide il volger dolce e tardo
del suave splendor tra il nero e il bianco,
non scia né sente quel che vaglia Amore.
43
SOMNIUM CANTU UNISONO TRIVOCO
Ancor dentro dal cor vago mi sona
il dolce ritentir di quella lira;
ancor a sé me tira
la armonia disusata, e il novo canto
tanto suave ancor nel cor me spira
che me fa audace de redirne alquanto,
abenché del mio pianto
la dolce melodia nel fin ragiona.
Quando l'Aurora il suo vechio abandona
e de le stelle a sé richiama il coro,
poiché la porta vuol aprir al giorno,
veder me parve un giovenetto adorno,
che aveva facia di rose e capei d'oro,
d'oro e di rose avea la veste intorno;
cinta la chioma avea di verde aloro,
che ancor dentro amoroso il cor gli morde,
ché l'amor perso eternamente dole.
Indi movendo il plectro su le corde
sì come far si sole,
la voce sciolse poi con tal parole:
– Quando Natura imaginando adopra,
quanto di bello in vista può creare,
ha voluto mostrare
in questa ultima etate al mondo ingrato;
né possi a tal belleza acomperare
il mio splendor, che il cielo ha illuminato,
e ciò che fu creato
primeramente, cede a l'ultima opra.
Tanto è questa beltate a l'altre sopra
quanto a noi Marte, e quanto a Marte Jove,
quanto a lui sopra sta l'ultima spera.
Formata fu questa legiadra fera
che paro in terra di beltà non trove,
perché il regno d'Amor qua giù non pera.
Amor la sua possanza da lei move,
come tu senti e può vedere il mondo,
e più degli altri il cor tuo questo intende.
Quando Amor vien dal suo regno jocondo,
da questa l'arme prende,
perché sua forza sol da lei descende.
Beato il cielo e felice quel clima
sotto al quale nacque e quella regione;
beata la stagione
a cui tanto di ben pervenne in sorte;
beato te, che a la real pregione
per te stesso sei chiuso entro a le porte,
ché non pregion, ma corte
questa se de' nomar, se ben se stima;
beati li occhi toi, che veder prima
quel nero aguto e quel bianco suave
che a l'amorosa zoglia apre la via;
beato il cor che ogn'altra cosa oblia
né altro diletto né pensier non have
fuor che di sua ligiadra campagnia.
Quanto beata è l'amorosa chiave
che apre e dissera l'anima zentile
nel dolce contemplar de li atti bei!
Fatto è beato e nobile il tuo stile
nel cantar di colei
che in terra è ninfa, e Diva è fra gli Dei.
Quando costei dal cielo a vui discese
una piogia qua giù cadea de zigli,
e rose e fior vermigli
avean di bel color la terra piena.
Non voglio che perciò sospetto pigli,
ma al vero in cielo io mi rateni apena,
e in vista più serena
mostrai la zoglia mia di fuor palese.
Jove, che meco a mano alor se prese,
mirava in terra con benigno aspetto,
e fesse a nostra vista il mondo lieto.
A noi stava summesso ogni pianeto,
fioria la terra e stava con diletto,
tranquillo il mare e il vento era quieto.
Così a noi venne questo ben perfetto,
favorito dal Cielo e da le stelle
più che mai fusse ancor cosa formata.
Questa dal petto l'alma a te divelle:
ma se al ver ben se guata,
mal per te fo cotal beltà creata.
Mal fo per te creata, il ver ragiono;
sciai che io so Febo e non soglio mentire:
per farti alfin languire
venuta è in terra questa cosa bella.
Misero te che tanto hai da soffrire
da questa fera fugitiva e snella!
Miser, quanta procella
porrà ancor la tua barca in abandono!
E se io de lo advenir presago sono,
nulla ti giova lo amonir ch'io facio,
ché distor non te posso a chi te guida.
Tristo chi d'alma feminil se fida,
acciò che doppo il danno e doppo il straccio
sovente del suo male altri se rida!
Nel foco, che t'arde ora, vedo un giaccio
che te farà tremar l'osse e la polpa,
mancar il corpo e il spirto venir meno.
Non te doler de altrui, ché l'è tua colpa,
e tu lo vidi apieno
che dovevi al desir por prima il freno.
Così cantava, e querelando al fine
la citera suave sospirava
voce più chetta e notte peregrine.
Qual vanitate noi mortali agrava!
Credere al sogno ne la notte oscura
ed al cieco veder dar chiara fede!
Ma benché io non sia sciolto da paura,
il mio cor già non crede
aver del suo servir cotal merzede.
44
Ocio amoroso e cura giovenile,
gesti legiadri e lieta compagnia,
solazo fuor di noglia e di folia,
alma rimota da ogni pensier vile,
donesco festegiar, atto virile,
parlar accorto e giunto a cortesia,
son quelle cose, per sentenzia mia,
che il viver fan più lieto e più zentile.
Chi così vise, al mondo vise assai,
se ben nel fior de gli anni il suo fin colse,
ché più che assai quel campa e che ben vive.
Passata zoglia non se lassa mai;
ma chi pote ben vivere, e non volse,
par che anzi tempo la sua vita arive.
45
Tornato è il tempo rigido e guazoso,
che la notte su crese e il giorno manca,
il ciel se anera e la terra se imbianca,
l'unda è concreta e il vento è ruinoso.
Ed io come di prima son focoso,
né per fredura il mio voler se stanca;
la fiama che egli ha intorno sì lo affranca
che nulla teme il fredo aspro e noglioso.
Io la mia estate eterna haggio nel petto,
e non la muta il turbido Orione
né Iade né Pliade né altra stella.
Scaldami il cor Amor con tal diletto
che verdegiar lo fa d'ogni stagione
che il suo bel Sole a li ochi mei non cella.
46
FLOS FRIGORE FRACTUS
Che non fa il tempo infin? Questo è quel fiore
che fu da quella man gentile accolto,
e sì legiadramente ad oro involto
che eterno esser dovea di tanto onore.
Or secco, sanza foglie e sanza odore,
discolorito, misero e disciolto,
ciò che gli die' Natura il tempo ha tolto,
il tempo che volando afretta l'ore.
Ben se assumiglia a un fior la nostra etate,
che stato cangia da matino a sera,
e sempre va scemando sua beltate.
A questo guarda, disdegnosa e altera:
abi, se non di me, di te pietate,
aciò che indarno tua beltà non pera.
47
Con qual piogia noiosa e con qual vento
Fortuna a lo andar mio si fa molesta!
Gelata neve intorno me tempesta
aciò che io giunga al mio desir più lento.
Ed io del ciel turbato non pavento,
ché per mal tempo il bon voler non resta,
ed ho dentro dal cor fiamma sì desta
che del guazoso fredo nulla sento.
Stretto ne vado in compagnia de Amore,
che me mostra la strata obliqua e persa
e fatto è guida al mio dritto camino.
Or mi par bianca rosa e bianco fiore
la folta neve che dal ciel riversa,
pensando al vivo Sol che io me avicino.
48
Io non scio se io son più quel ch'io solea,
ché 'l mio veder non è già quel che sole;
veduto ho zigli e rose e le viole
tra neve e giazi a la stagion più rea.
Qual erbe mai da Pindo ebbe Medea?
qual di Gargano la figlia del Sole?
qual pietre ebbe ciascuna e qual parole
che dimostrasse quel ch'io mo' vedea?
Io vidi in quel bel viso primavera,
de erbetta adorna e de ogni gentil fiore,
vermiglia tutta, d'or, candida e nera.
Ne l'ultima partita stava Amore
e in man tenea di fiame una lumera
che l'altri ardea ne li ochi, e me nel core.
49
Quando ebbe il mondo mai tal maraviglia?
Fiamma di rose in bianca neve viva,
auro che 'l sol de la sua luce priva,
un foco che nel spirto sol se impiglia,
candide perle e purpura vermiglia,
che fanno una armonia celeste e diva,
una altereza che è d'orgoglio schiva,
che ad altro che a se stessa non sumiglia.
Questo è il monstro ch'io canto sì giolivo,
dal qual lo inzegno e la alta voce piglio,
di cui sempre ragiono e penso e scrivo.
Questa è la augella da l'aurato artiglio,
che tanto me alcia che nel cielo arivo
a rivederla nel divin conciglio.
50
EPTHALOGOS CANTU PER SUMA DEDUCTO
Quella amorosa voglia
che a ragionar me invita
in rime ascose e crude
di lungi a la mia diva,
doni soccorso a la mia stanca mente,
poiché me fa parlar
come Madona fosse a me presente.
Candida mia columba,
qual è toa forma degna?
Qual cosa più somiglia
a la toa gran beltate?
Augella de l'Amor, segno di pace,
come deb'io nomarti,
che nulla cosa quanto te me piace?
Arbosel mio fronzuto
dal paradiso colto,
qual forza di natura
te ha fatto tanto adorno
di schieto tronco e de odorate foglie,
e de tanta vagheza
che in te racolte son tutte mie voglie?
Gentil mia fera e snella,
agile in vista, candida e ligiera,
sendo cotanto bella,
come esser puote in te mai mente altera
né de pietà ribella?
Però se in cosa umana il mio cor spera,
tu sola in terra ei quella.
Lucida perla colta ove se coglie
di preciose gemme ogni richeza,
dove l'onda vermiglia abunda in zoglie
e sopra el lito suo le sparge entorno,
serà giamai ventura
che a me dimostri sì benigno il volto,
che da te speri aiuto?
Vago fioreto, io non ho vista audace
che fissamente ardisca de guardarti;
perciò tua forma e il tuo color se tace,
ché tanta è tua belleza e nobiltate,
e di tal maraviglia,
che esser da noi cantata se disdegna,
e chiede magior trumba.
Canzon, il cor mio lasso ormai se pente
sua dona ad altro più rasumigliare,
ché sua beltate immensa no 'l consente.
Lassa che Amor con sua man la descriva
tra le tre Ninfe nude:
la voce lor diversamente unita
dimostri tanta zoglia.
51
Quello amoroso ben de ch'io ragiono
tanto è in sugetto nobile e soprano
che dimostrar no 'l pò lo inzegno umano,
però che al cel non giunge il nostro sono.
Unde io la impresa più volte abandono,
vegendo ben che io me affatico invano,
ma pui, cacciato da desir insano,
nel corso già lassato ancor me sprono.
Così ritorno a ragionar d'amore
con mente ardita e con la voce stanca,
da ragion fiaco e punto da speranza.
Di questo pasco il deboleto core,
or di luce vermiglia ed or di bianca,
ché quel pensiero ogni diletto avanza.
52
Qualunque più de amar fu schiffo in pria
e dal camin de Amor più dilungato,
cognosca l'alegreza del mio stato,
e tornerase a la amorosa via;
qualunque in terra ha più quel che ei desia,
di forza, senno e di belleza ornato,
qualunque sia nel mondo più beato,
non se pareggia a la fortuna mia:
ché il legiadro desire e la vagheza
che dentro mi riluce nel pensiero
me fan tra l'altre gente singulare.
Tal che io non stimo la indica richeza
né del gran re di Sciti il vasto impero,
che un sol piacer de amor non può aguagliare.
53
La smisurata ed incredibil voglia
che dentro fu renchiusa nel mio core,
non potendo capervi, esce de fore,
e mostra altrui cantando la mia zoglia.
Cingete il capo a me di verde foglia,
ché grande è il mio trionfo, e vie magiore
che quel de Augusto on d'altro imperatore
che ornar di verder lauro il crin si soglia.
Felice bracia mia, che mo' tanto alto
giugnesti che a gran pena io il credo ancora,
qual fia de vostra gloria degna lode?
Ché tanto de lo ardir vostro me exalto
che non più meco, ma nel ciel dimora
il cor che ancor del ben passato gode.
54
Ben se è ricolto in questa lieta danza
ciò che può far Natura e il Cielo e Amore;
ben se dimostra a' nostri ochi di fuore
ciò che dentro dal petto avean speranza.
Ma quella dolce angelica sembianza
che sempre fu scolpita nel mio core,
è pur la stella in cielo, in prato il fiore,
che non che l'altre ma se stessa avanza.
Il suave tacer, il star altero,
lo accorto ragionar, il dolce guardo,
il perregrin dansar ligiadro e novo,
m'hano sì forte acceso nel pensiero
che sin ne le medole avampo ed ardo,
né altrove pace che in quel viso trovo.
55
Sazio non sono ancora e già son lasso
de riguardar il bel viso lucente,
che racender poria l'anime spente
e far l'abisso d'ogni noglia casso.
Qual alma più villana e spirto basso
de lo amoroso foco ora non sente,
che fuor vien de quelli ochi tanto ardente
che può scaldar d'amor un cor di sasso?
Fiamelle d'oro fuor quel viso piove
di gentileza e di beltà si vive
che puon svegliare ogni sopito core.
Da questa gentil lampa se commove
quanto parlando mostra e quanto scrive,
quanto in sé coglie il mio pensier d'amore.
56
CORUS DUPLEX UNISONUS
Chi crederebbe che sì bella rosa
avesse intorno sì pungente spine?
Chi crederebbe ascosa
mai crudeltate in forme sì divine?
Merita tal risposta la mia fede?
Convense a cortesia
scaciar da sé colui che mercè chiede?
Forsi de lo arder mio tanto non crede?
Ma già la fiamma mia
fatta è tanto alta che ciascun la vede.
Obliquo fatto e mia fortuna ria,
da qual cagion procede
che a me costei sia cruda, a l'altri pia?
Ma sia, se vuol, crudele: io non poria
mai desperar mercede,
né abandonar quel che il mio cor desia.
Perfetto amor ogni dispetto oblia:
serà ancor tempo forsi anci il mio fine
che a mie pene meschine
pace conceda l'alma graziosa.
57
Io sono e sarò sempre quel ch'io fui,
e se altro esser volesse, io non potrei:
lo amor, la fede e tutti e' penser mei
e tutta mia speranza ho posta in vui.
Né dar poriame, se io volesse, altrui,
né loco né credenza trovarei;
sansel gli omini in terra, in cielo e' Dei
dove raposta è la mia spene e in cui.
Servo me vi son fatto, e non mi pento,
né pentirò giamai, se 'l foco e l'onde,
se con le nube non fa pace il vento,
se 'l sol la luce al giorno non asconde,
se in guerra non congiura ogni elemento,
se 'l mar la terra e il ciel non se confonde.
58
Come esser può che a nui se obscuri il sole
per così poca nube e poco obietto?
Come puote esser che 'l benigno aspetto
non se dimostra a noi pur come il sole?
Se sua sia la cagione, assai me dole;
se mia, vie più di doglia ha il gran dispetto.
