Leon Battista Alberti
THEOGENIUS
AD LEONELLUM ILLUSTRISSIMUM PRINCIPEM ESTENSEM.
Licurgus, dicono, statuì in Sparta facessero alli dii sacrifici non suntuosi né tali che non potessero ogni dì continuarli. E a' prudenti principi si vuol dare non cose pregiate dalle persone idiote e vulgari; ma in prima quello che sempre fu accetto a chi simile a te, Lionello, meriti essere amato, si vol donare, a mio iudizio, sé stessi. Questo non vedo si possa con più fermo obligo che con la benivolenza e insieme reverenza, qual sole cose noi mortali coniungono molto al principe di tutte le cose, a Dio. Né credo a te, omo savio, cosa da me altra pari possa essere grata quanto vederti amato per tue virtù. Quale tu stimi l'animo mio verso di te non m'è oscuro, quando vedo qual sia el tuo fronte verso di me. E a me, quando venni a visitarti, vedermi ricevuto da te con tanta facilità e umanità non fu indizio esserti Battista Alberti se non molto accettissimo. A te forse come altronde così ancora e per questa quale i' ti mando operetta, manifesto potrà parerti, quanto reputo ti parrà, ch'io stimo mio debito in qualunque cosa io possa darmiti grato. Tanto t'affermo, io scrissi questi libretti non ad altri che a me per consolare me stessi in mie avverse fortune. E parsemi da scrivere in modo ch'io fussi inteso da' miei non litteratissimi cittadini. Certo conobbi a me questa opera giovò, e sollevommi afflitto. E vedoli pur richiesti da molti più che se io gli avessi scritti latini. Piaceami a' casi tuoi passati in obitu parentis mandarteli, ché gli stimava ancora atti a sollevare te, ma dubitava non avessero dignità quanto si richiedea per essere letti da te, e principe e litteratissimo. Poich'io te li mostrai e intesi quanto e' non ti dispiaceano, parsemi debito mandarteli solo per continuare mostrandoti con miei piccioli doni che io sempre te servo a memoria e amoti. E fummi caro sì el far cosa fusse a te grata, sì e anche avere te, omo eruditissimo, non inculpatore di quello che molti m'ascriveno a biasimo, e dicono che io offesi la maiestà litteraria non scrivendo materia sì elegante in lingua più tosto latina. A questi fie altrove da rispondere. Tu ora accetta volentieri le cose mie come da persona a quale le tue virtù molto e molto dilettano, e aspetta di dì in dì, quanto mi richiedesti, ricevere da me simili argumenti e segni dell'amore quale io a te porto. Ubbidirotti. Comunicherò teco le cose mie per l'avenire con più larghezza. Amami.
LIBRO I
TEOGENIO. Vedo io Microtiro mio? Corro per abbracciarlo, o parte dell'anima mia! E qual cagione o ragione te mosse non ben fermo né assai restituito a sanità solo a piede qui salire tanta e sì difficile via?
MICROTIRO. Salve, Teogenio. A me questa via fu e breve e facile ove io venni per veder te, quale uno io amo quanto me stesso. E sperai non altrove che qui tanto potere trovare da recrearmi afflitto e già quasi oppresso da' casi avversi. E subito che da lungi fra queste ombre di questa selva te vidi sì assederti fiso ora pensare ora scrivere, me io senti' entro al petto mio non so dove dolce molto commovere, e insieme lacrimai per letizia. Né so come per non sturbarti me contenni ch'io non gridassi una e un'altra voce. Ma certo ebbi me in molta parte recreato; discesi e rimanda'ne e' cavagli per rimanermi teco.
TEOGENIO. O Microtiro mio, quanto fu sempre da pregiare la dolce amicizia! Cosa rarissima, ricchezza inestimabile un vero amico, poiché oltre alle lode quale e' dotti gli ascriveno, ancora tu pruovi la presenza di chi tu ami avere in sé forza di restituirne a miglior stato. Ma sediamo, se così ti piace, qui fra questi mirti, luogo non meno delizioso che i vostri teatri e templi amplissimi e suntuosissimi. Qui colonne fabricate dalla natura tante quante tu vedi albori ertissimi. Qui sopra dal sole noi copre ombra lietissima di questi faggi e abeti, e atorno, dovunque te volgi, vedi mille perfettissimi colori di vari fiori intessuti fra el verde splendere in fra l'ombra, e vincere tanto lustro e chiarore dei cielo; e da qualunque parte verso te si muove l'aura, indi senti venire a gratificarti suavissimi odori. E poi la festività di questi quali tu in presenza vedi uccelletti con sue piume dipintissimi e ornatissimi, a chi non delettasse? Bellissimi, che d'ora in ora vengono con nuovi canti lodando i cieli a salutarmi! E questo qui presso argenteo e purissimo fonte, testimone e arbitro in parte delli studi mei, sempre m'arride in fronte, e quanto in lui sia, attorno mi si avolge vezzeggiando, ora nascondendosi fra le chiome di queste freschissime e vezzosissime erbette, ora con sue onde sollevandosi e dolce immurmurando bello m'inchina e risaluta, ora lieto molto e quietissimo mi s'apre, e soffre ch'io in lui me stesso contempli e specchi. Agiungi che qui niuno invido, niuno maledico, niuno ottrettatore fallace, qui iniquo niuno perturba la nostra quiete e tranquillità. Ma sediamo.
MICROTIRO. Piacemi. E che cose sono queste quali tu scrivi?
TEOGENIO. Antiquo mio costume, Microtiro. A me pesa, né posso sofferirmi in ozio, e dilettami in prima essercitarmi scrivendo. Occorsemi materia degna, né fia inutile, stimo, udirla da' suoi princìpi. Molti de' vostri fortunatissimi cittadini a me noti e familiari, quando in que' tempi la fortuna con noi era facile e liberale, soleano vacui di maggiore sue cure pigliarsi faccenda a riprendermi e accusarmi taciturno e pervicace, e quanto e' diceano, fantastico e bizzarro, quale contento di me stessi nulla degnava quella moltitudine data alla voluttà. E dolevagli ch'io offirmato, a chi pur me accusava e biasimava la mia taciturnità, solo rispondea quello antiquo detto di quel filosofo: me essere mai del mio tacere pentuto, ma ben trovarsi chi del parlare suo sia pentuto spesso; e pregavali non biasimassino colui che non altrove favellava che solo dove esso o dimandasse per imparare, o rispondesse per insegnare e riconfermare virtù e dottrina a sé e a chi l'ascoltasse; ché bene intendeva io quanto apresso simili oziosi e prodighi potevo né imparare né disputare di cosa alcuna degna. Ma poiché la nostra republica e cittadini testé, o ingiuria della fortuna, o forza e merito de' costumi pravi e corrotti, caderono in calamità e miseria, io vedendo que' medesimi antiqui miei riprenditori nelle cose avverse solliciti, seco stessi solinghi e tutti alieni da quelli suoi prima usati gesti e costumi non convenire lieti fra la moltitudine e ivi osservare forse troppa tristezza e taciturnità, cominciai meco a ripensare qual più avesse forza a perturbare una republica, o la seconda fortuna, o pur la avversa. E insieme a me parea da investigare qual più fusse, o un buon cittadino utile, o un vizioso inutile alla sua patria. E già in questi comentari essercitandomi scrissi argomenti non pochissimi quali a me stessi persuadeano che i casi avversi molto, quanto presente si vede, perturbino la quiete e tranquillo stato della terra, solere la difficultà de' tempi inducere povertà e necessità; onde quel detto di Socrate avenia quale e' dice presso a Platone: terra niuna povera potere vacua essere di molta copia di tagliatori di borse e dati a vilissimi e infami essercizi. Ma molte più fortissime ragioni a me provavano la facilità della fortuna viziare e pervertere ogni ornamento e fermezza delle terre tanto più che la iniqua fortuna, quanto molti troverai meno sapersi reggere in affluenza e prosperità che in aversità. Dalla copia e successo fortunato nasce l'ozio, padre e nutritore d'ogni vizio: indi la insolenza, superbia, lascivia, ambizione e intollerabile licenza. Scritto adunque in questa parte, ora qui meco ripensava quanto un vizioso e perverso ingegno fusse a sé e a chi seco vive pestifero e perniziosissimo più che qual sia altro animale essecrabile, quali tutti, pacifica la loro natura, raro se non a sua difesa irati offendono con quelle armi sue date loro dalla natura, ungue, corna, denti e simile. Solo all'uomo iniquo diletta la sua malignità, e irato e non irato con arme e modi infiniti immette sua peste e morte. E quello che la natura propio e divino suo dono atribuì a' mortali per agiungerli a cara insieme benivolenza e dolce pace, el favellare, lo uomo pessimo l'adopera in disturbare qualunque grata congiunzione e offirmata grazia. In simili cose, Microtiro mio, spendo io il tempo essercitandomi, quale tanto dicono essere nostro quanto lo adoperiamo.
MICROTIRO. In cosa niuna potresti esponere tua opera con tua tanta dignità e lode quanto in questi simili studi, onde a te e a' tuoi acquisti nome e fama di tuo ingegno, e a chi te ami porgi di dì in dì nuova ragione di lodarti e reverirti per tue rare e prestantissime virtù. E saranno certo queste tue disputazioni pari all'altre tue bellissime e ai dotti accettissime, in quali tu ponga diligenza e molto studio in trattarle con ordine e accomodata eloquenza. Ma forse non sarebbe da non aggiungere a queste tue due disputazioni una terza investigazione, quale ora a me soviene in mente, questa: se forse più seco porti molestia e incommodi la difficultà de' tempi che la improbità degli uomini. Io e dalla iniqua fortuna e da e' non buoni uomini me sento sì oppresso da tutti e' mali. Infelicissimo me, ch'io non so quale altrove si truovi misero calamitoso simile a me!
TEOGENIO. Non tanto mi diletta agiunghi alli studi miei atta e degna materia ad essercitarmi, quanto mi dispiace da te sentire quello che infra' primi tuoi salutarmi frantesi, te essere coll'animo perturbato. E per distorti da quelle tue triste memorie io me stesi in vari e quanto a me occorreano soavi ragionamenti. Ora mi parse da porgerti mano a sollevarti, ma non vorrei come quel contadino incauto, quale tornando a' suoi trovò da una ripa caduto un fanciullo, e cupido aitarlo el prese pel braccio quale percosso el tormentava. Adonque gioverà teco investigare questi tuoi mali. Quando io dimando chi forse viene a salutarmi come quello e quell'altro cittadino stia, non raro odo quanto siamo tutti sottoposti a' vari casi e volubilità della fortuna: colui sta male, arseli la casa, peritoli el naviglio, impoverito; quell'altro pur male, perduto e' suoi, perduta la patria, ito in essilio, rimaso in solitudine; quell'altro ancora pur male, gravato di febbre giace con dolori debole e lasso; e questi simili vedo a chi ne racconta e a chi ode dolgono. Altri sono de' quali, se io ne domando, mi referiscono stiano molto male: colui uccise, quell'altro furò, quell'altro tradì, e per tanto loro vizio viveno in essilio, in povertà, in tristezza. Di costoro si biasima l'errore più molto che non si conduole della fortuna. Gli altri incommodi co' quali el nostro fato noi urteggia o i pessimi uomini c'infestano, se vorremo investigarne, gli troveremo tali che a chi voglia poco stimarli poco noceranno. E vedesi per pruova che, per piccoli che essi sieno, pur possono molto in perturbare chi non poco li stimi. Né trovasi cosa sì grave di queste, quale non sia a qualche uno e lieve e grata. Né cosa sarà tanto espettata, quale in qualche tempo non sia molesta e grave. A molti trovarsi lungi dai suoi dispiace; molti hanno voluttà peregrinando tenersi lungi da chi molto li desideri. Altri piange la moglie sua, el fratello, el figliuolo; a non pochissimi attedia la presenza della moglie, trovansi molti divisi da' fratelli, disereditati da' suoi, cacciati da' padri. Onde, non iniuria, possiamo assentire a que' dottissimi quali affermano in la vita de' mortali cose alcune di sua natura essere tali che sempre e a qualunque sia sono buone e utilissime e lodatissime. In qual numero si scrive la virtù, la mente ornata di buon costumi, ben retto iudizio, e ben regolato ingegno, qual cose mai furon dannose. Alcune contro, sua natural malignità, mai si truovano essere se non inutili e da fuggirle: el vizio, la levità, l'ambizione, la troppa cupidità, e simili mali sempre atti a perturbarci e male averci. E queste abitano quanto volemo in noi, né altronde sono che da noi. Altre alcune si truovano cose tali che per sua natura sono né buone né non buone. E di queste pare a me parte sieno le cose poste fuori al tutto di noi sotto imperio e arbitrio della fortuna, ricchezze, stati, amplitudine, potenza; parte sono quelle che stanno aggiunte a noi come la valitudine, forma e abitudine delle nostre membra, non molto meno che quelle di sopra sottoposte a' vari casi. Quale tutte cose tanto dicono essere buone quanto noi a bene le adirizziamo e bene le adopriamo. Ma pareno a iudizi corrotti e pieni d'errore e di perturbazione ora buone ora non buone quanto el nostro iudizio le pesa e accetta. Certa consiste ferma e constante sempre in ogni suo ordine e progresso la natura; nulla suol variare, nulla uscire da sua imposta e ascritta legge, né può patire che grave alcuno mai sia non atto a descendere, sempre volle che 'l fuoco sia parato ad incendere e dedurre a cenere ogni oposta materia. All'acqua diede la natura propria attitudine di effundersi, e adempiere ogni forma di qualunque vacuo vaso. E così mai fu da natura cosa buona atta a non benificare, e ogni male sempre fu presto a nuocere e danneggiare. Adunque, quanto le vediamo varie e volubile le cose della fortuna, elle non sono tali che noi possiamo affermarle da natura buone o non buone, quale mutata la oppinione e iudizio tanto e in sì diversa parte variano. Conviensi pertanto moderare e bene instituire nostre oppinioni e sentenza, ove molte cose a noi forse paiono utili qual sono disutili, e stimiamo cose non poche gravi essere e moleste quali certo sono levissime e facillime. E a potere questo m'occorreno infinite sentenze, bellissimi detti da' savi antiqui filosofi e ottimi poeti, cose ritrassinate quasi da tutti li scrittori, tale ch'io non so donde incominciare. Ma piacemi in prima investighiamo le cose estrinseche e proprie della fortuna, quale stimo certo comprenderemo ch'elle sono e buone in sé e non buone quanto noi a noi le riceveremo ed estimeremo. E insieme vederemo le cose aggiunte a noi non però molto avere in buona o in mala parte forza. Ultimo, non dubito a noi rimarrà persuaso solo in noi essere qualunque cosa vero sia o buona o non buona, e pertanto niuno potere cosa alcuna di male ricevere da altri che da sé stessi. E per asseguire questo con qualche iocundità quanto instituimo, mi pare da recitarti la disputazione ebbe a questo proposito Genipatro, quel vecchio qua su, quale in queste selve disopra vive filosofando, omo per età ben vivuta, per uso di molte varie cose utilissime al vivere, per cognizion di molte lettere e ottime arti prudentissimo e sapientissimo; ché mi stimo le sue parole presso di te, amatore de' dotti e studiosi, aranno autorità, e diletteratti la nostra istoria certo degna d'essere conosciuta. E come furono suoi argomenti e ammonimenti a me sì grati e sì utilissimi che in ogni vita mia tutta ora più li sento da molto pregiarli e comendarli, così certo qui saranno attissimi e convenientissimi a sollevarti da questa conceputa tristezza tua e mala valitudine. Ma prima dimmi, el nostro Tichipedo vive egli quale e' solea lieto, e quanto esso se riputava beato?
