Nel tempo ch'ogni fronde lascia el verde
e prende altro color e 'mbiancon tutti
gli àlbori e poi ciascun sue foglie perde;
e 'l contadin con atti rozzi e brutti,
ch'aspetta el guiderdon d'ogni suo affanno,
vede pur delle sue fatiche e frutti;
e vede el conto suo, se 'l passat'anno
è stato tal che speranza gli dia
o di star lieto o di futuro danno;
e Bacco per le ville e 'n ogni via
si vede a torno andar, col cui aiuto
vo' a quest'opra el suo principio sia;
avendo fuor della mia terra auto
per alcun dì, come addivien, diporto,
e ritornando ond'io ero venuto;
per fare el cammin mio più destro e corto
(ché sempre, credo, fu somma prudenza,
chi può pel diritto andar, fuggir el torto);
ritornav'io verso la mia Fiorenza,
per riveder la mia alma cittade,
per la via ch'entra alla porta a Faenza;
di gente tanta, ch'io non ho ardire
di saper ben contar la quantitade.
Di molti el nome arei saputo dire,
perché d'alcun avea qualche notizia
ma non sapea quel che gli facess'ire.
Conobbine un col qual grande amicizia
tenut'avea gran tempo, e da fantino
lo conoscea nella mia puerizia.
A lui mi volsi e dissi: «O Bartolino,
qual cagione ha e te e gli altri mossi
a pigliar così 'n fretta tal cammino?
Qual voglia vi conduce, saper puossi?
Férmati un poco e fa' che mi sia detto».
E lui alle parole mie fermossi.
Non altrimenti a parete uccelletto,
sentendo d'altri uccelli e dolci versi,
sendo in cammin, si volge a quello effetto:
così lui, bench'a pena può tenersi,
ché gli parea el fermarsi fatica,
ché non s'acquista in fretta e passi persi.
«Quel che tu vuoi convien ch'alfin ti dica,
benché l'andar sia in fretta, come vedi,
per la cagion ch'a presso a te si esplìca.
Tutti n'andian verso el Ponte a Rifredi,
ché Giannesse ha spillato un botticello
di vin, che presti facci e lenti piedi!:
tutti n'andiamo in fretta a ber con quello,
quel ci fa sol sì presti in sulla strada
e veloce ciascun più ch'uno uccello.
E un pezzo è già che Marco della Spada
e 'l Basa con la lor gaglioffa furia
son giunti là e non istanno a bada.
Mai non vedesti la maggior ingiuria,
ché promesso m'avien menarmi seco,
ch'è la cagion che così or m'infuria.
Costor non guardan più trebbian che greco,
e non so com'a bere egli abbin faccia,
e del mangiar i' non lo vo' dir teco.
Lascia pur lo seguir l'antica traccia,
ch'io so che la vendetta i' n'ho a vedere,
e un di lor ha già la gamberaccia».
«O Bartol mio, chi vegg'io là a sedere,
- comincia' io - là presso al Romituzzo?».
E egli a me: «È uom che vuol godere.
Se vuo' veder come el vin gli fa puzzo,
mostrar tel vo' per una cosa sola,
che gli fu posto nome l'Acinuzzo.
Le secche labra e la serrata gola
ti mostron quanto questo el vin percuote,
ch'a pena può più dir una parola».
«Colui chi è, c'ha sì rosse le gote?
E' dua con seco con lunghe mantella?».
E egli: «Ognun di lor è sacerdote.
Quel ch'è più grasso è 'l piovan dell'Antella:
perché ti paia straccurato in viso,
ha sempre seco pur la metadella.
L'altro, che drieto vien con dolce viso,
con quel naso appuntato, lungo e strano,
ga fatto anco del ber suo paradiso.
Tien degnità, ch'è pastor fesulano,
e ha 'n una sua tazza devozione
e ser Anton seco ha, suo cappellano.
Per ogni loco e per ogni stagione
sempre la fida tazza seco porta,
non ti dic'altro, sino a processione.
E credo questa fia sempre sua scorta:
quand'egli muterà paese e corte,
questa sarà chi picchierà la porta;
questa sarà con lui dopo la morte,
e messa seco fia nel monimento,
acciò che morto poi lo riconforte.
E questo lascerà per testamento.
Non l'hai tu visto a procession, quand'egli
ch'ognun si fermi fa comandamento?
E canonici chiama sua frategli,
tanto che tutti intorno gli fan cerchio;
e, mentre lo ricuopron co' mantegli,
lui con la tazza al viso fa coperchio».
per quel vedevo e udivo occupato,
mi stavo quasi a guisa d'uom che sogna;
quando mi sopragiunse qui da lato
un che per troppo ber era già fioco;
conobbil presto, perch'era sciancato;
allor mi volsi e dissi: «Ferma un poco,
o tu, che vai veloce più che pardo;
férmati alquanto meco in questo loco!».
E lui fermò el suo passo e fece tardo,
come caval ch'è punto e sia restio;
ond'io dissi: «Ben venga Adovardo!».
