Leon Battista Alberti

 

RIME

 

 

 

1

 

Io vidi già seder nell'arme irato uomo
furioso palido e tremare;
e gli occhi vidi spesso lagrimare
per troppo caldo che al core è nato.

E vidi amante troppo adolorato
poter né lagrimar né sospirare,
né raro vidi chi né pur gustare
puote alcun cibo ov'è troppo affamato.

E vela vidi volar sopra l'onde,
qual troppo vento la summerse e affisse;
e veltra vidi, a cui par l'aura ceda,

per troppo esser veloce perder preda.
Così tal forza in noi natura immisse,
a cui troppo voler mal corrisponde.

 

 

 

2

 

Quel primo antico sai' ch'Amor dipinse
nudo fanciullo coll'ale ventose,
(non ebbe mani pur maravigliose?)
e dolci agli occhi poi quel velo acinse,

certo costui Amor troppo ben finse,
ché vide amanti mai poter ascose
tener suo voglie giovinili, e puose
che lume in lui di ragion ma' vinse.

Diedegli face, strali in mano ed arco,
co' qual da lungi ed ascoso ferisce;
tien dolce pena, al cor meror eterno,

sforza chi 'l fugge, e chi 'l segue nutrisce
di speme incerta, e mai lo soffra scarco
d'infiniti sospetti e nuovo scherno.

 

 

 

3

 

S'i' sto doglioso, ignun si maravigli,
poiché sì vuol chi può quel che le piace.
Non so quando aver debba omai più pace
l'alma ismarrita infra tanti perigli.

Misero me! A che convien s'appigli
mia vana speme, debile e fallace?
Né rincrescer mi può chi ciò mi face.
Amor, che fai? Perché non mi consigli?

Ben fora tempo ad avanzar tuo corso,
che la stanca virtù ognor vien meno,
né molto d'amendue già mi confido.

Ma s'ancora a pietà s'allarga il freno,
tengo ch'assai per tempo fia il soccorso.
Se non, tosto udirai l'ultimo istrido.

 

 

 

4

 

Burchiello sgangherato sanza remi,
composto insieme di zane sfondate,
non posson più le Muse far lellate,
poiché per prora sì copioso gemi.

Ingegno svelto da' pedali stremi,
in cui le rime fioche e svarïate
tengon memoria dell'alme beate,
a cui parlando di lor palma scemi,

dimmi, qual cielo germina o qual clima
corpo che sia omai di vita privo,
sentir si faccia di sua fauce strida?

Io so un animal che non si stima,
a cui grattargli il mento torna vivo
quand'è pur morto, e pur feroce grida.

Poi mi dirai ov'è l'aria sì cruda

che per fatica pel ceffo si suda.

 

 

 

5

 

Ridi, s'i piango, ridi, falsa! Bene
ti pare esser beata,
se adoperi tuo sdegno in darmi pene.

Merita questo da te chi tu sai
quanto e' sia a te sola suggetto?
Ahi! troppa ingiusta, se pigli diletto
tenere chi t'ama in cotanti lai.

Ma un conforto prende il mio dolore,
che rado in donna amata
suol poter sdegno senza grande amore.

 

 

 

6

 

Le chiome che io adorai nel santo LAURO
MI NAscondi in bel velo,
candida mia angioletta in veste bruna.

Poi che le chiome mi coperse il velo,
sempre fu l'aer bruna,
e scolorito chi ancor ama il lauro.

In veste alBA TI STAvi, non in bruna,
quando adorai il lauro
e scorsi el sol, che spiande or sotto il velo.

Le chiome e LAURO MI NAsconde il velo,
che stringe a dolorarmi in veste bruna.

 

 

 

7

 

Nessun pianeta che possegga il cielo
mai potrà quel che non potette morte.
Stringonmi e' lacci, que' con che mia donna
già priva fe' di libertà mia vita,
quando qua giù ella lustrava al mondo
non men cogli occhi ch'or si faccia il sole.

Ardon le vive fiamme di quel sole
che spesso mi facean sprezzare il cielo,
poi che sì bella cosa vidi al mondo.
Vive el bel viso ancora, quel che morte
si crese aver privato d'ogni vita,
sol per farmi suggetto ad altra donna.

Quello angelico aspetto di mia donna
facea ristar a vagheggiarla il sole,
tanto gli piacque di vederlo in vita.
Però cercò d'averla seco in cielo.
Ebbela el ciel, ma non patì che morte
di tal tesoro mai privasse il mondo.

Onde s'i' cerco e' luoghi qui nel mondo
dove io solea onorar mia donna,
gli veggo ancor risprender, benché morte
spegnesse que' begli occhi onde uscì el sole
che scaldò prima me ch'ornasse il cielo
e vuol nutrir persin ch'io lasci vita.

Ancora il nome suo triunfa in vita,
e non è sazio di lodarla el mondo.
Son qui tra noi, non son seco nel cielo
li sguardi bei con che potea mie donna
far a gran sera rivenire il sole.
Pur questo tòr non ci potette morte.

Scritto ho nel cuor, persin che venne a morte,
ogni sembiante ch'ella porse in vita,
tal che mi avampa ove non lustra el sole,
e sento e veggo di chi è privo il mondo:
seguo chi fa fuggirmi ogni altra donna.
Ma non è poco amar chi sta nel cielo.

Veggo nel mondo chi è nascosto in cielo
e meco in vita chi me tolse morte;
e sotto il sol mi schifo ogni altra donna.

 

 

 

8

 

MIRZIA

 

Udite e' nostri lacrimosi canti,
di doglie pieni e de ira,
poi che m'è forza a discoprir mie pianti.

Piangi con meco, piangi, o mesta lira;
segui la doglia che copiosa iscende
col furor entro ch'al mio cor s'aggira.

Come con l'aure la fiamma si stende
fra gli stridosi cispugli e virgulti,
così Amore in me sue faci incende.

Occhi piangete, e voi che indarno occulti
soffrite pene, o sospir miei, spandete
questi mie versi piangiosi ed inculti.

E voi pietosi, che provato avete
che sian le doglie qual soffran gli amanti,
con meco e' vostri danni e miei piangete.