MICROTIRO. O infelicissimo Tichipedo! E tu, Teogenio, non udisti il suo infortunio? Morì el padre in essilio, proscritto e fugato da que' suoi inimici quali con arme occuparono la amministrazione delle cose publiche, confiscato e predato le sue fortune; el suo figliuolo notando affogò; la moglie e pel dolore del figliuolo perduto e per altra mala sua valitudine in parto abortivo e difficile mancò; el fratello, uomo temerario e precipitoso, per false insimulazioni e relazioni da occulti loro inimici tratto in iudizio, sé stessi in carcere strangolò. Per qual calamità Tichipedo provide alla sua salute, e fuggendo a sé simile già apparecchiato infortunio me abbracciò e disse lacrimando: “O Microtiro, Dio a te dia miglior fortuna. Io dalla patria mia e dai miei altro nulla porto che ingiuria, sdegno e dolore, e quello che più m'adolora è la carissima madre mia rimasta sola a piangere el mio infortunio e a soffrire di dì in dì infinite miserie”. Partissi. Di poi intesi vivea in servitù preso da inimici della nostra patria. Piansi.
TEOGENIO. Intesi più dì fa la avversità di Tichipedo, ma parsemi utile così domandartene per redurti a memoria quanto a' tuoi dì vedesti essemplo ottimo e degnissimo onde tu discerna la volubilità e mutabilità della fortuna, e insieme statuisca non te essere, quanto testé dicevi, uno sopra gli altri mortali misero e infelicissimo; se già non intervenisse, come dicono, ch'e' nostri mali veduti da presso più che gli altrui a noi paiono maggiori: qual cosa ancora si confermerebbe per quanto io recitai che simili mali cresceno in noi e scemano quanto la nostra oppinione gli stima.
Ma torniamo al primo nostro ragionamento. Qui presso a questo fonte Genipatro e io, come sempre fu nostra consuetudine trovarci spesso insieme, leggiavamo. Ecco Tichipedo con suoi cani e moltitudine di levissimi e vilissimi uomini cacciando le fere sopragiunse; giovane in que' tempi per troppa sua seconda e prospera fortuna elato, insolente, ostentava le gemme, luceali indosso la seta, le perle e le pitture fatte ad ago, e arrogante agitandosi in molti modi mostrava in sé levità e odiosa alterezza. Cominciò a molto lodare questo luogo, e giurò mancarli a somma felicità altro nulla che questo fonte, e certo pur troppo desiderarlo presso alla sua ornatissima villa. A cui Genipatro, omo prudentissimo, con suoi gesti modestissimi e pieni di maravigliosa umanità disse: “Tu, o Tichipedo, non vedesti tutte le delizie di Teogenio molto più che questo fonte amenissime e da volerle. Ma se altro a te non manca, io sempre ebbi tanta autorità in le cose di Teogenio ch'io in questo posso satisfarti: concedoti ne lo porti teco questo fonte; ponlo ove a te piace”. Rispuose Tichipedo: “Senza tuo danno saresti meco liberale donando a me quello ch'io non posso accettare”. Questo adunque disse Genipatro: “Ti giovi la nostra liberalità che tu conosca te tanto essere non felice quanto in te seggia desiderio di cose alcune a te non possibili. E abbi cura, o Tichipedo mio, che a te non manchino più cose non da te conosciute facile ad averle, e molto più che questo fonte dilettose, senza quali non puoi essere non misero e infelice”. Qui uno de quegli assentatori venuti con Tichipedo: “E qual cosa”, disse, “può desiderare uno uomo per essere felicissimo quale non sia presso di Tichipedo, bello, ricco, amato, e fra' suoi cittadini in ogni amplitudine quasi primo fortunatissimo?”. Qui Genipatro porse la mano aperta verso di me in mezzo e sorridendo disse: “Le cose qual sono qui presso a Teogenio, quanto mi pare comprendere, sono quelle che mancano a simili a voi benché fortunatissimi. Simile a costui, o Tichipedo, convien che sia chi vuol essere felice, el quale gode questo fonte amenissimo da te tanto desiderato”. “Anzi”, dissi io, “a te, Genipatro, sia simile chi desidera sé essere beato, apresso cui sono tutte le cose degne e lodate”. “Noi adunque”, disse quello assentatore, credo per muoverci a riso, “quali desideriamo essere felici, sarà nostra opera tanto zappare su questi monti che le nostre mani diventino callose per non essere dissimili da Genipatro!”. Erano le mani a Genipatro callose per lo essercitarsi alla coltura dell'orto suo quando ogni dì esso dava opera qualche ora alla sanità. Rise Tichipedo. Adunque disse Genipatro: “O dolcissimi, quando voi arete inteso el nostro ragionamento, credo iudicherete questi miei calli come segni di qualche industria così più accomodati a felicità che tutte le gemme, con quali ornamenti spesso gli ambiziosi sogliono ostentare sue ricchezze”. Molte parole quinci e quindi furon fra quelli inettissimi assentatori, per quali Genipatro vedendosi fatto loro giuoco dedusse e' ragionamenti, e con maturità si volse a Tichipedo e disse: “Tu, o Tichipedo, giovane fermo e robusto: io vecchierello, debole, languido. Tu ricco, abbiente danari, massarizie, armenti, prati, boschi, orti, ville, possessioni entro e fuori della terra: io povero, nudo. A te padre ottimo, procuratore delle tue fortune; a te figliuoli, a te fratelli temuti e reveriti: io solo. Tu in la tua patria fra' primi amministratori delle cose noto e nominato: io in essilio ignobile. Difformità tra noi grandissima. Ma quale stimi tu direbbe un savio uomo più fusse di noi due beato?”.
MICROTIRO. O disputazione degnissima! Seguita, non ti interrumpo.
TEOGENIO. Percosse Tichipedo el piede suo in terra, e protendendo aperte le mani rise con molta voce e disse: “Potrai domandarne tutti e' nostri cittadini a cui tu e io saremo presenti. Non recuso vivere in questa tua fortuna in quale me duole vederti, se di tutti loro uno solo non in tutto stoltissimo elegge non in prima essere me che te”. Qui disse Genipatro: “O felicissimo, se e' sapranno qual altra differenza sia tra te e me, se conosceranno che tu non puoi farmi parte de' tuoi beni sanza imminuirli a te, e vederanno le mie ricchezze tali ch'io posso renderne te pari a me ricchissimo con mio emolumento e utilità, forse non responderanno come tu stimi. Ma ecco qui Teogenio, omo né vulgare né d'ingegno tardissimo, e a te e a me familiare. Cominciamo. Dimmi, o Teogenio, se chi può, Dio, maestro delle cose, così a te concedesse quale dimanderai essere quello sarai, a quale di noi due chiederesti essere consimile?”. Qui rispuosi io: “Preeleggerei certo essere te, Genipatro”. Gridò Tichipedo e disse: “Dileggi tu, che se questo udissero e' nostri cittadini, riderebbero”. “E se Teogenio vedesse de' suoi amici chi preferisse lo stato tuo al mio”, disse Genipatro, “piangerebbe che tanto fusse tardo e stoldo, e sé desiderasse essere infelicissimo. Ma vediamo chi con più ragione si movesse, o que' tuoi cittadini tutti, o Teogenio solo”.
MICROTIRO. E chi non recusasse vita simile a quella di Tichipedo? Ozioso, inerte, ambizioso, arrogante, levissimo, temerario, lascivo in que' tempi, e ora per povertà diventato invidiosissimo e maledicentissimo; a cui il non avere alcuna degna faccenda era faccenda laboriosissima. Vita odiosa la sua!
TEOGENIO. Affermo cotesta tua sentenza, Microtiro, e così statuisco: la vita di Tichipedo, quando la fortuna seco in que' tempi era propizia, solea esserli grave, né da tanto suo tedio il sollevava l'affluenza e copia delle voluttà in quali sazio sé stesso fastidiva. Quello non ti concedo che la povertà lo faccia essere maledico e invidioso. Erano in lui questi uniti con gli altri suoi vizi, ma non aveano luogo da palesarsi; onde ben dicono quel proverbio, che a chi manchi e' panni, può non bene coprirsi. Ma saratti non ingrata la mia risposta. Dissili: “Tu, Tichipedo, non nego, stai primo fra i nostri fortunatissimo cittadino, e sono pronte e palese le tue ricchezze; ma chi in mezzo esponesse le ricchezze di Genipatro, forse tu in prima muteresti opinione, e piacerebbeti non essere a te stessi simile per imitarlo. A te, Tichipedo, non mancano gratissimi e carissimi figliuoli, non forse costumati, non forse dotti, non forse di natura e ingegno civile e atti quanto vorresti, e di dì in dì mortali. A Genipatro viveno più e più figlioli, e' libri suoi da sé ben composti ed emendatissimi, pieni di dottrina e maravigliosa gentilezza, grati a' buoni e a tutti gli studiosi, e quanto dobbiamo sperarne immortali. A te ancora, Tichipedo, sopravive il padre, la madre, co' quali tu te consigli e recrei. A Genipatro né manca, né mancherà iusto padre d'ogni suo instituto e santissima madre d'ogni sua volontà, l'intelletto sincero e la ragione interissima. Atorno te ancora, Tichipedo, convengono moltitudine di domestici e familiari, fannoti ridere, lodano te in presenza e onorano, vedi la casa tua ornata e frequentata. Da Genipatro mai si partono quanto e' vuole ottimi e sapientissimi suoi amici, questi libri co' quali tu 'l vedi tuttora essercitarsi e ornarsi di virtù e pregio tale, ch'egli è e da chi lo conosce e da chi mai lo vide lodato e onorato”.
MICROTIRO. Rimase, credo, vinto, che?
TEOGENIO. Notasti tu mai el costume degli ignoranti e insolenti uomini? Vedili superbi, ostinati, poco cedere alla ragione che li convince, meno patire ordine o tempo alcuno a rispondere, e con voce e gesti concitati, con parole rissose, sdegnando el vero, spregiando ogni bene addutta argumentazione nulla acquistano disputando che solo farsi conoscere immodesti. Così Tichipedo con molti gesti osceni, con molte parole ventose quivi si riscaldò, e fra molte altre più lieve parole disse: “E che bella e usitata vostra astuzia di voi litterati, o Teogenio! Tu lodasti qui costui per insieme lodare te e commendare l'arte tua. Ma fra l'altre sue e tue infelicità, Teogenio mio, a me pare la prima che voi consumiate vostre vigilie, espognate tanta opera, duriate con tanta assiduità in cose inutilissime. Saravve licito mai restare di volgere tutto el dì e poi la notte ancora queste vostre carte? E che dolce amicizia vi porgono questi vostri libri, fra' quali voi occupati vivete pallidi, estenuati, consumati, poveri e infermicci? Che cercate voi con tante vostre inquietissime fatiche? Volete sapere che si facci in cielo, e dove quella e quell'altra stella s'agiri, e non sapete donde abbiate da pascervi e vestirvi. Cercate immortalità già non in tutto vivi in vita pel vostro troppo ostinato studio. Ma che, potete voi scrivere favola nuova e non prima da molti scritta e promulgata? Restavi cosa più laboriosa ad accatarvi el pane che queste vostre letteruzze?”
MICROTIRO. Rido la inezia di costui.