E lui: «Già Adovardo non son io,
ma son la sete, più singular cosa,
che data sia agli uomini da Dio,
più cara, eletta, degna e preziosa:
e or qui nasce una sottil dispùta
e un bel dubbio in questo dir si posa.
Se 'l ber caccia la sete, ch'è tenuta
sì dolce cosa, adunque el ber è male;
ma 'n questo modo poi ell'è soluta;
mai non si sazia sete naturale
come la mia, anzi più si raccende
quanto più béo, com'io beessi sale;
e com'Anteo le sue forze riprende
cadendo in terra, come si favella,
la sete via dal ber più sete prende;
e perché l'acqua della feminella
spegne la sete, per giucar più netto,
acqua non béo, per non gustar di quella.
Lasciamo andare, in questo è 'l mio diletto,
per qual contento son, lieto e giocondo:
egli è 'l mio sommo ben, solo e perfetto
e quando non sarò più sitibondo
daretemi d'un mazzo in sulla testa,
se manca quel per ch'io son visso al mondo».
A pena udir potessi da lui questa
parola, ch'esser solea sì feroce;
e Bartol cominciò, come lui resta:
«Lasso! dove lasciato ha' tu la voce?».
Lui soggiunse a fatica: «A San Giovanni
l'esser suto rettor tanto mi nuoce.
Chi si potre' tener che non tracanni
di que' trebbiani? E di quel ch'i' ho fatto
non me ne pento, benché 'n questi affanni.
Poca ve ne portai e men n'ho tratto;
e s'io morissi ben, non me ne pento,
non me ne pento, el dico un altro tratto.
Morir nell'arte mia io son contento,
ch'un bel morir tutta la vita onora».
Poi più non disse e vanne com'un vento.
Un altro drieto a lui conobbi allora,
che par che debba andar di questo a pari,
ché se costui non bee, questo ristora.
Litiginoso e' cape' bianchi e rari,
a lui mi volsi e dissi: «O Grassellino,
che se' l'onor della casa Adimari,
tirati a tal viaggio amor di-vino?».
E egli a me: «Non aver maraviglia,
perch'io farei molto maggior cammino
un passo mi sarebbon cento miglia;
ogni fatica è spesa ben per questo».
Più non disse e seguì l'altra famiglia.
Ond'io a Bartol mio: «Guardian quel resto.
Dimmi: chi è costui e di qual gente,
a cui par che l'andar sia sì molesto?».
E egli a me: «Costui è mio parente,
non conosci tu Papi? Or ve' che ride;
guarda come e' ne vien allegramente.
Costui per sé e un compagno uccide;
e colui che vien drieto, alle frontiere,
e la palandra, per ir ratto, intride,
noi siàn d'accordo darli le bandiere,
come maestro ver dell'arte nostra:
questo se gli convien, ch'è cavaliere;
già dilettossi e ebbe onor in giostra,
egli è 'l tuo Pandolfino, milite degno,
che or suo gagliardia al ber dimostra».
Io feci onore e riverenza al segno,
cavandomi di testa la berretta,
e lui passò come spalmato legno.
E eccoti venir un molto in fretta,
sanza niente in testa e pel calore
non porta né cappuccio né berretta.
«Chi è costui che vien con tal furore
ratto, che ne va quasi par che trotte?».
E egli: «È Anton Martegli, al tuo onore.
Ve' gote rosse e labre asciutte e 'ncotte
e 'l suo naso spugnoso e pagonazzo:
non cura fiaschi, carratelli o botte.
Non ti ricorda del grande stiamazzo,
ch'e' fece un tratto per la fiera a Prato,
quando tolto gli fu di starne un mazzo?
Chi gli togliessi e la roba e lo stato,
sappi che la metà non se ne cruccia,
che quando simil' cose gli è rubato».
«Chi è costui che par ebro, bertuccia
che 'mpaniat'ha l'un e l'atr'occhiolino?».
E egli a me: «Gli è pur di quella buccia.
Quest'è di Bianco el nostro Simoncino,
che cominciò già per buffoneria,
or gnene dà da ritto e da mancino.
Piace in modo a costui la malvagia
e ritrovarsi in gozzoviglia e 'n tresca,
che n'ha lasciato già la senseria».
«Chi è colui che 'n mano ha quella pesca
e per piacer talor sì se la fiuta,
benché naso non ha ond'odor esca?».
«Quel che tu di' è sarto e detto è 'l Zuta,
che bere' sol col naso una vendemmia:
sia che si vuol, ché nulla non rifiuta.
A el paese nostro è una bestemmia
la sete che quest'ha nelle mascella,
e sai che d'ogni sorte e' ne vendemmia.
Quando beuto gli ha, tanto favella,
che vien a noia a chiunche intorno l'ode,
tant'ogni sua parola è pronta e bella.
S'avvien ch'al Ponte oggi questo s'approde,
credo ch'al ber farà sì gran procaccio,
che convien ch'al tornar un baril frode.
