Rime

CANZONI

I

Non so s'io potrà ben chiudere in rima
quel che in parole sciolte
fatica avrei di ricontarvi a pieno:
come perdei mia libertà, che prima,
Madonna, tante volte
difesi, acciò non avesse altri il freno;
tenterò nondimeno
farne il poter, poi che così vi agrada,
con desir che ne vada
la fama, e a molti secoli dimostri
le chiare palme e i gran trionfi vostri.
Le sue vittorie ha fatto illustri alcuno,
e con gli eterni scritti
ha tratto fuor del tenebroso oblio;
ma li perduti esserciti nessuno,
e gli adversi conflitti,
ebbe ancor mai di celebrar disio;
sol celebrar voglio io
il dì ch'andai prigion ferito a morte:
ché contra man sì forte,
ben ch'io perdei, per l'aver preso assalto,
più che mill'altri vincere mi essalto.
Dico che 'l giorno che di voi m'accesi
non fu il primo che 'l viso
pien di dolcezza e li real costumi
vostri mirassi affabili e cortesi,
né che mi fossi aviso
che meglio unqua mirar non potea lumi;
ma selve, monti e fiumi
sempre dipinsi inanzi al mio desire,
per levarli l'ardire
d'entrar in via, dove per guida porse
io vedea la speranza star in forse.
Quinci lo tenni e mesi ed anni escluso,
e dove più sicura
strada pensai, lo volsi ad altro corso;
credendo poi che più potesse l'uso
che 'l destìn, di lui cura
non ebbi; ed ei, tosto che senza morso
sentissi, ebbe ricorso
dove era il natural suo primo instinto;
ed io nel labirinto
prima lo vidi, ove ha da far sua vita,
che pensar tempo avessi a darli aita.
Né il dì, né l'anno tacerò, né il loco
dove io fui preso, e insieme
dirò gli altri trofei ch'allora aveste,
tal che apo loro il vincer me fu poco.
Dico, da che 'l suo seme
mandò nel chiuso ventre il Re celeste,
avean le ruote preste
de l'omicida lucido d'Achille
rifatto il giorno mille
e cinquecento tredeci fiate,
sacro al Battista, in mezo de la estate.
Ne la tósca città, che questo giorno
più riverente onora,
la fama avea a spettacoli solenni
fatto raccor, non che i vicini intorno,
ma li lontani ancora;
ancor io, vago di mirar, vi venni.
D'altro ch'io vidi tenni
poco ricordo, e poco me ne cale;
sol mi restò immortale
memoria, ch'io non vidi, in tutta quella
bella città, di voi cosa più bella.
Voi quivi, dove la paterna chiara
origine traete,
da preghi vinta e liberali inviti
di vostra gente, con onesta e cara
compagnia, a far più liete
le feste, a far più splendidi i conviti,
con li doni infiniti
in ch'ad ogn'altra il Ciel v'ha posto inanzi,
venuta erate dianzi,
lasciato avendo lamentar indarno
il re de' fiumi, ed invidiarvi ad Arno.
Porte, finestre, vie, templi, teatri
vidi piene di donne
a giuochi, a pompe, a sacrifici intente,
e mature ed acerbe, e figlie e matri
ornate in varie gonne;
altre star a conviti, altre agilmente
danzare; e finalmente
non vidi, né sentii ch'altri vedesse,
che di beltà potesse,
d'onestà, cortesia, d'alti sembianti
voi pareggiar, non che passarvi inanti.
Trovò gran pregio ancor, dopo il bel volto,
l'artificio discreto,
ch'in aurei nodi il biondo e spesso crine
in rara e sotil rete avea raccolto;
soave ombra dirieto
rendea al collo e dinanzi alle confine
de le guance divine,
e discendea fin all'avorio bianco
del destro omero e manco.
Con queste reti insidiosi Amori
preson quel giorno più di mille cori.
Non fu senza sue lode il puro e schietto
serico abito nero,
che, come il sol luce minor confonde,
fece ivi ogn'altro rimaner negletto.
Deh! se lece il pensiero
vostro spiar, de l'implicate fronde
de le due viti, d'onde
il leggiadro vestir tutto era ombroso,
ditemi il senso ascoso.
Sì ben con aco dotta man le finse,
che le porpore e l'oro il nero vinse.
Senza misterio non fu già trapunto
il drappo nero, come
non senza ancor fu quel gemmato alloro
tra la serena fronte e il calle assunto,
che de le ricche chiome
in parti ugual va dividendo l'oro.
Senza fine io lavoro,
se quanto avrei da dir vuo' porr'in carte,
e la centesma parte
mi par ch'io ne potrò dir a fatica,
quando tutta mia età d'altro non dica.
Tanto valor, tanta beltà non m'era
peregrina né nuova,
sì che dal fulgurar d'accesi rai,
che facean gli occhi e la virtute altiera,
già stato essendo in pruova,
ben mi credea d'esser sicur ormai.
Quando men mi guardai,
quei pargoletti, che ne l'auree crespe
chiome attendean, qual vespe
a chi le attizza, al cor mi s'aventaro,
e nei capelli vostri lo legaro.
E lo legaro in così stretti nodi,
che più saldi un tenace
canape mai non strinse né catene;
e chi possa avenir chi me ne snodi,
d'imaginar capace
non son, s'a snodar Morte non lo viene.
Deh! dite come aviene
che d'ogni libertà m'avete privo
e menato captivo,
né più mi dolgo ch'altri si dorria,
sciolto da lunga servitute e ria.
Mi dolgo ben che de' soavi ceppi
l'inefabil dolcezza
e quanto è meglio esser di voi prigione
che d'altri re, non più per tempo seppi.
La libertate apprezza
fin che perduta ancor non l'ha, il falcone;
preso che sia, depone
del gir errando sì l'antiqua voglia,
che, sempre che si scioglia,
al suo signor a render con veloci
ale s'andrà, dove udirà le voci.
La mia donna, Canzon, sola ti legga,
sì ch'altri non ti vegga,
e pianamente a lei di' chi ti manda;
e, s'ella ti comanda
che ti lasci veder, non star occulta,
se ben molto non sei bella, né culta.

II

Quante fiate io miro
i ricchi doni e tanti
che 'l Ciel dispensa in voi sì largamente,
altre tante io sospiro;
non che 'l veder che inanti
a tutte l'altre donne ite ugualmente
mi percuota la mente
d'invidia: ché a ferire
in molto bassa parte,
se la ragion si parte
da un alto oggetto, mai non può venire;
e da la umiltà mia
a vostra altezza è più ch'al ciel di via.
Non è d'invidia effetto
ch'a sospirar mi mena,
ma sol d'una pietà c'ho di me stesso:
però ch'ancor mi aspetto
de la mia audacia pena,
d'aver in voi sì inanzi il mio cuor messo.
Ché se l'esser concesso
di tanti il minor dono
far suol di ch'il riceve
l'animo altier, che deve
di voi far dunque, in cui tanti ne sono,
che da l'Indo all'estreme
Gade tant'altri non ha il mondo insieme?
L'aver voi conoscenza
di tanti pregi vostri,
che siate per mirare unqua sì basso
mi dà gran diffidenza;
e ben che mi si mostri
di voi cortesia sempre, pur, ahi lasso!
non posso far ch'un passo
voglia andar la speranza
dietro al desir audace.
La misera si giace,
ed odia e maledice l'arroganza
di lui, che la via tiene
molto più là che non se li conviene.
E questo che io temo ora,
non è ch'io non temessi
prima che sì perdessi in tutto il cuore;
e qual diffesa allora,
e quanto lunga io fessi
per non lasciarlo, è testimonio Amore.
Ma il debole vigore
non puote contra l'alto
sembiante e le divine
manere e senza fine
virtù e bellezza, sostener l'assalto;
così il cuor persi, e seco
perdei il sperar d'averlo mai più meco.
Non serìa già ragione,
che per venire a porse
in vostre man devessi esservi a sdegno,
se n'è stato cagione
vostra beltà, che corse
con troppo sforzo incontro al mio disegno.
Egli sa ben che degno
parer non può ch'abbiate,
dopo un lungo tormento,
in parte a far contento;
né questo cerca ancor, ma che pietate
vi stringa almen di lui,
ch'abbia a patir senza mercé per vui.
Canzon, concludi in somma alla mia donna
ch'altro da lei non bramo,
se non ch'a sdegno non le sia s'io l'amo.

III

Dopo mio lungo amor, mia lunga fede,
e lacrime e suspiri ed ore tetre,
deh! sarà mai che da Madonna impetre
al mio leal servir qualche mercede?
Ella vede ch'io moro, e che nol vede
finge, come disposta alla mia morte.
Ahi dolorosa sorte,
che di sua perfezion cosa sì bella
manchi, per esser di pietà ribella!
Lasso! ch'io sento ben che in que' dolci ami,
ove all'esca fui preso, o mia nimica,
è l'amaro mio fin. Né perché 'l dica
mi giova, perché Amor vuol pur ch'io v'ami,
e ch'io tema e ch'io speri e 'l mio mal brami,
e ch'io corra al bel lampo che mi strugge,
e segua chi mi fugge
libera e sciolta e d'ogni noia scarca,
con esta vita stanca e di guai carca.
Né mi pento d'amar, né pentir posso,
quantunque vada la mia carne in polve,
sì dolce è quel venen nel qual m'involve
Amor, che dentro ho già da ciascun osso,
e d'ogni mio valor così mi ha scosso
che tutto in preda son del gran disio
che nacque il giorno ch'io
mirai l'alta beltà, ch'a poco a poco
m'ha consumato in amoroso foco.
Se mai fu, Canzon mia, donna crudele
al suo servo fedele,
tu puoi dir che l'è quella, e non t'inganni,
che vive, acciò ch'io mora de' miei anni.

IV

Spirto gentil, che sei nel terzo giro
del ciel fra le beate anime asceso,
scarco dal mortal peso,
dove premio si rende a chi con fede
vivendo fu d'onesto amore acceso,
a me, che del tuo ben non già sospiro,
ma di me ch'ancor spiro,
poi che al dolor che ne la mente siede,
sopra ogn'altro crudel, non si concede
di metter fine all'angosciosa vita,
gli occhi che già mi fur benigni tanto
volgi alli miei, ch'al pianto
apron sì larga e sì continua uscìta;
vedi come mutati son da quelli
che ti solean parer già così belli.
La infinita inefabile bellezza
che sempre miri in ciel, non ti distorni
che gli occhi a me non torni,
a me, che già mirando, ti credesti
di spender ben tutte le notti e i giorni;
e se levarli alla superna altezza
ti leva ogni vaghezza
di quanto mai qua giù più caro avesti,
la pietà almen cortese mi ti presti
che 'n terra unqua non fu da te lontana;
ed ora io n'ho da aver più chiaro segno,
quando nel divin regno,
dove senza me sei, n'è la fontana.
S'amor non può, dunque pietà ti pieghi
d'inchinar il bel sguardo alli miei prieghi.
Io sono, io son ben dessa; or vedi come
m'ha cangiata il dolor fiero ed atroce,
ch'a fatica la voce
può di me dar riconoscenza vera.
Lassa! che al tuo partir partì veloce
da le guance, da li occhi e da le chiome
quella a cui davi il nome
tu di beltà, ed io n'andava altèra,
ché mel credea, poi ch'in tal pregio t'era.
Ch'ella da me partisse allora, e s'anco
non tornasse mai più, non mi dà noia:
poi che tu, a cui sol gioia
di lei dar intendea, mi vieni manco.
Non voglio, non, s'anch'io non vengo dove
tu sei, che questo o ch'altro ben mi giove.
Come possibil è, quando soviemme
del bel sguardo soave ad ora ad ora,
che spento ha sì breve ora,
o di quel dolce e lieto riso estinto,
che mille volte io non sia morta o mora?
Perché, pensando all'ostro ed alle gemme
ch'avara tomba tiemme,
di ch'era il viso angelico distinto,
non scoppia il duro cor dal dolor vinto?
Come è ch'io viva, quando mi rimembra
ch'empio sepolcro e invidiosa polve,
contamina e dissolve
le delicate alabastrine membra?
Dura condizion, che morte e peggio
patir di morte e insieme viver deggio!
Io sperai ben di questo carcer tetro
che qui mi serra, ignuda anima sciorme,
e correr dietro all'orme
de li tuoi santi piedi, e teco farme
de le belle una in ciel beate forme;
ch'io vederei, quando ti fusse dietro
e insieme udisse Pietro
e di fede e d'amor da te lodarme,
che le sue porte non potria negarme.
Deh! perché tanto è questo corpo forte,
che né la lunga febre né il tormento,
che maggior nel cor sento,
potesse trarlo a disiata morte,
sì che lasciato avessi il mondo teco,
che senza te, ch'eri suo lume, è cieco?
La cortesia e il valor, che stati ascosi
non so in qual'antri e latebrosi lustri
eran molt'anni e lustri,
e che poi teco apparvero, e la speme
che in più matura etade all'opre illustri
pareggiassi di Publi e Gnei famosi
tuoi fatti gloriosi,
sì ch'a sentir avessero l'estreme
genti, ch'ancor vive di Marte il seme;
or più non veggio, né da quella notte
ch'alli occhi miei lasciasti un lungo oscuro,
mai più veduti furo:
ché ritornaro a loro antique grotte,
e per disdegno congiuraron, quando
del mondo uscir, tòrne perpetuo bando.
Del danno suo Roma infelice accorta,
disse: – Poi che costui, Morte, mi tolli,
non mai più i sette colli
luce vedran che trionfando possa
per sacra via trar catenati colli.
De l'altre piaghe, onde son quasi morta,
forse sarei risorta,
ma questa è in mezo il cor quella percossa
che da me ogni speranza m'ha rimossa. –
Turbato corse il Tibro alla marina,
e ne die' annonzio ad Ilia sua, che mesta
gridò piangendo: – Or questa
di mia progenie è l'ultima ruina. –
Le sante Ninfe, i boscarecci dèi
trassero al grido a lacrimar con lei.
E fu sentito in l'una e l'altra riva
pianger donne e donzelle e figlie e matri,
e da' purpurei patri
alla più bassa plebe il popul tutto;
e dire: – O patria, questo dì fra li atri
d'Alia e di Canne a' posteri si scriva:
quei giorni che captiva
restasti e che 'l tuo imperio fu distrutto,
né più di questo son degni di lutto. –
Il desiderio, signor mio, e il ricordo
che di te in tutti gli animi è rimaso,
non trarrà già all'occaso
sì presto il violento fato ingordo;
né potrà far che, mentre voce e lingua
formin parole, il tuo nome si estingua.
Pon queste appresso l'altre pene mie,
che di salir al mio signor, Canzone,
sì ch'oda tua ragione,
d'ogn'intorno ti son chiuse le vie;
piacesse ai venti almen di rapportarli
che di lui sempre o pensi o pianga o parli!

V

Anima eletta, che nel mondo folle
e pien d'error sì saggiamente quelle
candide membra belle
reggi, che ben l'alto disegno adempi
del Re degli elementi e de le stelle,
che sì leggiadramente ornar ti volle,
perch'ogni donna molle
e facile a piegar ne li vizi empi,
potessi aver da te lucidi essempi,
che, fra regal delizie in verd'etade,
a questo d'ogni mal seculo infetto
giunt'esser può d'un nodo saldo e stretto
con summa castità summa beltade;
da le sante contrade,
ove si vien per grazia e per virtute,
il tuo fedel salute
ti manda, il tuo fedel caro consorte,
che ti levò di braccia iniqua morte.
Iniqua a te, che quel tanto quieto,
iocondo e, al tuo parer, felice tanto
stato, in travaglio e in pianto
t'ha sotto sopra ed in miseria vòlto;
a me giusta e benigna, se non quanto
l'odirmi il suon di tue querele drieto
mi potria far men lieto,
s'ad ogni affetto rio non fusse tolto
salir qui dove è tutto il ben raccolto;
del qual sentendo tu di mille parti
l'una, già spento il tuo dolor sarebbe
ch'amando me (come so ch'ami) debbe
il mio più che 'l tuo gaudio rallegrarti,
tanto più ch'al ritrarti
salva da le mondane aspre fortune,
sei certa che commune
l'hai da fruir meco in perpetua gioia,
sciolta da ogni timor che più si moia.
Segui pur senza volgerti la via
che tenut'hai sin qui sì drittamente;
ch'al cielo e alle contente
anime altra non è che meglio torni.
Di me t'incresca, ma non altrimente
che, s'io vivessi ancor, t'incresceria
d'una partita mia
che tu avessi a seguir fra pochi giorni;
e se qualche e qualch'anno anco soggiorni
col tuo mortale a patir caldo e verno,
lo déi stimar per un momento breve
verso quest'altro, che mai non riceve
né termine né fin, vivere eterno.
Volga Fortuna il perno
alla sua ruota in che i mortali aggira;
tu quel ch'acquisti mira,
da la tua via non declinando i passi;
e quel che a perder hai, se tu la lassi.
Non abbia forza il ritrovar di spine
e di sassi impedito il stretto calle,
di farti dar le spalle
al santo monte per cui al ciel tu poggi,
sì che all'infida e mal sicura valle
che ti rimane a drieto, il piè decline;
le piagge e le vicine
ombre soavi d'alberi e di poggi
non t'allentino sì che tu v'alloggi;
ché, se noia e fatica fra li sterpi
senti al salir la poco trita roccia,
non v'hai da temer altro che ti noccia,
se forse il fragil vel non vi discerpi.
Ma velenosi serpi
per le verde, vermiglie e bianche e azurre
campagne, per condurre
a crudel morte con insidiosi
morsi, tra' fiori e l'erba stanno ascosi.
La nera gonna, il mesto oscuro velo,
il letto vedovil, l'esserti priva
di dolci risi, e schiva
fatta di giochi e d'ogni lieta vista,
non ti spiacciano sì che ancor captiva
vada del mondo, e il fervor torni in gelo,
c'hai di salir al cielo,
sì che fermar ti veggia pigra e trista:
ché quest'abito inculto ora t'acquista,
con questa noia e questo lieve danno,
tesor che d'aver dubbio che t'involi
tempo, quantunque in tanta fretta voli,
unqua non hai, né di Fortuna inganno.
O misero chi un anno
di falsi gaudi o quattro o sei più prezza
che l'eterna allegrezza,
vera e stabil, che mai speranza o téma
o altro affetto non accresce o scema!
Questo non dico già perché d'alcuno
freno ai desiri in te bisogno creda,
che da nuova altra teda
so con quanto odio e quanto orror ti scosti;
ma dicol perché godo che proceda
come conviensi e come è più opportuno,
per salir qui, ciascuno
tuo passo, e che tu sappia quanto costi
il meritarci i ricchi premi posti.
Non godo men ch'all'inefabil pregi,
ch'avrai qua su, veggio ch'in terra ancora
arrogi un ornamento che più onora
che l'oro e l'ostro e li gemmati fregi;
le pompe e i culti regi
sì riverir non ti faranno, come
di costanzia un bel nome,
fede e castità, tanto più caro,
quanto esser suol più in bella donna raro.
Questo è più onor che scender da l'augusta
stirpe d'antiqui Ottoni, estimar déi;
di ciò più illustre sei,
che d'esser de' sublimi, incliti e santi
Filippi nata ed Ami ed Amidei,
che fra l'arme d'Italia e la robusta,
spesso a' vicini ingiusta,
feroce Gallia, hanno tant'anni e tanti
tenuto sotto il lor giogo costanti
con li Alobrogi i populi de l'Alpe;
e de' lor nomi le contrade piene
dal Nilo al Boristene,
e da l'estremo Idaspe al mar di Calpe.
Di più gaudio ti palpe
questa tua propria e vera laude il core,
che di veder al fiore
di lise d'oro e al santo regno assunto
chi di sangue e d'amor t'è sì congiunto.
Questo sopra ogni lume in te risplende,
se ben quel tempo che sì ratto corse
tenesti di Namorse
meco il scettro ducal di là da' monti;
se ben tua bella mano il freno torse
al paese gentil ch'Apenin fende,
e l'Alpe e il mar diffende.
Né tanto val ch'a questo pregio monti
che 'l sacro onor de l'erudite fronti,
quel tósco in terra e in ciel amato Lauro
socer ti fu, le cui mediche fronde
spesso alle piaghe, donde
Italia morì poi, furon ristauro;
che fece all'Indo e al Mauro
sentir l'odor de' suoi rami soavi;
onde pendean le chiavi
che tenean chiuso il tempio de le guerre,
che poi fu aperto, e non è più chi 'l serre.
Non poca gloria è che cognata e figlia
il Leon beatissimo ti dica,
che fa l'Asia e l'antica
Babilonia tremar, sempre che rugge;
e che già l'Afro in l'Etiopia aprica
col gregge e con la pallida famiglia
di passar si consiglia;
forse Arabia e tutto Egitto fugge
verso ove il Nilo al gran cader remugge.
Ma da corone e manti e scettri e seggi,
per stretta affinità, luce non hai
da sperar che li rai
e 'l chiaro sol di tua virtù pareggi;
sol perché non vaneggi
drieto al desir, che come serpe annoda,
ti guadagni la loda
che 'l patre e li avi e' tuoi maggiori invitti
si guadagnar con l'arme ai gran conflitti.
Quel cortese signor ch'onora e illustra
Bibiena, e inalza in terra e 'n ciel la fama,
se come, fin che là giù m'ebbe appresso,
n'amò quanto se stesso,
così lontano e nudo spirto m'ama;
s'ancora intende e brama
satisfare a' miei preghi, come suole,
queste fide parole
a Filiberta mia scriva o rapporti,
e preghi per mio amor che si conforti.