TEOGENIO. E così fa, Microtiro mio, sollèvati dal tuo merore. Così giova ridursi a memoria simili cose ridicule per dimenticarci el dolore sorridendo. Sorrise adunque Genipatro e alquanto fermò gli occhi; poi se raccolse e disse: “Io fui giovane un tempo ricco e in fortuna non dissimile alla tua, o Tichipedo, e posso in questa disputazione iudicare quello quale non puoi tu, a cui l'una e l'altra via non sia nota. Tanto t'affermo, questo stato, in quale voi me vedete debole, solo e povero, molto mi diletta, e in la mia vecchiezza truovo solazzi non pochissimi, né certo minimi. Ramentami avere in me e in altri veduto essempli quasi infiniti onde imparai nulla confidarmi né obligarmi alla fortuna. Conosco la sua instabilità e perfidia, provo che chi con la fortuna vorrà avere niuna trama, niuno commercio, costui da lei nullo potrà ricevere danno. E qual cose può la fortuna altro torci che solo quello quale tu con molto grado accettasti da lei? Che può ella farti danno ritollendoti quello quale tu da lei nulla stimasti? Dotto adunque e per lungo uso seco ben saggio, a me stesso insegnai contenere mia volontà e frenare e' miei appetiti. E così a me fu licito chiudere ogni addito verso me alla fortuna onde ella possa poi richiedermi el suo e discontentarmi. A questo l'uso delle cose, l'essere stato spesso da lei ingannato, l'avere in ogni cosa notato la sua volubilità e incostanza, fu a me ottimo precettore, quale non può essere apresso se non de' vecchi e vivuti con lunga industria. E truovo in questa mia vecchiezza non minima utilità, ove molte cose molestissime quali me soleano infestare giovane, ora o sazio o libero nulla meco possono. Refrigerato, spento, sublato l'incendio amatorio, sedate le face dell'ambizione, acquietato mille sollicitudini e cure cocentissime quale sono domestiche e assidue alla inesperta gioventù, truovomi ancora per la età reverito, pregiato, reputato; consigliansi meco, odonmi come padre, ricordanmi in suoi ragionamenti, aprovano, seguono i miei ammonimenti; e se cosa vi manca, vedome presso al porto ove io riposi ogni stracchezza della vita, se ella forse a me fusse, qual certo ella non è, grave. Nulla truovo per ancora in vita che mi dispiaccia, e in questo mi conosco oggi dì più felice che mai, poiché in cosa niuna a me stesso dispiacio: qual cosa giovane non m'interveniva. Accusava, incolpava, castigava miei errori, mia tardità, mie' precipitosi consigli, mie immoderate voluntà, miei studi lievi, mia incostanza. Ora di me stesso contento a me stesso gratifico; quale una faccenda tanto mi diletta quanto, per essere a me più grato e accetto, di dì in dì mi rendo migliore e di dottrina più esculto e di virtù più ornato. E sono le mie quale io vecchio testé prendo voluttà maggiori e dolci molto più che quelle quali io presi giovane, però ch'io sono senza sollicitudine libero d'ogni premolestia, ove quelle da giovane tanto erano dolze e grate quanto erano da me state desiderate ed espettate. Quanto fu prima la molestia desiderando cose amatorie, tanto fu poi dolze la voluttà; quanto la sete, la fame, tanto el saziarmi. Fu adunque la premolestia agiunta e quasi madre della voluttà in le cose quale a me giovane dilettorono; quale premolestia non ora in mie voluttà interviene. Godo testé qui ragionando con voi, godo solo leggendo in questi libri, godo pensando e commentando queste e simili cose de' quali io vi ragiono, e ricordandomi la mia ben transcorsa vita, e investigando fra me cose sottili e rare sono felice, e parmi abitare fra li dii quando io investigo e ritruovo el sito e forze in noi de' cieli e suoi pianeti. Somma certo felicità viversi sanza cura alcuna di queste cose caduche e fragili della fortuna coll'animo libero da tanta contagione del corpo, e fuggito lo strepito e fastidio della plebe in solitudine parlarsi colla natura, maestra di tante maraviglie, seco disputando della cagione, ragione, modo e ordine di sue perfettissime e ottime opere, riconoscendo e lodando el padre e procreatore di tanti beni. E affirmoti ancora (disse Genipatro), non per queste sole, ma e per molte altre ragioni nulla pospongo la mia fortuna, o Tichipedo, alla tua. E come pospongo non la mia vecchiezza alla tua gioventù, così prepongo non le tue ricchezze e amplitudine alla mia povertà, non la tua populosa famiglia alla mia solitudine”.
MICROTIRO. Cose maravigliose e degne.
TEOGENIO. “Non insisto”, disse Genipatro, “disputando e' giovani quanto meno ch'e' vecchi moderati e continenti, tanto più parati a grandissime e ultime egritudine, e de' giovani morire numero più quanto si vede che de' vecchi. E sia quanto tu vuoi forza e consuetudine della gioventù avervi robusti, sofferenti in ogni fatica e disagio possiate la polvere, el sole, e' ghiazzi, e' venti, che utilità presterete voi giovani alla patria, alla famiglia vostra? Fugarete, ucciderete, sometterete a servitù con vostre mani e armi uno e un altro inimico. Non però tu, o Tichipedo, avanzerai le vittorie, né asseguirai pari insegne e lode in arme a Luzio Tizio Dentato, quale uno uomo invittissimo, provocato a certare a solo a solo, vinse ferocissimi otto uomini armati inimici, e in giusta e ordinata battaglia spogliò combattendo armati uomini trenta e quattro. Quale uno uomo ancora in espedizioni e pugne numero cento e venti sé ebbe strenuissimo e virilissimo, tale che ricevute ferite gravi non meno che cinque e quaranta, tutte dinanzi in la faccia, nel petto, niuna dirietro, premio di tanta sua virtù ebbe da' suoi imperadori prigioni ventimilia e altri doni militari; suo nomi: aste pure, torque, armille, grillande d'oro e d'argento; numero: ottanta volte dieci e sette centinara. Ma sia, quanto a te conceda la fortuna e ottima tua natura, in te pari lode e virtù quale fu in Luzio Dentato, siavi ancora agiunta la prodezza di Mallio Capitolino, quello quale solo e grave ferito salvò el capitolio assediato da' Galli, gente arditissima; e insieme vi sia in te la perseveranza in arme di Marco Sergio, omo invittissimo e per sue bene adoperate forze e arme celebratissimo; ucciderai con tua mano numero de inimici assidui e iratissimi forse quanti ne uccise M. Servilio, omo stato consule, quale, dice Plutarco, combattette con venti e tre armati inimici e atterrogli? Forse quanti ne uccise Aureliano Augusto principe romano, quale scrive Flavio Prisco che in la battaglia sarmatica diede a morte armati uomini quaranta, e in più altri luoghi da lui si trovorono atterrati inimici circa mille? Apresso Omero, Agamennon desiderava in tanto suo essercito solo avere dieci simili a quel vecchio prudente Nestore, ché nulla dubitava per loro potere suvvertere ogni inimica moltitudine. E così t'affermo, in qualunque sia vecchio, mediocre prudenza e certo uso delle cose potrà ogni dì suvvertere e perdere amplissimi e potentissimi populi contro la sua patria armati. Valse el consiglio di Fabio Massimo, quel vecchio, restituire le cose romane quasi da tutti e' giovani desperate. Con sua maturità Fabio propulsò l'ultima manifesta e pronta ruina alla patria, e sostenne quello Anibale quale tanto numero d'armati fortissimi giovani con suo petto e sangue a Trebia, a Trasimene, a Canne, nulla poterono sostenerlo. Appio Claudio, vecchio e cieco, con sua sentenza restituì dignità e virilità a' suoi cittadini, e raddusse la provincia Epirotarum armatissima e bellicosissima a ubbidire latine legge e imperio. Potrei addurvi Solone e suoi Ariopagite, insieme e ancora Ligurgo e sue santissime leggi, e infiniti altri simili, per quali vederesti sempre el consiglio de' vecchi stato alla patria sua più molto utile e pregiato che l'arme e gagliardia della gioventù”.
MICROTIRO. Cose degnissime e verissime, né puossi non assentirli.
TEOGENIO. Così adunque provato non la sua vecchiezza essere da posporla alla gioventù di Tichipedo, seguitò Genipatro e disse: “Le ricchezze tue, o Tichipedo, non nego, sono ornamento alla patria e alla famiglia tua, non quanto tu le possiedi e procuri, ma quanto tu bene le adoperi. Non ascrivo a laude che a tua custodia stiano cumuli d'oro e gemme, ché se così fusse, quelli che la notte sulle torri e specule hanno cura e custodia della terra, più arebbono che tu da gloriarsi. Ma tanto te loderò quanto in salvare e onestare la patria tua e i tuoi espenderai non le ricchezze sole, ma ancora el sudore, el sangue, la vita. Io fui ricco, o Tichipedo. Non però, perdute le mie ricchezze, feci come quel Menippo cinico quale, perché gli furono imbolati i suoi danari, se impiccò: omo avaro e, quanto io interpetro, d'animo vile, che non si fidava potere in povertà sostenersi in vita. Iero tiranno siracusano a Senofone Colofonio, omo litterato, quale si dolea non avere bene donde nutrirsi, rispose: 'Benché Omero sia già molti anni morto, pur così morto nutrisce più e più migliaia d'uomini'. Simile adunque come non in tutto nudo di virtù e dottrina, così fui d'animo non abietto, e nulla abandonai me stesso, e ridussimi a mente a quanti le ricchezze siano state dannose, dove la povertà a chi bene la sopporti da parte niuna si truova inutile. Scrive Plutarco che uomini sedeci della famiglia nobilissima de' Fabii insieme sotto un tetto abitavano. Questo potea la povertà fra tanti uomini: mantenere intera concordia e fermo amore. Né assentisco a quel satiro, altrove grave e perito poeta, quale ascrive alla povertà ch'ella rende e' buoni beffati e nulla pregiati. Assai arà in sé pregio chi se porgerà virtuoso. E come Zenone filosofo dicea, udendo essere la nave sua perita in naufragio: 'Così noi lasciate le ricchezze ora con men molestie filosoferemo in ozio'. E così troviamo, benefizio della povertà, allevati in veste stracciate più dotti e virtuosi che se fussero stati educati in purpure e delizie. Né può quella povertà, benché laboriosa, distorti da virtù quale t'accresca industria, se così è che la necessità abiti in casa de' poveri, quale dicono fu madre della industria, e insieme colla industria sempre crebbe virtù. E noi stolti mortali per mare, per monti, per mille pericoli fuggiamo la povertà, e più molte e molte molestie soffriamo fuggendo la povertà che se sopportassimo qualunque incomodi seco porti l'ultima egestà. E per asseguire ricchezze piene di mali, esposte a tutti e' pericoli, per quali tutti gl'invidi, tutti gli avari, tutti gli ambiziosi, cupidi, lascivi, voluttuosi e dati a guadagno e nati al spendere, numero infinito d'uomini pestilenziosi, ne assediano con animo inimicissimo, con opera infestissima, assidui, vigilantissimi per espilarci e satisfarsi de' nostri incomodi; e noi per asseguire tanta peste sottomettiamo nostri pensieri, opere e studi a mille brutte fatiche e servitù, ed ecci in odio la povertà. Cosa utile a viversi con industria, modestia e laude, cosa libera dai pericoli la povertà, libera dalle fraude e doppiezza, libera dalle assentazioni e perfidie de' pessimi uomini, sicura in mezzo de' ladroni, né tanto facile ad asseguirla, quando e dovunque ella non ti dispiaccia, quanto a chi ella piaccia bene atta a quiete e dolce ozio. Polidoro, figliuolo di Priamo re de' Troiani, presso di Virgilio poeta, fu dal re Treicio non per altro crudelissime e iniustissime ucciso che solo pel molto oro quale seco avea dal suo padre portato. Scrive Iosofo ebreo istorico che molti giudei ierosolomite, assediati dallo essercito de' Romani, fuggendo la fame e peste in quale inchiusi nella terra perìano, in sussidio al suo essilio ne portavano trangusate e inghiottite occulte alcune monete: qual cosa saputa, in uno dì furono di loro uccisi e sparati più e più migliara, tanto fu loro danno e morte trovarsi non in tutto poveri e vacui d'ogni ricchezza. E sarebbe prolisso recitare, non dico e' principi delle terre, e' tiranni, ma e ancora le provincie, a quali furono sue ricchezze ultimo eccidio e strage. E' prudentissimi Spartani abdicorono da sé ogni uso dell'oro per non soffrire su' suoi terreni strani inimici, quali rari verrebbero dove poco sperassero preda alle sue armi. Altri volevano suoi confini essere inculti e in gran spazio deserti per meno allettare chi cerchi a ricchire in altrui imperi. Ma sia qui argumento non inetto quanto d'ora in ora vedrai ne' luoghi estremi delle città la moltitudine de' poveri nuda sudare, straccarsi per acquistarsi donde pascersi e vestirsi; pur d'ogni età fra loro ti si porgeranno molti e molti lieti quali cantano e soffrano sé stessi sanza tristezza, dove entro a' teatri tutti e' togati e gemmati cittadini stanno agitandosi, mesti, tristi, e a sé e a chi così li miri ingrati, e in suo fronte contratti. Lieta povertà, inimica delle sollecitudini, contenta di piccole e facile cose quale con poca fatica e presto si trovano e ottengonsi. Dicea Allessandro re macedone che levarsi inanzi dì e affaticarsi dava iocundissime vivande al desinare, e levarsi dal desinare con volontà di mangiare, quasi fermento della fame, poi la sera aparecchiava ottima cena; qual cose sono agiunte alla povertà, e domestiche e familiari a qualunque povero.
Ma per tornare onde io sciolsi el mio ragionare, Tichipedo mio, io fui ricco, e come conobbi la povertà essere non grave, così provai le ricchezze tanto erano mie quanto io le spendea, e solo, come dice Valerio Marziale ottimo poeta, conobbi essere fuori delle mani della fortuna quello quale io dava a' miei amici; dell'altre ricchezze e fortune mie poterne richiedere nulla più che si volesse e permettesse la fortuna, ma di quelle quali giovorono a' miei amici essermi licito richiederne da chi le ricevette grata memoria e benivolenza. Non la perfidia degli uomini, non la iniquità della fortuna, non gli incendi, naufragi, ruine, potranno a me rapire tanta mia ricchezza quale io non tema perdere. E così ancora intesi quelle ricchezze non valere a felicità, per quali si viva sollicito ad acquistarle e timido in dubbio di non le perdere; in qual cosa certo io me propongo a te, o Tichipedo. Io per uso ed età conosco le fallacie e simulazioni degli uomini tanto meglio che tu, quanto appare che tu ancora non distingui di tanta tua moltitudine di salutatori chi a te sia vero e chi finto amico. Né credere che persona si possa ben giugnere ad amicizia se non merita essere amato per cosa stabile e quale niuno avverso gli possa torlo. Né stimare potere richiedere grata memoria da persona quale sia a se stessa ingrata, non adoperando lo 'ngegno e la industria sua in acquistarsi quanto e' debba lode e fama con vertù e studio di cose lodate e degne. E quando a te fussero copia di ricchezze maggiore che a Crasso, e nutrissi a tutela della patria tua uno e più esserciti, quando e tu ancora ricco simile a quel C. Cecilio Claudio romano, quale a tempo di Gallo Asinio e Marco Cirinno consoli morendo, benché perdesse assai in la battaglia civile, testò servi quattro milia cento e sedici, gioghi di buoi trecento e sessanta, altri armenti cinquanta e sei migliara, in danari anoverati oro pesi secento milia; e più a ciascuno tuo amico avessi da distribuire sesterzi undici milia quanti Caio Cecilio ordinò si spendesse in la sua sepoltura, non però sarebbe presso di me da più pregiare la tua fortuna che la mia parsimonia: sorella della povertà la parsimonia, come delle ricchezze sempre fu compagna la prodigalità. Più fu ornamento alla sua patria Fabrizio, e Curio e altri simili parcissimi e modestissimi, quali spregiarono tanto oro per signoreggiare chi possedeva oro, e contenti cenarsi sotto suoi tuguri rape e cauli apparecchiate in mensa con vasi di terra, ornorono la patria sua non meno di vittorie che di buono essemplo a vivere con modestia e senza prodigalità. Più certo giovorono costoro che le ostentazioni di sue infinite ricchezze quale poi faceano que' fortunatissimi con sue auree cene e spettaculi. La amplitudine tua e pompa civile, la frequenza di molti salutatori mai a me più piacerà che la mia quieta solitudine. A te in tanta moltitudine non possono non essere attorno chieditori, delatori, assentatori, ottrettatori, omini lascivi, lievi, immodesti, viziosi, infesti, da' quali ora per ora tu oda e riceva cose odiose e da sdegnarti. A me niuno più ch'io mi voglia molesto; io mai men solo che quando me truovo in solitudine. Sempre meco stanno uomini periti, eloquentissimi, apresso di quali io posso tradurmi a sera e occuparmi a molta notte ragionando; ché se forse mi dilettano e' iocosi e festivi, tutti e' comici, Plauto, Terrenzio, e gli altri ridicoli, Apulegio, Luciano, Marziale e simili facetissimi eccitano in me quanto io voglio riso. Se a me piace intendere cose utilissime a satisfare alle domestiche necessità, a servarsi sanza molestia, molti dotti, quanto io gli richieggio, mi raccontano della agricoltura, e della educazione de' figliuoli, e del costumare e reggere la famiglia, e della ragion delle amicizie, e della amministrazione della republica, cose ottime e approvatissime. Se m'agrada conoscere le cagioni e principi di quanto io vedo vari effetti prodotti della natura, s'io desidero modo a discernere el vero dal falso, el bene dal male, s'io cerco conoscere me stesso e insieme intendere le cose prodotte in vita per indi riconoscere e riverire il padre, ottimo e primo maestro e procuratore di tante maraviglie, non a me mancano i santissimi filosofi, apresso de' quali io d'ora in ora a me stessi satisfacendo me senta divenire più dotto anche e migliore. Ma voi principi e primi cittadini in questa vostra amplitudine che cercate voi; laude, gloria, immortalità? Non con pompa, non con ostentazione, non con molto populo d'assentatori asseguirete vera e intera laude, ma solo ben meritando con virtù. Disse Orazio Flacco poeta:
Qualunque corse ad acquistarsi laude,
giovane, cose molte e dure e gravi
sofferse al freddo e al caldo, e ben se astene
fuggendo con virtù Venere e Bacco.
