LE EGLOGHE

Lorenzo de' Medici

Edizione di riferimento: Lorenzo il Magnifico, Opere, a cura di Attilio Simioni, vol. II, Laterza, Bari  1914

 

I

CORINTO

La luna in mezzo alle minori stelle

chiara fulgea nel ciel quieto e sereno,

quasi ascondendo lo splendor di quelle:

e ’l sonno aveva ogni animal terreno

dalle fatiche lor diurne sciolti:

e il mondo è d'ombre e di silenzio pieno.

Sol Corinto pastor ne' boschi folti

cantava per amor di Galatea

tra' faggi, e non v' é altri che l'ascolti:

né alle luci lacrimose avea

data quiete alcuna, anzi soletto

con questi versi il suo amor piangea:

— O Galatea, perché tanto in dispetto

hai Corinto pastor, che t'ama tanto?

perché vuoi tu che muoia il poveretto?

Qual sieno i mia sospiri e il tristo pianto

odonlo i boschi, e tu, Notte, lo senti,

poi ch'io son sotto il tuo stellato ammanto.

Sanza sospetto i ben pasciuti armenti

lieti si stanno nella lor quiete,

e ruminando forse erbe pallenti.

Le pecorelle ancor drento alla rete,

guardate dal can vigile, si stanno

all'aura fresca dormienti e liete.

Io piango non udito il duro affanno,

i pianti, i prieghi e le parole all'ugge:

che, se udite non son, che frutto fanno?

Deh, come innanzi agli occhi nostri fugge,

non fugge giù davanti dal pensiero !

ché poi più che presente il cor mi strugge.

Deh, non aver il cor tanto severo!

Tre lustri giá della tua casta vita

servito hai di Diana il duro impero:

non basta questo? Or dammi qualche aita,

ninfa, che se' sanza pietate alcuna.

Ma, lasso a me! non è la voce udita.

Se almen di mille udita ne fussi una!

Io so che' versi posson, se li sente,

di cielo in terra far venir la luna.

I versi fêron giá l' itaca gente

in fère trasformar ne' verdi prati:

rompono i versi il frigido serpente.

Adunque i rozzi versi e poco ornati

daremo al vento; ed or ho visto come

saranno a lei li mia pianti portati.

L'aura move degli arbor l'alte chiome,

che rendon mosse un mormorio suave,

ch'empie l'aere ed i boschi del suo nome:

se porta questo a me, non li fia grave

portar mio pianto a questa dura femmina

per gli alti monti e per le valli cave,

ov'abita Eco, che i mia pianti gemina:

o questo, o il vento a lei lo portin seco:

io so che ’l pianto in pietra non si semina.

Forse ode ella vicina in qualche speco.

Non so se sei qui presso: so ben ch'io,

fuggi dove tu vuoi, sempre son teco.

Se ’l tuo crudo voler lussi più pio,

s' io ti vedessi qui, s' io ti toccassi

le bianche mani e ’l tuo bel viso, o Dio!

se meco sopra l'erba ti posassi,

della scorza farla d'un lento salcio

una zampogna, e vorrei tu cantassi.

L'errante chiome poi strette in un tralcio,

vedrei per l'erba il candido piè movere

ballando e dare al vento qualche calcio.

Poi stanca giaceresti sotto un rovere:

io pel prato correi diversi fiori,

e sopra il viso tuo li farei piovere:

di color mille e mille vari odori,

tu ridendo faresti, dove fôro

i primi còlti, uscir degli altri fuori.

Quante ghirlande sopra i bei crin d'oro

farei, miste di fronde e di fioretti!

Tu vinceresti ogni bellezza loro.

Il mormorio cli chiari ruscelletti

risponderebbe alla nostra dolcezza

e ’l canto di amorosi augelletti.

Fugga, ninfa, da te tanta durezza:

questo acerbo pensier del tuo cor caccia:

deh, non far micidial la tua bellezza!

Se delle fiere vuoi seguir la traccia,

non c'è pastor o piú robusto o dotto

a seguir fère fuggitive in caccia.

Tu nascosta starai sanza far motto

con l'arco in mano: io con lo spiedo acuto

il fèr cignale aspetterò di sotto.

