Leon Battista Alberti
Profugiorum ab aerumna libri III
LIBRO
I
Niccola di messer Veri de' Medici, uomo ornatissimo d'ogni costume e d'ogni virtù, e io insieme passeggiando nel nostro tempio massimo ragionavamo, come era nostro costume, di cose gioconde e ch'appartenevano a dottrina e investigazione di cose degne e rare. Sopragiunse Agnolo di Filippo Pandolfini, uomo grave, maturo, integro, quale e per età e per prudenza sempre fu richiesto e reputato fra' primi nostri cittadini. Salutocci e disse: - Te, Battista, lodo io; e piacemi che, come in altre cose, così e in questo tuo ridurti qui assiduo in questo tempio ti veggo religiosissimo. E' non fu sanza cagione quel detto di que' buoni antiqui che massime allora si dà opera al culto divino quando si frequentano e' luoghi sacrati a Dio. E certo questo tempio ha in sé grazia e maiestà: e, quello ch'io spesso considerai, mi diletta ch'io veggo in questo tempio iunta insieme una gracilità vezzosa con una sodezza robusta e piena, tale che da una parte ogni suo membro pare posto ad amenità, e dall'altra parte compreendo che ogni cosa qui è fatta e offirmata a perpetuità. Aggiugni che qui abita continuo la temperie, si può dire, della primavera: fuori vento, gelo, brina; qui entro socchiuso da' venti, qui tiepido aere e quieto: fuori vampe estive e autunnali; qui entro temperatissimo refrigerio. E s'egl'è, come e' dicono, che le delizie sono quando a' nostri sensi s'aggiungono le cose quanto e quali le richiede la natura, chi dubiterà appellare questo tempio nido delle delizie? Qui, dovunque tu miri, vedi ogni parte esposta a giocondità e letizia; qui sempre odoratissimo; e, quel ch'io sopra tutto stimo, qui senti in queste voci al sacrificio, e in questi quali gli antichi chiamano misteri, una soavità maravigliosa. Che è a dire che tutti gli altri modi e varietà de' canti reiterati fastidiano: solo questo cantare religioso mai meno ti diletta. Quanto fu ingegno in quel Timoteo musico, inventore di tanta cosa! Non so quello s'intervenga agli altri; questo affermo io di me, che e' possono in me questi canti e inni della chiesa quello a che fine e' dicono che furono trovati: troppo m'acquetano da ogni altra perturbazione d'animo, e commuovonmi a certa non so quale io la chiami lentezza d'animo piena di riverenza verso di Dio. E qual cuore sì bravo si truova che non mansueti sé stessi quando e' sente su bello ascendere e poi descendere quelle intere e vere voci con tanta tenerezza e flessitudine? Affermovi questo, che mai sento in que' misteri e cerimonie funerali invocare da Dio con que' versiculi greci aiuto alle nostre miserie umane ch'io non lacrimi. E fra me talora mi maraviglio, e penso quanta forza portino seco quelle a intenerirci. E quinci avviene ch'io credo quello che si dice ch'e' musici potessero essortare Alessandro Macedone ad arme cantando, e rivocarlo in cena. Ma fec'io bene? Io ruppi forse e' vostri ragionamenti, Niccola, e distesimi in cose non accommodate.
Queste sino a qui furono parole d'Agnolo. Adunque Niccola gli rispuose, e disse: - E' nostri ragionamenti non erano tali che questi vostri non siano accommodatissimi. E se io bene scorgo l'animo qui di Battista, niuna cosa gli può venire tanto grata e accetta quanto udirvi e ragionare e disputare di cose dotte e degne. E affermovi questo, lui vi porta riverenza, e àmavi quanto merita la virtù e l'autorità vostra. E riferiscovi quel ch'io intesi spesso da lui, che due soli uomini gli paiono ornamento della patria nostra, padri del senato e veri moderatori della Repubblica: l'uno si è Giannozzo degli Alberti suo, uomo tale per certo quale e' lo espresse in quel suo terzo libro De Familia, buono uomo e umanissimo vecchio; l'altro siete voi, quale e' compari a Giannozzo in ogni lode. Voi d'età maggiori in senato, d'autorità primi, d'integrità soli. Se a Giannozzo fusse molta cognizione di lettere, direi: qual due uomini altrove si troverebbono o sì compiuti d'ogni pregio, o sì insieme simili in ogni laude? Voglio inferire che a Battista, qual sempre v'appella padre, e védevi e odevi con avidità e volentieri, e' vostri ragionamenti saranno, come e' sono a me, accettissimi e gratissimi.
Ma che diremo noi? Lasciamo stare la descrizione e forma di questo tempio. Non cerchiamo quanto sia imposto suo peso a chi possa sostenerlo, o quanto sia non male occupato quello che farebbe a grazia e ammirazione. Altrove sarà da disputarne. Vegniamo a quello che io desidero intender da voi. Siete voi, Agnolo, in questa opinione che queste conversioni e coniunzioni di voci possino levare gli animi e imporre in loro vari eccitamenti e commozioni? Troppo sarebbe forza qui in Battista, se potesse con suoi strumenti musici adducere gli animi in qual parte e' volessi. E in prima mi maraviglio del nostro Platone, principe de' filosofi, quale affermava non avenire mai che nuova ragion di canti si ricevessero al vulgo e in uso senza qualche prossima perturbazione publica. Che quella e quell'altra armonia sia cagione di pervertere una republica, né io lo crederrei a Platone se me lo persuadesse, né voi mi loderesti s'io glielo credessi. Forse diranno che sia indizio e segno di quello ch'egli osservorono poi esser seguito: né questo ancora mi satisfa. Altre sono le vere cagioni, altri sono li veri indicii quali dimostrano l'apparecchiate ruine alle republiche, fra' quali sono la immodestia, l'arroganza, l'audacia de' cittadini, la impunità del peccare, la licenza del superchiare e' minori, le conspirazioni e conventicule di chi vuole potere più che non si li conviene, le volontà ostinate contro i buoni consigli, e simili cose a voi notissime; sono quelle che danno cognizione de' tempi, se seguiranno prosperi o avversi. E quell'altro, per onestar l'arte sua, disse che l'animo dell'uomo era composto d'armonia e di consonanze musice. Non mi satisfanno costoro, né veggo in che modo l'animo in cosa alcuna abbi convenienza con lo strepito o crepito di più voci e suoni. E tanto iudico l'animo esser o subietto o obligato o dato a questi suoi movimenti da cosa quale io non so compreendere quale ella sia, che non solo e' musici, ma né ancora e' filosofi con sue ottime e copiosissime ragioni possono diverterlo dalle cure quale tuttora lo assediano, né possono distorre da' nostri pensieri l'acerbità in quale l'animo nostro non so come si rimpiega. Questo si pruova tutto el dì, che le triste memorie, le ingrate espettazioni, le dure offensioni ci si presentano e attaccansi all'animo, tale che a nostro malgrado ci conviene dolere e temere, e male averci, si può dire, contro a ogni nostra volontà; già che niuno si truova sì pazzo che non volesse più tosto stare lieto che mesto, sperare bene che vivere in paura. E questi filosofi con loro parole credono spegner quello che con effetto tanto può per sua natura in noi. Questo donde e' sia non so: pur lo sento in noi mortali esser fisso e quasi immortale. E quale e' sia per sé tanto veemente e tanto ostinato, vi confesso, Agnolo, non lo so: ma che e' sia, lo sento e pruovo, e duolmi. Ma voi come prudente statuirete quanto sia da giudicarne. Io insino a qui assentirei a chi lo dicesse non esser possibile vetare da noi tanto male se non col tempo, cioè col straccare quella forza de' cieli e della natura sofferendola; ché in altro modo non veggo si possa escludere la acerbità e durezza dell'animo, conceputa dalle ingiurie della fortuna e da' casi avversi quali da infinite parti ci percuotono e assiduo ci si presentano, e occupano e' nostri sensi e mente, in modo che nulla ci è lecito refutarli o esturbarli.