E niun teatro, come dicea l'Epicuro filosofo, più si truova ben adattato a gloria che la coscienza in noi de' nostri meriti. Se in te serà l'animo da e' vizi perturbato, se penderai occupato da brutta alcuna espettazione, o non iusto desiderio, o temerario incetto, o inetta paura e sollicitudine, certo sentirai dolcezza niuna, frutto niuno di qualunque grandissima sia tua in la voce del populo promulgata gloria. E qualunque ivi sia ignominia poco nocerà a quello animo ben composto quale in sé sia splendido e ornato di virtù. E queste sempre furono cose esposte in mezzo, facile ad asseguirle, licite a' privati come a chi siede in magistrato, concedute a qualunque infimo plebeo non meno che a' primari principi. Sempre fia presto la virtù a chi non la fugga. Forse cercate amplitudine per essere temuti. Vorrebbesi che la natura v'avesse fatti, qual scrive Ifigenio e Ninfodoro, simili a quelli pestiferi uomini quali nati in Affrica fascinano erbe, arbori, fanciugli e tutti gli animali, per modo che ciò che troppo lodino muore e seccasi. Gioverebbevi ancora essere simili a quelli Illirici e Treballi, quali subito uccidono guardando irati fermo chi si sia; e satisfarebbevi se in voi fusse pari veneno a quelli Etiopi, de' quali chiunche tocca suo pestifero sudore casca infermo a morte, però che a questo modo saresti temutissimi. Ma se vorrete essere quanto dovete iusti, vi temerà niuno se non gl'ingiusti. E se vorrete gastigare l'iniustizie altrui a vostro arbitrio, non sarete giusti. E se asseguirete quanto la legge e vostro giurato magistrato v'impose, non però fia opera qual voi molto abbiate da pregiarla. Più tosto, se sarete umani, vi dorrà l'errore di chi cade in quella meritata pena. E se pur vi diletterà essere iniusti, non vi reputo degni d'amplitudine, ché a nuocere a' mortali e usare immanità sempre fu luogo a chi così deliberi. Qualunque vilissimo potrà, così deliberando in tempo, e calunniare e uccidere e infiammare templi e sacri luoghi. Che se forse si desidera questa copia di salutatori per propulsare da sé tante ingiurie, da queste sono io liberissimo. A niuno con detti miei e meno con fatti sono tale che a ragione egli abbi da nimicarmi, né posso solo, vecchio e posto in debole fortuna essere a persona infesto; quale una cosa reputo utilissima contra ogni ingiuria come per altre ragioni così per questa, che volendo essere in questa parte iniusto non m'è licito. E chi sarà che senza cagione molesti chi, come io, né voglia né possa sostenere alcuna inimicizia? Sogliono e' mali uomini, a nuocere chi nulla gli offenda, non quasi per altro indursi quanto che per trarsene utilità. Da me, quale sempre diedi opera che niuna mia cosa altrove sia che solo presso a me, nulla può essere rapito. Mie sono e meco la cognizion delle lettere, e insieme qualche parte delle bene arti, e la cura e amore della virtù, quale cose ottime a bene e beato vivere possono a me né da' casi avversi né da impeto alcuno o fraude essere tolte. Ad alcuni perversi diletta el male altrui mossi da 'nvidia, ma verso di me, nudo d'ogni delizie, può invidia niuna surgere, ché nulla troveranno apresso di me gl'invidi di quelle cose quale egli stimano o curano d'acquistarsi. Forse a qualche altro ambizioso non ben consigliato parrà lode succulcare altrui, o timido di non patire a sé superiore, o cupido di non avere pari. Ma meco simili odiosi ingegni nulla troveranno da concertare, quale a persona mai volli essere superiore d'altro che di virtù, non tanto per essere in voce e favola della plebe, quale sanza iudizio e loda e biasima, quanto per satisfare a me stessi. E molto più mi parse offizio mio dare ogni opera di meritare lode e grazia che d'asseguirla. E parebbemi essere dileggiato se altri m'ascrivesse quello ch'io non sentissi in me, né parebbemi però diventare migliore quando ora non conosciuto, poi fussi promulgato buono. Onde con questa mia ragione del vivere me truovo fermissimo contro ogni ingiuria. Truovomi da non temere tiranno alcuno per crudelissimo che sia. Ammunirollo pieno di libertà. Tu e gli altri simili a te, per paura di non perdere l'amplitudine tua, non tanto insieme con gli altri assentatori e riderai e applauderai al tiranno osservando e temendo ogni suo cenno, ma e ancora a qualsisia de' tuoi settatori e domestici scurre molte patirai cose a te moleste e da non essere sofferte da chi voglia dirsi felice. Qual cosa se forse vi diletta, e stimate felicità tradurvi a sera vacui di molestia, e per questo cercate potere ciò che v'attagli. A chi desidera potere ciò che vuole, a costui conviene manchi nulla; a colui manca nulla a cui suppeditano le cose buone e necessarie. Se così mi concedete, affermo me molto più che voi essere felice. Tanto sono in questo felice io, quanto quel Metello, quale sopra molti suoi amplissimi onori chiamato per la seguita vittoria macedonico, lasciò in vita suoi quattro figliuoli, fra' quali tre erano stati consoli, uno pretore, due aveano triunfato. Tanto sono io in questa parte felice, quanto quella lacedemoniese chiamata Lampido, figliuola di re, moglie a re, madre a un re; e quanto presso e' nostri Agrippina, sorella che fu e moglie e madre a chi ebbe imperio e governo in tutte le cose, però che a me sono le cose buone e necessarie in copia non minore che a qual si sia uomo stato in vita. Le cose a noi mortali necessarie sono quelle quale, richieste dalla natura, non possiamo denegare a noi stessi, e queste sono e poche e minime. Quello satisfarà a te quale satisfa a uno de' servi tuoi contro la fame, sete e freddo. Ma a chi sia allevato in questa vita splendida, a sé stessi statuisce essere infinite cose necessarie, quali non l'avendo vi molestano, e avendole infastidiano. Le cose buone forse sono presso di me molto in maggior numero che presso a voi. Non io sono quello che affermi la vostra amplitudine, lo stato, l'essere temuto, siano cose buone. Cosa niuna buona può come queste far male. Molti, per volere soprastare gli altri, perirono. Ma son certo a me non negherete la cognizione delle buone cose, l'ingegno esculto di qualche dottrina, nutrito in fra le lettere, essere cosa ottima. Dicea Aristotile, quella essere beata patria qual sia ottima; essere ottimo chi facci bene; e niuno far bene in cui non sia virtù. Non adunque in vostre amplitudine consiste felicità, ma in virtù. L'oraculo d'Appolline rispose al re Gise, Aglao, privato in Arcadia, più era con sua modestia felice che lui re, a cui avanzava tanta regia amplitudine. Stavasi Aglao in uno ultimo cantuccio della provincia, lavorava una sua villuccia, di qual luogo, cupido di nulla e di sua fortuna contento, mai era uscito. Solone, conditore delle prime leggi ateniese, quando Creso, re fortunatissimo, gli mostrava le sue maravigliose copie e potenza, e domandava quale egli avesse altrove conosciuto omo più che sé felicissimo, rispuose: 'Vidi Telo cittadino in la terra degli Achei più di te molto felice. Era Telo buono uomo; ebbe figliuoli ben costumati, e contento non pativa contro sua voglia alcuna necessità'. Non adunque la affluenza delle cose quanto la modestia e frenare sé stessi rende noi felici. Ma siano queste vostre amplitudine quanto volete degne, e siano da desiderarle, dilettivi la pompa civile, la amministrazione della republica, el sedere in magistrato, stiavi a dignità quanto voi ben consigliate e' vostri cittadini, sarebbe questa vostra amplitudine da volerla certo se solo avenisse a' degni, sarebbe da non la recusar, benché molesta e piena d'invidia, odi e pericoli, se delle tue fatiche e vigilie non poi più ne fu lodato el caso seguito e fortuna che la diligenza e industria tua. E vidi spesso la sentenza pestifera e palese temerità d'uno insolentissimo più essere dalla moltitudine favoreggiata che 'l buono ammonimento d'uno sapientissimo e ottimo cittadino. E così e' buoni contro a' perversi raro accade che possano ben conducere cosa alcuna in sua republica da loro in tempo preveduta e detta; onde quanto più conoscono, tanto più viveno mesti in periculo ed espettazione di piggior fortuna. Dicea Assioco, presso a Platone, la plebe altro essere nulla che inconstanza, inferma, instabile, volubile, lieve, futile, bestiale, ignava, quale solo si guidi con errore, inimica sempre alla ragione, e piena d'ogni corrotto iudizio. Apresso e' suoi cittadini Abderites Democrito, summo filosofo, era riputato stolto. Ancora si leggono le epistole per quale Ippocrate medico fu chiesto a medicarlo. Antiquissimo e usitato costume di tutti e' populi spregiare e odiare e' buoni. Scipione Nassica per iuramento del senato reputato ottimo, due volte ebbe iniusta repulsa dal populo. Coroliano, Camillo e più altri modestissimi e virtuosissimi cittadini dal popolo soffersono contumelia. Aristide ateniese, cognominato Iusto, solo per odio di tal cognome fu da' suoi cittadini escluso e proscritto. Socrate dall'oraculo d'Appolline iudicato santissimo, dal populo fu agiudicato a morte. Alcibiade, ricco, fortunato, amato, d'ingegno quasi divino, e in ogni lode principe de' suoi cittadini, nobilitata la patria sua con sua virtù e vittorie, morì in essilio perduti e' suoi beni in povertà, tanto sempre alla moltitudine dispiacque chi fosse dissimile a sé in vita e costumi. E fu in questa sapientissimo chi disse el populo essere una tromba rotta quale si possa mai ben sonare. Onde nulla a me può el mio essilio per questo dispiacermi, poiché io me vedo escluso dal numero e consorzio di molti rapacissimi, invidissimi e immanissimi, a' quali la mia astinenza e modestia era in odio, né vedeano essere a loro licito perturbare quanto e' desideravano le leggi e la libertà della patria se prima non faceano impeto in me. Ma non però mai alcuna ingiuria tanto in me potrà che io quanto in me sia non osservi fermo amore e integra carità verso la patria mia. E sempre come io fo, così farò di dì in dì, esporrò quel ch'io sappia, possa e vaglia in premeditare, investigare ed esporre a' miei cittadini, con voce e con scritti, cose utili e accomodate alla amplitudine e degnità della nostra republica. Quale animo mentre che sarà in me, chi potrà negarmi ch'io non sia vero suo e certissimo suo cittadino? Né crederò tu reputi cittadino qualunque barbero abiti entro quelle mura, ma più tosto iudichi inimico colui quale con suo consiglio, con sua opera, con suoi detti e fatti perturbi l'ozio e quiete de' buoni. Adunque la diritta affezione in prima verso la patria, non l'abitarvi fa me essere vero cittadino, ché se così non fusse, e i buoni che uscissero in altrui provincie per cose publiche o private, subito resterebbero essere cittadini. Benché io ivi sono assiduo ne' templi, ne' teatri, in casa de' primari cittadini, ove e' buoni fra loro di me e de' miei studi spesso e leggono e ragionano. E forse la patria nostra di tutti e' mortali fie quella dove abbiamo lunga età a riposarci, a quale e' Sauromati e posti sotto qualvuoi plaga del cielo sono né più di voi lontani né più vicini, tanta via troverai dall'ultima Germania quanto e dalla estrema India persino sotto terra.