Lascial con gli altri andar questo porcaccio;
egli è con lui del Candiotto el Tegghia:
tanto quest'ama che lo mena a braccio,
e berre' quel ch'egli ha 'n bottega a vegghia».
e perché il tempo passa e non aspetta,
si volse a me, dicendo: «Io vo' partire».
E io a lui: «Deh, lascia tanta fretta!
Deh, dimmi un poco ancor che gente è questa,
finch'io conosca el resto della setta.
Chi è quel ch'a quella berretta in testa
e che 'l cappuccio porta in sulla spalla?».
E lui: «La vista sua tel manifesta.
Ve' come lieto vien, che nel vin galla;
è Bertoldo Corsin che m'innamora,
tanto e sì ben al suon del bicchier balla.
Quando beuto ha ben, piscia una gora,
ch'io credo ch'un mulin macinerebbe;
ve' 'l suo figliuol, che con lui vien, ancora.
Questo, come da' suoi primi anni crebbe,
dette presagio ver della sua vita,
che beitor e goditor sarebbe.
Dice el padre ch'a ber e' lo rinvita,
e non ti potrei dir quanto contento
egli ha di questo, e al ben far lo 'nvita».
«Chi è quel c'ha un mento sotto el mento
e non mi par che sia nella spezie etica?».
E lui: «È lo Scassina, al tuo talento.
Costui già ebbe male e ebbe l'etica,
cominciòli la sete insino allotta,
né mai d'allora in qua altro farnetica».
«Costui chi è che ne vien con la frotta,
ch'un legno par portato dalla piena
e debb'esser in punto a qualunch'otta?
Io me n'avveggo ben perch'e' balena,
volentier de' tener in molle el becco».
E lui: «Presto sarà tua voglia piena.
Come chi trae con la sua mira al lecco,
così costui al ber fermato ha 'l punto,
e, se balena, e' non balena a secco.
El vin l'ha in tutto logoro e consunto:
sentito hai ricordar Filippo vecchio,
e 'l giovan ancor c'è, ma non è giunto».
Io posi alle parole sua l'orecchio,
e lui soggiunse, che vedeva ch'io
di domandar facea nuovo apparecchio:
«Conosco, innanzi dica, el tuo disio;
e di questo per pruova or avvedra'ti,
ch'io tel dimosterrò pel parlar mio.
So che que' sei che 'nsieme vengon guati,
ratti che par che sieno in sulla fatta:
sappi che tutti a sei e' son cognati.
Quel ch'è nel mezzo è Niccolò di Stiatta,
che non gli diventò ma 'l vino aceto,
ché la suo parte, ti so dir, n'appiatta.
Quel da man destra è Bobi da Diacceto:
quando, come el cammel, la soma ha egli,
è gran fatica a farlo poi star cheto.
Dalla sinistra vien Checco Spinegli:
io credo che costui più ne divori
a pasto, che non tien dua carrategli.
A lato a lui vien poi Giulian Ginori:
perch'e' ti paia piccolo e sparuto,
e' bee e mangia poi quanto e maggiori;
non guardar perch'e' sia così minuto,
ché quando e' giugne poi al paragone,
egli ha già presso a un baril tenuto.
L'altro credo bere' per tre persone:
stu nol conosci, egli è Giovan Giuntini,
e ve n'è un, quand'egli vi si pone;
e' non s'intende già troppo de' vini,
basta che s'empia. Quel dal lato manco
egli è Iacopo tuo de' Marsuppini:
se di tutti ha d'anni e persona manco,
egli ha più sete, e ma' non sare' messo
per tristo battaglier, ma fiero e franco.
Vedi tu un ch'a questi vien a presso,
benché ne venga adagio e passo passo?
Egli è 'l Grasso Spinelli, egli è ben desso.
Perché gli è, come vedi sconcio e grasso,
però a suo bel destro pian cammina;
io non te lo vo' dir se fa fracasso:
sentistu ma' dir d'una cappellina,
che s'avie messo in capo di guarnello
e non se la potea trar la mattina?
Par el ber a costui sì buono e bello,
che tutto el giorno l'ugna si morsecchia
per aver sete: o ve' sottil cervello!
Non trae sì volentier al fior la pecchia,
come costui fa all'odor di Bacco,
e se tu apparecchi, egli sparecchia.
Da sezzo egli è come al principio stracco:
cacio carne uova pesce egli avviluppa
e frutte e erbe, come fussi un ciacco.
L'altro, che drieto a piè nel fango inzuppa,
come non è men grasso, e' non bee meno
e 'l pan gli manca solo a far la zuppa.
Egli è 'l Grasso spezial, magno e sereno,
che non si lascia già tôr la sua parte
e mai non bee se non col bicchier pieno.
Quel che tu vedi, che si sta in disparte,
perch'è più grasso e gl'incresce el cammino,
egli è 'l maestro ver della nostr'arte.