O voglia ardente, o disioso affetto,
come conduci altrui dove ei non vole!
Nui pur vediamo il cielo e le sue stelle,
la luna, il sole, e ne' celesti chiostri
il vago lampegiar de gli altri segni:
Dio fece al mondo le sue cose belle
per dar più de diletto a li ochi nostri:
e tu de esser mirata te desdegni?
59
Se 'l mio morir non sazia il crudo petto,
ribella de pietade, or che più chiedi,
poi che condutto son, come tu vedi,
che sol da morte il mio soccorso aspetto?
Ben poi del mio languir prender diletto,
ma non sarà giamai quel che tu credi,
che discaciar me possi dai toi pedi
per sdegno, per orgoglio, on per dispetto.
Teco sarà il mio core e morto e vivo,
né lungo tempo cangiarà desio,
se in mille forme l'anima mutasse.
Se del tuo amore a torto ben son privo,
se discaciato a torto, e che posso io?
Ma chi poria mai far che non te amasse?
60
Fin qui me è parso fresca rosa il foco,
fresca rogiada il lacrimar de amore,
suave vento è parso al tristo core
il suspirar, e il lamentar un gioco.
Or più nel gran martir non trova loco
il cor dolente e l'anima che more,
la anima aveza a stare in quello ardore
che dentro la consuma a poco a poco.
Misero mio pensero, a che pur guardi?
Guardar dovevi alor, quando alla rosa
la man porgesti, e paventar le spine.
Ch'or pur, lasso, comprendo, abenché tardi,
che da giovenil alma e desiosa
lo amor non se cognosce insino al fine.
FINIS
LIBER SECUNDUS
INCIPIT
61
Chi fia che ascolti il mio grave lamento,
miseri versi e doloroso stile,
conversi dal cantar dolce e gentile
a ragionar di pena e di tormento?
Cangiato è in tutto il consueto accento
e le rime d'amor alte e sutile;
e son sì fatto disdegnoso e vile
che sol nel lamentar mi fo contento.
Disventurato me, che io vivo ancora,
né m'ha distrutto la amorosa vampa,
ma nel rearso petto se rinova!
Deh, chi può ben morir, adesso mora:
ché chiunque il suo ben perde e dipoi campa,
campando mille morte el giorno prova.
62
Alme felice, che di nostra sorte
liberi seti del tormento rio,
fugeti Amor, e per lo exemplo mio
chiudeti al suo venir anti le porte.
Men male è ogni dolor, men mal è morte
che il cieco labirinto di quel Dio;
credeti a me, ché experto ne sonto io,
che cerco ho le sue strate implexe e torte.
Fugite, alme felice, il falso amore,
prendendo exemplo de la mia sagura,
stregneti il freno al desioso core.
Prendeti exemplo, e prendavi paura,
ché il caso è più crudel tanto e magiore
quanto saliti più seti in altura.
63
Dove deb'io le mie querele ordire?
dove deb'io finire e' mei lamenti?
Da gli passati oltragi on da' presenti?
dal nuovo duol on dal primo languire?
Ché destinato ho al tutto de scoprire
l'aspra mia noglia e i dolorosi stenti;
forsi pietà ne avran qualche altri genti
odendo la cagion del mio morire.
Questo riposo fia de mia fatica,
e fia de l'alma afflita alcun conforto
al smisurato duol che 'l cor me inchiava,
se alcun sarà che sospirando dica:
– Questa donna crudiel diede a gran torto
amara pena a chi dolce la amava. –
64
Voi che intendeti tanto il mio dolore
quanto mostrar lo può mia afflitta voce,
mirati a quel ardor che 'l cor mi coce,
se mai nel mondo pena fu mazore.
Per dritto amar e per servir di core
son preso, flagellato e posto in croce,
e servo un cor sì rigido e feroce
che me tormenta il guidardon de amore.
Né il Ciel prende pietà del mio martire
né pietà prende Amor che 'l cor mi vede
né quella che è del mal prima cagione.
Quanto felice a quel saria il morire
che pena in doglia, e altri non gli crede
né porta al suo penar compassione!
65
E' miseri pensieri ancora involti
nel foco de la antiqua vanitate,
membrando il tempo e le cose passate
ed al lieto zoir dove son tolti,
me son radutti intorno al cor sì folti
di pianti e di querele disusate
che un saxo farian romper di pietate,
ma ben non trovan chi sua pena ascolti.
Ché il cor per longa doglia è fatto un marmo
né e' pietosi pensieri se tene avanti,
ma disdegnoso intorno a sé gli scaccia.
Onde io la vita mia più non risparmo,
ma giorno e notte me consumo in pianti
per far questa crudel del mio mal sazia.
66
CORUS SINPLEX
Dapoi ch'io son lassato
da quello amor che già me fu jocondo,
che degio far più sconsolato al mondo?
Tempo è ben da morir, anci è passato:
morir dovea in quel punto
che da me se divise l'alma mia.
Or qui contro a mia voglia, pur son giunto,
misero, abandonato
fuor che da vita, e lei lasciar voria.
Ahi, crudel sorte e ria,
come deposto m'hai da cima al fondo!
Doppo il primo morir manda il secondo.
67
– Se pianti né sospiri Amor non cura,
né per chieder mercè pietà se aquista,
a che più querelarsi, anima trista,
e farci vita breve e fama oscura?
Tacita passi nostra gran sciagura,
ché tal beltà per noi mal fora vista,
se eterno in questa vita ne contrista
ne l'altra lo onor e il Ciel ne fura. –
– Deh, come leve n'escon le parole!
come e' fatti a seguir son gravi e lenti!
come altri ben conforta chi non dole!
De tanto mal non voi che io me lamenti
né che io contrasti a quel che il Ciel non vole:
ma taci tu che del mio mal non senti! –
68
Dapoi che Amor e lei pur vol che io pera,
lei che me occide in guiderdon de amore,
altro rissor non trova il tristo core
che il lamentarsi da matino a sera.
Così dal bianco giorno a notte nera
sfogo piagnendo l'alto mio dolore,
che sempre lamentando vien magiore,
poiché soccorso da Pietà non spera.
Indi de pianto li ochi miei son pieni
sempre, e di voce sospirosa il cielo,
e de rime dogliose le mie carte;
e saran sempre, insin che 'l mortal gielo
il caldo spirto mio da me non parte,
ché ben son gitti e' mei giorni sereni.
69
AEQUIVOCUS
Tanto è spietata la mia sorte e dura,
che mostrar non la pon rime né versi,
né per sospir on lacrime che io versi
costei se intenerisse on men se indura.
Passan le voce, e il duolo eterno dura
ne' spirti che a doler tutti son versi;
dal ciel la luna pon detrare e' versi,
né mover pon questa alma ferma e dura!
Per questo odio le rime e il tristo canto,
nel qual dolendo ormai tropo me atempo
né porgo al mio dolor alcun aiuto.
Odio me stesso e il mio cantare, e canto
rime forzate per vargare il tempo,
e con la voce il suspirar aiuto.
70
Ingrata fiera, ingrata e scognoscente
de lo amor che io te porto e te portai,
vedi a che crudo stracio giunto m'hai,
ingrata fiera, fiera veramente.
Se la dureza tua pur non si pente
di voler consumar mia vita in guai,
mira nel viso mio se ancora assai
de li ochi tristi son le luce spente;
mira, crudel, se ancor non ha' ben colto
del mio languire, e la mia tanta pena,
e il piagner tal che più piagner non posso;
mira che più non ho colore in volto
né spirto in core, e non ho sangue in vena
né umor ne li occhi né medolla in osso.
71
CANTUS INTERCALARIS RITHMO INTERSECTO
[TERNARIUS ENIM TETRALOGON DIVIDIT]
Se il Cielo e Amore insieme
destinan pur ch'io mora
e gionta è l'ora che mia vita incide,
queste mie voce extreme
almanco sieno intese
e sian palese a quella che me occide.
Ma a che, se lei se 'l vede e se ne ride?
Ché aperta è ben mia doglia
a quella fiera che 'l mio cor conquide;
ed essa, che mi spoglia
e vita e libertade,
non ha pietade del martir ch'io sento.
Insensata mia voglia!
Ché doler mi convene
e sazo bene che io mi doglio al vento.
Odi,superba e altera, le mie pene,
odi la mia rason sol una volta,
prima che morte al crudo fin mi mene.
Se a te non è quella memoria tolta
che aver solea quella anima gentile,
se la tua mente al tutto non è involta,
come è scordato il dì quarto de Aprile,
quando mostrasti aver tanto diletto
de lo amor mio che adesso è tanto vile?
Tardi ho chiarito il turbido suspetto
che finte erano alor le tue parolette,
finta la voce e finto il dolce aspetto.
Deh, siano ambe due chiuse e maledette
le orechie mie che odirno tue parole
e il simplice voler che gli credette!
Con rose fresche e con fresche viole
lassai gelarmi il sangue ne le vene,
che or dentro al cor giazato sì me dole.
Odi, superba e altera, le mie pene,
odi la mia rason solo una volta,
prima che morte al crudo fin mi mene.
Tu m'hai lassato presso, e tu dissolta
prendi vagheza del mio lamentare
che fa doler ogn'altro chi l'ascolta.
Ben te dovria lo arbitrio sol bastare,
che Amor te ha dato, de la mia morte e vita,
ma l'un né l'altro non posso impetrare.
Tu tieni in ghiazo l'alma sbigotita,
il cor nel foco, il mio pensiero al vento,
né mia compagnia voi, né mia partita.
A te par forsi un gioco il mio tormento,
che fresca te ne stai fra l'erba e il fiore,
né poi sentir il gran fervor che io sento.
Mostrar pur te potess'io dentro al core,
ché, si tu fussi di marmo, io tengo spene
che io te faria pietosa al mio dolore.
Odi, superba e altera, le mie pene,
odi la mia rason solo una volta,
prima che morte al crudo fin mi mene.
Alma fallita e stolta,
che segui ed hai seguito
chi t'ha tradito sempre in falsa vista,
il tuo pensier rivolta,
e lassa questa luce
che te conduce a notte oscura e trista.
Arme di Marte o inzegno di sofista
non pono altrui mai tore
la libertà, che co il voler se acquista.
Alma carca de errore,
che credi aver sofrenza
a la potenza immensa, ben sei paza.
Or non sciai tu che Amore
la tua libertà tene?
E le catene sue chi le dislaza?
Odi benigna adunque le mie pene,
odi li preghi mei solo una volta,
prima che morte al crudo fin mi mene.
Prima che morte giunga, un poco ascolta
con quella aria serena e dolce vista
che ha già del corpo mio l'anima tolta.
Se mai pietate per servir se aquista,
per ben servir con amore e con fede,
acquistata l'ha ben questa alma trista.
E se non l'ha acquistata, sua mercede
gli è retenuta, e dimanda ragione
a chi la tene ed aver se la crede.
Deh, cangia la ustinata opinione,
candida rosa mia, rendime pace,
che mercè te dimando in genochione.
Soccorri a questo cor che se disface,
che per te sola lassa ogni altro bene
e sempre a' piedi toi languendo giace.
Odi benegna adunque le mie pene,
odi gli preghi mei solo una volta,
prima che morte al crudo fin mi mene.
L'anima mia smarita e in sé racolta
aspetta per risor quella risposta
che se conviene a sua fede, che è molta.
Quinci ha del viver la speranza posta,
stimando pur che non sarai disdire
quel che, campando lei, nulla a te costa.
E si tu volessi forsi sostenire
la cosa in lungo, sapi e credi certo
che lungamente non porò soffrire.
Quanto ho possuto, tanto ho più sofferto;
tanto ho sofferto che l'alma ne crida
per non mostrarti il mio cor tutto aperto.
Nel tuo benegno viso ancor se anida
il spirto lasso; a quel sol se ratene
la debol vita e sol in quel se fida.
Odi benegna adunque le mie pene,
odi li preghi mei solo una volta,
prima che morte al crudo fin mi mene.
Se la vita me è tolta
e per tua cagion manco,
il marmo bianco occulti il tuo fallire.
Così rimanga involta
la causa ne le tombe,
né mai rimbombe chi me fa morire.
Non voglio che per me se hagia a sentire,
né mai per mie querele,
né odito sarà mai per mio martire.
– Qui giace quel fidele –
dirà mia sepultura,
– che un'alma dura pinse a mortal sorte.
Ben sei, lettor, crudele,
se lacrime non doni,
e le cagioni attendi de sua morte. –
72
Se quella altera me volesse odire
che tien le orechie al mio duol sì serate,
faria sentire un lago de pietate
nel misero contar del mio martire.
Come potrebb'io lunga istoria ordire,
dal tempo che io perdei mia libertate,
dil grave gioco e de la crudeltate
che ognor me occide e vetami il morire!
Faria pietate a l'alme oscure e nigre,
dove a gran pena mai mercè si impetra,
ne le tenebre inferne orrende e basse;
faria pietate a un cor crudel de tigre,
a un crudel cor di drago, a un cor di petra;
faria pietate a lei, se me ascoltasse.
73
Più veloce che cervo o pardo o tigre,
più veloce che augello on che saetta,
fugito è ogni mio ben con tanta fretta
che io son tardo a seguir, benché già migre.
Spietate Parche, al mio troncar sì pigre,
come fugetti sempre chi ve aspetta,
ed a cui più nel mondo star diletta
drizati il viso e le man impie e nigre!
Alor viver dovea quando fiorire
vidi mia spene e lo amor mio novello,
libero ancor da scognosciuti inganni:
anci in quel tempo pur dovea morire,
ché ben felice e fortunato è quello
che pò fugir per morte tanti affanni.
74
Io ho sì colma l'alma de' lamenti
formati da lo extremo mio dolore,
che se io potesse ben mostrarli fore
li ochi piagner faria che morte ha spenti;
e benché io li abia forsi ancor depenti
ne la mia fronte in palido colore,
non sono intesi dal mondano errore,
né a dimostrar sua noglia son potenti.
Così meco rimanga nel mio petto
la angoscia mia, poi non posso mostrarla
né far noto ad altrui quel che mi dole:
perché, se io me conduco nel conspetto
de quella per cui formo le parole,
voce non ho né ardir pur di guardarla.
75
E' lieti soni e il bel dansar suave,
li abiti adorni e le legiadre gente
tanta tristeza danno a la mia mente
che ogn'altra noglia li foria men grave.
Crudeli Idii, fu ben che già che non ave
in odio e' canti e il suon tanto spiacente;
or parmi ogni alegreza un stral pungente
che in trista angoscia il cor dolente inchiave.
E son d'altrui zoir sì roto e lasso
ch'io porto invidia non che a li animali,
ma priego il Ciel che me converta in sasso.