E solete voi ricchissimi computare a felicità el numero dei figliuoli, oppinion certo non in tutto da non la biasimare. Scrive Eutropio che Massinissa re lasciò in vita di sé nati figlioli uomini quaranta e quattro. Ad Artasserses, re de' Persi, scrive Iustino, nacquero figliuoli cento e quindici. Eutromo, re d'Arabia, scriveno vide di sé nati figliuoli settecento. Se a te fusse populo de' tuoi simile, che laude presso de' buoni e continenti, che autorità presso de' gravi e maturi, che dignità presso de' prudenti e savi uomini a te si potrebbe ascrivere? Non per questo sarebbe lodata la tua equità, non la umanità e frugalità; non sarebbe ascrittoti a virilità, non a continenza, né molta ti seguirebbe però utilità, forse neanche a te per questo sarebbe alcuna voluttà. Sarebbono sussidio alla tua vecchiezza forse ed eccidio ad ogni tua età. El figliuolo di Scipione Affricano superiore nulla fu al padre né a' suoi in tanta sua domestica laude simile. El figliuolo di Fabio Massimo, cittadino clarissimo, fu da Quinto Pompeio, pretore urbano, privato della eredità del padre per suoi brutti costumi e vita; e molti da' figliuoli ricevettono ignominia e calamità a sé e alla sua famiglia. Né sono e' figliuoli sempre a padri simili, buoni e costumati: quali, benché buoni, se a te fussero pochi, el desiderio d'avere degli altri, e la paura di non perdere questi, e ogni loro picciolo e lieve incommodo a te sarebbe grande e a grave merore e tristezza. Se fussero molti, tu e di ciascuno aresti qualche cura, e di tutti non potresti insieme non avere molta sollicitudine. Ebbi figliuoli. Provai quanto fusse in ogni parte utile o disutile essere padre. E' miei se forse erano, quanto io troppo gli desiderava, modesti e di lieto ingegno, erami acerbo ogni sospetto quale di ora in ora mi si porgea di loro vita e sanità e fama Se forse talora essi meno con suoi costumi e indole mi satisfaceano, adoloravo. Ora se in avere figliuoli sta diletto alcuno, a me non mancorono: prova'gli, e furonmi gratissimi. Se in essere padre mi stava tristezza alcuna, ella non più mi preme. Per tanto me reputo in questo felice non meno che se io, simile ad Ilario Crisippo fesulano, venissi qui a questo quasi come al fonte d'Elicona a sacrificare, qual fece lui in capitolio in Roma, con cinque figliuoli e due figliuole, dieci e sette nepoti maschi e venti e nuove figliuoli de' suoi nipoti. Non tanto si contentava lui di tanta sua famiglia quanto io non mi discontento della mia solitudine. Fui padre amato da' miei. Mancoronmi in età mia quando io potea volendo ancora averne. Non mi premea quella sollicitudine qual preme voi altri ricchi, che solliciti desiderate a chi lasciare iusta eredità, le vostre fortune. Rimaseno a me ricchezze, né tante ch'io dubitassi arrichissero mio niuno inimico, né tali ch'io non potessi dispensandole a' miei amici lasciar in loro mano qualche segno della nostra benivolenza. Non però voglio stimiate me sì duro né sì inumano che a me fussero ingrati e' miei figliuoli, ma non tanto gli desidero che mi dolga molto non gli avere, qual fanno alcuni ingrati di tanti altri doni quanti di dì in dì ricevereno della natura. Non rendono grazia de' molti e grandissimi ricevuti beni, ma d'un solo espettato comodo seco troppo si perturbano. E così degli altri miei, se per età forse erano maggiori di me, non sono io sì tardo d'ingegno ch'io non conosca starmi necessità vivendo vederli uscire di vita. Non però potetti non dolermi; quando de' miei alcuno mancava, desideravalo, ma poi quando io fra me repetea le cagioni del mio dolore, riconoscealo, quanto egli era, non altronde che da una opinion inetta, per quale io me riputava, mancatomi e' maggiori, crescermi cura e sollicitudine domestica, e sanza e' minori non potere quanto a me stessi in tempo già promisi sussidio e ferma quiete, e troppo me escrucciava non avermi co' e' miei amici e meco nati e giunti per sangue e per benivolenza, a' quali, come ogni nostra fortuna era stata comune, così ancora di dì in dì io dolze comunicassi miei instituti, volontà e studi. Adunque non era in me molesto alcuno loro male, qual certo dobbiamo stimare a loro nulla fu nel morire. E se pure stimiamo vi fosse dolore, se quel dolore fu all'animo, non dobbiamo in noi ricevere quello che in altrui ci dispiacque; se fu dolore in loro alle sue membra, d'altro nulla aremo da dolerci che solo forse dove non poterono con animo ben virile el picciol male; ma se furon grandi i loro dolori, crediate non li sentirono. E hanno questa natura e' dolori in nostre membra che e' piccioli scemano per el sofferire, e se sono veementi e grandi duran poco, però che vincono e atterrano subito e' sentimenti. Adunque a me mancandomi e' miei solo mi dolea quanto io stimava interrutte mie speranze ed espettazioni, mie' commodi e miei sollazzi; forse ancora mi parea dovuto piangendo mostrarmi simile agli altri inetti, quali credono, graffiandosi e picchiandosi e urlando, o da' vivi essere lodati o da' morti essere uditi o alli dii grati. Ché se chi noi piangiamo risuscitasse, giurerebbe dispiacerli la nostra stultizia, qual certo non meno debba a noi essere odiosa ove porgiamo e' nostri visi sucidi e troppo deformati dal pianto, e tormentiànci in opera non solo, come dicea Eschillo, perduta, ma e degna di troppo biasimo, perseverare piangendo ove mie lacrime e sospiri né ad altri né a me giovano, ché se le lacrime potessero levarci el merore piangendo, si finirebbe ogni fatica e arebbono le lacrime pregio pur grandissimo. Ma due cose a me trovai accommodatissime a sollevarmi da tanta inezia. Prima el tempo, quale come donatore così consumatore di tutte le cose, qual maturando leva ogni acerbità, d'ora in ora in me minuiva dolore dimenticandomi el mio sinistro. L'altro fu come dice Valerio Marziale di Mitridate, quale uso spesso a gustar el veleno rendette in sé natura sua sì fatta che più niun tossico gli potea noiare. Così a me gli spessi in casa mia mortori essiccorono le vane lacrime e consumorono in me tutte le inezie feminili, con quali dolendoci del nostro male vogliamo parere piatosi di chi ben morendo ben sia uscito di tante molestie in quante e' lasciò noi che restammo. E ancora le iterate mie calamità offirmorono in me uno animo tale, che dove prima per troppa molizie infermo e troppo debole io non potea udire la voce e ammonizione de' sapientissimi filosofi, ora essercitato da' casi avversi diligente gli ascoltai, e intesile essere ragioni e documenti ottime e santissime; intesi non avere per rispetto alcuno tanto da dolermi della morte de' miei, che la morte di chi io nulla mi dolea, Omero, Platone, Cicerone, Virgilio, e degli altri quasi infiniti dottissimi stati uomini, non a me molto più che la morte de' miei dovesse essere gravissima e molestissima, da' quali se fussero in vita, senza comparazione potrei ricevere e dottrina a bene e beato vivere e modo a qualunque utile instituto e voluttà in ogni mio pensiero molto e molto più che da qual si fosse nel numero de' miei. E forse molto conobbi più avermi da dolere della vita e brutti costumi d'alcuno de' miei, che della morte di chi era uscito di tante molestie, in quale noi altri mortali siamo assiduo agitati; e imparai in molte parte vincere me stessi, imitando coloro e' quali in tutte le istorie celebratissimi con animo forte e constante non indugiorono che 'l tempo li vendicasse da tristezza in più lieta pace e quiete del suo animo, ma con ottima ragion e consiglio subito providero fuggire in sé ogni merore. Marco Valerio, fratello di Publicola, si loda che, udito la morte del figliuolo mentre che consecrava el tempio, nulla si mosse; solo disse: 'Gittatelo ove vi pare: non a me ricevo averne a piangere'. Dion siracusano, udendo che 'l figliuolo caduto da un tetto era espirato, disse: 'Datelo alle donne: noi fra noi di cose intanto più degne disputeremo'. Quinto Marzio, lasciato le essequie del figliuolo, venne in senato a consigliare la patria. Pericle el simile, Telamon e Antigono e Senofonte e Anassagora insieme e quella femmina lacedemoniese; quali uomini a maggior cose desti, rispuosero: 'Sapea io me avere generato un uom mortale e aspettavalo, adoperandosi quanto io el desiderava in cose pericolose per la sua patria, ancora prima udire simile suo ben consigliato offizio'. E molti altri, quali sarebbe qui lungo recitarli, a me addussi a memoria in que' miei casi, e dispuosi imitarli. E tanto di me a me stessi fu licito quanto io così disposto volli, e imitando que' savi proposi a me stessi simile a loro laude e lieto frutto. Dario re, padre di Serse, tra le lode sue dicea sé avere sofferte in pace e in guerra molte cose gravi, e per le avversità sé essere diventato più prudente. Così fu a me frutto riprovando la fortuna imparare a sofferirla e rimanermi con l'animo libero e vacuo di merore e perturbazione. Qual tutte cose a te, o Tichipedo mio, non litterato, non essercitato dalla fortuna, non apparecchiato con erudizione alcuna a sostenere o ad evitare gl'impeti avversi, educato in delizie, cresciuto fra uomini assentatori da' quali mai udisti se non quanto ti dierono giuoco e riso, non interverrebbono, a te dico, Tichipedo mio, non interverrebbono; ogni minimo intoppo aresterebbe ogni tuo corso a laude. Tanto adunque più di me debbi riconoscerti infelice quanto più vivi esposto a ogni strazio della fortuna. Io me truovo da ogni parte tale che la fortuna più può nulla meco essere infesta. Non la temo, ché nulla può tormi. Non la curo, ché nulla più desidero del suo. A te quale non provasti quanto ne' doni suoi la fortuna più puose fele che mele, certo troppo dolerà non avere premeditato la sua perfidia. E se da ora ivi tu forse pendi con l'animo quanto mi pare nel tuo fronte comprendere, o Tichipedo, pensando quanto facile e pronto e' casi avversi in un dì, in un momento possono precipitarti di questo tuo stato, certo non vedo possi turbato essere felice”.
Così avea Genipatro
disputato; adunque fermossi alquanto summirando Tichipedo, quale in sé suspeso
e tacito quasi lacrimava; poi si volse a me e con parole a me socquete fra sé
stessi pispigliando disse e immutò quel verso di Didone presso a Virgilio: Sic tua te victum doceat fortuna dolere. E poi raggiunse parole simili alquanto
arridendo: “Non però voglio, o Tichipedo, reputi me insolente o teco non ben
concorde, se in questi miei ragionamenti volli più tosto consolare me posto in
questa quale tu m'adiudicasti infelicità, che mostrarmi in cosa alcuna a te
superiore. Ben conforto te quanto per ingegno, opera, studio e diligenza vali,
preponga essere con tua modestia, parsimonia e buoni costumi, con frenare e
moderare te stessi, tale che cosa niuna a te manchi a condurti e statuirti in
summa e vera felicità; quale opera sarà tanto men difficile a te quanto la
fortuna teco fie facile e secunda. E se forse teco fusse in tempo la fortuna
simile a me dura e avversa, o Tichipedo, gioveratti avermi udito, e arai me
essemplo donde impari ch'ella così soglia e possa in noi mortali”.
LIBRO II
TEOGENIO. Adunque, o Microtiro, in questa lunga nostra istoria qual tu sì attentissimo ascoltasti, satisfeci io in parte alcuna a quanto ti promisi? Sollevai io te nulla del tuo merore?
MICROTIRO. Non facile potrei narrarti quanto mi dilettasti e persuadesti e sollevasti con tanta tua copia e varietà ed eleganza. Fu certo disputazione degna di memoria. Rendone a te grazia e a Genipatro, quale uomo come in tutti suoi altri detti, così in questo a me parse simile all'oracolo di Appolline. E con che modo bellissimo pronosticò a Tichipedo la sua prossima calamità; cosa quasi incredibile di tanta felicità subito ruinare in tanta infelicità! Maravigliomene e duolmene.
TEOGENIO. A Genipatro, uomo prudentissimo, nulla fu difficile conoscere che a que' costumi lascivi e a quella vita oziosa e inerte di Tichipedo non mancherebbono presta miseria e tristezza. Mai fu che uomo insolente, temerario, lieve, ambizioso, simile a Tichipedo, potesse non ruinare in profonda miseria. Quelli simili a Tichipedo offendono molti con loro gesti e parole inconsiderate e piene di fastidio e convizio. E' mal voluti in tempo male ricevono. E quando bene in Tichipedo fusse stata summa modestia coniunta con summa industria, non però sarebbe da maravigliarsi se a lui non sempre fu la fortuna equale e secunda, quale per sua natura sempre fu volubile e incostante. Scrive Plinio fra l'altre simile selve e insule una trovarsi nelle acque presso al laco Vadimonio quale né dì né notte si posi in alcuno luogo. Ancora più e incostante e volubile la fortuna. Quale a me darai tu omo da te in questa età veduto o appresso delle istorie notato in tanta felicità che el sia uscito di vita senza prima soffrire in sé molta parte di miserie? Recita Cornelio Nepote istorico che Pomponio Attico, omo litteratissimo, fu di sì prospera sanità che in anni trenta mai li bisognò curarsi con alcuna medicina. E Antonio Castore dicono passò vivendo anni cento che mai in sua vita provò in sue membra alcuno dolore, e in quella età li servia la memoria interissima e duravali ottimo vigore. Publio Romulo, domandato da Augusto Cesare, rispose avere ben servata in sé la valitudine integra in quale e' lo vedea con ungere el corpo de fuori con olio, entro assumere per suo bere acqua decotta quale chiamavano mulsa. Visse anni sopra cento ben fermo e in ogni suo membro intero. Lucio Volusio, scrive Cornelio Tacito istorico, fu sopra degli altri formosissimo. Visse anni tre e novanta in prima ricco e ornato di buone arti e nulla offeso da tanti sceleratissimi principi quali furono seco in vita. Senofilo, dicono, visse anni cento e cinque senza sentire a sue membra alcuno incommodo. Ieronimo istorico, scrive Luciano, visse anni quattro e cento fermo in ogni suo sentimento, ancora e persino all'ultimo dì utile a procreare figliuoli. Gorgias visse anni otto e cento sempre sano, e di sì rara sua sana età dicea esserne stata cagione la sua continenza. Dione, tiranno siragusano, persino in anni sessanta visse vacuo d'ogni lutto funebre in casa sua. Non però crederò che a costoro fusse la fortuna nell'altre cose nulla molesta. Furono loro gravi le malivolenze, l'invidie, inimicizie, suspizioni, cure, sollicitudini e gli altri casi avversi quali molestano e' mortali. Crasso fu giovane sopra gli altri ricchi ricchissimo, pur vecchio perì in estrema infelicità. Quinto Cepione dopo el trionfo suo, e stato consule e massimo pontefice, morì incatenato nella publica carcere. Policrate, tiranno samio, a cui la fortuna sempre era stata propizia, quello el quale per esperimentare quanto in tutte le cose el fusse alla fortuna accetto, gittò in mare el suo anello e ritrovollo in corpo a un pesce statoli presentato, costui finì morendo con grandissima sua ignominia fitto sulla cima d'un monte in croce. E se bene essamineremo, forse troveremo vecchio niuno in quello stato in quale e' fu giovane. Anzi quasi ancora pare che insieme colla felicità sempre sia aggiunta summa miseria. A Pompeio la sua amplitudine, a Cesare el potere quanto el volea, a Cicerone la sua eloquenza, a Scipione la sua grazia populare, furono capitale e ultimo periculo. Constituta legge della fortuna pervertere ogni dì nuove cose. Né debbasi uno e un altro maravigliare se ella seco usa sua innata perfidia. La famiglia de' Fabii nobilissima da tanto numero, da uomini trecento in un dì fu ridutta a un solo. Macedonia, provincia gloriosa, quale ebbe imperio in Asia, Armenia, Iberia, Albania, Capadocia, Siria, Egitto, provincie amplissime, ricchissime, potentissime, quale ancora vincendo superò ultimi monti Tauro e Caucaso, quale impose sue leggi a nazione e gente estremissime, Battri, Medi, Persi, e quasi a tutto l'oriente, quale se facea ben riverire e ubbidire sino entro alla India terre luntanissime, costei cadde in calamità e giuoco della fortuna. In uno dì Paulo Emilio, duttore degli esserciti romani, vendette a servitù città macedoniche trionfali numero settanta e due. Adunque, non iniuria, dicea Ovidio poeta:
con ambigui passi la fortuna erra,
né segue certa in alcun luogo [mai],
ma or si porge lieta e ora acerba.
