Lorenzo de' Medici
Canzoniere
Edizione di riferimento:
Lorenzo de' Medici: Canzoniere, in Opere, a cura di Tiziano
Zanato, Einaudi, Torino 1992
I
Tanto crudel fu la prima
feruta,
sì fero e sì veemente il
primo strale,
se non che speme il cor
nutrisce et ale,
sare'mi morte già dolce
paruta. 4
E la tenera età già non
riufiuta
seguire Amor, ma più
ognor ne cale;
volentier segue il suo
giocondo male,
poiché hatal sorte per
suo fato avuta. 8
Ma tu, Amor, poiché
sotto tue insegne
mi vuoi sì presto, in
tal modo farai,
che col mio male ad
altri io non insegne. 11
Misericordia nel tuo
servo arai,
e'n quella altera donna
fa' che vegne
tal foco, onde conosca
gli altrui guai. 14
II
Era nel tempo bel,
quando Titano
dell'annüal fatica il
terzo avea
già fatto, e co' sua
raggi un po' pugnea
d'un tal calor che ancor
non è villano, 4
vedesi verde ciascun
monte e piano
e ogni prato pe' fiori
rilucea,
ogni arbuscel sue fronde
ancor tenea
e piange Philomena e
duolsi invano; 8
quando io, che pria
temuto non avria
se Hercole tornato fussi
in vita,
fu' preso d'un leggiadro
e bello sguardo. 11
Facile e dolce
all'entrar fu la via:
or non ha questo
laberinto uscita,
e sono in loco dove
sempre io ardo! 14
III
Già sette volte ha Titan
circüìto
nostro emispero e nostra
grave mole:
per me in terra non è
stato sole,
per me luce o splendor
fuor non è uscito; 4
ond'è che ogni mio gaudio
è convertito
in pianto obscuro, e
quel che più mi duole
veder è Amor, che ne'
principii suole
parer placato, ognor più
incrudelito. 8
Tristo principio è
questo al nostro amore;
e già mi pento della
prima impresa,
ma or, quando aiutar non
me ne posso, 11
ché io sento arder la
face a mezzo il core
et oramai troppo è
questa esca accesa.
Dunque ben guardi ogni
uom, pria che sia mosso. 14
IV
Sonetto fatto quando una
donna era ita in villa
Felice ville, campi, e
voi silvestri
boschi, e fruttiferi
arbori e gli incolti,
erbette, arbusti, e voi
dumi aspri e folti,
e voi ridenti prati, al
mio amor destri; 4
piagge, colli, alti
monti ombrosi alpestri,
e fiumi, ove i be' fonti
son raccolti;
voi animal' domestici e
voi sciolti,
ninfe, satiri, fauni e
dii terrestri; 8
omai finite d'onorar
Dïana,
perché altra dea ne'
vostri regni è giunta,
che ancora ella ha suo
arco e sua faretra. 11
Piglia le fère ove non
regna Pana:
quella che una volta è
da ˙ llei punta,
potendo, da sua morte
non s'aretra. 14
V
Occhi, poiché privati in
sempiterno
siate veder quel Sol,
che alluminava
vostro obscuro cammino e
confortava
la vista vostra, or
piangete in eterno! 4
La lieta primavera in
crudo verno
or s'è rivolta, e ‘l
tempo ch'io aspettava
esser felice più, e
disïava,
m'è più molesto: or quel
ch'è Amor discerno! 8
E se dolce mi parve il
primo strale,
e se söave la prima
percossa,
e se in prima milizia
ebbi assai bene, 11
ogni allegrezza or s'è
rivolta in male,
e per piacevol via in
cieca fossa
caduto sono, ove arder
mi conviene. 14
VI
Felice terra, ove colei
dimora
la qual nelle sue mani
il mio cor tiene,
onde a suo arbitrio io
sento e male e bene,
e moro mille volte e
vivo, l'ora. 4
Ora affanni mi dà, or mi
ristora,
or letizia, or tristizia
all'alma viene,
e così il mio dubbioso
cor mantiene
in gaudii, in pianti: or
convien viva, or mora. 8
Ben sopra l'altre terre
se' felice,
poiché due Soli il dì
vedi levare,
ma l'un sì chiar, che
invidia n'ha il pianeta. 11
Io veduto ho sei lune
ritornare
sanza veder la luce che
mi queta:
ma seguirò il mio Sol,
come fenice. 14
VII
Non potêr gli occhi mia
già sofferire
e raggi del suo viso sì
lucente,
non poté la vista esser
pazïente
a quel vedea de' dua
belli occhi uscire; 4
ma par contra ragion se
io ne admire,
perché è cosa divina sì
excellente,
che non patisce che
l'umana mente
possa la gran bellezza
sua fruire. 8
Costei cosa celeste, non
terrena,
data è agli uomini,
superno e sol dono,
et è venuta ad abitar in
terra. 11
Ogni alma che lei vede
si asserena:
et io per certo infelice
pur sono,
ché agli altri pace dà,
a me sol guerra. 14
VIII
La debil, piccoletta e
fral mia barca
oppressata è dalla
marittima onda,
in modo che tanta acqua
già vi abonda,
che perirà, tanto è di
pensier' carca. 4
Poiché invan tanto tempo
si rammarca,
e par Neptunno a' suo
prieghi s'absconda,
tra scogli e dove
l'acqua è più profonda
or pensi ognun con che
sicurtà varca. 8
Io veggio i venti ognor
ver' me più feri;
ma Fortuna et Amor, che
sta al timone,
mi disson non giovar
l'aver päura, 11
che meglio in ogni
adversitate speri.
E par che questo ancor
vogli ragione:
che colui alfin vince,
che la dura. 14
IX
Poiché a Fortuna, a' mie
prieghi inimica,
non piacque (che potea!)
felice farmi,
né parve dell'umana
schiera trarmi
perché bëato alcun non
vuol si dica, 4
colei, Natura in cui
tanta fatica
durò per chiaramente
dimostrarmi
quella la qual mortale
al veder parmi,
nelle cose terrene non
s'intrica. 8
Qual più propria ha
potuto il magistero
trar della viva e
natural sua forma,
tale ora è qui: sol
manca ch'ella anele! 11
Ma se colui che expresse
il volto vero
mostrassi la virtù che
in lei si informa,
che Phidia, Policleto o
Praxitèle? 14
X
Nel picciol tempio, di
te sola ornato,
donna gentile e più
ch'altra excellente
o de' moderni o della
antica gente,
pel tuo partir poi
d'ogni ben privato, 4
sendo da mia fortuna
transportato
per confortar l'afflitta
alma dolente,
mi apparve agli occhi un
raggio sì lucente,
che obscuro dipoi parmi
quel che guato. 8
La cagion, non potendo
mirar fiso,
pensai lo splendore
esser d'adamante
o d'altra petra più
lucente e bella, 11
per ornar posta, ornata
lei da quella;
ma poi mutai pensiero,
et il radiante
conobbi, ch'era il tuo
bel viso. 14
XI
Sonetto fatto a Reggio,
tornando io da Milano, dove trovai novelle che una donna aveva male
Temendo la sorella del
Tonante
che a nuovo amor non
s'infiammasse Giove,
e Citherea che non
amasse altrove
il fero Marte, antico e
caro amante, 4
la casta dea delle
silvestre piante,
invida alle bellezze
oneste e nove,
Pallade, che nel mondo
si ritrove
donna mortal più casta e
più prestante, 8
ferono indebilir le
sante membra,
che èn di celeste onor,
non di mal degne.
invidia, insin nel ciel
tien' tua radice! 11
Tu, biondo Apollo, se
ancor ti rimembra
del tuo primiero amore e
non si spegne
pietate in te, fammi
(che puoi) felice! 14
XII
Spesso ritorno al
disiato loco
onde mai non si parte
l'afflitta alma,
che ne solea già dar
riposo e calma,
pria ésca, or nutrimento
del mio foco. 4
E questo fu cagion che a
poco a poco
missi le spalle alla
amorosa salma
per acquistar la disïata
palma,
la qual chiedendo, già
son fatto roco. 8
Per refletter facièno i
santi rai,
già il vidi ornato e di
splendor fulgente,
tal che in esso mancava
mortal vista. 11
Se allor piacer mi
dette, or mi dà guai,
trovandol d'ogni ben
privo e carente:
così, spesso si perde
ove s'acquista. 14
XIII
Arà, occhi, mai fine il
vostro pianto?
Ristagnerà di lacrime
mai il fiume?
Non so, ma per quanto or
il cor presume
temo di no: vòlto ha
Fortuna amanto. 4
Solea già per dolcezza
in festa e canto
viver lieto, però che il
santo lume
del mio bel Sole, e quel
celeste nume,
propizio mi era, onde
ero lieto tanto. 8
Or, poiché tolta m'è la
santa luce
che ne mostrava la via
nelle ambage,
veggo restarmi in
tenebre confuso. 11
E se tal via a morte ne
conduce,
maraviglia non è, ché la
mia strage
veder non posso, perché
il ver m'è chiuso. 14
XIV
L'arbor che a Phebo già
cotanto piacque,
più lieto e più felice
che altre piante
e per sé stesso e per
suo caro amante,
umbroso e verde un
tempo, in terra giacque. 4
E poi non so per cui
difetto nacque
che Phebo tòrse le sue
luci sante
dalla felice pianta e 'l
bel sembiante,
onde è cagion de assai
lacrimose acque. 8
Cangiâr color le liete e
verde fronde,
e il lauro, ch'era prima
umbroso e florido,
si mutò al mutar de'
febei raggi. 11
Le pene sempre son
pronte e feconde;
lieve cosa è mutar il
lieto in orido,
onde convien ch'ogni
speranza caggi. 14
XV
Non t'è onor, Amor,
l'avermi preso
et ingannato ne' mia
teneri anni,
quando l'età disposta
era all'inganni,
e poca gloria è se hai
l'esca acceso. 4
E se io m'arresi, a
torto mi hai offeso,
dato aspre pene, doglie
e tanti affanni;
contr'a dure armi e non
venerei panni
riserba le säette e
l'arco teso. 8
Ché resultar ne suol più
gloria al vinto,
s'è debile, e potente è
il vincitore:
così manca tua gloria a
poco a poco. 11
Già di divin' prigion'
ti vidi cinto,
e 'l cielo e 'l mondo
tenevi in tremore
e la stige palude: ora
ardi il foco! 14
XVI
Fuggo i bei raggi del
mio ardente Sole,
silvestra fera all'ombra
delle fronde,
e vo cercando
ruscelletti e fonti
per piagge e valli e pe'
più alti poggi,
ove le caste ninfe di
Dïana 5
vanno seguendo gli
animal' pe' boschi.
Benché all'ombra de'
faggi spesso im-boschi,
cercando di diffendermi
dal Sole,
non può far ciò che al
mondo è di Dïana
ch'io mi ricopra tra
˙ lle verdi fronde 10
dal foco, qual non teme
ombra di poggi,
né si spegne per l'acqua
de' chiar' fonti.
Ma le lacrime mie fan
nuovi fonti,
che annacquando spesso i
verdi boschi
rigan per li alti e più
elati poggi; 15
né però il foco del mio
chiaro Sole
scema, e più verde
l'amorose fronde
rinascon ne' be' luoghi
di Dïana.
Io mi credea per l'arte
di Dïana
passasse il mio dolore,
e' vivi fonti 20
spegnessi il foco, e
l'ombra delle fronde,
la qual cercando vo per
tanti boschi,
fusse obstaculo a' raggi
del chiar Sole,
e che potessi meno in
valle e poggi.
Foco è l'aura che spira
alli alti poggi 25
(son più e pensier' per
l'arte di Dïana,
e quant'è più lontan,
più arde el Sole!),
e foco è l'acqua de' più
freschi fonti,
e foco è l'ombra delli
obscuri boschi,
e foco è l'onde e
l'ombre, arbori e fronde. 30
Che benché sia in mezzo
delle fronde
questa carca mortale, e
su pe' poggi,
e seguendo le fier' per
campi e boschi
vada ne' bei päesi di
Dïana,
e cerchi il suo rimedio
all'ombra e fonti, 35
pur non è mai lontano il
cor dal Sole.
Mentre che il Sole
allumerà le fronde
e' fonti righeran per li
alti poggi,
la mia Dïana seguirò pe'
boschi.
XVII
Io seguo con disio quel
più mi spiace,
e per più vita spesso il
mio fin bramo,
e per uscir di morte
morte chiamo,
cerco quïete ove non fu
mai pace; 4
vo drieto a quel ch'io
fuggo e che mi sface,
e ‘l mio inimico assai
più di me amo,
e d'uno amaro cibo non
mi sfamo,
libertà voglio e servitù
mi piace. 8
Fra 'l foco ghiaccio e
nel piacer dispetto,
fra morte vita e nella
pace guerra
cerco, e fuggire onde io
stesso mi lego. 11
Così in turbido mar mio
legno rego:
né sa tra l'onde star,
né gire a terra,
e cacciato ha timor
troppo sospetto. 14
XVIII
Da mille parti mi säetta
Amore,
accompagnato da crudel
Fortuna,
onde in una ora sento
mille morte
e mille volte surge
l'afflitta alma;
la qual, tirata da un
van disio, 5
vive e muor come piace a
chi la regge.
Ma se gli advien talor
che chi la regge
non si disdegni ad
ubidire Amore
e governar si lasci dal
disio,
allor con prosper vento
vien Fortuna; 10
e se s'allegra alquanto
la trista alma,
è poi cagion d'assai più
dura morte.
Così più il viver piace
quando Morte
talor minaccia; pur
Speranza regge
ne' duri casi sempre in
terra l'alma. 15
Questa tenuto m'ha servo
d'Amore;
né mai, banché stil
cangi ria Fortuna,
cangia' per pene o
cangerò disio.
Pria che si muti il mio
fermo disio,
frigide lascerà mie
membra Morte, 20
né potrà tanto far
crudel Fortuna,
che sempre non mi regga
chi mi regge;
chi può però da quel che
piace a Amore
levare il suo pensiero o
mutar l'alama?
Dunque invan merto
aspetta la trista alma, 25
forzata a far del suo
altrui disio;
ma benché sciolto mi
lasciassi Amore
e 'l fragil corpo
mancassi di morte,
quella che il mondo
onora e che me regge
seguirò sempre, o in
buona o in ria fortuna. 30
Né mai potrassi glorïar
Fortuna
che possi far cangiar
sua voglia all'alma,
ché quel che 'l cielo,
el mondo e Pluto regge
libero dienne e sciolto
ogni disio.
Tu mi puoi ben qualche
anno affrettar morte, 35
ma non disciormi onde mi
legò Amore.
Non mi sciorrà da Amor
già mai Fortuna,
né mai per morte
cangerassi l'alma,
se dopo lei il disio per
sé si regge.
XIX
Pien d'amari sospiri e
di dolore,
pien di varii pensieri,
afflitto e mesto,
vo trapassando di mia
vita il resto,
come piace a colui ch'è
mio signore. 4
E seguendo Fortuna il
suo tenore,
ho dubbio non venire a
cosa presto,
che arà pietà chi è
cagion di questo
quando io sarò di tante
pene fòre. 8
Così fra questi miei
sospiri e pianti
nutrirò la mia vita,
infin che a Cloto
e le suore parrà che ‘l
fil si schianti. 11
Ma fia d'ogni dolore il
mio cor vòto,
se per morte ubidisco a'
lumi santi:
ché mi fia vita esser da
˙ llei rimoto. 14
XX
Amor, che hai visto
ciascun mio pensiero
e conosciuto il mio
fedel servire,
fammi contento, o tu mi
fa' morire!
Stare in vita sì aspra e
in tal dolore,
confortar l'alma di
sospiri e pianti, 5
certo, signor, sare'
morir men rio.
Se tu hai l'arco e la
faretra, Amore,
perché il ghiacciato cor
non rompi e schianti?
Non dee donna mortale
obstare a dio!
Riguarda all'onor tuo e
mio disio: 10
pon' fine omai al mio
lungo martìre,
perch'è vicin già
l'ultimo sospire.
XXI
Donna, vano è il pensier
che mai non crede
che venga il tempo della
sua vecchiezza,
e che la giovinezza
abbi sempre a star ferma
in una tempre.
Vola l'etate e fugge, 5
presto di nostra vita
manca il fiore,
e però dee pensar il
gentil core
ch'ogni cosa ne porta il
tempo e strugge.
Dunque dee gentil donna
aver merzede
e non di sua bellezza
esser altera, 10
perché folle è chi spera
vivere in giovinezza e
bella sempre.
XXII
Quante volte, per mia
troppa speranza,
dapoi che fui sotto io
giogo d'Amore,
bagnato ho il petto mio
d'amari pianti!
E quante volte, pur
sperando pace
da' santi lumi, ho
disïato vita, 5
e per men mal dipoi
chiamato ho morte!
Et or ridotto son che,
se già morte
non viene, non ho al
mondo altra speranza,
tanto è infelice e
misera mia vita.
Dunque son queste le
promesse, Amore? 10
Dunque quest'è la disïata
pace?
Se chiamar si dee pace i
tristi pianti!
Chi spera sotto Amore
altro che pianti,
o vita la qual sia men
ria che morte,
o gustar mai un'ora sol
di pace, 15
quel vive in vana e
fallace speranza:
perché non prima altri è
servo d'Amore
ch'a mille morte il
giorno esser in vita.
Fu un tempo tranquilla
la mia vita:
ma non si può saper che
cos'è pianti 20
se prima altri non è
servo d'Amore,
né si conosce il viver
sanza morte
o quanta è vana ogni
umana speranza;
né fia contento mai chi
disia pace.
Chi uman viver disse,
tolse pace 25
in tutto della nostra
mortal vita,
e, d'ogni mal cagion,
lasciò Speranza.
Questa fa sofferire i
tristi pianti,
ad altri comportar fa
mille morte,
e, quel ch'è peggio, il
fa servo d'Amore. 30
Non nasce prima in gentil
core Amore
che s'aggiunge al disio
lo sperar pace,
il qual pria non diparte
che con morte;
non dico del morir che
si fa in vita,
ma di quel di che fanno
i mortal' pianti, 35
ch'è di vita miglior
ferma speranza.
Io, che speranza aver
propizio Amore
non ho, ma stare in
pianti e sanza pace,
aspetterò per miglior
vita morte.
XXIII
Amor, veggo che ancor
non se' contento
Alle mie antiche pene,
ché altri lacci e catene
vai fabricando, ognor
più aspre e forte
delle tue usate, tal
ch'ogni mia spene 5
d'alcun prospero evento
or se ne porta il vento,
né spero libertà se non
per morte.
O cieche, o poco accorte
mentre de' tristi
amanti! 10
Chi ne' bei lumi santi
avre' però stimato tanta
asprezza?
Né parea che durezza
Promettessino a noi e
suo sembianti.
Così dato mi sono in
forza ' altrui, 15
né spero esser già mai
quel che già fui.
Io conosco or la
libertate antica
e 'l tempo onesto e
lieto
e mio stato quieto
che già mi die' mia
benigna Fortuna; 20
ma poi, come ogni ben
ritorna indrieto,
mi diventò nimica,
et a darmi fatica
Amore e lei se ne
accordorno ad una:
come assai non fusse una 25
parte di tanta forza
a chi per sé si sforza
di rilegarsi ognor più e
più stretto!
E come semplicetto,
non mirando più oltre
che la scorza, 30
con le mie man' li
aiutai fare i lacci,
acciò che più e più
servo mi facci.
Uno augelletto o
semplice animale,
se li viene discoperto
uno inganno che certo 35
si mostri turbator della
sua pace,
tiene al secondo poi più
l'occhio aperto,
ch'è ragion naturale
ch'ognun fugga il suo
male;
et io, che veggo chi
m'inganna e sface, 40
di seguir pur mi piace
la via nella qual veggio
el mal passato, e
peggio,
come se io non avessi
essempli cento.