Quai doli a le mie pene fieno equali?
ché io son in festa, e tengo il viso basso,
e porto odio a me stesso ne' mie' mali.
76
Misero me, che ogn'altro in lieta festa,
in lieti soni e danzie se diletta,
e l'alma mia pensosa sta dispetta,
né dove è gente alegra mai se aresta.
Come stanco nochier, che da tempesta
afflitto a la riviera il corpo getta,
e benché l'unda mite se rasetta,
pur rasettata ancora gli è molesta,
il suon rumor, la danzia un andar sciolto,
il candido color mi pare adusto,
e vil quel guardo che altri ha tanto caro:
così lo infermo da la febre colto
perde il sentire e lo usitato gusto,
e quel che è dolce altrui gli pare amaro.
77
CHORUS SINPLEX
A che più tanto affaticarti invano,
pensier insano? Quella che tu amavi,
e per cui tu cantavi,
te fuge come sconosciuto e strano.
Che meco ragiono io, misero lasso?
Come ancor quello amore
non me fosse nel core
che sempre vi de' star, se sempre vivo!
Se ella ha il mio cor bandito e casso,
ben lo terà in dolore,
ma non che n'esca fore
amor, né che di lei possa esser schivo.
Piagnendo penso ciò, piagnendo il scrivo,
ché questa disdegnosa e gentil fera
tanto più se fa altiera
quanto più vede il servo esser umano.
78
O cielo! o stelle! o mio destin fatale!
o sole a' dui Germani insieme giunto,
che in ora infausta ed infelice punto
me solvisti da l'alvo maternale!
Lo arbitrio contra voi nulla mi vale,
che libro meco fu da Dio congiunto;
anzi son sì da voi sforzato e punto
che, vedendo il mio ben, seguo il mio male.
Ma chi altri ne incolpo io se non me stesso?
E del mio fatto a torto mi lamento,
ché io per me son ligato, e nacqui sciolto.
Io non dovea tornare sì spesso spesso
a riveder quel che il veder m'ha tolto:
tardi il cognosco e tardi me ne pento.
79
Chi crederà giamai ne l'altra etade
(se in altra etade duraran mie voce)
che il foco, che in tal pena il cor mi coce,
non sia confinto e fuor di veritade?
Poco han di fede in noi le cose rade,
perché in forma suave un cor feroce,
in abito gentil l'animo atroce
son disusata e nova qualitade.
Ma pur è giunto insieme per mio male
quel che più mai non giunse la Natura,
benegna faza e di mercè ribella.
Qual novo moto e sopranaturale,
qual nobil sido aposto in parte oscura
tanto crudel la fece tanto bella?
80
Itevi altrove, poiché il mio gran dolo
per voi non manca, o versi dolorosi;
versi ove ogni mio senso e cura posi,
itevi altrove, e me lasiati solo.
Voi già levasti il mio pensier a volo
quando furno e' mei giorni più gioiosi;
or che Fortuna e Amor me son retrosi,
ite, che a voi e a me stesso me involo.
Soletto piagner voglio il mio dolore,
ché ben soletta al mondo è la mia pena,
né pari in terra trova né magiore.
Chi me darà di lacrime tal vena
che agual se mostri nei miei pianti fore
a la cagion che a lacrimar mi mena?
81
Solea spesso pietà bagnarmi il viso
odendo racontar caso infelice
de alcuno amante, sì come se dice
di Piramo, Leandro e di Narciso.
Or sono in tutto da pietà diviso,
e porto invidia a lor beata vice,
ché, de lo amor scorgendo la radice,
vedo che il lor finir fu zoglia e riso.
Quel morì sotto il celso, e quello in mare,
quello a la fonte fu converso in fiore,
e Tisbe ed Ero e il suo desir fu sieco.
Qual duol al mio se puote assumigliare?
ché mi torei di vita esser già fore,
se pur sperasse morto averla meco.
82
ALEGORIA CANTU MONORITHMICHO AD GENTILES MARIETAM ET GENEVRAM STROTTIAS
Donne gentile, a vui ben se convene
odir ciò che ragiona il tristo core,
novellamente preso da lo errore
che non l'occide e fuor di vita il tene.
A voi per parlar vosco se ne vene,
gentil donne e pietose,
che non seti orgogliose
come colei che spreza odir sue pene;
e bench'ormai desperi in terra aita,
piacer avrà che sua ragion sia odita.
Odite come preso a laci d'oro
fu il giovenil desir, che non sapea
che occidesser gli presi, anci credea
starsi zoioso fra quel bel lavoro.
Non avia visto a guardia de il tesoro
tra l'erbe il frigido angue,
tal che ancor ozi il sangue
nel rimembrar me agiela, e discoloro:
non avia visto il cor lo ascoso drago,
tanto d'altro mirar fatto era vago!
Dolce m'è a rimembrar il tempo e il loco,
e racontarlo a voi, come io fu' preso,
abenché il mio diletto in foco acceso,
e in giazo sia tornato ogni mio gioco.
Parrami pur che nel parlar un poco
se alenti il dolor mio,
e il gelato disio
vigor riprenda dal suo antiquo foco,
perché ne la memoria pur me aquieto,
rammentandomi il tempo che fu lieto.
Splendeami al viso il ciel tanto sereno
che nul zafiro a quel termino ariva,
quando io pervenni a una fontana viva
che asembrava cristal dentro al suo seno.
Verdegiava de intorno un prato pieno
di bianche rose e zigli
e d'altri fior vermigli,
tal che ne la memoria mia rendeno
queste Isole Beate, là dove era,
dove se infiora eterna primavera.
A primavera eterna era venuto,
al chiaro fonte che ridendo occide,
quando tra l'erba e' fior venir me vide
a lo incontro un destrier fremente e arguto.
Frenato era di fiamma, e bianco tutto,
e un fanciullo il regea
che tal ardir avea
che forza non curava o inzegno astuto;
custui con dardi caciando una fera
me fié partir dal loco dove io era.
Sì che vagando per bon tempo andai
per quei bei campi e incogniti paesi,
sinché al prato arivai, dove eran tesi
e' laci che se ordirno per mie' guai.
Quel cavalier che io dissi, sempre mai
or dietro or nanti andando,
e talor saetando,
sfavilava da li ochi accesi rai;
ma io che tenea il scudo de Minerva
ridea secur la sua virtù proterva.
Misero me, ché il tropo mio fidare
di quella adamantina mia diffesa
me impose il carco addosso che or sì pesa,
e che in eterno mi farà penare.
Sprezando de il fanciulo il saetare,
co il scudo me copria,
e per sventura mia
li ochi a' bei laci d'or veni a voltare,
che mai più bella cosa vide il sole,
benché ogni giorno intorno al mondo vole.
L'esca atrativa sua, che fuor mostrosse
di dolce umanità, mi fece sete
de pormi per me stesso ne le rete
de le qual più giamai mia vita scosse.
Quel falso caciator alor se mosse
in vista sì suave
che io gli deti la chiave
del core e dissi: – Io cedo a le tue posse,
né contra a te più mai diffesa prendo:
eccoti il scudo a terra, a te mi rendo. –
Così dicea, e sì me apparechiava
possar per sempre ne li eterni odori
che da l'erbe gentile e dai bei fiori
suavemente il loco fuor spirava;
ma mentre che a le rose me apresava
(ancor tutto me agielo
ne la memoria, e il pelo
ancor se ariza, e il viso se dilava)
scorsi una serpe de sì crudel vista
che sua sembianza ancor nel cor me atrista.
Questa superba, con la testa alciata,
disperse in tutto quel piacer che io avea,
tal che l'alma che lieta se tenea
de esser più mai contenta è disperata.
Smarita ancor de intorno pur se guata
se potesse fugire;
ma e' gli convien morire,
con tal groppo se stessa se è anodata;
con tal nodo è agropata e tanto forte
che, così presa, aspetta la sua morte.
Narato v'ho cantando la ragione
del mio grave tormento, donne care;
e se pietose alcun duol vi pò fare,
doveti aver del mio compassione.
Se alcun dirà che mia sia la cagione
de questo aspro languire,
a quel poteti dire
che contro Amor lui venga al parangone,
e provi qual sapere on qual forteza
un cor gentil diffenda da belleza.
83
MONOLOGUS
Li usati canti mei son volti in pianto,
e fugiti quei versi ch'io solea
usar ne la stagion ch'io non credea
che in dona crudeltà potesse tanto.
Ma poich'io vedo il suo venen pur tanto
multiplicar vie più che io non credea,
lasciato quel zoir che aver solea,
convien che io me consumi in tristo pianto.
Così intervene a chi pon troppo spene
in legereza feminile, e a cui
crescendo ognor disio manca la spene.
Pur voria ancor sperar, ma non scio in cui,
poiché tradito m'ha quella mia spene:
dil che, se io vuò dolermi, non ho a cui.
84
AD GUIDONEM SCAIOLAM
Tieco fui preso ad un lacio d'or fino,
gentil mio Guido, e tieco ad uno iscoglio
roppi mia nave, e sol di ciò mi doglio,
che tieco ancor non compio il mio camino.
Io nel diserto, e tu stai nel giardino;
tu favorito, ed io pur come soglio;
io come vuoli, e tu non come voglio,
prendi la rosa, dove io prendo il spino.
Più me ne duol, perché più de ira aduna
colui che nudo sta nel litto solo
e suspirando guata l'unda bruna,
che quel che vide cento nave in stolo
sparte con sieco e rotte da fortuna,
ché par che l'altrui mal ralenti il duolo.
85
INTERCISUS
Qual cervo è sì vivace, on qual cornice,
on qual fenice che si rinovella,
che solo ad ella reparar se lice,
come se dice, ché lo ardor la abella;
qual pianta è quella de antica radice,
che da pendice mai non se divella;
qual ninfa snella ne la età felice
de l'oro in vice, e mo' di nostra stella,
che mi rivella in così lunga etade
tal crudeltade come ha questa fiera,
che tanto è altera de la sua belleza
che Amor dispreza e spreza umanitade,
né mai Pietade fu ne la sua schiera,
anci è bandiera e capo d'ogni aspreza?
86
De qual sangue lerneo fu tinto il strale,
di qual fiel di ceraste o anfisibena,
il stral che il cor mi punge in tanta pena
che altra nel mondo a quella non è equale?
Ognor se va più dilatando il male
e sparso è già el venen per ogni vena,
tanto che a forza al crudo fin mi mena,
né arte de Apollo a tal ferita vale.
Non vale arte de Apollo e la mente egra,
ché l'alma sciolta ha pena assai magiore
e più diletto, e più teme e più spera.
Scioca dunque la mia che se ralegra
scioglier dal corpo per scioglier d'amore,
ché, sciolta, fia pur serva a questa fiera.
87
AD AMOREM INTEROGATIO
– Qual possanza inaudita on qual destino
fa, Signor mio, che te rivegia tale,
che hai li ochi al petto e al tergo messo l'ale
e fuor de usanza porti il viso chino?
De unde venuto sei, per qual camino,
a rivedermi nel mio extremo male,
sanza l'arco dorato e sanza il strale
che me ha fatto a me stesso perregrino? –
– Io vegno a piagner teco, e teco ascolto
il tuo dolore e la tua sorte dura,
che da lo abito mio sì m'ha rivolto.
Tu sei tradito ed io dal più bel volto
che al mondo dimostrasse mai Natura:
questo a te il core, a me lo strale ha tolto. –
88
ITEM AD EUNDEM
– Se dato a te mi sono in tutto, Amore,
a cui di te me degio lamentare? –
– Al Cielo, al mondo ed a me, s'el ti pare
che a' mei sugetti son iusto signore. –
– Il Ciel non me ode, il mondo è pien de errore,
e tu non degni e' miseri ascoltare:
pur noto al Cielo, al mondo e a te vuò fare
che nel tuo regno m'è rapito il core. –
– Nel regno mio non dir, ché in così trista
parte non regno, ne regnar poria,
benché a te paia si gioiosa in vista.
Questa superba che il tuo cor disvia,
meco contende spesso, e tanto aquista
che io me disprezo e la possanza mia. –
89
CHORUS SEMISONUS
Fu creato in eterno da natura
mai voler tanto immane
fra l'unde caspe on ne le selve ircane?
Qual tigre in terra on qual orca nel mare,
che tanto crudel sia
che a costei ben si possa assumigliare?
Vuol questo il Ciel e la sventura mia,
che io sia forzato amar quel viso altero?
Ché, a confessar il vero,
tanto più l'amo quanto più me è dura.
90
Tra il Sonno e Amor non è tregua né pace,
ché quel riposo e questo vuol fatica,
il foco l'uno e l'altro umor nutrica,
quel crida e piagne e questo eterno tace;
l'un sempre vola e l'altro sempre jace;
questo la cura soglie e quello intrica,
a l'un la luce, a l'altro è l'umbra amica,
pigrizia a quel diletta, a questo spiace.
Quiete universal de gli animali,
che domi e tigri e rigidi leoni,
né poi domar un amoroso core,
come la notte sempre me abandoni,
come ei del petto mio bandito fore,
perché io non abia sosta nei mie' mali!
91
Se alcun per crudeltà de Amor sospira,
percosso da Fortuna e Zelosia,
legia lo affanno e la sventura mia,
ché in me l'altrui dolor se spechia e mira.
Soverchio dolo a lamentar me tira,
ché tolto me è quel ben che aver solia:
colei che la mia vita in man tenia,
sanza ragion ver me se volta in ira.
Né scio se la fallace finga forse
el sdegno e 'l crucio, per tenire in cima
e far altrui del mio languir contento.
Non scio, né de ciò el cor mio mai se accorse;
ma se esser pur dovesse, io voria prima
morir non de una morte, ma di cento.
92
Ormai son giunto al fine, ormai son vinto,
né più posso fugir né aver diffesa;
quel desir che tenea mia voglia incesa
è da geloso nimbo in tutto extinto.
Deh, che dico io? ché sì m'ha il cor avinto
questa indovuta e inaspetata offesa,
che l'alma che vagava adesso è presa,
in tutto è pressa e posta in labirinto.
Chi mi trarà già mai del cieco errore?
Ché il filo è roto e rota è quella fede
che era de lo errar mio conforto e duce.
Più non spiero pietà, non più mercede,
abandonato, solo, e sanza luce,
né meco è più se non il mio dolore.
93
Qual fia il parlar che me secondi a l'ira
e corresponda al mio pianto infelice,
sì che fuor mostri quel che 'l cor mi dice,
poiché fori il dolore a forza il tira?
Pur vedo mo' che per altrui sospira
questa perfida falsa e traditrice;
pur mo' lo vedo né inganar me lice,
ché l'ochio mio dolente a forza il mira.
