Venere parla:
Su, nymphe, hornate il glorioso monte
di canti e balli et resonante lire;
fate di fior' grillande alme alla fronte,
ché mi par Marte, amico mio, sentire
e dalla plaga lactea su nel cielo
e visto ho la stella sua lieta apparire.
Spargete all'aura i crini avolti in velo
e liete tutte nel fonte Acidalio
gratiose vi lavate il volto e 'l pelo.
Le sacre Muse dal licor castalio
di dolci carmi piene invitarete;
stendete drappi, hornate il ciel col palio.
Bacco, Sileno mio liete acogliete,
e se Cerer non è sdegnata ancora
per Proserpìna sua, la chiamerete.
Va', Climen, nympha mia, dall'Aurora:
digli che indugi alquanto il bel mactino;
lieta col suo Titon facci dimora.
Tu, Clitia, andrai nel bel monte Pachinno,
tu nel Peloro, e tu nel Lilibeo:
guardate di Sicilia ogni confino,
sì che Vulcano mio fabro flegreo
cum Marte non mi truovi in adultèro,
donde fabula sia poi d'ogni iddeo.
Ascondi, Luna, il lucido emispero;
voi per le selve non latrate, o cani,
sì che d'infamia non si scuopri il vero.
Vien, lieta notte, e voi, profundi Mani,
scurate l'ora; e tu, figliuol Cupido:
mi do nelle tua braccia, in le tue mani.
Con le tue fiamme dolcie ardente rido:
fa' lume a Marte, mio sponso e signore,
tu mi feristi, Amore, di te me fido.
Marte, se obscure ancor ti paion l'ore,
vienne al mio dolce ospitio, ch'io t'aspecto:
Vulcano non v'è che ci disturbi amore.
Vien', ch'io t'invito nuda in mezzo il lecto;
non indugiar, che 'l tempo passa e vola:
coperto m'ho di fior' vermigli il pecto.
Vienne, Marte, vien' via, vien' ch'io son sola.
Togliete e lumi: el mio mai non lo spengo;
non sia chi più mi parli una parola.
Venuto Marte, parla così:
Vener mia bella, ma sanza arme o dardo,
ché contro ai colpi tua nulla arme tengo.
Altra cosa è vedere un lieto sguardo
d'un amoroso lume, ovunque e' vada,
che spada o lancia o vexillo o stendardo.
«Amor regge suo impero sanza spada»;
coperto no, ma vuole il corpo nudo,
dolce, contento a seguir quel che aggrada.
O dir, parlar, non dispietato o crudo,
ma dolce in sé, qual di pietà s'accolga:
e questa l'arme sia, la lancia e 'l scudo.
Intorno al col suo bianco treccia avolga,
degli ardenti amator' dura catena
e forte laccio che già mai si sciolga.
Baciar la bocca e la fronte serena,
e' dua celesti lumi e 'l bianco pecto,
la lunga mano d'ogni bellezza piena!
Altra cosa è giacer nello aureo lecto
con la sua dolcie amica e cantar carmi
che affaticare il corpo a scudo e elmetto.
Gustar quel fructo che può lieto farmi,
ultimo fin d'un tramante dilecto!
Tempo è d'amar, tempo è da spada et armi.
Il Sole agli scuopre et parla:
non sia chi pecchi in dir «chi 'l saprà mai?»,
ché il sol, le stelle, il ciel, la luna il vede.
E tu che lieta col tuo Marte stai,
né pensi il ciel di tua colpa dispone:
così spesso un gran gaudio torna in guai.
Ogni lungo secreto ha suo stagione:
chi troppo va tentando la fortuna,
s'allide in qualche scoglio: è ben ragione.
Correte, o nymphe, a veder sol quest'una
adulterata Venere impudica
e 'l traditor di Marte: o stelle! o luna!
Giove, se non ti par troppa fatica,
con Giunon tuo gelosa al furto viene:
non pecchi alcun, se non vuol che si dica.
Vieni a veder, Mercurio, le catene
acciò riporti in cielo di questo e quella,
ché nul peccato mai fu sanza pene.
Pluto, se inteso hai ancor questa novella,
con Proserpìna tua lassa l'inferno,
ascendi all'aura relucente e bella.
Alme che hornate el bel paese etterno
de' campi elisi, al gran furto venite:
convien si scuopra ogni secreto interno.
Glauco, Neptunno, Dori, Alpheo, corrite
al tristo incesto, e Ino e Melicerta
con le driade e 'l gram padre d'Amphitrite;
acciò che in terra, in mare e in ciel sie certa
infamia tale d'una malvagia dea
e grave stupro e inhonestate aperta.
Vulcan, vieni a vedere tua Citerea,
come con Marte suo lieta si posa
e rocta t'ha la fede e facta rea.
Debbe al consortio tuo esser piatosa,
ad altri no. Ma gli è fatica e grave
posser guardare una donna amorosa,
ché, se la vuol, non fia chi mai la cave.
Tu dormi forse, e se 'l mio sono hai inteso,
vieni a veder di lei l'opere prave.
Lascia Cicilia e 'l tuo stato sospeso,
ché patir tanta ingiuria honor t'è poco:
vendecta brama Iddio d'un core offeso.
Vulcano loquitur:
Non basta avermi il ciel da l'alto loco
gittato in terra e da suo mensa privo
e facto fabro e dio del caldo foco,
ché per più pena mia ciaschedun divo
cerchi stratiarmi e dimostrar lor pruove;
ma tanta ingiuria mai non la prescrivo.
Io pure attendo a·ffar sagitte a Giove
sudando intorno all'antica fucina,
e Marte gode mie fatiche altrove.
Venere, Vener mia, spuma marina
tu Marte adulter, pena pagherete,
ché grave colpa vol gram disciplina.
[...]