Solo una legge serba in esser lieve.
Ma di questa inconstanza non aremo tanto da biasimarne la fortuna, quanto in prima la nostra stoltizia, quali mai contenti delle cose presenti, sempre suspesi a varie espettazioni, vorremo pari alli dii essere beati. Negava Euripide ad altri che solo alli dii essere concesso durare in perpetua felicità contenti. Affermano e' fisici, e in prima Ippocrate, essere a' corpi umani ascritta vicissitudine, che o crescano continuo o scemino: quello che tra questi due sia in mezzo, dicono trovarsi brevissimo. Così e molto più a tutte l'altre cose mortali certo vediamo essere fatale e ascritto ordine dalla natura che sempre stiano in moto, e in difforme successo vediamo e' cieli continuo innovare sua varietà. Affermava Platone, comune sentenza di tutti e' matematici, non prima con sue stelle tornare in simile sito el cielo, che agiratosi per infiniti avolgimenti anni numero sei e trenta migliara; né però si potrà quell'ora dire simile a questa qual sia più pressa alla fine, più lungi dal principio del mondo. Vedi la terra ora vestita di fiori, ora grave di pomi e frutti, ora nuda senza sue fronde e chiome, ora squallida e orrida pe' ghiacci e per la neve canute le fronti e summità de' monti e delle piaggie. E quanto pronto vediamo ora niuna, come dicea Mannilio poeta, segue mai simile a una altra ora, non agli animi degli uomini solo, quali mo lieti, poi tristi, indi irati, poi pieni di sospetti e simili perturbazioni, ma ancora alla tutta universa natura, caldo el dì, freddo la notte, lucido la mattina, fusco la sera, testé vento, subito quieto, poi sereno, poi pioggie, fulgori, tuoni, e così sempre di varietà in nuove varietà.
Forse a te queste simili spesso rivedute cose paion men maravigliose. Così stima, e' casi avversi spesso rintoppati noi rendono più preveduti e meno proni a perturbarci. Ma e' suole ancora la natura in cose grandissime e incredibili non meno che la fortuna con noi adoperarsi. Non recito e' portenti e monstri quali, proverbio de' Greci, sempre ne manda el Nillo e l'Affrica, non e' giumenti ermafroditi quali menavano el giogo a Gaio Nerone Cesare, e simile maraviglie della natura, che sarebbe materia infinita a raccontarli. Notissima istoria della natura presso di tutti e' poeti, Sicilia un tempo essere stata iunta e continente con Italia, quale ora Silla e Carriddi, monstri immanissimi, tengono divisa et segiunta. Scriveno che lo essercito d'Antioco re in solo uno dì apresso Carmania in quello proprio luogo combatterono a cavallo in quale avea prima con molte navi combattuto. Racconta Pomponio Mela una regione oltre al fiume Nabar lungi da ogni mare trovarvisi grandissime spine di pesci e molta copia d'ostree e non raro qualche ancore. Erodoto istorico affermava el mare già tempo essere stato sopra Memfi, sopra sino a' monti di Etiopia, qual terra ora scoperta forse troppo rimase arrida. E forse non raro co' mortali irata la natura mostra quanto insieme li diletti adducere cose rare in nostra calamità. Scriveno che Tantalo, terra grandissima, e Buzorni in Tracia, città nobilissima, intera fu trangugiata e ruinò in profundo abisso. Pira e Antistia presso a' Meoti, e Licen e Biria città nobilissime appresso Corinto, e parte di Antiochia furono sumerse dal mare. E tutta la Achaia provincia anni mille e quaranta 'nanzi a Roma condita dicono fu sumersa dalle inundazioni dell'acque, e nei tempi d'Anfione, terzo re di Cicrope in Atene, crebbero l'acque e copersono la maggior parte di Tessaglia. Perironvi anime innumerabili, e da tanto naufragio quelli solo camparono quali fuggirono al monte Parnaso ove Deucalion regnava. Quinci trassono e' poeti quanto dicono la generazione umana da Deucalione restituita. E scrisse Eutropio che 'l mare ne' tempi di Valentiniano principe di Roma crebbe e summerse molta parte di Sicilia e anche più terre altrove. E a' tempi della olimpiade centesima quinta si truova tutta Italia stata labefattata da' terremuoti. E ne' tempi che Lisimaco uccise il suo figliuolo, la terra chiamata Lisimachia ruinando sfracellò tutto el suo populo. La terra de' Lacedemoniesi concussa da e' monti Tageti nel quarto anno che Archidamo regnava, dicono ancora per quello terremuoto ruinò, quale Anassimander li predisse. E in Siria ne' tempi che Tigranes regnava, scrive Iustino, perirono fiaccati da terremuoti uomini numero cento e settanta migliara. Ne' tempi di Tiberio dicono in una notte ruinorono in Asia dodici grandissime e famose città, dove ancora e ne' tempi di Nerone più nobile città ruinarono, Apamea, Laodicia, Ieropoli e Colossa. E scrive Tacito in que' tempi stata in Campagna sì veemente tempesta che pel furore de' venti le ville, gli albori e onni pianta in tutta la provincia si trovò svelta e lungi asportata. E ne' tempi di Vespasiano in Cipro e ne' tempi di Traiano pur in Asia quattro terre, Elea, Mirina, Pitane, Cume, rotte da' terremuoti mancorono. E ne' tempi di Galieno Augusto principe romano furono terremuoti maravigliosi. Muggirono e' monti e in profondo sé apersono, e insieme in più luoghi ruppono lungi dal mare a mezzo e' campi acque salse, e molte furono terre marittime oppresse dal mare e summerse. Pesaro, dice Plutarco, inanzi alla battaglia qual poi fu tra Cesare e Antonio, ruinò inghiottito dalla terra.
Non adunque dobbiamo maravigliarci, omicciuoli mortali e sopra tutti gli altri animali infermissimi, se mai quando che sia riceviamo qualche calamità, poiché noi vediamo le terre e provincie intere suggette ad ultimi estermini e ruine. E quale stolto non aperto conosce l'uomo, come dicea Omero, sopra tutti gli altri animanti in terra vivere debolissimo. Sentenza di Pindaro, poeta lirico, l'omo essere quasi umbra d'un sogno. Nacque l'uomo fra tanto numero d'animanti, quanto vediamo, solo per effundere lacrime, poiché subito uscito in vita a nulla prima se adatta che a piangere, sì come che instrutto dalla natura presentisca le miserie a quali venne in vita, o come gli dolga vedere che agli altri tutti animali sia dato dalla natura vario e utile vestire, lana, setole, spine, piuma, penne, squame, cuorio e lapidoso scorzo, e persino agli albori stieno sue veste duplicate l'una sopra all'altra contro el freddo e non disutile a diffendersi dal caldo, l'uomo solo stia languido giacendo nudo e in cosa niuna non disutile e grave a sé stessi. Agiugni che dal primo dì vedesi collegato in fascie e dedicato a perpetua servitù, in quale poi el cresce e vive. Non adunque iniuria, subito che nasce, piange la sua infelicità, né stracco di dolersi prima prende refrigerio a' suoi mali, né prima ride se non quando se stessi contenne in tristezza interi almeno quaranta dì. Di poi cresce in più ferma età quasi continuo concertando contra alla debolezza, sempre in qual vuoi cosa desiderando e aspettando l'aito d'altrui. Nulla può senza precettore, senza disciplina, o al tutto sanza grandissima fatica, in quale sé stessi per tutta la sua età esserciti. In puerizia vive mesto sotto el pedagogo; e seguenli suoi giorni in gioventù solliciti e pieni di cure ad imparare leggi e instituiti della patria sua; e poi sotto la censura del vulgo in più età ferma posto soffre infiniti dispiaceri. E quando el ben sia compiuto e offirmato in sue forza e membra, e ornato d'ogni virtù e dottrina, non però ardisce non temere ogni minima bestiuola, e nato per imperare a tutti gli animanti conosce quasi a tutti gl'animali sua vita e salute essere sottoposta. Un verminuccio el molesta; ogni minima puntura l'uccide. Scriveno e' poeti che a Orione, figliuolo di Iove, compagno di Diana, gloriandosi d'essere sopra degli altri fortissimo e potere uccidere qualunque fera a lui si opponesse, gli dii comossi dierono che un picciolo scorpione lo atterrò in morte. Affermano e' medici una moscolina pasciuta d'un cadavere venenoso potere essere mortifera. E raccontano e' fisici trovarsi uno animale chiamato salamandra quale solo salendo avenena tutti e' pomi in su quello albero dove e' salse, di veneno simile all'acconito, ed esserne già periti e' populi. Potrei estendermi in quante erbe, in quanti frutti, in quanti animali, in quante cose la natura vi ponesse contro di noi veneno e morte, e quasi possiamo affermare nulla trovarsi fra e' mortali in quale non sia forza di darci a morte. Un pelo beuto fra el latte strangolò Fabbio senatore. Uno acino d'uva strozzò Anacreonte filosofo. Ma che più? Non solo la essalazion, quale fumma d'alcune aperture della terra, come presso a Pozzuolo e presso a Suessa, uccide, ma e ancora el fummo della lucerna spenta anneca el parto e dàllo abortivo. E non solo queste cose materiali, ma e in qualunque vòi altra cosa troverai morte. L'agitazion dell'animo ci sta mortale. Scrive Flavio Prisco, siracusano istorico, che ne' tempi quando Caro Augusto principe romano uscì di vita, molti da subiti tuoni impauriti caderono e perirono. Chilo filosofo, Dionisio tiranno, Sofocles tragico vittore per troppa letizia usciron di vita. E quella donna in sulle porte di Roma vedendo el figliuolo, quale essa avea udita essere morto, per letizia cadde. P. Apuleio, udita la repulsa del fratello, per dolore espirò: Filemon pel troppo ridere. Omero investigando solvere uno enigma datoli da' pescatori, in quel pensiero mancò. Isocrate, quale nato anni sei e novanta scrisse e' panogirici, udita la clade de' suoi ateniesi ricevuta in Cheronia da Filippo, per dolore espirò. El subito e veemente vergognarsi uccise Diodoro filosofo. Aulo Manlio Torquato per troppa volontà di mangiare una torta perì. A Tales milesio el tedio d'ascoltare e' poeti tragici, e a Crisippo figliuolo d'Apolline el ridere fu mortale. Cosa quasi incredibile che le parole fascinino e perdano gli uomini. Lucio Luccullo, summo principe romano, impazzò a morte guasto da incanti amatori. Curione oratore si dolea in iudizio avere per simile malefici perduta la memoria. Agiugni le altre infermità quale già tante passate età con tante vigilie, tante investigazioni, tanta industria, tanta copia di scrittori e volumi, tanta varietà di rimedi possono né vietarle né ben distorle. E insieme aggiugni e' nuovi e vari morbi quali di dì in dì surgono a' mortali. In Roma e non quasi altrove ne' tempi di Tiberio Cesare scriveno sopravenne nuovo malore non pericoloso a morte ma contagioso e fastidiosissimo. Cominciava al mento, poi dagli occhi in fuori copriva tutta la persona, e cadevagli la pelle d'ogni membro in minuta furfura. El carbunculo, pessimo male ne' tempi di Luzio Paulo e Quinto Marzio censori, primo fu veduto a' nostri Latini. Silla dittatore perì corroso da' pidocchi. A Pericle sirio molta copia di serpenti ruppeno del suo corpo. Mecenate sofferse in sua vita perpetua febbre, e visse anni tre senza mai riposarsi dormendo. Ma che più? Cosa incredibile! Scriveno che nei tempi di Luzio Elio Antonino principe romano uscì d'una cassetta d'oro dedicata ad Apolline in Babilonia fiato sì pestilente che col suo veneno pervenne dando a morte infiniti mortali persino entro la provincia de' Parti. E così molte egritudini e peste a' tempi nascono e di provincia in provincia transcorrono. Agiugni quanto non raro ancora e' minutissimi animali insieme coniunti portino peste ed eccidio contro alla generazione umana. Scrive Iustino e Paulo Orosio istorici ch'e' populi chiamati Obderite, e que' che si nominano Avienate, fuggirono e abandonarono el suo paese cacciati dalla moltitudine de' topi e dalle ranelle. E scrisse M. Varrone in Ispagna essere stata svelta una terra da' conigli, e in Tessaglia simile dalle talpe data in ruina un'altra città. E racconta Plinio quanto siano infestissimi inimici a' populi cirenaici e' grilli. E così troverai in le istorie spesso state a' mortali gravissime calamitate addutte da tali vilissimi animanti. Né trovasi animale alcuno tanto da tutti gli altri odiato quanto l'uomo. Agiugni ancora quanto a sé stessi l'uomo sia dannoso con sua ambizione e avarizia e troppa cupidità del vivere in delizie e ozio pieno di vizi; qual cose non meno che gli altri suoi infortuni premono e' mortali. Agiugni la somma stoltizia quale continuo abita in le menti degli uomini, poiché di cosa niuna contento né sazio sempre sé stessi molesta e stimola. Gli altri animali contenti d'un cibo quanto la natura richiede, e così a dare opra a' figliuoli servano certa legge in sé e certo tempo: all'uomo mai ben fastidia la sua incontinenza. Gli altri animali contenti di quello che li si condice: l'omo solo sempre investigando cose nuove sé stessi infesta. Non contento di tanto ambito della terra, volle solcare el mare e tragettarsi, credo, fuori del mondo; volle sotto acqua, sotto terra, entro a' monti ogni cosa razzolare, e sforzossi andare di sopra e' nuvoli. Dicono che in Atene fu chi facea volare per aria un palombo edificato di legno. Che più essemplo detestabile della superstizione degli uomini, che fra' greci scrittori fusse chi di ciascuno membro umano descrivesse qual fusse el suo sapore? O animale irrequieto e impazientissimo di suo alcuno stato e condizione, tale che io credo che qualche volta la natura, quando