SONETTI

I

Perché, Fortuna, quel ch'Amor m'ha dato,
vommi contender tu: l'avorio e l'oro,
l'ostro e le perle e l'altro bel tesoro
di ch'esser mi credea ricco e beato?
Per te son d'appressarmeli vietato,
non che gioirne, e in povertà ne moro;
non con più guardia fu su 'l lito moro
il pomo de l'Esperide servato.
Per una ch'era al precioso legno,
cento custodie alle ricchezze sono,
ch'Amor già di fruir mi fece degno.
Ed è a lui biasmo; egli m'ha fatto il dono;
che possanza è la sua, se nel suo regno
quel che mi dà non è a difender buono?

II

Mal si compensa, ahi lasso! un breve sguardo
all'aspra passion che dura tanto;
un interrotto gaudio a un fermo pianto;
un partir presto a un ritornarvi tardo.
E questo avien, ché non fu pari il dardo,
né il fuoco par ch'Amor m'accese a canto;
a me il cor fisse, a voi non toccò il manto;
voi non sentite il foco ed io tutt'ardo.
Pensai che ad ambi avesse teso Amore,
e voi legar dovesse a un laccio meco;
ma me sol prese, e lasciò andar voi sciolta.
Già non vid'egli molto a quella volta,
ché, s'avea voi, la preda era maggiore;
e ben mostrò ch'era fanciullo e cieco.

III

O sicuro, secreto e fidel porto,
dove, fuor di gran pelago, due stelle,
le più chiare del cielo e le più belle,
dopo una lunga e cieca via m'han scorto;
ora io perdono al vento e al mar il torto
che m'hanno con gravissime procelle
fatto sin qui, poi che se non per quelle
io non potea fruir tanto conforto.
O caro albergo, o cameretta cara,
ch'in queste dolci tenebre mi servi
a goder d'ogni sol notte più chiara,
scorda ora i torti e i sdegni acri e protervi:
ché tal mercé, cor mio, ti si prepara,
che appagarà quantunque servi e servi.

IV

Perché simil le siano, e de li artigli
e del capo e del petto e de le piume,
se l'acutezza ancor non v'è del lume,
riconoscer non vuol l'aquila i figli.
Una sol' parte che non le somigli
fa ch'esser l'altre sue non si pressume:
magnanima natura, alto costume,
degno onde essempio un saggio amante pigli.
Ché la sua donna, sua creder che sia
non dee, s'a' suoi piacer, s'a' desir suoi,
s'a tutte voglie sue non l'ha conforme.
Non siate dunque in un da me diforme,
perché mi si confaccia il più di voi:
ché o nulla o vi convien tutta esser mia.

V

Felice stella, sotto ch'il sol nacque,
che di sì ardente fiamma il cor m'accese;
felice chiostro ove i bei raggi prese
il primo nido in che nascendo giacque;
felice quell'umor che pria gli piacque,
il petto onde l'umor dolce discese;
felice poi la terra in che 'l piè stese,
beò con gli occhi il fuoco, l'aere e l'acque.
Felice patria che, per lui superba,
con l'India e con il ciel di par contende;
più felice che 'l parto che lo serba.
Ma beato chi vita da quel prende,
ove 'l bel lume morte disacerba,
ch'un molto giova e l'altro poco offende.

VI

Non senza causa il giglio e l'amaranto,
l'uno di fede e l'altro fior d'amore,
del bel leggiadro lor vago colore,
vergine illustre, v'orna il sacro manto.
Candido e puro l'un mostra altro tanto
in voi candore e purità di core;
all'animo sublime l'altro fiore
di constanzia real dà il pregio e il vanto.
Come egli al sole e al verno fuor d'usanza
d'ogni altro germe, ancor che forza il sciolga
dal natio umor, sempre vermiglio resta,
così vostra alta intenzion onesta,
perché Fortuna la sua ruota volga,
com'a lei par, non può mutar sembianza.

VII

Un arbuscel ch'in le solinghe rive
all'aria spiega i rami orridi ed irti,
e d'odor vince i pin, gli abeti e i mirti,
e lieto e verde al caldo e al giaccio vive,
il nome ha di colei che mi prescrive
termine e leggi a' travagliati spirti,
da cui seguir non potrian Scille o Sirti
ritrarmi o le brumali ore o l'estive.
E se benigno influsso di pianeta,
lunghe vigilie od amorosi sproni
son per condurmi ad onorata meta;
non voglio, e Febo e Bacco mi perdoni,
che lor frondi mi mostrino poeta,
ma ch'un genebro sia che mi coroni.

VIII

Del mio pensier, che così veggio audace,
timor freddo com'angue il cor m'assale;
di lino e cera egli s'ha fatto l'ale,
disposte a liquefarsi ad ogni face.
E quelle, del desir fatto seguace,
spiega per l'aria e temerario sale,
e duolmi ch'a ragion poco ne cale,
che devria ostarli e sel comporta e tace.
Per gran vaghezza d'un celeste lume
temo non poggi sì, ch'arrivi in loco
dove s'incenda e torni senza piume.
Seranno, oimè! le mie lacrime poco
per soccorrergli poi, quando né fiume
né tutto il mar potrà smorzar quel foco.

IX

La rete fu di queste fila d'oro
in che 'l mio pensier vago intricò l'ale,
e queste ciglia l'arco, i sguardi il strale,
il feritor questi begli occhi fòro.
Io son ferito, io son prigion per loro,
la piaga in mezo 'l core aspra e mortale,
la prigion forte; e pur in tanto male,
e chi ferimmi e chi mi prese adoro.
Per la dolce cagion del languir mio
o del morir, se potrà tanto 'l duolo,
languendo godo, e di morir disio;
pur ch'ella, non sappiendo il piacer ch'io
del languir m'abbia o del morir, d'un solo
sospir mi degni o d'altro affetto pio.

X

Com'esser può che dignamente io lodi
vostre bellezze angeliche e divine,
se mi par ch'a dir sol del biondo crine
volga la lingua inettamente e snodi?
Quelli alti stili e quelli dolci modi
non basterian, che già greche e latine
scole insegnaro, a dire il mezo e il fine
d'ogni lor loda alli aurei crespi nodi,
e 'l mirar quanto sian lucide e quanto
lunghe ed ugual le ricche fila d'oro
materia potrian dar d'eterno canto.
Deh! morso avess'io, come Ascreo, l'alloro!
Di queste, se non d'altro, direi tanto,
che morrei cigno, ove tacendo io moro.

XI

Ben che 'l martìr sia periglioso e grave,
che 'l mio misero cuor per voi sostiene,
non m'incresce però, perché non viene
cosa da voi che non mi sia soave;
ma non posso negar che non mi grave,
non mi strugga ed a morte non mi mene,
che per aprirvi le mie ascose pene,
non so, né seppi mai volger la chiave.
Se, perch'io dica il mal, non mi si crede,
e s'a questa fatica afflitta e mesta,
se a' cocenti sospir non si dà fede,
che prova più, se non morir, mi resta?
Ma troppo tardi, ahi lasso! si provede
al duol che sola morte manifesta.

XII

Non fu qui dove Amor tra riso e gioco
le belle reti al mio cuor vago tese?
Non sono quello ancor che non di poco
ma del meglio di me fui sì cortese?
Qui certo fu, ché riconosco il loco
u' dolcemente l'ore erano spese;
quinci l'ésca fu tolta e quinci il foco
che d'alto incendio un freddo petto accese.
Ma ch'io sia quel che con lusinghe Amore
fece, per darlo altrui, del suo cuor scemo,
s'io n'ho credenza, io n'ho più dubbio assai:
ché mi sovien che quel che perse il core,
arder lontan parea da questi rai;
ed io che son lor presso, aggiaccio e tremo.

XIII

Aventuroso carcere soave,
dove né per furor né per dispetto,
ma per amor e per pietà distretto
la bella e dolce mia nemica m'ave;
gli altri prigioni al volger de la chiave
s'attristano, io m'allegro: ché diletto
e non martìr, vita e non morte aspetto,
né giudice sever né legge grave,
ma benigne accoglienze, ma complessi
licenziosi, ma parole sciolte
da ogni fren, ma risi, vezzi e giochi;
ma dolci baci, dolcemente impressi
ben mille e mille e mille e mille volte;
e, se potran contarsi, anche fien pochi.

XIV

Quando prima i crin d'oro e la dolcezza
vidi degli occhi e le odorate rose
de le purpuree labra e l'altre cose
ch'in me crear di voi tanta vaghezza,
pensai che maggior fusse la bellezza
di quanti pregi il ciel, Donna, in voi pose,
ch'ogni altro alla mia vista si nascose,
troppo a mirar in questa luce avezza.
Ma poi con sì gran prova il chiaro ingegno
mi si mostrò, che rimaner in forse
mi fe' che suo non fusse il primo loco.
Che sia maggior non so: so ben che poco
son disuguali, e so ch'a questo segno
altro ingegno o bellezza unqua non sorse.

XV

Altri loderà il viso, altri le chiome
de la sua donna, altri l'avorio bianco
di che formò Natura il petto e il fianco;
altri darà a' begli occhi eterno nome;
me non mortal, fragil bellezza, come
un ingegno divino, ha mosso unquanco,
un animo così libero e franco,
come non senta le corporee some,
una chiara eloquenzia che deriva
da un fonte di saper, una onestade
di cortese atto e leggiadria non schiva;
e se l'opra mia fusse alla bontade
de la materia ugual, ne farei viva
statua che dureria più d'una etade.

XVI

Deh! voless'io quel che voler devrei,
deh! serviss'io quant'è il servir accetto,
deh! Madonna, l'andar fuss'interdetto,
dove non va la speme, ai desir miei;
io son ben certo che non languirei
di quel colpo mortal ch'in mezo 'l petto,
non mi guardando, Amor mi diede, e stretto
da le catene sue già non serei.
So quel ch'io posso e so quel che far deggio,
ma più che giusta elezione, il mio
fiero destino ho da imputar, s'io fallo.
Ben vi vuo' raccordar ch'ogni cavallo
non corre sempre per spronar, e veggio,
per punger troppo, alcun farsi restio.

XVII

Occhi miei belli, mentre chi' vi miro,
per dolcezza inefabil ch'io ne sento,
vola, come falcon c'ha seco il vento,
la memoria da me d'ogni martìro;
e tosto che da voi le luci giro,
amaricato resto in tal tormento
che, s'ebbi mai piacer, non lo ramento:
ne va il ricordo col primier sospiro.
Non sarei di vedervi già sì vago
s'io sentissi giovar, come la vista,
l'aver di voi nel cor sempre l'imago.
Invidia è ben se 'l guardar mio vi attrista;
e tanto più che quello ond'io m'appago
nulla a voi perde, ed a me tanto acquista.

XVIII

Quel capriol che con invidia e sdegno
de mille amanti a colei tanto piacque,
che con somma beltà per aver nacque
di tutti i gentil cori al mondo regno,
turbar la fronte, e trar, pietoso segno,
dal petto li sospir, dagli occhi l'acque
alla mia donna, poi che morto giacque,
e d'onesto sepolcro è stato degno.
Che sperar, bene amando, or non si deve,
poi che animal senza ragion si vede
tanto premiar di servitù sì lieve?
Né lungi è ormai, se de' venir, mercede:
ché, quando s'incomincia a scior la neve,
ch'appresso il fin sia il verno è chiara fede.

XIX

Madonna, io mi pensai che 'l star absente
da voi non mi devesse esser sì grave,
s'a riveder il bel sguardo soave
venìa talor, che già solea sovente.
Ma poi che 'l desiderio impaziente
a voi mi trasse, il cor però non ave
meno una di sue doglie acerbe e prave;
raddoppiar anzi tutte se le sente.
Giovava il rivedervi, se sì breve
non era; ma, per la partita dura,
mi fu un venen, non ch'un rimedio leve.
Così suol trar l'infermo in sepoltura
interrotto compenso; o non si deve
incominciar, o non lasciar la cura.

XX

Chiuso era il sol da un tenebroso velo
che si stendea fin all'estreme sponde
de l'orizonte, e murmurar le fronde
e tuoni andar s'udian scorrendo il cielo;
di pioggia in dubbio o tempestoso gelo,
stav'io per ire oltra le torbid'onde
del fiume altier che 'l gran sepolcro asconde
del figlio audace del signor di Delo;
quando apparir su l'altra ripa il lume
de' bei vostri occhi vidi, e udii parole
che Leandro potean farmi quel giorno.
E tutto a un tempo i nuvoli d'intorno
si dileguaro e si scoperse il sole;
tacquero i venti e tranquillossi il fiume.

XXI

Qui fu dove il bel crin già con sì stretti
nodi legommi, e dove il mal che poi
m'uccise, incominciò; sapestel voi,
marmoree logge, alti e superbi tetti,
quel dì, che donne e cavallieri eletti
avesti, quai non ebbe Peleo a' suoi
conviti, allor che scelto in mille eroi
fu alli imenei che Giove avea suspetti.
Ben vi sovien che di qui andai captivo,
trafisso il cor, ma non sapete forse
come io morissi e poi tornassi in vita,
e che Madonna, tosto che s'accorse
esser l'anima in lei da me fuggita,
la sua mi diede e ch'or con questa vivo.

XXII

Quando muovo le luci a mirar voi,
la forma che nel cor m'impresse Amore,
io mi sento aggiacciar dentro e di fuore
al primo lampeggiar de' raggi suoi.
Alle nobil manere affisso poi,
alle rare virtuti, al gran valore,
ragionarmi pian piano odo nel core:
– Quanto hai ben collocato i pensier tuoi! –
Di che l'anima avampa, poi che degna
a tanta impresa par ch'Amor la chiami:
così in un loco or giaccio, or foco regna.
Ma la paura sua gelata insegna
vi pon più spesso, e dice: – Perché l'ami,
che di sì basso amante si disdegna? –

XXIV

Come creder debbo io che tu in ciel oda,
Signor benigno, i miei non caldi prieghi,
se, gridando la lingua che mi sleghi,
tu vedi quanto il cor nel laccio goda?
Tu che 'l vero conosci, me ne snoda,
e non mirar ch'ogni mio senso il nieghi;
ma prima il fa che, di me carco, pieghi
Caron' il legno alla dannata proda.
Iscusi l'error mio, Signor eterno,
l'usanza ria, che par che sì mi copra
gli occhi, che 'l ben dal mal poco discerno.
L'aver pietà d'un cor pentito, anco opra
è di mortal; sol trarlo da l'inferno,
mal grado suo, puoi tu, Signor, di sopra.

XX

O messaggi del cor sospiri ardenti,
o lacrime che 'l giorno io celo a pena,
o prieghi sparsi in non feconda arena,
o del mio ingiusto mal giusti lamenti;
o sempre in un voler pensieri intenti,
o desir che ragion mai non rafrena,
o speranze ch'Amor drieto si mena
quando a gran salti e quando a passi lenti;
sarà che cessi o che s'alenti mai
vostro lungo travaglio e 'l mio martìre,
o pur fia l'uno e l'altro insieme eterno?
Che fia non so, ma ben chiaro discerno
che mio poco consiglio e troppo ardire
soli posso incolpar ch'io viva in guai.

XXV

Madonna, sète bella e bella tanto,
ch'io non veggio di voi cosa più bella;
miri la fronte o l'una e l'altra stella
che mi scorgon la via col lume santo;
miri la bocca, a cui sola do vanto
che dolce ha il riso e dolce ha la favella,
e l'aureo crine, ond'Amor fece quella
rete che mi fu tesa d'ogni canto;
o di terso alabastro il collo e il seno
o braccia o mano, e quanto finalmente
di voi si mira, e quanto se ne crede,
tutto è mirabil certo; nondimeno
non starò ch'io non dica arditamente
che più mirabil molto è la mia fede.

XXVI

Aventurosa man, beato ingegno,
beata seta, beatissimo oro,
ben nato lino, inclito bel lavoro
da chi vuol la mia dea prender disegno
per far a vostro essempio un vestir degno
che copra avorio e perle ed un tesoro,
ch'avendo io eletta, non torrei fra il Moro
e 'l mar di Gange il più famoso regno.
Felici voi, felice forse anch'io,
se mostrarle con gesti o con parole
voi potesse altro essempio ch'ella toglia.
Quanto meglio di voi, ch'imitar vuole,
serà, se la fede imita, se 'l mio
constante amor, se la mia giusta voglia!