Ma in tal modo ha spento 45
Amor in me d'ogni
ragione il seggio,
ch'io non vorrei trovar
rimedio o tempre
che mi togliessi il
voler arder sempre.
Tanto han potuto gli
amorosi inganni
e 'l mio martirio
antico, 50
ch'io non ho più nimico
alcun d'ogni mia pace
che me stesso,
né cerco altro o per
altro m'affatico
se non com'io m'inganni
et arroga a' mia danni, 55
e chiamo mia salute male
expresso;
godo se m'è concesso
stare in sospiri e in
doglia,
ho in odio chi mi
spoglia
di servitù e cerca liber
farmi; 60
e vedendo legarmi,
parmi, chi 'l fa, dar
libertà mi voglia.
Così del mio mal godo e
del ben dolgo,
e quel ch'io cerco, io
stesso poi mi tolgo.
Così Fortuna e 'l mio
nimico Amore, 65
tra spene obscure e
incerte,
pene chiare et aperte,
m'han tenuto e passato
un lustro intero;
e sotto mille pelle e
rie coverte,
della mia etate il fiore 70
sotto un crudel signore
ho consumato, e più
gioir non spero.
Amor, sai pure il vero
della mia intera fede,
che dovre' di merzede 75
aver dimostro almen pur
qalche segno;
or son sì presso al
regno
di quella, qual fugir
foll'è chi crede,
che, sendo il resto di
mia vita lieto
quanto esser può, non
pagherà l'adrieto. 80
Canzon mia, teco i tua
lamenti serba,
e nostra doglia acerba
tu non dimostrerrai in
alcuna parte;
ma tanto cela il tuo
tormento amaro,
che Amor, Morte o
Fortuna dia riparo. 85
XXIV
Non so qual crudel fato
o qual ria sorte,
quale adverso destin,
tristo pianeta,
mia vita, che stata è
quanto dee lieta,
ha fatto tanto simile
alla morte. 4
Amor sa pur che sempre
stetti forte
Più che adamante e (s'è)
più dura prieta;
se falsa opinïon mio ben
mi vieta,
par che sanza mia colpa
il danno porte. 8
Ma non potrà crudel
Fortuna tanto
essermi adversa, che
soverchio sdegno
dal mio primo cammin mi
torca un passo. 11
Più presto eleggo stare
in doglia e in pianto
sotto el signore antico
e 'l primo segno,
che sotto altri gioir,
di pianger lasso. 14
XXV
Amor promette darmi pace
un giorno
e tenermi contento nel
suo regno;
rompe Fortuna poi
ciascun disegno
e d'ogni mia speranza mi
dà scorno. 4
Un bel sembiante di pietate
adorno
fa che contento alla mia
morte vegno;
Fortuna, che ha ogni mio
bene a sdegno,
pur gli usati sospir' mi
lascia intorno. 8
Onde io non so di questa
lunga guerra
qual sarà il fine, o di
chi sarò preda,
dopo tante speranze e
tanti affanni. 11
L'un so già vinse il
ciel, l'altra la terra
solo ha in governo: onde
convien ch'io creda
essere un dì contento
de' mia danni. 14
XXVI
Amor, da cui parte
gelosia,
ch'ogni mio pensier
guida, el passo lento
mi avea condotto al loco
ove contento
un tempo fui, or non
vuol più ch'io sia. 4
Mentre girava gli occhi
stanchi mia,
vidi i crin' d'òr
ch'erano sparti al vento,
e 'l bel pianeta a
rimirar sì attento,
che 'l corso rafrenò
della sua via. 8
Io, come amante, andando
al maggior male,
pensai pria che tornar
volessi al foco;
ma poco stette il suo
disio nascoso: 11
sua vista mi mostrò
chiar che rivale
non m'era, ché passò
via, stato un poco
non so se obstupefatto o
invidioso. 14
XXVII
Poi che tornato è il
Sole al corso antico,
Phebo l'usata sua luce
riprende,
e tanto or l'uno or
l'altro sol risplende,
che già il rigido verno
è fatto aprico. 4
Se propizio mi fia il
primo e amico
come si mostra quel che
il mondo accende,
l'alma quïete alle sue
pene attende,
al crudo viver rio,
aspro e nimico. 8
Se Phebo, assai più che
l'usato, chiaro
s'è fatto e splende or
più che far non suole,
e se più ha racceso sue
fiammelle, 11
l'ha fatto ché temea che
le due stelle
non superassin la fiamma
del sole,
e fussi al mondo un ben
quanto lui raro. 14
XXVIII
Lasso!, già cinque corsi
ha volto il sole
dapoi che Amor ne' suoi
lacci mi tenne
e 'l pensiero amoroso
all'alma venne,
e fa Fortuna pur quel
che far suole. 4
Pianti, prieghi,
sospir', versi e parole,
che non si scriverrien
con mille penne,
e la Speranza che già il
cor sostenne
veggo annullar, come mio
destin vuole. 8
Né mi resta se non un
sol conforto,
perché ogni altro
m'induce a bramar morte:
che quanto Amor m'ha
fatto, ha fatto a torto. 11
Non è al mondo più
felice sorte
a gentil alma, se si
vede scorto,
aver usate ben l'ore sì
corte. 14
XXIX
Sonetto fatto per un
certo caso, che ogni dì si mostrava in mille modi
Fortuna, come suol, pur
mi dileggia
e di vane speranze ognor
m'ingombra;
poi si muta in un punto,
e mostra che ombra
è quanto pe' mortal' si pensa
o veggia. 4
Or benigna si fa et ora
aspreggia,
or m'empie di pensieri
et or mi sgombra,
e fa che l'alma
spaventata aombra,
né par che del suo male
ancor s'aveggia. 8
Teme e spera, rallegrasi
e contrista,
ben mille volte il dì
nostra natura:
spesso il mal la fa
lieta e 'l bene attrista, 11
spera il suo danno e del
bene ha paura,
tanto ha il viver mortal
corta la vista.
Alfin vano è ogni
pensiero e cura. 14
XXX
Io sento crescer più di
giorno in giorno
quello ardente disir che
il cor m'accese,
e la speranza già, che
lo difese,
mancare, e insieme ogni
mio tempo adorno; 4
la vita fuggir via sanza
soggiorno,
Fortuna opporsi a tutte
le mia imprese:
onde a' giorni e le
notti indarno spese
non sanza nuove lacrime
ritorno. 8
Però il dolor, che m'era
dolce tanto,
e ˙ lamentar süave,
per la spene
che già piacer mi fe'
'sospiri e 'l pianto, 11
mancando or la speranza,
alfin conviene
cresca, e 'l cor resti
in tanta doglia affranto,
tal che sia morte delle
minor' pene. 14
XXXI
Que' belli occhi
leggiadri, che Amor fanno
potere e non poter, come
a·llor piace,
m'han fatto e fanno
odiar sì la mia pace,
che la reputo pel mio
primo affanno; 4
né, perch'io pensi al
mio eterno danno
et al tempo volatile e
fugace,
alla speranza ria, vana
e fallace,
m'accorgo ancor del
manifesto inganno. 8
Ma vo seguendo il mio
fatal destino,
né resterò, se già
madonna o morte
non mi facessin torcere
il cammino. 11
L'ore della mia vita, o
lunghe o corte,
a·llei consecrate ho,
perché 'l meschino
cor non ha dove altrove
si conforte. 14
XXXII
Io non so ben chi m'è
maggior nimico,
o ria Fortuna, o più
crudele Amore,
o superchia Speranza,
che nel core
mantiene e cresce il
dolce foco antico. 4
Fortuna rompe ogni
pensiero amico,
Amor raddoppia ognor più
il fero ardore,
Speranza aiuta l'alma,
che non more,
per la dolcezza onde 'l
mio cor nutrico. 8
Né mai asprezza tanto
amara e ria
fu quanto è tal
dolcezza, o crudel morte
quanto è mia vita per
l'accesa speme. 11
O Fortuna più destra
ver' me sia,
o Amore o Speranza assai
men forte,
o pia Morte me levi e
questi insieme. 14
XXXIII
Non altrimenti un
semplice augelletto,
veggendo i lacci tesi
pel suo danno,
fugge pria, e poi torna
al primo inganno,
dai dolci versi d'altri
augei constretto, 4
così fuggo io
dall'amoroso aspetto,
ove son tesi i lacci per
mio affanno,
poi i dolci sguardi e le
parole fanno
ch'io corro a' pianti
miei come a diletto. 8
E quel che suole in
altri il tempo fare
per le diverse cose, in
me disface,
ché men che pria conosco
il mal che or pruovo. 11
Cieco e sanza ragion mi
fo guidare
al mio cieco inimico, e
per fallace
cammino in cieca fossa
alfin mi truovo. 14
XXXIV
Vidi madonna sopra un
fresco rio
fra verde fronde e liete
donne starsi,
tal che dalla prima ora
in qua ch'io arsi
mai vidi il viso suo più
bello e pio. 4
Questo contentò in parte
il mio disio
e all'alma die' cagion
di consolarsi;
ma poi, partendo, il cor
vidi restarsi,
crebbon vie più i
pensieri e 'l dolor mio, 8
ché già il sole
inclinava allo occidente
e lasciava la terra
ombrosa e obscura:
onde il mio Sol si
ascose in altra parte. 11
Fe' il primo ben più
trista assai la mente.
Ah, quanto poco al mondo
ogni ben dura!
Ma il rimembrar sì
presto non si parte. 14
XXXV
Pensavo, Amor, che tempo
fusse omai
por fine al lungo,
aspro, angoscioso pianto
et alla doglia mia,
non pur voler seguir nel
mio mal tanto
tu e Fortuna, troppo
iniqua e ria; 5
ché poi, quando vorrai,
come conviensi a tanta
signoria,
mantener quel che già
promesso m'hai
ah, quante volte e
quanto!,
ti fia difficil, benché
tutto possa. 10
L'alma, li spirti e
l'ossa
state son tue sotto
questa fidanza
quanto sai, Amore, et io
(che 'l pruovo) meglio,
che con questa speranza
fanciul tuo servo fui, e
son già veglio! 15
Io mi vivea di tal sorte
contento
e sol pascevo
l'affannato vore
della sua amata vista;
le belle luce e 'l
divino splendore
quetavan l'alma, benché
afflitta e trista, 20
e per questo ogni stento
dolce parea, che per
amar s'acquista.
Fa la speranza di
maggior contento
ogni pena minore;
ma ria Fortuna, al mio
bene invidiosa, 25
turbar volle ogni cosa
e 'l mio tranquillo
stato e lieta sorte,
e tolsemi la vista onde
sempre ardo.
Oimè, meglio era morte,
che star lontan dal mio
sereno sguardo! 30
Onde or, non potendo
altro, pasco l'alma
della memoria di quel
viso adorno,
et a' divin' costumi
col pensier mille volte
il dì ritorno.
Se Fortuna mi toglie i
vaghi lumi 35
e turba ogni mia calma,
non è però che in selve
e 'n valli e 'n fiumi,
ove lo spirito porta la
sua salma,
o notte obscura o giorno
sempre gli occhi non
vegghino il lor Sole, 40
e le dolci parole
non risuonino ancor ne'
nostri orecchi:
ché 'l rimembrar le cose
amate e degne,
benché pure altri
invecchi,
in cor gentil per tempo non
si spegne. 45
Io vo cercando e più
elati colli
e volgo gli occhi
stanchi in quella parte
ove io lasciai il mio
bene,
là onde il tristo cor
mai non si parte;
e di questo il nutrisco
e d'una spene, 50
che presto fien satolli
(se non rompe il pensier
Morte che viene)
gli occhi, che tanto
tempo già son molli;
e con questo una parte
del mio mal queto e
l'alma riconforto, 55
et in pazienza porto
l'ingiusto essilio e la
sorte aspra e dura,
tanto che più felice
tempo torni;
e se pure il mal dura,
può ristorare un'ora i
persi giorni. 60
Canzon, là dove è il
core
or te ne andrai, se già
non t'è impedita
la via, siccome a me.
Segui la traccia;
di' che lieta è mia
vita:
sentendo questo essilio
a·llei dispiaccia! 65
XXXVI
Perché non è co' miei
pensieri insieme
qui la mia vita e 'l
caro signor mio,
alla dolce ombra e sopra
questo rio
che co' miei pianti si
lamenta e geme? 4
Perché questa erba il
gentil piè non prieme?
Perché non ode il mio
lamento rio,
e i sospir' che son
mossi dal disio
che accese in noi la
troppo acerba speme? 8
Forse quella pietà che
mi promisse
Amor già tanto, e mi
promette ancora,
ché col suo strale in
mezzo il cor lo scrisse, 11
verrebbe, innanzi alla
mia ultima ora.
Se 'l mio dolce lamento
ella sentisse,
pietà bella faria chi me
innamora. 14
XXXVII
Lasso!, ogni loco lieto
al cor m'adduce
mille amari sospir',
duri pensieri,
perché non pare io possa
o sappi o speri
viver lieto lontan dalla
mia luce. 4
Ma per me' quïetarsi mi
conduce
l'alma in obscuri
boschi, alpestri e feri,
fuggendo l'orme e i
calcati sentieri:
questo talora a consolar
la induce. 8
Così fra gli arbuscei mi
sto soletto,
né mai men sol, ché meco
ho in compagnia
mille pensier' d'amor
söavi e degni. 11
Quivi il dolce lacrime
il mio petto
bagno, e nutrisco il
cor, che non disia
se non che morte o
miglior tempo vegni. 14
XXXVIII
Io mi sto spesso sopra
un duro sasso
e fo col braccio alla
guancia sostegno,
e meco penso e
ricontando vegno
mio cammino amoroso a
passo a passo. 4
E prima l'ora e 'l dì
che mi fe' lasso
Amor, quando mi volle
nel suo regno,
poi ciascun lieto evento
et ogni sdegno,
infino al tempo che al
presente passo. 8
Così, pensando al mio sì
lungo affanno
et a' giorni e alle
notte, come vuole
Amor, ch'io ho già consumati
in pianti, 11
né veggendo ancor fine a
tanto danno,
mia sorte accuso; or,
quel che più mi duole
è trovarmi lontan da'
lumi santi. 14
XXXIX
Io ti ringrazio, Amor,
d'ogni tormento,
e se già ti chiamai
«crudel signore»,
come uom che guidato era
dal furore,
d'ogni antico fallire ho
pentimento; 4
però che quella, per cui
arder sento
in dolce foco il
fortunato core,
degna è d'umano e di
celeste onore:
e se per lei languisco,
io son contento. 8
O aventurata e ben
felice sorte,
se avièn che ad un
gentil signore e degno
altri serva et in lui
cerchi sua pace! 11
Già mille volte ho
disïato morte;
pur poi resto contento a
tanto sdegno,
tanto l'esser suo servo
alfin mi piace. 14
XL
Se advien che Amor
d'alcun brieve contento
conforti l'alma, al
lungo male avezza,
quanto più il disïato
ben s'apprezza,
tanto mi truovo più
lieto e contento. 4
Così, se per alcun
prospero evento
monta la speme in colmo
d'ogni altezza,
perché cresce il disio,
cresce l'asprezza
e raddoppia i pensier'
per ognun cento. 8
Però, se alcun conforto
ebbi quel giorno,
quando fra verde fronde
e gelide acque
e liete donne vidi i
vaghi lumi, 11
sendone a·llunge e
privo, or mi ritorno
a' primi pianti, e quel
che più mi piacque
par che più il core
afflitto arda e consumi. 14
XLI
Io sento ritornar quel
dolce tempo,
del qual non mi rimembra
sanza pianti,
che fu principio alla
mia aspra vita:
né mai dapoi conobbi
libertate;
e perché si rinnuova
nella mente, 5
vuol ch'io ne faccia tal
memoria Amore.
Di sua vittoria si ricorda
Amore,
e però vuol che la
stagione e 'l tempo
sia celebrato in versi e
nella mente;
né sta contento a' miei
sospiri e pianti, 10
ma lieta della persa
liberatate
vuol pur che sia mia
lacrimosa vita.
S'egli è fatto signor
della mia vita,
forza m'è far quel che
comanda Amore.
sanza usar più l'antiqua
libertate; 15
la qual, se si lasciò
vincer quel tempo
che ancor non era
sottoposta a' pianti,
ben cederà or, che serva
è la mente.
Se ad altri il corpo
dato ho e la mente,
e per questo è afflitta
la mia vita, 20
mi debbo sol doler di
questi pianti
di me, non accusar per
questo Amore;
il qual se m'ha tenuto
tanto tempo,
è perch'io ne li detti
libertate.
Non è più sua la persa
libertate, 25
perché il suo primo don
dato ha la mente;
dunque se vuol ch'io
celebri quel tempo
e sia di ciò contenta la
mia vita,
se vinse sempre, et io
cedo ad Amore,
e lieto come vuol son
de' mia pianti. 30
Né sol contento son de'
lunghi pianti,
ma al tutto ho in odio e
fuggo libertate,
né vorrei non voler servire
' Amore;
et odio ogni pensier che
nella mente
mi surge di far libera
mia vita, 35
e chiamo perso qualunque
altro tempo.
Lieto il tempo e felice,
e dolci i pianti,
nel qual la vita perse
libertate,
chiama la mente, e così
vuole Amore.
XLII
O fortunata casa, ch'eri
avezza
sentire i grevi miei
sospiri e pianti,
serba l'effigie in te
de' lumi santi
e l'altre cose come vili
sprezza! 4
O acque, o fonti chiar'
pien' di dolcezza,
che col mormorio vostro
poco avanti
meco piangevi, or si
rivolga in canti
la vostra insieme con la
mia asprezza! 8
O letto, delle mie
lacrime antiche
ver testimonio, e de'
mia sospir' pieno!
O studïolo, al mio dolor
refugio! 11
Vòlto ha in dolcezza
Amor nostre fatiche
sol per l'aspetto del
volto sereno:
et io non so perché a morir
più indugio. 14
XLIII
Era già il verde d'ogni
mia speranza,
siccome Amor volea,
ridotto al bianco;
parea il cor di sua
virtute manco,
onde perduto avea ogni
baldanza; 4
quando quella virtù che
ogn'altra avanza,
Amor, si trasse uno
stral d'òr dal fianco
e punse il cor invitto,
altero e franco,
con forza da spezzare
ogni constanza. 8
………………..<-eso>
………., e più preso ne
avria,
se non che gli amorosi
inganni teme. 11
Tra l'erba ricoperto un
laccio teso
veder li parve; or non
so qual più sia
cresciuto in me, o 'l
timore o la speme. 14
XLIV
Quando l'ora aspettata
s'avicina
per dare il guidardone
alla mia fede,
quando s'appressa il
conseguir merzede,
triema e paventa più
l'alma meschina; 4
e, quasi a sé medesma
peregrina,
smarrita resta, e forse
ancor nol crede,
spesso ingannata; e se
ben chiaro il vede,
di pensier' sempr'è
incerta ov'ella inclina. 8
Questo adviene: che si
reputa indegna
di tanto bene, onde
pallida triema,
sé comparando a quel
viso sereno; 11
o forse, come Amor li
mostra e insegna,
dubbiosa sta, perché pur
brami e tema
per soverchia dolcezza
venir meno. 14
XLV
Condotto Amor m'avea
fino allo stremo
di mia speranza, e tempo
oramai n'era;
presso era quel che
assai si brama e spera,
ond'io tanto sospiro e
tanto gemo; 4
quando una voce udi',
che ancor ne tremo,
rigida, aspra, crudele,
iniqua e fera:
– Folle è tua speme e la
tua voglia altera
a ricercar quel che solo
è supremo. 8
Bastiti rimirar mia
vaghi lumi
et udir l'armonia delle
parole
e contemplar l'alte
virtù divine. 11
Quel che di me più oltre
aver presumi
vano è il pensiero, e se
'l tuo cor più vuole,
dolgasi non di me, ma
del suo fine. – 14
XLVI
Sonetto fatto per un
amico
Non vide cose mai tanto
excellente
quel che fu rapto infino
al terzo cielo,
e non udì già sì süave
melo
Argo, che mal per lui
tal suon si sente; 4
e la fenice, se 'l suo
fin presente,
tanti odor' non aduna al
mortal telo;
né fu sì dolce il cibo
al nostro velo,
che mal per noi gustò il
primo parente; 8
né mai tanta dolcezza ad
alcun dette
Amor, se contentare a
pien lo volse,
quanto è la mia, né vuol
che ad altro pensi. 11
Io benedico l'arco e le
säette
e la cagion che libertà
mi tolse,
dapoiché così ben mi
ricompensi. 14
XLVII
Meglio era, Amor, che
mai di tua dolcezza
provassi alcuna cosa, o
del tuo bene,
ch'è facil cosa a
sopportar le pene
all'alma, lungo tempo al
male avezza. 4
Così, più si disia e più
si prezza
el ben che altri
conosce, onde ne viene
più doglia al cor, se
quel possiede e tiene
Fortuna il vieta, lo
interrompe e spezza. 8
Quel che già disïai, nol
conoscendo,
m'avea condotto assai
vicino a morte,
cercando quel che m'era
incerto e nuovo. 11
Or ch'io l'ho visto, lo
conosco e intendo,
pensa, Amor, quanto è
dura la mia sorte,
poiché privato di tal
ben mi truovo. 14
XLVIII
Dolci pensier', non mi
partite ancora!