AGNOLO. Ben veggo io che tu studi gratificare qui a Battista; e piacemi satisfargli, poiché a lui diletta udirmi, e questi sono certo ragionamenti degni e da seguirli. Io imiterò te, Niccola, in questo disputare, quale ben conosco non referisci la vera tua opinione e sentenza, ma quasi m'allettasti ad esplicare la mia. Adunque discorreremo narrando e raccogliendo quello potesse dire chi come noi volesse più tosto ragionando ostare a' detti altrui che affermare e' suoi. E viemmi a mente quella disputazione di Senofonte, dove Araspa Medo dicea a Ciro che gli uomini avean in sé due animi, l'uno de' quali era vero amatore delle cose iuste e oneste e degne, l'altro era contrario, e cupido dell'ozio più che della industria, dato alle voluttà più che alli studi delle cose degne e rare, subietto e mosso dalla volontà e lascivia più che dalla ragione e constanza; e che lascerebbe a quella sua amata questo animo sinistro, e porterebbe seco quel destro e virile, col quale e' satisfarebbe a Ciro e al suo officio in arme, e dove fussi luogo adoperarsi in virtù. E quanto io, vi confesso, non sono di quella virtù intera, ch'io in tutto tenga escluso da me quello animo sinistro, e non qualche volta erri in quella parte in quale e' dicono abitarvi le passioni, le cupidità, e' dolori, le speranze e simili perturbazioni. Sono in questa età in qual mi vedete vissuto già anni circa novanta. Vidi molte, vidi in vita e soffersi molte, Niccola, molte molestie in vita, e quasi feci calli all'animo con soffrire e' mali; pur talora quando m'occorrono e' casi, non posso fare ch'io non pensi a più cose, e vederommi assalito da certo dolore e da tristezza, né io stessi saperò donde e come. Vincemi la indignazione di troppe ricevute ingiurie, fastidiami la insolenza di tale o quale ambizioso, pesami la audacia, temerità e furioso impeto di chi sciolto urteggia e' buoni, e fra me dico: Agnolo, questo che a te? Tu maturo d'età, a te non mancano le cose desiderate e chieste della fortuna; in te animo netto e grato a' tuoi cittadini; vivi, come e' dicono, omai a te stessi, e usa le cose presenti come presenti. Così con molti simili ammonimenti mi castigo; ma nulla però giovo a me stessi quanto io vorrei, tanto mi vince il non vedere le cose in quel buono assetto ch'io desidero e studio addurle. Ma non è però ch'io non potessi vincere me stessi. E perché no? Perché non potre' io quello che poterono gli altri, quali furono in vita uomini come testé sono io? E quanti furono che osservorono constanza e vera virilità d'animo in le cose dure e aspre? E a noi chi vieterà che non ci sia lecito nelle avversità e gravezze obsistere e deporre ogni perturbazione con buona ragione e consiglio? Non dubito che se vorremo e bene offirmarci con virtù, e bene offirmati opporci con modo a chi ne offende, ci troverremo essere né men che uomini, né men potere che possino gli uomini, né mai sarà sopra alle forze ascritteci dalla natura quello che c'imporanno e' tempi, cioè la successione e varietà delle cose rette dalla natura. Egli scriveno che Socrate fu dalla moglie contumacissima e importuna continuo mal ricevuto, e fu da e' figliuoli immodestissimi in molti modi offeso in casa, e fuori di casa ancora fu da molti insolenti bestialacci e da que' comici poeti assiduo infestato e con varie ingiurie offeso. E benché così fusse da tante parti essagitato, pur visse a qualunque perturbazione della fortuna e a qualunque ruina delle cose sue coll'animo equabile e col volto mai mutato. Potè adunque Socrate questo non da' cieli, ma da sé stessi; ché volle, e volendo potette. Né solo si recita Socrate in questa parte degno di lode: raccontansi molti altri ne' quali fu simile animo bene retto; nel numero de' quali fu Diogene cinico, uomo in sua estrema povertà abietto, svilito e talora percosso: pur potea, quanto e' volea, sofferire e' suoi disagi e l'altrui iniurie. Non racconto Pirro, Eraclito, Timon e simili, quali furono contro alle perturbazioni da sé stessi ben retti e quanto egli istituirono ben costituti, e contro gl'impeti della fortuna sua bene offirmati. Pericle, omo in Grecia e fra e' suoi cittadini reputato e ottimo e primo, sofferse intera una cena sino a molta notte un temerario ottrettatore e maledico; e per più meritare di sé e di sua constanza, patì che lo perseguitasse improverando per insino a casa; e più, con fronte nulla commosso e con le parole nulla alterato, comandò ai servi suoi che a costui, omo iniurioso e incivile, facessero lume e compagnia dovunque e' volesse andare. Non volle adunque Pericle, castigando l'altrui errore, contaminare sé stessi e ricevere a sé la perturbazione quale gli era importata; e non la ricevendo, la fece lievissima e spensela tanto quanto e' deliberò sofferendo e vincendo sé stessi aversi uomo e meritare della virtù sua. Che ti parse di quel Metello numidico cacciato da' suoi cittadini romani non per altro se non perché in lui splendea troppa virtù? Quale, sendo in Asia in teatro mezzo dello spettaculo, gli fu nunziato che la sua patria lo rivocava a grazia con amplissimo beneficio. In tanta sua letizia osservò constanza, e in suoi gesti nulla fu veduto mutarsi.
Adunque in le cose prospere e in le cose avverse troviamo che gli uomini possono in se stessi quello che molti niegano potersi. E meravigliomi del giudicio loro s'egli stimano non potersi moderare le nostre volontà e appetiti in queste cose caduce e fragili, quando e' vedono che chi non abandoni se stessi, può contro alle cose gravissime e durissime più quasi che la natura non li richiede. Quanti sono che soffersono estremi cruciati e intollerabili dolori con animo invitto e fortissimo! E chi non sa che in noi, moderati gli appetiti e frenate le volontà, nulla resta donde ne insurga alcuna perturbazione? Potranno adunque gli uomini le cose da natura acerbissime e molestissime, e non potranno le cose facili e paratissime? Muzio Scevola pose la mano in mezzo el fuoco, e Pompeo vi pose el dito; e molti altri raccolti da Valerio istorico si vede poterono, e dove e quanto a loro non dispiacque, esser constanti ed erti contro non solo a movimenti lievi dell'animo ma e contro a gravi dolori.
Ma che raccontiamo noi questi uomini rarissimi? E dimmi: non vediamo noi tutto el dì e' nostri servi abietti, oppressi dalla lor fortuna, attriti da' disagi, lassi dalle fatiche, in mezzo de' loro mali e ridere e cantare? Chi gli domandasse: perché ridi? credo risponderebbono: perché mi piace; e perché canti?: perché così voglio e cantare e star quieto e rallegrarmi a mia posta. Pesa loro la lor fortuna? S'ella pesasse, non sarebbono alla levità del ridere o del cantare espediti. S'ella non pesa, donde vien questo altronde che dal volere con ragione quello che per necessità li conviene sofferire? Fanno costoro pertanto, così volendo, men grave il suo male, o più forti sé a sostenerlo; o forse in prima così volendo solo col volere propulsano da sé ogni molestia.
Non adunque reputeremo sì grave né sì acerbo quello che sia in noi farlo quanto vorremo minore e men difficile. Ma intervienci come alla colonna: mentre ch'ella tiene sé in stato ritta e in se stessi offirmata, ella non solo se sustenta ma e ancora sopra ivi regge ogni grave peso; e questa medesima colonna, declinando da quella rettitudine, pel suo in se insito carco e innata gravezza ruina. Così l'animo nostro, mentre che esso se stessi conforma con la rettitudine del vero e non aberra dalla ragione, qual sopravi imposto incarico sarà che lo abatta? Fa che lo animo penda a qualche obliqua opinione, per sua proclività ruina e capolieva. Rammentami vedere la nostra gioventù a quel giuoco de' pugni, dando e ricevendo le picchiate, contundersi e infrangersi el viso, le mani, el petto, tornare fiacchi, lividi, senza aver dato in tanto dolore un picciol gemito. E di que' medesimi forse poi vidi qualche uno punto da una zenzada con gran voce mostrare la sua levità e impazienza. E questo onde avviene se non che ivi l'opinione adritta a virilità lo 'nduce a volere soffrire, e volendo gli si rende el dolore picciolo e da sofferirlo; qui la mollizie effemminata dell'animo per se stessi bieca e obliqua ad impazienza e intolleranza puerile?
Dicea Ermete Trimegisto antiquissimo scrittore: “la volontà, o Asclepi, nasce dal consiglio”. Chi adunque ben consiglia, ben può quanto e' vuole. Vuolsi adattare l'animo a virtù. Conduceravvelo la ragione; e sempre sarà l'animo osservatore della ragione purché la sinistra volontà nollo svii; e sempre fie pronto donde tu possa ben consigliarti in vita col modo e via di tradurti grato a te stessi, accetto agli altri e utile a molti.
Né si vuole giudicare quello che tu possa di te stessi prima che tu lo pruovi; e provando, se bene non fussi, diventerai atto a vincere ogni insulto avverso vincendo te stessi. Ma noi, alcuni, troppo ne disfidiamo, e come in milizia chi sia inesperto e timido, così noi fuggiamo al primo strepito e ombra degli inimici, e prima succumbiamo coll'animo che noi conosciamo quanto possa chi ne urteggia. E come e' dicono che molti arebbono acquistata sapienza dove e' non avessono prima persuaso alla opinione sua d'esser savi, così, contro, non pochissimi rimangono sanza lode dove non si fidorono potere quanto volendo li era lecito potere. Così mi pare qui tra noi resti assai esplicato che noi uomini bene consigliati tanto potremo di noi stessi, di nostro animo, volontà, pensieri e affetti, quanto vorremo e instituiremo.