XXVII

Son questi i nodi d'or, questi i capelli,
ch'or in treccia or in nastro ed or raccolti
fra perle e gemme in mille modi, or sciolti
e sparsi all'aura, sempre eran sì belli?
Chi ha patito che si sian da quelli
vivi alabastri e vivo minio tolti?
Da quel volto, il più bel di tutti i volti,
da quei più aventurosi lor fratelli?
Fisico indòtto, non era altro aiuto,
altro rimedio in l'arte tua, che tòrre
sì ricco crin da sì onorata testa?
Ma così forse ha il tuo Febo voluto
acciò la chioma sua, levata questa,
si possa inanzi a tutte l'altre porre.

XXVIII

Qual avorio di Gange, o qual di Paro
candido marmo, o qual ebano oscuro,
qual fin argento, qual oro sì puro,
qual lucid'ambra, o qual cristal sì chiaro;
qual scultor, qual artefice sì raro
faranno un vaso alle chiome che furo
de la mia donna, ove riposte, il duro
separarsi da lei lor non sia amaro?
Ché, ripensando all'alta fronte, a quelle
vermiglie guance, alli occhi, alle divine
rosate labra e all'altre parti belle,
non potrian, se ben fusson, come il crine
di Beronice, assunto fra le stelle,
riconsolarsi, e porre al duol mai fine.

XXIX

Qual volta io penso a quelle fila d'oro,
che 'l dì mille vi penso e mille volte,
più per error da l'altro bel tesoro
che per bisogno e bon iudicio tolte,
di sdegno e d'ira avampo e mi scoloro,
e il viso ad or ad or e il sen di molte
lacrime bagno, e di desir mi moro
di vendicar de l'empie mani e stolte.
Ch'elle non sieno, Amor, da te punite,
ti torna a biasmo: Bacco al re de' Traci
fe' costar cara ogni sua tronca vite;
e tu, maggior di lui, da queste audaci
le tue cose più belle e più gradite
levar ti vedi, e tel comporti e taci!

XXX

Giorno a me sol più che la notte oscuro,
più del solito agli altri puro e bianco,
stan gli altri in festa, in gioia ed io, già stanco
di lacrimar, gli occhi gonfiati atturo
per la mia donna, che d'acerbo e duro
mal è premuta ed ogni membro ha stanco:
tanto gli arde la febre il petto e il fianco,
mercé di Prometeo malvagio e duro;
qual, volendo giovar al seme umano,
de la sfera celeste rapì il foco,
onde Giove adirato per lo ingano
che gli avea fatto, ste' pensoso un poco,
poi fece segno con la destra mano
ai mali che scendesser a 'sto loco.

XXXI

Se con speranza di mercé perduti
ho i miglior anni in vergar tanti fogli,
e vergando dipingervi i cordogli
che per mirar alte bellezze ho avuti;
e se fin qui non li so far sì arguti
che l'opra lor cor ad amarmi invogli;
non ho da attender più che ne germogli
nuovo valor ch'in questa età m'aiuti.
Dunque, è meglio il tacer, donne, che 'l dire,
poi che de' versi miei non piglio altr'uso
che dilettar altrui del mio martìre.
Se voi Falare sète, io mi v'escuso,
ché non voglio esser quel che, per udire
dolce doler, fu nel suo toro chiuso.

XXXII

Lasso! i miei giorni lieti e le tranquille
notti che i sonni già mi fér soavi,
quando né amor né sorte m'eran gravi,
né mi cadean da li occhi ardenti stille;
come, perch'io continuo da le squille
all'alba il seno lacrimando lavi,
son vòlti a stato, onde 'l cor par s'aggravi
del suo vivo calor, che più sfaville!
O folle cupidigia, o mai, no, al merto
pregiata libertà, senza di cui
l'oro e la vita ha ogni suo pregio incerto;
come beato e miser fate altrui!
E l'un de l'altro è morte e caso certo;
or ché, piangendo, penso a quel ch'io fui?

XXXIII

Se senza fin son le cagion ch'io v'ami,
e sempre di voi pensi e in voi sospiri,
come volete, oimè! ch'io mi ritiri,
e senza fin d'esser con voi non brami?
Son la fronte, le ciglia e quei legami
del mio cor, aurei crini, e quei zaffiri
de' bei vostri occhi, e lor soavi giri,
donna, per trarmi a voi tutti ésca ed ami.
Son di coralli, perle, avorio e latte,
di che fur labra, denti, seno e gola,
alle forme degli angeli ritratte;
son del gir, de lo star, d'ogni parola,
d'ogni sguardo soave, insomma, fatte
le reti, onde a intricarsi il mio cor vola.

XXXIV

Privo d'ogni mio ben, sto pur fermato
in cieco laberinto di speranza,
e non m'aveggio ch'altro non m'avanza
se non guerra, dolor e mortal stato.
Lasso! gli è pur gran duol l'esser ligato
da catena crudel; ogni possanza
dal disio vinta veggio. Ahi, cruda usanza!
dura legge d'Amor! son pur sforzato.
Almen, poi che Fortuna d'alto seggio
m'ha posto in basso stato, se ti cale
di mia misera morte, ciò ch'io cheggio
concedi, fiero veglio: un aureo strale
le punga il cor, e siamo ambi a un pareggio,
a ciò ne vada pur la pena e 'l male.

XXXV

Miser, fuor d'ogni ben, carco di doglia,
per questi aspri, selvaggi, orridi sassi,
or con sicuri, or con dubbiosi passi,
mi vo struggendo d'empia, ardente voglia;
ch'altro cielo, altre mura ed altra soglia
chiude 'l mio cor, e la mia Donna stassi
lontan, forse con gli occhi umidi e bassi,
e a me di rivederla Amore invoglia.
Onde meco vaneggio e, pien di fele,
di gelosia, di noia e di martìri,
empio l'aria di duol la notte e 'l giorno;
tal che l'accese, amare mie querele
e le nebbie atre e folte dei sospiri
escon dei scogli e de le pietre intorno.

XXXVI

L'arbor ch'al viver prisco porse aita,
poi si converse a miglior tempo in oro,
or s'ha produtto un sì soave alloro
che la fragranza in fino al ciel n'è gita.
O fra' mortali e fra li dèi gradita
felice pianta! O vivo e bel tesoro!
Per te s'alunga il seme di coloro
che per cosa divina il mondo adita.
Quinci i rami gentil, quinci i rampolli
ch'empion di gloria e di trionfo il mondo,
e fan Roma superba e li suoi colli.
Godi, sacra colonna, e scorgi a tondo:
alta sei d'ogni parte e senza crolli,
né del tuo stato mai fu il più giocondo.

XXXVII

Lassi, piangiamo, oimè! ché l'empia Morte
n'ha crudelmente svelta una più santa,
una più amica, una più dolce pianta
che mai nascesse, ahi nostra trista sorte!
Ahi! del ciel dure leggi, inique e torte
per cui sì verde in sul fiorir si schianta
sì gentil ramo; e ben preda altra e tanta
non rest'all'ore sì fugaci e corte.
Or poi che 'l nostro secretario antico
in cielo ha l'alma e le membra sotterra,
Morte, io non temo più le tue fere arme.
Per costui m'era 'l viver fatto amico,
per costui sol temeo l'aspra tua guerra;
or che tolto me l'hai, che puo' tu farme?

XXXVIII

Ecco, Ferrara, il tuo ver paladino
di fé, d'ingegno, di prodezza e core;
ecco quel c'ha chiarito il fatto errore
d'alcun di Spagna al buon duca d'Urbino.
Animo generoso e pellegrino,
che di sì alta impresa il grande onore
riporti alla tua patria, al tuo signore,
qual già gli Orazi al populo sabino.
Fra ferri ignudo e sol di cor armato,
con l'altèro inimico a fiera fronte,
quanto è 'l valor d'Italia hai dimostrato.
Diffeso hai il vero e vendicate l'onte,
e l'ardir orgoglioso hai superato;
fatte hai le forze tue più aperte e cónte.
Forse seran men pronte
le voglie di color ch'a simil gioco
inanzi al fatto avean un cor di foco.
Ecco ch'a tempo e a loco
il Ciel, ch'opra là su, qua giù dispone
virtù, giustizia a un tratto e parangone.

XXXIX

Magnifico fattor, Alfonso Trotto,
tu sei per certo di grand'intelletto;
in ciò che tu ti metti esci perfetto,
ed i maestri ti lasci di sotto.
Da Cosmico imparasti d'esser giotto
di monache e non creder sopra il tetto,
l'abominoso incesto, e quel difetto
pel qual fu arsa la città di Lotto.
T'insegnò Benedetto Bruza poi
le risposte asinesche e odioso farte,
non ch'agli estrani, ma alli frati tuoi.
Riferir mal d'ognun al duca, l'arte
fu de' tuoi vecchi; ma tutt'eran buoi,
né t'aguagliaro alla millesma parte.
Non più; ch'in altre carte
lauderò meglio il tuo sublime ingegno,
di tromba, di bandiera e mitra degno.

XL

Non ho detto di te ciò che dir posso;
e come posso averne detto assai,
se non t'ho tócco in quella parte mai
che di ragion ti deveria far rosso?
So che la carne più vicina all'osso
ti solea più piacer, e so ch'ormai,
poi che la vacca è vecchia, a schifo l'hai,
e so quanto rumor di ciò s'è mosso.
Pur nol voglio chiarir, basta accennarlo:
ché non in dirlo, ma in pensarvi solo
di vergogna ardo; il che non fai tu a farlo.
Non però manca che non vada a volo
la infamia tua: ché ancor ch'io non ne parlo,
Martin ne parla, Gianni, Piero e Polo.
Non so come lo stuolo
de' tuoi fratelli in tanta inerzia giaccia,
che tenga questo obrobrio in su la faccia.
Ma credo che lo faccia
perché non ti può odiar, ché gli sei stato
non fratel solamente, ma cognato.

XLI

Illustrissima donna, di valore
ferma colonna, se 'l volubil cielo,
come vedete, or ne dà caldo or gielo,
or vita or morte, or gioia ed or dolore;
s'egli ha furato 'l vostro primo amore,
ch'è anche l'estremo, ed il fral suo velo
sciolt'ha dal spirto anzi il cangiar del pelo,
dando a voi noia, ed a sé eterno onore;
temprate il duol, chi vostri e suoi bei rami,
crescendo all'ombra santa ed immortale
de la vostra virtù ch'ogni altra avanza,
più che lor tronchi o voi la morte chiami,
inalzeran le cime con speranza
di far sua gloria e vostra al ciel uguale.

MADRIGALI

I

Se mai cortese fusti,
piangi, Amor, piangi meco i bei crin d'oro,
ch'altri pianti sì iusti – unqua non fòro.
Come vivace fronde
tòl da robusti rami aspra tempesta,
così le chiome bionde,
di che più volte hai la tua rete intesta,
tolt'ha necessità rigida e dura
da la più bella testa
che mai facessi o possa far Natura.

I

Quando bellezza, cortesia e valore
vostri o con gli occhi o col pensier contemplo,
Madonna, io cerco e non vi trovo essemplo.
Io sento allor mirabilmente Amore
levarsi a volo e, senza di me uscire,
seco trar così in alto il mio desire,
che non l'osa seguire
la speme, che le par che quella sia
per lei troppo erta e troppo lunga via.

III

Amor, io non potrei
aver da te se non ricca mercede,
poi che quant'amo lei – Madonna vede.
Deh! fa' che ella sappia anco
quel che forse non crede, quanto io sia
già presso a venir manco,
se più nascosa l'è la pena mia.
Ch'ella lo sappia, fia
tanto solevamento a' dolor miei,
ch'io ne vivrò, dove or me ne morrei.

IV

Per gran vento che spire,
non si estingue, anzi più cresce un gran foco,
e spegne e fa sparire – ogn'aura il poco.
Quanto ha guerra maggiore
intorno in ogni loco e in su le porte,
tanto più un grande amore
si ripara nel core, e fa più forte.
D'umile e bassa sorte,
Madonna, il vostro si potria ben dire,
se le minacce l'han fatto fuggire.

V

Oh se, quanto è l'ardore,
tanto, Madonna, in me fusse l'ardire,
forse il mal c'ho nel core – osarei dire.
A voi devrei contarlo,
ma per timor, oimè! d'un sdegno, resto,
che faccia, s'io ne parlo,
crescerli il duol sì che l'uccida presto;
pur io vi vuo' dir questo:
che da voi tutto nasce il mio martìre,
e se 'l ne more, il fate voi morire.

VI

Se voi così mirasse alla mia fede
com'io miro a' vostr'occhi e a vostre chiome,
ecceder l'altre la vedreste, come
vostra bellezza ogni bellezza eccede.
E come io veggio ben che l'una è degna,
per cui né lunga servitù né dura
noiosa mai debbia parermi o grave,
così vedreste voi che vostra cura
dev'esser che quest'altra si ritegna
sotto più lieve giogo e più soave,
e con maggior speranza che non ave
d'esser premiata, e se non ora a pieno
come devriasi, almeno
con un dolce principio di mercede.

VII

A che più strali, Amor, s'io mi ti rendo?
Lasciami viva, e in tua prigion mi serra.
A che pur farmi guerra,
s'io ti do l'arme e più non mi difendo?
Perché assalirmi ancor, se già son vinta?
Non posso più; questo è quel fiero colpo
che la forza, l'ardir, che 'l cor mi tolle;
l'usato orgoglio ben danno ed incolpo.
Or non recuso, di catena cinta,
che mi meni captiva al sacro colle;
lasciarmi viva, e molle
carcere puoi sicuramente darmi;
ché mai più, signor, armi,
per esser contra a' tuoi disii, non prendo.

VIII

La bella donna mia d'un sì bel fuoco,
e di sì bella neve ha il viso adorno,
ch'Amor, mirando intorno
qual di lor sia più bel, si prende giuoco.
Tal è proprio a veder quell'amorosa
fiamma che nel bel viso
si sparge, ond'ella con soave riso
si va di sue bellezze inamorando;
qual è a veder, qualor vermiglia rosa
scuopra il bel paradiso
de le sue foglie, allor che 'l sol diviso
da l'oriente sorge il giorno alzando.
E bianca è sì come n'appare, quando
nel bel seren più limpido la luna
sovra l'onda tranquilla
coi bei tremanti suoi raggi scintilla.
Sì bella è la beltade che in quest'una
mia donna hai posto, Amor, e in sì bel loco,
che l'altro bel di tutto il mondo è poco.

IX

Occhi, non v'accorgete,
quando mirate fiso
quel sì soave ed angelico viso,
che come cera al foco,
over qual neve ai raggi del sol sète?
In acqua diverrete,
se non cangiate il loco
di mirar quella altiera e vaga fronte:
ché quelle luci belle, al sole uguali,
pòn tant'in voi, che vi farann'un fonte.
Escon sempre da lor or foco or strali.
Fuggite tanti mali;
se non, vi veggio alfin venir niente,
ed io cieco restar eternamente.

X

Fingon costor che parlan de la Morte
un'effigie ad udirla troppo ria;
ed io che so che di summa bellezza,
per mia felice sorte,
a poco a poco nascerà la mia,
colma d'ogni dolcezza,
sì bella me la formo nel disio,
che 'l pregio d'ogni vita è 'l morir mio.

XI

Quel foco, ch'io pensai che fuss'estinto
dal tempo, da gli affanni ed il star lunge,
signor, pur arde, e cosa tal v'aggiunge
ch'altro non sono ormai che fiamma ed ésca.
La vaga fera mia che pur m'infresca
le care antiche piaghe,
acciò mai non s'appaghe
l'alma del pianto che pur or comincio;
errando lungo il Mincio
più che mai bella e cruda oggi m'apparve,
ed in un punto, ond'io ne muoia, sparve.

XII

Quando ogni ben de la mia vita ride,
i dolci baci niega;
se piange, allor al mio voler si piega;
così suo mal mi giova e 'l ben m'accide.
Chi non sa come stia fra il dolce il fèle
provi, come provo io,
questo ardente disio,
che mi fa lieto viver e scontento.
Così nasce per me di amaro il mèle,
dolor del riso pio
che 'l bel volto giulio
lieto m'apporta sol per mio tormento.
Miseri amanti, senza più contesa,
temete insieme e sperate ogni impresa.

CAPITOLI

I

Epicedio de morte Lionorae Estensis de Aragonia ducissae Ferrariae .