Lasso! quanto dolor io aggio avuto,

quando fuggí dagli occhi col piè scalzo!

e con quanti sospiri ho giá temuto

che spine o fère venenose o il balzo

non offenda i tua piè! quanto n'ho sdegno!

per te fuggo i piè invano e per te gli alzo;

come chi drizza stral veloce al segno,

poiché tratto ha, torcendo il capo, crede

drizzarlo: egli è giá fuor del curvo legno.

Ma tu se' sì leggiera, ch'io ho fede

che la tua levitá porria per l'acque

liquide correr sanza intigner piede.

Ma che paura drento al cor mi nacque,

che non facessi come fe' Narciso,

a cui la sua bellezza troppo piacque;

quando al bel fonte ti lavasti il viso,

poi, queta la tempesta da te mossa,

miravi nel tranquillo specchio fiso!

Ah mente degli amanti stolta e grossa!

Partita tu, lá corsi, non credendo

la bella effigie fussi indi remossa.

Guardai nell'acqua, e, te non vi vedendo,

viddi me stesso; e parvemi esser tale

da non esser ripreso, te chiedendo.

S' io non son bianco, è il sol, né mi sta male,

sendo io pastor cosí forte e robusto:

ma dimmi: un uom, che non sia brun, che vale?

Se pien di peli ho io le spalle e il busto,

questo non ti dovrebbe dispiacere,

 se hai, quanto bellezza, ingegno e gusto.

Tu non sai forse quanto è il mio potere:

s' io piglio per le corna un toro bravo,

a suo dispetto in terra il fo cadere.

L'altrieri in uno speco oscuro e cavo

fui per cavare una coppia d'orsatti,

ove appiccando con le man m'andavo.

Giunsi alla tana; e, poi ch'io gli ebbi tratti,

sentimi l'orsa rabida e superba,

e cominciommi a far di cattivi atti.

Io colsi un duro ramo, e sopra l'erba

la lasciai morta, e reca'ne la preda;

la qual, se tu vorrai, per te si serba.

Alle braccia convien che ognun mi ceda:

vinsi l'altrier, per la festa di Pana,

una vacca, che avea drieto la reda.

Con l'arco in man certar voglio con Diana:

per premio ebbi un monton di quattro corna

col vello bianco insino a terra piana:

tuo fia, benché Neifil se ne scorna,

a cui son per tuo amor pur troppo ingrato:

lei per piacermi intorno ognor s'adorna.

S' io son ricco, tu ’l sai; ché in ogni lato

sonar senti le valle del muggito

de' buoi, e delle pecore il belato.

Latte ho fresco ad ognor, e nel fiorito

prato fragole colte, belle e rosse,

pallide ov' è il tuo viso colorito;

frutte ad ogni stagion mature e grosse;

nutrisco d'ape molte e molte milia,

né crederesti al mondo piú ne fosse;

che fanno un mèl sí dolce, ch'assimilia

l'ambrosia ch'alcun dice pascer Giove;

né sol vince le canne di Sicilia.

O ninfa, se ’l mio canto non ti move,

muovati almen quello d'augei diversi

che canton con pietose voci e nòve.

Non odi tu d'amor meco dolersi

misera Filomena, che si lagna d'altrui,

com'io di te, ne' dolci versi?

Questo sol sanza sonno m'accompagna.

Ma io ti credo movere a pietate;

tu ridi, se ’l mio pianto il terren bagna.

Dove somma bellezza e crudeltate,

è viva morte; pur mi riconforto:

non dee sempre durar la tua beltate.

L'altra mattina in un mio piccolo orto

andavo, e ’l sol surgente co' sua rai

apparia non ch' io ’l vedessi scorto.

Sonvi piantati drento alcun rosai,

a' quai rivolsi le mia vaghe ciglie,

per quel che visto non avevo mai.

Eranvi rose candide e vermiglie:

alcuna a foglia a foglia al sol si spiega;

stretta prima, poi par s'apra e scompiglie:

altra giovanetta si dislega

a pena dalla boccia: eravi ancora

chi le sue chiuse foglie all'aer niega:

altra, cadendo, a piè il terreno infiora.

Cosi le vidi nascere e morire

e passar lor vaghezza in men d'un'ora.

Quando languenti e pallide vidi ire

le foglie a terra, allor mi venne a mente

che vana cosa è il giovenil fiorire.