Hai donato ad altrui quel guardo fiso
che era sì mio ed io tanto di lui
che per star sieco son da me diviso?
Hai tu donato, perfida, ad altrui
le mie parole, e' mei cinni, il mio riso?
Oh, iustizia, dal ciel riguarda a noi!
94
TETRASTICUS CANTUS
QUATUOR RITHMIS COMUTATO
Rime inaudite e disusati versi
ritrova il mio disdegno,
ma nel novo rimar non toca il segno
sì che al par del dolor possa dolersi.
Le voce perse indarno, i passi persi,
il perso tempo in la fiorita etade,
e tutto quel che per costei sofersi,
fan di me stesso a me tanta pietade
che un nimbo lacrimoso il cor me invoglia,
e poi da li ochi cade
né lascia fuor uscir l'ardente noglia.
E pur così confuso a scoprir vegno
quel che già ricopersi,
e così gli ochi e il cor hagio conversi
a chi me impose il peso che io sostegno.
Dove è quel tuo felice e lieto regno,
falace Amor? falace, ove è la zoglia
che me se impromettea per fermo pegno?
Miser colui che per te si dispoglia
il proprio arbitrio e la sua libertade,
con sperar che si soglia
per tempo o per pietà tua crudeltade!
Ahi, lasso me, che questo più me adoglia,
che sapendo io toa penta falsitade,
sapendo come rade
volte del seme tuo frutto si coglia,
lassai portarmi a la sfrenata voglia,
e tardi doppo il danno li ochi apersi,
tardi, ché più non fia che indi me stoglia.
Ma per qual cor gentil quai laci fersi
giamai con tanto inzegno,
quando io stesso a mia voglia me copersi
nel nodo che mostrava sì benegno?
Chi avria creduto mai che tal beltade
fosse sì cruda? e che sì ferma voglia
fosse poi come foglia,
mostrando grave fuor sua levitade?
Coperto orgoglio e finta umanitade
for quei che me pigliar senza rategno,
e che m'han posto in tal captivitade.
Fanciul protervo perfido e malegno,
che da li ochi mei versi
quel duol de che il mio cor fu tanto pregno,
parti a mia fede questo convenersi?
Crudele istelle e cieli a me perversi
che fuor creasti in lei tal nobiltade
che il perfido suo cor non pò vedersi;
crudele istelle, che tal novitade
creasti al mondo per mia eterna doglia,
mostratime le strade
che a voi ne venga e da costei mi toglia.
95
Fu forsi ad altro tempo in dona amore,
forsi fu già pietade in alcun petto,
e forsi di vergogna alcun rispetto,
fede fu forsi già in feminil core.
Ma nostra etade adesso è in tanto errore
che dona più de amar non ha diletto,
e di dureza piena e de dispetto,
fede non stima né virtù né onore.
Fede non più, non più ve è de onor cura
in questo sexo mobile e fallace,
ma volubil pensiero e mente oscura.
Sol la Natura in questo me despiace,
che sempre fece questa creatura
o vana troppo, o troppo pertinace.
96
SUPERIORI EADEM RESPONDENS DESINENTIA
Ben cognosco oramai che il mio furore
non ha più freno on di ragion obietto:
il sdegno mio, che un tempo fu concetto,
è pur con chiara voce uscito fore.
Perdon vi chiezo, donne, se il dolore
ha fatto trabocar qualche mio detto,
ché Veritade e Amor me n'ha constretto:
quella me è amica, e questo me è signore.
Certamente altrui colpa o mia siagura,
che a torto a mio parer l'alma mi sface,
al iusto lamentar me rassicura.
Donati al mio fallir, donne mie, pace,
ché a tacer tanto duolo è cosa dura,
e poco ha doglia chi dolendo tace.
97
Qual soccorso mi resta, on qual aiuto,
se chi aiutar mi pote non soccore?
Pur me destino de lasciare amore,
prima che 'l corpo mio sia sfatto in tuto.
Hagio gli incanti di quel vechio arguto
chi regea Bactra, ed hagio de lo umore
di Lete inferna, e la radice e il fiore
che fece Ulisse a Circe scognosciuto.
Ma in che me affido, lasso! Che arte maga
soglia da amore? E non sciolse Medea
con l'erbe scite e' canti di Tesaglia.
Lei non pote saldar l'ardente piaga
che avea nel cor, con quanto ella sapea,
ché contro Amor non è forza che vaglia.
98
CHORUS DISIUNCTUS
Deh, non mostrar in vista
che 'l mio languir ti doglia, disleale,
ché 'l cor tradito più se ne contrista
e più cresce il suo male.
Questo tuo divo, a cui nullo altro è equale,
rida la pena mia
e stiasi in segnoria
di te, poiché de onor nulla te cale.
Ma, se vendetta il danno a levar vale,
non fia lunga la lista
de lo amor vostro, ché il pensier ti vola,
né lui fu mai contento de una sola.
99
Misero quivi e sconsolato e solo
me son radutto per fugire Amore,
se fugir posse quel che se ha nel core,
per piagner, per languir, per star in dolo.
Così, mei cari amici, a voi me involo
per non vi apartegiar nel mio dolore,
che a l'alma trista dà tanto terrore
che aperte ha l'ale per fugirse a volo.
Viver voglio così, così morire,
poiché piace ad Amor che così viva,
e che così tra saxi amando pera.
Quella crudel che la mia vita schiva
farà pur sazia la sua mente altera,
se parte del mio dol potrà sentire.
100
Voi, monti alpestri (poiché nel mio dire
la lingua avanti a lei tanto se intrica,
e il gran voler mi sforza pur ch'io dica),
voi monti alpestri, oditi il mio martire.
Se Amor vol pur che suspirando expire,
Amor che in pianto eterno me notrica,
fatti voi noto a quella mia nemica,
nanti al mio fin, che io vuò per lei morire.
Voi me vedeti sol con lento passo
ne' vostri poggi andarmi lamentando
de li ochi miei, non già del suo bel viso.
De li ochi mei se dole il cor mio lasso
che il religarno in foco e in giazo, quando
scoprirno a lui quel volto e il dolce riso.
101
Fuor per bon tempo meco in compagnia
giovanni lieti e liete damigelle;
piaquerme un tempo già le cose belle,
quando con la mia età lo amor fioria.
Or non è meco più quel che solia:
solo il languir da me non se divelle,
e solo al sole e solo a l'alte stelle
vo lamentando de la pena mia.
Ripe de fiumi e jogi di montagne
son or con mieco, e son fatto selvagio
per boschi inculti e inospite compagne.
Qualor al poggio on nel fresco rivagio
me assido, del mio mal conven me lagne,
ché altro rissor che lamentar non hagio.
102
Ben è fallace il sogno, e falso il segno
che se dimostra a lo animo sopito:
quella crudel che a torto m'ha tradito
come sembrava mo' di cor benegno!
– Or pui tener – dicea – per fermo pegno
lo animo mio, che sempre è teco unito,
né da te per tuo crucio è mai partito
né mai se partirà per tuo disdegno.
Vedi che adesso a consolarti vengo,
adesso che il venir non m'è interditto,
né contro a te quel cor che credi tengo. –
Così diceva, e sì con viso fitto
parea parlar che lacrimar convengo
d'ognor ch'io lo rimembro al cor afflitto.
103
Con che dolce concento insieme accolti
se vano ad albergar quei vagi occelli,
vegendo come l'umbra il mondo velli
e i ragi del gran lume in mar involti!
Felici ocei, che de ogni cura sciolti,
a riposar ne giti lieti e snelli!
Or par che 'l mio dolor se rinovelli
quando è la notte e non è chi l'ascolti.
E come l'aria intorno a noi se imbruna
così dentro se anera il pensier mio,
nel rimembrar de le passate offese.
Qui tutte le rivegio ad una ad una:
sua finta umanità, suo pensier rio
che se coperse sì quando mi prese.
104
MANDRIALIS CANTU DIMETRO RITHMO INTERCALARI
Se io paregiasse il canto ai tristi lai,
qual già fece Arione
e la temenza de li extremi guai,
forsi così faria compassione
al veloce delfin questo cantare,
tanta pietade ha in sé la mia ragione!
Qual monstro sì crudel nel verde mare
che non tornasse a tanto mal pietoso,
se il mio dolor potesse dimostrare?
Qual animal tanto aspro ed orgoglioso
e qual bellua sì immane che dolere
non fessi del mio stato doloroso?
Farebbe a' saxi tenereza avere
del mio cordoglio e le cime inclinarsi
de' monti e a' fiumi il suo corso tenere.
Ogni cosa potrebbe umiliarsi,
se non quella spietata che non cura
per prieghi on per pietà benigna farsi,
ma per li altrui lamenti più se indura.
Adunque, poiché il cielo a noi se oscura
e il gran pianetto la sua luce asconde,
posso dolermi intra le verde fronde
e dar al ciel le mie voce meschine;
ché così lamentando il tempo passa
che a me dilunga lo aspettato fine,
benché cantando il mio duol non mi lassa,
né lasserà, per quel ch'io creda, mai.
Or cominciamo gli dolenti lai
qua sotto l'aier bruna,
ricominciamo e' canti pien di guai.
Diceti, stelle, e tu splendida luna,
se mai nei nostri tempi o ne' primi anni
simile a questa mia fu doglia alcuna.
Diceti se più mai cotanti affanni
sofferse uom nato per amar con fede,
guiderdonato poi di tanti inganni.
Voi ben sapeti che la mia mercede
m'è dinegata e ritenuta a torto;
sasselo il Ciel con voi, che il tutto vede.
Sapete ben con qua' losenge scorto
fosse ne la pregion, là dove invano
aspettando mercè, son quasi morto.
Sapete come fuor me aparbe umano
quel guardo che me incese a poco a poco
di quel fervor che tanto è fatto insano
che lo arder suo dimostra in ogni loco.
Bench'ormai più non ardo, ch'io son foco,
ché nulla trova più che arder mi possa
la fiamma che m'ha roso e' nervi e l'ossa,
e sanza nutrimento vive ancora.
Sarà quel giorno mai ch'io veda extinto
questo foco immortal? sarà quel'ora
ch'io veda il cor mio libero e discinto
di laci ove io me stesso me legai?
Laci di bei crin d'or che in tanti lai
me faceti languire,
tenendomi legato in pianto e in guai,
come potrò mia noglia ad altri dire,
che me teneti in tal captivitade
e non lassati apena ch'io sospire?
Odite, selve, e prendavi pietade
del mio dolor che a tutti è disequale,
che sia in la nostra on fusse in altra etade.
Tu, che hai de la mia mano il bel signale,
arbor felice, e ne la verde scorza
inscritta hai la memoria del mio male,
strengi lo umor tuo tanto che si smorza
quel dolce verso che la chiama mia,
che ognor che io il lego a lacrimar mi forza.
Non è più a me, no, no, quel che solia,
ché la crudel Fortuna me l'ha tolta,
anci sua legereza e sua folia
che a la promessa fede ha dato volta;
né più mei prieghi o mia rason ascolta
che ascoltin questi tronchi sanza senso.
Oh noglia scognosciuta, oh male immenso,
che tanto è grande e par che altri no 'l veda!
Ché assai minor angoscia ha un cor dolente
quando si dole e par che altri gli creda;
ma io, che ho le mie pene sì patente,
credenza on fede ancor non gli trovai.
Debo tacer adunque questi lai
che l'alma mia sostene?
Debo io tacere e consumarme in guai?
Doglia mi forza e parlar mi convene,
ché più non pò tenere il tristo petto,
colmo de affanno e di soverchie pene.
E poiché a me rapito è quello aspetto,
quel dolce aspetto che mia vita incese,
parlar a l'aria e al vento haggio diletto.
Tu che li mei desir senti palese,
aura suave che in questa rivera
con le tremante foglie fai contese,
sentendo quale sono io e quale io era,
non che tu ne dovristi esser pietosa,
ma Borea, di natura alpestra e fera.
Già me vedesti in faccia più gioiosa,
se te rimembra ben, ch'io te aspettava
fatta dal spirto suo più graziosa,
quando io la sua forma, e lei sua fede amava.
Lasso, che il lamentar non mi disgrava
da quel peso crudel che l'alma incarca:
sì come il perregrin che l'alpe varca,
che al più salir più prende di fatica,
così più de tristeza al cor me aduce
il mio cantar e più di duol me intrica,
e non ho possa quando il mondo ha luce
né quando il sol sottera asconde i rai.
Tu dai riposo, notte, ai tristi lai
de tutti li animali,
e doni smenticanza a tutti e' guai;
tu, notte, le fatiche a zascun cali;
ed io, ne l'umbra tua distesso in terra,
non prendo posa dai mei eterni mali:
ma alor più se rinfresca la mia guerra
quando per te se copre il nostro polo
che sotto il suo emispero il giorno serra;
alor mi vedo sconsolato e solo,
e porto invidia a ogni animal terreno
che alor se aqueta e non sente il mio dolo.
Dormen li ocelli in fronda al ciel sereno,
le fere in bosco e né frondusi dumi,
nei fiumi e' pesci e dentro al salso seno.
Ed io, pur ne li antichi mei costumi,
la notte umido ho il viso, umido al sole,
perché mia vita tosto se consumi,
poiché quel cor spietato così vole.
Ben sei, notte, crudel, se non ti dole
del mio dolor e de mia pena acerba,
che me vedi jacer pallido a l'erba,
né poter impetrar morte con preghi.
Odi tu adunque il mio lamento amaro,
e fa che il tuo poter non me se neghi,
fa a coste' in sogno manifesto e chiaro
quanto ora l'amo e quanto già l'amai.
Misero, lasso, a che cotesti lai
raconto e i crudi stenti
a chi nulla sentir può di mie' guai?
Io spargo al cielo invano e' mei lamenti,
a l'aura e a' boschi invano odir mi facio,
invano a l'umbre sanza sentimenti.
Tu sola, che potevi il stretto lacio
lassar alquanto, te prendi vagheza
vedendo con qual pena io me disfacio.
Che maledetta sia quella dureza
che te è nel cor gelata, e il falso amore
che agiunse a crudeltà tanta belleza!
Maledetto esca in pianti quello umore
de li ochi mei, che se invaghì sì forte
de il tuo bel viso e che lo mostrò al core!
Tu m'hai, fera crudel, a mortal sorte
condutto, e pur sembiante ancor non fai
che te piaza on rincresca la mia morte:
ché assai minor forian mei tristi lai,
se i' credesse de averti
fatta pietosa alquanto de' mie' guai,
on ver, morendo, un poco compiacerti.
105
Se Amor me fosse stato sì gioioso
come il crudel m'ha sempre a torto offeso,
avrebbe del mio foco un fiume acceso
e il ciel intorno a me fatto amoroso.