Rime disposte a lamentarvi sempre,
accompagnate il miserabil cuore
in altro stil che in amorose tempre:
ch'or iustamente da mostrar dolore
abiamo causa; ed è sì grave il danno,
che a pena so s'esser potria maggiore.
Vedo i miei versi che smariti stanno
odendo intorno il lamentar comune,
ch'ove lor debbian cominciar non sanno.
Vedo l'insegne scolorite e brune,
suspiri e pianti mescolati insieme
da mover l'alme di pietà digiune.
Vedo Ferrara che privata geme
di sua adorneza, e per grande ira intorno
il fiume Po che murmurando freme;
il qual, presago, il sventurato giorno
in cui la summa Volontà dispose
che un'alma santa fesse al ciel ritorno,
per non vedere, ogni suo studio pose
d'allontanarsi all'infelice terra,
sì che in più parte le sue sponde róse.
L'argine e ripe ed ogni opposto atterra;
pur con ingegno dal fuggir si tenne
ne l'alveo antico, dove ancor si serra:
che ricordar mi fa di quel che avenne
doppo la morte del famoso cive,
che armato in Roma ad occuparla venne.
Allora il Tebre supera le rive,
come ha quest'altro al tramontar di questa
stella, che in ciel santificata vive.
Fulgure e venti allor, pioggia e tempesta
ondarno i campi; ed altri segni ancora
feron la gente timorosa e mesta,
com'or è apparso a dimostrar quest'ora
venuta a tramutar la città lieta,
le feste e canti, a lacrimar Lionora.
Più segno di dolor che una cometa
precorse il tristo dì: ché 'l chiaro lume
perse in gran parte il lucido pianeta.
Il Sol, per cui convien che 'l ciel ne allume,
vidde Ferrara sconsolata e trista,
e ricognobbe il doloroso fiume,
ch'ancor quest'onde a riguardar s'atrista
sì, ch'ei turbò la luminosa fronte,
mostrando obscura e impalidita vista;
le gente meste al lacrimar sì pronte,
le Eliade proprio gli parea vedere
in ripa al fiume richiamar Fetonte.
Né gli occhi asciutti puoté il ciel tenere
per gran pietade, e dimostrò ben quanto
qua giù si debba ogni mortal dolere.
Or si risforzi ogni angoscioso pianto,
che, assai si chiami a paragon del male,
mai non potremo condolerci tanto;
creschino i fiumi al lacrimar mortale,
crollino i boschi al suspirar frequente,
e sia il dolor per tutto il mondo eguale.
Ma piangi e grida più ch'ogn'altra gente
tu che abitasti sotto il iusto regno,
rimasta al suo partir trista e dolente.
Ché Morte orrenda col suo ferro indegno
s'occise quella, a te fece una piaga
di che molt'anni restaratti il segno.
Non eri forsi del tuo mal presaga;
ma se ben pensi, pur perduta hai quella,
che sì fu in terra di ben farti vaga.
Abitatrice in ciel fatta novella,
lassando in terra la sua fragil spoglia,
di sue virtude è più onorata e bella,
sì che di noi, non del suo ben ci doglia:
ché il spirto in ciel da le sue membra sciolto
di ritornar qua giù non ha più voglia.
Ver è che pur di nui l'incresce molto,
ch'ancor l'usata sua pietà riserba,
né Morte il popul suo dal cuor gli ha tolto.
Ma nostra doglia mal si disacerba
pensando che sua vita è giunta al fine,
non già matura ancor, ma quasi in erba.
Qual man crudel che fra pongenti spine
schianta la rosa ancor non ben fiorita,
Morte spiccò da quella testa un crine.
Quest'ora da Dio in ciel fu stabilita,
ché degno di costei non era il mondo,
anzi là su d'averla seco unita.
O di virtude albergo alto e giocondo,
debb'io forsi narrar la tua eccellenzia,
a cui me stesso col pensar confondo?
Ché l'infinita e summa Providenzia
degna ti reputò de la sua corte,
più per iusticia assai che per clemenzia;
e per tirarti alle sideree porte
(mandati prima a te gli anonci suoi)
calò dal ciel la tremebonda Morte.
Non come è usata di venir tra noi,
con quella falce sanguinosa e obscura,
apparse Libitina agli occhi tuoi.
Descriver non saprei la sua figura,
ma venne onesta e in sì liggiadro viso,
che nulla avesti al suo venir paura;
e con dolci atti e con piacevol riso
disse: – Madonna, vien', ch'io son mandata
per tòrti al mondo e darti al paradiso. –
O gloriosa in cielo alma beata,
allor uscendo del corporeo velo,
al summo Redemptor ne sei tornata;
volasti, accesa d'amoroso zelo,
lassando i tuoi devoti infermi ed egri,
santa, ioconda e risplendente, al cielo.
Beata al novo albergo or ti ralegri;
nui, che dolenti al tuo partir lassasti,
piangendo andiam, vestiti a panni negri.
Fra quei spirti del ciel vergini e casti,
non disdegnar, o ben venuta donna,
guardar le genti tue che al mondo amasti.
E come in terra a nui fusti madonna,
servando ancor là su l'usanza antica
riman' del popul tuo ferma colonna,
o in cielo e in terra di virtude amica.

II

Canterò l'arme, canterò gli affanni
d'amor, ch'un cavallier sostenne gravi,
peregrinando in terra e 'n mar molti anni.
Voi l'usato favor, occhi soavi,
date all'impresa, voi che del mio ingegno,
occhi miei belli, avete ambe le chiavi.
Altri vada a Parnaso o a Cirra; io vegno,
dolci occhi, a voi; né chieder altra aita
a' versi miei se non da voi disegno.
Già la guerra il terzo anno era seguìta
tra il re Filippo Bello e il re Odoardo,
che con suoi Inglesi Franza avea assalita.
E l'uno e l'altro essercito gagliardo
men di duo leghe si stavan vicino
nei bassi campi appresso il mar picardo.
Ed ecco che dal campo pellegrino
venne un araldo, e si condusse avanti
al successor di Carlo e di Pipino;
e disse, udendo tutti i circonstanti,
che nel suo campo, tra li capitani
di chiaro sangue e di virtù prestanti,
si proferia un guerrier con l'arme in mani
a singular battaglia sostenere
a qualunque attendato era in quei piani,
che quanto d'ogni intorno può vedere
il vago Sol, non è nazion che possa
al valor degli Inglesi equivalere.
E se tra' Franchi o tra la gente mossa
in suo favor è cavallier ch'ardisca,
per far disdir costui, metti sua possa;
per l'ultimo d'april l'arme espedisca,
ché 'l cavallier che la pugna domanda,
non vuol ch'oltra quel dì si difinisca.
– Come è costui nomato che ti manda?
domandò il re all'araldo; e quel rispose
ch'avea nome Aramon di Nerbolanda.
Gli spessi assalti e l'altre virtuose
opere d'Aramon erano molto
in l'uno e in l'altro essercito famose;
si ch'a quel nome impalidir il volto
alla più parte si notò del stuolo
che presso per udir s'era raccolto.
Indi levossi per le squadre a volo
e andò il tumulto, com'avesse insieme
tanta gente impaurito un omo solo;
non altrimenti il mar, se da l'estreme
parte di tramontana ode che 'l tuono
faccia il ciel rissonar, murmura e freme.
Quivi gente di Spagna, quivi sono
d'Italia, d'Alemagna; quivi è alcuno
bon guerrier più al morir ch'al fuggir prono.
Al conspetto del re si ritruova uno
giovenetto animoso, agil e forte,
costumato e gentil sopra ciascuno,
generoso di sangue e in bona sorte
produtto al mondo; e non passava un mese
che venuto d'Italia era alla corte.
Di cinque alme cittadi e del paese
ch'Adice, Po, Veterno e Gabel riga,
Niccia, Scoltena, il padre era marchese.
Obizzo era il suo nome; ad ogni briga
di forza atto e d'ardir; e un sì feroce
né questa avea né la contraria liga.
Costui supplica al re con braccia in croce
che gli lassi provar s'a quel superbo
può far cader così orgogliosa voce.
Giovan era robusto e di bon nerbo,
di gran statura e in ogni parte bella,
ma d'anni alquanto oltra il bisogno acerbo.
Un poco stette in dubbio il re se quella
periculosa pugna esser dovesse
commessa ad un'incauta età novella;
poi, repetendo le vittorie spesse
che dal patre alli figli e alli nepoti
non men ch'ereditarie eran successe,
onde li duci e cavallieri noti
de la stirpe da Este a tutto il mondo
lo fen sperar ch'avrian effetto i voti;
quella battaglia diede a lui, secondo
che addimandolla; indi Obizzo espedia
l'arme con sicur animo e giocondo;
avendo d'una robba, che vestia
quel giorno, molto ricca rimandato
l'araldo lieto alla sua compagnia.
L'aver l'audace giovan accettato
il grande invito d'Aramon facea
parlar di lui con laude in ogni lato;
sì che 'l valor de' prìncipi premea,
come di Franza così d'altra gente,
ch'apo sé in maggior grado il re tenea.
Indi a figer nel cor l'acuto dente
d'alcun guerrier incominciò l'eterna
stimulatrice, Invidia, de la gente;
non quella che s'alloggia in la caverna
d'alpestra valle, in compagnia de l'orse,
dove il sol mai non entra né lucerna;
che da mangiar le serpi il muso torse
allora che, chiamata da Minerva,
de l'infelice Aglauro il petto morse;
ma la gentil, che fra nobil caterva
di donne e cavallier ecceder brama
le laudi e le virtù ch'un altro osserva.
E prima ad un baron di molta fama
entra nel cuor, che del delfin di Vienna
era fratel e Carbilan si chiama;
che morto, l'anno inanzi, in ripa a Senna
ave il conte d'Olanda, e rotti e sparsi
Fiamenghi e Barbatini e quei d'Ardenna.
Stimò costui gran scorno e ingiuria farsi
a Franza, quando inanzi a' guerrier sui
li guerrieri d'Italia eran comparsi;
e pregò il re che non desse in altrui
che ne le mani sue quella battaglia,
o ad altri di nazion subietta a lui;
e che per certo in vestir piastra e maglia
a gran bisogni, fuor che la francesca,
altra gente non de' creder che vaglia.
A un capitan di fanteria tedesca,
che si ritruova quivi, tal parola
soffrendo, par ch'a gran disnor riesca.
E similmente a questo detto vola
la mosca sopra il naso d'Agenorre,
gran conduttor di compagnia spagnuola.
Rispondendo ambidui che, se per porre
contra Aramon si debbe cavalliero
de la meglior d'ogni nazione tòrre,
ciascun per sé si proferiva al vero
parangone de l'arme, a mostrar chiaro
che di sua gente esser dovea il guerriero.
Obizzo, de l'onor d'Italia avaro
e del suo proprio, e quinci e quindi offeso
da quel parlar via più ch'assenzo amaro,
rispose: – Tosto ch'avrò morto o preso,
come spero, Aramon (ché non mi deve
quel che m'ha il re donato, esser conteso),
farò a ciascun di voi veder in breve
che la mia gente al par d'ogn'altra vale
ad ogni assalto o faticoso o lieve. –
Moltiplicavan le parole, e tale
era il rumor, lo strepito, ch'uscire
se ne vedea una rissa capitale.
Ma non li lassa il re tanto seguire:
prima il suo franco, indi il spagnuol riprende
con l'aleman del temerario ardire.
– Come ben fa chi sua nazion difende
da biasmo altrui, – dicea – così molt'erra
chi, per la sua lodar, ogn'altra offende.
E chi vuol di voi dir che la sua terra
prevaglia a tutte l'altre è ne l'errore
di questo inglese, e il torto ha de la guerra.
Degli altri il detto d'Obizzo è il megliore,
di sostener ch'Italia sua di loda
a nessun'altra parte è inferiore.
Or quant'alla battaglia mai non snoda,
poi ch'ad Obizzo n'ho fatto promessa,
che la promessa non sia ferma e soda.
Egli fu il primo a chiederla, e concessa
a lui l'ho volontier, e non mi pento,
né meglio altrove potria averla messa. –
Il re fece a lor tal ragionamento,
sì per ragion, sì perché assai non fòra
di dar la pugna a Carbilan contento.
Ché, se Fortuna, che temer ognora
si deve, ad Aramon volge la guancia,
è meglio ch'un estran sia preso o mora,
che Carbilan o di nazion di Francia
altro guerrier, per non dar la sentenza
l'inglese esser meglior de la sua lancia.
Nel vincer non facea tal differenza,
pur ch'un guerrier, sia di che gente voglia,
spegnesse a quell'altier tanta credenza.
Quanto più il re si sforza che si toglia
Carbilan da l'impresa, egli più duro
e più ostinato ognor più se n'invoglia.
E con parlar non fra li denti oscuro,
ma chiaro e aperto, mormorando in onta
e d'Obizzo e d'Italia va sicuro.
Al cavallier da Este per ciò monta
il sdegno e l'ira; e di novo al cospetto
del giustissimo re con lui s'affronta.
E dice: – Carbilan, se ti è in dispetto
che per ir contra ad Aramon audace
m'abbia a' miei prieghi il signor nostro eletto,
e se perciò ostinato e pertinace
tu pruovi dir che quest'onor non merti,
e che di me tu ne sia più capace,
dico che tu ne menti; e sostenerti
voglio con l'arme ch'in alcuna prova
meglior omo di me non déi tenerti.
E perché quest'error da te si muova,
ch'ad intender ti dài ch'a tua possanza
e tua destrezza par non si ritruova,
proviamo in questo tempo che n'avanza
di qui alla fin d'april qual di noi deggia
metter in campo il re con più baldanza.
E s'altro ancor, o di tua o d'altra greggia,
dice che più la pugna li convegna
ch'a me, fra questo termine mi cheggia. –
Così diss'egli: or forza è che sostegna
Carbilan il suo detto, e ad altro gioco
che di parole e di minacce vegna.
Il re, da' prieghi vinto, se ben poco
ne par restar contento, pur né tolle
la pugna lor, né niega ad essa il loco.
Ma non che fusse la querela vuolle
qual nazion, l'italica o la franca,
sia più robusta o qual d'esse più molle;
ma che ciascun per sé abbia più franca
persona o più gagliarda non repugna
che mostri, e per ciò lor dà piazza franca;
e si serba anco di partir la pugna.

III

Ne la stagion che 'l bel tempo rimena,
di mia man posi un ramuscel di Lauro
a mezo colle, in una piaggia amena,
che di bianco, d'azur, vermiglio e d'auro
fioriva sempre, e sempre il sol scopriva,
o fusse all'Indo o fusse al lito mauro.
Quivi traendo or per erbosa riva,
or rorando con man la tepida onda,
or rimovendo la gleba nativa,
or riponendo più lieta e feconda,
fei sì con studio e con assidua cura,
che 'l Lauro ebbe radice e nuova fronda.
Fu sì benigna a' miei desir Natura,
che la tenera verga crescer vidi,
e divenir solida pianta e dura.
Dolci ricetti, solitari e fidi,
mi fur queste ombre, ove sfogar potei
sicura il cor con amorosi gridi.
Vener, lasciando i templi citerei
e li altari e le vittime e li odori
di Gnido e di Amatunte e de' Sabei,
sovente con le Grazie in lieti cori
vi danzò intorno; e per li rami in tanto
salian scherzando i pargoletti Amori.
Spesso Diana con le ninfe a canto
l'arbuscel suavissimo prepose
alle selve d'Eurota e d'Erimanto.
E queste ed altre dèe sotto l'ombrose
frondi, mentre in piacer stavano e in festa,
benediron tra lor chi il ramo pose.
Lassa! onde uscì la boreal tempesta?
onde la bruma? onde il rigor e il gelo?
onde la neve, a' danni miei sì presta?
Come gli ha tolto il suo favore il Cielo?
Langue il mio Lauro, e de la bella spoglia
nudo gli resta e senza onor il stelo.
Verdeggia un ramo sol con poca foglia,
e fra téma e speranza sto suspesa,
se mi lo lasci il verno o mi lo toglia.
Ma più che la speranza il timor pesa
che contra il giaccio rio, ch'ancor non cessa,
il debil ramo avrà poca difesa.
Deh! perché, inanzi che sia in tutto oppressa
l'egra radice, non è chi m'insegni
com'esser possa al suo vigor rimessa?
Febo, rettor de li superni segni,
aiuta 'l sacro Lauro, onde corona
più volte avesti nei tessali regni;
concedi, Bacco, Vertunno e Pomona,
satiri, fauni, driade e napee,
che nuova fronde il Lauro mio ripona;
soccorran tutti i dèi, tutte le dèe
che de li arbori han cura, l'arbor mio;
però che gli è fatal: se viver dee,
vivo io, se dee morir, seco moro io.

IV

De la mia negra penna in fregio d'oro
molti mi sono a dimandar molesti
l'occulto senso, ed io nol vuo' dir loro.
Vuo' che sempre nel cor chiuso mi resti,
né per pregar o stimular d'altrui
già mai mi potrò indur ch'io 'l manifesti.
Dio, come in l'altri magisteri sui,
providenzia ebbe assai, quando 'l cor pose
ne la più ascosa parte ch'era in nui;
ch'ivi i pensier e le secrete cose
vòlse riporre, e chiuderne la via
a queste avide menti e curiose.
Fregiata d'or la negra penna mia
ho in cento lochi nel vestir trapunta,
acciò palese a tutti gli occhi sia;
ma vuo' tacer a qual effetto assunta
l'ho di portar, e non vuo' dir se mostra
l'anima lieta o di dolor compunta.
Se voi direte ostinazion la nostra,
io dirò ch'immodesti ed importuni
voi sète, e gran discortesia è la vostra.
Non so s'avete udito dir d'alcuni
che d'aver disiato di sapere
li altrui secreti esser vorrian digiuni.
L'uccel c'ha bigio il petto e l'ale nere
fu prima donna, e diventò cornice
per esser troppo vaga di sapere.
Ciò ch'altri asconder vuoi spiar non lice,
e vi devrebbe raffrenar quello anco
che di Tiresia ed Atteon si dice:
de' quali un fe' restar di luce manco
Pallade ultrice, e l'altro fe' Diana
sfamar i cani suoi del proprio fianco.
Se d'esser sopragiunte alla fontana,
nude il bel corpo, così increbbe ad esse
che vendetta ne féro acerba e strana,
non fòra oltra ragion che mi dolesse
che voi molto più a dentro che alle gonne
veder cercasse come il cor mi stesse.
Non son già del valor di quelle donne,
né sì crudel ch'a voi facessi il danno
ch'elle féro a Tiresia e ad Atteonne;
dicovi ben che 'l dritto lor non fanno
quelli che 'l studio e tutto il pensier loro
sol per voler interpretar post'hanno
questa mia negra penna in fregio d'oro.

V

Meritamente ora punir mi veggio
del grave error che a dipartirmi feci
da la mia donna, e degno son di peggio;
ben saggio poco fui, ch'all'altrui preci,
a cui deve' e potei chiuder l'orecchi,
più ch'al mio desir proprio satisfeci.
S'esser può mai che contra lei più pecchi,
tal pena sopra me subito cada
che nel mio essempio ogni amator si specchi.
Deh! che spero io, che per sì iniqua strada,
sì rabbiosa procella d'acque e venti,
possa esser degno che a trovar si vada?
Arroge il pensar poi da chi m'absenti,
che travaglio non è, non è periglio
che più mi stanchi o che più mi spaventi.
Pentomi, e col pentir mi meraviglio
com'io potessi uscir sì di me stesso,
ch'io m'appigliasse a questo mal consiglio.
Tornar a dietro ormai non m'è concesso,
né mirar se mi giova o se mi offende;
licito fòra più quel ch'ho promesso.
Mentre ch'io parlo, il turbid'austro prende
maggior possanza, e cresce il verno, e sciolto
da ruinosi balzi il liquor scende;
di sotto il fango, e quinci e quindi il folto
bosco mi tarda; e in tanto l'aspra pioggia
acuta più che stral mi fere il volto.
So che qui appresso non è casa o loggia
che mi ricopra, e pria ch'a tetto giunga,
per lungo tratto il monte or scende or poggia.
Né più affrettar, perch'io lo sferzi o punga,
posso il caval, ché lo sgomenta l'ira
del ciel, e stanca la via alpestre e lunga.
Tutta questa acqua e ciò ch'intorno spira
venga in me sol, che non può premer tanto
ch'uguagli al duol che dentro mi martira;
ché, se a Madonna io m'appressassi quanto
me ne dilungo, e fusse speme al fine
del mio camin poi rispirarle a canto;
e le man bianche più che fresche brine
baciarle, e insieme questi avidi lumi
pascer de le bellezze alme e divine,
poco il mal tempo, e loti e sassi e fiumi
mi darian noia, e mi parrebbon piani,
e più che prati molli, erte e cacumi.
Ma quando avien che sì me ne allontani,
l'amene Tempe e del re Alcinoo li orti
che puon, se non parermi orridi e strani?
Li altri in le lor fatiche hanno conforti
di riposarsi dopo, e questa spene
li fa a patir le aversità più forti.
Non più tranquille già né più serene
ore attender poss'io, ma 'l fin di queste
pene e travagli, altri travagli e pene.
Altre piogge al coperto, altre tempeste
di sospiri e di lacrime mi aspetto,
che mi sien più continue e più moleste.
Duro serammi più che il sasso il letto,
e 'l cor tornar per tutta questa via
mille volte ogni dì sarà costretto.
Languido il resto de la vita mia
si struggerà di stimolosi affanni,
percosso ognor da penitenzia ria.
E' mesi, l'ore e i giorni a parer anni
cominceranno, e diverrà sì tardo
che parrà, il tempo, aver tarpato i vanni;
che già, godendo del soave sguardo,
de la invitta beltà, de l'immortale
valor, de' bei sembianti, onde tutt'ardo,
vedea fuggir più che da corda strale.