Ogni arbore ha i sua fior: e immantenente

poi le tenere fronde al sol si spiegano,

quando rinnovellar l'aere si sente.

I picciol frutti ancor informi allegano;

che a poco a poco talor tanto ingrossano,

che pel gran peso i forti rami piegano,

né sanza gran periglio portar possano

il proprio peso; a pena regger sogliono

crescendo, ad or ad ora se l'addossano.

Viene l'autunno, e maturi si cogliono

i dolci pomi: e, passato il bel tempo,

di fior, di frutti e fronde alfin si spogliano.

Cogli la rosa, o ninfa, or che è il bel tempo.

 

II

APOLLO E PAN

È un monte in Tessaglia detto Pindo,

più celebrato già da' sacri vati,

ch'alcun che sia dal vecchio Atlante all'Indo.

Alla radice l'erba e' fior ben nati

bagnon l'acque d'un fonte, chiare e vive,

rigando allor fioretti e verdi prati.

Poi, non contente a così strette rive,

si spargon per un loco, che mai vide

il sol più bello, o d'alcun più si scrive.

Penèo è il fiume, e ’l paese, che ride

d'intorno, è detto Tempe, una pianura,

la quale il fiume equalmente divide.

Cigne una selva ombrosa, non oscura,

il loco, piena di silvestre fère,

non inimiche alla nostra natura.

Vari color di fior si può vedere,

sì vaghi, che convien che si ritarde

il passo vinto da novel piacere.

Quivi non son le notte pigre o tarde,

né il freddo verno il verde asconde o cela,

over le fronde tenere ritarde.

Né l'aer nubiloso ivi congela

il frigido Aquilon, né le corrente

acque ritarda il ghiaccio o i pesci vela.

Del Sirio can la rabbia non si sente,

né par ch'a terra i fior languenti pieghi

l'arida arena, anela e siziente.

Né si fende la terra, acciò che i prieghi

suoi venghino agli orecchi di Giunone,

che l'acque disiate piú non nieghi.

Eterna primavera una stagione

sempre è ne' lochi dilettosi e belli,

né per volger di cielo han mutazione.

Le fronde sempre verdi e' fior novelli,

come producer primavera suole

di primavera il canto degli uccelli.

Febo ancor ama il loco, e ancora cole

il laur suo, s'egli è; qual meraviglia,

se ’l verno temprato è, men caldo il sole?

Del padre ambo le rive occupa e piglia

Daini, e talor, piangendo, crescon l'onde,

tanto che toccan pur l'amata figlia.

Nell'acque all'ombra delle sacre fronde

canton candidi cigni dolcemente:

l'acqua riceve il canto, e poi risponde.

Poiché le frondi amò sempre virenti

Febo, lasciôro il Conte pegaseo

i cigni, e ’l canto loro or qui si sente.

Sopra ad ogn'altro loco Apollo deo

questo amò in terra dal surgente fonte,

fin dove perde il nome di Peneo.

Ma più dopo l'eccidio di Fetonte,

che lui per la vendetta del suo figlio

fece passar a Sterope Acheronte.

Onde irato il rettor del gran concilio,

per punir giustamente il grave errore,

gli die' del ciel per alcun tempo esilio.

Allor abito prese di pastore;

ma poca differenzia si comprende

dalla pastoral forma al primo onore.

L'arco sol, che da' sacri òmeri pende,

il quale già esser aureo solea,

ora è di nasso e più splendor non rende.

Cosí l'aurata lira, che pendea

dall'altro lato giri nel suo bel regno,

di macero era, ed or piú non lucea.

L'eburneo plettro giri or è di legno;

gli occhi spiravon pur un divin lume:

questo tôr non li può chi nel fe' degno.

Servano i biondi crini il lor costume;

ma dove li premeva una corona

di gemme, or delle fronde del suo fiume.

Cosí fatto pastor or canta, or suona;

or ambo le dolcezze insieme aggiunse

talor con Dafne, or con Peneo ragiona.

Sentillo Pan un giorno, e, poi che giunse

dov'era, disse: — Che sí ben cantassi,

pastor mai guardò armenti o vacche munse.

E' converria che teco un dí certassi ;

ma a me Iddio saria certar vergogna

con chi osserva degli armenti i passi. —

Cinzio pastor a lui: — Non ti bisogna

questo riguardo aver, ché la mia lira

così degna è conte la tua zampogna.