È lo Steccuto, che bee tanto vino,
ch'a parlarne o pensarvi mi spaventa:
sol, bee per tutti noi del Dragoncino.
Quando gli ha ben beuto, e' s'addormenta,
e nel dormire e' russa tanto forte,
che convien per romor ch'e' si risenta;
e sempre suda e sa un po' di forte».
quando el mio duca disse: «Se più stessi,
giugnere' forse poi come 'l finocchio».
Io lo pregai ch'alquanto rimanessi,
e furon tanti efficaci e mie prieghi,
che convenne a mia voglia conscendessi.
E disse: «E' non fia cosa ch'io ti nieghi,
ma quanto tu mi spaccerai più presto,
tanto più in eterno mi ti leghi».
E io: «Quanto lo star t'è più molesto,
tanto ti resterò più obligato.
Orsù, che mi sia detto chi è questo».
E mostra'gli un che mi venìa da lato,
che di presenza era assai grande e bello:
su 'n una mula vien come legato.
Io presi ammirazion vedendo quello,
ché mi parve da lungi messer Piero,
ma conobbil da presso Belfradello;
e dissi: «O Bartol mio, deh!, dimmi el vero,
ch'è la cagion che lui così cavalca?
Fa e' per ir più ratto in sul sentiero?».
«Forse che n'è cagion la codicalca
- rispose a me - ch'assai roba v'è corsa,
che non lo lascerebbe ir con la calca;
o egli è perché gli ha piena la borsa,
o perché gli è poltron di suo natura,
o perché già la rogna in lebbra è scorsa.
Bench'in viso ti paia uom di gran cura,
non creder alla sua falsa presenza,
ch'egli è pur una sciocca creatura.
È costui beitor per eccellenza,
ma bee inver molto pulitamente,
ché 'n corte lo 'mparò, fuor di Fiorenza.
Deh, lascial andar via con l'altra gente,
ché, stu sapessi quanto poco è saggio,
non lo vorresti o amico o parente.
Vedi tu un che séguita el viaggio,
unto e bisunto come un carnasciale?
Gli è 'l mastro de' corrier', quel del Vantaggio.
Costui taverna fa, ma ne fa male,
ché gli ha beuto tanto in capo all'anno,
che non ne resta mai in capitale.
El Fico, el Buco e le Bertucce el sanno,
e perché malvagia non han bottega,
al Candiotto ancor fa spesso danno.
Quando gli vien di lettere una piega
e ch'e' le porta a' mercatanti lieto,
lui e lor san di vino a chi le spiega.
Quel che tu vedi, ch'a costui vien drieto,
a onde balenando a spinapesce,
s'e' ti par ebro, egli è, ma non d'aceto:
egli è Stefan sensal, che gli riesce
meglio el diventar zuppa in due parole,
più che non fa 'l notar nell'acqua al pesce.
Non altrimenti, se si scuopre el sol
nell'oriente, illuminar di botto
ogni animal e tutto el mondo suole:
così al ber costui tanto è corrotto
che, come in viso l'ha guardato un tratto,
non l'ha prima veduto che gli è cotto.
Vedi tu, drieto a lui non già gran fatto,
tre ch'esser denno... di do'? di Cenaia!
che come porci corrono allo 'mbratto?
E' son fratelli, e poco non ti paia,
d'un padre, e così son fratelli al bere:
dua ve n'è putte e 'l terzo è una ghiandaia.
Quando e' son tutti a tre a un tagliere,
non si fa alcun pregar tant'è cortese
e non bisogna troppo proferere.
Quel men grasso è messer Matteo Stiattese;
quel che par ch'a fatica e' si conduca
è più destro alla pruova ch'al parere:
i' el vidi già uscir per una buca,
quel messer Pagol grasso ch'è secondo,
ch'a pena n'uscirebbe una festuca.
Se fussi ognun di lor sì sitibondo
d'acqua, come ne son crudel 'nimici,
credo che resterebbe secco el mondo.
El terzo che tu vedi ch'è già quinci,
pur di teologia ha qualche inizio
e dottorossi per mezzo d'amici;
e ha 'mparato che 'l maggior supplizio
ch'avessi in terra el nostro Salvatore,
è quando in sulla croce e' disse sitio;
e par che se li scoppi e apra el cuore,
se, predicando mai, vien a quel passo
che mette sé medesmo in tal dolore.
Se come e' mangia e bee e come è grasso,
e' fussi dotto, niun Santo Agostino
allegherebbe o chi 'nsanguinò 'l sasso.
Egli ha studiato in greco e in latino
tanto, che sa che 'l grasso di vitella
allarga el petto e be'lo come el vino.
Benché or sudin, questa brigatella
io ti so dir che gli hanno a rasciugarsi,
né 'l posson far con una metadella.
El cammin gli ha soffregati e riarsi,
ma sanno che gli è buona medicina
e questi mal' al bicchier appiccarsi.