VI

Era candido il corvo, e fatto nero
meritamente fu, perché tropp'ebbe
espedita la lingua a dir il vero.
Aver taciuto Ascalafo vorrebbe
il testimonio che sul stigio fiume
alla madre e alla figlia udire increbbe:
ché di funeste e d'infelici piume
si ricoverse, e restò augello obsceno,
dannato sempre ad aborrir il lume.
Por si dovrian tutte le lingue freno,
e in l'altrui fatti apprender da costoro
di spiar poco e di parlarne meno.
Questi per troppo dir puniti fòro;
né riguardò chi lor punì che fosse
d'ogni menzogna netto il detto loro.
Se de li offesi dèi sì l'ira mosse
l'esser del vero garuli e loquaci,
che con eterna infamia ambo percosse,
qual pena, qual obrobrio a quelli audaci
si converria, ch'altri biasmando vanno
di colpe in che si sanno esser mendaci?
O di noi più non curano o non hanno
qua giù più forza, o che li nostri casi
quei che reggono il Ciel più poco sanno.
Che non vi sieno ancor crederei quasi,
se non che veggio pur per camin certo
l'estati e i verni andar li orti e li occasi.
Ma se vi son, com'è da lor sofferto
che lode e oltraggi, e che premii e suplìci
non sian secondo il bono e tristo merto?
Lor debito serìa da le radici
le malediche lingue sveller tosto
che de falsi rumor sono inventrici.
Qual altro più a martìr debbe esser posto,
di quel ch'a donna abbia con falsi gridi
biasmo, di ch'essa sia innocente, imposto?
Peggio è che furti, e peggio è che omicidi,
macchiar l'onor, che di ricchezza e vita
sempre stimar più tra li saggi vidi.
Se per sentirsi monda essere ardita
femina deve a far prova ch'in libro,
meglio, ch'in marmo abbia a restar sculpita;
né a Tuccia che portò l'acqua nel cribro,
né cedo a quella Claudia che 'l naviglio
de la madre di dèi trasse pel Tibro.
Al ferro, al foco, al tòsco, a ogni periglio
chieggio d'espormi, per mostrar ch'a torto
ho da portar per questo basso il ciglio.
Se non indegnamente in viso porto
così importuna macchia, che potermi
con poca acqua lavar pur mi conforto,
cresca sì che mi copra e poi si fermi,
né mai più mi si lievi, e tutto il mondo
in ignominia sempre abbia a vedermi,
e séguiti il martìr, non pur secondo
che farà degno il fallo, ma il più grave
ch'abbia l'inferno al tenebroso fondo;
ma se sì mente chi incolpata m'ave,
come è sincero il cor, così di fuore
ogni bruttezza presto mi si lave;
e tutto quel martìr ch'a tanto errore
si converria, veggia cader su l'empio
che de la falsa accusa è stato autore;
sì che ne pigli ogni bugiardo essempio.

VII

Forza è ch'alfin si scopra e che si veggia
il gaudio mio dianzi a gran pena ascoso,
ancor ch'io sappia che tacer si deggia,
e quanto dirlo altrui sia periglioso:
perché sempre chi ascolta è più proclive
ad invidiar che ad essere gioioso;
ma, come poi ch'alle calde aure estive
si risolveno e giacci e nevi alpine,
crescono i fiumi a par de le sue rive;
ed alcun, disprezzando ogni confine,
rompe superbo li argeni ed inonda
le biade e i paschi e le città vicine;
così, quando soverchia e sovrabonda
a quanto cape e può capir il petto,
convien che l'allegrezza si diffonda,
e faccia rider li occhi, e ne l'aspetto
ir con baldanza, e d'ogni nebbia mostri
l'aer del viso disgravato e netto.
Come si fan con lor mordaci rostri
l'ingrati figli porta per uscire
de li materni viperini chiostri,
se di nascer li affretta il fier desire,
che non attendon che la madre grave
possa l'un dopo l'altro partorire;
così li gaudi miei, ch'in le più cave
parti posi di me, per tener chiusi,
niegan più star sotto custodia e chiave.
Tentano altro camin, poi ch'io li esclusi
da quel che per la bocca, da chi viene
dal petto, par che per più trito s'usi.
Di passar quindi ormai tolta ogni spene,
se ne vengon per li occhi e per la fronte,
dove raro o non mai guardia si tiene.
Guardar si suole o strada o guado o ponte,
loco facile a intrar; non dove sia
fiume profondo o inacessibil monte.
Poi che vietar non posso a lor tal via,
che non faccian peggior effetto almeno
porrò ogni sforzo ed ogni industria mia;
sappil chi 'l vuol saper, ch'io son sì pieno,
sì colmo di letizia e di contento,
che non la cape a una gran parte il seno;
ma la cagion del gran piacer ch'io sento
non vuol che suoni voce o snodi lingua;
e faccia Dio, se mai di ciò mi pento,
che l'una svelta sia, l'altra si estingua.

VIII

O più che 'l giorno a me lucida e chiara,
dolce, gioconda, aventurosa notte,
quanto men ti sperai tanto più cara!
Stelle a furti d'amor soccorrer dotte,
che minuisti il lume, né per vui
mi fur l'amiche tenebre interrotte!
Sonno propizio, che lasciando dui
vigili amanti soli, così oppresso
avevi ogn'altro, che invisibil fui!
Benigna porta, che con sì sommesso
e con sì basso suon mi fusti aperta,
ch'a pena ti sentì chi t'era presso!
O mente ancor di non sognar incerta,
quando abbracciar da la mia dea mi vidi,
e fu la mia con la sua bocca inserta!
O benedetta man, ch'indi mi guidi;
o che ti passi, che m'andate inanti;
o camera, che poi così m'affidi!
O complessi iterati, che con tanti
nodi cingete i fianchi, il petto, il collo,
che non ne fan più l'edere o li acanti!
Bocca, ove ambrosia libo, né satollo
mai ne ritorno; o dolce lingua, o umore
per cui l'arso mio cor bagno e rimollo!
Fiato, che spiri assai più grato odore
che non porta da l'Indi o da' Sabei
fenice al rogo in che s'incende e more!
O letto, testimon de' piacer miei;
letto, cagion ch'una dolcezza io gusti,
che non invidio il lor nèttare ai dèi!
O letto donator de' premi giusti,
letto, che spesso in l'amoroso assalto
mosso, distratto ed agitato fusti!
Voi tutti ad un ad un, ch'ebbi de l'alto
piacer ministri, avrò in memoria eterna,
e quanto è il mio poter, sempre vi essalto.
Né più debb'io tacer di te, lucerna,
che con noi vigilando, il ben ch'io sento
vuoi che con gli occhi ancor tutto discerna.
Per te fu dupplicato il mio contento;
né veramente si può dir perfetto
uno amoroso gaudio a lume spento.
Quanto più giova in sì suave effetto
pascer la vista or de li occhi divini,
or de la fronte, or de l'eburneo petto;
mirar le ciglia e l'aurei crespi crini,
mirar le rose in su le labra sparse,
porvi la bocca e non temer de' spini;
mirar le membra, a cui non può uguagliarse
altro candor, e giudicar mirando
che le grazie del Ciel non vi fur scarse,
e quando a un senso satisfar, e quando
all'altro, e sì che ne fruiscan tutti,
e pur un sol non ne lasciar in bando!
Deh! perché son d'amor sì rari i frutti?
deh! perché del gioir sì brieve il tempo?
perché sì lunghi e senza fine i lutti?
Perché lasciasti, oimè! così per tempo,
invida Aurora, il tuo Titone antico,
e del partir m'accelerasti il tempo?
Ti potess'io, come ti son nemico,
nocer così! Se 'l tuo vecchio t'annoia,
ché non ti cerchi un più giovene amico?
e vivi, e lascia altrui viver in gioia!

IX

O nei miei danni più che 'l giorno chiara,
crudel, maligna e scelerata notte,
ch'io sperai dolce ed or trovo sì amara!
Sperai ch'uscir da le cimerie grotte
tenebrosa devessi, e veggio c'hai
quante lampade ha il ciel teco condotte.
Tu che di sì gran luce altiera vai,
quando in braccio al pastor nuda scendesti,
Luna, io non so s'avevi tanti rai;
rimémbrati il piacer ch'allor avesti
d'abbracciar il tuo amante, ed altro tanto
conosci che mi turbi e mi molesti.
Ah! non fu però il tuo, non fu già quanto
sarebbe il mio, se non è falso quello
di che il tuo Endimion si dona vanto;
ché non amor, ma la mercé d'un vello,
che di candida lana egli t'offerse,
lo fe' parer alli occhi tuoi sì bello.
Ma se fu amor che 'l freddo cor t'aperse,
e non brutta avarizia, come è fama,
lieva le luci a' miei desir adverse.
Chi ha provato amor, scoprir non brama
suoi dolci furti, che non d'altra offesa
più che di questa, amante si richiama.
Oh che letizia m'è per te contesa!
Non è assai che Madonna mesi ed anni
l'ha fra speme e timor fin qui suspesa?
Oh qual di ristorar tutti i miei danni,
oh quanta occasione ora mi vieti,
che per fuggir ha già spiegati vanni!
Ma scopri pur finestre, usci e pareti:
non avrà forza il tuo bastardo lume
che possa altrui scoprir nostri secreti.
O incivile e barbaro costume!
ire a quest'ora il popolo per via,
ch'è da ritrarsi alle quiete piume.
Questa licenzia sol esser devria
alli amanti concessa, e proibita
a qualunque d'Amor servo non sia.
O dolce Sonno, i miei desiri aita!
Questi Lincei, questi Argi c'ho d'intorno,
a chiuder li occhi ed a posar invita.
Ma priego e parlo a chi non ode; e 'l giorno
s'appressa in tanto, e senza frutto, ahi lasso!
or mi lievo, or m'accosto, or fuggo, or torno.
Tutto nel manto ascoso, a capo basso,
vo per entrar; poi veggio appresso o sento
chi può vedermi, e m'allontano e passo.
Che debb'io far? che posso io far tra cento
occhi, fra tanti usci e finestre aperte?
O aspettato in vano almo contento,
o disegni fallaci, o speme incerte!

X

Del bel numero vostro avrete un manco,
signor: ché qui restio dove Apenino
d'alta percossa aperto mostra il fianco,
che per agevolar l'aspro camino
Flavio gli diede, in ripa l'onda ch'ebbe
mal fortunata un capitan Barchino.
Restomi qui, né, quel ch'Amor vorrebbe,
posso a Madonna sodisfar, né a voi
l'obligo scior che la mia fé vi debbe.
Tiemmi la febre, e più ch'ella m'annoi,
m'arde e strugge il pensar che, l'importuna,
quel che devea far prima ha fatto poi.
Ché, s'ero per restar privo de l'una
mia luce, almen non devea l'altra tòrmi
la sempre aversa a' miei desir Fortuna.
Deh! perché quando onestamente sciormi
dal debito potea, che qui mi trasse,
non venne più per tempo in letto a pormi?
Non fu mai sanità che sì giovasse
a peregrino infermo, che tra via
da la patria lontan compagno lasse,
come giovato a me il contrario avria,
un languir dolce, che con scusa degna
m'avesse avuto di tener balìa.
Io so ben quanto mal mi si convegna
dir, signor mio, che fra sì lieta schiera
io mal contento sol drieto vi vegna.
Ma mi fido ch'a voi, che de la fiera
punta d'Amor chiara noticia avete,
debbia la colpa mia parer ligiera.
Vostre imprese così tutte sian liete,
come è ben ver ch'ella talor v'ha punto,
né sano forse ancora oggi ne sète.
Sapete, dunque, s'avria mal assunto
chi negasse seguir quel ch'egli accenna,
quando n'ha sotto il giogo il collo aggiunto;
se per spronar o caricar d'antenna
si può fuggir, o con cavallo o nave,
che non ne giunga in un spiegar di penna.
Tal fallo poi di punizion sì grave
punisce, oimè! che ardisco dir che morte
verso quella a patir serìa soave.
Questo tiran non men crudel che forte,
ch'anco mai perdonar non seppe offesa,
né lascia entrar pietà ne la sua corte;
perché mille fiate e più contesa
m'avea la lunga via, che si m'absenta
da quella luce in c'ho l'anima accesa,
de l'inobedienza or mi tormenta
con così gravi e sì pensosi affanni,
che questa febre è il minor mal ch'io senta.
Lasso! chi sa ch'io non sia al fin degli anni,
chi sa ch'avida Morte or non mi tenda
le reti qui d'intorno in che m'appanni!
Ah! chi serà nel ciel che mi difenda
da questa insidiosa, a cui per voto
un inno poi di mille versi renda?
e nel suo templo a tutto il mondo noto
in tavola il miracolo rimanga,
come sia per lui salvo il suo divoto?
Ché, se qui moro, non ho chi mi pianga:
qui sorelle non ho, non ho qui matre
che sopra il corpo gridi e 'l capel franga,
né quattro frati miei che con vesti atre
m'accompagnino al lapide che l'ossa
devria chiuder del figlio a lato il patre.
Madonna non è qui ch'intender possa
il miserabil caso, e che l'esangue
cadavero portar vegga alla fossa;
onde forse pietà, ch'ascosa langue
nel freddo petto, si riscaldi e faccia
d'insolito calor arderle il sangue.
Ché, s'ella ancor l'esanimata faccia
mira a quel punto, ho quasi certa fede
ch'esser non possa che più il corpo giaccia.
Se del figliuol di Iapete si crede
ch'a una statua di creta, con un poco
del febeo lume, umana vita diede,
perché non crederò che 'l vital fuoco
susciti ai raggi del mio sol, qui dove
troverà ancor di sé tepido il luoco?
Deh! non si venga a sì dubbiose prove:
più sicuro e più facile è sanarmi
che costringer i fati a leggi nòve.
Se pur è mio destìn che debbia trarmi
in scura tomba questa febre, quando
non possa voto o medicina aitarmi,
signor, per grazia estrema vi dimando
che non vogliate da la patria cara
che sempre stian le mie reliquie in bando:
almen l'inutil spoglie abbia Ferrara,
e su l'avel che le terrà sotterra
la causa del mio fin si legga chiara:
«Né senza morte talpe da la terra,
né mai pesce da l'acqua si disgiunge,
né poté ancor chi questo marmo serra
da la sua bella donna viver lunge.»

XI

Gentil città, che con felici augùri
dal monte altier che forse ben per sdegno
ti mira sì, qua giù ponesti i muri,
come del meglio di Toscana hai regno,
così del tutto avessi! ché 'l tuo merto
fòra di questo e di più imperio degno.
Qual stil è sì facondo e sì diserto
che de le laudi tue corressi tutto
un così lungo campo e così aperto?
Del tuo Mugnon potrei, quando è più asciutto,
meglio i sassi contar che dir a pieno
quel ch'ad amarti e riverir m'ha indutto,
più presto che narrar quanto sia ameno
e fecondo il tuo pian, che si distende
tra verdi poggi insin al mar Tirreno;
o come lieto Arno lo riga e fende,
e quinci e quindi quanti freschi e molli
rivi, tra via, sotto sua scorta prende.
A veder pien di tante ville i colli,
par che 'l terren ve le germogli, come
vermene germogliar suole e rampolli.
Se dentro un mur, sotto un medesmo nome,
fusser raccolti i tuoi palazzi sparsi,
non ti sarian da pareggiar due Rome.
Una so ben che mal ti può uguagliarsi,
e mal forse anco avria possuto prima
che li edifici suoi le fussero arsi
da quel furor che uscì dal freddo clima
or de' Vandali, or de' Eruli e or de' Goti,
all'italica rugine aspra lima.
Dove son se non qui tanti devoti,
dentro e di fuor, d'arte e d'ampiezza egregi
tempii, e di ricche oblazion non vuoti?
Chi potrà a pien lodar li tetti regi
de' tuoi primati e' portici e le corti
de' magistrati e publici collegi?
Non ha il verno poter ch'in te mai porti
di sua immondizia, sì ben questi monti
t'han lastricata sino alli angiporti.
Piazze, mercati, vie marmoree, ponti,
tali belle opre de' pittori industri,
vive sculture, intagli, getti, impronti;
il popul grande e di tanti anni e lustri
l'antique e chiare stirpi, le ricchezze,
l'arte, li studi e li costumi illustri,
le leggiadre manere e le bellezze
di donne e di donzelle, a cortesi atti
senza alcun danno d'onestade avezze;
e tanti altri ornamenti che ritratti
porto nel cor, meglio è tacer ch'al suono
di tanto umile 'vena se ne tratti.
Ma che larghe ti sian d'ogni suo dono
Fortuna a gara con Natura, ahi lasso!
a me che val se in te misero sono?
se sempre ho il viso mesto e il ciglio basso,
se di lacrime ho gli occhi umidi spesso,
se mai senza sospir non muto il passo?
Da penitenzia e da dolore oppresso
di vedermi lontan da la mia luce
trovomi sì, ch'odio talor me stesso.
L'ira, il furor, la rabbia mi conduce
a biastemiar chi fu cagion ch'io venni,
e chi a venir mi fu compagno e duce,
e me che senza me di me sostenni
lasciar, oimè! la meglior parte, il core,
e più all'altrui ch'al mio desir m'attenni.
Che di ricchezza, di beltà, d'onore
sopra ogn'altra città d'Etruria sali,
che fa questo, Fiorenza, al mio dolore?
Li tuoi Medici, ancor che sieno tali
che t'abbian salda ogni tua antica piaga,
non han però rimedio alli miei mali.
Oltra que' monti, a ripa l'onda vaga
del re de' fiumi, in bianca e pura stola,
cantando ferma il sol la bella maga
che con sua vista può sanarmi sola.