NICCOLA. Doh! Agnolo, che dura e iniqua sorte fie quella de' mortali se trovaremo in vita niuno sì inculto di dottrina, sì alieno d'ogni ragione, quale udendo queste vostre gravissime e approbatissime sentenze, non v'assentisca e confessi ogni vostro detto esser vero; e d'altra parte si truovi niuno sì perito e sì essercitato in cose lodate a bene e beato vivere, quale con opra affermi quanto e' con parole confessa doversi. E pensiamoci un poco. Se voi domandassi el fratello, el padre, la madre d'uno di quei fortissimi cittadini quali perirono superati da Annibale presso al laco Trasumeno qui presso a Cortona: “E che vi dolete? Queste vostre lacrime che giovano? Non sapete voi che il pregio di queste cose sottoposte alla fortuna non sta, in buona o mala parte, altrove posto che in la nostra opinione? Qualunque cosa avvenga a noi mortali mai sarà da chiamarla o riputarla male se non quanto ella a noi nocerà. Nulla nuoce se non quanto per lei si diventi piggiore. La ingiustizia, la perfidia, la crudelità fa non te piggiore, ma colui in cui ella abita. Per qualunque sopravenga fortuna avversa, per qualunque iniuria de' pessimi uomini, mai sarà chi diventi piggiore se non quanto e' vorrà, mal sofferendo se stessi, male avere. La morte sta a chi nacque natural condizione impostagli dal primo dì ch'egli apparisce in vita. E chi ben ripensa le miserie del viver nostro, la morte non è altro che uscire d'uno carcere laboriosissimo e d'una assidua fluttuazione e tempesta d'animo. Giovi a chi espose el sangue suo per salute della patria sua essere uscito di vita con laude, merito e grazia de' suoi”, - dico, Agnolo, se voi usassi presso a que' calamitosi parole simili, che vi risponderebbono essi? Credo la madre, vinta dal dolore, arebbe poco atteso e meno inteso alcuna delle vostre parole. El padre forse, più maturo e d'età e di consiglio, risponderebbe: “Agnolo, voi dite el vero; ma a me quello che è grave continuo preme, e dove e' mi preme, non dubitate, e' mi duole”. El fratello forse risponderebbe: “Se così fusse facile el soffrire gl'incomodi e le calamità con quale la nostra fortuna ne fiacca come è a voi, uomo dottissimo, el disputarne, rendovi certo ch'io m'arei levata questa molestia ingratissima dall'animo. Ma io sento dal dolor mio quel ch'io non so con parole esplicarvi, donde e' sia da non assentire a queste vostre ragioni qui addotte”. Così credo vi risponderebbono. E forse se fra costoro vi fusse un di questi severi supercilii stoici, inventori e disputatori di queste discipline, so risponderebbe: “Non ci ricordate che noi perseveriamo in ogni officio e costanza. Queste cose caduce e fragili sono al tutto escluse da' pensieri e dalle voglie nostre, e sono gli animi nostri adiudicati a cose per quali viviamo beati e acquistianci immortalità”. Simili, credo, sarebbono le loro parole. Ma e' fatti quali sarebbono? Quanto converrebbono co' detti loro? E' me gli pare vedere disputare con una maiestà di parole e di gesti, con una severità di sentenze astritte a qualche silogismo, con una grandigia di sue opinioni tale che t'aombrano l'animo, e parti quasi uno sacrilegio stimare che possino dicendo errare. Odi que' loro divini oraculi: “Tu mortale cognosci te stessi. Di cose poche e minime si contenta la natura. A chi sia savio mai mancano le cose ottime, mai avviene cosa sinistra, sempre vive libero e sempre vive lieto”. Poi ostentano quella ambiziosa austerità del ripreendere chi sé forse dia alle delizie; mordono chi curi le cose caduce e fragili; perseguitano chi succomba al dolore; inimicano chi tema e' pericoli; odiano chi non esca di vita con animo invitto e nulla perturbato. Uomini prestantissimi! Uomini rari! E voi con opra come approvate e' vostri detti? Qual fie di voi che potendo non volesse più tosto viver lauto e splendido, che povero e assediato da molti incommodi?
Crates filosofo volle la casa magnifica, gli apparati regi e vari ornamenti, vasi d'oro gemmati, mense argentee; qual cose e' predicava da nolle stimare. Aristippo, quell'altro filosofo, comperò una perdice cinquanta dramme. A Senocrate filosofo donò Dionisio tiranno una grillanda d'oro in premio perché e' vinse tutti gli altri a bevere. Lacides, pur filosofo, per troppo bere divenne paralitico. Non racconto Bione filosofo quale, domandato che cose facendo in vita lo rendesse lietissimo, rispuose: guadagnando. Ma mi maraviglio del nostro Aristotile che per delicatezza si lavasse nell'olio tiepido e per avarizia poi lo vendesse a' suoi cittadini. E Zenone stoico, padre ed esplicatore di questa austera e orrida filosofia, quale per insino alli dii prescrive severità, e con parole combatte assiduo contra la fortuna ed estermina e succulca da sé ogni sua licenza e beneficio, coll'opra come si porta? Egli udì che le sue possessioni erano arse e guaste dagli inimici; perturbossene in modo che 'l re Antigono, quale lo estimava quasi come un dio mortale in terra, se ne maravigliò, e forse ne iudicò quello che iudico io, che molti ragionano delle cose aspere e dure in ombra e in ozio non male, quali le soffrirebbono credo poi non bene. Chi fu in ogni suo detto e scritto più ostinato biasimatore di chi cede alla fortuna e non affermi la sola virtù essere ultimo bene a' mortali; chi fu in simile superstizioni più veemente ripreenditore che 'l nostro Seneca latino stoico? E qual fu egli in fatti? Quanto dissimile dalle parole! Scrive Cornelio istorico che costui tanto temette la morte che per non cadere in insidie quale e' temea da Nerone e da' suoi veneni, più tempi non si fidò mangiare altro che pomi e frutti crudi, né bevve altro che acqua di quella solo che surgeva fuori da entro della terra.
Potrei raccontarvi molti simili. Ma questi a che fine? Solo per inferire quello ch'io sento e giudico, e dico: se questi uomini dotti ed essercitatissimi, inventori, defensori e adornatori di queste simili sentenze più tosto maravigliose che vere, o non poterono secondo noi altri men dotti, o forse, secondo voi prudentissimi, non seppero nulla stimare le cose caduce e poco temere le cose avverse, noi altri e d'ingegno e di condizione e di professione minori e in ogni grave cosa più deboli, chente potremo? S'io non erro, tutti vorremo vivere sanza sollicitudine e acerbità. Ma che a me, o se io non so e non sapendo non posso, o se in tutto io non posso quanto io vorrei? Alcuni poterono soffrire el dolore, nulla curare la miseria, ridere la sua fortuna. E Muzio Scevola potette sofferire lo incendio della mano. Molte maggior crudezze possono in noi le paure, le iracundie e gli altri simili furori. Didone precipitata da furore uccise se stessa. Molti per paura di maggior tormenti deliberorono uscire di vita. E quegli altri cupidi di gloria, che col fronte e colle parole ostentorono in sé maravigliosa durezza contro a' casi e contro alle perturbazioni, Dio lo sa se l'animo loro era pacato e tranquillo. E pure, se uno e un altro si truovò in cui non fusse alle calamità sue sentimento e animo umano, furono o dii o certo non uomini. Chi non sente le cose che senton gli altri infiniti uomini, costui solo non è uomo. Se negli animi umani abita la carità, se v'ha luogo l'amore, convien che vi cappia l'ira e la indignazione e simili. Che maraviglia adunque se uno animo umano desidera e' suoi? Miracolo sarà, anzi immanità non gli desiderare, e desiderandogli non dolersi di non gli avere. Se v'è sentimento delle cose nocue e nimiche, chi sarà che nulla si dolga in le sue calamità? E' si vuole ben consigliarsi colla ragione, adattar l'animo a virtù. O Agnolo, rammentavi quel detto di quello antico Gione: “tanto duole a un calvo quanto a un ben capillato quando tu lo peli”. Ma che noi pure ne trastulliamo con parole dove bisognerebbono e' fatti? Dicea Cesare presso a Sallustio: qualunque consiglia conviene che sia libero d'ogni perturbazione. E noi vorremo che l'animo urtato dagli impeti avversi, caduto in miseria, perturbato dal dolore, ben consigli sé stessi. L'animo non sano, dicea Ennio poeta, erra sempre.
Ma non voglio estendermi, ch'io sarei prolisso. Tanto vorrei da questi dotti come da un duttore e addirizzatore del naviglio, non che e' mi disputasse, - e' si vuole alla tempesta ridursi in porto e ivi fuggire ogni impeto di venti avversi, - ma mostrassi qual via e modo mi riduca là dove io mi riposi in ozio e tranquillità. Così questi filosofi, medicatori delle menti umane e moderatori de' nostri animi, vorre' io m'insegnassero non fingere e dissimulare col volto fuori, ma entro evitare le perturbazioni ed espurgare dall'animo con certa ragione e modo quello che essi giurano potersi.