Lasciali andar con la virtù divina».
e vede sotto e can'che cercon forte
sta di volar e pascersi in assetto,
tal del mio duca appunto era la sorte,
aspettando al partir la mia parola,
parendoli aver forse troppe scorte.
E disse a me: «El tempo fugge e vola,
e colui non è preso a gnun lacciuolo,
che non è giunto o preso per la gola.
S'io t'ho a mostrare el resto dello stuolo,
staremo tu e io troppo a disagio,
né basterebbe a questo un giorno solo.
Ma io scorgo da lungi ser Nastagio,
che ti potrà mostrar lui questo resto;
ma per farmi dispetto, e' vien adagio.
Deh, vienne, ser Nastagio, vienne presto!».
E lui, che 'ntese el tratto, guarda e ride,
e disse a Bartol: «Che vorrà dir questo?».
«Ser Nastagio, lo star più qui m'uccide;
deh, mostra un po' a costui di questa gente».
E vanne via come a presso el vide.
Io fui per forza a questo paziente,
e dissi: «Ser Nastagio, io son qui nuovo,
e sanza voi son poco, anzi niente».
E egli a me: «Nessuna cosa truovo,
che sia conforme più a mia natura,
quanto se di piacer a altri pruovo.
Innanzi ch'io uscissi delle mura,
in modo tal mi son ben provveduto,
ch'io posso un pezzo star teco alla dura».
E, nel parlar, e' mi venne veduto
dua torre: ma nel muover che fiacieno
vidi ch'io ero inver poco avveduto.
Volsimi al duca, d'ammirazion pieno,
e dissi: «Io credo in qua venga la porta
non so se animal' o uomin' sieno».
Disse el mio duca a me: «Or ti conforta:
perch'e' sien grandi, e' non son da temere,
perché non son brigata troppo scorta.
Quel butterato si chiama Uliviere
e l'altro è 'l tuo Apollon Baldovino,
dissimil come grandi, eccetto al bere».
Poi, come l'un di lor fu più vicino,
disse el mio duca: «O caro Apollon mio,
férmati, stu se' stracco pel cammino!
Attienti a questa volta al parlar mio!».
E lui rispose tartagliando in modo
che 'ntender nol potemo el sere e io.
E mentre che di lor vista mi godo,
quel primo si spurgò sì forte un tratto
e con tanta abondanza, ch'ancor l'odo.
Disse el mio duca: «Ve' quel ch'egli ha fatto
or ch'egli ha sete; e però pensar dèi
quel ch'e' farà, se berà qualche tratto.
E' suoi non son frullin', ma giubilei,
e sa' tu che per ridere o parlare
non perde tempo». Io già pruova ne fei;
onde, lettor, non ti maravigliare
s'io dico quel ch'avvenne, con timore,
ché sare' me' tacer che ritrarre.
Come fu 'n terra giunto quello umore
del fiero sputo, nell'arido smalto
unissi insieme l'umido e 'l calore;
e poi quella virtù che vien da alto
virtù gli diè e nacquene un ranocchio,
e 'nnanzi agli occhi nostri prese un salto.
Com'Ulivier gli pose addosso l'occhio,
disse: «Io ne debbo avere el corpo pieno,
ché gorgogliar gli sento». Or ve' capocchio!
Poco con noi quelle due ombre stièno:
ripigliando a gran passi la lor via,
sparîr degli occhi in men che 'n un baleno.
Mostrommi el duca mio un che venìa,
e io, come gli vidi el calamaio,
dissi: «E' convien che questo notaio sia».
E egli a me: «Come di', è notaio:
s'egli sta a descomolle a suo contento
e non sia ebro, io non ne vo' danaio.
E' fu rogato già del testamento,
che fece el Rosso e Ciprian di Cacio,
benché non era in suo buon sentimento».
Poi lo chiamava a sé e diegli un bacio
e disse: «Ser Domenico mio bello,
più caro a me ch'al topo non è 'l cacio,
tener non vi vo' più, però che quello
disio che vi fa ir veloce e presto,
so vi consuma mentre vi favello».
Partì sanza dir altro, detto questo.
E eccoti venir cinque a un giogo:
un di lor parla e sempre cheti el resto.
Come, tornando di pastura al truogo,
corron e porci per la pappolata,
così costor per ritrovarsi al luogo.
Quando più presso a noi fu la brigata,
quel che parlava disse: «Dio v'aiuti!».
E 'l ser gli fece una grass'abbracciata.
Ecco già gli altri al par di noi venuti,
e volevan parlar, ma non gli lascia
quel ch'avea dato a no' e primi saluti.
Onde el mio ser per le risa sgangascia;
dissemi nell'orecchio: «Questo è Strozzo,
che 'n corpo favellò, non dico in fascia.
Quando e' gli fusse ben el capo mozzo,
parlerebbe quel capo sanza imbusto:
ciascuno stracca, ond'io con lui non cozzo.
E, per parlare, e' non gli manca el gusto,
ma bene spesso la parola immolla,
e io te lo confesso ch'egli è giusto.