Ma il canto mio fu sempre doloroso,
a noglia, a pianti, a lamentar inteso,
e se lieto il mostrai quando io fui preso,
fume al principio il mio dolor nascoso.
Sì me bagliava quella incesa voglia
che assai pur mi parea di poter dire
del dolce tosco unde avea l'alma piena.
Or voria ben cantar, ma la gran doglia
la voce me combate in tal martire
che, non ch'io canti, ma sospiro apena.
106
Mira quello ocellin che par che senta
de la tua pena, misero mio core,
e tieco insieme piagne del tuo ardore,
piagne cantando, e tieco se lamenta.
Come esser può che il Cielo e Amor consenta
che a ogni animal rincresca il mio dolore,
se non a lei, che mostra pur di fore
umana vista e di pietà dipenta?
Sola non cura il mio tristo languire,
e sola il può curar, ché solo a lei
il mio vivere è in mano e il mio morire.
Or vedi, altiera, quanto crudel sei,
che a pietà non ti move il mio martire
che fa con meco lamentar gli occei.
107
Ombrosa selva, che il mio dolo ascolti
sì spesso in voce rotta da sospiri,
splendido sol, che per li eterni giri
hai nel mio lamentar più giorni volti,
fiere selvage e vagi ocei, che sciolti
seti da li aspri e crudi mie' martiri,
rivo corrente, che a doler me tiri
tra le ripe deserte e i lochi incolti;
o testimoni eterni de mia vita,
odeti la mia pena e fatti fede
a quella altiera che la aveti odita.
Ma a che? se lei che tanto dolor vede
(ché pur mia noglia a riguardar la invita)
vedendo istessa a li ochi soi non crede!
108
Per l'alte rame e per le verde fronde
non ho mie voce al tutto messo invano,
ché il senso a li ocelletti è fatto umano
tanto che il nome tuo non se nasconde.
Né sol gli ocei, ma ancor le petre e l'onde
hanno pietà del mio dolor insano,
e il fiume apresso e il monte di lontano
come io soglio chiamar così risponde.
Perché me stesso ingano alcuna volta,
e parlo sopra l'onde a le pendice,
poiché fortuna e sdegno te m'ha tolta.
Alor son quasi nel mio mal felice,
ché quella alpestra ripa si me ascolta
che l'ultime parole me ridice.
109
CHORUS IUNCTUS
Come esser può che in cener non sia tutto
il corpo mio, che un tal ardor consuma
che avrebbe il mar d'ogni liquor asciuto?
Miser, non vedi come eterna piova
te stilan gli ochi e il cor dolente fuma,
che arder non pote, e sua doglia rinova?
Per mia pena si prova,
per mio exemplo se aluma
quanto di mal si trova
quel petto ch'è cresciuto
ne la inferna lacuma
quanto più fu pasciuto;
e la pena di quel che 'l foco ha dato,
che a un saxo religato
un ucel sempre pasce
di sua mirabil fibra che rinasce.
110
Con tanta forza il gran desir me assale
che ogn'altra pena è a sostener minore:
dica chi vuole, il tutto vince Amore,
né al suo contrasto e in terra cosa equale.
Fugito ho l'ozio, e quel fugir non vale,
e fugio lei, né fugio il mio furore;
sol può dar vita al tramortito core
la vista che è cagion di tanto male.
E' corenti cavalli e cani arditi,
che mi solean donar tanto diletto,
mi sono in tutto dal pensier fugiti;
ciò che solea piacermi, ora ho a dispetto,
e lo esser mio distinguo in dui partiti:
on arder quivi, on giazar nel suo aspetto.
111
Qual si move constretto da la fede
de' tesalici incanti il frigido angue,
e qual si move trepido ed exangue
il mauro cacciator che il leon vede;
tal il mio cor, che a la sua pena rede,
si move sanza spirto e sanza sangue
e giela di paura e trema e langue,
perché de aver più pace mai non crede.
Egli è constretto a gire, e gir non vole,
ma contro al suo voler Amor il tira
perché il dolor antico se rinove.
Lui cognosce che ei va di neve al sole,
e più non pò, ma lacrima e sospira,
e paventoso il passo lento move.
112
In questo loco, in amoroso riso
se incominciò il mio ardor, che resce in pianto:
tempo fallace e ria fortuna, quanto
è quel ch'io son da quel che era diviso!
Quivi era Amor con la mia donna assiso,
né mai fu lieto e grazioso tanto;
alor questa aula de angelico canto
sembrava e de adorneza un paradiso.
Quanto a quel tempo questo se disdice!
Di questa corte è mo' bandito Amore,
sieco Alegreza e Cortesia fugita;
ed io qui rinovello il mio dolore,
ché il loco dove io sono or me ne invita
per rimembranza del tempo felice.
113
Non più losenghe, non, che più non credo
a' finti risi e a tue finte parole;
non più, perfida, non, che non ti dole
del mio morir, al qual tardi provedo.
Già me mostrasti, ed or pur me ne avedo,
rose de verno e neve al caldo sole:
l'alma tradita più creder non vole,
né io credo apena più quel che ben vedo.
Così avess'io ben li ochi chiusi in prima,
come Ulisse le orechie a la Sirena,
che se fié sordo per fugir più male.
Così avess'io davanti fatto stima,
come dapoi, del duol che al fin mi mena!
Ché il pensar doppo il fatto nulla vale.
114
Lo Idaspe, il Gange e l'Indo agiaceranno
là sotto il Cancro nel cerchio focoso,
e nel spirar di Bora furioso
gli monti iperborei rinverdiranno;
Quando gli Sciti il sol più longe avranno
vedrassi in neve il monte Cassio ascoso;
e nel tempo più fredo e più guazoso
Istro, la Tana e Araxe fumaranno.
Qual cosa fia che non muti Natura?
Li orsi nel mare e li delfin ne l'alpe
vedremo andar, la luna dov'è il sole,
la terra molle e l'unda farsi dura,
il tigre dama e il lince farse talpe,
se io costei fugio e lei seguir me vole.
115
SEMISENARII
Sì come canta sopra a le chiare onde
il bianco cegno, gionto da la morte,
fra l'erbe fresche, e l'ultime sue voce
più dolcemente de adornar si forza,
forsi per far il Ciel qualche pietade
dil suo infelice e doloroso fine;
così ancor io, davanti che il mio fine
me induca a trapassar le infernal onde,
poiché non ho soccorso da Pietade,
voglio cantar inanzi a la mia morte
quel duol che il cor mi serra e sì mi forza
che il passo chiude a le mie extreme voce.
Oh, che fossero odite queste voce
da quella altiera che me caccia al fine
de la mia vita, e che lassar mi forza
il suo bel viso, prima che ne l'onde
di oscura Lete me bagnasse morte!
Forsi gli soverria di me pietade.
Deh, come credo che giammai pietade
tochi colei per lamentevol voce
che non si placa e vede la mia morte?
Crudel stella de Amore, è questo il fine
che convien a mia fede? Ove son l'onde
che di lavar tal machia abin mai forza?
La tua perfidia a lamentar mi forza,
fera fallace e vuota di pietade,
abenché io sapia che al rio vento e a l'onde
del mar turbato geto queste voce.
Ma che, se pur me ascolti? ché già al fine
del tanto sospirar me aduce morte.
Fosse pur stata alora questa morte,
quando lo amor mio stava in summa forza,
ché nel tempo gioioso è meglio il fine.
Adesso che mancata è ogni pietade,
cerco con prieghi e con pietose voce
placare a l'aria il vento, il foco a l'onde.
Pietose farian l'onde a la mia morte
queste mie voce, e non pono aver forza
porre in costei pietade del mio fine!
116
Oggi ritorna lo infelice giorno
che fu principio de la mia sagura,
e l'erba se rinova e la verdura
e fassi il mondo de bei fiori adorno.
Ed io dolente a lamentar ritorno
de Amor, del Cielo, de mia sorte dura,
che adesso infiama la vivace cura
che se agelava al cor dolente intorno.
El tempo rivien pur, come era usato,
fiorito alegro lucido e sereno,
di nimbi raro e di folta erba spesso;
ed io son da quel che era sì mutato,
de isdegno, de ira e sì de angoscia pieno
che il giorno riconosco, e non me stesso.
117
Già per lo equal suo cerchio volge il sole
lasciando il fredo verno a le sue spalle,
e per li verdi colli e per le valle
son le rose odorate e le viole.
Ma tu non vedi come se ne vole
il tempo leve, misero mortale,
che stai pur fermo ne lo usato male,
e dei perduti giorni non ti dole.
Recordite, meschin, che in tal stagione
il tuo Fattor per te sofferse pena
per liberarti de eterna pregione.
Io più non posso, perché error mi mena
dove io non voglio, e la stanca ragione
contro a la fresca voglia ha poca lena.
118
Sovente ne le orechie mi risona
una voce sotil che me ramenta
gli falli andati e dice che io me penta,
perché a' pentuti il suo Signor perdona.
Io, come quel che pur non abandona
la veste incesa e del foco paventa,
ho nel mio core ogni virtù sì spenta
che nulla assente a la ragion che il sprona.
Lasso mio core e simpliceto e fole,
che traportar te lassi a quel desio
che a molti ha tolto e a te la vita tole,
convertite, convertite al tuo Dio:
ché se lui per camparti morir vole,
e tu te occidi, ben sei più che rio.
119
Le bianche rose e le vermiglie e i fiori
diversamente in terra coloriti,
e le fresche erbe coi suavi odori,
e li arborselli a verde rinvestiti,
solveno altrui ben forsi da' rancori,
e rinverdiscon gli animi inviliti;
ma a me più rinovelano e' dolori
piante fronzute e bei campi fioriti:
ch'io vedo il mondo, da benigne stelle
adorno tutto in sua novella etade,
mostrar di fuor le sue cose più belle;
e la mia fera da sua crudeltade
né da la sua dureza mai se svelle,
né il dolce tempo fa dolce pietade.
120
CAPITALIS DUPLEX
Gentil Madonne, che veduto aveti
Mia vita incesa da soperchio ardore,
E ciò che fuor mostrar m'ha fatto Amore,
Ardendomi vie più che non credeti,
Non scio se nel parlar mio ve accorgeti
Remoto da me stesso esser il core;
E spesso, per aver tal parte fore,
Io me scordava quelle che voi seti.
Voi sete in voce in vice di sirene,
Ed io vi parlo con rime aspre, e versi
Rigidi, e nuote di lamenti piene.
Trarami forsi ancor mia Dia di pene,
E canti scoprirò ligiadri e tersi:
Alora avreti quel che a voi convene.
FINIS
LIBER TERCIUS
INCIPIT
121
Quella nemica mia che tanto amai
ed amo tanto ancor, contro a mia voglia,
sì de dritto voler il cor me spoglia
che a seguirla son volto più che mai.
Così avesse io, dal dì che io comminciai,
disposto quel desir che oggi me invoglia
con tempo a poco a poco a soffrir doglia,
ché a l'asueto è il dol minor assai.
Tratto fui gioveneto in questa schiera,
de lo 'ncarco d'Amor sì male accorto
che ogni gran salma mi parea ligiera.
Ora sostegno tanto peso a torto
che meraviglia non è già che io pera,
ma da maravigliar che io non sia morto.
122
Dal lito orientale or surge il sole
che a' miseri mortali il giorno mena;
ed io ritorno a racontar mia pena
e dar al Ciel l'usate mie parole.
Se Amor ingrato e ria fortuna vole
che ne la vita mia, de nimbi piena,
sperar non possa un'ora più serena,
ben a ragion quest'alma se condole.
Anzi a gran torto se lamenta e adira
l'anima fol, che al generoso foco
ardendo sì suave se disface.
Piagne cantando e ridendo sospira,
in lieto affanno, in lacrimoso gioco,
pena sì dolce che penar li piace.
123
Prima cagione a l'ultimo mio male,
dritto viagio del mio torto errore,
stilla fresca pietade a tanto ardore,
ché altro rimedio al mio scampo non vale.
Ben cognosco me stesso, e non son tale
che potesse fugir dal mio Signore:
egli è d'alto ardir pieno, io di terrore,
io grave ed inerme, ed egli ha il dardo e l'ale.
Io no posso fugir, né fugir voglio,
ché tanto libertà prezar non degio
quanto il bel laccio d'or che il cor me anoda.
E se captivo in sua pregion me vegio,
dico palese, e vuò che il mondo m'oda,
che non d'Amor, ma sol di te mi doglio.
124
Dovunque io son se canta e se sospira,
di spene si ragiona e di paura;
or pietosa sembianza, or vista dura
a tempo me rafrena, a tempo agira.
Crudeltà me contrasta, Amor me tira
a la preda gentil che il cor me fura;
ed ella or mi spaventa, or me asicura,
or mi dà pace, ed or meco se adira.
Ardo entro a un giazo sì splendido e puro,
che in tanta pena sol per lui mirare
iacio nel foco, e non mi scio partire.
Donne amorose, per Amor vi giuro
che e' non ha il mondo, in quanto cinge il mare,
viver sì dolce, on sì dolce morire.
125
Se in moriente voce ultimi pregi
han forcia di piatade in alcun core,
odi la voce de un che per te more,
crudiel, che al fin ancor mercè mi negi.
Tu me vedi morir, e non ti piegi,
o cor di pietra, a l'ultimo dolore;
e sai che altro non priego il Cielo e Amore
che da le membre l'anima dislegi.
Ma nulla vien a dir, ché Idio destina
il fine a tutti li animanti in terra,
né, perché io preghi, a' mei prieghi declina.
Dona tu pace adunque a tanta guerra,
ché ben fia tropo mia vita meschina
se tu pietade e i Ciel morte mi serra.
126
Quel fiamegiante guardo che me incese
e l'osse e le medole,
quelle dolce parole
che preson l'alma che non se diffese,
volto han le spalle, e me co il foco intorno,
anzi dentro dal petto, han qui lasciato,
a le insegne d'Amor preso e legato,
né speranza mi dan di suo ritorno.
Così, stando captivo, il lungo giorno
tutto spendo in pregiera;
così la note nera,
mercè chiamando a quella che mi prese.
127
A l'ultimo bisogno di mia vita
Non dinegati aiuto al core infermo;
Tutte altre vie son rotte, ogni altro scermo,
Ogni rimedio, ogni altra spene è gita.
Ne la vostra pietà sol spero aita,
In voi soletta ogni speranza fermo;
Altri che voi da l'amoroso vermo
Campar non pote l'anima ferita.
Adesso che vedeti farmi giaza
Per quel fredo crudiel che v'è nel core,
Rencresavi che io manchi in tante pene.