AGNOLO. Vedi, Niccola, queste sono materie dove bisognerebbe ragionarne con più ozio e con più premeditata ragion di disputare. Io resterò d'oppormiti com'io cominciai, ché ti vedo apparecchiato a confutarmi, e sento l'ingegno tuo acuto e pronto; e non m'è occulta quest'arte tua con quale tu studi nascondere quell'arte vulgata dello argumentare disputando; e dilettami. Ma credi tu ch'io non conosca che tu giudichi di queste cose quello che giudicano tutti e' dotti, che chi vuole opporsi alla fortuna, sostenere e' casi avversi e curare nulla altro che la virtù, può? Non insistiamo più in questo, ma consideriamo questo potere quale e di che natura e' sia. Io non potrei dipingere né fingere di cera uno Ercole, un fauno, una ninfa, perché non sono essercitato in questi artifici. Potrebbe questo forse qui Battista quale se ne diletta e scrissene. Tu, Niccola, come neanche io, non potresti atto schermire, lanciare, lottare. Potrebbe questo qui Battista in questa sua età robusta, quale in simile cose diede opera ed essercizio. Non potrebbe, no, Battista, come quel Milone atleta, portare uno bue vivo in ispalla, né, come Aulo Numerio, centurione e commilitone di divo Iulio Augusto, contenere con una mano l'impeto di più giumenti, né come quello Atamante qual Plinio vide andare pel teatro vestito di cinquanta corazze di piombo e calzato con coturni che pesavano libbre cinquecento. Né forse potrebbe Cicerone ben lodare Clodio suo capital nimico, sendogli in odio e in dispetto suoi detti e fatti. Così compreendiamo che alcune cose da natura non si possono; alcune non da natura non si possono, ma da nostra inerzia, desidia e concetta opinione sono da noi stessi vetate. Tu dicesti, ciascuno vorrebbe vivere soluto e libero in queste cose quali più sono facili a disputarne che a sofferirle. Ma quel ch'è difficile a questi disputatori, a noi non par possibile. Guarda, Niccola, s'egli è così, che dove ogn'uomo può, rari vogliono ben meritare di sua virtù. Raccontasti uno e un altro splendido e curioso delle cose caduce. Chi ti loda in loro quello che non fu loro debito? E di che disputiamo noi, di quello che fecero, o pur di quello che e' poteano e potendo doveano fare? E se dalla vita e costumi loro dobbiamo argumentare e statuire le ragioni e modo del vivere bene e lodati, raccontiamo quegli altri molti più che questi, pur filosofi, quali furono contenti d'una sola e trita vesta, quali per loro diversorio abitavano un vaso putrido e abietto, quali vissero non d'altro che di cavoli, quali sì abdicorono da sé ogni cosa fragile e caduca che né pure una scodella volsero ritenere a sé. Non te li racconto, ché fuggo anche io esser prolisso; ma tu, omo litterato, riducetegli a memoria e teco pensa donde questi miei così poterono quello che que' tuoi non volsero, e pensa donde que' tuoi non volsero quello che volendo poteano pari a' miei. Troverrai che questi così poterono perché volseno vincere sé imprima e' suoi appetiti e volontà; quelli non volseno frenare e moderare sé stessi, però soluti e sciolti meno poterono contenersi in suo officio. Seneca fuggì cadere in insidie e veneno di Nerone. Dicea quel prudentissimo Agamenon, presso ad Omero, doversi riprendere niuno quale o dì o notte che fusse, fuggissi di non incontrarsi al male. Altra cosa è vitare gl'incommodi, altra vinto succombere sanza prima concertare e provare sé stessi e sua virtù. Quello è prudenza provedere e schifare el dispiacere; questo si è ignavia abbandonare sé stessi. E sarà fortezza fare come e' dicono che fa la palma, legno qual sempre s'accurva e impinge contro al suo incarco. Questo ti confesso potrà meglio chi più sarà essercitato nelle durezze de' tempi, nella asperità del vivere, e chi già fece e' calli sofferendo. Diresti; che cagione adunque perturba in noi tanta ragione e officio? Rispondere'ti quello che testé m'occorre a mente; e considerianci, Niccola, s'io m'abatto al vero. Gli animi nostri gli fece la natura atti ad eternità, simplici, nulla composti, non da altri mossi che da sé stessi. La eternità credo io non sia altro che una certa perfezione e continuazione inviolabile di vita e d'esser sempre uno e medesimo. Quello che fu prima coniunto e ascritto alla vita si pruova essere el moto. E' movimenti dell'animo non accade raccontarli qui, ma restici persuaso che l'animo può mai starsi ocioso, sempre si volge e avvolge in sé qualche investigazione o disposizione o appreensione di cose, quali se saranno gravi, degne e tali ch'elle adempiano l'animo, nulla più altro vi si potrà immergere; se saranno lievi, galleggeranno mezzo a' flutti della mente nostra, e, come avviene, di cosa in cosa ondeggeranno e' nostri pensieri persino che picchieranno a qualche scoglio di qualche aspra memoria o dura alcuna volontà, onde poi ivi noi sentiamo gli urti dentro al nostro petto iterati e gravi. Perturbasi ancora in noi l'animo dissoluto dalla ragione e condutto dalla opinione a iudicare falso delle cose buone o non buone, come tutto el dì vediamo non rari infetti da questa commune corruttela del vivere, quali e piangono e godono più per satisfare al giudicio e sensi altrui che a sé stessi. Ma io di me voglio esplicarvi in qual numero io sia infra e' mortali. Io, Niccola mio, s'io fussi uno di que' calamitosi, desidererei le mie care cose, e non affermerei essere in me sì assoluta e perfetta virtù che non mi dolesse la perdita de' miei; ma cercherei le vie e modi da levarmi ogni molestia dell'animo. E per quanto e' mi paia conoscere, egli è in pronto e quasi in grembo di ciascuno el potersi acquietare da ogni perturbazione e prima ch'elle offendano e poi che tu le concepesti. E poi che 'l ragionare ne condusse a questo, riconosciamo insieme s'io erro.
Comincianci da questo capo. Le perturbazioni, voglio favellare così, piovono e versansi nell'animo nostro vacuo. Onde? Certo diranno alcuni surgere o dalla perversità de' tempi, o dalla nostra propria iniqua fortuna, o da qualche duro caso, o dalla nequizia e improbità degli altri uomini, o da qualche nostro errore. Altronde non vedo che in noi possa insurgere acerbità o tedio alcuno. Ma, dirò io, cosa niuna estrinseca potrà ne' nostri animi se non quanto noi patiremo ch'ella possa. E parmi accommodata similitudine questa. Come alle tempeste del verno ne addestriamo e apparecchiamo, coperti e difesi dalle veste, dalle mura, da' nostri refugi e ridutti, e se pure el tedio delle nevi, la molestia de' venti, le durezze de' freddi ne assedia e ostringe, noi oppogniamo e' vetri alle finestre, e' tappeti agli usci, e precludiamo ogni adito onde a noi possa espirare alcuna ingiuria del verno; e se saremo robusti e fermi, vinceremo ogni sua asprezza e acerbità e rigore essercitandoci ed eccitando in noi quel calore innato e immessoci dalla natura a perseverar vita alle nostre membra; se forse saremo malfermi e imbecilli, ne accomandaremo al fuoco e al sole e alle terme: così alle volubilità e impeti e tempeste della fortuna bisogna addestrarsi e apparecchiarsi con l'animo, e precludersi dalle perturbazione ogni adito, ed eccitare e susservare in noi quello ignicolo innato e insito ne' nostri animi quale v'aggiunse e infuse la natura ad immortale eternità. Addesterremo e apparecchieremo l'animo nostro contro a' commovimenti de' tempi e contro alle ruine de' casi avversi, in prima col premeditare e riconoscere noi stessi, poi col giudicare e statuire delle cose caduce e fragili, non secondo l'errore della opinione, ma secondo la verità e certezza della ragione.
Dicea Tales filosofo essere difficile el conoscere sé stessi. Non so in qual parte sia da interpretare questo suo detto, ma a me non pare difficile conoscermi uomo simile agli altri uomini, tali quali gli descrive Apulegio. E chi dubita nell'uomo esservi ragione? Sentilo ragionare, ed etti persuaso che l'animo dell'uomo sia immortale. Vedi e' suoi membri atti a mancare e perire; conosci quanto sia suo mente lieve e volubile e quasi mai senza ansietà; affermi el corpo suo essergli in molti modi noioso; discerni infra gli uomini costumi al tutto vari e molto dissimili. Non puoi negare che in loro gli errori sono simili: ardiscono troppo, sperano con pertinacia, affaticansi in cose non certe né utili; loro beni caduci a uno a uno muoiono; la moltitudine perpetuo vive; mutansi di prole in prole; vola loro età; tardi a sapienza, presti a morte, queruli in vita, abitano la terra. Adunque premeditando e riconoscendo noi stessi, ne accoglieremo pensando: a che nacqui io? venni io in vita forse per tradur mia età vacua e disoporosa? Questo intelletto, questa cognizione e ragione e memoria, donde venne in me sì infinita e immortale se non da chi sia infinito e immortale? E io, lascerò io me simile a un ferraccio macerare e marcire in ozio, sepulto in mezzo el loto delle delizie e voluttà? Non giudicherò io mio debito, essercitandomi in cose pregiate e degne, ben cultivare me stessi e ben meritare di mia industria e virtù? Resterò io di spogliare e astergere da me assiduo ogni improbità e ruggine di vizi? Queste due cose qual dicea Seneca filosofo esserci date da Dio sopra tutte l'altre validissime, la ragione e la società, lascerolle io estinguere per desidia e inerzia e nulla valere in me? O forse le adoperrò solo in servire a questo corpo mio e a queste membra noiose e incommode? Non mi diletterà più adattarle a gloria e immortalità del nome, fama e degnità mia, della famiglia mia e della patria mia? Non premediterò io assiduo me essere nato non solo, come rispose Anassagora, a contemplare el cielo, le stelle e la universa natura, ma e ancora in prima, come affermava Lattanzio, per riconoscere e servire a Dio, quando servire a Dio non sia altro che darsi a favoreggiare e' buoni e a mantenere giustizia? Così mi si richiede; e io così sponte e volonteroso delibero. Su, dianci coll'animo a queste opere ottime e gratissime al nostro padre e procreatore Iddio. A' buoni, a' quali deliberammo favoreggiare, non attaglieranno l'opere nostre non buone; né ben potremo mantenere giustizia se non saremo nimici d'ogn'ingiustizia. Adunque dedichiamo l'animo nostro a esser vacuo d'ogn'ingiustizia e pieno di bontà. Quinci saremo in ogni officio d'umanità e culto di virtù ben composti, e ben serviremo alla naturale società e vera religione, e preporrenci in ogni nostra vita esser constanti e liberi.