XII

O lieta piaggia, o solitaria valle,
o culto monticel che mi difendi
l'ardente sol con le tue ombrose spalle;
o fresco e chiaro rivo che discendi
nel bel pratel fra le fiorite sponde,
e dolce ad ascoltar mormorio rendi;
o se driade alcuna si nasconde
tra queste piante, o s'invisibil nuota
leggiadra ninfa ne le gelide onde;
o s'alcun fauno qui s'aventa o arruota,
o contemplando stassi alta beltade
d'alcuna diva a' mortali occhi ignota;
o nudi sassi, o malagevol strade,
o tenere erbe, o ben nodriti fiori
da tepide aure e liquide rugiade;
faggi, pini, ginevri, olive, allori,
virgulti, sterpi o s'altro qui si truova
ch'abbia notizia de' mie' antiqui amori,
parlar, anzi doler con voi mi giova:
che, come al vecchio gaudio, testimoni
mi siate ancora alla mestizia nuova.
Ma pria che del mio mal oltra ragioni,
dirò ch'io sia, quantunque de' mie' accenti
vi devrei esser noto ai primi suoni:
ch'io solea i miei pensier lieti e contenti
narrarvi, e mi risposero più volte
li cavi sassi alle parole attenti.
Ma stommi dubbio che l'acerbe e molte
pene amorose sì m'abbiano afflitto,
che le prime sembianze mi sien tolte.
Io son quel che solea, dovunque o dritto
arbor vedea, o tufo alcun men duro,
de la mia dea lasciarvi il nome scritto;
io son quel che solea tanto sicuro
già vantarmi con voi che felice era,
ignaro, oimè! del mio destìn futuro.
S'io porto chiusa la nuca doglia fiera,
morir mi sento, e, s'io ne parlo, acquisto
nome di donna ingrata a quell'altiera.
Per non morir, rivelo il mio cor tristo,
ma solo a voi, ch'in gli altri casi miei
sempre mai fidi secretari ho visto.
Quel ch'a voi dico, ad altri non direi;
io credo ben che resteran con vui,
come già i boni, or li accidenti rei.
Quella, oimè! quella, quella, oimè! da cui
con tant'alto principio di mercede
tra i più beati al ciel levato fui,
che di fervent'amor, di pura fede,
di strettissimo nodo da non sciorse
se non per morte mai speme mi diede;
or non m'ama né apprezza, ed odia forse,
e sdegno e duol credo che 'l cor le punga
che ad essermi cortese unqua si torse.
Una dilazion già m'era lunga
d'una notte intermessa, ed or, ahi lasso!
il mio contento a mesi si prolunga.
Né si scusa ella che non m'apra il passo
perché non possa, ma perché non vuole;
e qui si ferma, ed io supplico a un sasso,
anzi a una crudel aspide, che suole
atturarsi l'orecchie, acciò placarse
non possa per dolcezza di parole.
Non pur al suavissimo abbracciarse
de l'amorose lotte, e ai dolci furti
le dolci notti a ritornar son scarse;
ma quelli baci ancora, a' quai risurti
miei vital spirti son spesso da morte,
mi niega o mi dà a forza secchi e curti.
Le belle luci, oimè! questo è il più forte,
si studian che di lor men fruir possa,
poi che si son di più piacermi accorte.
Così quando una e quando un'altra scossa
dà per sveller la speme di cui vivo,
per cui morrò, se fia da me rimossa.
O di voi ricco, donna, o di voi privo,
esser non può che più di me non v'ami,
e me, per voi prezzar, non abbia a schivo;
sì che pel danno mio ch'io mi richiami
di voi non vi crediate; più mi spiace
che questo troppo il vostro nome infami.
Ogni lingua di voi serà mordace,
se s'ode mai ch'un sì benigno giogo
rotto abbia o sciolto il vostro amor fugace.
O non legarlo, o non scior sin al rogo
devea; ch'in ogni caso, ma più in questo,
mal dopo il fatto il consigliarsi ha luogo.
Il pentir vostro esser devea più presto;
e se ben d'ogni tempo non potea
se non molto parermi acre e molesto,
e voi non potevate se non rea
esser d'ingratitudine, se tanta
servitù senza premio si perdea,
pur io non sentirei la doglia quanta
la sento per memoria di quei frutti
ch'or mi niega d'accor l'altiera pianta.
L'esserne privo causa maggior lutti,
poi ch'io n'ho fatto il saggio, che non fòra
s'avuto ognor n'avessi i denti asciutti.
D'ingrata e di crudel dar nota allora
io vi potea; d'ingrata e di crudele,
ma di più, dar di perfida posso ora.
Or queste sieno l'ultime querele
ch'io ne faccia ad altrui: non men secreto
vi serò ch'io vi sia stato fedele.
Voi, colli e rivi e ninfe, e ciò ch'a drieto
ho nominato, per Dio, quant'io dico
qui con voi resti; così sempre lieto
stato vi serbi ogni elemento amico.

XII bis

O lieta piaggia, o solitaria valle,
o culto monticel che mi difendi
l'ardente sol con le tue ombrose spalle;
o fresco e chiaro rivo che discendi
nel bel pratello fra fioretti e fronde,
e dolce ad ascoltar mormorio rendi;
o se driada alcuna si nasconde
fra queste piante, o se invisibil nòta
leggiadra ninfa tra le gelid'onde;
o s'alcun fauno qui sovente rota,
contemplando si sta l'alta beltade
d'alcuna diva a mortal occhi ignota;
o nudi sassi, o malagevol strade,
o tenere erbe, o ben nutriti fiori
d'aure suavi e liquide rogiade;
faggi, pini, genebri, olivi, allori,
sterpi o virgulti o s'altro vi si trova
ch'abbi notizia di mie' antichi amori,
parlar, anzi con voi doler mi giova:
che, come al vecchio gaudio, testimoni
mi siate ancora alla mestizia nuova.
Ma pria che di mia doglia oltra ragioni
dirò ch'io sia, quantunque de' miei accenti
sempre noti vi furo i primi suoni:
ch'io solea i pensier miei lieti e contenti
narrarvi, come risposer più volte
li concavi antri alle parole attenti.
Ma in dubio stommi che l'acerbe e molte
pene amorose sì m'abbino afflitto
che le prime sembianze mi sian tolte.
Son io quel che solea, dovunque dritto
arbor vedeva o tufo alcun men duro,
lasciarvi di Madonna il nome scritto.
Son quel che solea dir tanto sicuro
ch'alcun di me felice più non era,
ignaro, aimè! del rio destin futuro.
Se porto occulta la mia doglia fèra,
sento morirmi; e, s'io ne parlo, acquisto
non poco biasmo alla mia donna altèra.
Per non morir rivelo il mio cor tristo,
ma solo a voi ch'in gli altri casi miei
mai sempre fidi secretari ho visto.
Quel che qui dico altrove non direi;
certo so ben che resteran tra nui,
come già mie allegrezze, ancor li omei.
Quella che sì lodar m'odiste, a cui
tanto creder solea, m'ha rotto fede;
per lei sola arsi ed alsi, ma non fui
solo, come al servire, alla mercede.

XIII

Qual son, qual sempre fui, tal esser voglio,
alto o basso Fortuna che mi ruote,
o siami Amor benigno o m'usi orgoglio;
io son di vera fede immobil cote,
che 'l vento indarno, indarno il flusso alterno
del pelago d'amor sempre percuote.
Né già mai per bonaccia né per verno,
di là dove il destìn mi fermò prima,
luoco mutai né muterò in eterno.
Vedrò prima salir verso la cima
de l'alpe i fiumi, e s'aprirà il diamante
col legno o piombo e non con altra lima,
che possa il mio destìn mover le piante,
se non per gir a voi, che possa ingrato
sdegno d'amor rompermi il cor constante.
A voi di me tutto il dominio ho dato;
so ben che de la mia non fu mai fede
meglior giurata in alcun novo stato.
E forse avete più ch'altri non crede,
quando né al mondo il più sicuro regno
di questo, re né imperador possiede.
Quel ch'io v'ho dato anco diffeso tegno;
per questo voi né d'assoldar persona
né di riparo avete a far disegno.
Nessuno o che m'assalti o che mi pona
insidie, mai mi troverà sprovista;
o mai d'avermi vinta avrà corona.
Oro non già, che i vili animi acquista,
mi acquisterà, né scettro né grandezza,
ch'al sciocco vulgo abbagliar suol la vista;
né cosa che muova animo a vaghezza
in me potrà mai più far quella prova
che ci fe' il valor vostro e la bellezza.
Sì ogni vostra manera si ritrova
sculpita nel mio cor, ch'indi rimossa
esser non può per altra forma nova.
Di cera egli non è, che se ne possa
formar quand'uno e quand'altro sugello,
né cede ad ogni minima percossa.
Amor lo sa, che, all'intagliar di quello
ne l'idol vostro, non ne levò scaglia
se non con cento colpi di martello.
D'avorio e marmo ed altro che s'intaglia
difficilmente, fatto una figura,
arte non è che tramutar più vaglia;
e 'l mio cor, di materia anco più dura,
può temer chi l'uccida o lo disfaccia;
ma non può già temer che sia scultura
d'amor ch'in altra imagine lo faccia.

XIV

Di sì calloso dosso e sì robusto
non ha né dromedario né elefante
l'odorato Indo o l'Etiope adusto,
che possa star, non che mutar le piante,
se raddoppiata gli è la soma, poi
che l'ha qual può patir; né può più inante.
Non va legno da Gade ai liti eoi,
che di quanto portar possa non abbia
prescritti a punto li termini suoi.
Se stivato di merce anco di sabbia
più si rigrava e più, si caccia al fondo,
tal che né antenna non appar, né gabbia.
Non è edificio né cosa altra al mondo
fatta per sostentar, che non roine,
quando soperchia le sue forze il pondo.
Non val corno né acciai' di tempre fine
all'arco, e sia ancor quel ch'uccise Nesso,
che non si rompa a tirar senza fine.
Ahi lasso! non è Atlante sì defesso
dal ciel, Ischia a Tifeo non è sì grave,
non è sotto Etna Encelado sì oppresso,
come mi preme il gran peso che m'ave
dato a portar mia stella o mio destino,
e che a principio sì m'era soave.
Ma poi ch'io fui con quel dritto a camino,
l'accrebbe ad ogni passo e l'accresce anco,
tal ch'io ne vo non pur incurvo e chino,
non pur io me ne sento afflitto e stanco,
ma, se di più sol una dramma leve
giunta mi fia, verrò sùbito a manco.
La nave son che assai più che non deve
piena e grave sen va per troppo carco
nel fondo, onde mai più non si rilieve.
Son quello oltra il dover sempre teso arco
che per rompermi sto, non per ferire,
se di tirar l'arcier non è più parco.
Meta è al dolor quanto si può patire;
tal che, ogni poca alterazion che faccia,
lo muta in spasmo, e ne fa l'uom morire.
Stolto serò quando io perisca e taccia
sotto il gran peso intolerando e vasto,
sì che dirò, prima ch'oppresso giaccia,
c'ho fatto oltra il poter, e a più non basto.

XV

Ben è dura e crudel, se non si piega
donna a prometter quanto un suo fedele,
che lungamente l'ha servita, priega;
ma se promette largamente e che le
promesse poi si scordi o non attenga,
molto è più dura e molto è più crudele;
né fermo un sì né fermo un no mai tenga,
pur com'ogni parola che l'uom dice
all'orecchie de' dèi sempre non venga.
E non sa ancor di quanto mal radice
questo le sia, se ben non va col fallo
la pena allor allor vendicatrice;
ma lo segue ella con poco intervallo,
ed ogni cor che qui par sì coperto
transparente è la su più che cristallo.
Promesso in dubbio non mi fu, ma certo
dicesti darmi quel ch'oltra l'avermi
promesso voi, mi si devea per merto.
Se promettendo aveste pensier fermi
d'attener, indi li mutaste, io voglio,
ed ho perpetuamente da dolermi.
Del mio giudicio rio prima mi doglio,
che le speranze mie sparse ne l'onde,
credendomi fondarle in stabil scoglio.
Dogliomi ancor che questo error ridonde
in troppa infamia a voi, perché vi mostra
volubil più ch'al vento arida fronde.
Ma se diversa era la mente vostra
da le promesse, ed altro era in la bocca,
altro nel cor, ne le secrete chiostra,
questo fu inganno, e più dirò, che tocca
di tradimento; ma di par la fede
e per questo e per quel morta trabocca.
A queste colpe ogn'altra colpa cede;
più si perdona all'omicidio e al furto
ch'al pergiurarsi e all'ingannar chi crede.
Né mi duol sì che 'l vostro attener curto
m'abbia sumerso al fondo del martìre,
al fondo onde non son mai più risurto,
come che per vergogna né arrossire,
né segno alcuno per la fede rotta
di pentimento in voi veggio apparire.
La fede mai esser non dee corrotta,
o data a un sol o data ch'odan cento,
data in palese o data in una grotta.
Per la vil plebe è fatto il giuramento,
ma tra li spirti più elevati sono
le simplici promesse un sacramento.
Voi, donne incaute, alle quali era bono
esser belle nel cor come nel volto,
l'un di natura, e l'altro proprio dono,
troppa baldanza e troppo arbitrio tolto
v'avete, e di poter tutte le cose
forse vi par, perché potete molto.
Se da le guance poi cadon le rose,
fuggon le grazie, se riman la fronte
crespa e le luci oscure e lacrimose,
se l'auree chiome e con tal studio cónte
mutan color, se si fan brevi e rare,
de' vostri danni è vostra colpa fonte.
De la vostra beltà che così spare
forse Natura prodiga non fòra,
se voi di vostra fé fusse più avare.
Ma donna in nessun loco, a nessun'ora
d'ordire inganni altrui mai s'ebbe loda,
sia a chi si vuol, né alli nemici ancora.
E chi serà che con più biasmo s'oda
notar, di quel ch'alli congiunti suoi
o di sangue o d'amor cerchi usar froda?
Tanto più a chi si fida. Or chi di noi
eran più d'amor giunti? e chi fidarsi
puote mai più ch'io mi facea di voi?
S'al merito e al demerito aspettarsi
l'uom deve il premio ed il supplicio uguale,
né al punir né al premiar son li dèi scarsi.
Come temo io che ve ne venga male,
se 'l pentir prima e 'l satisfar non giugne
a cassar questo error più che mortale!
S'a voi per mia cagione o macchiar l'ugne,
o vedessi un crin mosso, oimè, che doglia!
Solo il pensarvi me da me disgiugne.
Voi di periglio e me di pena toglia
un pentir presto, un satisfarmi intero;
che sia il debito vostro, e quel ch'io voglia,
ch'a saper abbia altri che voi non chero.

XVI

O vero o falso che la fama suone,
io odo dir che l'orso ciò che truova,
quando è ferito, in la piaga si pone,
or un'erba or un'altra, e talor prova
e stecchi e spini e sassi ed acqua e terra,
che affligon sempre e nulla mai gli giova.
Vuol pace, ed egli sol si fa la guerra;
cerca da sé scacciar l'aspro martìre,
ed egli è quel che se lo chiude e serra.
Ch'io sia simile a lui ben posso dire,
ché, poi ch'Amor ferimmi, mai non cesso
a nuovi impiastri le mie piaghe aprire,
or a ferro or a foco; ed avien spesso
che, cercandovi por chi mi dia aita,
mortifero venen dentro v'ho messo.
Io vòlsi al fin provar se la partita,
se 'l star da le repulse e sdegni absente
potessi risanar la mia ferita,
quando provato avea ch'era possente
trarmi ad irreparabile ruina
a voi senza mercé l'esser presente.
Ché, s'un contrario all'altro è medicina,
non so perché, da l'un pigliando forza,
per l'altro la mia doglia non dechina.
Piglia forza da l'uno e non s'ammorza
per l'altro già; né già si minuisce,
anzi più per l'absenza si rinforza.
Io solea dir fra me: – Dove gioisce
felice alcuno in riso, in festa, in gioco,
non sto bene io, che Amor qui si notrisce. –
E con speranza che giovar non poco
mi devess'il contrario, io venni in parte
dove i pianti e le stride aveano loco.
Il ferro, il foco e l'altre opre di Marte
veder in danno altrui, pensai che fosse
a risanar un misero bona arte.
Io venni dove le campagne rosse
eran del sangue barbaro e latino,
che fiera stella dianzi al furor mosse;
e vidi un morto e l'altro sì vicino,
che, senza premer lor, quasi il terreno
a molte miglia non dava il camino.
E da chi alberga tra Garonna e 'l Reno
vidi uscir crudeltà, che ne devria
tutto il mondo d'orror rimaner pieno.
Non fu la doglia in me però men ria;
né vidi far d'alcun sì fiero strazio
che paregiasse la gran pena mia.
Grave fu il lor martìr, ma breve spazio
di tempo diè lor fin. Ah crudo Amore,
che d'accrescermi il duol non è mai sazio!
Io notai che 'l mal lor li traea fuore
del mal, perché si grave era che presto
finia la vita insieme col dolore.
Il mio mi pon fin su le porte, e questo
medesmo ir non mi lascia, e torna indrieto
e fa che mal mio grado in vita resto.
Io torno a voi, né del tornar son lieto
più che del partir fussi, e duro frutto
de la partita e del ritorno mieto.
Avendo, dunque, de' rimedi il tutto
provato ad un ad un, fuor che l'absenza,
ch'al fin provar m'avea il mio error indutto,
e visto che mi nòce, or resto senza
conforto ch'altra cosa più mi vaglia;
ch'invan di tutte ho fatto esperienza.
E son le maghe lungi di Tessaglia,
che, con radici, imagini ed incanti
oprando, possan far ch'io mi rivaglia.
Io non ho da sperar più, da qui inanti,
se non che 'l mio dolor cresca sì forte
che, per trar voi di noia e me di tanti
e sì lunghi martìr, mi dia la morte.

XVII

O qual tu sia nel cielo, a cui concesso
ha la pietà infinita che rilievi
quantunque vedi ingiustamente oppresso,
li affettuosi prieghi miei ricevi,
e non patir che questa febre audace
quanto oggi è al mondo di bellezza lievi.
Lasso! che già, poi che Madonna giace,
due volte ha scemo ed altro tanto il lume
ricovrato il pianeta che più tace:
sì che sul vivo avorio si consume
quell'ostro, quel che di sua man vi sparse
la dèa che nacque in le salate spume,
e quei begli occhi in che mirando s'arse
le penne Amor, e si scorciò sì l'ale,
ch'indi non poté mai dopo levarse,
muoveno, afflitti dal continuo male,
tanta pietà, che 'l ciel metton sovente
qua giù in dispetto, in odio acre e mortale.
Perché patir debb'ella? Ove si sente
divina o umana legge o usanza alcuna,
che dar pena consenta a una innocente?
Innocente è Madonna, se non d'una
colpa forse, che l'avida mia voglia
sempre ha lasciata oltre il dover digiuna.
S'a me non duole, ad altri non ne doglia;
s'io sol ne son offeso e le perdono,
ingiusto è ch'altri a vendicar mi toglia.
Così quanto di lei creditor sono
del mio leal servir di cotanti anni,
dipenno tutto e volentier le dono.
Né pur la ricompensa de' miei danni
non le dimando, ma per un sofferto
ch'abbia per lei, soffrir vuo' mille affanni.
E s'uom mai s'esaudì che si sia offerto
poner la sua per l'altrui vita, come
quel Curzio che saltò nel Foro aperto;
e Decio e il figlio del medesmo nome,
che tolse de la patria tremebonda
sopra li omeri suoi tutte le some;
o Padre eterno, i miei prieghi seconda:
fa ch'io languisca e che Madonna sani;
fa ch'io mi doglia e torna lei gioconda.
E se morir ne dee (che però vani
sieno li augùri), di morir per lei
supplico, e al ciel ne lievo ambo le mani.
Io, perché esser ancora non potrei
messo all'elezion, messo al partito
che fu già un Gracco e un re de li Ferei?
So ben che 'l miglior d'essi avria seguìto,
quel che a far per Cornelia gire a morte
non bisognò se non il proprio invito.
Odiosa fu la tua contraria sorte,
ingratissimo Admeto, che, alli casti
prieghi inclinando, la fedel consorte
morir per te nel più bel fior lasciasti.