Piangiamo insieme e' lacrimosi canti,
di poi che 'l ciel ne elegge
a viver sempre in doglia ed in pianti.

Convienci pur seguir tuo imperio e legge,
spiatato Amore? Ah! quanto è felice
chi in dolce libertà sua vita regge.

Col cielo irato nacque ed infelice
colui in chi Amor suo forza prova,
se viver lieto amando mai non lice.

Che dir, che isdegno né ragion mi mova
a odïarti, ingrata Mirzia, in cui
mie dolor o servir pietà mai trova?

O più, più volte beato colui,
che a fuggir o rinvenir errori,
divien più saggio dal dolor d'altrui!

Udite, giovinetti, i nostri ardori.
Vedrete le miserie degli amanti:
poi prendete arte, vita, opre migliori.

Noi seguiamo e' lacrimosi canti,
di doglie e d'ira carchi:
seguiam cantando e' cominciati pianti.

I' mi godea aver pensier mie scarchi
da e' grievi imperi con che Amor ne fiacca,
e gioco m'era tutti gli altrui incarchi.

Gir come cerva assetata e stracca
già vidi amante che languendo errava
fra gli aspri lacci ch'ognor più l'atacca.

Io fingea cagioni, i' l'arestava,
i' mi godea di suo pene: io
quel che in me soffro, in altrui beffava.

Oimè! ch'or sono a mal mio grado pio,
ed èmmi in noia ogni fronte austera,
e chi meco non piange el dolor mio.

Amor mi t'ha suggetto, o Mirzia altera,
iniusta, crudel, ingrata. O stolto
chi per donna servir merto mai spera!

Che fia, Amor, di me, or che m'hai isvolto?
Amore spïatato, trionfa, godi,
s'or piango e' lacci ch'i' beffava isciolto.

Potrò io che sgroppar mai questi nodi?
Potrò io che fuggir mai chi mi sdegna?
Ma vinci, Amor, che d'ingiuriar ti lodi;

Vinci, feroce, vinci; mostra, insegna
quanto abbian forza le tue fiamme e strali,
poi che tuo furia in chi ama regna.

Oh infelici, oh miseri mortali!
Oh inferma ragion, o fragil vita,
onde passar deggiam fra tanti mali!

Se Marte spesso o Nettunno c'invita
a seguitar la sua incerta fede,
ov'è ragione e libertà ismarrita,

e pur giova el soffrir ov'altri vede
star certo premio, o fin di tanti affanni;
ma Amor sa solo non aver merzede.

Amor sa solo fabricar inganni,
con mille ingegni allettar gli amanti,
con mille iniurie rinovar lor danni.

Seguiamo adunque e' lacrimosi canti,
d'ira pieni e di doglia,
seguiam cantando e' cominciati pianti.

Stolto, non sapev'io che Amor ispoglia
d'ogni viril difesa e intera pace
chi non raffrena a lui seguir suo voglia.

Aimè! questo sperar ch'ora mi sface,
quel primo annumerar ogni tuo laude,
state catene son troppo tenace.

Que' vezzosi occhi onde Cupido applaude,
onde suo' strali, face e reti intende,
quel fronte tuo ove e' superbo gaude,

qnella finta modestia che ostende
essere ingegno in te talor piatoso,
amar mi fe', ch'a pianger or m'incende.

Chi si credesse mai che cuor sdegnoso,
crucci o pensier sì ostinati e rei
fusse in tal donna, o sì amor dannoso?

Chi non sperasse merto da costei?
Chi non rendesse premio al mio servire?
Ah, bellezze insidiose agli occhi mei!

Non ti move pietate el mio languire?
Non ti penti straziar chi in te si fida?
Non ve' tu che t'è biasmo il mio martire?

Tu pur ti ridi di mie pianti e strida,
e pur t'agrada pur seguir durezze,
per più avampar l'ardor che in me s'annida.

Non agroppar, non argentar tuo trezze,
non purpura, auro, gemme, fronde o fiori,
son laude o pregio alle tue bellezze,

ma aver impero in chi te sola adori,
saper usar la fede e diligenza
di chi te sempre lodi e sempre onori

t'è pregio, o Mirzia: e bella donna senza
aver chi speri in sue bellezze amando,
è indegna di biltade e riverenza.

Mira le lacrime e i sospir ch'io spando;
pensa alle fiamme, all'isciolto furore
che ognor fra mie pensier corre ondeggiando.

Ah dura, spïatata Mirzia, core
di tigre, di giaccio! O inumana,
s'a piatà non t'incende il nostro ardore!

E tu, feroce Amor, così fà: sbrana
mie nervi e forze; ardi, consuma meme;
sazia qui in me tuo arte e man profana.

Io posso in me provar fatiche estreme,
ultimi casi, dolori e martiri,
ove soffrendo mi mantenga speme.

E vo' sperar, benché a ragion m'adiri,
ché mai son sazii di sperar gli amanti,
né Amor mai sazio di pianti e sospiri.

Seguiamo ancora i lacrimosi canti,
di doglie e d'ira incesi,
seguiam cantando i dolorosi pianti.

Saran costumi in te mai sì scortesi,
che sempre isdegni chi in servir te una
tiene e sue voglie e tutti i pensier tesi?

Se 'l ciel in te ogni bellezze adduna,
se donna soprastai d'ogni altra ornata,
se a grandirti facil hai fortuna,

 quanto sera' tu, quanto più beata,
se sapra' farti amar più che temere!
Bellezza è men che cortesia lodata.

Non sien ingrate mai né sian severe,
àbbian pietà degli infelici amanti,
chi spera laude di bellezze avere.

Ricominciamo e' lacrimosi canti,
pien di lamenti e stridi,
seguiamo e' nostri dolorosi pianti.

Ma, stolto, qual cagion vol ch'io mi sfidi
d'Amore, di Mirzia, e di me stesso?
Anzi, il mio servir vol ch'io mi fidi.

Vidi salir servendo uom già dismesso,
né mai fu bella di pietà mai priva;
e un tardo amor gir lieto vidi, e spesso

fronda appassata rivenir più viva,
e un grieve tronco che lo isvelse il fiume,
con l'onda che 'l rapì rigir a riva,

e in vecchio augello giovinette piume;
e fiamma ho vista sostener più venti,
poi ravivarsi onde si spense el lume.