Dove, pensier' miei
dolci, mi lasciate?
Sì ben la scorta ai piè
già stanchi fate
al dolce albergo, ove il
mio ben dimora? 4
Qui non Zephiro, qui non
balla Flora,
né son le piagge apriche
d'erbe ornate:
silenzii, ombre,
terror', venti e brinate,
boschi, sassi, acque il
piè tardono ognora. 8
Voi vi partite pure e
gite a quella,
vostro antiquo recetto e
del mio core;
io resto nelle obscure
ombre soletto. 11
Il cammin cieco a' piedi
insegna Amore
(che ho sempre in me)
dell'una e l'altra stella;
né gli occhi hanno altro
lume che l'obietto. 14
XLIX
Sonetto fatto a piè
d'una tavoletta dove era ritratta una donna
Tu se' di ciascun mio
pensiero e cura,
cara imagine mia, riposo
e porto:
con teco piango e teco
mi conforto,
se advien che abbi
speranza o ver päura; 4
talor, come se fussi
viva e pura,
teco mi dolgo d'ogni
inganno e torto,
e fammi il van pensier
sì poco accorto,
che altro non chiederei,
se l'error dura. 8
Ma poi nuovi sospir' dal
cor risorge,
fan gli occhi un
lacrimoso fiume e largo
e si rinnuovan tutti e
miei martìri, 11
quando la misera alma
alfin s'accorge
che indarno i prieghi e
le parole spargo;
ond'io pur torno a'
primi miei disiri. 14
L
Canzona fatta sendo
malata una donna
Per molte vie e mille
varii modi
provato ha Amor se mia
constanzia è vera,
come li parve e come
spesso ho detto;
e benché m'abbi agiunti
mille nodi,
ancor ben chiar della
mia fe' non era, 5
volendomi legar molto
più stretto.
E fece ne' primi anni un
suo concetto,
che se 'l celeste viso
ornato e puro
mi si mostrassi duro,
impäurito lascerei la
'mpresa: 10
onde già mai accesa
face non fu della mia
donna al core,
ma del mio mal lieta era
ne' sembianti.
Non è maggior dolore
che veder ch'altri rida
de' sua pianti. 15
In questo modo un tempo
Amor mi tenne,
sanza che mai provassi
altra dolcezza
che contemplar cosa
celeste in terra:
questo mi prese e questo
mi mantenne;
stavo contento sotto tal
bellezza 20
e lieto in pace in mezzo
a tanta guerra.
Amor, che vede che 'l
cor non erra,
ma _è_ fermo, fece in sé
nuovo pensiero,
e lo indomito, altero
cor della donna mi
accese alquanto: 25
non già molto, ma tanto
quanto aggiugnessi a me
qualche speranza
per mantenermi vivo in
tanti affanni;
e poi con più baldanza
raddoppia in me suo
tradimenti e inganni. 30
Quanti fussino allora i
miei martìri
e quanto dura et aspra
la mia sorte,
difficilmente e si dice
e si crede.
Era e conforti miei
pianti e sospiri,
e la speranza già
ridotta a morte, 35
dove credevo sol trovar merzede;
ma la constanzia mia e
intera fede
non manca già per pene e
non si perde,
ma rinasce più verde
quanto maggiore era ogni
mio tormento. 40
In mezzo a tanto stento,
sempre la sua bellezza
mi soccorse
e faceami ogni doglia
stimar poco.
Amor di ciò s'accorse
e fe' nuovo pensiero e
nuovo giuoco. 45
E pregò dolcemente la
Fortuna
che la cercassi d'ogni
cosa nuova
quale alla donna mia
fussi molesta.
Ella, che volentier
sempre importuna,
diliberò di far l'ultima
pruova, 50
e di varii dolor' suo
core infesta.
E di ciò molto
addolorata e mesta
era madonna, e più
sarebbe stata;
ma ne fu liberata,
come Amor volle e la
Fortuna insieme, 55
che le salute extreme
posono in man del suo
fedele amante.
Allor ne vide
experïenzia certa
quanto egli era
constante
e quanto la sua fede da
˙ llei merta. 60
Quando ebbe fatto
questo, il suo stral d'oro
rimisse e 'l plumbeo
trasse, che Amor caccia,
e punse il cor della mia
luce viva;
né mai poi da quel tempo
al verde alloro
mostrò più il Sol benigna
la sua faccia, 65
ma fu d'ogni speranza
l'alma priva.
Onde l'amor, che dentro
al cor bolliva,
come l'animo fa gentile
e degno,
quasi vòlto in isdegno,
difficilmente comportò
tal torto; 70
e fu tal lo sconforto
che 'l cor di tanta
ingratitudin prese,
che lasciò quasi
l'amorosa scuola.
Ma pur poi si raccese,
pensando alla bellezza
al mondo sola. 75
Amor, che vede ogni sua
pruova invano,
pensò nuova malizia, e
la cagione
di tanta mia constanzia
levar volse:
perché, levato el bel
sembiante umano,
li par che sia levato
ogni ragione 80
di mia fede. Et a questo
il pensier volse,
e parte di biltà da
quella tolse
con fare scolorir quel
dolce viso,
fede del paradiso
qui fra' mortali,
albergo d'ogni bene. 85
Questo accresce le pene,
ma non già scema la mia
fede antica,
perché da questa mai mi
potrà storre
dolor', pianti o fatica;
né tu la sua bellezza li
puoi tòrre. 90
Perché, se pur di sue
bellezze spogli
questo gentile et
onorato fiore,
e toi le penne a sì
bella fenice,
a te tua prima
preminenzia togli,
te privi e spogli del
sovran tuo onore, 95
della cagion la qual ti
fe' felice.
Questa del regno tuo è
la radice,
questa è la tua baldanza
e la tua gloria,
questa eterna memoria
darà di te alla prole
futura. 100
Mentre che questa dura,
del nostro mondo cieco
guida e duce,
durerà la tua forza e 'l
tuo valore;
ma se la viva luce
si spegne in terra,
spegnerassi Amore. 105
Non dare, Amore, in
potestà d'altrui
quel ch'è tuo sol, quel
ch'è l'onor tuo vero;
deh, mostra contro a
Morte la tua forza!
Amor, soccorri al mal
d'ambo noi dui,
soccorri alla rüina del
tuo impero! 110
a questa volta i duri
fati sforza!
sicché l'alma gentile e
la sua scorza,
la qual degno ti fa,
lieto e giocondo,
si mantenga nel mondo,
a me la vita, che da lei
dipende. 115
Per te chiar si
comprende
che omai la mia
costanzia è ferma e intera;
non far oramai meco,
Amor, più pruove,
ché la mia fede è vera:
riserba le tue forze e
ingegni altrove. 120
Va', canzona, Amor
priega
che più non tardi il
soccorso a sé stesso,
perché veggo il suo
impero in gran periglio;
et è il suo mal sì
presso,
che poco stato non
varre' consiglio. 125
LI
Sonetto fatto andando in
Maremma lungo la marina
Co' passi sparti e con
la mente vaga
cercando vo per ogni
aspro sentiere
l'abitazion' delle
silvestre fere,
presso ove il mar Tyren
bagna et allaga, 4
sol per provar se si
quïeta e appaga
l'alma per cose nuove;
ma vedere
altro non può, né
innanzi agli occhi avere
che gli occhi che li fêr
l'antica piaga. 8
Se da sinistro in qualche
obscuro speco
guardo, la veggio lì fra
fronde e fronde,
nuova Dïana che ogni
obscuro allieti; 11
a destra, rimirando le
salse onde,
parmi che tolto abbi il
suo imperio a Teti.
Così, sempre è mia dolce
pena meco. 14
LII
Sonetto fatto per un
sogno
Più che mai bella e men
che già mai fera
mostrommi Amor la mia
cara inimica,
quando e pensier' del
giorno e la fatica
tolto avea il pigro
sonno della sera. 4
Sembrava agli occhi miei
propria come era,
deposta sol la sua
durezza antica
e fatta agli amorosi
raggi aprica:
né mai mi parve il ver
cosa sì vera. 8
Prima al parlare e
päuroso e lento
stavo, come solea; poi
la päura
vinse il disio, e
cominciai dicendo: 11
«Madonna…»: e in quel
partissi come un vento.
Così in un tempo sùbita
mi fura
el sonno e sé e mia
merzé, fuggendo. 14
LIII
L'altero sguardo a'
nostri occhi mortale,
che spegne ogni bellezza
che ha dintorno,
fuggito avia, per
prender d'alcun giorno
con Amor triegua e tòr
forza al suo strale, 4
quando Amore, o la sorte
mia fatale,
invida che al mio mal
dessi soggiorno,
mio basilisco di pietate
adorno
mostrommi (ah, contro
'Amor nell'arme vale!), 8
nel tempo che da noi è
più distante
el curro che mal già
guidò Phetonte,
che il pensier vede più
quel che più spera. 11
Disposto avia lo sdegno
il bel sembiante,
e quel bel che mancava
alla sua fronte
pietate aggiunse alla
bellezza altera. 14
LIV
Io son sì certo, Amor,
di tua incertezza,
ch'io mi riposo in non
posar già mai,
e veggo ch'io son cieco,
e tu mi dài
di tua mobilità ogni
fermezza. 4
Di dubbii e di sospetti
ho sol chiarezza,
rido de' pianti miei,
canto i miei lai,
né pruovo altro piacer
che affanni e guai,
o amar più dolce o più
söave asprezza. 8
E sol di mia obscuritate
ho lume;
so ch'io non so voler
quel ch'io pur voglio,
e spesso temo per
superchio ardire. 11
Secche ha le luce uno
abundante fiume;
muto modi e disir' pur
come io soglio,
e vivo sol per brama di
morire. 14
LV
Io mi diparto, dolci
pensier' miei,
da voi, e lascio ogni
amorosa cura,
ché mia fortuna troppo
iniqua e dura
mi sforza a far pur quel
ch'io non vorrei. 4
Pianti dolci e sospir'
süavi e rei,
speranze vane et incerta
päura,
che inquïetavi mia
fragil natura,
andate ad altri cor',
lasciate lei. 8
O versi, o rime, ove
ogni mio lamento
dolce era e quietavo
tanto affanno,
mentre che in lieta
servitù mi giacqui, 11
làsciovi a mal mio
grado, e pur consento,
come sforzato, al
preveduto danno.
Ma così sia, poiché a
tal sorte nacqui. 14
LVI
Non son contento ad un
commiato solo
per dipartir dalle
amorose insegne,
ché gran fiamma in un
tratto non si spegne,
né in brieve sanar
puossi un lungo duolo. 4
…………-olo
…………-egne,
dolci disir', parole
accorte e degne,
or me a' primi miei
pensieri involo. 8
Lacrime mie, d'ogni
dolcezza piene,
sospir' süavi e rimutate
sorte,
che altro destino, altri
pensier' m'induce! 11
Concesso pur mi sia
questo sol bene:
di ricordarmi almen fino
alla morte
l'angelica mia viva e
chiara luce. 14
LVII
Quel ch'io amavo già con
più disio,
più molesto m'è or, più
mi dispiace;
quel ch'era mia letizia
e la mia pace,
è la mia guerra al
tutto, e 'l dolor mio. 4
El tempo lieto è più
dolente e rio;
quel disio ch'era
acceso, or spento giace;
e la speranza mia, già
sì vivace,
fatta è päura; e quel
temea, disio. 8
Quel tempo che tardava a
venir tanto,
or fugge via veloce più
che pardo:
così Fortuna ha vòlto
ogni mia sorte. 11
Vòlto è il dolce in
amaro, e 'l lieto in pianto;
fatto son pigro al tutto
e lento e tardo,
veloce più che mai verso
la morte. 14
LVIII
Amor tenuto m'ha di
tempo in tempo
sotto false promesse
lunghe e vane,
tanto ch'io son
dall'aspettar già stanco
e d'i sua falsi inganni
oramai certo;
ché della lunga mia
aspra fatica 5
dolor è il prezzo, e
vergogna, ira e sdegno.
E quel che più accresce
ogni mio sdegno,
è ch'io ho perso il mio
govinil tempo,
né mel può racquistar
prezzo o fatica.
Or nostre voluntà quanto
sien vane, 10
se già ne dubitai, or ne
son certo,
e per troppo provarle
afflitto e stanco.
Non che altro, del
pensar io son già stanco,
e son venuto a me
medesmo a sdegno,
stando del bene in
dubbio e del mal certo. 15
Ma la vendetta di chi
perde il tempo
è il pentimento, e delle
imprese vane;
vergogna è il frutto poi
d'ogni fatica.
Vana è ogni mortal
nostra fatica;
ma chi in seguire Amor
non è mai stanco, 20
tirato da lusinghe false
e vane,
e, come triste, ha
l'altre cose a sdegno,
più che alcuno altro
perde l'opra e 'l tempo
et è in error più
manifesto e certo.
S'io fussi stato,
siccome, or son, certo 25
quanto si spende invano
ogni fatica
seguendo Amore, e quanto
è perso il tempo,
forse alla impresa pria
mi sarei stanco;
ma io ho i lacci e le
catene a sdegno
or, quando a sciormi
l'opere son vane. 30
Le nostre passïon'
quanto sien vane,
quanto il pianto e 'l
dolore è fermo e certo
e quanto invano ogni
mortale sdegno,
quanto è perduta ogni
umana fatica,
mostra quel che a·ffugir
mai non è stanco, 35
che ogni cosa ne porta e
fura, il tempo.
Passa via il tempo, e le
mie opre vane
conoscer fammi, e ch'io
son stanco e certo
di mia fatica e me
medesmo ho a sdegno.
LIX
Quanto sia vana ogni
speranza nostra,
quanto fallace
ciaschedun disegno,
quanto sia il mondo
d'ignoranzia pregno,
la mäestra del tutto,
Morte, il mostra. 4
Altri si vive in canti e
in ballo e in giostra,
altri a cosa gentil
muove l'ingegno,
altri il mondo ha e le
sue opre a sdegno,
altri quel che dentro
ha, fuor non dimostra. 8
Vane cure e pensier',
diverse sorte,
per la diversità che dà
Natura,
si vede ciascun tempo al
mondo errante. 11
Ogni cosa è fugace e
poco dura,
tanto Fortuna al mondo è
mal constante;
sola sta ferma e sempre
dura Morte. 14
LX
El tempo fugge e vola,
mia giovinezza passa e
l'età lieta,
e la lunga speranza
ognor più manca;
né però ancor s'acqueta
in me quel fer disio,
che morte sola 5
può spegner nella
afflitta anima stanca,
ma tienmi pur sotto
l'antica branca
Amore, e fa che per la
lunga usanza
bramo il mio mal per
natural disio.
Ah, destin fero e rio, 10
che a me hai dato
contr'a me baldanza,
onde io non posso
aitarme!
Almen mancassi in tutto
la speranza,
la qual ne' suoi belli
occhi veder parme,
però che Amor m'offende
con quest'arme. 15
Almen non si vedessi
segno alcun di pietà nel
suo bel viso,
né fussin così dolci le
parole,
e quel süave riso
dagli orecchi e dagli
occhi s'abscondessi, 20
et a me si celassi il
mio bel Sole:
perché l'alma né sa, né
può, né vuole
fuggir da quel che in
vita la mantiene,
anzi la 'nduce a più
bëata morte.
Così mia dubbia sorte 25
desperar non mi lascia o
sperar bene;
ond'è ch'io priego Amore
che levi al tutto la
fallace spene,
o ver soccorra al mio
afflitto core:
questo il contenta, e
l'altro il trae d'errore. 30
Lasso!, ch'io mi credeva
che altra età e le
diverse cure
mi facessin cangiar
disii e voglie,
però che gli advien pure
che il tempo altri
pensieri induce e leva: 35
dando nuove impression',
le vecchie toglie.
Or, questo più dolor nel
core accoglie:
che tra mille pensier'
che in lui s'aduna,
come la mente in varie
cose scorre,
subitamente corre, 40
lasciando l'altre e sé,
sola a questa una,
ove stanco riposo
truova; e così la mena
sua fortuna.
E in questo viver mio
aspro e noioso
e pensier' vaghi e
l'alma afflitta poso. 45
Vorrei sapere, Amore,
non mi mostrando tu
alcun soccorso,
per qual cagion pur
l'alma stanca spera:
forse in natural corso
vòlto è il costume già
per lungo errore, 50
et ha smarrita la via
dritta e vera;
né credo esser le par
quel che già era.
Va seguendo il disio ove
e' la mena,
e perché la speranza la
mantiene,
col disio cresce e
viene: 55
dunque, se questo mai
non si rafrena,
questa già mai si parte,
benché non si vegga onde
o da qual vena
venga l'acqua che 'l
foco spenga in parte.
Amore ha pur nuove
versuzie et arte! 60
Così me stesso inganno,
et indi prende l'alma il
suo conforto,
onde ha cagione il lungo
mio martìre.
Tanta dolcezza han porto
al cor quelli occhi, che
sperar lo fanno: 65
questo fa che consente
al suo morire.
E come lo conduce il van
disire,
va drieto a quel che non
discerne o vede,
e 'l mal che pruova non
conosce ancora,
e quel che al tutto è
fora 70
di sua salute sol disia
e chiede;
e come Amor lo invita,
crede nel morir suo
trovar merzede;
né può più da sé stesso
avere äita,
ché ad altri ha dato il
fren della sua vita. 75
Dunque di sé si dolga,
anzi del vago lume che
lo indusse
al cieco errore, onde
sua morte nacque.
E se questo il condusse,
non pensi che sì presto
lo disciolga, 80
ché dispiacer non può
quel che già piacque;
anzi, dal primo dì che
in esso giacque
quel gran disio, cacciò
fuor della mente
qualunque altro
pensiero, e lui la prese.
Se allor non si difese, 85
nol farà or, quando al
suo mal consente.
Or, se è per mio destino
che così esser debba, o
presto o lente,
come quel vuol, convien
segua il cammino,
finch'io sia giunto
all'ultimo confino. 90
Canzon, di mezzanotte
poiché se' nata, fuggi
il sole e 'l giorno;
piangi teco il tuo male;
fuggi l'aspetto del bel
viso adorno;
lascia seguir la sorte
tua fatale, 95
poiché il fare altro è
indarno e poco vale.