Guarti, guarti, bel fiume di Terzolla,
ché tra 'l bere e 'l parlar che fa costui
secca sarai come di luglio zolla.
Quel che tu vedi ch'è a lato a lui,
sappi che, come tu, e' non bee vino,
ma lo tracanna e manda a' regni bui.
Per sopranome è detto el Bellandino;
e 'l Citto e 'l Tornaquinci èvvi e 'l Pacchina,
e vanno a ritrovar Giovan Giuntino.
Questi son tutti ceci di cucina,
perch'e' son cotti sempre a un bollore,
benché dichin daver la medicina.
Vengon spesso tra loro in quistione
e èvvi carestia di chi divida:
poi non è nulla, passato el calore.
Io non mi maraviglio che tu rida
- diss'egli a me, e poi - Addio, addio»,
diceva el parlator ch'è la lor guida.
Lui parlando partissi, e 'l duca e io
restamo come sordi in su quel filo,
come color che stan nel loco rio,
là ove cade el gran fiume del Nilo.
poi c'ha restato di sonar, si sente
un pezzo el rimbombar, quando l'è buona;
così al parlar di Strozzo veramente
restan gli orecchi spaventati e sordi,
tal ch'udir poi non potevàn niente.
Pur ci svegliò così tristi e balordi
dua con le labra secche e assetate
con un valletto, anzi tre ebri tordi.
Disse el mio duca: «Non fu fido Acate
al pio Enea, come el Pecoraccia
a Anton Vetori tutta la sua etate.
Sì volentieri el can lepre non caccia
come costui e beccafichi e starne,
e ogni ben per empierlo procaccia.
Questo di detto Anton può fede farne,
le labra molle e sempre acqua alla bocca,
tanto el mangiar gli giova e 'l ragionarne.
Se Fortuna una trappola gli scocca
che 'l Pecoraccia manchi a questa coppia,
resterà poi com'una cosa sciocca.
Non ti dico del ber, perché raddoppia,
come tu sai, quant'altri più divora:
adunque, come gli altri, questo alloppia.
Chi sia el parente, non tel dico ancora,
perch'io son certo lo conosci a punto:
mal per lui s'a conoscerlo avessi ora!
Nell'arte nostra niun sì sottil punto
è, ch'e' non l'abbia a perfezione,
per lunga sperienza a lor aggiunto.
E' mi ricorda già 'n disputazione
Bartol fe' cheto stare e 'l Belfradello,
quando gli dottoramo in colazione:
ve' ser Agnol Bandin, dolciato e bello,
el qual, per esser grasso, par sospinto,
e l'uno e l'altro se ne vien con ello».
«Colui che par di tanti pensier' cinto
- diss'io al duca mio - dimmi chi sia,
c'ha 'l viso di verzin bagnato e tinto».
Rispose allora a me la scorta mia:
«Né pensier ha, né quel vedi è verzino,
ché io non vo' che 'n tanto error più stia.
Com'al pane 'nsalato el pecorino,
così el mio Arrigo al bere, e come 'n volto
già è di-vin, fia presto tutto vino».
«Chi è colui che non gli è drieto molto
con gran mascella e occhi di civetta,
che par che la mocceca l'abbi colto?».
«Quel che tu di' Baccio è di mona Betta:
se tu 'l vedessi a desco ben fornito,
mocceca non parre', sì ben s'assetta.
Costui è 'l più perfetto parassito
che noi abbiàn, più vero e naturale:
credo ch'allo spedal terre' lo 'nvito.
Certamente in quest'arte tanto vale
quant'alcun altro ch'io sappia o conosca,
se quel che drieto gli è non l'ha per male:
Botticel, la cui fama non è fosca,
Botticel, dico, Botticello ingordo,
ch'è più ghiotto e più 'mpronto ch'una mosca.
Oh, di quante sue ciance mi ricordo!
S'egli è 'nvitato a desinare o cena,
quel che lo 'nvita non lo dice a sordo:
non s'apre allo 'nvitar la bocca a pena,
ch'al pappar lui la bocca sua non sogna:
va Botticello e torna botte piena.
Preso partito gli ha della vergogna
e sol si duol che troppo corto ha 'l collo,
che lo vorrebbe aver d'una cicogna.
E' non è mai sì pinzo e sì satollo,
che non vi resti luogo a nuova gente,
segli inghiottisce o dà un po' di crollo.
Stu vedessi el suo corpo onnipotente
quanto divora!, e' non ne porta piùe
una galea che si stivi in ponente.
Non più di lui; diciàn di questi due,
che dove e' vanno è sempre di vendemmia:
guarda s'è lor concesso gran virtùe!
Sappi ch'al vino e' son una bestemmia,
e duolsi l'un di questi dua arlotti
che 'l ben fare a suo modo non si premmia.
Non veggon prima el vin ch'ambo son cotti,
ma bisogna e' sia presso pel trist'occhio
c'ha 'l comparone e 'l mio Ridolfo Lotti.