Speriamo, adonque, fine a' mie tormenti.
Serviam sperando, infelici amanti:
miserie Amor soffrir c'insegna e stenti.

Finiamo, adonque, omai e' nostri pianti,
posiam la lira, il plettro, e' lamenti:
diànci a più lieti e più soavi canti.

 

 

 

9

 

AGILITTA

 

Agilitta, fanciulla molto ornata
d'ogni costume e di gentile aspetto,
da molti chiesta e da molti amata,

solo uno amava, Archilago, e a dispetto
avea in sé soffrir fiamme amorose,
né so qual grave la premea sospetto.

Dicea: “Felice ninfe che nascose
fra lauri e mirti libere e solette
vivete liete sempre e motteggiose.

Costì non può Cupido e sue saette
turbar vostro ozio. Beate, beate,
se fra queste ombre Amor mai fiamma immette!

Misere noi, sole sfortunate,
che 'n mille modi Amor ci vince e prende!
Convienci amar che ci sentiamo amate.

Misere noi! E quanto male offende
nostra quiete! Aimè, qual morte
non sente el cor in cui amor s'incende!

Sospetti e cure sono al petto accorte,
triste memorie, ardente voglie e piene
di troppi sdegni a ragravar sua sorte.

Furtivo avampa quello ardor che tiene
in noi perpetuo dolor e tristezza,
onde palese pianger ne conviene.

Nostri concetti in noi non han fermezza;
nostre letizie brevi, rare e false;
nostri diletti mai son senza asprezza.

Troppo felice se mai alcun valse
vincer sé stesso o ben reggersi amando!
Costui su in cielo fra que' divi salse.

Io meschina pur seguo aspreggiando
me e chi m'ama, né so ch'io mi voglia:
amo ed ho in odio, e me vivo onteggiando.

I' resto mai di rinovar mie doglia:
io dubïosa sempre stimo el peggio:
io fuggo ciò che dal mio mal mi stoglia.

Che furia è questa, se io stessa eleggio
quel che né so né in me posso soffrire?
Tutto conosco, e nel mio mal mi reggio.

Aimè! aimè! E che giova garrire
pur a me stessi, e pur qui tormentarmi?
Breve rimedio può el mio mal finire:

non dispettare a chi me ama, e darmi
lieta e ioconda a quanto Amor m'accede,
né fuggir cosa qual s'adatti aitarmi.

Che poss'io altro che amore e fede?
Stolta me, troppo stolta! E che poss'io
cosa aspettar maggior qual mio duol chiede?

Costui me pregia, e sono a lui suo idio:
questo me serve troppo, e io, doh, il strazio.
Mie colpa, adonque, piango l'error mio.

Iniurio, e mai di vendicar mi sazio;
duolmi se fugge mie stranezze e gare,
ove a seguirmi do mai lieto spazio.

Non vorrei sanza amor vita, ed amare
quanto te amo, Archilago, mi duole:
duolmi esser vinta e convenir certare.

S'Archilago men ama or che non suole,
e chi n'è altri ch'io cagion? Per tanto,
stolta chi altri cerca ed ha ciò che vuole.

S'i' fo che viva per me in doglie e pianto,
che util me ne viene, o qual merto?
Straziar chi me ama dà biasmoso vanto.

Che dirai, Agilitta, adunque? Certo
s'Archilogo ama me, i' son superba
sdegnare quel ch'io bramo ed emmi offerto.

Ma che non rest'io omai essere acerba,
e sempre disputar contro a me stessi?
Se m'ama, e' s'ami; se [mi] serve, e' si serva.

E' piange, io piango anch'io. E s'io credessi
durar più giorni in questi miei tormenti,
non so qual morte io non mi eleggessi.

Agilitta, che fai? Non ti ramenti
quanto ogni cruccio tuo in te sola arda?
Tu stessa al tuo dolor sempre acconsenti.

E io mi n'abbia il danno, s'io fui tarda
a ravedermi quale io sia suggetta
a quanto ogni mio sforzo aresta e tarda.

Sia quell'ora adunque maladetta
ch'i' mai ti vidi, Archilago. Tu sei,
tu, tu quel se' che la mia morte affretta.

O sfortunata me! Misera oimei!
A che son io, a che son io condutta,
ch'i' nulla possa in me quanto vorrei?

Vorrei d'amore amando essere isdutta;
ma non so come in me ogni mia impresa
sol poi dolermi e pentirmi vi frutta.

S'io tengo a me me stessa d'ira incesa,
non però posso, Archilago, odiarti;
e duolmi ingiuriar chi non m'ha offesa.

Ma come poss'io mai non molto amarti?
Archilago, o tu sei un dio in terra;
in te contende ogni laude ad ornarti.

Anzi, ora è il tempo uscir di tanta guerra,
e gioverammi adoperar mio sdegno,
ora che cruccio Amor fra noi disserra.

Ah quanto, stolta! aspettar duol m'ingegno,
se io vinta arò poi a pentirmi
di mie parole e di mie lieve ingegno.

Un guardo, un riso dolce, un sol gradirmi
che Archilago mi porga sì amoroso,
può me d'ogni odio ad amar convertirmi.

Io con mie ingiurie l'ho fatto sdegnoso,
che già suo ingegno sempre fu quieto,
facile, umano verso me e piatoso.

E io che 'l provo troppo mansueto,
sciocca mai resto, mai, d'ingiuriarlo;
ogni sua grazia a me stessa vieto.

Dovre' io sì, s'egli ama me, amarlo.
Ma chi sa qui s'egli ama o e' mi fugge.
Anzi, me trista, che non so odiarlo.

Ma lascia pur, lasc'ir ch'amor lo strugge.
Amor ti strugge, Archilogo; amore
non men che me, ben veggo, ancor te strugge.

E che a me s'egli arde? E 'l suo dolore
liev'egli el mio? Sì, leva e m'è conforto
s'altri con meco langue in questo ardore.

Anzi me duol veder quant'io ho el torto
con un mie sdegno tormentar lui e me.
Così più fiamme al mio seno apporto.