LXI
Io piansi un tempo come
volle Amore
la tardità delle
promesse sue
e quel che interveniva '
ambo noi due,
a me del danno, a·llui
del suo onore. 4
Or piango come vuole il
mio errore,
ché il tempo fugge per
non tornar più
e veggo esser non può
quel che già fue:
or questo è quel che
ancide e strugge il core. 8
Tanto è il nuovo dolor
maggior che 'l primo,
quanto quello avea pur
qualche speranza:
questo non ha se non
pentirsi invano. 11
Così il mio error fra me
misuro e stimo,
e piango (e questo
pianto ogn'altro avanza)
la condizion del viver
nostro umano. 14
LXII
Que' dolci primi miei
pensieri, onde io
nutriva il cor ne' suoi
più grevi danni,
ritornar sento, e le
prime arti e inganni,
e 'l dolce aspro disir,
süave e rio. 4
Lasso, quanto era folle
il creder mio!
che per maggior'
pensieri e per più anni
credea fuggir dagli
amorosi affanni,
non conoscendo bene il
mio disio. 8
Ma come fera in qualche
obscuro bosco
crede fuggire, e corre
alla sua morte,
sendo ferita dallo stral
col tosco, 11
così credea fuggir
correndo forte
all'incognito male; or,
s'io il conosco,
lieto consento alla mia
dura sorte. 14
LXIII
Come di tempo in tempo
verde piante
pel verno sole e per
terrestre umore
producono altre fronde e
nuovo fiore,
quando la terra prende
altro sembiante, 4
così il mio Sole e
quelle luci sante,
l'umor delli occhi miei,
che esce dal core,
fan che rimette nuove
fronde Amore,
quando il tempo rivien
che ho sempre inante. 8
Tornanmi a mente due
fulgenti stelle,
e i modi e le parole che
mi fêro
contr'a Amor vil, contr'a
me stesso ardito. 11
Questo l'antiche e le
nuove fiammelle
raddoppia, et in un
tempo temo e spero.
Tarda pietà, ché 'l nono
anno è fuggito. 14
LXIV
Come lucerna all'ora
matutina,
quando manca l'umor che
'l foco tiene,
extinta par, poi si
raccende, e viene
maggior la fiamma quanto
al fin più inclina, 4
così in mia vaga mente e
peregrina,
l'umor mancando d'ogni
antica spene,
se maggior foco ancor vi
si mantiene,
è che al fin del suo
male è già vicina. 8
Ond'io non temo esto tuo
novo insulto,
né più l'ardente face mi
spaventa,
giunto al fin de'
disir', disdegni et ira. 11
Più mia bella Medusa
marmo sculto
non mi fa, né, Sirena,
m'addormenta,
perché al suo degno
amore il Ciel mi tira. 14
LXV
Sonetto fatto in sul
Rimaggio
Lascia l'isola tua tanto
diletta,
lascia il tuo regno
dilicato e bello,
ciprigna dea, e vien'
sopra il ruscello,
che bagna la minuta e
verde erbetta. 4
Vieni a questa ombra,
alla dolce äuretta
che fa mormoreggiare
ogni arbuscello,
a' canti dolci d'amoroso
uccello:
questa da te per patria
sia eletta. 8
E se tu vien' tra queste
chiare linfe,
sia teco il tuo amato e
caro figlio,
ché qui non si conosce
il suo valore. 11
Togli a Dïana le sue
caste ninffe,
che sciolte or vanno e
sanza alcun periglio,
poco prezzando la virtù
d'Amore. 14
LXVI
Sonetto mandato di
Rimaggio a certi che vi s'erano trovati a far festa
Una ninfa gentil,
leggiadra e bella
più che mai Phebo amasse
o altro dio,
cresciuto ha co' sua
pianti il fresco rio
dove lasciata fu, la
meschinella. 4
Lì duolsi e spesso
accusa or questa or quella
cagion del viver suo
tanto aspro e rio,
poi che lasciò Dïana e
'l suo disio
s'è vòlto ad ubidir la
terza stella. 8
E nulla altro conforta
il suo dolore,
se non che quel che gli
ha tanto ben tolto,
gli renda il disiato e
car tesoro. 11
Sol nasce un dubbio: che
quel tristo core,
che al pianger tanto s'è
diritto e vòlto,
pria non diventi un
fonte o qualche alloro. 14
LXVII
Amor, tu vuoi di me far
tante pruove,
e sì i tuoi servi
aspregge
quanto più fedel' sono,
antichi e interi,
che più servire alle tue
inique legge
non vo', ma per vie
nuove 5
andare e ricercar nuovi
sentieri:
perché non par che io
speri,
nel vecchio, altro
piacer che affanni e pianti,
sospir', paura,
vergogna, ira e disdegno.
Così avessi io il tuo
regno 10
conosciuto e la vita
delli amanti,
quel dì che i casti e i
santi
pensier' miei in tutto
volsi
a te, che dimostravi
darmi pace,
quando me a me tolsi, 15
che quanto fu più presto
men mi piace!
Io m'ero sanza alcun
riserbo dato,
e per più vero segno
della mia intera, pura e
vera fede,
non prezzo alcun, ma il
cor li die' per pegno, 20
e 'l dominio e lo stato
di me libero prese, ove
ancor siede:
sperando che merzede
dovessi aver de' mia
gravosi affanni,
e di mille promesse che
almeno una 25
fusse vera, e Fortuna
qualche volta mutassi
volto e panni.
Or la fatica e li anni
mi veggio avere al tutto
perduti e l'età mia
florida e verde, 30
sanza altri fiori o
frutto,
ché 'l tempo più che un
tratto non si perde.
Ma non è maraviglia s'io
fu' giunto,
semplice e giovinetto,
sotto tale esca mi
mettesti l'amo! 35
Perché non mortal cosa
per oggetto
mi desti, l'ora e 'l
punto
che facesti che ancor
servo mi chiamo,
perché chi mi fe' gramo
cosa divina parve agli
occhi miei; 40
né credo che ingannar
potessi o voglia.
Onde e pianti e la
doglia
ch'io ho sofferti per
seguir costei
già corsi solar' sei,
mi fûr piacer; ma ora 45
ch'io veggo esser
fallace ogni mia spene,
sendone al tutto fora,
Amore io lascio i lacci
e le catene,
e do le vele mie a
miglior vento,
ché in sì crudel
tempesta 50
non era il navicar sanza
periglio.
Lascio la vita lacrimosa
e mesta
e 'l faticoso stento,
e nuova via, altro
governo piglio;
e con miglior consiglio 55
reggo la barca mia fra
le salse onde,
ch'era già sì vicina ad
uno scoglio.
Per altro mare ir
voglio,
la stanca prora vo'
drizzar d'altronde,
ove non si nasconde 60
sicur riposo e porto,
che poco inanzi m'era sì
lontano.
Fammi il passato
accorto,
e la fatica e 'l tempo
perso invano.
E' mi si aghiaccia nelle
vene il sangue 65
quando or meco ripenso
la dura vita perigliosa
e ria.
E come quasi perde
ciascun senso
chi un venenoso angue
passando calca in mezzo
ad una via, 70
che poi via più che pria
teme, già sendo del
pericol fore,
non conoscendo il male
allor quando era,
e quella crudel fera,
la qual calcata avea con
franco core, 75
rimira con maggiore
temenza, già sicuro;
così riguardo il mio
viver indrieto,
rigido, impio, aspro e
duro,
né so ben qual son più,
pauroso o lieto. 80
Canzona, poiché abbiam
mutato stile
non far l'usata via:
conforta a libertà
l'alma gentile.
LXVIII
Sonetto fatto per uno
amico innamorato di nuovo, che lo mandò alla dama
Sì presto il ciel mai
vidi alluminarsi
Quando Giove dimostra le
sue armi,
né sì veloce un mutar
d'occhio parmi,
come, veggendo voi, di
subito arsi; 4
e non sendo i be' lumi a
me più scarsi
a darmi pace che fussi a
˙ llegarmi,
volendo quel, che
dimostroron, farmi,
spero gli amari pianti
dolci farsi. 8
E benché spesso sia Amor
fallace,
e vana la speranza, e
pien d'inganni
a' semplicetti amanti
tal sentiero, 11
pur gli occhi suoi, che
mi promisson pace,
so non mi terran troppo
in questi affanni
e manterran quel ch'io
sol bramo e spero. 14
LXIX
Sonetto fatto al duca di
Calavria in nome di una donna
Bastava avermi tolto
libertate
e dalla casta via
disiunta e torta,
sanza volere ancor
vedermi morta
in tanto strazio e in sì
tenera etate. 4
Tu mi lasciasti sanza
aver pietate
di me, che al tuo partir
pallida e smorta,
presagio ver della mia
vita corta,
restai, più non
prezzando mia beltate. 8
Né posso altro pensar,
se non quell'ora
che fu cagion de' mia
süavi pianti,
del mio dolce martìre e
tristo bene; 11
e se non fussi il
rimembrare ancora
consolator delli
affannati amanti,
morte posto avre' fine a
tante pene. 14
LXX
Sonetto fatto per alcuni
poeticuli che dicevano Bartolomeo Coglione dovea far gran cose, che in fine si
risolverono in fumo
L'impio Furor nel gran
tempio di Giano
orrido freme, sanguinoso
e tinto:
con mille nodi relegato
e vinto,
cerca disciorsi l'una e
l'altra mano. 4
E certamente e'
s'affatica invano,
perché chi s'ha per lui
la spada cinto,
già tante volte è
superato e vinto,
che, se egli è vil,
parer non vorrà insano. 8
Dunque resterà pure
arido e secco,
quanto per lui, Parnaso
e 'l sacro fonte,
né però vizierassi il
verde alloro. 11
Conóscesi oramai la voce
d'Ecco,
né 'l curro più
domanderà Phetonte,
ma fia quel della fata e
del tesoro. 14
LXXI
Sonetto fatto pel duca
di Calavria, quando la Signoria andò al Bagno
– Tu eri poco inanzi sì
felice,
or se' privata d'ogni
tuo onore,
o patria nominata dal
bel fiore:
qual fato tanto bene or
ti disdice? – 4
– Lassa, ché chi mi fa
tanto infelice
mantenne sempre nel mio
cerchio Amore!
Or s'é partita, e con
lei fugge e more
ogni ben, né star lieta
più mi lice. 8
Così sempre farò, finché
Fortuna,
che tolto ha 'l mio
tesor, non mel ritorni
e mi rimetta la mio
stato primiero. 11
Ogni bene, ogni onor
posto ho in questa una;
lei può far lieti e
tristi i nostri giorni,
né io' sanza esser
felice: e spero! – 14
LXII
-
Que' dolci primi miei pensieri, onde io
nutriva il cor ne' suoi più grevi danni,
ritornar sento, e le prime arti e inganni,
e 'l dolce aspro disio, suave e rio.
Lasso, quant'era folle il creder mio!,
che per maggior' pensieri e per più anni
credea fuggir dagli amorosi affanni,
non conoscendo bene il mio disio!
Ma, come fera in qualche oscuro bosco
crede fuggire, e corre alla sua morte,
sendo ferita dallo stral col tosco,
così credea fuggir correndo forte
all'incognito male: or, s'io il conosco,
lieto consento alla mia dura sorte.
LXIII
-Come di tempo in tempo verdi piante
pel verno sole e pel terrestre umore
producono altre fronde e nuovo fiore,
quando la terra prende altro sembiante,
così il mio Sole e quelle luci sante,
l'umor degli occhi miei, che esce dal core,
fan che rimette nuove fronde Amore,
quando il tempo rivien che ho sempre inante.
Tornanmi a mente due fulgenti stelle,
e i modi e le parole che mi fêro
contr'a Amor vil, contr'a me stesso ardito.
Questo l'antiche e le nuove fiammelle
raddoppia, ed in un tempo temo e spero.
Tarda pietà, ché il nono anno è fuggito.
LXIV
-Come lucerna all'ora matutina,
quando manca l'umor che 'l foco tiene,
estinta par, poi si raccende, e viene
maggior la fiamma, quanto al fin più inclina;
così, in mia vaga mente e peregrina
l'umor mancando d'ogni antica spene,
se maggior foco ancor vi si mantiene,
è che al fin del suo male è già vicina.
Ond'io non temo esto tuo nuovo insulto,
né più l'ardente face mi spaventa,
giunto al fin de' disir', disdegni ed ira.
Più mia bella Medusa marmo sculto
non mi fa, né, Sirena, m'addormenta,
perché al suo degno amore il ciel mi tira.
LXV
-
Lascia l'isola tua tanto diletta,
lascia il tuo regno, dilicato e bello,
ciprigna dea, e vien' sopra il ruscello
che bagna la minuta e verde erbetta.
Vieni a quest'ombra, alla dolce auretta
che fa mormoreggiare ogni arbuscello,
a' canti dolci d'amoroso uccello:
questa da te per patria sia eletta.
E, se tu vien' tra queste chiare linfe,
sia teco il tuo amato e caro figlio,
ché qui non si conosce il suo valore.
Togli a Diana le sue caste ninfe,
che sciolte or vanno e sanza alcun periglio,
poco prezzando la virtù d'Amore.
LXVI
-
-
Una ninfa gentil, leggiadra e bella
più che mai Febo amasse o altro dio,
cresciuto ha co' suoi pianti il fresco rio,
dove lasciata fu la meschinella.
Lì duolsi e spesso accusa or questa or quella
cagion del viver suo tanto aspro e rio:
poi che lasciò Diana, il suo disio
s'è vòlto ad ubbidir la terza stella.
E nulla altro conforta il suo dolore,
se non che quel che gli ha tanto ben tolto,
gli renda il desiato e car tesoro.
Sol nasce un dubbio: che quel tristo core
che al pianger tanto s'è diritto e vòlto,
pria non diventi un fonte o qualche alloro.
LXVII
-Amor, tu vuoi di me far tante pruove,
e sì i tuoi servi aspreggi,
quanto più fedel' sono, antichi e interi;
che più servire alle tue inique leggi
non vo', ma per vie nuove
andare e ricercar nuovi sentieri:
perché non par che io speri
nel vecchio altro piacer che affanni e pianti,
sospir', paura, vergogna, ira e disdegno.
Così avess'io il tuo regno
conosciuto e la vita delli amanti,
quel dì che i casti e i santi
pensier' miei in tutto volsi
a te, che dimostravi darmi pace,
quando me a me tolsi,
che, quanto fu più presto, men mi piace!
Io m'ero sanza alcun riserbo dato,
e per più vero segno
della mia intera, pura e vera fede,
non prezzo alcun, ma il cor li die' per pegno;
(e 'l dominio e lo stato
di me libero prese, ove ancor siede),
sperando che merzede
dovessi aver de' mia gravosi affanni,
e di mille promesse che almeno una
fussi vera, e Fortuna
qualche volta mutassi volto e panni.
Or la fatica e li anni
mi veggio avere al tutto
perduti e l'età mia florida e verde,
sanza altri fiori o frutto,
ché 'l tempo più che un tratto non si perde.
Ma non è maraviglia s'io fu' giunto,
semplice e giovinetto:
sotto tal esca mi mettesti l'amo!
Perché non mortal cosa per oggetto
mi desti l'ora e 'l punto
che facesti che ancor servo mi chiamo,
perché chi mi fe' gramo
cosa divina parve agli occhi miei;
né credo che ingannar potessi o voglia.
Onde i pianti e la doglia,
ch'io ho sofferti per seguir costei,
già corsi solar' sei,
mi fûr piacer, ma ora,
ch'io veggo esser fallace ogni mia spene,
sendone al tutto fora,
Amore, io lascio i lacci e le catene;
e do le vele mie al miglior vento,
ché in sì crudel tempesta
non era il navicar sanza periglio.
Lascio la vita lacrimosa e mesta
e 'l faticoso stento,
e nuova via, altro governo piglio;
e con miglior consiglio
reggo la barca mia fra le salse onde,
ch'era già vicina ad uno scoglio.
Per altro mare ir voglio,
la stanca prora vo' drizzar d'altronde,
ove non si nasconde
sicur riposo e porto,
che poco innanzi m'era sì lontano.
Fammi il passato accorto,
e la fatica e 'l tempo perso invano.
E' mi s'agghiaccia nelle vene il sangue,
quando or meco ripenso
la dura vita perigliosa e ria.
E, come quasi perde ciascun senso
chi un venenoso angue
passando calca in mezzo ad una via;
che poi via più che pria
teme, già sendo del pericol fore,
non conoscendo il male allor quando era;
e quella crudel fera,
la qual calcato avea con franco core,
rimira con maggiore
temenza, già sicuro;
così riguardo il mio viver indrieto,
rigido, impio, aspro e duro,
né so ben qual son più, pauroso o lieto.
Canzona, poiché abbiam mutato stile,
non far l'usata via:
conforta a libertà l'alma gentile.
LXVIII
-
-
Sì presto il ciel mai vidi alluminarsi,
quando Giove dimostra le sue armi,
né sì veloce un mutar d'occhio parmi,
come, veggendo voi, di sùbito arsi;
e, non sendo i be' lumi a me più scarsi
a darmi pace, che fussi a legarmi,
volendo, quel che dimostroron, farmi,
spero gli amari pianti dolci farsi.
E, benché spesso sia Amor fallace,
e vana la speranza, e pien d'inganni
a' semplicetti amanti tal sentiero,
pur gli occhi suoi che mi promisson pace,
so non mi terran troppo in questi affanni
e manterran quel ch'io sol bramo e spero.
LXIX
-
-
Bastava avermi tolto libertate
e dalla casta via disiunta e torta,
sanza voler ancor vedermi morta
in tanto strazio e in sì tenera etate.
Tu mi lasciasti sanza aver pietate
di me, che al tuo partir pallida e smorta,
presagio ver della mia vita corta,
restai, più non prezzando mia beltate.
Né posso altro pensar, se non quell'ora
che fu cagion de' mia suavi pianti,
del mio dolce martìr e tristo bene.
E se non fussi il rimembrare ancora
consolator degli affannati amanti,
Morte posto avre' fine a tante pene.
LXX
-
-
L'impio Furor nel gran tempio di Giano
orrido freme, sanguinoso e tinto:
con mille nodi relegato e vinto,
cerca disciôrsi l'una e l'altra mano.
E certamente e' s'affatica invano,
perché chi s'ha per lui la spada cinto,
già tante volte è superato e vinto,
che, se egli è vil, parer non vorrà insano.
Dunque resterà pur arido e secco,
quanto per lui Parnaso e 'l sacro fonte,
né però vizierassi il verde alloro.
Conoscesi oramai la voce d'Ecco,
né 'l curro più domanderà Fetonte,
ma fia quel della fata e del tesoro.
LXXI
-
-
“Tu eri poco innanzi sì felice,
or se' privata d'ogni tuo onore,
o patria nominata dal bel fiore:
qual fato tanto bene or ti disdice?”.
“Lassa, che chi mi fa tanto infelice
mantenne sempre nel mio cerchio Amore!
Or s'è partita, e con lei fugge e more
ogni ben, né star lieta più mi lice.
Così sempre farò, finché Fortuna
che tolto ha 'l mio tesor, non mel ritorni,
e mi rimetta al mio stato primiero.
Ogni bene, ogni onor posto ho in quest'una;
lei può far lieti e tristi i nostri giorni,
né vo' sanz'essa esser felice e spero”.
LXXII
-
-
Per rinnovare Amor l'antiche piaghe,
che avea nel cor richiuse
o fredda voglia o suo poco valore,
l'obietto antico e quelle luci vaghe
di pietà circumfuse
offerse agli occhi, e per lor mezzo al core.
Sembrava il pio sembiante che dolore
non tanto avessi di mia dura sorte,
ma con umili e accorte
voci parea del mal chieder merzede,
come conviensi a tanta ingiusta offesa;
persuadendo al cor che troppo pesa
negar perdon, chi umilmente il chiede.