XVIII

Chi pensa quanto il bel disio d'amore
un spirto pelegrin tenga sublime,
non vorria non averne acceso il core;
se pensa poi che quel tanto n'opprime
che l'util proprio e il vero ben s'oblia,
piange invan del suo ardor le cagion prime.
Chi gusta quanto dolce un creder sia
sol esser caro a chi sola né cara,
regna in un stato a cui null'altro è pria;
se poi non esser sol, misero, impara,
e cerca invan come inganar se stesso,
se vita ha poi, l'ha più che morte amara.
Chi non sa quanto agrada esser appresso
a' bei sembianti, al bel parlar soave
che n'ha sì facilmente il giogo messo;
se caso poi più del voler forza ave
che ne faccia ir lontan, si riman carco
di peso più di tutti gli altri grave.
Chi mira il viso a cui non fu il Ciel parco
di grazia ignuna, benedice l'ora
che, per pigliarlo, Amor l'attese al varco;
se come invan risponde al bel di fuora
il mutabil voler di dentro mira,
chi 'l prese biasma e maledice ognora.
Chi non resta contento o più desira,
quando Madonna con parole e sguardi
dolce favor cortesemente spira?
S'avien ch'altrove intenda o non ti guardi,
qual sulfure arde, qual pece, qual teda,
qual Enchelado, sì come tu ardi?
Chi conosce piacer che quello ecceda,
ch'ella ti faccia parer falso un vero
che ti può far morir, quando tu 'l creda?
S'altrui suasione o mio pensiero
mostra poi che gli è pur com'io temea,
si può miracol dir s'allor non pèro.
Chi può stimar il gaudio che si crea
in quei dui giorni o tre quai dopo aspetto
un promesso ristor da la mia dea?
Se diverso al sperar segue l'effetto,
né per lei trovo scusa se non frale,
non so come tal duol capisca il petto.
Chi pensa, in summa, che per quante scale
s'ascende al ben d'amor, per altre tante
poi si ruina, sa ch'è minor male
smontar che, per cader, salir più inante.

XIX

Piaccia a cui piace, e chi lodar vuoi lodi,
e chiami vita libera e sicura
trovarsi fuor de li amorosi nodi;
ch'io per me stimo chiuso in sepoltura
ogni spirto ch'alberghi in petto dove
non stilli Amor la sua vivace cura.
Doglia a chi vuol doler, ch'ove si muove
questo dolce pensier, che falsamente
è detto amar, ogn'altro indi rimuove;
ch'io, per me, non vorrei, se d'eccellente
nèttare ho copia, che turbassi altr'ésca
il delicato gusto di mia mente.
Prema a cui premer vuol, annoi e incresca,
che, se non dopo un'aspra e lunga pena,
raro un disegno al bel desir riesca;
ch'io, per me, so ch'a una allegrezza piena
ir non si può se per difficil via
ostinata speranza non vi mena.
Pensi chi vuol ch'alla fatica ria,
al tempo che in gran summa vi si spende
debil guadagno e leve premio sia;
ch'io per me dico che, se quanto offende
sdegno o repulsa, un sguardo sol ristora,
che fia pel maggior ben ch'Amor ne rende?
Para a cui par che perda ad ora ad ora
mille doni d'ingegno e di fortuna,
mentre il suo intento qui fisso dimora;
ch'io per me, pur ch'io sia caro a quell'una
ch'è mio onor, mia ricchezza e mio desire,
non ho all'altrui corone invidia alcuna.
Ricordisi chi vuole ingiurie ed ire,
e discortese oblii li piacer tanti
che tante volte l'han fatto gioire;
ch'io per me non ramento ignun di quanti
oltraggi unqua potermi arrecar doglia,
e i dolci effetti ho sempre tutti inanti.
Pensi chi vuol che 'l tempo i lacci scioglia
ch'Amor annoda, e che ci dorremo anco
nomando questa leve e bassa voglia;
ch'io per me voglio al capel nero e al bianco
amar ed essortar sempre che s'ami;
e se in me tal voler dee venir manco,
spezzi or la Parca alla mia vita i stami.

XX

Quel fervente desio, quel vero ardore
che diè principio e mezo a' desir mei,
darà ancor fine a' miei stenti e sudore.
Né curo i sospir più, né tanti omei,
né le minacce, ire, téme e paura,
l'abisso, il mondo, il ciel, uomini e dèi:
ché una fondata rocca, alta e sicura,
mi guarda il regno mio, detta costanzia,
che ferro in fuoco a martellar non cura.
Li fondamenti, ove si posa e stanzia,
son di stabilità viva fermezza;
la calce e pietre è sol perseveranzia;
l'inespugnabil mur viva fortezza;
le sue difese, scudi e bastione,
son fé che ogni timore fugge e sprezza.
Regge speranza il mastro torrione
sotto due guardie; una, fedel, chiamata
prudenzia, e l'altra, svegliata, ragione.
Castellano è un amor fermo e provato,
che scorge il tutto; li sergenti èn poi
solliciti pensier, ciascun fidato.
L'artelaria, i sassi e i dardi soi,
è audacia, i parlar pronti e acuti sguardi,
come dicesse: – Accóstati, se pòi. –
Son cocenti desìr quel fuoco che ardi;
polvere ardente il ton che romba in lutto,
resoluti sospir saette e dardi.
Provisto antiveder, sagace, instrutto,
son poi le monizion che d'ora in ora
dà agli inimici alle occorrenzie in tutto.
Li inimici, lo assedio ch'è di fuora,
son gelosia, timor, odio, disdegno,
disprezzo, crudeltà, lunga dimora.
Ma tutte le lor forze e 'l lor disegno
è 'n tagliar d'acqua e in batter d'adamante,
ch'è troppo il castellan provido e degno.
Dunque, con quel pensier fermo e costante
che incominciai la mia amorosa guerra,
con quel seguitarò la impresa inante:
ché una rocca di fé mai non si atterra.

XX

Poich'io non posso con mia man toccarte,
né dirti a bocca il duol che ognor mi accora,
tel voglio noto far con penna e carte.
Doglioso e mesto, pien d'affanni ognora,
meno mia vita afflitta e sconsolata
dal dì che mal per me tu andasti fuora;
chiamo la Morte, e lei non vien, ingrata,
a finire il dolor ch'io porto e sento
per non poter saper la tua tornata.
Tu festeggi in piacere, ed io tormento,
privo di te, che notte e dì ti chiamo:
però di ritornar non esser lento.
Tu m'hai pur preso come pesce all'amo,
misero me! ch'io son condotto a tanto
ch'altro che te non voglio, apprezzo e bramo.
Tu vivi lieto ed in me abbonda il pianto;
tu altri godi ed io te sol aspetto;
di bianco vesti, ed io di negro ho il manto.
Leva tal passion del miser petto;
non aspettar sentir mia crudel morta;
ché crudeltà il Ciel tien in dispetto.
Qualunque batte alla mia casa o porta,
subito corro e dico: – Fors'è il messo
che del mio fino amor nova mi porta.
La notte in sogno teco parlo spesso;
questo è ben quel che mi consuma il cuore:
quando mi sveglio non ti trovo appresso.
Piango li giorni, i mesi, i punti e l'ore
che ti partisti, e non dicesti: – Vale;
misero, oimè! per te vivo in dolore.
Amor crudel con suo pongente strale
m'ha fatto sì che sole, ombra non veggio,
rimedio alcun non trovo al mio gran male;
e tu, crudel, serai cagion di peggio.

XXII

Lasso! che bramo ancor, che più voglio io,
se nulla cosa da voler mi resta,
e son, senza disio, pien di disio?
Amor mi tien pur sempre in gioia e 'n festa;
che brami adunque, disiosa voglia?
che nova cosa è quel che mi molesta?
Io voglio, ma io non so quel ch'io mi voglia;
e volendo mi doglio; ah duro fato,
che senza alcun dolor sempre mi doglia!
So pur ch'io son più lieto e più beato
di quanti amanti fur felici mai,
e sopra modo alla mia donna grato.
So ch'ella m'ama e che m'ha caro assai,
e meco è d'una voglia e d'uno amore,
e possedo quel ben ch'io desiai.
Ma nova voglia ancor resta nel core,
e senza mal provar, provo tormento
con certo non so che lieto dolore.
E benché sia tra li altri il più contento,
più bramo ancor, bench'io nol sappia dire,
e così, più felice e discontento,
s'altro bramar non so, bramo morire.

XXIII

Non è più tempo ormai sperar ch'io pieghi
un'alma altiera, un'indurata spoglia,
con lunga servitù, con lunghi prieghi;
ma ben tempo è sperar ch'un sdegno scioglia
il laccio in che mi prese, e, preso, a lei
mi diede Amor con mia perpetua doglia.
Non è più tempo ch'al bel viso, a' bei
sembianti, all'accoglienze belle io volti
questi inaccorti e crudel occhi miei;
ma ben tempo è mirar che, se raccolti
son i costumi in lei degni di loda,
degni di biasmo ancor ve ne sien molti.
Non è più tempo che 'l parlar dolce oda,
che mai con la intenzion non si conforma,
né tempo è più che di lusinghe io goda;
ma ben tempo è dar fede a chi m'informa
qual sia la falsitade e quale il vero,
e d'ire a miglior via m'insegna l'orma.
Non è più tempo stare in quel pensiero
ch'alto mi leva sì che abbrucia l'ale,
ma poi torna cadendo al luoco vero;
ma ben tempo è pensar quanto sia 'l male,
quanto il bene, e stimar l'utile e 'l danno,
render alla fatica il premio uguale.
Non è più tempo a lei mostrar l'affanno
e domandar mercé, ché mie parole
senza frutto co' venti in aria vanno.
Ma ben tempo è narrarlo a chi console,
e mi curi, e m'insegni a liberarmi;
però ch'al mai remedio esser pur suole.
Non è più tempo che a memoria trarmi
debbia, quando talor parve cortese
d'un dolce sguardo, e degnava parlarmi;
ma ben tempo è mirar l'ore mai spese,
oltraggi, gelosie, tanti martìri,
suo' sdegni ingiusti, e mille e mille offese.
Non è più tempo che per lei sospiri,
e quindi vento alle gonfiate vele
de l'alterezza sua per me s'aspiri;
ma ben tempo è che 'l sospirar rivele
de' giorni persi mi rincresca quanto
non poterne mostrar lungi querele.
Non è più tempo che mie luci in pianto
estinguer lassi, benché fusser quelle
che mia nemica al cor laudavan tanto;
ma ben tempo è servarle infino ch'elle
veggian vendetta, che via il tempo porti
maggior pietade alle manere belle.
Non è più tempo che 'l desir trasporti
mie' passi, che per lei cerchino i témpi,
sale, teatri, vie, campagne ed orti;
ma ben tempo è fuggir da' suoi lumi empi,
pari in effetto a quei del basilisco,
perché più Amor del suo veleno m'empi.
Non è più tempo in stil moderno o prisco
ch'io cerchi che sua fama eterna viva,
ch'alla superbia sua materia ordisco;
ma ben tempo è ch'io pensi, parli e scriva,
di dì, di notte, ove io mi fermi o vada,
quanta causa a mia morte indi deriva:
tal che stia in sella Sdegno, ed Amor cada.

XXIV

Vo navigando un mar d'aspri martìri
in fragil barca, perigliosa e grave,
col vento impetuoso de' desiri.
E voi, che avete del mio cor la chiave,
ma ritenete al fin come vi piace,
qual àncora talor smarrita nave.
Voi m'acquietate, e ritenete in pace
le torbid'onde de l'averso mare,
gonfiato da pensier dubio e fallace;
voi sète il porto del mio navicare,
voi calamita sète e la mia stella,
qual sola seguo e che sempre m'appare.
Voi sola nel furor d'ogni procella
chiamo al mio scampo, e risona 'l bel nome
non men drento del cor che 'n la favella.
Chiàmavi l'alma, e non saprei dir come
siano scolpiti in me tutt'oramai
vostri occhi, vostri modi e vostre chiome.
Da questo viene ancor ch'io me privai,
lasso! del cor e di mia libertate,
dandomi in preda agli amorosi guai.
Ma fui costretto da si gran beltate,
che me stesso ad Amor me diedi 'n dono,
e diedi a voi di me la potestate.
Ma tutto è vostro quel che ad altrui dono,
però ch'alfin tutto vi rende Amore,
né posso esser d'altrui, se vostro i' sono,
tenendo voi la rocca del mio core.

XXV

Sì come a primavera è dato il verno,
così compagna è Gelosia d'Amore,
lui in paradiso e lei nata in inferno;
lui di dolci desir accende il core,
lei d'amaro sospetto poi l'aggiaccia,
e chi vive per l'un per l'altro more.
Lui con speranza mostra lieta faccia,
lei con desperazion trista ti affronta,
lui cerca di piacer, lei che dispiaccia.
Lui quel ch'agrada sol intende e conta,
lei rapresenta sempre offesa e scorno,
lui sempre al ben, lei sempre al mal fu pronta.
Lui voria pace aver la notte e 'l giorno,
lei di guerra è solicito instrumento,
lui cieco gode, lei mira ogni 'ntorno.
Lui riso e ioco porta fuori e drento,
lei con severo pianto accende l'ira,
lui nutrisce piacer, lei doglia e stento.
Lui pur a vita riposata aspira,
lei sempre il corpo e l'anima afatica,
lui dolce mèl, lei crudo assentio spira.
Lui di pensier soavi si nutrica,
lei di cogitazioni aspre s'aviva,
lui di certezza, lei di dubio è amica.
Lui promette sicuro porto e riva,
lei naufragio crudel, non sol iactura,
lui di tristizia e lei di gaudio priva.
Lui con diletto i sensi e spirti fura,
lei con affanno incarcera la mente,
lui conclusion, lei confusion procura.
Lui d'un glorioso incepto non si pente,
lei mille fiate al dì vole e non vole,
lui tenerezza, lei durezza assente.
Lui proferisce sol dolci parole,
lei crudi accenti in ogni parte efonde,
lui di mal far, lei del ben far si dole.
Lui il so' diletto quanto pò nasconde,
lei vaga è di mostrar il suo cordoglio,
lui siegue il mezo e lei cerca le sponde.
Io per me in pace tutto il fèle accoglio
di questa vipra, tanto stimo un sguardo
di quella per cui moro, e non mi doglio.
Confesso ben che un amoroso guardo
tanto di quel venen mortal diventa,
sì che poi vène ogni rimedio tardo.
Non so come ogni cor non si spaventa,
come alcun dura in amorosa corte,
quando il furor di questa si ramenta,
onde s'amorta vita e aviva morte.

XXVI

Or che la terra di bei fiori è piena,
e che gli augelli van cantando a volo,
il mar s'acquieta e l'aria s'asserena;
io, miser! piango in questi boschi solo,
e notte e giorno e dal mattino a sera,
e la mia vita pasco sol di duolo.
Per me non è né mai fu primavera,
ma nebbia, pioggia, pianto, ira e dolore,
dopo ch'io 'ntrai ne l'amorosa schiera.
Non so se palesar ancor l'ardore
debba o tenerlo pur nel petto ascoso,
per non far crescer sdegno al mio signore;
ma già drento e di fuor ha tanto roso
la fiamma, che tutt'ardo, e più non posso
trovar al mio languir pace o riposo.
Più non ho sangue in vena, e meno in osso
medolla alcuna, né color in volto:
tanto fortuna e 'l ciel m'hanno percosso.
Però col mio parlar a voi mi volto,
fiori, erbe, fronde, selve, boschi e sassi,
poich'ogni altro auditor Amor m'ha tolto.
Voi testimoni sète quanti passi
errando feci in queste vostre rive
coi piedi stanchi, tormentati e lassi.
Fiumi, torrenti, e voi, fontane vive,
sapete le mie pene, stenti e guai,
e quant'umor dagli occhi miei derive.
E tu, soave vento, che ne vai
per queste fronde, sai quanti sospiri
e quanti gridi verso il ciel mandai.
Fera non è che quivi intorno giri
che non sappi 'l mio stato e l'esser mio,
l'angustie, le fatiche e li martìri.
O cieli, o fato, o destìn aspro e rio
sotto cui nacqui; o dispietata stella,
com'ognor sei contraria al mio disio!
O Fortuna perversa, iniqua e fella;
o Amor crudel e d'ogni mal radice,
ben stolto è chi dà orecchie a tua favella!
Tu dimostrasti farmi il più felice
che mai si ritrovasse tra li amanti,
per farmi po' in un punto il più infelice.
Non son nel regno tuo perle o diamanti
che non sian pieni di pungenti spine,
date per premio di sospiri e pianti.
Qual lingua potria dir mai le ruine
che per te già son state, e quante gente
per tua cagion son giunte a miser fine?
Per te si ritrovò Troia dolente;
per te cangiossi Dafne in verde alloro,
de la cui doglia ancor Febo ne sente;
per te Piramo e Tisbe sotto 'l moro
con le sue proprie man si dier la morte;
per te Pasife si congiunse al toro;
per te Dido, costante, ardita e forte,
passossi 'l petto nel partir di Enea;
per te Leandro giunse a trista sorte;
per te la cruda e rigida Medea
occise il suo fratel; ed altri mille
per te sentirno pena acerba e rea.
Non escon d'Etna fuor tante faville,
quanti son morti per tuo mal governo,
né dà tant'erbe aprile a prati e ville.
Il tuo non è già regno, ma uno inferno
ove sempre si piange e si sospira,
ove si vive con affanno eterno.
Non ti meravigliar se son pien d'ira,
s'io mi lamento, signor impio e crudo,
ch'a dirti 'l ver ragion mi sforza e tira.
Tu me legasti a un arbor verde e nudo,
ch'in sé non avea ancor vigor né possa;
al qual fui per diffesa sempre scudo
a ciò non fusse sua radice mossa
per freddo o caldo, per tempesta o vento,
o da folgor del ciel fiaccata o scossa.
Sempre vi stava con ogni arte intento,
con ogni ingegno e forza lo nutriva,
e del suo frutto me tenea contento.
Ma poi che 'l crebbe e in sino al ciel fioriva,
e che del frutto avea qualche speranza,
altri l'accolse, e fu mia mente priva.
Quest'è il costume tuo, quest'è l'usanza,
fallace Amor; però in pianto destino
fornir il breve tempo che m'avanza,
e per il mondo andar qual peregrino,
maledicendo te del mal ch'io porto,
fin che morte interrompa il mio camino.
E s'alcun mai trovasse 'l corpo morto,
prego ciascun che 'l lassi sopra terra,
ché, poi che in vita fui senza conforto,
dopo morto con fère abbi ancor guerra.