Poss'io far, hen, ch'io non mi sdegni? Che,
contro d'Archilago? Sì, contro te, sì:
e s'tu non ami me, debb'io amar te?

Tutto vedo, tutto odo, ben ch'io stia qui
sola, deserta. E che poss'io pensare
di poi la notte ch'io te non vidi el dì?

Ed anche i' ho chi me comincia a amare;
sì, e più d'uno, e begli sì bene.
Mai sì ch'io gli amo: e chi me 'l può vetare?

Agilitta, Agilitta, e dove ène
in te la fede e intera fermezza?
Qual tu accusi in altri in te dov'ène?

Tu dubiti di lui, ma egli ha certezza
di te palese che tu se' incostante.
Ed i' mi sia: io pur gli do tristezza.

Né ancora sono le sue pene tante
quante le mie, né quanto io gli augurio;
e son le prece di chi ama sante.

Ma stolta, non vegg'io quant'io iniurio
chi m'ama e me. Resta, Agilitta, omai
di più infuriar. Sì certo io infurio.

Un solo me sospetto tiene in guai,
ch'Archilogo mi pare a troppe grato.
Ma venne amor sanza sospetto mai?

Ma lui, ove se vede oltreggiato
da me, e scorge ch'io mi profferisco
a questo e a quello, vive adolorato.

E io ingrata che di nuovo ordisco
tutto il dì gare, poi troppo mi pento,
e piango quanto a vendicarmi ardisco.

Vivi, adunque, in pianto e lamento,
infelice Agilitta,
poi che tu cresci a te stessa tormento.

Oimè, che sdegno ed amor mi gitta
or su or giù fra mille onde d'errori,
né scorgo ove sie mai mia voglia addritta.

E tu, o Archilogo, de' miei dolori,
ah, non ti vien pietate. I' pur t'amo,
e per te sono in me questi mie' ardori.

Noi imprudenti ambo e dui erramo,
poi che da troppo amor sospetto nacque,
che l'un troppo dell'altro ci sfidamo.

Dovev'io stolta se in cosa mi spiacque
Archilogo mio, subito avisarlo:
che lui in pruova so sempre a me piacque.

Né dovev'i', ben ch'egli errasse, aizzarlo
con mie ingiurie e sdegno a vendicarsi,
ma con dolcezza a molto amarmi attrarlo.

Queste gare fra noi, questo adirarsi
quanto e' ci nuoce, trista pur or sento,
poi che indarno mie' sospiri ho sparsi.

Finiamo, adunque, ogni cruccio e lamento,
Agilitta, o' sol questo
non declinarmi ad amar m'è tormento.

Ama, Agilitta, e quanto ha sempre chiesto
Archilogo, si sia
fede e amor fra noi lieto e onesto,

ché un dolce riso ogni tristezza oblia”.

 

 

 

10

 

CORIMBUS

 

BATTISTA.

Corimbo, giovinetto avernïese,
bello, prudente, virtuoso e onesto,
in cui eran d'amor le faci incese,

di selva in selva giva solo, mesto,
spegnendo con le lacrime la vampa,
qual a se stessi lo rendeva infesto.

Spesso, “Infelice”, diceva, “chi inciampa
in questi lacci tuoi, crudel Cupido:
felice sol chi da' tuoi strali campa.

Che dir? ch'i' fuggo ov'io stessi mi guido,
e duolmi troppo quel che più mi piace,
e troppo temo ov'io troppo mi fido.

Accendo co' sospiri in me le face,
qual pure i' copro, e pur vorrei scoprire.
Mio dolor entro prega, e di fuor tace”.

CORIMBO.

Piango cantando: Oimè! debb'io morire?
Misero me, misero me, i' moro,
e io stessi mi acoro;
i' fuggo ogni salute al mio languire!

Misero chi si crede
aminüir l'ardore,
discoprendo la fede,
ch'altrui li fa signore.
Oimè! coperto amore
con servire a sua posta e libertade;
benché l'altrui pietade
c'inviti a confidar nel ben servire.

Aimè! ch'i' mi pensai
rallentar mïa doglia,
e parte mi fidai
discoprir mïe voglia.
Infelice chi spoglia
l'arme che col soffrir molto l'aita!
Meglio è finir sua vita,
che dover senza merto altrui servire.

Ripenso, duolmi, spasimo,
e meco ne fo storia;
lodo, spero, biasimo,
e riduco a memoria
che pure egli è vittoria
poter perdendo adoperar sue armi.
Io andai a legarmi,
e né posso tacer né gliel so dire.

Invidiosa fortuna,
anzi i' fui stolto,
non sapev'io che niuna,
benché la serva molto,
soffri mai sie sciolto
da' lacci con che Amor ne inreta e tiene.
Or pianger ne conviene,
stolti che al fuoco entràn credendo uscire.

A noi meschini amanti
qual dura non si pieghi
udendo nostri pianti,
nostri sospiri e prieghi?
Chi sarà che dinieghi
che un fedele servir merti merzede?
O Iddio, altrui pur vede
che fede e onestà mi fa soffrire!

BATTISTA.

Che fai, Corimbo? Stolto chi si crede
pietà trovar più in altri che 'n se stessi!
Prendi da Amore quanto ti concede.

Stolto Corimbo, stolto se credessi
con libertà poter viver suggetto.
Potresti assai, se te stesso vincessi.

Ma sempre suole amor chiuso nel petto
più palesarsi quanto più l'ascondi.
Non val contro li dii l'uman concetto.

Che fai, Corimbo? Te stessi confondi.
Ben scorge chi tu servi in un sospiro
qua' sien de' pensier tuoi i più profondi.

Se 'l ciel si porge a voi sdegnoso e diro,
miseri amanti, vincete soffrendo.
Matura il tempo ogni vostro disiro.

 

 

 

11

 

TIRSIS

 

Tirsis e Floro giovinetti amanti,
ricchi pastori, l'uno e l'altro bello,
usi fra loro raccontar suoi canti,

in fra quell'Alpe su cerca 'l Mugello
givan cantando le lor tormiciole.
Così dissero, gionti a un praticello:

FLO.

O Tirsis, ben ti godi quinci al sole,
tu ti trastrulli e strizzi con la Mea.
Felice è chi amando non si duole.