Questo dicea, tacendo, il bel sembiante:
nol potea altri udire che un amante.
Io, come quel che non avea ben salde
l'antiche cicatrice,
di tal sùbita forza, incauto!, oppresso,
non ben pensando ancor quanto è gran lalde
svegliere alle radice
quel che è difficil poi tagliare appresso,
non pote' far che a sì suave messo
non inclinassi l'uno e l'altro orecchio;
ché 'l rio costume vecchio
tôr non mi può dal core in tempo breve.
E benché avessi ancor quasi presenti
l'ira, li sdegni e' tristi pentimenti,
fu più il disio su tal bilancia grieve:
né altro fe' che far soglia colui
che ha i primi moti in potestà d'altrui.
Ma poi, come uomo usato aver vittoria
d'imprese assai dubbiose
sa qual sia del vittor la condizione,
parte per racquistar la persa gloria,
parte per non far cose
che ad altri dian di me iuridizione,
ripensando alla prima inclinazione,
vergogna ebbe di sé l'animo degno;
onde scudo di sdegno
oppose al colpo sùbito e mortale.
Così feci a tal forza resistenza:
e fu tanto maggior la mia potenza,
che invan fe' la percossa dello strale;
né però sì mi copersi e difesi,
che ancor di tal difesa non mi pesi.
Perché restò dentro al mio petto sculto,
come in cera sigillo,
quel benigno sembiante umìle e pio;
e fu tanto veemente il primo insulto,
che poi punto tranquillo
per tal pensier non ha avuto il cor mio,
anzi sempre lo truovo ove sono io.
Veggo quelli occhi di pietate adorni,
e par spesso mi torni
innanzi quel ch'io disiai già tanto.
Queste parole suonan nella mente:
onde un pensier dentro dal cor si serra,
che, s'è presente, assente mi fa guerra.
Questo pensiero e 'l riguardare indrieto
qual sia suta la mia vita,
mentre inimico fui a mia salute,
mi fêr veder che 'l dolce sguardo lieto,
e 'l simulato aita
era alfin per lungar mia servitute.
E perché poco val quella virtute
che 'l mal vede venir se non soccorre,
pensai quel nodo sciôrre
che all'alma avea il suo bel viver tolto,
e renderli l'antica libertate;
e più forza ebbe in me la mia pietate,
che quella che mostrava il vago volto.
Così mi tolsi dall'error commesso,
e libero rende' me a me stesso.
Priega, canzona, il bel figlio di Venere,
che omai l'ardente face
per me rimetta e lo stral fiammeggiante;
spento è il suo foco, e se ancor caldo è il cenere,
non prolunghi la pace
per questo: che fatto è il core adamante;
né inquieti omai la mente errante
con sue speranze, o pensi più condurne
per vision notturne
al primo impio disio ove già m'ebbe.
Poiché, quando era avermi in sua possanza,
non volse, di me perda ogni speranza,
or che non può, quando forse vorrebbe.
Di' che non facci indarno omai più prove,
ma serbi l'arco e le saette altrove.
LXXIII
-Se Amor agli occhi mostra il lor bel sole,
o se 'l pensiero al cor lo rappresenta,
se' avvien che vera o imaginata senta
l'angelica armonia delle parole,
l'alma, che del passato ancor si duole,
del suo futuro mal triema e paventa,
perché una fiamma, ch'è di fresco spenta,
raccender facilmente ancor si suole,
e benché l'esca della antica spene
non sia nel cor, v'è quella che promette
lo sguardo, le parole e 'l dolce riso.
Ma poi pur rompe i lacci e le catene
lo sdegno, e l'arco spezza e le saette,
quando il passato mal rimiro fiso.
LXXIV
-Lo spirito talora a sé redutto,
e dal mar tempestoso e travagliato
fuggito in porto tranquillo e pacato,
pensando ha dubbio, e vuolne trar costrutto.
S'egli è ver che da Dio proceda tutto,
e senza lui nulla è, cioè il peccato,
per sua grazia è se ci è concesso e dato
seminar qui per côrre eterno frutto.
Tal grazia in quel sol fa operazione,
che a riceverla è vòlto e ben disposto:
Dunque che cosa è quella ne dispone?
Qual prima sia vorrei mi fussi esposto,
o tal grazia o la buona inclinazione.
Rispondi or tu al dubbio ch'è proposto.
LXXV
-Quelle vaghe dolcezze, che Amor pose
ne' due belli occhi dove ancor lui siede,
lasciando, per venirvi, il terzo cielo;
e gigli, le viole e fresche rose,
l'onesto e bel sembiante che merzede
nascosta tien sotto il leggiadro velo,
quando costumi e pelo
dovria mutare, or ritornar mi fanno
in quei lacci amorosi ove già m'ebbe
Amor, finché l'increbbe
di me, misero lasso!; e forse or vuole
ristorar quell'affanno,
sì come a veritier signor conviensi:
e però il chiaro Sole
offerse al cor, né vuol che ad altro pensi.
Quanta biltà già mai fu in donna bella
posto ha in costei, e in me quanto amore
portar si puote a sì leggiadra cosa.
Né fiamma arse già mai, sì come quella
ch'arde e consuma il fortunato core,
qual lieto al foco si quieta e posa.
Quella vita amorosa,
la qual mi fece un tempo odiar me stesso,
ritornar sento, ma cangiato ha sorte;
ché più felice morte
sì dolce mi parre' che vita, allora
che, stando al mio ben presso,
né pene sento, né dolore alcuno.
Sol mi dolgo quell'ora
che l'occhio è del suo ben privo e digiuno.
Quanto appaga il mio cor quella valletta
ove o per maraviglia spesso viene
il Sole a starsi o come Amor lo tira!
Quanto contenta l'alma mia un'
la qual empie il mio cor d'accesa spene
sì dolcemente, e sì suave spira,
che la tempesta e l'ira
del mare acquetere', qualor più freme!
L'onda, più chiara che cristallo od ambra
della felice Zambra,
col dolce mormorio talor m'allieta,
e talor meco geme,
ché piange e ride, come il mio cor face.
L'ire e li sdegni acqueta
per questo Amore, ond'io ho tanta pace.
E ben credo sare' come già fue
verso il mio core, e la sua crudeltate
dimosterrebbe per antica usanza,
se non che lei con le parole sue
lo muove âver di me maggior pietate,
la cui bellezza le sue forze avanza;
e già tanta possanza
Amor gli ha data, che non sol me sforza
ma lui di tanta maraviglia ha cinto,
che al fin se stesso ha vinto.
Veggo or per pruova che ogni gran potenza
è sotto maggior forza:
ella me vinse e lei, vittrice, Amore;
né poi fe' resistenza
Amore alla sua forza e al suo valore.
Come in su be' crin d'òr verde ghirlanda
fa l'òr parer più chiaro e più lucente,
e l'auree chiome il verde assai più snello,
così quella pietà che al cor li manda
Amor, fa sua biltà più eccellente
e più, grata pietà, l'aspetto bello;
ché l'un per l'altro è quello
che fa ciascun per sé più caro e degno:
perché val poco alfin quella pietate
dove non è biltate;
biltà sanza pietate è viva morte,
e passa ogn'altro sdegno
quel ben ch'altri disia, se n'è disiunto.
Pietà, biltà, consorte,
Amor ha in lei e la Natura aggiunto.
Questa coniunzione una armonia
sì dolce fa, che ogni altro dolce passa,
né il dolor sol, ma il cor metto in oblio.
Queste eccellenzie della donna mia
fan lieta l'alma allor quando è più lassa,
ché gran contento segue il gran disio.
Amor, poi che sì pio
se' verso me, per qual cagione avvenga,
di sì felice sorte io ti ringrazio;
temo sol che lo spazio
del viver sia, più ch'io non vorrei, brieve,
e 'l troppo dolce spenga
per morte in me del mio ben la radice;
ma non mi parrà grieve
il fin però, morendo sì felice.
Canzona, in quella valle
andrai, dov'è il mio cor, ch'è sempre aprica,
sopra il fresco ruscello:
lì ti dimorerai lieta e soletta;
fa' parola non dica:
statti ove spira una gentil
LXXVI
-Ch'è quel ch'io veggo dentro agli occhi belli
della mia donna? Lasso!, egli è Amor forse?
Pur l'accecata vista ve lo scòrse,
benché la vinca lo splendor di quelli.
“Amor, perché per me non li favelli?”.
Rispose lui, che dello error s'accorse:
“Perché l'arco e li stral di man m'estorse,
e mi legò co' suoi biondi capelli.
Questa con voluntaria violenzia
fatto ha che in me le mie saette ho vòlto;
per lei ho in odio la mia antica stella.
Due ne ho per una, e molto più bella
ciascuna d'esse; e io triemo, ché tolto
e secco è il fonte d'ogni sua clemenzia.”
LXXVII
-Talor mi priega dolcemente Amore,
parlando all'affannato cor davante:
“Deh! torna a riveder quel bel sembiante,
là dove un tempo accompagnai il tuo core.
Lui si partì per superchio dolore,
io mi restai in quelle luci sante,
ove ancor son buon testimon di tante
durezze pria, or di pietoso ardore.
Torna alle antiche, chiar' tue fide stelle:
ché l'una in te per sua influenzia infonde
amore, e l'altra gentilezza insieme:
giusta pietà l'ha fatte assai più belle.”
Il tristo cor a questo non risponde,
ma tace incerto e d'ogni cosa teme.
LXXVIII
-Se in qualche loco aprico, dolce e bello
trasporta il fatigato corpo e lasso
l'alma, sempr'è Amor meco ad ogni passo,
con cui sol del mio mal piango e favello;
se in bosco ombroso o in monte alpestro e fello,
veggovi Amor che siede sopra un sasso;
se in ima valle o in loco oscuro e basso,
nulla veggo, odo o penso, se non quello.
Né sa più il tristo core omai che farsi:
o fuggir ne' belli occhi alla sua morte,
o ver lontan da quei morir ognora.
Dice fra sé: “Se un tempo in quegli occhi arsi,
dolce era il mio morir, lieta mia sorte:
onde meglio è che ne' belli occhi mora.”
LXXIX
-“Come ritorni, Amor, dentro allo afflitto
cor, che pel tuo partire era tranquillo?”.
“Io torno nello impresso mio sigillo
fatto nel cor da' begli occhi trafitto”.
“Lasso, io credevo che fussi prescritto,
tanto è che libertà per suo sortillo!”.
“Non dir così, ché 'l primo stral, che aprillo,
gli occhi ché 'l trasson v'han sempre relitto”.
“Ben sentivo io nel cener fatto il core
pel fuoco che l'umor delli occhi stilla,
un picciol segno dell'antico amore”.
“Vedrai che quella picciola favilla
in te ecciterà eterno ardore,
colpa e disgrazia della tua pupilla.”
LXXX
-
Occhi, io sospiro come vuole Amore,
e voi avete per mio mal diletto;
Sempre ardo, né giammai giugne allo effetto
qual più desia lo inveterato ardore.
Ma voi sentite ben pel mio dolore,
perché mirate il più gentil obbietto
che aver possiate: al vostro ben perfetto
vi conduce la doglia di me, cuore.
Se pur piangete, io son quel che distillo
alquanto del mio mal per la via vostra,
né il ben vi toglie il cor, quando si duole.
Pregate meco Amor che sia tranquillo,
qual se benigno il chiaro obietto mostra
quanto sarà più bello il vostro sole!
LXXXI
-
Quel che il proprio valore e forza eccede,
folle è sperare o disiar d'avere.
S'alcun tien l'occhio fisso per vedere
il sol, né quel né altra cosa vede.
S'egli è vero il pensier d'alcun che il crede,
l'alta armonia delle celeste spere
vince i mortali orecchi; né volere
si dee quel ch'altri con suo danno chiede.
Ah! folle mio pensier!, perché pur vuole
giugner pietate alle bellezze oneste
della mia donna, agli occhi, alle parole?
Suo parlar men che l'armonia celeste
non vince, o il guardo offende men che il sole:
or pensa se pietà si aggiugne a queste!
LXXXII
-Se con dolce armonia due istrumenti
nella medesma voce alcun concorda,
pulsando l'una, rende l'altra corda
per la conformità, medesmi accenti.
Così par dentro al mio cor si risenti
l'imago impressa, a' nostri sospir sorda,
se per similitudin si ricorda
del viso, ch'è sopra l'umane menti.
Amor, in quanti modi il cor ripigli!
Ché fuggendo l'aspetto del bel viso,
d'una vana pittura il cor pascendo,
o che non vegghino altro i nostri cigli,
o che il pittor già fussi in paradiso,
lei vidi propria: or va' d'Amor fuggendo!
LXXXIII
-Solea già dileggiar Endimione,
la stultizia accusar del bel Narciso,
prender ammirazion che tanto fiso
mirò l'immagin sua Pigmalione.
Lasso!, è il mio vaneggiar con men ragione
condotto ad amar tanto un pinto viso,
che non può con parole o con un riso
quetar quel gran disio che nel cor pone.
Almen dar mi potevan qualche aita
gli occhi ch'io fuggo e le leggiadre chiome:
questo non può la vana simiglianza.
Amor, la tua potenzia è infinita
(folle è chi 'l nega!), ché ho veduto or come
amar può il tristo cor sanza speranza!
LXXXIV
-
Occhi, voi siate pur dentro al mio core
e vedete il tormento ch'ei sostiene,
e la sua intera fé: dunque, onde avviene
che madonna non cura il suo dolore?
Tornate a lei, e con voi venga Amore,
testimone ancor lui di tante pene;
dite che resta al cor sol questa spene
de' prieghi vostri, e se in van fia, si more.
Portate a lei i miseri lamenti.
Ma, lasso! quant'è folle il mio disio,
ché 'l cor non vive sanza gli occhi belli!
O occhi, refrigerio a' miei tormenti,
deh! ritornate al misero cor mio!
Amor sol vadi, e lui per me favelli.
LXXXV
-Se quando io son più presso al vago v¢lto
el freddo sangue si ristringe al core,
e se mi assale un sùbito pallore
io so quel ch'è che ogni virtù m'ha tolto.
Quel viso, in cui è ogni ben raccolto
pe' raggi del micante suo splendore,
sparge e diffonde del suo bel valore
nel cor che ad amar quello in tutto è vòlto.
E tanto dentro al tristo cor soggiorna,
che l'imagine finta al tutto strugge
con la presenzia sua la forma vera.
Allor quella virtù che da lei era,
qual maraviglia è se da me si fugge,
che a lei, sì come a suo principio, torna?
LXXXVI
-Come ti lascio, o come meco sei,
o viso, onde ogni nostra sorte move?
Come qui moro o come vivo altrove?
Amor, dimmelo tu, ch'io nol saprei.
Chi mi sforza al partir, s'io non vorrei?
S'io fuggo un sol, come lo fuggo o dove?
Lasso!, qual ombra fa che non mi trove,
se non è notte mai alli occhi miei?
Questo è ben ver: che se la forma vera
veggio, mi par bellissima e superba,
leggiadra oltra misura e disdegnosa;
s'io son lontan, novella Primavera
riveste i prati di fioretti e d'erba:
così bella la veggio e sì pietosa.
LXXXVII
-
O chiara stella, che co' raggi tuoi
togli alle tue vicine stelle il lume,
perché splendi assai più del tuo costume?
Perché con Febo ancor contender vuoi?
Forse i belli occhi, quali ha tolti a noi
Morte crudel, ch'omai troppo presume,
accolti hai in te: adorna del lor lume,
il suo bel carro a Febo chieder puoi.
O questa o nuova stella che tu sia,
che di splendor novello adorni il cielo,
chiamata esaudi, o nume, e voti nostri:
leva dello splendor tuo tanto via,
che agli occhi, che han d'eterno pianto zelo,
sanza altra offension lieta ti mostri.
LXXXVIII
-
Quando el sol giù dall'orizzonte scende,
rimiro Clizia pallida nel v¢lto,
e piango la sua sorte, che li ha tolto
la vista di colui che ad altri splende.
Poi, quando di novella fiamma accende
l'erbe, le piante e' fior' Febo, a noi vòlto,
l'altro orizzonte allor ringrazio molto
e la benigna Aurora che gliel rende.
Ma, lasso, io non so già qual nuova Aurora
renda al mondo il suo Sole. Ah, dura sorte,
che noi vestir d'eterna notte volse!
O Clizia, indarno speri vederlo ora!
Tien gli occhi fissi, infin li chiugga morte
all'orizzonte estremo che tel tolse.
LXXXIX
-
Di vita il dolce lume fuggirei
a quella vita che altri morte appella;
ma morte è sì gentile oggi e sì bella,
ch'io credo che morir vorran li dèi.
Morte è gentil, poich'è stata in colei
che è or del ciel la più lucente stella;
io, che gustar non vo' dolce poi che ella
è morta, seguirò questi anni rei.
Piangeran sempre gli occhi, e 'l tristo core
sospirerà del suo bel sol l'occaso,
lor di lui privi, e 'l cor d'ogni sua speme.
Piangerà meco dolcemente Amore,
le Grazie e le sorelle di Parnaso;
e chi non piangeria con queste insieme?
XC
-
In qual parte andrò io, ch'io non ti truovi,
trista memoria? In quale oscuro speco
fuggirò io, che sempre non sie meco,
trista memoria, che al mio mal sol giovi?
Se in prato, lo qual germini fior' nuovi,
se all'ombra d'arbuscei verdi m'arreco,
veggo un corrente rivo, io piango seco:
che cosa è, ch'e miei pianti non rinnuovi?
S'io torno all'infelice patrio nido,
tra mille cure questa in mezzo siede
del cor che, come suo, consuma e rode.
Che debb'io fare omai, a che mi fido?
Lasso, che sol sperar posso merzede
da morte, che oramai troppo tardi ode!
XCI
-
Se tra li altri sospir' che escon di fore
del petto, come vuol mia dura sorte,
Amor qualcun ne mischia, par che porte
dolcezza alli altri e riconforti il core.
Quel viso, che col vago suo splendore
ha già li spirti e le mie forze estorte
più volte dall'avare man' di morte,
ancora aiuta l'alma, che non more.
Fortuna invida vede quei sospiri
che manda Amor dal core, e li comporta,
credendo che si arroga a' miei martìri:
Così la inganno e folla manco accorta,
se avvien ch'Amore a lacrimar mi tiri;
né sa quanta dolcezza il pianto porta.
XCII
-I miei vaghi pensieri ad ora ad ora
parlano insieme della donna mia
sì dolcemente, che il mio cor si svia
per girne a lei, e dipoi l'alma ancora.
Amor, che nel mio cor sempre dimora,
veggendo l'alma già che sen va via,
mosso a pietate, assai leggiadra e pia
mi mostra quella che 'l suo regno onora.
Gli occhi, le man', la bocca e il bel sembiante
della mia bella donna ha tolto Amore
e altra gentil donna n'ha vestita,
tal che, veggendo lei, le luci sante
mi par veder: così raffrena il core
Amore, che non si fugge con la vita.
XCIII
-
Se il fortunato cor, quando è più presso
a voi, madonna mia, talor sospira,
non s'incolpi di ciò disdegno o ira
o paura o dolor, lo qual sia in esso;
Ma la dolcezza ch'Amor gli ha concesso
ciascun spirto disvia e a sé il tira,
tal ch'alcun refriggerio più non spira
al cor, che arde obliato di se stesso.
Amor vede, se presto non soccorre,
per soverchia dolcezza il cor perire,
e i vaghi spirti al suo soccorso chiama.
Ciascun per obbedirlo pronto corre:
così crean talor qualche sospire,
per refriggerio a quel che morir brama.
XCIV
-
Spesso mi torna a mente, anzi già mai
si può partir della memoria mia,
l'abito e il tempo e loco, dove pria
la mia donna gentil fiso mirai.