li fastidii tanta nostra arroganza che vogliamo sapere ogni secreto suo ed emendarla e contrafarla, ella truova nuove calamità per trarsi giuoco di noi e insieme essercitarci a riconoscerla. Che stoltizia de' mortali, che vogliamo sapere e quando e come e per qual consiglio e a che fine sia ogni instituto e opera di Dio, e vogliamo sapere che materia, che figura, che natura, che forza sia quella del cielo, de' pianeti, delle intelligenze, e mille secreti vogliamo essere noti a noi più che alla natura. Che se un tuo figliuolo, non voglio dire un simile a te, verso a chi governa el cielo, volesse riconoscere ogni tua opera e pensiero, tu credo non iniuria li porteresti odio capitale. Nascose la natura e' metalli, nascose l'oro e l'altre minere sotto grandissimi monti e ne' luoghi desertissimi. Noi frugoli omicciuoli lo producemmo in luce e ponemmolo fra' primi usi. Ella disperse le gemme lucidissime e in forma quanto a lei ottima maestra parse attissima. Noi le raccoglemmo persino dalle ultime ed estremissime regioni, e cincischiànle, diamoli nuova lima e forma. Ella distinse gli albori e suoi frutti. Noi gli adulteriamo innestandoli e coniungendoli. Diedeci fiumi quali ne saziassero assetati, e ordinò loro corso libero ed espedito, ma a noi come all'altre cose esposteci dalla natura, benché perfetta, fastidirono le fonte e i fiumi, onde trovammo quasi ad onta della natura profondi pozzi. Né di questo sazi, con tanta fatica, con tante spese, con tanta sollicitudine, solo fra tutti animanti a cui fastidii l'acqua naturale e ottimo liquore, trovorono el vino, non tanto a saziare la sete, quanto a vomitarlo, come se in altro modo non ben si potesse versarlo delle botti. E a questo uso fra le prime pregiate cose el serbano, e piaceli quello che li induca spesso in brutto furore e ultima insania; tanto nulla pare ci piaccia altro che quello quale la natura ci nega, e quello ci diletta in che duriamo fatica dispiacendo in molti modi alla natura. Scrive Erodoto che Ciro re de' Persi, irato quasi come volesse punire la natura, con spesa maravigliosa affaticò el suo essercito in dividere el Ginde, fiume grandissimo, in rami ccclx, e svolselo per varie vie in mare. Eransi fuggiti gli abeti in su e' monti altissimi lungi dal mare: noi li strascinammo non quasi ad altro uso in prima che a marcirlo in mare. Stavansi e' marmi giacendo in terra: noi li collocammo sulle fronti de' templi e sopra a' nostri capi. E tanto ci dispiace ogni naturale libertà di qualunque cosa procreata, che ancora ardimmo soggiogarci a servitù noi istessi. E a tutte queste inezie nacquero e crebbero artefici innumerabili, segni e argomenti certissimi di nostra stoltizia. Aggiungi ancora la poca concordia dell'uomo quale egli ha con tutte le cose create e seco stessi, quasi come giurasse in sé osservare ultima crudeltà e immanità. Volle el suo ventre essere publica sepultura di tutte le cose, erbe, piante, frutti, uccelli, quadrupedi, vermi, pesci; nulla sopra terra, nulla sotto terra, nulla che esso non divori. Inimico capitale di ciò che vede e di quello che non vede, tutte le volle a servitù; inimico della generazione umana, inimico a se stessi. Lupo dicea Plauto poeta essere l'uomo agli altri uomini. In quale animante troverai tu maggiore rabbia che nello uomo? Amiche insieme sono le tigri, amici fra loro e' leoni, e' lupi, gli orsi; qual vuoi animale venenosissimo irato perdona ai simili a sé. L'uomo efferattissimo si truova mortale agli altri uomini e a se stessi. E troverai più uomini essere periti per cagion degli altri uomini che per tutte l'altre calamità ricevute. Cesare Augusto si gloriava in sue battaglie, senza la strage civile, avere uccisi uomini numero cento e due e novanta migliara. Paulo Orosio istorico raccolse in parte le miserie sofferte da' mortali persino a' tempi suoi, e benché fusse scrittore succinto e brevissimo, pur crebbero suoi libri in amplissimo volume, tanta trovò stata sofferta miseria da' popoli e gente degna di memoria.
Sottoposti adunque a tanti casi, a quanti noi istessi espogniamo, alla temerità e furore della fortuna, alla imbecillità, di nostra sorte, alla nostra voluntaria miseria, dobbiamo nulla maravigliarci se quando che sia incorriamo in qualche incomodo. Più tosto fie nostro offizio, poiché animante niuno meno si truova nato ad ozio e quiete che l'uomo, come fanno e' medici vedendoci in troppa lieta sanità sospettano, così noi, se forse mai ci seguiranno le cose troppo secunde, dovremo averle sospette. Lodano Filippo re de' Macedonici, quale avuti tre nunzi lietissimi, l'uno ch'e' suoi ne' giuochi olimpici eran vittori, l'altro che Parmenione suo duca in arme avea superato e' Dardani inimici, el terzo che Olimpia sua donna avea partorito erede un figliuolo maschio, levò le mani al cielo e pregò Dio gli rendesse mediocre calamità a tante letizie. Scrive Livio istorico che Lucio Paulo, quale vinse el re Perses, perduto infra dì otto due suo modestissimi figliuoli, ebbe al populo simile orazione: “Io temea, o cittadini miei, in tanta felicità e successo della fortuna, quale sua natura e costume suole non patire in persona alcuna ferma prosperità, a noi nel nostro trionfo e amplificazione del nostro imperio conseguisse qualche male. Per questo io pregai Dio ottimo e massimo padre de' mortali, se cosa alcuna avversa fusse apparecchiata alla nostra republica, immettesse a me e alla mia famiglia. E siate adunque, o cittadini miei, di migliore animo. Le cose succederanno bene. Dio immortale quattro dì inanzi al mio trionfo me in parte essaudì togliendomi uno carissimo de' miei figliuoli, e infra altri quattro dì doppo a tanta nostra gloria ancora mostrò piacerli le mie preghiere quando mi tolse l'altro amantissimo figliuolo. Ora orbato de' miei eredi rendo a lui grazia, poiché voi arete da condolervi del nostro privato caso più tosto che io a piangere con voi insieme alcuna publica calamità”. Simile adunque a questi lodatissimi nulla ci fideremo della fortuna, quale sa e suole sempre usare perfidia, quale una falacissima mostra pacificarsi per avere induzie a maggior guerra e occasione a gravissime insidie; e aparecchiarènci con animo forte e pronto a sostenerla, non come dicea [Demifo] presso a Terenzio, pensando sempre a qualche futuro incommodo, acciò che poi ciò che meno aviene sia in guadagno, qual cosa mal si può premeditare senza qualche perturbazione, e assai basterà, venuto l'incommodo, sopportarlo; ma più tosto apparecchiati contro la fortuna coll'animo staremo iudicando che né essa con sua perfidia, né insieme e' pessimi uomini con sue ingiurie e malignità potranno a noi in parte alcuna mai molto essere dannosi. Ché se come disputava Genipatro le cose della fortuna non più in sé vagliono se non quanto le riputiamo, ella può nulla essere a noi molesta se non ritollendo el suo. Ma poco a te serà molestia renderli quello che tu poco stimasti. E per tuo offizio debbi nulla stimare le cose caduche per sé e fragili ed esposte a tante volubilità e casi. E poi, dove tu teco così statuisca, e' perfidi uomini, Microtiro mio abbi a te, possono forse giovare, ma nulla nuocere. Parti che detto maraviglioso? Tu certo lo vedrai verissimo. Dicoti, uomo per iniusto che sia può non farti male, e quanto più sarà verso di te scellerato, più a sé che a te sarà dannoso.
MICROTIRO.
Maravigliomi e di me fo coniettura quanto io in me tutto el dì soffero, né vedo
in che modo possa non molto nuocermi la malignità de' perfidi e iniquissimi
uomini, quali ottrettando, inculpando, insimulando, e con quanta possono opera,
cura, industria, con ogni loro studio, assiduità e diligenza, con ogni arte,
con ogni ingegno, con ogni fraude, mai restano infestissimi e molestissimi fare
e dire e pervestigare cose per quali a me ne conseguiti povertà, odio, invidia,
inimicizia, mala vita e grave infamia. Pessimi uomini, quali in molti modi
benificati da me, impiissimi godono per loro fraude e nequizia vedermi pieno di
indignazione, suspizione, sollicitudine e paura, ed estremo pericolo d'ogni mia
fortuna e salute.
TEOGENIO. Ah, Microtiro mio, piacciati secludere intanto queste tue triste memorie. Datti ad ascoltarmi con l'animo più libero, e pervestigheremo insieme quello a noi porgerà la verità e la ragione; ché non dubito qui troveremo ogni sforzo e ogni incetto di questi tuoi immanissimi e scelestissimi inimici poco da stimarli, e voglio da ora te offermi a nulla curarli.
MICROTIRO. Posso io non ricordarmi delle capitali ricevute iniurie? Posso io non temere e' pericoli ultimi e assidui in quali d'ora in ora me vedo protratto? Posso io non sentire li sdegni, l'onte, el fastidio di chi senza modo, senza intermissione, senza fine mi stimola? Ma poiché sempre la tua presenza e il tuo ragionare appresso di me tanto valse ch'io interposi ogni altra cura, e solo attesi a meco lodarti tacito e maravigliarmi di tua virtù, e indi insieme gloriarmi d'avere te fidatissimo amico in cui riposi l'animo e la mente mia, seguita, Teogenio mio. Io t'ascolterò con voluttà e attenzione.
TEOGENIO. Adunque investighiamo insieme quanto possa contro di te una intera turma di viziosi uomini.
MICROTIRO. E può un solo simile a quelli che tu dicevi pestiferi, perniziosissimi ed essecrabili, più crudeli, più malefici che le rabiosissime bestie, perturbare l'ozio e quiete di qualunque famiglia, di qualunque republica, di qualunque provincia.
TEOGENIO. Sai
quando forse questo potranno e' non buoni? Quando gli altri simili a loro
perduti e sordidissimi uomini ascolteranno e ossecunderanno a loro perfidia. Ma
qual serà che a te, uomo modestissimo e ornato d'ottimi costumi, possa con
altro nuocere che solo colle membra sua, da presso, da lungi, percotendo,
ferendo?
MICROTIRO.
Quasi come questo sia nulla, o come nulla possa con sua invidia, con suo odio e
veneno delle parole inseminando suspizione, odio, eccitando inimicizie con sue
fizioni e vari tradimenti, o quasi come a qualunque e' favellano sia dotto e
buono. Né possono e' buoni non fare che in parte e' non credano quello ch'egli
odono.
TEOGENIO.
Affermoti, può certo con questa nulla: l'odio, l'invidia nuoce a lui mentre che
così perturbato sé stessi entro a sé compreme e agita. Recita Pomponio Mela
ch'e' populi atlanti in Etiopia arsi dal caldo, quasi come capitale e troppo
acceso inimico, ove nulla altro contro a lui possono, sera e mattina
biastemmano el sole. Più certo loro quella perturbazion d'animo nuoce che al
sole. E recita Aulo Gelio di que' populi chiamati Psiles, quali irati sé
opposero coll'arme al vento austro quale commossa in loro molta rena gli
sommerse. Così par sempre intervenga che questi maligni sé stessi porgono a
sommergersi in miseria, ma a te dato alle virtù parlar di chi si sia può altro
nulla che giovarti. Dicea Mario appresso di Salustio in conzione al populo:
“Così a me volli sempre essere mia ragion del vivere, che se questi invidi, e'
miei ottrettatori, dicono di me cose vere, insieme sieno promulgatori delle
lode mie. Se forse dicono el falso, non lungi da loro ivi sia degna vendetta,
ove palese da' miei costumi appaia che sono bugiardi”. S'e' simili a loro
cupidi d'udire e vedere male assentiscono a loro fizioni, o se i buoni in parte
alcuna lasciano persuadersi, el danno sta presso di chi crede el falso, non
presso di te quale per altrui fizione nulla diventi piggiore, e loro ingannati
si dolgono di chi gli perturbò el vero giudizio, o gastigano sé stessi quali
incauti prestarono orecchie a' fraudolenti. E quando ben così fusse che qualche
tuo errore, - non saresti uomo se tu solo non come gli altri qualche volta
errassi, - fusse materia de' tuoi ottrettatori, non dubitare che i viziosi non
molto stimano udendo in altri quello che iudicano in sé da non fuggirlo, né a
loro debba dispiacere se altri racconta quello che tanto a loro diletti fare.
E' buoni, loro natura, sono indulgentissimi, e udendo gli altrui errati
riconoscono in sé come negli altri uomini la natura fragile essere e prona,
così e ancora esservi più e più altre e pari e maggiori mende. Ma pur dove
questo a te pesasse, come disputava Plutarco, filosofo e ottimo istorico, così
certo arai da persuaderti che un sollicito inimico non poco a chi ben voglia
tradursi in vita sia utilissimo. Molte facciamo e molte non facciamo cose per
non aprire a' nostri inimici addito a riprenderci, onde abbiamo da non odiare
chi non lassi errarci, e chi noi ecciti a virtute e laude.
MICROTIRO. Ameremo che, adunque, e' nostri inimici?
TEOGENIO. Più
te molto loderò se tu verso chi sé opponga a te inimico porgerai amore più che
odio, umanità più che indignazione, facilità più che contumacia, poiché ogni
perturbazione d'animo più nuoce a chi in sé la sente che verso cui ella sia
addiritta.
MICROTIRO. Non adunque m'ingegnerò esserli grave e molestissimo?
TEOGENIO. Ma in questo voglio, mentre che a chi tu sia in odio vive vizioso, esponga ogni tua opera e industria.
MICROTIRO. Adunque verso di lui serò quale egli se porge verso a me, a cui niuna sua fatta o ditta cosa piace. Infamerollo, acquisterogli inimici, vendicherommi.