TIR.

Floro, non ha queste Alpi una più rea
di lei. Sta qui doppo e vederai,
la non mi digna più qual mi solea.

FLO.

La Niera mia mi fugge, né fu mai
più sventurato amante. Aimè! piangiamo
E' mi giova saziarla di mie guai.

TIR.

Floro, non far così, non far. Io amo,
anche io amo, anzi ardo, i' moro,
e pur sto lieto. Fa come io. Cantiamo.

Mea mia dolce dai capei dell'oro,
o saporita dal viso rosato,
ch'ai quelli occhiazzi più bei che 'l mio toro

né son sì liete in un fiorito prato
le ape inzuccarate a uscir di schiera,
quanto son io poi che m'hai guatato.

FLO.

Or provi quel che è Amor, fanciulla altiera.
Sì solevo sonar, cantar, ballare,
e motteggiar ridendo volentiera.

Come un giovenco mal uso ad arare
superbo or si rimpreme, or fugge inanti,
così la Niera. O che tormento è amare!

TIR.

El bisogna per certo che tu canti,
che prima staria el ciel senza le stelle
che la donna non strazi gli suo amanti.

Or su, diciàn delle fanciulle belle,
qual sanno amare e d'ognun son lodate.
Qui son duo can; lassa ir le pecorelle.

FLO.

Non direi a te no. Diciàn. Cantate,
silve, con nui, fiere ed umbre triste.
Laude anzi fie più aver che Amor pietate.

La Niera spesso mie lacrime ha viste.
E quante volte sofferto hai ch'io mora,
Niera crudele, con tue false viste!

TIR.

Ninfe, cantate, e risonate ancora,
aure, con nui, rivi, fronde, augelli.
Audissi Amor chi lui cantando onora.

La Mea con quei soi ditaggi belli
di fiori scelti mi fa ghirlandette,
poi me le asconde doppo gli arboscelli.

FLO.

Se Amor è iusto e pio, com'el permette
che chi servendo el prega ogni or più stenti?
Son per me spinte sue face e saette.

TIR.

Non senza pioggia e furiosi venti
porge suo fior l'aliegra primavera,
né Amor suo don senza pianti e tormenti.

FLO.

Vidi io già unda ruinosa e fiera
gir mormorando ed urteggiando sassi.
Ancora è più superba la mia Niera.

TIR.

Dura, ostinata è chi non amassi.
Soglionsi cantar li augelletti amando;
aman le fiere, gli orsi, lupi e tassi.

FLO.

Duro, ostinato chi pur consumando
siegue suo inzegno, pensier, passi e giorni,
ogni or con meno speme disiando.

TIR.

Và. Io aspetto che la Mea ritorni.
Lieto io, lieta lei, quando mi vede.
Amor ha in odio i tuo sguardi musorni.

FLO.

Serà costei che sì tieco si siede,
prima d'un occhio che d'un uom contenta?
Tu corri e' lepri ed altri ai lazzi siede.

TIR.

Arà il sole la sua luce spenta,
quando la Niera ti cominci amare.
Non è superb'a chi d'amor mai senta.

FLO.

Seranno i pesci in cielo e stelle in mare,
quando la Mea tua non ti deleggi,
o dispiaccia alla Niera el mio cantare.

TIR.

Chi ti amaria, te che sempre aspreggi?
Schifano el gioco in aspro campo i buoi.
Priegia Amor lieti e risi e motteggi.

FLO.

Ove se', Niera? Ed or che più? Che vòi?
Ma non iscusa te benché me incusi.
La nostra asprezza vien dagli amor tuoi.

O giovanetti in amar poco usi:
Tu, Tirsis, che oggi vivi in gioco e festa,
già lieti più di te qui vidi esclusi.

TIR.

Né mai fu in donna fronte tanto mesta
che di riso talor non si adornasse,
né fu amata mai chi non amasse;

ma tiensi troppo chi troppo è richiesta.

 

 

 

12

 