Quel che paressi allora, Amor, tu il sai,
che con lei sempre fusti in compagnia:
quanto vaga, gentil, leggiadra e pia,
non si può dir, né imaginare assai.
Quando sopra i nivosi e alti monti
Apollo spande il suo bel lume adorno,
tali i crin' suoi sopra la bianca gonna.
El tempo e 'l loco non convien ch'io conti,
ché dove è sì bel sole è sempre giorno,
e paradiso ove è sì bella donna.
XCV
-Chi ha la vista sua così potente,
che la mia donna possi mirar fiso,
vede tante bellezze nel suo viso,
che farien tutte l'anime contente.
Ma Amor v'ha posto uno splendor lucente,
che niega a' mortali occhi il paradiso,
onde a chi è da tanto ben diviso
ne resta maraviglia solamente.
Amor sol quei c'han gentilezza e fede
fa forti a rimirar l'alta Bellezza,
levando parte de' lucenti rai.
Quel che una volta la Bellezza vede
e degno è di gustar la sua dolcezza,
non può far che non l'ami sempremai.
XCVI
-
Chiare acque, io sento il vostro mormorio
che sol della donna mia il nome dice:
credo, poi ch'Amor fe'vi sì felice,
che fussi specchio al suo bel viso e pio.
La bella imagin sua da voi partìo,
perché vostra natura vel disdice;
solo il bel nome a voi ricordar lice,
né vuole Amor che lo senta altri ch'io.
Quanto più fûro o fortunati o saggi
che voi, chiare acque, gli occhi mia, quel giorno
che fûrno prima specchio al suo bel volto,
servando sempre in loro i santi raggi.
Né veggon altro poi mirando intorno,
né gliel cela ombra, né dal sol gli è tolto.
XCVII
-
Io ti lasciai pur qui quel lieto giorno
con Amore e madonna, anima mia:
lei con Amor parlando se ne gia
sì dolcemente, allor che ti sviorno!
Lasso! or piangendo e sospirando torno
al loco ove da me fuggisti pria:
né te né la tua bella compagnia
riveder posso, ovunque io miri intorno.
Ben guardo ove la terra è più fiorita,
l'aer fatto più chiar da quella vista
che or fa del mondo un'altra parte lieta.
E fra me dico: “Quinci sei fuggita
con Amor e madonna, anima trista,
ma il bel cammino a me mio destin vieta!”.
XCVIII
-
Poscia che il bene avventurato core,
vinto dalla grandezza de' martìri,
mandando inanzi pria molti sospiri,
fuggì dall'angoscioso petto fore,
stassi in quei due belli occhi con Amore;
e perché loro, ove che Amor li giri,
fan gentile ogni cosa ch'ella miri,
degnato hanno ancor lui a tanto onore.
Il cor, dagli occhi a questo bene eletto,
fatto è per lor virtù tanto gentile,
che più cosa mortal non brama o prezza.
E benché abbin cacciato for del petto
quelli occhi ogni pensier vulgare e vile,
né torna a me, né brama altra bellezza.
XCIX
-
Candida, bella e delicata mano,
ove Amore e Natura poser quelle
leggiadrie dolci, sì gentili e belle
che ogni altra opera lor par fatta invano,
tu traesti del petto il cor pian piano
per la piaga che fêr le vaghe stelle,
quando Amor sì piatose e dolce felle,
tu drieto a lor entrasti a mano a mano;
tu legasti il mio cor con mille nodi,
tu 'l formasti di nuovo e, poi che fue
gentil fatto per te, rompesti e lacci.
S'egli è fatto gentil, non convien piùe
cercar per rilegarlo nuovi nodi,
o pensar ch'altra cosa mai li piacci.
C
-
O mano mia suavissima e decora!
“Mia”, perché Amor, quel giorno che ebbe a sdegno
mia libertà, mi dette te per pegno
delle promesse che mi fece allora;
dolcissima mia man, con quale indora
Amor li strali onde cresce il suo regno!
con questa tira l'arco, a cui è segno
ciaschedun cor gentil che s'innamora.
Candida e bella man, tu sani poi
quelle dolci ferite, come il telo
facea, com'alcun dice, di Pelide.
La vita e morte mia tenete voi,
eburnee dita, e 'l gran disio ch'io celo,
qual mai occhio mortal vedrà, né vide.
CI
-
Belle, fresche e purpuree viole,
che quella candidissima man colse,
qual pioggia o qual puro aer produr volse
tanto più vaghi fior' che far non suole?
Qual rugiada, qual terra o ver qual sole
tante vaghe bellezze in voi raccolse?
Onde il suave odor Natura tolse,
o il ciel, che a tanto ben degnar ne vuole?
Care mie violette, quella mano
che v'elesse infra l'altre, ov'eri, in sorte,
vi ha di tanta eccellenzia e pregio ornate!
Quella che il cor mi tolse, e di villano
lo fe' gentile, a cui siate consorte,
quella adunque, e non altri ringraziate!
CII
-
Quanta invidia ti porto, o cuor beato,
che quella man vezzosa or mulce or stringe,
tal ch'ogni vil durezza da te spinge!
E poi che sì gentil sei diventato,
talora il nome, a cui te ha consegrato
Amore, il bianco dito in te dipinge;
or l'angelico viso informa e finge,
or lieto, or dolcemente perturbato.
Or li amorosi e vaghi suoi pensieri
ad uno ad un la bella man descrive,
or le dolce parole accorte e sante.
O mio bel core, oramai più che speri?
Sol che abbin forza quelle luci dive
di transformarti in rigido adamante.
CIII
-
Datemi pace omai, sospiri ardenti,
o pensier' sempre nel bel viso fissi,
che qualche sonno placido venissi
alle roranti mie luci dolenti!
Or li uomini e le fere hanno le urgenti
fatiche e' dur' pensier queti e remissi,
e già i bianchi cavalli al giogo ha missi
la scorta de' febei raggi orienti.
Deh! facciàn triegua, Amor, ch'io ti pormetto
ne' sonni sol veder quell'amoroso
viso, udir le parole ch'ella dice,
toccar la bianca man che 'l cor m'ha stretto.
O Amore, del mio ben troppo invidioso,
lassami almen dormendo esser felice!
CIV
-
O Sonno placidissimo, omai vieni
allo affannato cor che ti disia!
Serra il perenne fonte a' pianti mia,
o dolce oblivion, che tanto peni!
Vienne, unica quiete, quale affreni
sola il corso al desire, e in compagnia
mena la donna mia benigna e pia,
con gli occhi di pietà dolci e sereni.
Mostrami il lieto riso, ove già fêrno
le Grazie la lor sede, e il disio queti
un pio sembiante, una parola accorta.
Se così me la mostri, o sia etterno
il nostro sonno, o questi sonni lieti,
lasso, non passin per l'eburnea porta!
CV
-
Cerchi chi vuol le pompe e gli alti onori,
le piazze, e templi e gli edifizii magni,
le delizie, il tesor, quale accompagni
mille duri pensier', mille dolori.
Un verde praticel pien di bei fiori
un rivolo che l'erba intorno bagni,
uno uccelletto che d'amor si lagni,
acqueta molto meglio i nostri ardori;
l'ombrose selve, e sassi e gli alti monti,
gli antri oscuri e le fere fugitive,
qualche leggiadra ninfa paurosa.
Quivi veggo io con pensier' vaghi e pronti
le belle luci come fussin vive,
qui me le toglie or una or altra cosa.
CVI
-
“Ponete modo al pianto, occhi miei lassi:
presto quel viso angelico vedrete!”
“Ecco già lo veggiam”. “Perché piangete?
Perché nel petto il cor pavido stassi?”
“Miseri noi, che se fiso mirassi,
fermando in noi le vaghe luci e liete,
il nostro bavalischio, o faria priete
di noi, o converria l'alma espirassi!”.
“Dunque, qual disio face a voi, qual sorte,
e temere e voler quel vi disface?
Chi muove o scorge il passo lento e raro?”.
“Natura insegna a noi temer la morte,
ma Amor poi mirabilmente face,
suave a' suoi quel ch'è ad ogni altro amaro”.
CVII
-O veramente felice e beata
notte, che a tanto ben fusti presente!
O passi ciechi, scorti dolcemente
da quella man suave e delicata!
Voi, Amore e 'l mio cor e la mia amata
donna sapete sol, non altra gente,
quella dolcezza che ogni umana mente
vince, da uom giamai più non provata.
Oh più ch'altra armonia di suoni e canti
dolce silenzio! O cieche ombre, che avesti
di lacrimosa luce privilegio!
Oh felici sospiri e degni pianti!
Oh superbo desio, che presumesti
voler sperare aver sì alto pregio!
CVIII
-
Sì dolcemente la mia donna chiama
morte nelli amorosi suoi sospiri,
che accende in mezzo agli aspri miei disiri
un suave disio, che morte brama.
Questo gentil disio tanto il core ama,
che scaccia e spegne in lui gli altri martìri;
quinci prende vigore e par respiri
l'alma contr'a sua voglia, afflitta e grama.
Morte, dalle dolcissime parole
di mia donna chiamata, già non chiude
però i belli occhi, anzi sen fa piatosa.
Così mantiensi al mondo il mio bel Sole;
a me la vita mesta e lacrimosa
per contrario disio, che morte eslude.
CIX
-
Ove madonna volge gli occhi belli
sanz'altro sol questa novella Flora
fa germinar la terra e mandar fora
mille vari color' di fior novelli.
Amorosa armonia rendon li uccelli,
sentendo il cantar suo, che l'innamora;
veston le selve i secchi rami, allora,
che senton quanto dolce ella favelli.
Delle timide ninfe a' petti casti
qualche molle pensiero Amore infonde,
se trae riso o sospir la bella bocca.
Or qui lingua o pensier non par che basti
a intender ben quanta e qual grazia abonde,
là dove quella candida man tocca.
CX
-
Lasso!, che sento io più muover nel petto?
Non già il mio cor, che s'è da me fuggito.
Questi spessi sospir', s'ei se n'è gito,
a cui dan refriggerio, a cui diletto?
Li alti e dolci pensier' del mio concetto
chi muove adunque, se il core è smarrito?
Amor, che 'l fece al fuggir via sì ardito,
questo me ne ha con la sua bocca detto:
“Quando i belli occhi prima la via fêro,
entrò la bianca mano e 'l cor ti tolse,
e in cambio a quello un più gentil ne misse;
questo in te vive, e 'l tuo, fatto più altero,
in più candido petto viver volse.
Questo è de' mia miracoli”, Amor disse.
CXI
-Quando la bella imagine Amor pose
drento al mio cor per sua grazia e virtute,
se per altri disir' v'eran venute,
spense e scacciò da lui tutte altre cose.
Lasso or se con le luci lacrimose
invan cerco le luci che ho perdute,
dalli occhi al pensier fuggo, e mia salute
a lui domando, a cui già mai s'ascose.
El mio pensiero allor benignamente
sola in mezzo del cor la donna mia
mi mostra, e intorno tutti e miei disiri.
Allor di novel foco arder si sente
il tristo cor, che già cener saria,
se non fusse la forza de' sospiri.
CXII
-
Madonna, io veggo ne' vostri occhi belli
un disio vago, dolce ed amoroso,
che Amore a tutti tiene ascoso,
a me benignamente lo mostra elli.
Questo gentil disio par che favelli,
promettendo al mio cor pace e riposo:
questo afferma un sospir caldo e pietoso,
che Amore in compagnia per fede dielli.
Questo sospir porta al mio cor novelle
della pietà, che fuor del bianco petto
lo manda messagger del vostro cuore.
Giunto alla bella bocca, e pie e belle
parole forma, di sì dolce effetto,
che fa stupido star, non che altri, Amore.
CXIII
-
Più dolce sonno o placida quiete
già mai chiuse occhi, o più belli occhi mai,
quanto quel che adombrò li santi rai
delle amorose luci, altere e liete.
E mentre stiêr così, chiuse e secrete,
Amor del tuo valor perdesti assai,
ché lo imperio e la forza che tu hai
la bella vista par ti presti e viete.
Alta e frondosa quercia, che interponi
le fronde tra' belli occhi e' febei raggi,
e sumministri l'ombra al bel sopore,
non temer, benché Giove irato tuoni,
non temer sopra te più folgor caggi,
da que' grati occhi consecrata a Amore.
CXIV
-
Odorifera erbetta e vaghi fiori,
che ornate il prato come il ciel le stelle,
le dolcemente fatigate e belle
membra vedesti in mezzo ai bei colori.
Alto e dolce pensier suo, quanto onori
le cose di cui tacito favelle!
Oh me felice, che allor fui di quelle,
che 'l dice Amor, che ha in pegno i nostri cuori!
Aura suave, quale or togli or rendi
a lei la vista del febeo splendore,
movendo i rami e insieme l'ombra intorno!
All'alta quercia i tuoi trofei sospendi,
o dolce sonno, e non si sdegni Amore
se triunfasti de' belli occhi il giorno!
CXV
-
Tante vaghe bellezze ha in sé raccolto
il gentil viso della donna mia,
ch'ogni nuovo accidente che in lui sia,
prende da lui bellezza e valor molto.
Se di grata pietà talor è involto,
pietà già mai non fu sì dolce e pia:
se di sdegno arde, tanto bella e ria
è l'ira, ch'Amor triema in quel bel volto.
Pietosa e bella è in essa ogni mestizia:
e, se rigano pianti il vago viso,
dice piangendo Amor: “Questo è il mio regno!”.
Ma quando il mondo cieco è fatto degno
che muova quella bocca un suave riso,
conosce allor quale è vera letizia.
CXVI
-
Allor ch'io penso di dolermi alquanto
de' pianti e de' sospir miei teco, Amore,
mirando per pietà l'afflitto core,
l'imagin veggo di quel viso santo.
E parmi allor sì bella e dolce tanto,
che vergognoso il primo pensier more;
nascene un altro poi, che è uno ardore
di ringraziarla, e le sue laude canto.
La bella imagin che laudar si sente,
come dice il pensier che lei sol mira,
sen fa più bella e più pietosa assai.
Quinci surge un disio nuovo in la mente
di veder quella che ode, parla e spira:
e torno a voi, lucenti e dolci rai.
CXVII
-
Sonetto fatto
Già fui misero amante, or transformato
per la vaghezza di due occhi belli
da una ninfa tra verdi arbuscelli,
di amante un duro sasso diventato.
Se qualche gentil cor quinci è passato,
per essemplo di me sia più saggio elli;
né facci gli occhi alla ragion ribelli,
perché son tesi i lacci in ogni lato.
Benché rigida pietra, ancor mi resta
tanta pietà, che ammonir posso altrui
e farlo saggio col pericol mio.
Cauto con gli occhi bassi e con la testa
passi di qui chi è come già fui,
ché ancora in questi luoghi Amore è dio.
CXVIII
-
Lasso a me!, quando io son là dove sia
quell'angelico, altero e dolce volto,
il freddo sangue intorno al core accolto
lascia sanza color la faccia mia.
Poi, mirando la sua, mi par sì pia,
che io prendo ardire e torna il valor tolto:
Amor, ne' raggi de' belli occhi involto,
mostra al mio tristo cor la cieca via.
E parlandoli allor dice: “Io ti giuro
pel santo lume di questi occhi belli,
del mio stral forza e del mio regno onore,
ch'io sarò sempre teco, e te assicuro
esser vera pietà che mostran quelli”.
Credeli, lasso, e da me fugge il core.
CXIX
-
Quel cor gentil, che Amor mi diede in pegno
mirabilmente in cambio al mio, eletto
a maggior bene, or vuol lasciar soletto
il petto mio, di sì bel core indegno.
Io priego il mio che torni: egli è sì degno,
che l'antiqua sua sede ora ha in dispetto.
Io dico a lui: “Se non degna il mio petto
quel core, arà te, cor, quel petto a sdegno.
Misero, che farai?”. E lui risponde:
“Starò in essilio in quelle luci belle:
se pur cacciato son sanza riguardo,
queste non mi può tôr, né Amor le asconde;
e tu arai di me spesso novelle
pe' dolci raggi di quel bello sguardo”.
CXX
-
“Amorosi sospiri, e quali uscite
del bianco petto di mia donna bella,
ditemi del mio cor qualche novella
qual voi sì dolcemente in lei nutrite”.
“Stassi lieto il tuo cor, quieto e mite,
mille dolci pensier' movendo in quella,
co' qual' sovente e con Amor favella
alte cose e gentil'; né voi l'udite”.
“Sospir' benigni, ora è ver quel che io sento
da voi?”. “Sì certo!”. “Almen ditemi ancora
se là dove è starà il mio core assai”.
Mentre che io parlo, e lor sen vanno in vento.
Amor sopra il suo petto giura allora
che a me il mio cor non tornerà già mai.
CXXI
-Occhi, voi siate pur, come paresti,
i più begli occhi ch'io vedessi mai:
l'altre vaghe bellezze ch'io mirai
e i modi son bellissimi ed onesti.
Né mi posso doler, lasso! di questi,
ma ringraziarli ed onorarli assai,
ma sol di te, o falso Amor, che sai
che 'l core era adamante e nol dicesti.
Già ne domandai gli occhi, ove tu eri:
tu formasti parole in quella bocca
da fare i monti gir, non che un cor preso.
Già pe' sospir' gli amorosi pensieri
suoi conobbi io, e che pietà il cor tocca,
ma non sapea di che fuoco era acceso.
CXXII
-
Il cor mio lasso, in mezzo allo angoscioso
petto i vaghi pensier' convoca e tira
tutti a sé intorno, e pria forte sospira,
poi dice con parlar dolce e pietoso:
“Se ben ciascun di voi è amoroso,
pur ve ha creati chi vi parla e mira:
deh! perché adunque eterna guerra e dira
mi fate, sanza darmi un sol riposo?”
Risponde un d'essi: “Come al novo sole
fan di fior' varii l'ape una dolcezza,
quando di Flora il bel regno apparisce,
così noi delli sguardi e le parole
facciam, de' modi e della sua bellezza,
un certo dolce-amar, che ti nutrisce.”
CXXIII
-Qual maraviglia, se ognor più s'accende
quel gentil foco in cui dolcemente ardo?
Se mille volte quel bel viso guardo,
mille nuove dolcezze alli occhi rende.
El core, a cui questa bellezza scende,
si maraviglia, e l'occhio ottuso e tardo
a veder le virtù del bello sguardo
accusa di pigrizia, e lo riprende.
Amor per gli occhi di mia donna vede
li occhi mia lassi, e al mio cor favella
pe' dolci raggi della vista pia:
“Infinito è il valore onde procede
alli occhi tuoi dolcezza ognor novella:
l'occhio è mortale; e 'l foco eterno fia.”
CXXIV
-
Lasso, io non veggo più quelli occhi santi,
de' miei dolenti pace e vero obietto;
e, perché quel ch'io veggo altro ho in dispetto,
Amor piatoso e miei copre di pianti.
Le lacrime che cascan giù davanti
destano il cor di fuor bagnando il petto,
il cor domanda Amor, qual duro affetto
fa così gli occhi madidi e roranti.
Amor gliel dice. Allor pietà gli viene
degli occhi, e manda alla umida mia faccia
sospirando, una nebbia di martìri.
O dolcissimo Sole, o sol mio bene,
m¢strati alquanto e questa nebbia caccia:
non han più gli occhi pianti o il cor sospiri.
CXXV
-
“Lasso, or la bella donna mia che face?
Ove assisa si sta? Che pensa o dice?
Chi fanno or li occhi o quella man felice?
Amor, dimmelo tu!”. E lui si tace.
Gli occhi allor, per saper della lor pace,
mandan lacrime fuor triste, infelice:
qual giugne al petto, a qual più oltre ir lice,
bagna la terra, ivi s'arresta e iace.
Manda il mio cor molti sospiri allora:
questi sen vanno in vento, onde conforta
i pensier' pronti il core al bel cammino;
questi a lei vanno, e ella l'innamora,
sì che alcun le novelle non riporta.