Dicono la levità esser vizio nimico a ogni quiete. Alla libertà ascrive Lisia oratore esser proprio far cosa niuna contro a sua volontà. Niuno si truova più lieve che colui el quale non ferma el suo volere a qualche certezza; e fa niuno tanto contro alle voglie sue quanto colui che pur vuole quel che e' non ha, però che ciò che e' fa per averlo vorrebbe non lo fare. E a precludere queste moleste voglie gioverà considerare le cose con ragione e verità, non con quella opinione qual biasimava Aristones filosofo in noi mortali, e meravigliavasi donde fusse che gli uomini si dessono a intendere d'esser beati più dalle cose superflue che dalle necessarie. E molto gioverà in noi statuire che le cose buone e necessarie sono e poche e facili, dove, contro, le non necessarie sono molte e fallaci e fragili e difficili e raro oneste. Quale, se ben fussero da pregiarle, dobbiamo riconoscere in noi quello che ne ammonia Pittagora, che cosa niuna fuori di noi si truovi nostra; e non che nostra, ma né volle la natura noi omicciuoli esser d'altro che di noi stessi custodi, quando di tante sue cose la natura solo a noi lasciò un picciolo uso d'una minima parte. E quando ben fussero ottime e nostre, riconosciamoci mortali ed assiduo penderci da molti vari casi sopra capo e non lungi la morte. E se bene vivessimo gli anni di Nestore o di qualvuoi altro che più visse, ricordianci assidui, come disse Manilio quel poeta:
…labor ingenium miseris dedit et sua
quemque
advigilare
<sibi> iussit fortuna premendo.
E certo, come disse Crisippo, troverrai niuno infra e' mortali a cui non spesso occorrano cose da dolorarlo.
Adunque pensaremo che ogni volubilità della fortuna possa in noi di dì in dì quel ch'ella suole in tutti gli altri mortali. Ma in questo pensiero non però ci attristeremo quasi come tuttora aspettassimo qualche ruina in nostre fortune e cose. Né ancora solliciteremo noi stessi a curare ogni minimo movimento de' tempi e delle cose, perché, come scrisse Augusto principe ad Liviam questo sarebbe un perpetuo estuare coll'animo e un quasi straccare sé stesso. Ma ben ci prepareremo e offirmerenci coll'animo a sopportare senza contumacia ciò che possa avvenire. E se pur cosa verrà contro tua volontà, prepàrati che non venga contro a tua opinione. Stima che in te potranno le avversità quanto poterono in ciascuno degli altri uomini. Con questo premeditare che tu se' mortale e che ogni duro caso può avvenirti, asseguiremo quel che molto si loda presso de' prudenti, quali ne ricordano: diamo opera ch'e' tempi passati e questi presenti giovino a que' che ancor non vennero, e ricordianci che ne' tempi della seconda fortuna prepariamo e' rimedi contro l'avversità. Così noi in questa tranquillità d'animo assettianci a un curare poco e a un quasi dimenticarci le ingiurie della fortuna prima che ne offendano. E interverracci simile a quel Bion filosofo, qual morendo si gloriava mai avere in sua vita sofferto cose contro a sua voglia. E così addestrati col tempo impreenderemo non dedicarci a stimare e amare le cose più che a loro si convenga.
Modera la oppinione e iudizio, tempererai gli affetti e' moti dell'animo. Temperato l'amore, si spegne la volontà. Estinta la volontà, non desidererai; non desiderando, non ti duole el non avere o avere quello che tu nulla stimi. Dicono: ama la patria, ama e' tuoi sì in far loro bene quanto e' vogliano. Ma e' dicono ancora che la patria dell'uomo si è tutto el mondo, e che 'l savio, in qualunque luogo sarà constituto, farà quel luogo suo; non fuggirà la sua patria, ma addotterassene un'altra, e quivi arà bene assai dove e' non abbia male, e fuggirà sempre essere a sé stessi molesto. E lodano quel detto antiquo di quel Teucer, uomo prudentissimo tanto nominato, qual dicea che la patria sua era dov'egli bene assedesse. E sono miei quegli pe' quali io viva contento e quieto coll'animo; quelli vero pe' quali io viva discontento e perturbato, sono non miei, ma più tosto alieni e da connumera'gli fra' nostri nimici. Aggiugni a queste che per escludere da noi ogni gravezza d'animo, molto s'acconfarà fuggire que' luoghi, quelle cose, quelle persone, quali siano atte a importarci molestia e perturbazione.
Fra la moltitudine puoi né stare né andare che tu non sia urteggiato. Sentenza di Crasso oratore: le volontà di colui non esser libere, quale sia osservato da molti. La solitudine sempre fu amica della quiete; e questo vero quando la sia non oziosa. L'ozio, - chi dubita? - nutrisce ogni vizio; e nulla più perturba che 'l vizio. Dicea Ovidio:
et capiunt vitium, ni moveantur, aquae.
Molto più l'animo, nato a mobilità e varietà, più che ogni onda. Sarà adunque la solitudine con qualche essercizio, de' quali più giù diremo. E poiché tante cose aduniamo e facciamo e ordiniamo per salute del corpo per gratificare alle nostre membra, curiamo quando che sia la salute dell'animo nostro. Dicea Omero poeta che agli uomini nascono molti mali dal ventre; e noi pur ci diamo a servire al ventre, onde a noi resultano infiniti incommodi. Dianci adunque a vivere non alle membre nostre ma a noi stessi, cioè a ben fruttare el nostro ingegno. Quando vediamo che sollecitarci in curare le cose di fuori di noi, sono nostre opere e nostri pensieri tanto d'altrui e non nostre quanto quella e quell'altra cosa la richiede e adopra, lascianle guidare alla fortuna di chi elle sono. Non però voglio posporre la salute del corpo; volo sustentare, non saziarlo. Dicea Diogenes cinico: se col grattarsi el ventre si sedasse la fame, forse sì farebbe per gli uomini e forse che no. La fame, se non gli satisfai, infesta e fassi ubidire. Apulegio, accusato, negava sé esser pallido per le cure amatorie, ma affermava che le fatiche degli studi lo allassavano. Quattro cose connumerano e' fisici esterminare e prosternere in noi le forze della natura: il dolore, le vigilie, el fetore, le cure dell'animo. E non so come, indebolite le membra, l'animo sia men libero e men suo. Adunque daremo al corpo quantunche bisogna, e ritrarremolo dalle cose nocive alla sanità. E per non eccitare all'animo altre cure, schifaremo d'avere più d'una faccenda qual sia nulla grave o difficile più che possino le forze nostre. Non però in questa porremo ogni nostro studio, ogni opera, ogni assiduità; anzi interlasseremo qualche ora, e poseremo quando che sia quella veemente contenzione d'animo e perseveranza di nostro studio. Asinio Pollione, nobile oratore, scrive Seneca, sino all'ora del dì decima sé essercitava in ogni laboriosa industria: doppo all'ora decima sé contenea in tanto ozio che neppure leggea le lettere scrittegli da' suoi amici. E non senza onestissima ragione e' nostri maggiori patrizi in Roma vetavano si facesse in Senato dopo certa ora nuova relazione, ché voleano a tante faccende interporvi qualche ozio e quiete. Antioco re, dopo che perdé l'Asia, ringraziò el Senato di Roma e fu lieto gli si minuissero faccende. E noi poco prudenti non solo con troppa sollicitudine ci affanniamo in più nostre faccende, ma e non richiesti intraprendiamo le faccende altrui. Antiquo proverbio: chi s'impaccia rimane impacciato. E dispiacemi la stultizia di molti quali, nulla curiosi d'addestrare se stessi a virtù, mai restano investigare e' fatti e detti altrui. E interviene loro come a chi ama, quale scrive quel vezzosissimo poeta Properzio:
… rursus puerum quaerendo audita fatigat,
quem, quae scire timet, quaerere plura jubet.