Venite in danza, o gente amorosa,
non tenete ascosa
la dolce fiammetta
che sì ben s'assetta
in alma gentile.
Né sia uom tanto vile
che si gli accade amare
stia a sognare
e aspetti ben faremo,
ché per venire allo stremo
quale si stima o brama,
convien che amor di dama
acquisti per grande uso.
Sai chi rimane escluso?
el troppo savio e 'l troppo bello,
il superbo, l'inerte e fello,
e chi non sa soffrire.
Però pigliate ardire,
su, avanti, avanti,
suoni, danze, canti
e triunfi d'amore,
e così tale onore,
cenni, atti e risi,
sguardi non molto fisi,
ma con arte e lieti,
parlar mozzi e quieti,
o strani e intesi,
gli occhi e gli orecchi tesi
a usar mille pruove,
palpeggiar dita e altrove
coperto e bellamente.
Così chi d'amor sente
or usi leggiadria.
E chi vorria
d'amor esser privo
in luogo sì giulivo
e sì ornato?
Quale snervato
stesse a lellare
e non disiasse amare
a tutta briglia?
Chi pur s'acciglia
e d'ogni cosa ha spavento
è come chi ha spento
il lume a mezzo l'ombra.
Chi pur s'ingombra
di tanti io vorrei,
io farei,
ma pure,
le sciagure,
doh,
io non so,
è uno intronato,
è uno trasognato,
è uno pezzo di bue,
e pàrli esser più di due
ed è meno d'uno;
non gli parlare a digiuno,
che non ha mente.
E chi d'amor non sente
o nello amar è lento,
è uno portento
svelto fuor d'un tronco,
ed è monco
d'ogni destro ingegno,
ed è sinestro legno
a maneggiarlo,
ed ha nel cuore un tarlo
che 'l fa star austero
e ch'ogni bel pensiero
gli rode e sbarba
tal che non gli garba
gentilezza.
Ma l'alma che s'avezza
a seguir l'orme
e le dolzi torme
che amor guida,
mai più si snida
di tal cova,
perché troppo li giova
l'udire
e 'l seguire
amorose maniere,
ed usar fra le schiere
degli amanti,
quali con risi e canti
osservan fra loro
un maraviglioso tesoro:
non metalli cari né avolio
non gemme né pitto spolio,
né coniato auro,
sai ched è? - un verde lauro
a mezzo un fonte,
dove sono sconte
tutte l'offese ch'amor par ch'ammetta,
ed ha in ogni vetta
fronde vezzose e belle
dove è il nome di quelle
che han pietade,
e che ornan suo biltade
di cortesia.
Ivi s'oblia
ogni vil pensiere,
ed è mestiere
seguire voglie sublime,
e non fare stime
di quel che non dà laude.
Ivi s'aplaude
ed è onorato,
non chi è fortunato
e ricco erede,
né chi possede
accumulato avere,
ma ben chi pò capere
fra' pregiati ingegni
e fra gli uomini degni
d'esser amati,
che non sono schifati,
né han divieto
dal santo ceto
degl'immortali.
Ivi si prendon ali
a seguire ogni impresa,
e hane suo voglia incesa
a 'quistar lodo per merto.
Hen, che un tal cuore erto
superchia ogni gran cosa.
Però, gente amorosa,
pigliate ardire,
su, seguire, seguire
l'arte e l'officina
con che amor affina
ogni cor frale.
Di grado in grado sale
l'acquistar merzede,
e non s'avede
ch'ell'è giunta al sennone,
dove è tenzone.
E perché?
Anzi, deh!
Oh, lasciami stare!
Ma non si vuole acquistare
grado in donna altiera,
o ch'è spiatata fiera
a chi la trassina.
Ella rompe e sfascina
ogni amorosa impresa,
e sta sempre tesa
a vincer d'onte,
colle sanne pronte,
colle ciglia grottose,
colle mani sdegnose.
Uh! oh! ch'è questo?
Lascialo star quel testo
pien di bizzaria.
Questa pur si dovria
cacciarla a far lucignoli,
e fra i diti mignoli
mostrarli il dito grosso.
L'una ha uno sopraosso
in sul naso e gli occhi infiati;
l'altra ha gli occhi schiacciati
adentro un mezzo miglio;
l'altra ti porge un piglio
e par ch'ogni uom gli puta;
quale è scrignuta,
monca o sciancata,
cispa e sdentata,
o vizza e rognosa.
Ho! ho! che dolce cosa
por amor a tal gente,
che tanto son contente
quanto le strazian altrui.
Visi di bui,
capi bitorzuti,
con vostri imbiuti,
con vostre trampe e streghioni,
con insaccar lomboni,
col ceffin composto,
collo andar iscosto,
dite: chi ne vuole?
e date altrui cazzuole
coll'occhietto.
Ma io me ne diletto,
e compro il temporale
per tanto quanto e' vale
di merce a merce.
Bufole chiazzate e lerce,
trombe fesse e vane,
gite a 'impastar pane
per li spedali.
E vo', dive immortali,
che avete gentilezza,
fuggite chi amor sprezza
in bella etate,
e voi stesse ornate
d'un costume amoroso
e d'un cuor piatoso
che ogni bellezza avanza,
e gite in danza
come innamorata:
chi vuol esser amata
convien che ami.
Vostri lacci e legami
non sia pompa né superbia
perch'ogni uom vi proverbia,
ma sien risin vezzosi
dove stieno nascosi
dea Veste e Cupido;
e gli occhi che son nido
di spiritelli accesi,
mai sian discortesi
a chi v'adora.
Quel che un bel viso onora
non è il brasil né 'l velo,
né iscolorire el pelo;
anzi è amar chi v'ama
e nell'amorosa trama
un porger d'opra.
E s'egli è chi vi scopra
con cenni e con sospiri
soffri per voi martiri
e ardendo merzè preghi,
ah non sie chi gli nieghi
dargli talor conforto,
perché faresti torto
a vostra cosa.
Chi in voi riposa
ogni suo voglia e spene,
merit' e' pene
al ben servire?
Aitatel', oimè, soffrire
la pena amorosa.
E soffre ogni cosa
chi un bel viso mira,
perché indi s'agira
al cor non so che dolce
che spesso lo soffolce
a mezzo il cielo.
Non teme caldo né gelo
l'alma che si pasce
di quello che nasce
infra 'l pensare
e 'l rassembrare
le lodi d'un bel viso,
che quanto el miri più fiso,
tanto vie men ti sazi.
Ivi son gemme e topazi
che sprendon più che 'l sole.
Rose, gigli, viole
son belle in verde prato,
ma un viso innamorato
è via più bello.
Io ho visto ausello
fra' ramuscei fioriti
con versi arditi
lodare,
magnificare
ciascuna stella;
ma leggiadra donna e bella
merita più lode.
Ed ho visto alle prode
di curri triunfali
titoli immortali
e gloriosi;
ma non son sì famosi
quant'un bel viso merta.
Ed ho visto inserta
fra' sacrati ornamenti
gemma ch'e' lumi ha spenti;
ma un risin gentile
con uno aere umile
l'abatte,
e stanno quatte, astratte,
muse, ninfe e dei
a vagheggiar colei
che save amare.
Deh non vi fate pregare
adunque per vincer prova,
di quel che poi vi giova
s'altri vince.
Sai chi è che pregio convince?
Non chi mantien contesa,
né chi tanto pesa
ogni suo voglia
che altri si stoglia
dallo avezzato amore;
ma ben v'è palma e onore
a saziare,
a superchiare
di grazia altrui,
anzi gire ambodui
fra lo amoroso sciame
ad un legame
in un pari passo.
Aimè lasso!
che donna inamorata
può esser beata,
ma non me lo crede.
Ben sai che la fede
e l'essere sciolta
non può essere svolta
più che altri si voglia;
el viver sanza doglia
non ha pari,
e son preciosi e cari
i giorni lieti.
Ma chi è che divieti
alle donne amorose
tor e dar ste cose
a ogni sua posta?
E forse che gli gosta
il soggiogarsi a tanti,
dargli allegrezza e pianti,
altro ch'un volger d'occhi?
Né par che mai si sbrocchi
stral ch'è 'n cuor gentile;
deh! né anche in cor vile
indi si scarchi,
e con sì vivi marchi
al cuor s'impronta,
che per sdegno né per onta
mai si sforma.
Però chi ha da far non dorma,
e segua il suo viaggio,
e chi non è saggio
impari,
e chi sta guari
e del star si contenta,
convien certo si penta
tardi ma a suo costo.
Però levate su tosto,
donne innamorate,
gite, onorate
questa festa.