Segueli il core: io piango il mio destino.
CXXVI
-
Io torno a voi, o chiare luci e belle,
al dolce lume, alla beltà infinita,
onde ogni cor gentile al mondo ha vita,
come dal sole il lume l'altre stelle.
Vengo con passi lenti a mirar quelle,
pien di varii pensier', che alcun ne invita
pure a speranza; da altri sbigottita
l'alma teme d'intenderne novelle.
Dicemi in questo Amor: “Nel tuo cor mira,
vedra'vi scritte l'ultime parole,
che udisti in mia presenzia, e io le scrissi.
Ciascuno altro pensier disdegno e ira
tolto ho da lei, e in quel bel petto sole
ardon le fiamme che io per te vi missi.
CXXVII
-
Quello amoroso e candido pallore,
che in quel bel viso allor venir presunse,
fece all'altre bellezze, quando giunse,
come fa campo l'erba verde al fiore;
o come ciel seren col suo colore
distinguendo le stelle, ornato aggiunse;
né men bellezze in sé quel viso assunse,
che fiori in prato, o in ciel lume o splendore.
Amore in mezzo della faccia pia
lieto e maraviglioso vidi allora:
così bella questa opra sua li parve.
Come il dolce pallor la vista mia
percosse e il lume de' belli occhi aparve,
fuggissi ogni virtù, né torna ancora.
CXXVIII
-
Lasso, oramai non so più che far deggia,
quando io son là, dove è mia donna bella:
se io miro l'una o l'altra chiara stella,
veggo la morte mia che in lor lampeggia;
se avvien che io fugga e 'l mio soccorso chieggia
ora a questa bellezza e ora a quella,
ora a' modi, ora a sua dolce favella,
loco non truovo ove sicur mi veggia.
Se io tocco la sua mano, ella m'ha privo
di vita, e tiensi in un bel fascio stretto
el core e i pensier' miei, pronti e felici.
Di tali e tanti dolci inimici
ho mille dolci offese, e ancora aspetto
sì dolce morte, che a pensarne vivo.
CXXIX
-
Se io volgo or qua or là li occhi miei lassi,
sanza veder quel ben che or mi piace,
miseri lor!, già mai non truovon pace:
questo avviene a' pensier', parole e passi.
Onde pel meglio e lacrimosi e bassi
gli tengo, e la mia lingua afflitta tace,
e 'l piè nel primo suo vestigio iace,
ciascun pensiero al cor ristretto stassi.
Allor sì bella e sì gentil la veggio
drento al mio core, ove Amor l'ha scolpita,
che altro bene, altra pace più non chieggio.
Tacito e solo il mio bel cor vagheggio;
e in quel si parte e fugge con la vita:
né vivo resto o morto allor, ma peggio.
CXXX
-
Non è soletta la mia donna bella
lunge dalli occhi miei dolenti e lassi:
Amor, Fede, Speranza sempre stassi,
e tutti i miei pensieri ancor con quella.
Con questi duolsi sì dolce e favella,
che Amor pietoso oltre a misura fassi,
e in que' belli occhi, che il dolor tien bassi,
piange, oscurando l'una e l'altra stella.
Questo ridice un mio fido pensiero,
e, se io non lo credessi, porta fede
della sua dolce e bella compagnia.
E se non pur che ad ora ad ora spero
li occhi vedere che sempre il mio cor vede,
per la dolcezza e per pietà morria.
CXXXI
-Un acerbo pensier talor mi tiene
e prende sopra gli altri signoria:
se dura, io moro, e s'io lo caccio via,
un'altra volta con più forza viene.
Dicemi esser fallace ogni mia spene,
l'amor, la fede della donna mia;
narra i vaghi desir', quali ebbi pria
che Amor ponessi in lei tutto il mio bene.
Pensando a questo, Morte per ristoro
chiamo, e pietosa mi udirebbe allora:
ma Amor, che sa quanto a torto io mi doglia,
mi mostra que' belli occhi, e innanzi a loro
fugge ogni rio pensiero, ogni mia doglia,
come tenebre innanzi della aurora.
CXXXII
-Sì dolce essemplo a piangere hanno dato
agli occhi miei quei lacrimosi lumi,
che usciran sempre due perenni fiumi
da' miei: tal disio m'è di pianger nato.
Lasso, quanto eran belli, e in quale stato
misero gli lassai! Or mi consumi,
o tenace memoria, e ancor presumi
prometter peggio: o troppo avverso fato!
A sì gran colpa è poca pena un pianto
sì dolce, e dolce è il pianto, poi che e belli
occhi pianger vid'io sì largo e forte.
Onde e miei occhi, che presunser tanto,
voler, piangendo, allor simigliar quelli,
e spero ed ardo presto chiuda Morte.
CXXXIII
-Della mia donna, omè, gli ultimi sguardi
el pensier mio sol, sempre e fiso mira.
Gli occhi miei prima ne hanno invidia e ira,
ché sono, al giugner del lor ben, più tardi;
ma poi, se ben diverse cose io guardi,
il mio forte pensier, che a sé le tira,
tutte in lei le converte, e quinci spira
brieve dolcezza agli occhi miei bugiardi.
E come il sol, sanza accidente o forma
di caldo, prende poi nuova virtute
per la reflession, e il mondo accende;
così, poi che al pensier mio son venute
varie cose per gli occhi, Amor le informa,
e sol la donna mia agli occhi rende.
CXXXIV
-Della mia donna, Amor, le sacre piante,
come gli piacque, in quel bel loco scòrse,
ove ella pria la bianca man mi porse
per pegno del suo cor fido e costante.
Giunta in quel loco, le sue luci sante
girando, da poi che ivi non mi scòrse,
di me tanta pietate al cor gli corse,
che fe' di pianto un dolce e bel sembiante.
Poi, rimembrando il primo tempo e quello
pegno amoroso, e guardando ove fosse,
allor soletta, trasse un gran sospire:
col qual per uscir fuor l'alma si mosse:
ma lei, chiamando il grato nome e bello,
ritenne l'alma che volea fuggire.
CXXXV
-Quella virtù che t'ha prodotto et ale,
silvestro e vago fiore, or non si dolga,
né tema, s'io da lei ti spicchi o colga,
che tu perda il vigore tuo naturale.
Tu sarai dono alla mia donna, quale
s'avvien che nella bianca man te accolga
e sopra te gli occhi amorosi volga,
la lor virtù sopra ogni altra vale.
Se, lei piangendo, l'amoroso rivo
de' pianti bagna tue languenti foglie,
sarai de' fior' del basso paradiso.
Né di ciò prender maraviglia o doglie,
ch'ancor io, sendo or qui da lei diviso,
di pianti, omè, sol mi nutrisco e vivo!
CXXXVI
-Non de' verdi giardini ornati e c¢lti
dello aprico e dolce aere pestano,
veniam, madonna, in la tua bianca mano,
ma in aspre selve e valli ombrose còlti:
ove Venere, afflitta e in pensier' molti
pel periglio d'Adon, correndo invano,
un spino acuto al nudo piè villano
sparse del divin sangue i boschi folti.
Noi summettemmo allora il bianco fiore,
tanto che 'l sacro sangue non aggiunge
a terra: onde il color purpureo nacque.
Non aure estive o rivi tolti a lunge
noi nutriti hanno, ma sospir' d'Amore
l'aure son sute, e lacrime fûr l'acque.
CXXXVII
-Poi che dal bel sembiante dipartisse
pien di lamenti l'alma come suole,
Amore, a cui de' miei sospir' pur duole,
vedendo le mie luci a pianger fisse,
con dolce e desiato oblio fren misse
a' pianti, a' sospir tristi, alle parole;
e, dormendo, allor fe' che 'l mio Sole
più che mai lieto e bello a me venisse.
Là mi porgea la sua sinistra mano,
dicendo: “Or non conosci il loco? Questo
è il loco, ove Amor pria dar mi ti volle!”.
Poscia, andando per gradi su pian piano
in altra parte, per dolcezza desto,
pien di desio restai col petto molle.
CXXXVIII
-Per lunga, erta, aspra via, nell'ombre involto,
scorgendo Amor lo mio cieco pensiero,
mossi i piè per incognito sentiero,
avendo il disio già verso il ciel vòlto.
Per mille errori alfin, con sudor molto
all'orizzonte del nostro emispero
pervenni, indi in eccelso e più altero
loco, di terra già levato e tolto.
Della gran scala al terzo grado giunto,
consegnommi alla madre il caro figlio:
se ben confusa allor mostrossi a noi.
Quindi, in più luminosa parte assunto
potei mirare il Sol con mortal ciglio,
né mai cosa mortal mi piacque poi.
CXXXIX
-Le frondi giovinette gli arbuscelli
sogliono al tempo nuovo rivestire
e Flora il suo bel seno a Febo aprire,
e produr voi con gli altri fior' novelli.
Or la stagion matura ha fatto quelli
in semi o in dolci pomi convertire:
qual maraviglia or voi soli apparire
face, amorosi fior', sì freschi e belli?
Questa sol, credo, o mammole viole:
che da Natura destinate sète
per riscaldarvi a' raggi del mio Sole.
Cessi ogni maraviglia, se verrete
in quella man, s'ella accettar vi vuole:
sì nuovo e bel miracolo vedrete.
CXL
-Qual maraviglia, se ognor più s'accende
quel gentil foco in cui dolcemente ardo?
Se mille volte quel bel viso guardo,
mille nuove bellezze alli occhi rende.
Il cor, cui beltà nuova ognor discende,
si maraviglia e duol del fral mio sguardo,
che sia a tanto ben conoscer tardo,
e come o cieco o pigro lo riprende.
Piangon gli occhi accusati; Amor li vede,
e scusandoli allora al cor favella
da' piatosi occhi della donna mia:
“Infinito è il valore onde procede
agli occhi tuoi bellezza ognor novella:
l'occhio è finito, e 'l foco eterno fia”.
CXLI
-L'anima afflitta mia fatta è lontana
da quelle luci belle e perigliose;
però, benché assai timida, dispose
libera farsi, e contr'Amor più strana.
Chiama e pensieri, e in voce sorda e piana,
celando Amore, il suo disio propose.
Di tanti, omè, per tutti un li rispose:
“La 'mpresa omai è tarda, e l'opra è vana!”.
Così dicendo, quest'afflitta scorge
nel loco abbandonato ove era il core,
che co' ribelli spirti è via fuggito.
Allor la miser'alma, che s'accorge
d'esser sola, ancor lei prende partito:
ed io sol vivo per virtù d'Amore.
CXLII
-Un pensier che d'Amor parla sovente
sol vive in me, che volentier l'ascolto,
e se alcun altro surge nella mente,
sì come peregrin non vi sta molto.
La misera mia anima, che sente
oltra a' pensier' ciascun spirto vòlto
contra alla vita, assai timidamente
ristretta in sé, si duol di quel bel v¢lto.
E lui, di tal doglienza avendo indizio
dalli spirti d'Amor, con vero e pio
parlar si scusa alla trist'alma, e dice:
“È di bellezza proprio e grato offizio
piacer: anima, incolpa il tuo disio,
se a ciascun piaccio e te sol fo infelice.”
CXLIII
-Lasso, quanto disio Amore ha messo
dentro al mio angoscioso e tristo petto!
E perché il loco a sì gran fascio è stretto,
in forma di sospir' ne vien fuor spesso.
El mio cor saggio, che si sente oppresso,
per dar loco ancor lui a tanto affetto,
gito se n'è sopra quel bel poggetto,
ov'è madonna, e stassi a lei appresso.
E benché manchi al gran disire el fonte,
partendo el core, Amor, Usanza han fatto
che ciò che vive in me sol lei desira.
Il cor me avvisa dal superbo monte
per un messo d'Amor, che vien ratto,
che in quel bel petto per pietà sospira.
CXLIV
-Diconmi spesso gli occhi umidi e lassi:
“Noi vorremmo seguir la via del core
e gire agli occhi ove ogni vista more,
e, morendo, più chiara e bella fassi”.
La via è assai nota ai lenti passi;
ché, come illustra un acceso vapore
la notte, così spiriti d'Amore
el bel cammino onde a madonna vassi.
Ed io, cui il contentarli e negar grava,
gli meno in cima de' più alti colli,
e mostro lor, benché lontan, quel loco.
Come assetato, se la bocca lava,
cresce il desir, se sol le labbra inmolli;
cresce allor pianto agli occhi, al petto foco.
CXLV
-Superbo colle, benché in vista umìle,
più degno e più felice assai che quelli
Esquilie, Celio, Aventino e' fratelli,
benché cantati da più alto stile;
questi già vider trionfar più vile,
d'Emilii, Scipioni e di Marcelli:
tu vedi triunfar agli occhi belli
Amor legato e ciascun cor gentile.
Vengon le Grazie catenate e scinte,
Pietà, Beltate innanzi al carro, e quelle
virtù che son in gentil cor distinte.
Liete sono, ben che triunfate e vinte,
tanto più liete quanto son più belle
nel viso della donna mia dipinte.
CXLVI
-“Quando morrà questa dolce inimica
Speranza, che sostien la vita amara,
che muor quando la dolce luce e chiara,
tornando agli occhi, el cor lieto nutrica?
La Fede data, sorella e amica
della Speranza lacrimosa e cara,
Fede gentil, al mondo oggi sì rara,
quando morrà? Amor, fa' che mel dica!
Amor, tu taci, e se' cagion ch'io mora;
queste, ch'io viva: a lor morte desiro,
la vita a te. O amoroso errore!”.
Risponde sorridendo Amore allora:
“Dolce è mia morte, e lor vita un martìro:
lor morran presto, e sempre vive Amore!”.
CXLVII
-O chiaro fiume, tu ne porti via,
nelle rapide tue volubile onde
di quei belli occhi, che or Fortuna asconde,
lacrime triste della donna mia.
El flebil mormorio tuo, ch'io sentia,
che a' miei lamenti miseri risponde,
mel dice certo: alle tue verdi sponde
conduce il pianto un rio che in te si svia.
Deh! frena alquanto il tuo veloce corso:
così del Sirio Can già mai t'offenda,
rapido fiume, il venenoso morso!
Con Frison, con Eufrate contenda!
Tu pur fuggi e mi nieghi il tuo soccorso,
né vuoi del mio bel Sol novelle intenda.
CXLVIII
-O bella violetta, tu se' nata
ove già 'l primo mio bel disio nacque;
lacrime triste e belle furon l'acque
che t'han nutrita e più volte bagnata.
Pietate in quella terra fortunata
nutrì il disio, ove il bel cesto giacque:
la bella man ti colse, e poi li piacque
farne la mia di sì bel don beata.
E' mi pare ad ogni or fuggir ti voglia
a quella bella mano; onde ti tegno
al nudo petto dolcemente stretta:
al nudo petto, ché desire e doglia
tiene loco del cor, che 'l petto ha a sdegno,
e stassi onde tu vieni, o violetta.
CXLIX
-S'avvien che la mia vista tutta intenta
la fiamma de' begli occhi fiso miri,
sospira il petto acceso di desiri,
fumo del foco, che 'l mio cor tormenta.
Così la via assai pronta diventa
da foco a foco, per li miei sospiri;
come par nova fiamma il fumo tiri
d'una candela che pur ora è spenta.
Visibilmente allor chi vuole scorge
in quel bel fumo spiriti d'Amore,
che l'uno all'altro il dolce foco porge.
Vanno e vengon dall'uno all'altro core;
né l'un né l'altro del suo mal se accorge,
sì dolcemente e sì volentier more.
CL
-Gli alti sospir' dell'amoroso petto
portando a me del mio signor novelle,
come son fuor delle sue labbra belle,
caldi ancor nel mio cor hanno ricetto.
Gli narron le parole che ha lor detto
Amore in dolci e tacite favelle;
tutti gli spirti allor per udir quelle
correndo, resta il core oppresso e stretto.
Contro a sua voglia il cor per forza caccia
gli spirti co' sospiri, e spinge altrove
quest'amorosa schiera, ond'era uscita.
Là vita e morte, onde partì, par faccia:
così un spirito in due alterna e move
un dolce viver, ch'è fra morte e vita.
CLI
-Amore, in quel vittorioso giorno,
che mi rimembra il primo dolce male,
sopra al superbo monte lieto sale;
le Grazie seco e i cari fratei andorno.
Lì l'abito gentil, di ch'era adorno,
deposto, dette a me la benda e l'ale;
a lei l'arco in la destra, ed uno strale
nella sinistra, e la faretra intorno.
La candida, sottil, succinta vesta
della amorosa mia Diana scuopre:
le nude membra or sopra a' panni esprime.
Febo de' raggi ornò gli occhi e la testa.
Così non arti umane o mortal' opre
fûr quelle benedette e dolci prime.
CLII
-Mille duri pensier' par nel cor muova
l'anima trista, nati da' martìri:
se muoiono, e convertonsi in sospiri,
el dolor inmortal pur li rinnuova.
Né so com'esser può, se non per pruova,
che 'l cuore accenda ognor nuovi desiri
della sua morte, e nutrimento tiri
da sì duri pensier', che al viver giova.
“Dimmelo, Amore, come ognor morendo
questi tristi pensier' dolce, inmortale
la immagine bella han fatto nel cor mio?”.
Amor pur mi risponde sorridendo:
“Non è dolce alcun ben quanto el mio male.
Questi dolci miracoli fo io!”.
CLIII
-Sì bella è la mia donna, e in sé raccoglie
tante dolci bellezze e non vedute
ch'è miglior stato non trovar salute
in lei, che adempier tutte l'altre voglie.
Però e pianti, desir', speranze e doglie,
che da sì bella cosa son venute,
porton con loro una gentil salute
che vive sempre a cui la vita toglie.
O bellissima morte! O dolor' suavi!
o pensier', che portate ne' sospiri,
ad altri ignota, al cor tanta dolcezza!
Com'esser può che alcuna pena aggravi,
benché afflitto, alcun cor che sempre miri
cogli occhi o col pensier somma bellezza?
CLIV
-Tu non sarai mai più crudele dio,
Amor, da poi che in quel bel guardo e santo
bagnato t'ha della mia donna il pianto,
pianto bel, pianto dolce e pianto pio.
Quella pietà, che mosse il bel disio,
credo fatto t'ha pietoso tanto,
e le lacrime pie, ché lieto canto
posson gli amanti far del dolor mio.
Lieti e sicur' vi rende il mio dolore:
più non temete, o pallidetti amanti,
che per Amor piangendo el cor si stempre!
Se pur piangessi il mio gentil signore
fatto ha piangendo così dolci pianti,
che ciascun cor gentil vuol pianger sempre.
CLV
-Oimè, che belle lacrime fûr quelle
che 'l nimbo di desio stillando mosse,
quando il giusto dolor che 'l cor percosse
salì poi su nelle amorose stelle!
Rigavan per la dilicata pelle
le bianche guance dolcemente rosse,
come chiar rio faria, che in prato fosse
fior' bianchi e rossi, le lacrime belle.
Lieto Amor stava in l'amorosa pioggia:
come uccel, dopo il sol, bramate tanto
lieto riceve rugiadose stille.
Poi, piangendo in quegli occhi ove egli alloggia,
facea del bello e doloroso pianto
visibilmente uscir dolci faville.
CLVI
-Bella e grata opra veggon gli occhi vostri,
qual da voi in fuora non mira o crede,
fatta per man di chi sanza occhi vede,
non pinta o sculta o scritta in atri inchiostri.
Parmi Amor veder lieto, che vi mostri
quel primo dolce tempo onde procede
tanto amor, tanta gentilezza e fede,
gli alti disir' e
Quel primo timor lieto scuote il core:
ver' me movete i passi lenti e pronti;
la man, la bocca e le pietose stelle,
se ben le mostra in ogni loco Amore,
e pianti vostri in quelli altèri monti,
ove nacquon, le fan più vere e belle.