Se non conosci il canto, gli occhi mira. —

Conobbe Pan colui, che adora Delo,

 per lo splendor che da' santi occhi spira

— Ed or con molto piú ardente zelo

canto — disse — colui che Arcadia venera,

più che ciascun abitator del cielo. —

E Delio: — Questo in me gran piacere genera:

 contento son. — Cosí ciascun s'assise

sopra l'erba fiorita, verde e tenera.

All'ombra di Siringa Pan si mise,

che dello antico amor pur si ricorda:

ella si mosse e quasi al canto arrise.

Tempera e scorre allor ciascuna corda

Apollo all'ombra del suo lauro santo:

Pan le congiunte sue zampogne accorda.

O bella ninfa, elf io chiamai giâ tanto

sotto quel vecchio faggio in valle ombrosa,

né tu degnasti udire il nostro canto;

deh non tener la bella faccia ascosa,

se gli arditi desir giá non son folli

a voler recitar sí alta cosa.

Io te ne priego per gli erbosi colli,

per le grate ombre e pe' surgenti fonti,

c' hanno i candidi piè tuoi spesso molli;

per gli alti gioghi degli alpestri monti,

per le leggiadre tue bellezze oneste,

per gli occhi, i quai col Sol talora affronti ;

per la candida tunica, che veste

l'eburnee membra tue, pe' capei biondi,

per l'erbe liete dal piè scalzo pèste;

per gli antri ombrosi, ove talor t'ascondi,

pel tuo bell'arco, il qual se fossi d'oro,

paresti Delia tra le verdi frondi;

ninfa, ricorda a me che versi fôro

cantati dalli dèi, perché convenne

ciascuna ninfa per udir costoro.

 

Peneo il corso rapido ritenne,

misson gli armenti il pascere in oblio,

troncò il canto agli uccei le leggier penne.

I fauni per onor del loro dio,

ciascun satiro venne a quel concento,

fermossi delle fronde il mormorio.

Pan dette allora i dolci versi al vento.

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  . ata

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  . ento

Diva, nell'inquieto mar creata,

fusti tu causa al siculo pastore

di morte, o la prole impia da te nata?

Certo tu fusti, anzi il tuo figlio Amore,

anzi tu impia, e lui crudel li desti

vana speranza tu, lui cieco ardore.

E tu qual delle Furie togliesti,

o Cupido, il velen? forse lo strale

nelle schiume di Cerbero intignesti?

Crudel, come potesti tanto male

guardare, e morte tanto acerba e rea

con gli occhi asciutti, e se' dio immortale?

Se 'l consenso vi fu di Citerea,

io stimo ornai i sua numini vani ;

se non son, tu non se' figliuol di dea.

Anzi ti partorir li gioghi strani

di Caucaso nivoso, e in duri sassi

il latte ti nutrí di tigri ircani.

Crude nutrici, e superar ti lassi

da sì crude nutrici, di pietate!

Pianserne loro, ed il cor tuo duro stassi.

Far le pilose guance allor rigate

da' primi pianti, e lacrime novelle

dagli occhi fèri avanti non gustate.

Ma voi dove eravate, o ninfe belle,

allor che dette gli ultimi lamenti

Daini, chiamando le crudeli stelle?

Dafni, amator delle selve virenti,

Daini onor ciel mio regno, a me più grato

ch'alcun pastor, che mai guardassi armenti.

Ah Daini, Daini, quant' hai ben guardato

gli armenti, e mal te stesso! ma chi puote

fuggir però lo inesorabil fato?

Chi puote ostar alle costanti ruote,

e pregando piegar l'empie soròre,

o bagnando di lacrime le gote?

Chi può fuggir, Cupido, il tuo furore?

Siringa sai, quanto al seguir leggieri

fe' giá i mia piè, benché a te pia il timore.

Poiché non fe' pietosi i duri imperi

Daini colla sua morte, alcuno amante

trovar pietate in lui giamai non speri.

 

Empiêro le spilonche tutte quante

di mugghi fier leoni, e pianto tristo

sudorno i sassi e le silvestre piante.

Licaon, lacrimar mai non più visto,

ne pianse, e quei, di cui la forma prese

col figlio giâ la gelida Calisto.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .  . ese