Amar vi voglio, e che non vi dispiaza
Richiegio in guiderdon di tanto amore:
A voi ciò poco, a me fia summo bene.
128
La fiamma che mi intrò per li ochi al core
consuma l'alma mia sì dolcemente
che apena il mio morir per me si sente,
tanto suave infuso è quello ardore.
Come colui che in sonno dolce more
morso da l'aspe, e con l'ochio languente
rifiuta il giorno, e la torpida mente
senza alcun senso perde ogni vigore;
così ancor io, del mio dolce veneno
pasciuto, vo mancando a poco a poco,
né posso del mancar prender sospetto:
ché, abenché io senta il spirto venir meno,
non cerco per campar spegner il foco,
per non spegner con seco il mio diletto.
129
Duolmi la mia sventura, e più mi dole
che mostrar non la può la pena mia;
anzi la mostro, e più la mostreria
se me ascoltasse chi ascoltar non vole.
Feci mia doglia nota in cielo al sole,
in mar a gli delfin già per folia,
e lamentai de la fortuna ria
già su la verde piagia a le viole.
Né fiore è in terra, in mar pesce, in ciel stella,
né in tutto quel che 'l mondo immenso cinge
è cosa che non senta del mio ardore;
e questa creatura umana e bella
no il sente lei, o non sentir s'infinge;
sola no il sente, e tu il consenti, Amore?
130
Se passati a quel ponte, alme gentile,
che in bianco marmo varca la rivera,
fiorir vedreti eternamente aprile,
e un aura sospirar dolce e ligera.
Ben vi scorgo signor che v'è una fiera
che abate e lega ogni pensier virile,
e qualunque alma è più superba e altiera,
persa la libertà, ritorna umile.
Ite, s'el v'è in piacer, là dove odeti
cantar li augei ne l'aria più serena,
tra ombrosi mirti e pini e fagi e abeti.
Ite là voi, che io son fugito apena,
libero non, ché pur, come vedeti,
porto con meco ancora la catena.
131
Come puote esser che da quella giaza
venga la fiama che me incende il core?
come puote esser che cotanto ardore
non struga il gielo e il corpo mio disfaza?
Voglian noi creder che Natura faza
da tanto fredo uscir tanto calore?
on ver che la possanza sii d'Amore
che l'amplo mondo e la Natura abraza?
D'Amor procede, che forzò natura
a far quel monstro de atomi diversi,
che il cor ha giaza e li ochi foco ardente.
Li ochi di foco e il cor di giaza dura
fié concrear Amor, per più potersi
mostrar excelso intra le umane gente.
132
Novo diletto a ragionar me invita
de quello ardor che più se fa vivace,
e la mia vita dolcemente ariva.
Ma nanti che da me facia partita
l'alma che a poco a poco se disface,
nanti che al tutto de spirar sia priva,
agia il cor lasso tanta tregua o pace
da il dolce fiamegiar che intro lo impiglia
che mostrar possa altrui per maraviglia
quanto a se stesso nel suo fin compiace;
perché, come sovente se asumiglia
a ogni animal che di suo voler more,
così contento è lui morir de amore.
Novo piacere e disusata voglia
che il cor mio prende de il suo dolce male
nel viso altiero e de mercè ribello!
Così par che non senta morte o doglia
tra gli Indi più deserti uno animale,
che un corno ha in fronte e tien nome da quello.
Forzia né inzegno a sua presa non vale,
fuor che da il grembo virginile accolto,
ove ogni ardir, ogni poter gli è tolto,
e lui si sta, né di morir gli 'n cale.
Ed io, per cagion, me sono avolto
in tanto lieta e dilettosa sorte
che partir non mi scio da la mia morte.
Dove la forcia più del sol se aduna,
sotto il cerchio più largo al nostro polo,
ne la terra odoriffera e felice,
vive uno augello, in quella gente bruna,
che sempre al mondo se ritrova solo
sancia altro paro, ed ha nome Fenice.
Quando da li anni sente tardo il volo,
cinamo incenso cassia e mira prende,
e bate l'ale sì che il sol lo 'ncende;
arde se stesso, e manca sancia dolo.
Così la fiamma mia lieto me rende,
e dami fuoco tanto dilettoso
che arder mi sento e di partir non oso.
Sotto la tramontana al breve giorno,
ove l'onda marina in giel se indura,
un picolo animal tra' monti nasce,
bianco di pelo e di facione adorno
e sì nemico al tutto di lordura
che sol di neve candida si pasce.
Tanto gentile il fece la Natura
che se, forsi cacciato, il luto vede,
sostien da quello il delicato pede
e più belleza che la vita cura.
Ben fa maravigliar, ma chi no il crede
venga a veder un uom che muor tra noi
non per la sua beltà, ma per l'altrui.
Canta uno augello in voce sì suave,
ove Meandro il vado obliquo agira,
che la sua morte prende con diletto.
Lassar le usate ripe non gli è grave,
ma con dolce armonia l'anima spira,
né voce cangia al fin né muta aspetto.
L'unda de il fiume il novo canto ammira,
e lui fra l'erbe fresche a la rivera,
perché nel suo zoir doglia non spera,
segue cantando ove Natura il tira.
Così me tragge questa bella fiera
a volontaria morte e dolce tanto
che per lei moro, e pur morendo canto.
Dunque tra li animali il quinto sono,
ché a morte de mia voglia me destino;
ma siano Amore, e quel viso divino
che ora me occide, e il Sol che io abandono,
sian testimoni al spirto peregrino
che altro remedio al suo lungo martire
trovar non puote che amando morire.
133
Or che sotto il Leon più boglie il celo,
aridi e' fiumi e rasciuta è ogni vena,
l'umor ne l'erbe se mantien apena,
sanza neve son l'alpe e sanza gelo.
Ed io di più fervor il cor me invelo,
che già mi dete ascoso occulta pena;
or l'ho scoperto per fiaccata lena
e portol ne la fronte sanza velo.
Adesso che il ciel arde e il mondo avampa,
sotto il sol vado, torrido e affanato,
dove alta voglia e gran desir me chiama.
Felice chi da' laci d'Amor campa,
ma felice vie più, vie più beato
chi amato è parimente quanto egli ama.
134
Il sol pur va veloce, se ben guardo,
e il tempo che se aspetta mai non vene;
ben par che il gran desir nanti me mene,
ma il corpo resta adietro ignavo e tardo.
Il sol di fuor me scalda, ed io dentro ardo;
il mio cor falso m'ha lasciato in pene:
esso è veloce e nulla cosa il tene,
ma passa avanti più legier che pardo.
Egli è davanti già del suo bel lume,
dove Amor lo rinfresca a la dolce ombra
e tienlo ascoso sotto a le sue piume;
ed io pur mo' son gionto a picol fiume
che rotto ha il varco e il mio passar ingombra,
acciò che lunga indugia me consume.
135
Qual sopra Garamante on sopra Gange
se aduce il cervo paventoso e stanco,
batendo per lo affanno il sciuto fianco,
quando fatica e caldo inseme lo ange;
come l'onda corrente in prima tange
il spirto anello, il gran desir vien manco,
e il sangue torna sbigotito e bianco
per la fredura che il fervor afrange;
tal il mio cor, che di gran sete avampa,
nel suo bel fonte disiando more,
e piglia oltre al poter l'ampla dolceza:
però che nel mirar questa vagheza
ha giunto tanto foco al primo ardore
che maraviglia n'ho se quindi campa.
136
Tu te ne vai e teco vene Amore,
e teco la mia vita e ogni mio bene,
ed io soletto resto in tante pene,
soleto, sancia spirto e sancia core.
Debb'io forsi soffrir questo dolore
che io non venga con teco? E chi me teme?
Ahi, lasso me, che con tante catene
me legò sempre e lega il nostro onore.
Oh, se io credesse pur che alcuna volta
di me te sovenisse, anima mia,
quanto minor sarebbe il mio martire!
Ma quando io penso che me sarai tolta
oggi, e sì presso è la partita ria,
campar non posso, o di color morire.
137
Colui che il giorno porta è già ne l'onde,
on forsi oltre a Moroco splende ancora,
e fammi sovenir sempre quest'ora
de l'altro Sol che Crudeltà me asconde.
Donde procede il mio sperar, e donde
procede quel desir che me inamora,
se la fortuna mia pur vol che io mora
e tolto me è quel ben che me confonde?
Speranza vien dal Ciel, e il gran desire
vien dai begli ochi e da le chiome d'oro,
ed ambi dal pensier che perir vole.
Ora vegendo il giorno dipartire,
con lo emispero nostro me scoloro,
poiché me è tolto l'uno e l'altro Sole.
138
Ligiadro veroncello, ove è colei
che de sua luce aluminar te sole?
Ben vedo che il tuo danno a te non dole,
ma quanto meco lamentar te dei!
Ché sanza sua vagheza nulla sei,
deserti e' fiori e seche le viole:
al veder nostro il giorno non ha sole,
la notte non ha stelle senza lei.
Pur me rimembra che io te vedi adorno,
tra' bianchi marmi e il colorito fiore,
de una fiorita e candida persona.
A' toi balconi alor si stava Amore,
che or te soletto e misero abandona,
perché a quella gentil dimora intorno.
139
Io sento ancor nel spirto il dolce tono
de l'angelica voce, e le parole
formate dentro al cor ancor mi sono.
Questo fra tanta zoglia sol mi dole,
che tolto m'ha Fortuna il rivederle:
quando vedrò più mai nel dolce dire
da quelle rose discoprir le perle?
quando vedrò più mai lo avorio e l'ostro
nel suave silenzio ricoprire
ligiadre parolete? Il tacer vostro
contro a mia voglia a lamentar me invita.
Ancor sarà che io senta il gentil sono,
e questa spene sol me tene in vita,
per questa il mondo ancor non abandono.
140
Nel mar Tireno, encontro a la Gorgona,
dove il bel fiume de Arno apre le foce,
uno aspro scoglio ha il nome che me coce
e che me agela, e che me afrena e sprona.
A la cima superba il vento intona,
e l'onda intorno il bate in trista voce,
ma lui si sta sicuro, e non gli noce
il vento altiero e il mar che il circumsona.
Questo altro scoglio mio tanto è più duro
quanto è più bello, e tanta è sua belleza
quanta Natura ne può dare a Jove.
Lui dal vento de Amor si sta sicuro
e l'onde sue focose in tutto speza;
speza sua forza, che può tanto altrove.
141
Questa legiadra e fugitiva fera,
per la cui vista ne le selve o moro,
ha candida la pele e chiome d'oro,
vista caprina, mobile e legiera.
De un corno armata è la sua fronte altera,
che ognor che al cor mi rede, me scoloro,
e l'ochi soi quai nell'alto coro
splendono e' ragi de la terza spera.
Lei sdegna in tutto ogni conspetto umano
e ne li alti deserti sta solinga,
sì che a' nostri ochi è troppo rara in vista.
E pur la segue ancor il desir vano
e nel seguirla se stesso alosinga,
dicendo: il tempo al fine il tutto aquista.
142
– Fior scoloriti e palide viole,
che sì suavemente il vento move,
vostra Madona dove è gita? e dove
è gito il Sol che aluminar vi sole? –
– Nostra Madonna se ne gì co il Sole
che ognor ce apriva di belleze nove,
e poiché tanto bene è gito altrove,
mostramo aperto quanto ce ne dole. –
– Fior sfortunati e viole infelice,
abandonati dal divino ardore
che vi infondeva vista sì serena! –
– Tu dici il vero, e nui ne le radice
sentiamo el danno, e tu senti nel core
la perdita che nosco al fin te mena. –
143
Sperando, amando, in un sol giorno ariva
la nostra etade a l'ultima vechieza;
quella speranza che sì ben fioriva
come caduta è mo' di tanta alteza!
Come fa mal colei che me ne priva!
Ché il nostro amore e l'alta sua belleza
farebbe odire in voce tanto viva
che si apririan le pietre per dolceza.
Sperai con tal desir, e fui sì presso
al fin del mio sperar, che io vuò morire,
pensando ora che fui, che sono adesso.
Copri dentro, dolor, non mi far dire;
ma pur questo dirò: non rivien spesso
sì bella pressa a chi non scia tenire.
144
Io son tornato a la mia vita antica,
a piagner notte e giorno, a sospirare,
dove già non credea più ritornare,
ché pur sperava alfin Pietade amica.
Ahi, lasso, che io non scio quel che io me dica,
tanto mia doglia me fa vanegiare;
non spero, e non potei giamai sperare
in questa fera di mercè nemica.
Ben fu tradito il misero mio core,
che un poco il viso li mostrò ventura,
perché sua doglia poi fosse maggiore.
Sempre la bianca sorte con la scura
di tempo in tempo va cangiando Amore,
ma l'una poco, e l'altra molto dura.
145
Nel doloroso cor dolce rivene
la rimembranza del tempo felice,
quando mia sorte più me tene in cima.
Quella antica memoria ancor elice
li usati accenti e la voce mantene
al suave cantar come di prima.
Ligiadri versi e graziosa rima
che usar solea nel mio novello amore,
a che non trarvi fore,
se da quella crudiel non son udito?
Così cantando aquetaremo il core
che tacito non trova alcuna pace,
il cor che se disface
pensando a quel piacer dove è partito.
Ahi, lasso, ove è fugito,
ove enne il tempo fugitivo andato,
nel qual sopra ogni amante fui beato?
Era in quela stagione il ciel dipinto
nel clima occidental di quelle stelle
che del pigro animale il fanno adorno:
per che di chiare e splendide fiamelle
nel liquido sereno avea distinto
la fronte al Tauro e tutto dextro corno.
Girava il sole al cerchio equale intorno,
e da l'artica parte e da l'australe
l'uno e l'altro animale
che lo amoroso Jove in piume ascose,
quel che cantando sotto a le bianche ale
a la fresca rivera Leda accolse,
e quel che de Ida tolse
il biondo Ganimede e in celo il pose.
Or stelle aspre e noiose
de lo Angue e del Delfin disperse in celo
stringon la terra e l'onde in tristo zielo.
Era la terra verde e colorita
di celeste color, di color d'oro,
di perso e flavo e candido e vermiglio.
Apria Natura ogni suo bel lavoro,
la palida viola era fiorita
e la sanguigna rosa e il bianco ziglio.
Li amorosi augelleti el lor conciglio
facian cantando in sì dolce concento
che potean far contento
qualunque più di noglia il cor se grava.
Ogni arbosel di nova veste incento
o fronde o fiori in quella stagion ave,
e l'aura più suave
tra le verde fogliette sospirava.
Ed or la stagion prava
li arbori e l'erbe di belleza spoglia,
e' fiumi de unda, e me colma di doglia.