Interverratti forse che ti converrà inframettere a qualche faccenda aliena dall'ozio tuo. Tu qui pon quello studio in pensar di non la ricevere a te qual tu porresti in essequirla ricevendola. Argumentava Aristotile in questa forma: come la guerra si soffre a fine di pace, così le faccende si pigliano per assettarci in ozio. Qual cosa non potremo se non satisfarèno alle necessità, e per adempiere la necessità cerchiamo l'utile. Ma cosa niuna disonesta sarà mai necessaria. Per vivere adunque in ozio onesto intrapreenderemo le fatiche, non per agitarci ambiziosi e ostentosi. Onde a me coloro paiono pessime consigliati quali curano fra le prime cose la repubblica e spesso abbandonano le sue faccende per agitarsi in quella ambizione de' magistrati; e ripresi rispondono così doversi dove chi si sta sia lasciato stare, e pare loro non essere uomini se non sono sollicitati e richiesti da molti. Questi a me paiono poco prudenti se fuggono starsi contenti di sé stessi e pertanto liberi e beati. Solea dire Galba, quello uno de' dodici principi romani: niuno mai sarà sforzato a rendere ragione dell'ozio suo. Né senza cagione ascrivea l'Epicuro agli dii summa beatitudine el convenirli far nulla altro che contemplar sé stessi. Né mi dispiace quel detto di Crasso, qual negava parerli omo libero colui qual talora non possa far nulla. E in una nave, come argomenta Platone, se al governo siede omo atto e destro a quello essercizio, che arroganza sarà quella di chi ne lo lievi e prepongasi ad amministrare le cose? E se non v'è atto, che a te? Non voler tu solo di quello che è publico più che se ne vogliano tutti gli altri. Ma quello temerario qual non sa regger sé in quiete e in tranquillità, come reggerà gli altri? Come più uomini? Come uno intero popolo e moltitudine? Non mi stenderò in questa parte. E non racconto quante perturbazioni apporti seco ogni ambizione e ostentazione di nostra virtù e prudenza e dottrina, onde, lasciamo le invidie quante elle siano in altrui, e certo in noi insurge cagion di contendere e gareggiare, e ogni contenzione e gara tiene in sé faville di rissa, quale agitate accendono grave odio e inimicizia. Atqui amat victoria curam, dicea Catullo; e colle gare e colle concertazioni sempre fu iunta la indignazione; e gli sdegni sono nella vita dell'uomo mala cosa, e troppo atti a troppo perturbar e' nostri animi. Ateglies Samio atleta, nato muto, sendogli ratto el premio e titolo della vittoria in teatro, acceso d'indegnazione ruppe in voce e sgroppò la lingua a favellare e condolersi. Cleopatra, spreta da Cesare Augusto, sé stessi uccise. Tanto possono in noi gli sdegni non solo commuovere gli animi atti e quasi fatti a perturbazione, ma ancora travaricare e pervertere ogni instituto e ordine di natura. Ma di questo altrove.
Alcuni da natura sono suspiziosi, acerbi, proni ad iracundia. Voglionsi schifare, però che come l'altrui incendio scalda e' nostri prossimi parieti, così l'altrui infiammata ira nuoce a chi, e cedendoli e vitandoli, non se allontana. E sopratutto que' che sono inerti, oziosi e insieme lascivi e prosecutori delle voglie sue. E in prima si voglion fuggire e' raportatori, e massime e' bugiardi, que' potissime che sono versuti e callidi; da qual sorte di gente mai ti resterà se non che lagnarti e indegnarti. E con tutti conviensi esser tardi al credere e persuaderti ch'ogni uomo sia buono. E chi ti referisce male d'altri, quasi protesta non amarlo; e chi non ama chi tu reputi buono, mostra te essere imprudente iudicatore delle altrui virtù, e d'altra parte mostra sé esser non buono. Non si li vuol credere. Per gli orecchi, dicono, entra la sapienza; ma e ancora indi, non meno che per gli occhi, entra perturbazione e tempesta non poca a' nostri animi. Adunque otturiàngli. Fu chi volle viver cieco per meglio filosofare e per non vedere d'ora in ora cose quale lo distraessero dalle sue ottime cogitazioni e distogliessero dalle continue sue investigazioni di cose occultissime e rarissime. Non ardirei biasimare tanto filosofo, ma né ancora saprei imitarlo. Più mi diletterebbe quel Cotis principe a cui recita Plutarco che fu presentato alcuni vasi di terra bellissimi e lavorati con figure e cornici maravigliose; el quale accettò el dono con ogni grazia, e molto gli mirò e lodò, poi gli ruppe per non avere a crucciarsi se un de' suoi forse gli avesse lui rotti. Così noi; e faremo come a Vinegia que' che seggono iudici a' litigi: quando e' si consigliano per pronunziare la sentenza, oppongono una tavoletta, e ivi dopo iunti e' capi si consigliano. Noi per intercluderci e nasconderci da molte inezie e fastidi del volgo e degli insolenti, ne opporremo el libro in quale occupati acquiesceremo. E poi che oggi così si vive che nulla si fa o dice non fitto e simulato, prima ne consiglieremo e col tempo e con noi stessi quanto sia da credere o refutare ogni altrui parola o fatto; e delle nostre saremo massai più che di cosa alcuna, però che la parola uscita mai si può revocare: se taci, sempre puoi non tacere. Sentenza d'Ippocrates: el tacer non dà sete. Né qui ancora mi stendo in raccontare come la natura oppose due valli e siepi alle parole nostre, denti e labbra; all'udire diede due aperte vie e patentissime. Piaceracci adunque ubidire la natura: udiremo di qua e di qua; el parlare nostro lo riconosceremo datoci non per detraere, non per eccitar discordie e danno ad altri, ma per commutare nostri affetti, nostri sensi e cognizione a bene e beato vivere.
Un precetto approvano gli antichi a vivere in pura tranquillità e quiete d'animo: che mai pure pensi far cosa quale tu non facessi presente gli amici e nimici tuoi. Ma a me pare potere affermare questo, che chi viverà disposto di mai dir parola non verissima, a costui mai verrà in mente cosa non da volerla fare palese in mezzo della moltitudine, in teatro. Quanto sia la verità degna e utilissima a ogni ferma quiete, e contro, quanto sia impedimento e forza a disturbarci nella busia, altrove sarà da ragionarne. E poi che facemmo menzione degli amici, prestaremo ogni diligenza in non accoppiarsi a familiarità di chi a te comandi in le voglie sue, dove tu ne' tuoi bisogni abbi a pregare lui. Aurea sentenza de' nostri maggiori, qual racconta Seneca: cosa niuna costa caro quanto quello che tu comperi co' prieghi. Co' pari a te vivi lieto. Ma fa come quel ….. presso a Terenzio comico, qual negava essere alcuno de' suoi a cui e' volesse ogni sua cosa esser palese. Studia perseverare in benivolenza, ma stima potere, quando che sia, essergli men coniunto che tu non fusti.
Sopra tutti gli altri ricordi non voglio preterire questo: dico a te, Battista, fuggi ogni commerzio, fuggi trame e lezi di qualunque femmina. Apresso a Omero, quel sapientissimo Agamennon afferma infra' mortali essere animal veruno più scelesto che la femmina. Tutte sono pazze e piene di pulce le femmine, e da loro mai riceverai se non dispiacere e impaccio e indignazione. Vogliolose, audaci, inconstante, suspiziose, ostinate, piene di simulazione e crudelità.
Così di dì in dì precludendo in noi e tagliando la via alle perturbazioni in modo ch'elle trovino chiuso ogni addito e otturato ogni fenestra per donde elle possino entrare ne' nostri animi, daremo ogni opera e industria di vivere liberi e vacui d'ogni molestia. E insieme studieremo, qual facea Alessandro, essercitando le sue gente e commilitoni in ogni preludio e movimento atto a bene adoperarsi in arme contro a' loro nimici, così noi studieremo essercitare nostre membra e sensi in ogni tolleranza e fortezza, per la quale ne rendiamo fermi e constanti contro ogni impeto della fortuna e de' casi avversi. E saranno e' primi nostri essercizi tutti addiritti a profugar lungi da noi ogni vizio, però che da' vizi nascono agli animi nostri manifestissime ruine. E qui in due cose mi par bisogni essercitarci: in moderar le volontà, e temperar l'ira. A tutt'e due daremo e modo e freno se statuiremo curar meno e meno tuttora stimare qualunque piacere nostro e qualunque dispiacere. Avvederenci d'esser bene composti coll'animo a questa una opera quando accettaremo da noi stessi niuna eccezione contraria. Oggi siede el popolo allo spettacolo, e io voglio essercitarmi in curar nulla questa voluttà; rinchiuderommi tra' miei libri e starommi solo. Se così deliberasti fare, niuna suasione d'altrui, nulla cosa potrà avvenirti in mente che ti distolga dal tuo instituto. Ma tu quanto darai orecchie o fede a cosa che ti disduca da questo proposito, quanto penderai coll'animo verso dove la voluttà t'alletta, tanto sarai non ben costituto né bene addritto a sostenere te stessi; e quanto non atuterai le voglie tue e dara'ti a non repugnarle, tanto dispiacerai a te stessi, e tanto sarai non tuo né libero. Spegni, succulca quel pensiero. Refuta ogni cagione e condizione quale interrumpa e' tuoi culti a virtù.