S'egli è tra voi chi stia mesta
perché il suo amante è altrove,
dicami dove,
e io lo manderò a chiamare.
Io son disposto aitare,
servire,
gradire,
magnificare qui e in ogni lato
qualunque inamorato
esser si voglia.
Ma io temo che vi spoglia,
come altre volte spesso,
forse anche adesso
d'un bel piacere,
donne, il non sapere
contentare voi stesse,
e aver sommesse
vostri pensieri e arte
da ogni parte
a trassinare,
rivolgere e ripensare
troppo ogni forse.
Sapete quel che porse
nella albana vittoria
trionfo e gloria
al già vinto Romano?
Fu l'astuta mano
del pronto Orazio,
che in tempo al Curiazio
persecutor si volse
e insieme acolse
voluntà, arme e stagione,
e seppe collo sprone
vendicarsi,
e ornarsi
nel triunfo lugubre
di tre spoglie rubre
in german sangue,
onde Alba fu langue
sotto leggi esterne,
e a lui fur lode eterne,
talché in ogni storia
e in canuta memoria
ancor son verde.
Né può chi tempo perde
o nol sa adoperare,
mai più racquistare
tesoro sì caro,
perché gli è troppo avaro
a' dolci spassi.
E poi che 'l tempo en vassi,
donne, e non torna mai,
oimè! che doglie e guai,
e quanto stracca,
oimè! anzi fiacca
el ricordarsi,
l'incolparsi:
i' dovea,
i' potea,
e gastigarsi dapoi,
e gustar gli errori suoi,
e darsi el torto,
essere ardito e acorto
ove non giova
né forza né prova
di saper, d'arte o d'inganno.
Oimè, oimè, che affanno!
oimè che doglia!
Ove cresce voglia
el sperar scema.
Non abiate unque tema,
donne, non vi sfidate.
Che pur pensate,
che vi tenete a bade,
ora che 'l tempo accade
a triunfar d'amore?
A che tenere in cuore
quel che vi strugge
e che vi cuopre d'ugge
e tolvi ardire,
e potevi scoprire
meco a fé sicura?
Io so aver misura
nel parlar,
nell'andar
e nello star muto,
e insieme essere astuto,
nescio e pronto;
e voluntier m'affronto
ove creda servire
ciascuno, svilire
ogni amor tardoso
solo per far gioioso
chi amor segue,
e compor paci e tregue,
aitar, guidar, coprire
e scoprire
sospiri e doglie
e le dolci voglie
di chi ama.
E che? Onde surge fama
più ardita
e più nutrita
di voci e lode,
colle piume più sode
e più cianciera,
che della grata schiera
de' cari
e avari
servigi e doni,
che dovunche gli poni
fruttan merti,
né possono star coperti
sotto l'ingrata mano
che non perda un gran brano
d'util grazie altronde?
Anche, e donde
si porge più grato
e più accertato
il bene servire,
che quando e' fa uscire
di sua opera e forza
un piacer che caccia e amorza,
isveglie e matura
ogni acerba cura,
ogni spavento,
ogni pensier lento,
ogni albagia?
Anzi, vero, chi potria
star che non servisse,
non prefferisse
soccorrer, satisfare
alle voglie, allo spettare
di chi amor sente,
e cercasse far contente
l'alme affannate
ch'ogni ora mille fiate
infra sospir son gite ratenute,
sbigottite, sparute,
smarrite, scambiate,
riposate
in altrui seno?
E per Dio non è meno
il piacer che contenta
chi sua fiamma ralenta
per lo servir d'altrui,
che sia di colui
che 'l dono suo ben assetta
e più là non aspetta
che insino che gli esca
di sua mano e acresca
util, grazia e piacere
a chi lo sa volere
cortese e presto.
E non è meno foresto,
meno incivile,
men discortese e vile
chi 'l don porger non vole,
che chi 'l don pòrto non tole
ov'è pregato.
E di questo pur beato
mi comandiate
e adoperiate
in ogni vostro volere:
a me sarà piacere
troppo il contentarvi,
aiutarvi,
andare, stare,
portare e riportare
parole, doni,
che son gli sproni
che l'alma impinge,
insieme stringe
all'amarsi
col desto ricordarsi
che pasce amore,
e non gli par disonore
essere suggetto.
E non arò men diletto
del servire, quanto del sapere,
ridere, vedere,
udire che atti e che maniera
e quanto voluntiera
ascoltasse,
e di che adomandasse
e costei di colui,
e colei di costui,
e prima e poi,
e stesse in su' suoi,
or sorridendo,
or dolze premendo
gli occhi e la voce,
quale a chi pur cuoce
ancora l'altrui foco,
e come a poco a poco
usciron da entro al core
sospiri pien d'amore,
queti queti e fucati,
e come con gli occhi ornati
d'un atto che scopriva
quel che 'l cor pativa,
s'atterroe,
e ben mille fiate si scambioe
il bel colore al viso,
e mirando fiso
si racolse pian piana
e poi si volse strana,
vaga e piatosa,
e in modo vergognosa
balenò fiamme ardente
che furono accese e spente,
abagliate
e ralumate
in un momento,
con un tremolar di mento
insieme e di labrucci,
e con mille vezzosi crucci
in fronte lieta,
come or turba or queta
le ciglia e 'l seno strinse
con bella arte, e finse
non sapere,
non volere,
non ricordarsi,
e poi sdegnarsi
con superchia onestade,
fuggir e aver pietade,
poi che si sente amare.
E perché 'l saper pregare
d'altrui l'accende,
ove suo voglia pende
in poco spazio
e il soffrir suo che sazio
di tarde speme
e teme,
e l'alma insieme carcata,
impiuta, combattuta, atterrata
infra sospiri accolti
avesse e' pensier stolti
non so dove.
Mai sì, donne, questo mi move
a profferire
gradire, servire,
lodare, atare,
magnificare
chi ama ardito,
che già chi n'è servito
ne gode,
e acquistane lode
chi con fè serve.
E l'alma mia che ferve
ogni ora più che non sole
sotto un velato sole
cor a me nascoso
mai fa esser piatoso
d'altrui pene.