Piovea da tutti e' celi amore in terra
e ralegrava l'anime gentili,
spirando in ogni parte dolce foco;
e i giovanetti arditi e i cor virili
sanza alcun sdegno e sanza alcuna guerra
armegiar si vedean per ogni loco;
le donne in festa, in alegreza, in gioco,
in danze perregrine, in dolci canti;
per tutto leti amanti,
zente lezadre e festegiar giocondo.
Non sarà più, che io creda, e non fu avanti
fiorita tanto questa alma cittade
di onor e di beltade
e di tanto piacer guarnita a tondo.
Bandite or son dal mondo,
non pur da noi, Bontade e Cortesia,
in questa etade dispetosa e ria.
Colei che alor mi prese ed or mi scaccia,
che il spirto mio manten da me diviso,
tal che di vita privo incendo ed ardo,
mi se mostrò con sì benegno viso
che ancor par che membrando me disfaccia
l'ato suave di quel dolce guardo.
Girava il viso vergognoso e tardo
ver me talor di foco in vista accesa,
come fosse discesa
Pietà dal cielo a farla di sua schiera.
Indi fu l'alma simpliceta apresa,
il senso venenato, il cor traffitto
da li ochi, ove era scritto:
– Fole è chi aiuto d'altra donna spera –.
Or più non è quel che era,
ma spietata sdegnosa altera e dura,
stassi superba, e del mio mal non cura.
Canzon, da primavera
cangiata è la stagione e il mio zoire
in nubiloso verno e in rio martire.
146
A che te me nascondi, e voi che io mora,
crudiele? E che farai poi che io sia morto?
che farai poi, crudiel, se occidi a torto
un che te ama cotanto e che te adora?
Io sarò di tormento e pena fora,
dapoi che mia fortuna vol tal porto;
or sia così, che pur me riconforto,
se tanto mal se sgombra a l'ultima ora.
Non voglio vita, non, sancia tua pace,
né cosa volsi mai con tuo dispetto;
e così me morò, se pur te piace.
Ma tu dimi in tua fede: e che diletto,
che zoglia hai de un meschin che se disface
per star bandito dal tuo dolce aspetto?
147
Ben fu mal'ora e maledetto punto,
disventurata festa e infausto gioco,
tempo infelice e sfortunato loco,
dove e quando ad amar prima fu' giunto.
Da indi ogni piacer mi fu disgiunto:
ardo nel giazo ed agiazo nel foco,
e in doglia mi consuma a poco a poco
il venenoso stral che il cor m'ha punto.
Ahi, despietate stelle e crudel celo,
se da voi forsi vien nostro destino
e vostra forza noi qua giù governa!
Tante volte cangiasti il caldo al gelo,
la rosa al pruno; ed io sempre meschino,
mai non fui scoso da la doglia eterna.
148
Solea cantar nei mei versi di prima
quel crespo lacio d'or che il cor mi prese,
e quel guardo suave che me incese
già da le piante extreme a l'alta cima.
Or Tema e Spene in combatuta rima
de amor e de dureza fan contese,
e son le sue ragion sì adentro intese
che per se stesso il cor se rode e lima.
Fermo è de amar colei che Amor disvia,
e così a mal suo grado vol seguire
con novi passi per l'antiqua via.
Forsi tacendo ancor farò sentire
che io son mutato e son quel che io solia
a la mia vita che mi fa morire.
149
RINE(RO) GUALANDO
Letto ho, Rinieri, il tuo pianto suave,
che vivo vivo par che arda e sospiri;
misero me, con quanta arte me tiri
a ramentarme del mio stato grave!
O del mio cor serrato unica chiave,
che a mio diletto tanto me martiri,
perché non sei presente? e ché non miri
come un'alma gentil dolce se agrave?
Acciò che quello altero e crudo core,
che a sì gran torto mia mercè mi niega,
odendo tal pietà se fesse umano.
Rinier mio dolce, ben fu teco Amore,
anzi è ancor teco, e le tue rime spiega
e scrive e' versi toi con la sua mano.
150
Non credeti riposo aver giamai,
spirti infelici che seguiti Amore,
ché morte non vi dà quel rio Signore,
ma pena più che morte grave assai.
Odito aveva, e poi istesso il provai,
che non occide l'omo il gran dolore:
se l'occidesse, io già di vita fore
sarebbe, onde mi trovo in pianti e guai.
Né sua alegreza ancora al fin vi mena,
che fuge come nimbo avanti al vento,
e in tanta fuga se cognosce apena.
Così fra breve zoglia e lungo stento
e fra mille ore fosce e una serena,
amante in terra mai non fia contento.
151
DIALOGUS CANTU ISDEM DESINENTIIS RESPONDENTE VERSIBUS RITHMIS CONVERSIS
– Chi te contrista ne la età fiorita,
o misero mio core?
Dove è quel dolce ardore,
e la assueta zoglia ove è fugita?
Come succisa rosa e colto fiore
è languida toa vita;
quella beltà che te arse dentro e fore
come è da te bandita? –
– Così m'ha cuncio Amore,
e la speranza al gran desir fallita
ha di tal foco incensa mia ferita
che ogni pena è minore;
ma nanti che partita
facia da te con tanto mio dolore,
per mia voce fia odita
la crudiel tirannia di quel Signore. –
– Forsi per altrui colpa il tuo disdegno
a lamentar te tira,
e forsi oltraggio ed ira
te fan nemico a l'amoroso regno;
ma se ben dritto il tuo iudizio amira,
Amore è in sé benegno,
e con virtute sempre a l'alma aspira
bontade e pensier degno. –
– Deh, se ciò credi, agira
li ochi al mio stato, che de Amor è un segno,
e potrai divisar nel mio contegno
se 'l tuo pensir delira.
Vedi il Signor malegno
quanto lontano al ciel or me ritira;
onde io di duol son pregno,
mirando quanto indarno se sospira. –
– Non sei tu per Amor quel che tu sei,
se in te vien Legiadria,
se Onor e Cortesia?
Ah, pensa pria se lamentar te dei!
Lamentar di colui che l'armonia
infonde ai vagi occei!
che infonde a' tigri umana mente e pia,
e fa li omini Dei! –
– Non son quel che io solia,
ma son ben stato, più che io non vorei,
suggeto a quel crudel ed a colei
che la mia fede oblia.
Mai non puote per lei
aver riposo ne la vita mia,
e così me disfei
con spene incerta e certa gelosia. –
– Se quella che de amor prima te incese
a te forsi non rede
quella usata mercede
che al tuo desir già per bon tempo rese,
perché da l'altre il tuo voler recede
se una sola te offese?
Né per unico exemplo se concede
che tutte sien scortese. –
– Crede a me – dico, – crede,
che il mar levato e l'alpe fien distese,
la terra ignota e il ciel ne fia palese,
quando in donna fia fede.
Se questa che mi prese,
che è il fior di quelle che il ciel nostro vede,
suo detto non atese,
che faran l'altre che il son soppede? –
– Or questo adunque è quel che te sospende?
Questo geloso vento
lo usato foco ha spento,
se spento se può dir quel che te incende?
O che nel duol vanegi, o l'argumento
per me ben non se intende:
ché, se da lei sei libero e discento,
Amor de che te offende? –
– Vie più cresce il tormento,
quando altri meco del mio mal contende,
e lui, che quel non sente, me riprende
se a ragion me lamento.
Dal colo ancor mi pende
gran parte di quel laccio onde era avento,
e sì nei pié discende,
che al dipartir de Amor son grave e lento. –
Canzone, il cor, già guasto
da lo amoroso foco, ancor fa guerra
a quel che regna in celo e regna in terra
e regna nel mare vasto;
e l'alma pur se afferra
già per antica usanza a far contrasto,
e tal ragion disserra,
che io per me stesso a judicar non basto.
152
Ecco la pastorela mena al piano
la bianca torma che è sotto sua guarda,
vegendo il sol calare e l'ora tarda,
e fumar l'alte vile di luntano.
Erto se leva lo arratore insano
e il giorno fugitivo intorno guarda
e soglie il iugo a' bovi, che non tarda,
per gire al suo riposo a mano a mano.
Ed io soletto, sanza alcun sogiorno,
de mei pensier co il sol sosta non ave,
e con le stelle a sospirar ritorno.
Dolce affanno d'amor, quanto ei suave!
Ché io non posso alla notte e non al giorno,
e la fatica eterna non me è grave.
153
CRUCIATUS
Né il sol, che ce raporta il novo giorno,
che sì jocundo in vista or s'è levato,
né de la luna l'uno e l'altro corno
che ancora splende in mezo al ciel stellato,
né l'unda chiara a questo prato intorno,
né questa erbetta sopra al verde prato,
né questo arbor gentil di fiori adorno
che intorno ha scritto il nome tanto amato,
né quel bel augelleto e vago tanto,
che meco giorna a la fiorita spina
e i miei lamenti adegua co il suo canto,
né il dolce vento e l'aura matutina,
che sì suave me rasuga il pianto,
me dan confronto in tanta mia roina.
154
Il terzo libro è già di mei sospiri,
e il sole e l'anno ancor non è il secondo;
tanto di pianti e di lamenti abondo
che il tempo han trapassato e' mei martiri.
Insensato voler, dove me tiri,
a lamentar del mio stato giocondo?
Qual più diletto me paregia il mondo,
se avien che gli occhi nel bel viso agiri?
Ben muta ancor dureza questa voglia,
a cui non basta che una volta pera,
ma vol che io consumi in foco e in zielo.
Qual fia quella pietà che mi disoglia
e doni l'ale a l'anima ligera,
che quindi si svoluppi e voli al celo?
155
CHORUS SIMPLEX CANTU TETRASTICO
Tornato è meco Amore,
anci vi è sempre e mai non se partio,
ma il mio dolce disio
per sua nova pietà fatto è magiore.
Chi segue e dura un tempo, vince alfine:
non è cor sì feroce
che amando e lamentando non se pieghi.
Sparsi ho tanti sospiri e tante voce,
e sparsi ho tanti prieghi
che mitigate ho mie pene meschine;
e le luce divine
lassan l'orgoglio dispetoso e rio,
e con sembiante pio
rendon speranza al mio timido core.
156
Ben dissi io già più volte, e dissi il vero,
che una suave e angelica figura
esser non puote dispietata e dura,
né viso umano asegna core altero.
Mai puote dimostrare un bene intero
sanza summa beltade la Natura;
e chi forsi no 'l crede, ponga cura
a quella Diva in cui sperava e spero.
Ché la dolce aparenza e il dolce guardo
sua dolce voglia non lasciò mentire,
se ben già dimostrò quel che non era.
Essa m'ha tratto adesso dal morire,
che se creata il Ciel l'avesse altera,
ogni altro aiuto al mio scampo era tardo.
157
Il cielo ed io cangiato abian sembianti,
io tutto leto e lui di nimbi pieno;
dove io fui tristo e lui tutto sereno,
lacrima or esso ed io lassiato ho i pianti.
Quel vivo Sol che se ascondea davanti,
fatto ha la luce a l'altro venir meno;
e' vagi lumi del celeste seno
son nel bel viso accolti tutti quanti.
E l'altro sol vedemo, invidioso
de' capei d'oro e del vermiglio volto,
mostrassi in vista scuro e nubiloso.
E poi che al tristo paragon fu colto,
più non se mostra e tien il viso ascoso,
però che il pregio di beltà gli è tolto.
158
Né viso virginil de zigli ornato,
né fresche rose a bei crin de auro intorno,
né tronco vedrò mai de edere adorno,
né de viole e fiori adorno un prato,
che io non abia ne l'alma e in cor segnato
ciò che già mi mostrava un lieto giorno;
di lui cantando a ragionar ritorno
(dolce memoria!) e il tempo bene andato.
Le rose me son foco, e' zigli un giazo,
e l'edere sì forte m'hano avento
che io non fia sciolto mai dal suo bel lazo.
Così di fiori e de viole cento
a mio diletto mi consumo e sfazo,
e voglio in tal pensier morir contento.
159
CUM RO(MAM) FORET EUNDUM
Chi piagnerà con teco il tuo dolore,
amante sventurato, e le tue pene,
poiché lasciar t'è forza ogni tuo bene
(dispietata Fortuna!) e il tuo Signore?
Partir conventi e qui lasciare il core,
lasciare il core e partir te convene!
Miser chi signoria de altri sostene,
ma più chi serve altrui servendo Amore!
Ahimé dolente, ahimé, de che ragiono?
Pur scio che certo me convien partire,
e la vita crudiel non abandono?
Ben credo a quel che ho già sentito dire
ed a mio grave costo certo sono,
che doglia immensa non ce fa morire.
160
CHORUS SIMPLEX RITHMO INTERCISO
Io me vo piagnendo,
e partomi da te contro mia voglia,
con tanta doglia che al morir contendo.
Come viver potrò da te lontano,
gentil mio viso umano
che solo eri cagion de la mia vita?
Or sbigotita a te se aresta in mano:
teco rimansi e l'alma, che n'è gita,
il cor dolente invita
a starsi teco, onde io son fatto insano,
cercando invano e non trovando aita.
Ma se non è partita
pietà da te più come esser si soglia,
ancor gran zoglia al mio ritorno attendo.
161
– Qual anima divina o cor presago
ridir mi può che fa la luce mia? –
– Stassi soletta, e con malinconia
piagnendo, ha fatto de' begli ochi un lago. –
– Quel viso adunque e la puerile imago,
misero me, più mai qual fu non fia? –
– Non dir così, che qualle esser solia
farasse al tuo ritorno, e ancor più vago. –
– Viso gentil, che ne gli ochi mi stai,
ne li ochi, ne la mente e in mezo il core,
quando sarà che io te rivegia mai?
Temo, né sanza causa è il mio timore:
ché per cagioni e per ragione assai
in terra è mal sicuro un sì bel fiore. –
162
De' leti giorni e del tempo migliore,
doppo la dura e cruda dipartanza,
sol di tanto mio ben questo me avanza,
che de dolce penser notrisco il core.
E meco nel camin sen vien Amore,
ragionando di fede e di leanza;
fugio la tema e prendo la speranza,
e me contento del mio stesso errore.
Così davanti a me la mi confingo
che de essermi lontana si sospira
e del mio mal pietosa se condole.
Ben vede l'alma mia che io la losingo
in vanitade, e meco se ne adira,
né in cosa falsa dilettar se vole.
163
Da' più belli ochi e dal più dolce riso,
da la più dolce vista e meno oscura
che in terra dimostrasse mai Natura,
né imaginasse Altrui nel paradiso;
da' crin che mostrar d'auro e da un tal viso
che rose se mostrava e neve pura,
da una celeste e angelica figura
che avrebbe un tronco, un marmo, un fer conquiso,
partir, lasso me, puote? ed ancor vivo
sanza quelle parole e quella voce
che me fer già di sé don sì giolivo?