El nostro comparon, ch'è 'l più capocchio,
crebbe ventiotto libre alla baccale,
e restavali a ber poi col finocchio!
Qual maraviglia è s'egli ha poi per male
non esser premiato? I' mi vergogno
ch'e' non sia coronato carnasciale.
L'altro, dormendo, i' l'ho veduto in sogno,
in un sogno ch'io fe' presso al mattino,
che gli cadea non la goccia, ma 'l cogno.
Se son nimici capital' del vino,
el vino è poi lor capital nimico,
ch'al capo drizza el suo furor di-vino.
Sbandito gli hanno la ciriegia e 'l fico
e ogni cosa che non dà buon bere:
ciascun giovan è d'anni, al ber antico».
Allor io mi rivolsi al mio buon sere,
e dissi: «Dimmi, chi è l'altra coppia,
che si son posti qui presso a sedere?».
Disse el mio duca: «La gente raddoppia:
quello sfibbiato è Pippo Giugni mio,
posasi un po' ché pel cammino scoppia;
e l'altro è 'l Pandolfin, c'ha gran disio,
quell'arco drizzar, se 'l giuoco dura,
vienne calando al cavalier suo zio.
Costui a libre el vin che bee misura,
fu capitan della baccal battaglia
e degnamente prese quella cura.
La sete lor non è fuoco di paglia,
né la sete bugiarda di Bertoldo,
ma natural, e par ognor più vaglia.
Quel Pippo è veramente un manigoldo
del vin: tanto ne 'mbotta e tanto s'empie,
che per la zucca poi svapora el coldo;
e però sempre ha sudate le tempie».
tanto che l'ombre tutte raccorciava,
quasi già a rincontro al carro e 'l corno.
La gente tuttavia multiplicava,
e non è l'erba sì spessa in un prato,
come la torma lì ch'al Ponte andava.
Tra lor ve n'era alcun zoppo e sciancato,
e gamberacce e occhi scerpellini,
e altri dalla gocciola scempiato;
e visi rossi come cherubini,
borse e brachieri a uno e dua palmenti,
e ciglia rotte e nasi saturnini.
Tra lor se ne vedea quindici o venti,
come bicchieri entro gl'infrescatoi,
ch'erono insieme, urtar di quelle genti.
Questi ta' conobb'io già presso a noi,
quai, se pigiassi, anco farien del mosto.
Ma odi quel ch'io vidi lor far poi.
Era talor l'un all'altro disposto
parlar da presso, ma la mareggiata
gli facea in un punto esser discosto.
Giunti ove noi, el ser un di lor guata
e ghigna con un occhio mezzo chiuso;
e 'l ser allor: «Ben venga la brigata!
Quanto serebbe meglio esser là suso,
ove 'nnanzi vendemmia voi imbottasti
qualche buon vin, calandolo a rinfuso!».
Disse quel ch'accennò: «Ser, tu cantasti».
appena; e par l'altre parole ingoi,
E non può sciôr la lingua, e disse: «Or basti».
E volendo el mio duca abbracciar poi,
drizzasi a lui, ma l'onda altrove el mena
e uno abbraccia de' compagni suoi:
sì com'un can che passa con gran pena
un fiume e passar crede al dirimpetto,
ma più giù 'l guida l'accorrente piena.
«O sere, el nome di costor sia detto,
perch'io non paia a referir capocchio»,
diss'io, e lui el voler misse a effetto.
«Quel che tu vedi, che mi chiuse l'occhio,
sappi ch'egli è 'l mio Lupicin Tedaldi,
c'ha 'n capo quella ciocca di finocchio:
sfavillan gli occhi, e' piè non tien ben saldi
e 'l viso rosso mostra e tose l'ale».
Ma odi quel ch'e' ferno a questi caldi.
Quand'el mond'arde al suon delle cicale,
avevan loro, e stavan a sedere,
un braccio alzato l'acqua nelle sale.
Eravi a galla assai più d'un bicchiere,
e tristo a quel bicchier ch'a lor venìa,
ché si partiva scarico e leggiere.
Ma restoron po' sì con villania,
ché fu cagion tra lor di gran travaglio,
ch'un peto trasse un della compagnia.
Al gorgogliar dell'acqua, a quel sonaglio
fessi fortuna, onde certi bicchieri
periron, come fussin suti un vaglio.
Rizzossi el Lupicin pronto e leggieri,
e disse a quel che gli sedea a lato:
«Uom non se' da star teco volentieri.
Se fussi un tale scandol perpetrato
al tempo degli antichi nostri padri,
che prezzo arebbe quest'error pagato?».
E egli a lui: «Alle tue spese impari:
perché ci desti a desinar fagiuoli,
sgonfiar bisogna, or ferminsi e precari.
e trar la sete con ta' bicchieruoli».
Ma Benedetto, al ber, ci s'interpone:
«D'un padre, disse, no' siàn pur figliuoli:
el babbo nostro è 'l vin, che dà cagione
che noi dobbiamo star in più quiete.