 

 

13

 

DE AMICITIA

 

Dite, o mortali, che sì fulgente corona
ponesti in mezzo, che pur mirando volete?

Forse l'amicizia, qual col celeste Tonante
tra li celicoli è con maiestate locata.

Ma pur sollicita non raro scende l'Olimpo
sol se sussidio darci, se comodo posse.

Non vien nota mai, non vien composta temendo
l'invida contra lei scelerata gente nimica.

In tempo e luogo veggo che grato sarebbe
a chi qui mira manifesto poterla vedere.

S'oggi scendesse, qui dentro accolta vedreste
sì la sua effigie e gesti, sì tutta la forma.

Dunque voi che qui venerate su' alma corona,
leggete i miei monimenti e presto saravvi

l'inclita forma sua molto notissima, donde
cauti amerete: poi così starete beati.

 

 

 

14

 

Chi vol bella vittoria e star sicuro,
e contra il morbo far un scudo forte,
siegua di Amor la gloriosa corte,
che confusion non teme o tempo oscuro.

Amor dinanci al cuor è un marmo duro,
contra cui non val veneno o morte.
Amor da sé discazza ogni altra sorte:
in l'alma dove e' sta fa l'aere puro.

Amor è un foco dentro al gentil petto,
che brusa e che consuma ogni altro umore;
e morte fugge il suo real aspetto.

Amor fa in uom mortai vivace il cuore,
né può morir mentre ha per suo obietto
Amor che sempre il pasce in vivo ardore.

Però seguite Amore,
o gentil spirti, e voi madonne oneste,
ché Amor vi camparà da mortal peste.

 

 

 

15

 

Per li pungenti spin, per gli aspri istecchi,
per le turbe marin, per cruda guerra
dove io mi varchi, un pensier mi sotterra
e vuoi che innanzi tempo imbianchi e 'nvecchi.

Tanto son fatti e' miei pensier parecchi,
che sì e no nel capo mi s'aferra,
quand' un si chiude e l'altro si riserra,
onde di duol mestier sarà ch'io assecchi.

Ma tu, padre sincer, che l'opre e 'l core
cognosci di noi gente maladetta,
che non provedi a tanto nostro errore?

La tu' iustizia che tanto s'aspetta,
ben dice Dante, ond'io prendo vigore:
la spada di lassù non taglia in fretta.

 

 

16

 

Io miro, Amor, la terra e i fiumi e l'onde,
gli ucelli e i poggi, e' fior, le fronde e l'erbe,
e' lauri, e' mirti, e i pin, gli abeti e i faggi,
la nona ispera e l'altre u' son le stelle,
l'infime sette che i pianeti alberga,
e poi mi volgo alla leggiadra donna.

Tutte son nulla fuor che questa donna,
che eclissa el sole e fa intorbidar l'onde,
e sol risplende el mondo ov'ella alberga,
over dove col bel pie' priema l'erbe
e fa sparir nel ciel tutte le stelle,
sedendo a l'ombra de' ginepri e faggi.

E io che seguo per selve e per faggi
questa gentil, onesta e vaga donna,
pria ch'io la giunga, salirà a le stelle
mirando in giuso l'emisperio e l'onde,
e 'l nostro mortal pondo e l'aride erbe,
sorridendo del loco u' l'alma alberga.

Quando varco là dove Amor alberga,
che meglio mi sarebbe andar per faggi
bevendo l'acqua e degustando l'erbe,
parlando meco de la cara donna,
mi mostra come a le cerulee onde
si bagna questa al lume delle stelle.

E quando penso alle lucenti stelle
che fra le rose nel bel viso alberga,
sospir esce del cor, de gli occhi onde
da spegner foco e maculare e' faggi,
né mi val contra questa altera donna
consiglio alcuno, incanti, o sugo d'erbe.

Ma 'nanzi che sien secche tutte l'erbe,
e che le nube ascondan l'alte stelle,
io proverò se 'n questa avara donna
umiltate over pietate alberga,
o s'ella sta come animal per faggi,
cruda sprezzando el ciel, l'abisso e l'onde.

Non han tanta virtù le stelle e l'onde,
né l'erbe, e non son tanto duri e' faggi,
quanto la donna che 'l mio core alberga.

 

 

17

 

Quegli occhi ornati di mestizia e riso,
quel fronte grave di costume e fede,
quel ragionar prudente e pien d'amore,
quella semplice astuzia in quel sospetto,
quel servir ostinato, quello isdegno,
que' vezzosi talora in pruova crucci,

e quelle dolce pace doppo i crucci,
e quelle lacrimette in fra quel viso,
e subbito scordarsi ogni gran sdegno,
e rannodar fra noi più intera fede
scoprendo ed odiando ogni sospetto,
poi darsi a gara a meditare amore,

quei sguardi, quei suspiri, quello amore,
quel presentarci or lieti, or pien di crucci,
quel senza fine in noi vano sospetto,
quei furtivi e cuperti cenni e riso,
quel pregar tanto l'amorosa fede,
quel arrossire e impalidir di sdegno,

e quel pentirsi d'ogni stracco sdegno,
arme furono e lacci con che amore
mi prese e vinse servo a tanta fede.
Piansi più anni i miei e gli altrui crucci,
adorando quell'occhi e labbra e riso,
onde, oimé, spesso in noi ardeo sospetto.

Ma ove quivi in me grave sospetto,
o pensier duro alcun premea mi' sdegno,
un lieto salutare, un dolce riso
finiva ogni tristezza, ed ora amore
mille sospetti in me con sdegni e crucci
in un momento aduna, e cresce fede.

Quanto io più ardo, l'amorosa fede
più sente, ma non cura ombre e suspetto,
e son qui fiamme li passati crucci,
l'eterno mio dolore e l'altrui sdegno,
qual maggior fanno el mio tormento, e amore:
aimè, poi quivi non prestarmi un riso.

Lungi dagli occhi onde quel dolce riso
in me nutriva fede in fra 'l suspetto
piango mie sdegni e castigo i mie crucci.

 

 

- FINE -