XXVII

Arsi nel mio bel foco un tempo quieto,
ed or mutato veggio, acerba e fella
mia benigna fortuna e 'l viver lieto.
E più e più duol la mia contraria stella
mi suol mostrar: ch'è l'alma ad ora ad ora
più feroce ver' me sempre e più bella.
Se pur biasmar il dì penso talora
suo finto ardor o sua rara mercede,
tanto cresce 'l disio che m'innamora.
O miser chi troppo ama e troppo crede!
ben ch'in credenza tal sol m'abbi indutto
infinita bellezza e poca fede.
Del mio servir è 'l premio doglia e lutto,
e veggio col servir posto in oblio
mia speme in sul fiorire e sul far frutto.
Taccio o dirò 'l furor de l'ardor mio?
De sì, de no: ahi sconsolata vita!
Intendami chi può, ch'io m'intend'io.
Ahi! senza stato Amor, cosa inaudita;
ahi! destìn fero; ahi! leggi oblique e torte;
védem' arder nel fuoco, e non m'aita.
Ma ben che l'empia e cruda acerba sorte
abbi del mio gioir ogni ben spento,
sappia 'l mondo che dolce è la mia morte.
Nessun mai più di me visse contento,
or vivo fuor di vita e di riposo.
Quante speranze se ne porta 'l vento!
Placar io cerco 'l duol nel petto ascoso
col mesto suon di mie rotte parole:
tanto gli ho a dir che cominciar non oso.
Sovente il giorno 'l cor vole e disvole
spenger l'ardor, e sospirando i' dico
che più nol sento, ed è non men che suole.
E mentre così lasso i' mi affatico,
veggio cieco furor, ahi! voglia insana:
proverbio «Ama chi t'ama» è fatto antico.
Se pur la chiamo, ognor sorda e inumana,
crudel e ingrata apo domini e dèi,
piaga per allentar d'arco non sana.
Or bramo di mirarla, or non vorrei;
né 'l mal ch'io sento in ogni fibra ed osso
potria cangiar un sol dei pensier miei.
Or la vorria seguir senza esser mosso,
or la vorria lasciar senza languire,
e per più non poter, fo quant'io posso.
Se talor penso al mio lungo martìre,
che non mi uccide, io dico: gli è pur vero
che ben può nulla chi non può morire.
Ahi! dolce error vòlto in un van pensiero,
che notte e dì co' miei desir vaneggi,
che grida meco poi ch'altro non spero:
Ben non ha il mondo che 'l mio mal pareggi.

EGLOGHE

I

Interlocutori: TIRSI e MELIBEO

TIRSI
Dove vai, Melibeo, dove sì ratto,
or che da' paschi erbosi alle fresche onde
col gregge anelo ogni pastor s'è tratto;
or che non pur crolar vedi una fronde,
or che 'l verde ramarro all'ombra molle
de la spinosa sepe si nasconde?
Non odi che risuona il piano e il colle
del canto de la stridula cicada?
non senti che la terra e l'aria bolle?
MELIBEO
Tirsi, qualor bisogna andar, si vada;
né si resti per caldo né per gelo,
né per pioggia né grandine che cada.
Anch'io saprei sotto l'ombroso velo
d'un olmo antico o d'un fronzuto faggio
godermi sin che si temprasse il cielo;
ma più che vinti miglia ho di viaggio,
e qui, prima che sia l'ora di aprire
alle lanose torme, a tornare aggio.
Mopso non longi mi dovria seguire:
ch'ambi a condurre andiam pecore e boi
che Titiro a Fereo solea notrire.
TIRSI
Comprili tu, che gli abbiano esser tuoi?
o pur di Mopso? o pur altri t'invia,
forse più ricco spenditor di voi?
MELIBEO
Io so ben che tu sai che né la mia
né la condizion di Mopso è tale
ch'abbi a pensar che per noi questo sia.
Tanto di chi ne manda il poter sale,
che dietro lui la nostra umil fortuna
a mille gradi non pò batter l'ale.
Mandaci Alfenio; Alfenio è che raduna
ciò ch'esser di Fereo prima solea,
campo, pasco, orto, ovil, bosco e lacuna.
Così, s'al pensier l'opra succedea,
Fereo non a lui solo e mandre e ville,
ma, quel ch'è più, la vita tòr volea.
E cadean con Alfenio più di mille,
e davamo ancor noi forse in le reti,
se Fereo le tendea ben come ordille.
Io ho da dirti mille altri secreti
da far te uscir di te; ma quella fretta
che gir mi fa, mi fa tenerli cheti.
TIRSI
Sin che sia giunto Mopso almeno aspetta;
intanto quel che po' narrar mi narra,
e stianci qui su questa fresca erbetta.
Se 'l fai, ti do la fede mia per arra
di star un giorno intègro a tuo comando
o vogli con la falce o con la marra.
MELIBEO
Villan sarei s'io te 'l negasse, quando
mi preghi tanto; ma non stiam qui fermi:
gli è meglio passo passo andar parlando.
TIRSI
Non so a cui possa o debbia fede avermi,
se con quei che ci son tanto congiunti
non possiam star securamente inermi.
MELIBEO
Li mal consigli che v'ha Iola aggiunti
a quella cupidigia di Fereo
i molli fianchi han stimulati e punti.
Ma che sia Iola d'ogni vizio reo
meraviglia non è, ché mai di volpe
nascer non viddi pantera né leo.
Egli ha cui simigliar de le sue colpe,
ché la malignità paterna ha inclusa
ne l'anima, ne l'ossa e ne le polpe.
TIRSI
Nol partorì ad Eraclide Ardeusa,
nascosamente compressa da lui
ne li secreti lustri di Padusa?
MELIBEO
Così fu mai d'Eraclide costui
come sono io d'un asino o d'un bue:
nacque nel suo, ma il seme era d'altrui.
Emofil, tra' pastori orrida lue,
più giotto a' latronecci ed omicidi
ch'al pampino le mie capre o le tue,
fe' come il cucco l'ova in gli altrui nidi,
avendo dal patron la ninfa in cura:
miser pastor che l'agna al lupo affidi!
Contempla le fatezze e la statura
di Iola, ed indi Emofil ti racorda,
e così il ramo all'arbor rafigura.
Pon mente come l'un con l'altro accorda
l'invida mente e l'ostinata rabbia,
d'oro, di sangue e d'adultèri ingorda.
TIRSI
Non perché da te solo inteso l'abbia,
ma per spiarne tutta tua credenza,
fingendo ammirazion strinsi le labbia.
Udito l'ho da più di dieci, senza
l'ancilla de la giovena; or tu vedi
s'io 'l so, se per udir se n'ha scienza.
Ma lascia Iola ed all'inganno riedi;
e come me n'hai móstro il capo e il petto,
fa ch'io ne veda ancor le braccia e' piedi.
Che altri aveano a questa impresa eletto
io vedo, ché dui soli erano pochi
a dare a tanta iniquitate effetto.
MELIBEO
Il comodo che aveano in tutti i luochi
d'Alfenio, come quei ch'erano seco
sempre in convivi, in sacrifici, in giochi,
fe' che vidde Fereo, con occhio bieco,
che pochi più bastavan, con breve arme,
a mandarlo cultor del mondo cieco.
E non pur lui, ma che pensasse parme
occider gli altri dui suoi frati insieme,
per quanto da chi 'l sa posso informarme.
TIRSI
Oh desir empio! oh scelerata speme
ch'al nefario pensier Fereo condusse,
di spegner tre con lui nati d'un seme!
Dirai ch'egli d'Eraclide non fusse
se ne la ripa di Sebeto amena
la castissima Argonia gliel produsse?
MELIBEO
E il vero a forza a non negar mi mena,
né stran mi par, quando d'eletto grano
il loglio nasca e la steril avena.
Ma perché chiesto tu non m'abbi invano
chi altri al tradimento è che prestasse
favor o col consiglio o con la mano:
al canuto Silvan gran colpa dasse,
al gener più, che quasi per le chiome
il ribambito suocero vi trasse.
L'altro non so se Boccio è detto o come;
Gano è l'estremo, anzi il primiero in dolo,
a cui forse era Ingan più proprio in nome.
TIRSI
Che Gan sia in colpa, ho più piacer che duolo;
perché fra tanti uomini del mondo
m'era, né so la causa, in odio solo:
se però parli d'un carnoso e biondo
che solea Alfenio tra' suoi cari amici
stimar più presto il primo che 'l secondo.
MELIBEO
Io dico di quel biondo che tu dici,
come nel corpo d'ésca, sonno ed ocio,
così grasso ne l'anima di vici;
di quel che di vil servo fatto socio
aveasi Alfenio, e facea cosa raro
senza lui, di piacere o di negocio.
Comperollo già Eraclide, e tal paro
ho di boi di più prezzo che non ebbe
colui che gliel vendé, quantunque avaro;
a cui di sua ricchezza non increbbe;
e con publica invidia odi parlarne,
ma 'l fine arà ch'a sua vita si debbe.
Spero veder la sua putida carne
pascer i lupi, e l'importuni augelli
gracchiarli intorno, e scherno e stracio farne.
TIRSI
Come si son così scoperti, s'elli
non eran più? Perc'han tardato farlo,
s'aveano ognora i comodi sì belli?
MELIBEO
Fereo fu come il sorco o come il tarlo,
che nascoso rodendo fa sentirse
da chi non avea cura di trovarlo.
Tacendo ne potea libero girse,
ma 'l timor ch'egli avea d'esser scoperto
fu tanto ch'egli stesso andò a scoprirse;
e rende a' suoi seguaci or questo merto,
che tratti gli ha come pecore al chiuso,
e poi la notte al lupo ha l'uscio aperto.
Né meno ancor fu dal timor confuso
quantunque volte per conchiuder venne
con l'opra quel ch'avea il pensier conchiuso;
onde sin qui tra ferro e tòsco indenne
è giunto Alfenio, mercé quel vil core
che la man pronta sul ferir ritenne.
Siamo adunque obrigati a quel timore
che dal ferro difese e dal veneno
la nostra guardia e 'l nostro almo pastore.
Come è nostro pensier ch'ora abbia fieno
e stalla il gregge, ora salubri paschi,
e quando fiume o canal d'acqua pieno,
così gli è cura sua che non si caschi
in peste, in guerra, in carestia, che 'l grande
del minor le fatiche non intaschi.
Hai sentito ch'alcun mai gli dimande
cosa che iusta sia, che da sé vuoto
o poco satisfatto lo rimande?
TIRSI
Io credo che già a quel chiedere a vòto
più non si pò, né dal patre traligni,
a cui fui, sua mercé, come a te noto.
Lodando il figlio, Eraclide mi pigni,
del quale io, sebben nato ed uso in boschi,
trovai gli effetti in me tutti benigni.
MELIBEO
Oltra che umano sia, vuo' che 'l conoschi
pel più dotato om che si trovi, e volve
gli Ombri, gl'Insubri, li Piceni e Tóschi.
Che saggio e cauto sia, te ne risolve
questo, ch'al varco abbia saputo accòrre
quei ch'aver sel credean sotto la polve.
Chi sa meglio espedir, meglio disporre
quel che conven? Non è intricato nodo
che l'alto ingegno suo non sappia sciorre.
Qual forte 'sbergo è del suo cor più sodo?
a cui Fortuna far pò mille insulti,
ma non che sia per sminuirne un chiodo.
Vedi tu in altri costumi sì culti?
Gli po' tu in sì vil cosa esser cortese,
ch'amplissima mercé non ti risulti?
Hai tu sentiti i ladri nel paese,
di che prima solea dolerse ognuno,
poscia ch'egli di noi custodia prese?
Mira che qui pò quel che pò nessuno,
né però vuol conceder contra il iusto
cosa a sé che negata abbia ad alcuno.
Io non ti lodarò l'aspetto augusto,
né quell'altro che fuor vedi tu stesso,
il corpo alle fatiche atto e robusto.
TIRSI
Quanto è miglior, tanto più grave eccesso,
e meritevol di maggior supplicio
chi ha cercato occiderlo ha commesso.
MELIBEO
Ben si pò dir che 'l Ciel ne sia propicio:
che non pur d'un, di tre, di quattro ed otto,
ma vetato abbia un gran publico essicio.
Una tanta roina e sì di botto
non è quasi possibil che si spicchi,
che molta turba non v'accoglia sotto.
Prima ai nimici, e poi veniano a' ricchi,
fingendo novi falli e nòve leggi,
perché si squarti l'un, l'altro s'impicchi.
Ch'era di ciò cagion credo tu 'l veggi:
per non pagar del suo gli empi seguaci,
ma de li solchi altrui, de li altrui greggi.
Veduto aresti romper tregue e paci,
surger d'un foco un altro e di quel diece,
anzi d'ogni scintilla mille faci.
Qual cosa non faria, qual già non fece
un popular tumulto che si trove
sciolto, ed a cui ciò ch'appetisce lece?
TIRSI
Queste son strane e veramente nòve
nuove che narri, e viemmene un ribrezzo
che 'l cor m'aggiaccia e tutto mi commove.
Deh! se dovunque vai trovi aura e rezzo,
che credi tu ch'avria fatto la moglie,
se 'l caro Alfenio tolto era di mezzo?
MELIBEO
Come tortora in ramo senza foglie,
che, poi ch'è priva del fido consorte,
sempre più cerca inasperar le doglie.
TIRSI
Sarebbe stato, appresso il caso forte
del iusto Alfenio, e quella orrenda e vasta
ruina che traea con la sua morte,
gran duol veder che la sua donna casta,
saggia, bella, cortese e pellegrina,
in stato vedovil fusse rimasta.
Io me trovai dove in dui rami inclina
il destro corno Eridano e si dole
che tanto ancor sia lungi alla marina.
Godease la lucertola già al sole,
e' pastorelli in le tepide rive
ivan cercando le prime viole,
quando in manere accortamente schive
giunse Licoria in mezo onesta schiera
di bellissime donne, anzi pur dive;
dove sposolla Alfenio, ove l'altèra,
pomposa e mai non più veduta festa
il padre celebrò, ch'ancor vivo era.
Io vidi tutte l'altre, e vidi questa,
or sole ad una ad una, e quando in coro,
e quando in una e quando in altra vesta.
Quale è il peltro all'argento, il rame all'oro,
qual campestre papavero alla rosa,
qual scialbo salce al sempre verde alloro,
tale era ogn'altra alla novella sposa;
gli occhi di tutti in lei stavano intenti,
per mirarla obliando ogn'altra cosa.
Quivi di Ausonia tutta i più eccellenti
pastori eran; quivi era il fior raccolto
de le nostrali e de l'estrane genti.
Tutti la singular grazia del volto,
le liggiadre fattezze, il bel simbiante
e quel celeste andar laudavan molto.
Ma chi noticia avea di lei più inante,
estollea più l'angelica beltade
de l'altissimo ingegno e l'opre sante.
Davano a lei quella inclita onestade
che giunta con beltà par che si stime
al nostro tempo ritrovarsi in rade.
Locava, fra le gloriose e prime
virtuti d'ella, il grande animo, sopra
il femenil contegno alto e sublime.
Onde esce quella degna ed util opra,
la qual non pur nei boni irraggia e splende,
ma ne li iniqui par che 'l vizio copra:
parlo de la virtù che dona e spende,
in che fulge ella sì che d'ogn'intorno
i raggi vibra, e i prossimi n'accende.
Tant'altre laude sue dette mi fòrno,
che pria che ad una ad una fuor sian spinte,
temo che tutto non ci basti un giorno.
MELIBEO
Son queste cose indarno a me depinte:
ché, se per l'altrui dir tu note l'hai,
io per esperienza le ho distinte.
Ma volta gli occhi, e là Mopso vedrai,
sì che non poter star più teco dolmi,
onde conchiudo brevemente ormai:
che come ben confan le viti e gli olmi,
confanno i dui consorti, e Dio gli scelse
maggior degli altri, quanto tra gli colmi
de l'umil case escon le torri escelse.

II

Mentre che Dafni il grege errante serba
ove Rimaggio scorre, e Filli a lato,
scegliendo fior da fior, li sede in l'erba,
Sarchio piangea il lacrimabil fato
del fiorentin pastor, che dagli armenti,
come candido cigno, è al ciel volato.
Dicea: – Almo Dameta, quai lamenti
per questi ombrosi faggi oditi fòrno,
qual tra le selve lo spirar de' venti,
quando i rapidi fiumi raffrenorno
l'usato corso, e preser varie forme
le ninfe ch'a te amiche erano intorno!
De la tua morte pianse ogn'orso informe,
e di ciò testimon ne sono i monti
e i marmi ove la spoglia tua si dorme.
Né più gustar le grege i chiari fonti,
né il citisco le capre o i salci amari,
vedendo in erba i figli lor defonti.
Crudel le stelle, i fati empi ed avari
Manto, abbracciando le tue care spoglie,
chiamò, né più diede agni ai sacri altari.
Né più d'arangi ornò, né d'altre foglie
i templi pastoral né di verbena,
ma disfogò piangendo le sue voglie.
Moiano i cedri in ogni piaggia amena
che 'l chiar Benaco d'ogn'intorno cinge,
e disperga l'odor che l'aura mena.
E tutti i gigli che 'l terren dipinge
moiano in erba, e secchi l'amaranto
con quel che nel suo fior il nome pinge.
Né più rida negli orti il lieto acanto,
né le viole al matutino sole
spargano al ciel l'odor soave tanto.
Quanto del tuo partir Mincio si duole!
In mezo de l'aflitte pecorelle
ti chiama da le valli argute e sole.
Uscite ormai, uscite, pastorelle,
dal vostro albergo, ed ombra fate a' fonti
che d'anno in anno ognor si rinovelle.
Ma tu, pria che da noi il sol tramonti,
scendi da l'aureo ciel, felice spirto,
e raconsola i tuoi da questi monti.
Vien, godi l'ombre usate del bel mirto
che sopra il tuo mortal stassi pendente;
vien, serba il grege nostro umil ed irto.
Come onor fosti al mondo, la tua gente
riguarda, e la tua prole bella e rada
fa ch'a tuo essempio al ciel alzi la mente,
acciò, mentre di timo e di rugiada
si pasceranno e di celesti odori,
fìeno satolle l'api e la cicada.
Sempre le lodi tue, sempre gli onori,
se verno fia al sol, s'estate all'ombre,
risuonin le sampogne de' pastori;
né tempo fia che 'l tuo bel nome adombre.

 


Cerca Nel Sito
Search in This Site


Opodo | Meridiana | eDreams | Lastminute | Octopustravel | TUI | Alitalia
Unicredit - Interbooks Fastweb - Interbooks Better - Interbooks elettrodomestici, regali, elettronica, cellulari, smarthphone, tv, fotocamere, frigoriferi, lavatrici Pubblicità su www.interbooks.eu - Interbooks Pubblicità su www.interbooks.eu - Interbooks