Scrive, presso a Erodoto istorico, Amasis re d'Egitto a Policrate tiranno fortunatissimo: “S'egli è chi desideri bene a' suoi amici, io sono uno di que' tali. Né stimo che tu creda me esserti amico per rispetto delle tue fortune; ma poiché 'nsino alli dii par che non possino patire in noi mortali troppa felicità, sempre iudicai commodissimo ausarsi a tollerare ora le cose seconde ora le avverse. Questi vivuti sempre in felicità, che sanno essi quello che possa la fortuna? Che possono essi o pensare con ragione o statuire con diritto o integro iudicio? Niente. Adunque, se tu mi crederai come ad amico fedele e non in tutto imprudente, piglierai da me qualche argomento contro la fortuna; e a quelle cose che apresso di te sono carissime, e quali perdute molto ti dorrebbono, gittale da te, e quinci comincia imparare soffrire te stessi contro al dolore e contro la ingiuria de' tempo avversi. Vale”. Così adunque a noi; e in questo così essercitarci faremo come fa el musico che insegna ballare alla gioventù: prima sussequita col suono el moto di chi impara. e così di salto in salto meno errando insegna a quello imperito meno errare. Così noi, se non così a perfetta misura, potremo nei gravi nostri moti subito adattare noi stessi. Nondimeno errando cureremo tradurci sì che ogni dì si aggiunga in noi qualche parte a esser più compiuti e perfetti in virtù; e accrescerassi alla virtù quanto scemeremo al vizio.
Sono alcuni da natura proclivi e addritti a qualche affetto d'animo non lodato. Cinna fu crudele, Silla fu concitato e veemente, Mario perseverò in sua iracundia. A simili bisogna nelle picciole e lieve cose avvezzarsi a quasi edificare in sé un'altra natura. Furono tra e' filosofi chi per ausarsi a non isdegnarsi se altri non li compiacea e conferiva quel che e' pregava, solea con molta instanza e con lunghe suasioni chiedere dalle statue più cose. E Crates filosofo irritava una e un'altra vilissima e procacissima trecca o meretrice a garrire seco; e questo facea per avvezzarsi a udire sanza stomaco e perturbazione parole villane e rissose contro a sé. Leggesi che ad Epaminunda, illustrissimo principe e lume di Grecia, fu dato una faccenda vilissima per dispettarlo, che provedesse a certe strade. Rise e lieto si die' a quanto gli fu imposto. Così tu simile godi ti sia dato materia in quale tu impari vincere te stessi. Le dure condizioni de' tempi sono materia ad informarci a virtù. Tigranes, nipote del re Archelou, perché più tempo visse stadico in Roma, dimenticò el fastu e superbia regia e divenne paziente quasi fino a essere servile. Udisti da chi t'odia un morso di parole. Vedesti quello insolente onteggiarti. Tu, delibera sofferirlo, almeno simular d'essere sofferente. E interverratti come fra gli amici, che servendo ad altri obbliga lui, contro, a pari servire sé. Così tu usandoti gratificare alla virtù, ella ti si darà pronta a mai abbandonarti; e interverracci che simulando diventerremo quali vorremo parere. Ottima simulazione sarà qui fare quello che fa chi non si perturba né si commuove. A Plutarco parea che con moderare la lingua si spenga l'ira; e in ogni vita sarà utilissimo el moderarla. Dicea Platone che gli dii rendeano in premio delle parole inconsiderate e lievi, pena gravissima. Scauro non volle che 'l servo dello inimico suo gli referissi e' malefici del patrone suo. Filippo re de' Macedoni, escluso la notte dalla moglie, tacque. M. Babio rimise salvi e liberi a Cleopatra que' duo militi Gabbiani che gli aveano ucciso el figliuolo. Così fa chi sia bene consigliato e ben offirmato e constante: modera e comprime quelle cose per donde s'accenda l'ira e le perturbazioni, e più gode e mostra non satisfarsi crucciato ove e potea saziarsi.
Né sia chi stimi non essercitandosi abituare in sé virtute alcuna. Non scrivendo, non pingendo, mai diventeresti pittore o scrittore. E scrivendo non bene s'impara scriver bene, pur che facendo curi fuggir quello che in te facea scriverti non bene. E per adattarci a virtù intrapreenderemo qualche essercizio virtuoso, in quale occupati ne esserciteremo assiduo pensando, investigando, adunando, componendo e commentando, e accomandando alla posterità nostra fatica e vigilie. E così ne distorremo e separaremo da ogni contagione e macula del vizio, e viveremo lieti e contenti. Oh dolce cosa quella gloria quale acquistiamo con nostra fatica! Degne fatiche le nostre per quale possiamo a que' che non sono in vita con noi mostrare d'esser vivuti con altro indizio che colla età, e a quelli che verranno lasciargli di nostra vita altra cognizione e nome che solo un sasso a nostra sepoltura inscritto e consignato. Dicea Ennio poeta: non mi piangete, non mi fate essequie, ch'io volo vivo fra le parole degli uomini dotti.
Ma non mi stendo in lodare l'affaticarsi in cose pregiate e degne. Solo ammonisco qui Battista quanto io stimo bisogni essercitarsi. Chi vive senza faccende, dicea Plauto quel poeta, ha più che fare che chi è faccendoso; e' va su e va giù, e non sta qui né quivi, erra e combatte sé stessi. E noi, produtti in vita quasi come la nave, non per marcirsi in porto ma per sulcare lunghe vie in mare, sempre tenderemo collo essercitarci a qualche laude e frutto di gloria. E gioverà imporre a noi stessi qualche necessità di così essercitarci in virtù. Io deliberai un tempo riconoscere tutto quello che scrisse Aristotile in filosofia. Chiamai alcuni studiosi e a me imposi legger loro ogni dì due ore. Quella ascrittami quasi necessità mi fece assiduo più ch'io forse non sarei stato. Scrive Solino che 'l cervo ausa e' suoi nati a correre e fuggire. E se el cervo e l'altre bestie da natura cognoscono e' suoi bisogni e utilità, noi nati uomini a che ne addestreremo? Adunque noi in ogni attitudine a bene vivere, ma in prima in quel che più bisogna più ne auseremo. E non sia chi dubiti che sopra tutto bisogna ausarsi ad odiare e fuggire ogni vizio prossimo molto. E molto giova darsi a meritare fama e immortalità di suo nome e memoria. Ma sopra ogni cosa conviensi ben curare e cultivare l'animo con buona instituzione e degna erudizione. E' vezzi del corpo infracidano l'animo e rendonlo vizioso. Però sarà nostra precipua e assidua opera essercitarci a vita qual si contenti di cose e poche e facili a trovarle.
Scrive Iulio Capitolino che Marco Aurelio Antonino, rettore dello imperio di Roma, per imparare a sofferire se stessi dormiva in terra, e cose molte altre facea simili a Diogene filosofo, quale e' recitano che a mezzo inverno abbracciava le statue marmoree cariche di ghiaccio solo per ausarsi a sofferire le cose avverse. Appresso Silio poeta, Serano lodava Regulo in questi versi:
Illuviem
atque inopes mensas durumque cubile
et
certare malis urgentibus hoste putabat
devicto
maius; nec tam fugisse cavendo
adversa
egregium, quam perdomuisse ferendo.
E' nostri maggiori Latini assuefacieno gli esserciti suoi a quel cibo militare e castrense quale era simplice e senza apparato, ed era non altro che lardo e cacio. Voleano questi essere espediti alle faccende virili e disoccupati da questi altri impacci servili. Così noi avvezzeremo le nostre membra a esser contente del poco e a soffrire senza delicatezza, e coll'uso asseguiremo ogni gran cosa.
Scriveno che a Iulio Viatore, eques romano, e' medici proibirono le cose umide; e lui con ausarsi divenne che in senettù bevea nulla. Qui Battista solea non potere senza gran molestia e perturbazione della sanità sua stare colla testa discoperta tanto quanto egli adorasse el sacrificio. Vedilo testé che d'astate in astate avezzo non può in mezzo dell'alpe e al nevischio soffrir coperto el capo; e quel che non potette l'arte e cura de' medici, può lui col ridursi in questo suo uso. Ma quanto possa ne' mortali ogni uso altrove sarà da recitarlo. Solo qui resti suaso che se l'uso può, bisogna distorci da ogni uso per quale mancandoci quella e quell'altra cosa a noi venga perturbazione, e conferirci a qualunque uso ne aiuti poco chiedere cose da altri che da noi stessi. Diogenes filosofo non volle revocare el servo suo fuggitivo. Parsegli provarsi se forse fusse non da meno che 'l servo suo, quale se e' potea solo viversi senza Diogenes, molto più dovea potere Diogenes vivere senza un servo e fuggitivo.