Ahi, come alto diletto spesso noce!
Ché, se per caso averso om ne vien privo,
quanto il danno è magior tanto più coce.
164
Mentre che io parlo e penso il tempo passa
e fassi antiquo nel mio petto amore,
anzi se aviva il tramortito ardore
e se rinova, e me più vechio lassa.
L'alma mia, del suo ben privata e cassa,
poi che è partita a forza del suo core,
conta e' giorni passati e conta l'ore,
e per longo dolor la facia abassa.
Longo dolor, che fai de l'ora uno anno,
del giorno fai più lustri e tempo eterno,
come hai de la mia etade il fior batuto!
Acciò che io riconosca con mio danno
che non sol lunga state e lungo verno,
ma lunga doglia, può far l'om canuto.
165
CRUCIATUS
Dolce sostegno de la vita mia
che sì lontana ancora me conforti,
e quel che il mio cor lasso più disia
nel dolce sogno dolcemente aporti,
deh, qual tanta pietade a me te invia,
qual celeste bontà tuo' passi ha scorti?
Ché per tua vista l'alma, che moria,
ratene e' spirti sbigotiti e morti.
Non mi lassare, o sogno fugitivo,
ché io me contento de inganar me stesso
godendomi quel ben de che io son privo.
E se più meco star non poi adesso,
sembianza de colei che me tien vivo,
ritorna almanco a rivedermi spesso.
166
Quanta aria me diparte dal bel volto
che mai non fia partito dal mio core;
quanti giorni son già quante son l'ore
che io fui dal gentil viso a forza tolto!
Quante volte la facia e il pensier volto
dove lasciai tra l'erbe il mio bel fiore;
quante volte se cangia il mio colore,
temendo che d'altrui non sia ricolto!
Quanti monti son già, quante alpe e fiumi
che vargan questi membri afflitti e stanchi,
lasciando il spirto fugitivo adetro!
Quando fia adunque mai che il mio duol manchi?
Qual doglia sarà più che me consumi,
se in tanta pena morte non impetro?
167
Io vidi quel bel viso impalidire
per la crudiel partita, come sole
da sera on da matino avanti al sole
la luce un nuvoletto ricoprire;
vidi il color di rose rivenire
de bianchi zigli e palide viole,
e vidi (e quel veder mi giova e dole)
cristallo e perle da quilli occhi uscire.
Dolce parole e dolce lacrimare,
che dolcemente me adolcite il core
e di dolcezza il fatti lamentare,
con voi piangendo sospirava Amore,
tanto suave che nel ramentare
non mi par doglia ancora il mio dolore.
168
CANTUS TRIMETER
Apri le candide ale e vieni in terra
a piagner meco, Amore,
che nel mio sommo ben meco cantavi.
Non può sanza tua aita aprire il core
sue pene tanto gravi,
ché un tropo alto dolor la voce serra.
Ben ho da lamentarmi in tanta guerra
che il Ciel me face a torto,
e la sventura mia
tenendomi lontano al mio conforto:
perduto ho lei di cui viver solia,
e non me occide la fortuna ria?
Dapoi che me partio da quel bel volto,
non ebi ora serena,
né spero aver più mai se io non ritorno.
Sempre in sospiri e lamentando in pena
mi sto la notte e il giorno,
né altro che dogli[a] nel mio petto ascolto.
Fiorito viso mio, chi te m'ha tolto?
Chi m'ha da te partito,
perché vivendo io mora,
come uom di venenato stral ferito,
che de morire aspetti de ora in ora,
vie più che morte lo aspettar lo accora?
Io mi credea con tempo e con fatica
spiccar dal cor insano
il gran dolor che io presi al dipartire;
or vedo quel sperar falace e vano,
ché io non posso fugire
il dol che meco vene e il cor me intrica.
Lui per l'alpe deserte se nutrica
del mio crudiel affanno,
né per tempo se abassa,
ché, se me stesso forsi non inganno,
oggi compitamente il mese passa
che io me partivo, e il mio dol non mi lassa.
Non mi lassa il dolor, ma più se accende
qualor più se aluntana
a la cagion che rimembrando il move:
ché or de' begli ochi, or de la facia umana,
or d'altre viste nove
il dolce imaginar spesso me offende;
e l'alma adolorata non intende
quanto il pensier suave
che seco è in ogni loco
facia la pena più molesta e grave,
come l'unda la febre aquetta un poco
e in picol tempo rende magior foco.
Ma se io dovesse ben morir pensando
di voi, donna gentile,
non fia chi tal pensier mi traga mai.
Ben fora d'alma timideta e vile,
se la vita con guai
cercasse e dolce morte avesse in bando.
Di voi non pensaragio alora quando
serò sotterra in polve,
né vi porrò in oblio,
se un'altra morte l'anima non solve;
ma se disolta puote aver disio,
eterno fia con vosco il pensier mio.
Felice mia canzon, tu che gir poi
la dove il Ciel mi vieta,
al mio paese divo,
quanto gir debi graziosa e lieta!
Vanne dicendo: – Io lasciai un che è privo
de ogni suo spirto, e sospirando è vivo. –
169
IN PROSPECTU ROMAE
Ecco l'alma città che fu regina
de l'unde caspe a la terra sabea,
la trionfal città che impero avea
dove il sol se alza insin là dove inchina.
Or levo fatto e sentenzia divina
sì l'han mutata a quel che esser solea
che, dove quasi al ciel equal surgea,
sua grande alteza copre ogni ruina.
Quanto fia adunque più cosa terrena
stabile e ferma, poiché tanta altura
il Tempo e la Fortuna a terra mena?
Come posso io sperar giamai sicura
la mia promessa? Ché io non credo apena
che un giorno intiero amore in donna dura.
170
EX URBE AD DOMINAM
Sapi, unico mio ben, che ancora io vivo
e maraviglia del mio viver prendo,
ché secondo natura, io non intendo
come io mi campi di mia vita privo.
Ogni cosa mortal sempre ebi a scivo
fuor che te sola, da cui vivo e pendo;
or tu me ei tolta, ed io co il Ciel contendo,
ché sanza spirto a morte non arivo.
Io vivo pur ancor, ma in tanta pena
meno la trista vita e in tanti guai
che di portar me stesso non ho lena.
Sì son mutato a quel che me mostrai
che, se forse ventura a te mi mena,
a gran fatica me cognoscerai.
171
Baptista mio gentil, se tempo o loco
me potesser cangiar da quel che io era,
forsi che e' laci de la bella fera
Roma avria scossi o ralentati un poco.
Ma né festa regal né molto ioco
né del mio Duca la benegna cera
né in tanti giorni questa terra altera
m'hanno ancor tratto de l'usato foco.
Così luntano ancor me avampa il core
la testa bionda e l'angelico viso
che avanti a gli occhi mi presenta Amore.
Questi non sarà mai da me diviso
mentre che io viva, e poi, di vita fore,
meco me 'l portarò nel paradiso.
172
Il Tempo, Amor, Fortuna e Zelosia
per sé ciascuno e insieme mi fan guerra;
l'ultima, più crudiel, me chiude e serra
ogni ritorno a la speranza mia.
Indi Fortuna dispetosa e ria
me tien tanto lontano a la mia terra,
e il dispietato Amore il cor me afferra
con più furore assai che non solia.
Fra questo il tempo fuge, e de mia etade
seco fugendo se ne porta il fiore,
disutilmente perso in vanitade.
Ciò che esser deve, ben presage il core,
però che al mondo for le volte rade
che lunga vita avesse un gran dolore.
173
Quanto fuor dolce l'ultime parole,
misero me, che tenero il mio core,
quando lassarlo a lei, che il trasse fore,
tanto me dolse che oggi ancor mi dole!
Ciò che se scrive e ciò che dir si suole
suavemente a un dipartir de amore,
sarebbe un rivo aposto al mar magiore
una piccola stella appresso al sole.
Quei begli ochi eran fisi in tanto affetto
che sembrava indi una altra voce uscire
dicente: – Ora m'è tolto ogni diletto. –
Deh, perché alora non pote io morire,
tanto contento in quello ultimo aspetto
che dal quel viso al ciel potea salire?
174
CHORUS SIMPLEX
In quel fiorito e vago paradiso,
là dove regna Amore,
lasciai piagnendo a la mia donna il core,
e vivo pur ancor da lui diviso.
In un sol punto mi fu tolta alora
ogni mia cara cosa e preciosa:
restò la vita, che ebbi sempre a vile.
Doe cose for mia spene, e sono ancora:
Ercule l'una, il mio Signor zentile,
l'altra il bel volto ove anco il cor se posa.
E questa e quella a un tempo m'è nascosa,
né me occide il dolore!
che forsi torneria, di vita fore,
al mio caro Signor ed al bel viso.
175
Ove son gitti e' mei dolci pensieri
che nel bon tempo me tenean gioioso?
Dove è la Stella, dove è il Sole ascoso
che me scorgeva a sì lieti sentieri?
Piacer mondani, instabili e legieri,
fole è chi per vui crede aver riposo;
rendene exemplo il mio stato amoroso
tornato a casi dispietati e feri.
Ché cangiata ho mia zoglia in tanti mali,
e presa ho vita sì diversa e nova
che apena quel che io fui de esser consento.
A me credeti, miseri mortali,
credete a me, che ne ho verace prova,
che ogni vostro diletto è fumo al vento.
176
CRUCIATUS
Doe volte è già tornato il sole al segno
che porta intro a le corna Amore acceso,
poi che il mio cor, di libertade indegno,
fu tra le rose dolcemente preso.
Né li veduti exempli, né lo inzegno
che natura mi dede, m'han diffeso,
anzi son stato a me tanto malegno
che gionto ho sempre carco al mio gran peso.
Or che io non posso, on che poter non voglio,
tento la fuga e indarno me lamento
e sto ne l'alto error pur come io soglio.
Qual fia la fine a sì lungo tormento?
Ché io cognosco il mio mal e no il disoglio,
né solver lo potrò se io non mi pento.
177
Il ciel veloce ne ragira intorno
e menaci volando a morte oscura;
misero, lasso, a che nostra natura
leva a la fronte sì superbo il corno?
Ecco io che mo' surmonto al tempo adorno
e de mia etade tengo la verdura;
ov'è la fede che me rassicura,
che la mia vita duri ancor un giorno?
E pur ne le terrene cose e frale,
ove a mia voglia me stesso legai,
ancor me assido debole e confuso.
Levame tu, mio Dio, da tanto male,
rompe lo arbitrio che donato m'hai,
poiché a mio danno per sciocheza lo uso.
178
Spesso mi doglio e meco mi lamento
(ché altri che me non ho che il mio mal pesi)
de' giorni che da amore ardendo spesi,
che dovea più per tempo essere ispento;
e quanto più vi penso, più mi pento:
misero me perché me stesso offesi?
Deh, perché prima ben non me diffesi
da' laci ove or me spicco lento lento?
Ché se il tardo pentir ben salva l'alma,
il lungo star nel mal pur la tormenta
ne la sua vita e ne la nostra ancora.
Quando porrò mai giù la grave salma?
che me assicura il tempo che io mi penta?
Ché io non scio di mia morte il giorno o l'ora.
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MORALIS ALEGORIA CANTU TETRAMETRO
Zefiro torna, che de amore aspira
naturalmente desioso instinto,
e la sua moglie co il viso dipinto
piglia qualunque e' soi bei fiori amira.
Ma chi riguarda al ciel che sopra agira
non teme e' laci de la falsa amante,
e la sua rete che a morte ne tira
lo ochio sol prende cupido e vagante.
Ecco l'aria roseggia al sol levante:
driciamo il viso a la chiara lumera,
che la anima non pera
per volger li ochi al loco de le piante.
Che riguardati, o spirti perregrini?
Il color vago de la bella rosa?
Fugeti via, fugeti, ché nascosa
è la loncia crudiel ne' verdi spini.
Non aspettati che la luce inchini
verso lo occaso, ché la fera alora
esce sicura ne' campi vicini
e li dormenti ne l'ombra divora.
Per Dio, non aspettati a l'ultim'ora!
Credeti a me che giacque sopra al prato,
e benché io sia campato,
mercè n'ha il Ciel, che vol che io viva ancora.
Se ve colcati ne' suavi odori
che surgon quinci a la terra fiorita,
in brieve giorno avreti dolce vita,
in lunga notte morte con dolori.
Uno angue ascoso sta tra l'erbe e' fiori,
che il verde dosso al prato rassumiglia;
nulla se vede, sì poco par fori,
né pria si sente, se non morde o piglia.
Forsi il mio dir torreti a maraviglia,
ma salir vi convien quel col fronzuto;
né si trova altro aiuto:
chi provato ha ogni scermo vi consiglia.
Quel dolce mormorar de le chiare onde,
ove Amor nudo a la ripa se posa,
là giuso ad immo tien la morte ascosa,
ché una sirena dentro vi nasconde
con gli ochi arguti e con le chiome bionde,
co il bianco petto e con lo adorno volto;
canta sì dolce che il spirto confonde,
e poi lo occide che a dormir l'ha colto.
Fugeti mentre il senso non vi è tolto,
ché il partir doppo il canto è grave affanno;
ed io, che scio lo inganno,
quasi contro a mia voglia ancor l'ascolto.
Non vi spechiati a questa fonte il viso,
ché morte occulta vi darà di piglio:
in quel fioreto candido e vermiglio
sol per mirarsi se cangiò Narciso.
Legette il verso a lettre d'oro inciso
nel verde marmo di sua sepultura,
che dice: – Lasso chi è di sé confiso,
ché mortal cosa picol tempo dura. –
Lassati adunque al basso ogni vil cura,
driciati ad erto la animosa fronte;
avanti aveti il monte
che ne la cima tien vita secura.
Canzon, se alcun te lege e non intende
dentro a la scorza, di lui chiaro e piano
che in tutto è pazo e vano
qualunque aver diletto in terra attende.
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Ne la proterva età lubrica e frale
de amor cantava, anci piagnea più spesso,
per altrui sospirando; or per me stesso
tardi sospiro e piango del mio male.
Re de le stelle eterno ed immortale,
soccorri me, ché io son di colpe oppresso,
e cognosco il mio fallo e a te il confesso,
ma sancia tua mercè nulla mi vale.
L'alma corrotta da' peccati e guasta
se è nel fangoso error versata tanto
che breve tempo a lei purgar non basta.
Signor, che la copristi de quel manto
che a ritornar al ciel pugna e contrasta,
tempra il iudizio con pietade alquanto.
FINIS