CLVII
-Madonna simulando una dolce ira,
turbata alquanto con Amore ha detto:
“Non più foco oramai: troppo arde il petto!”,
per pietà del mio cor, che in lei sospira.”
Amor ne ride, e 'l cor, ch'arder desira,
nel maggior foco sente più diletto,
e, come oro in fornace già perfetto
si fa, più bello, e 'l foco nol martìra.
Amor novi sospir' dal mio cor move:
con questi dolci folli il foco accende,
quanto arder può nella fornace bella.
Questo foco, che poi per gli occhi splende,
e l'ardente parlar, quando favella,
accende, ovunque arriva, fiamme nove.
CLVIII
-Quando il cieco desir per maggior pena
numera l'ore, or lunghe e già sì corte,
come serpe da rota oppressa a sorte
muove, e non segue, la snodata schiena,
così tardo il carro aureo Febo mena,
nel qual par seco invidioso porte
degli amari desir' la dolce morte
e 'l fin del mio sperar, che tanto pena.
Né nuovo pensier dolce il core ammette,
né gli occhi molli alcun suave oblio,
onde si spinga più veloce il sole.
E quel che più nello aspettar mi duole,
è che Febo, or sì tardo, mi promette
rapido poi portarne ogni ben mio.
CLIX
-O brievi e chiare notti, o lunghi e negri
giorni, o ombre lucenti, o luce oscura,
luce che il lume agli occhi aperti fura,
ombra che i chiusi di chiar lume allegri!
O sonno oscur, che e pensier ciechi e egri
converti in vision di luce pura,
o immagin del morir, qual mentre dura
veggo, odo e sento, e' miei desir' ho intègri!
O mia troppa dolcezza, di te stessa
mortal nimica, che al desio davanti
mio ben poni, e poi fuggi, ond'io mi doglio!
O infelici sonni degli amanti,
da poi che, quando ho più quel che più voglio,
lo perdo, e fugge allor che più s'appressa.
CLX
-Chi farà gli occhi miei constanti e forti
contra al valor del nuovo, altero e pio
sguardo lucente, da cui han disio,
miseri e lieti, d'esser vinti e morti?
Amor, perché e folli occhi non conforti?
Per essi entrasti pria nel petto mio,
questi feron me tuo, e te mio dio:
perché qualche soccorso a lor non porti?
Lassa el petto angoscioso, ove tu sei,
sì come in specchio chiar gentile impronta
della biltà che teco vive in lei.
Lassa el mio petto e su negli occhi monta:
di te armati e belli, gli occhi miei
securamente co' belli occhi affronta.
CLXI
-Se talor gli occhi miei madonna mira,
non loro, anzi vagheggia in lor se stessa,
e sì bella si par, ch'ella confessa
che 'l mio cor per gentil cosa sospira.
Però sovente i suoi begli occhi gira
verso li miei, ov'è sì vera espressa,
che bella cosa o simigliante ad essa
fuor di lor né veder può, né desira.
Quando se stessa a sé sì bella rende,
va in compagnia dell'onorata faccia
bello stuol d'amorosi spirti ardenti.
Giunta al mio cor, che in lei vie più s'accende,
la pigra Speme e lunga Pietà caccia:
così vede e miei spirti allor contenti.
CLXII
-Quando a me il lume de' belli occhi arriva,
fugge davanti alle amorose ciglia
de' miei vari pensier' la gran famiglia,
la Pietà, la Speranza semiviva.
Parte dalla memoria fuggitiva
ciascuna impression che 'l ver simiglia,
e resta sol dolcezza e maraviglia,
che ogni altra cosa occide, ovunque è viva.
Li spirti incontro a quel dolce splendore
da me fuggendo, lieti vanno, in cui
(e loro il sanno) Amor gli occide e strugge.
Se la mia vista resta, o se pur fugge,
che, morta in me, allor vive in altrui,
dubbio amoroso solva il gentil cuore.
CLXIII
-Dura memoria, perché non ti spegni,
che, accesa, tanto il tristo cor tormenti?
dura memoria, ché mi rappresenti
ne' pensier' mesti, inganni, ire, odii e sdegni?
Omè, giorno infelice che t'ingegni
turbare i desir' miei dolci e piacenti!
E tu, Amor, a tanto mal consenti,
perché al tuo bene intero alcun non degni.
Mostrami il doloroso mio pensiero
cosa che dir non oso; ma si fugge
al cor ogni mio spirto che la vede,
e trovando nel cor più forte e fero
quel pensier tristo, ad uno ad uno strugge.
Triema il cor lasso, e invan gli spirti chiede.
CLXIV
-Qual maraviglia, o mio gentil Cortese,
se del tacito, bianco, errante vello,
freddo, ristretto, nuovo Mongibello
Amor nel tuo gelato petto accese?
Oppressa da veneno, alcun difese
la vita con venen mortale e fello;
e così il ghiaccio della neve quello
cacciò, ch'era nel core, e 'l foco apprese.
Questo foco talora in ogni vena
il sangue agghiaccia; altri ama, odia se stesso;
alcun sanza cor vive e morte chiede.
Questa vita amorosa tutta è piena
di gentil' maraviglie, e pruova spesso
l'amante in sé che in altrui non crede.
CLXV
-Quando raggio di sole,
per picciola fessura
dell'ape entrando nella casa oscura,
al dolce tempo le riscalda e desta,
escono accese di novella cura
per la vaga foresta,
predando disiose or quella or questa
spezie di fior', di che la terra è adorna.
Qual esce fuor, qual torna
carca di bella ed odorata preda;
qual sollecita e strigne,
se avvien che alcuna oziosa all'opra veda;
altra il vil fuco spigne,
che 'nvan l'altrui fatica goder vuole.
Così, di varii fior', di fronde e d'erba,
saggia e parca fa il mèl, qual dipoi serba,
quando il mondo non ha rose o viole.
Venne per gli occhi pria
nel petto tenebroso
degli occhi vaghi el bel raggio amoroso,
e destò ciascun spirto che dormiva,
sparti pel petto, sanza cure ozioso;
ma, tosto che sen giva
in mezzo al cor la bella luce viva,
li spirti, accesi del bel lume adorno
corsono al core intorno.
Questa vaghezza alquanto ivi gli tenne;
poi, da nuovo diletto
spinti a vedere onde tal luce venne,
drento all'afflitto petto
lasciando il cor, che in fiamme è tuttavia,
salîr negli occhi miei, onde era entrata
questa gentil novella fiamma e grata,
vagheggiando di lì la donna mia.
Indi, mirando Amore,
che in quella bella faccia
armato, altero, e duri cor' minaccia
da quella luce, e prende la difesa
che a' cuor' gentili e non ad altri piaccia,
lasciôr tristi la impresa
di gire al fonte ove è la fiamma accesa;
e stavansi negli occhi paurosi,
quando spirti pietosi
vidon venir dagli occhi ove Amor era,
dicendo a' miei: “Venite
al dolce fonte della luce vera:
con noi sicuri gite!
Se bene incende, quel gentil signore,
non arde, o a ria morte non conduce,
ma splende il core acceso di tal luce;
e, se non vive, assai più lieto muore”.
Questo parlar suave
dètte a' miei spirti lassi
qualche ardire, e movendo e lenti passi,
da quei più belli accompagnati, al loco
givan dubbiosi, ove Amor lieto stassi;
là dove, a poco a poco,
sicuri in così bello e dolce foco,
già d'Amor spirti, non paurosi o tristi,
stavan confusi e misti
con quei che mossi avea la pia virtùe:
Saria occhio cervero
chi l'un dall'altro discernessi piùe.
Alcuno in quell'altero
sguardo si pasce, bello, dolce e grave;
altri dal volto nutrimento invola,
altri dal petto e dalla bianca gola;
altri in preda la man e
Certo converria bene
che chi narrar volessi
tante bellezze, e fior' diversi e spessi
che al nuovo tempo per le piagge Flora
mostra, contare ad uno ad un potessi;
né son del petto fòra
tanti spirti d'Amor creati ancora,
che non sien le beltà per ognun mille:
onde eterne faville
manda al cor la bellezza sempre nuova.
Li spirti or questa or quella
porton per li occhi al cor ciascuno a pruova:
o dolce preda e bella,
che ogni spirto amoroso agli omer' tiene!
Così, acceso ognor di più disio,
da quei belli occhi al loco ov'è il cor mio,
sanza fermarsi mai, chi va, chi viene.
Più bellezze ognor vede,
se ben ne porta assai
ciascun spirto, onde tiensi sempremai
povero el cor, da maggior disio preso;
e se alcun spirto è pigro, allor, “Che fai?”,
dice di sdegno acceso,
“tu sai pur quanto suave è questo peso”,
e lo minaccia, vinto da' disiri
ne' primi suoi sospiri,
mandarlo fuora e darlo in preda al vento.
E se alcun peregrino
pensier venisse, il caccia in un momento,
perché in quel bel cammino,
ch'è tra' belli occhi e 'l cor, chi non ha fede
d'Amor d'esser de' suoi, sì come vile
star non può tra la turba alta e gentile.
Così si pasce il cor, ch'altro non chiede.
Onde trarrai la vita,
o cuor dolente e saggio,
Da poi che l'amoroso e bel viaggio
è interdetto alli spirti, e è fuggito
el verde tempo già d'aprile e maggio,
e scalda un altro sito
quel gentil Sole, onde è il tuo foco uscito?
Quelli amorosi spirti, che ora stanno
rinchiusi, converso hanno
la dolce preda nella afflitta mente
in pensier', che tra loro
mostrano al cor e vari fior' sovente,
de' qual' feron tesoro
e parchi spirti alla stagion fiorita.
Di questi pensier' dolci el mio cor pasce
el disio, che ad ogn'or nuovo rinasce,
poi che la bella luce s'è fuggita.
Novella canzonetta,
questi dolenti versi,
ch'e pensier' fanno in sospir' già conversi
e di sospiri in parole pietose,
porta al bel prato di color' diversi;
in mezzo a' qual' si pose
Amor lieto, e tra l'erba si nascose.
E se non sai el cammin di gire a lei,
l'orme de' pensier' miei
vedrai, di che è la via segnata e impressa.
Prendi d'Amor la strada:
troverrai forse e suoi pensieri in essa,
ché ancora a loro aggrada
el bel cammin. Giunta ov'ella è soletta,
digli che al cor non resta onde più speri
dolcezza, per nutrirsi co' pensieri:
onde o morte o la bella luce aspetta.
CLXVI
-Parton leggieri e pronti
del petto e miei pensieri,
che l'alma trista alli amorosi monti
manda suoi messaggeri
a quel petto gentile, ov'è il mio core.
Nel cammino amoroso
ciascuno di loro ad ogni passo truova
qualche pensier pietoso,
che par dal petto di mia donna muova
in conforto dell'alma ad ora ad ora.
Fermonsi insieme, e, domandati allora,
dicon tutti una cosa sempre nuova
della Pietà che fuora
gli manda del bel petto,
dentro dal quale il bel signor dimora;
e si staria soletto
in esso el cor, ma vi è Pietà e Amore.
Delle caverne antiche
trae la fiamma del sol fervente e chiara
le picciole formiche;
sagace alcuna e sollecita, impara
e dice all'altre ove ha il parco villano
ascoso, astuto, un monticel di grano:
ond'esce fuor la negra turba avara.
Tutte di mano in mano
vanno e vengon dal monte,
porton la cara preda e in bocca e in mano;
vanno leggiere e pronte,
e grave e carche ritornon di fòre.
Fermon la picciola orma,
scontrandosi in cammino; e, mentre posa
l'una, quell'altra informa
dell'altra preda, onde più disiosa
alla dolce fatica ognor la invita.
Calcata e spessa è la via lunga e trita;
e se riporton ben tutte una cosa,
più cara e più gradita
sempre è, quanto esser deve
cosa sanza la qual manca la vita:
lo iniusto fascio è lieve,
se 'l picciolo animal sanz'esso muore.
Così li pensier' miei
van più leggieri alla mia donna bella;
scontrando quei di lei,
fermonsi, e l'un con l'altro allor favella.
Dolce preda, se ben grave, con loro
portan dal caro ed immortal tesoro
(una sempre è, e è sempre più bella!),
ché dal petto decoro
ove Amor, Pietà regna,
da' dolenti sospir' cacciati fôro.
Quinci s'allegra e sdegna
l'alma ad un tempo, e ha dolce dolore:
ha dolcezza, se sente
Amor, Pietà regnar nel bianco seno;
duolsi l'afflitta mente,
che da' duri sospir' cacciati sièno
e pensier' belli, e che dolente e trista
sia per me la mia donna. E così mista
doglia e disio fanno un dolce veneno,
onde o rea vita acquista
o dolce morte l'alma,
che del mal gode e del suo ben s'attrista.
Questa è la cara salma,
di cui carchi e pensier' mi dan vigore.
Quando a quel monte bello
giungon, dov'è la gran bellezza adorna,
prendon diletto in quello,
tanto che alla trista alma alcun non torna:
per lo essemplo del cor crudele e saggio;
qual truovon lieto al fin del bel viaggio,
dell'alma oblito, e con Amor soggiorna.
E se non che pure aggio
soccorso in tanto affanno
da quei che manda quel pietoso raggio,
poiché tradito m'hanno
e miei, perderia l'alma ogni valore.
Li miei pensieri scuso,
se nell'abisso della gran bellezza
ciascun resta confuso:
però che chi si muove el fin sol prezza:
muovonsi a questo, e nol trovando poi,
smarriti, più non san tornare a noi,
nello infinito fin di tal dolcezza.
Rendo ben grazie a voi,
pensier' pietosi e belli,
che soccorrete al cor nelli error' suoi;
e se non fusser quelli,
nella troppo alta impresa morria il core.
I
-Segui, anima devota, quel fervore
che la bontà divina al petto spira,
e dove dolcemente chiama e tira
la voce, o pecorella, del pastore.
In questo nuovo tuo divoto ardore
non sospetti, non sdegni, invidia o ira:
speranza certa al sommo bene aspira,
pace e dolcezza e fama in suave odore.
Se in pianti o sospir' semini talvolta
in questa santa tua felice insania,
dolce e eterna poi fia la ricolta.
-
lassali dire, e siedi e Gesù ascolta,
o nuova cittadina di Betania.
II
-Fuggendo Lot con la sua famiglia
la città che arse per divin giudizio,
guardando indrieto il giusto e gran supplizio,
la donna immobil forma di sal piglia.
Tu hai fuggito, e è gran maraviglia,
la città che arde sempre in ogni vizio;
sappi, anima gentil, che 'l tuo offizio
è non voltare a lei già mai le ciglia.
Per ritrovarti il buon pastore eterno
lassa il gregge, o smarrita pecorella:
truòvati, e lieto in braccio ti riporta.
Perse Euridice Orfeo già in sulla porta,
libera quasi, per voltarsi a quella:
però non ti voltar più allo inferno.
III
-Un pezzo di migliaccio mal avia
e una fiera bestia e una a Prato
avevon tanto un erpice menato,
ch'egli era fuor del solco per pazzia.
Ma se n'avvide mona Nencia mia
e tese al sole un vaglio ben bucato:
un giudeo il vidde, e funne sì crucciato,
che non vorrebbon più geometria.
Quell'“arri sta”, che fanno i paladini,
quando vanno a Piacenza coi cestoni,
fanno impazzar quei poveri asinini.
Perché hanno il capo vuoto, molti arpioni
armeggion per calendi e pastaccini,
e deston la mattina i dormiglioni.
E però i calicioni
s'armon di troppo debole corazza,
ch'ogni poco di stretta poi gli ammazza.
V
-Va', Bellincion, e fa' il Sosia:
motti, provviso, frottola e sonetto,
e poi ti mostra un certo recolletto
di mano, e incanti, e di fisonomia.
Alcuna volta dir qualche pazzia,
e 'l suo contrario poi mostra intelletto,
che di savio e di matto abbin sospetto,
e intendi, attingi e trai pur tuttavia.
Fa' il cieco e 'l sordo sempre in ogni loco
e loda, abbraccia, ridi e bacia spesso,
e stu se' morso, piglia a festa e gioco.
E fatti sempre a' cerchiolini appresso
qualche storia: Seleuco e Antioco,
tu intendi, e mostra il lauro che sia fesso.
Ma non d'arrosto e lesso
parlare intendi, e presto sia tornato.
Come t'ho detto: studia nel
VII
-
Deh, state a udire, giovane e donzelle,
queste sette allegrezze ch'io vi vo' dire,
divotamente, ché son dolci e belle,
che Amore a chi lo serve fa sentire;
io dico a tutte quante, e prima a quelle
che son vaghe e gentili e in sul fiorire:
gustate ben queste allegrezze sante,
che Amor ve ne contenti tutte quante!
Prima allegrezza, che conceda Amore,
si è mirar duo pietosi occhi fiso:
escene un vago, bel, dolce splendore;
veder mover la bocca un dolce riso,
le man', la gola e i modi pien' d'onore,
l'andar che uscito par di paradiso,
ogni atto e movimento che si faccia;
e così prima un cor gentil s'allaccia.
La seconda allegrezza, che Amor dona,
è quando hai grazia di toccar la mano
accortamente, ove si balla o suona
o in altro modo strignerla pian piano;
e, mentre che si giuoca o si ragiona,
gittar certe parole, e non invano;
toccare alquanto e strigner sopra i panni
in modo che chi è intorno se ne inganni.
Terza allegrezza, quale Amor concede,
è quando ella una tua lettera accetta,
e degna di rispondere e far fede
di propria man che 'l giogo al collo metta;
ben è duro colui che, quando vede
sì dolce pegno, lacrime non getta:
leggela cento volte e non si sazia
e con dolci sospiri Amor ringrazia.
Più dolce assai quest'allegrezza quarta,
se ti conduce a dir qualche parola
a solo a solo, e far del tuo cor carta,
e dire a bocca bene ove ti duole;
se avvien che Amor le some ben comparta,
senti dir cose da fermare il sole:
dolci pianti e sospiri, e maladire
uscio o finestra, che ti può impedire.
Chi può gustar questa quinta allegrezza,
può dir che A4more il suo servizio piaccia
se avvien che baci con gran tenerezza
un'amorosa, vaga e gentil faccia,
le labbra, e dentro ov'è tanta dolcezza,
la gola e 'l petto e le candide braccia
e tutte l'altre membra dolci e vaghe,
lasciando spesso i segni delle piaghe.
Questa sesta allegrezza, ch'io ti dico ora
è venir quasi alla conclusione,
e a quel fin per che ognuno s'innamora
e si sopporta ogni aspra passione;
chi l'ha provato e chi lo pruova ancora
sa che dolcezza e che consolazione
è quella di poter sanza sospetto
tenere il suo signore in braccio stretto.
Vien drieto a questa l'ultima allegrezza,
ché Amor infin pur contentar ci vuole:
non si può dir con quanta gentilezza,
con che dolci sospir', con che parole
si perviene a quest'ultima allegrezza,
come si piange dolcemente e duole;
fassi certi atti allor, chi non vuol fingere,
che un dipintor non li potria dipingere.
Queste so' l'allegrezze che Amor dà,
donne, a chi lo serve fedelmente;
però gustile e pruovile chi ha
bellezza, gentilezza, età florente,
Queste allegrezze, che detto ho al presente,
ché perder tempo duole a chi più sa.
chi dice e pruova con divozione,
non può morir sanza l'estrema unzione.
Questo povero cieco, quale ha detto
queste allegrezze, a voi si raccomanda:
vorrebbe qualche carità in effetto,
almen la grazia vostra vi domanda;
Amor l'ha così concio il poveretto,
come vedete, e cieco attorno il manda.
Fateli qualche ben, donne amorose,
che gustar possi delle vostre cose.
Il poveretto è già condotto a tale,
che non ha con chi fare il carnasciale.