Lionardo, io ti vo' vincer a ragione:
se drento del buon vin bagnati siete,
col vin versato ci bagnian di fuori,
ché l'acqua stietta accoglie e to' la sete».
Questo parlar compose e lor fervori.
Tutti già consolati, Lupicino:
«Benedetto - dicea - tu m'innamori».
Poi, volto a Anteo, che era assai vicino,
disse: «Béi di mia man, ch'io di tuo béo:
ma' si fa buona pace sanza il vino».
Così pace tra lor col vin si feo.
Stu nol sapessi, or sappilo: era al bere
Ercole el Lupicino, e èvvi Anteo.
Se Benedetto accigliato sparviere
pare, e' si dà certi punzon' negli occhi,
che non lo lascion così ben vedere.
Fave arrostite, radice o finocchi
non fa mestier, ché 'l gusto torni loro,
o granchi fritti o cosce di ranocchi.
«Orsù, deh! non parlian più di costoro»
disse a me 'l sere e a lor: «A Dio siate!».
E' si partiron sanza più dimoro.
Ambo le ciglia mie eron voltate
a un che c'era presso un trar di freccia;
e, giunto, el sere ebbe di lui pietate:
e volle questo nuovo torcifeccia
abbracciar presto, ma non può perfetto
ché pria toccossi l'una e l'altra peccia.
Tre volte d'abbracciarlo fe' concetto,
tre volte le man' tese a quel cammino,
tre volte gli toccâr le mani el petto.
Disse: «Parlian come suole un vicino
con l'altro, se convien che così sia,
dalla finestra, e 'n mezzo è 'l chiassolino.
Ben venga el dolce mio piovan di Stia!
Forse di Casentin partito siete,
per non vi far di vin più carestia?».
Lui disse: «In parte el ver cantato avete,
ma anco mi parti' per ir al bagno,
per ritrovarvi la perduta sete.
Bench'ancor béa per me e un compagno,
pur, quel ch'io non solea, a' venti tratti
com'una palla grossa al ber ristagno.
In Casentino ho fatto mille imbratti,
per far la diabetica tornare,
e 'nsin qui 'nvan molti rimedi ho fatti.
Questa cagion a piede or mi fa andare,
e vorre' ch'una febbre mi venisse,
sol per poter con sete un po' calare.
Donde, se questo effetto non sortisse,
contento son renunziar la vita».
«Or seguite el cammino - el mio ser disse -
che Dio vi renda la sete smarrita!».
quando chi el porta non misura e passi,
triema tutto nel vaso e si dibatte;
così e poli al piovan vegnenti e grassi
diguazzando si van pel mal cammino,
perch'e' poneva e piè or alti or bassi.
Com'un fanciul porta un bicchier di vino,
che lo dibatte sì che l'ugna tigne
e 'l dito, con ch'all'orlo ha fatto uncino;
così el piovan onde si sfibbia e scigne:
ambo le calze alle ginocchia avvolse
e per trovar la sete e passi strigne.
Né pria le stiene alli nostr'occhi volse,
ch'e' ci pareva al culo un cavriuolo
per la gran saponata che v'accolse.
un po' di stienal secco e un'aringa,
una ghiera di cacio, un salsicciuolo,
quattro acciughe legate a una stringa,
e tutte si cocevan nel sudore:
io non so come meglio i' tel dipinga.
Così el piovan passò a grand'onore,
col cul ballando e con qualche coreggia
sonando, sì che si sentia l'odore.
Un che mangiato par dalla marmeggia
sorgiunse, e s'egli avesse un fuso in bocca,
vedresti el viso proprio d'un'acceggia.
«Quest'è 'l piovan Arlotto, e non gli tocca
el nome indarno, né fu posto a vento
(sì come secchia è molle!), ma diè 'n brocca.
Costui non s'inginocchia al Sacramento,
quando si lieva, se non v'è buon vino,
perché non crede Dio vi venga drento.
E come già per miracol divino
Gesuè fermò 'l sol contro a natura,
così costui e 'nsieme un suo vicino
fermò la notte tenebrosa e scura,
e scambioron un dì, che sì dormîro,
e la notte seguente: odi sciagura!
El primo dì un certo armario aprîro,
pensando loro una finestra aprire,
e, scur vedendo, al letto rifuggîro.
Volle Iddio che levolli da dormire
quel della casa e mostrò loro el giorno,
ché così ben si potevan morire.
E così el terzo dì risuscitorno,
benché par ch'al secondo e' fussin desti,
perché, dormendo, de' tre dì toccorno».
Così passò el piovan mentre che questi
ragionamenti si facean tra nui.
Allor furno a un altro gli occhi presti,
e dissi: «O ser Bracciata, chi è costui,
ch'a seco in compagnia da' sei agli otto,
che son come satelliti con lui?
Perché va ei così largo di sotto?
Dimmi, ser Unto, perché lui cammina
com'un fanciul che s'ha cacato sotto?
[...]