TEOGENIO. Se e' fusse dotto e buono, farebbe e direbbe cose non pochissime qual ti piacerebbono, né può un buono se non piacere a un altro buono, e volendo essere grave a un vizioso via brevissima darti alla virtù, ché se tu con fraude cercassi offenderlo, qual cosa non potresti senza cura e pression d'animo, in prima in questo seguiresti tu quanto el desidera di te, quale certo, quanto dicevi, cerca vederti inceso d'ira e di disdegno e simili perturbazioni. E dove in questa opera fusse in te perturbazione niuna d'animo, pur sarebbe inutile fatica la tua procurando che un vizioso sia mal voluto o capiti male. Assai gli acquisteran odio e malivolenza e mala fortuna e' suoi vizi, e se tu da sue iniurie commosso simile a lui con false diffamazioni e tradimenti, opera d'uomini perversi e maligni, a lui fussi infesto, arebbe ancora da essere più molto di sua perfidia lieto ove tu per sua cagione così fossi divenuto vizioso. Né sarà laude d'animo virile e grande quale io desidero el tuo, se un picciolo sdegno el perturba. Quinci affermano che chi sia generoso sóle odiare ogni cura del vendicarsi, se così sia come si pruova che questa sollicitudine e cupidità di nuocere a chi verso di te fu iniusto, tiene gli animi nostri astritti d'una catena e laccio quale quanto più cerchi scioglierla, te tanto più serra. E sarà nostro offizio di noi studiosi curare che dentro al nostro petto risegga niuna perturbazione per potere quanto dobbiamo liberi ed espediti dare opera alle buone principiate arti e dottrine. E in più modi gioverà dimenticarli e iudicare che sendo di natura e costumi corrotti e scellerati suo offizio fanno e dicono male.
MICROTIRO. Che faremo adunque? Lasceremo noi seguitarli con sua insolenza e temerità che pigliano in noi ogni licenza, persino a essere colle mani in noi iniusti?
TEOGENIO. Come amoniscono e' dottissimi filosofi che cosa niuna meno abbiamo da stimare, ma da nulla tanto dobbiamo guardarci, quanto dalle superstizioni e fatture de' magici e incantatori, quale nuoceno ad altri niuno che a chi loro crede, così qui noi da' nostri inimici temendo nulla con ogni precauzione molto e molto provederemo alla salute nostra, non in quella parte come se noi credessimo da loro potere ricevere male alcuno, ma solo per non lasciarli incorrere in maggior iniustizia.
MICROTIRO. E che a me, perché altri fusse iniusto, purché la sua iniustizia non a me nocesse?
TEOGENIO. Stimi tu la iniustizia fra le cose non buone?
MICROTIRO. Stimola pessimo male.
TEOGENIO. Simile adunque agli altri mali presso a cui ella fosse, non a te nocerebbe.
MICROTIRO. Suo sarebbe el vizio, ma mio sarebbe l'incommodo.
TEOGENIO. Ma tuo sarebbe non in picciola parte quel vizio se per tua indiligenza chi si sia venisse contro alle leggi della patria e contro all'ozio de' buoni, quale tu e ogni buono cittadino debba quanto in sé sia diffendere e mantenere. E sono le leggi nervo e fermezza della republica, per quale in prima dobbiamo esporre ogni nostra industria e opere e fortune, poiché come dicea Platone, aprovata sentenza da tutti e' filosofi, siamo nati non solo a noi, ma parte di noi a sé vendica la patria, parte chi ne procreò, parte e' nostri a noi per sangue e per amicizia coniunti. Né a te el vizio di qualunque pessimo in parte alcuna quanto alla patria tua e forse a' tuoi potrà mai essere incommodo. Dicono che fra le cose terribili niuna si truova terribile quanto la morte. E fra' vizi odiosissimi, essecrabili, quasi el primo estimano la crudelità. E che adunque di que' crudelissimi inimici a Tichipedo quali cercavano perderlo, che iudichi tu più fussero gravi, alla patria o a Tichipedo?
MICROTIRO. Certo a Tichipedo, in cui ogni loro ingiuria s'adirizzava e assedea.
TEOGENIO. Non errare in questo, Microtiro mio. La patria più molto avea che Tichipedo da dolersi, quale in più modi ricevea offesa. Prima vedea un de' suoi fatto iniusto e senza le sue leggi in pericolo, senza le quali sentiva sé nulla potere consistere. Temea insieme non perdere uno de' suoi buoni cittadini. E come dicea Omero che Simiossomo figliuolo d'Antemione nato in Ida insula apresso il fiume Simeonte, giovane ucciso da Ulisse, non potette rendere grati alimenti al padre, così forse e' suoi arebbono da desiderare Tichipedo; ma lui e qualunque mortale, se bene considereremo, nulla arebbe ricevuto cosa per quale l'altrui crudelità dovesse in sé parerli acerba. Chi sarà che affermi la morte a' mortali più essere da fuggirla che da desiderarla? E qualunque felicità a se stessi promettano gli altri, qualunque aspettino vivendo bene, pur Tichipedo uno mi pare, benché in que' tempo amicissimo della fortuna, a cui la morte sarebbe stata non inutilissima. Non arebbe veduto tanta domestica sua calamità. Era felice morte morirsi felice. Né so per che cagione molti tanto desiderino perseverare in vita, quasi come abbino pattuito quiete con tutte le avversità. Versi di Giuvenale, ottimo poeta satiro:
Pena fu data a chi molto ci vive,
che iterata sempre clade in casa,
con molti pianti e perpetuo merore
s'invecchi adolorato in veste nera.
Onde comune proverbio si dice: “Chi più ci vive più ci piange”. E publico vediamo colla età surgono infinite lassitudini a nostre membra, infiniti dispiaceri, né troverai vivuto alcuno più dì a cui non sia domestica alcuna e quasi assidua infermità e dolore. Poi non posso non biasimare chi se dica non potere fare che non tema uscir di vita. E chi sarà che dubiti a ciascuno de' mortali, naturale sua innata necessità, destinatoli stare el suo ultimo dì? Glaucopis dea, presso ad Omero, negava li dii a qual vuoi loro amico potere distorli che non caggia in eterno sonno e morte. Socrate a chi gli anunziava ch'e' suoi cittadini deliberorono che morisse, rispuose: “E la natura più fa avea deliberato che neanche loro sempre vivessono”. E chi non vede che da el primo dì che noi usciamo in vita, come dicea Manilio Probo, quel poeta astronomico, quasi nascendo moriamo. E dal nostro primo principio in vita pende il nostro fine in morte. Ma el vivere nostro è egli altro che un morirsi a poco a poco? Sono versi di Lucrezio poeta vetustissimo:
Già poi che 'l tempo con sue forze in noi
straccò e' nervi e allassò le membra,
claudica el piede e l'ingegno e la lingua,
persin che manca ogni cosa in un tempo.
E apresso a Plauto poeta comico dicea Lisimaco, subito che l'uomo fie vecchio già più né sente né sa. E quell'altro vecchio plautino dicea la vecchiezza essere pur mala mercantia qual seco porta più cose pessime. Qualunque cosa ebbe principio, provano e' filosofi, arà suo fine naturale, quale necessità certo si richiede a nostra vita. E dobbiamo stimarla sì come necessaria, così ancora né dura essere né inutile. Scriveno che apresso Iasium la faccia di Diana posta in luogo del tempio rilevato a chi entra par trista e mesta, e a chi esce dimostra sé lieta e iocunda. Forse così a noi la nostra vita in quale entrammo con tanta tristezza e tante acerbità, a chi poi ne esca la sente dolcissima, e da uscirne simile qual si dice fa el cigno cantando. Cosa niuna dell'altre necessarie da noi richieste dalla natura si truova non piena di voluttà, el mangiare, bere, posarsi, adormirsi e simili, per quali sedati in noi gli appetiti e movimenti stiamo non dissimili a chi sia acquietato in morte. Così el morire possiamo persuaderci forse fie non sanza qualche voluttà. Ma dobbiamo nulla dubitare che seco la morte aporti a noi dolore niuno. Vediamo che morendo si perdono e' sentimenti, né può dolersi chi non sente. Adunque la morte non aduce, ma leva el dolore. Per questo bene diceano Diogenes e Archelao e gli altri filosofi nulla essere la morte da temerla, quale meno sia grave quando presente si riceve che quando tu la fuggi. Anzi quasi la morte nulla tiene in sé d'acerbità se non quanto l'aspetti. Argomentava qui l'Epicuro filosofo in questo modo: quello che presente non perturba, espettato non debba offendere, e la morte, quando noi siamo, ella non v'è, quando ella sarà, noi restaremo d'essere. E se alcuni la desiderano, hanno costoro in odio la vita; se altri la teme, troppo li piace el vivere. Né sanno che del vivere come de' cibi dobbiamo eleggere e' suavissimi, non quelli che siano molti. Ma, nostra inezia, ci pare non potere fare che non ci pesi non perseverare in vita quanto a noi stessi promettemo, e non pensiamo quanta sia la brevità de' nostri giorni. Sopra el nostro fiume nascono, le notti estive e brevissime, piccioli animali alati quali tanto viveno quanto se stessi gravi e debolissimi sostengono in aria, e di loro saranno rari di sì lunga età che l'alba di quelle notti in quali e' nacquero non li truovi caduti e spenti, spazio non quasi sofficiente a produrre uno uomo in vita. Ancora comparata alla eternità la nostra vita mortale in quale noi siamo ci debba parere sì minima che, quando ben fussero certi e dalla natura a noi gli anni di Nestoro promessi, poco dovrebbono avere in noi momento perdendogli a perturbarci. E noi stolti pur pensandovi ci perturbiamo di quello che sempre ci sia maturo e necessario. Accusone la molizie nostra. Adunque Cesare domandato in cena qual fusse ottima morte, rispose la non premeditata, già che nulla presente conosciamo la morte tale che possiamo sentirla, ma non presente pur perturba e atterra gli animi non ben composti. Ma a chi la conosca essere una seperazione di quello che in noi sia libero e incorrotto da quello che sia caduco, mortale, e sottoposto a quante miserie di sopra narrammo, e chi conoscerà essere stoltizia non adattarsi a quello che sia necessario, costui nulla si dorrà se 'l tempo s'apressa che la terra, come dicea Epicarmo, ritorni alla terra e lo spirito voli suso a miglior sedia. Quale animo sendo, come affermava Eraclito, purgato da ogni crassitudine e peso della terra, fugge da questo carcere come saetta e vola in cielo. E credo io troveresti uscito di vita niuno qual volesse ritornarci, e questo come per altri assai incommodi, ancora e per non essere inchiuso in questo loto de' membri nostri quale, come dicea quel censore de' principi presso a Omero, sta concreato di terra e d'acqua. Adunque a chi esca di vita diletterà morire, se serà non imprudente, quanto conoscerà che per benefizio della morte, come dicea Eschillo, esso esca in libertà da mille contro e' mortali infesti e apparecchiati mali. Silio poeta dicea la morte essere porta apertaci dalla natura per quale sia licito fuggire ogni male. E apresso Plauto dicea Palestra, non indotta fanciulla, cosa niuna meglio trovarsi che la morte quando in noi sono le cose in male e in miseria. E così tutti e' dotti non iniuria la affermano essere uno degli ottimi doni datoci dalla natura, poiché niuna tanto si truova miseria di quale te la morte non vendichi, povertà, carcere, servitù, ignominia, dolori e simili. Pausanias dicono che assiduo vessato dallo spirito d'una quale egli avea ucciso, ebbe da' nigromanti risposta che tosto sarebbe al suo male buono fine. Verificossi, che non doppo molti dì morendo uscì di tanta molestia. Onde quello che dicea Plinio ne avviene che vediamo chiesta niuna quanto la morte essere dalli dii frequentata; quale uno dono si legge in premio di grandissimo merito a molti buoni gli dii accelerorono. Celebrati in tutte le istorie sono que' due Cleobis e Abinoto figliuoli d'Argia sacerdote di Iunone: perché e' giumenti indugiavano, sé imposero al giogo e condussero la madre sua in tempo al sacrificio; per qual pietà la madre pregò lo dio desse a' figliuoli non più una o un'altra cosa, ma quello che giudicasse a' mortali ottimo. Retribuilli, ché infra tre dì ambo due morirono. Trofonio e Agamede, scrive Platone, simile dalli dii riceverono premio pel tempio quale edificorono. Ma molti non aspettorono che li dii per sua pietà gli tollesse dalle miserie di questa nostra vita mortale, e con summa voluttà preoccuporono tanto dalli dii adiudicato bene. Scapula pompeiano, convocati e' suoi servi, apparecchiata la cena, infuso d'unguenti odoriferi, bevendo e lieto s'asettò in mezzo la catasta posta per poi arderlo, e comandò la incendessero. Virrio capuano con suoi senatori numero ventisette, scrive Livio, cenando e lieti preseno el veneno. E apresso Massageti populi era costume vetustissimo che sacrificavano e' loro per età venuti inutili. Raccontano in India così essere divisa la loro republica, che alcuni danno opera alla agricoltura, alcuni viveno in milizia, altri sé essercitano in portare cose utili a' suoi commutando colle gente strane suoi frutti e merce, altri quali sieno ottimi e dottissimi governano la republica e hanno cura delle leggi. Quinta generazione fra loro quelli che sono dati al culto delli dii e alla sapienza. Questi sempre in prima acceso el fuoco escon di vita con volontaria morte. E scrivono trovarsi alcune genti chiamate Beloe, quali colle grillande in capo, con molta festività, sazi del vivere, sé stessi precipitano in mare. E molti altri, come que' populi chiamati Dorbici e Tibareni, reputano cosa misera morirsi infermi: per questo consentiscono da' suoi in vari modi essere uccisi. Tanto non solo e' dotti ma e ancora el numero de' populi con opera consentono la morte essere e lieve e utile. Ma benché così in sé la morte, quale e' dicono sia e necessaria e non acerba e utilissima e da desiderarla, pur sarà sempre da preferire la sentenza di Platone a ogni nostra poca tolleranza de' casi avversi, quale affermava come in la battaglia così in vita non essere licito senza volontà del sommo imperadore uscire del luogo a te dato e assegnato. Dicea Biante filosofo summa essere infelicità non potere soffrire la infelicità. Pertanto, come amoniva Valerio Marziale in quello epigramma in quale e' racconta qual cose facciano la vita essere beata, dobbiamo né temere né desiderare l'ultimo dì di nostra vita.
- FINE -