A molti insueti parrebbono cose dure queste qual io racconto. Non sono; e sono facili a chi così dispone volere. E certo ben disse M. Varrone in satyris: “Se di tutta l'opera che tu ponesti in fare che 'l servo tuo fusse buon pistore, tu in adornare te stessi ne avessi esposta la duodecima parte, già più tempo saresti ottimo cittadino. Ora venderesti quel servo molti danari. Te chi mai comperasse per qualunque sia vile prezzo?”. E questi essercizi a chi così deliberò, sono certo soavi provandoli, perché si sente di cosa in cosa più su attingere a virtù, e provandoli ancora adducono una felicità da volerla. E chi non volesse non aver bisogno alcuno di tante e sì varie cose quante e' richiede? A chi può tradur suo vita con poche cose, a costui bisognano poche cose. E parmi in prima libertà degna d'uomo potersi senza fastidio e molestia vivere di ciò che gli sia apparecchiato. Dicea Solon filosofo: fra' beni nel secondo luogo sarà bisognarci pochissimo cibo, quando el primo bene sia al tutto nulla bisognarci. Nuoce forse che 'nsino a qui fummo educati in grembo della mamma e in delizie e vezzi del babbo, e ora a noi suppeditano abundante le fortune, né ci pare in tanta amplitudine convenirsi questa austerità del vivere. E qui bisogna provedere. Dissi: rammentati esser uomo esposto a ogni caso; sai ch'e' tempi succedono vari, le cose della fortuna sono inconstanti; bisognaci ne' tempi felici prepararci a potere contro la infelicità. E chi non imparò soffrire, non sa, Niccola, non sa soffrire; e chi imparò, sa e giovagli. Al fratello suo, sdegnato che non era fatto uno de' magistrati chiamati efori, Chilon filosofo, qual più volte era stato in quel numero e luogo di diggnità, rispose: “O fratel mio, non ti maravigliare se teco non sono e' nostri cittadini tali quali e' sono verso di me. Tu non sai soffrire le ingiurie. Io imparai non le curare sofferendole”. Ottavia, sorella di Brittanico, scrive Cornelio, imparò persino da' teneri anni ascondere el dolore, la carità e ogni affetto; e giovògli, e fu degna instituzione e dovuta a uno principe in mezzo di tanta affluenza e licenza avvezzarsi a moderare e contenere se stessi. In Arabia dove sono e' pascoli lietissimi, scrive Curzio ch'e' pastori lievano e distengono le pecore da' prati, e questo fanno che per troppo cibo diventerebbono infette. E certo, come dicea Cesare appresso di Sallustio, fra' primi e massimi mali dobbiamo reputarci la troppa licenza. Interpelleremo adunque e comminuiremo a noi stessi quanta potremo licenza, volendo meno che noi non possiamo in ogni altra cosa che in acquistar virtù e meritar gloria.
Dicea Solone che le ricchezze ingeneravano sazietà; e la sazietà produce contumelia, e dalle contumelie vediamo che arde el vendicarsi. Queste ricchezze e copia bisogna ausarsi a poco pregiarle, alienandole da noi con spenderle in cose degne e lodate, e in prima donandole e quasi deponendole presso de' buoni e degli studiosi; però che quello che desti non lo torrà la fortuna, e quello ch'ella ti togliesse, non ti agraverà. Aggiugni a queste che bisogna avvezzarsi sopra tutto a dimenticare le picciole ingiurie per in tempo potere e sofferire e dimenticarsi le maggiori. Ad Antistenes filosofo parea niuna disciplina migliore in vita che disimparare el ricordarsi delle offese. Aristotile negava essere opera d'animo grande e forte refricarsi a mente presertim quel che dispiace. Per questo desiderava Temistocle imparare da Simonide non quella sua arte del ricordarsi, ma più tosto qualche altra arte del dimenticarsi.
Tutte queste racconte cose asseguiremo volendo e con modo addestrandoci di cosa in cosa e di tempo in tempo. E conviensi col tempo affaticarsi; e in le fatiche bisogna tolleranza, nella tolleranza fortezza, nella fortezza consiglio e ragione. E in ogni nostro consiglio conviensi adattare a iustizia e umanità con molta voluttà d'ogni tuo acquisto in virtù. Ditto d'Aristotile: la voluttà dello affaticarsi dà buon fine a ogni opera. Amasis re degli Egizi rispose esser facillima qualunque cosa si faccia con voluttà.
Un ricordo non voglio preterire, che a ogni ottima instituzione, a ogni bene addutta ragione del vivere, a ogni culto e ornamento dell'animo nostro molto e molto gioverà darsi alle lettere, alla cognizione e perizia de' ricordi e ammonimenti quali e' dotti commendorono alla posterità. Come la mano compremendo radolca e prepara la cera a bene ricevere l'impressione e sigillo della gemma, così le lettere adattano la mente ad ogni officio e merito di gloria e immortalità.
E che ti pare, Niccola, di ciò che noi dicemmo insino a qui? Vedesti in che modo bisogni prepararsi e aversi in vita per escludere alle perturbazioni ogni addito onde possino importarsi e occupare gli animi nostri. Seguiterebbeci luogo d'investigare quali argumenti e arte di curarci perturbati ne espurgassero del seno ogni rancore e ansietà. Ma a tanta opera non mi sento atto. E quanto recitai, conosco bisognerebbe averci premeditato. Io raccontai ciò che nel ragionare m'occorse a mente, sanza ordine e forse confuse. Fecilo nondimeno, e non ad altro fine se non per confutarti, che dicevi desiderare da' dotti qualche utile precetto a questa causa. Vedestigli tu in questo come nell'altre cose quali appartengano a bene e beato vivere, che furono non negligenti, e satisfecero a ogni nostro bisogno ed espettazione.
NICCOLA. Vidi e piacemi. Ma qui Battista e io in prima desideriamo e preghianvi seguiate mostrarci, come testé dicevi, che arte e argumenti a noi lievi le già concepute ansietà dell'animo.
AGNOLO. Vederemo.
LIBRO II
Qual convenga in noi essere premeditazione e instituzione d'animo per escludere e proibire da noi ogni perturbazione vedesti nel libro di sopra, e credo ti satisfece. Vedesti con quanta brevità e' ti raccolse molta copia d'ottimi ricordi e sentenze de' nostri maggiori uomini stati prudentissimi e sapientissimi in vita. In questo libro vedrai in che modo, se forse già fussi occupato da qualche merore e tristizia, o da qualche altro impeto e agitazione d'animo, possi con ragione e modo espurgarla e restituirti ad equabilità e tranquillità d'animo e di mente. Qual cosa accadde che Agnolo Pandolfini, omo eruditissimo e disertissimo, disputò insieme con Niccola di Messer Veri de' Medici, omo fra' primi litterati in Toscana non postremo, e fra' non ultimi umanissimi el primo in cui sia coniunta molta prudenza con molta affabilità. E cadde la cosa in questo modo, che la mattina dopo a' ragionamenti di sopra, Niccola e io eravamo nel tempio nostro massimo stati ad onorare el sacrificio, e vedutoci insieme ne accogliemmo per salutarci. Erano con Agnolo due messi da' magistrati massimi. Adunque giunto a noi Agnolo ci salutò e disse: - Questi mi chieggono e instanno ch'io salisca su in Palagio a consigliare cogli altri padri la patria e curare el ben pubblico. Sia della mia volontà e de' miei studi cognitore e testificatore Dio immortale e gli altri abitatori e moderatori del cielo, come cosa niuna tanto mi sta ad animo né tanto mi siede in mente quanto di conservare e amplificare l'autorità, dignità e maiestà della patria mia insieme colla utilità e pregio di ciascuno privato buon cittadino. Ma che perversità sarà la nostra se noi chiamati a consigliare ci converrà dire non quello che forse a noi parerà utile, onesto e necessario a' tempi, alle condizioni del vivere e della fortuna nostra, ma converracci dire quel che stimeremo grato a chi ne richiese? Natura degli uomini prepostera e in molti modi da biasimarla. Noi vediamo le fiere nate a essere impetuose, rapaci e al tutto indomite, che mai s'ametteranno ad iniuriarsi insieme se qualche furore non le eccita e concita. Noi vero uomini, nati per essere modesti, mansueti e trattevoli, par che sempre cerchiamo d'essere contumaci, molesti, infesti agli altri uomini. E questo se egli è furore, chiunque volesse aggiungervi consiglio, costui quasi vorrebbe, come dicea quel poeta, impazzar con qualche ragione. Iersera mi tenneno sino a molta notte, e ora mi rivogliono; né fie tempo d'essere al bisogno di qui a più ore. E s'io vi giovassi, non aspetterei esservi richiesto. Adunque adopereremo questo tempo in altro, e forse a chi che sia gioveremo; dove dicendo lassù quel ch'io sento, non gioverei a me, e dicendo quel ch'io non sento, non piacerei ad altri.
Così disse Agnolo a noi; e poi si volse a que' due publici e mandònnegli a' superiori magistrati con buona scusa. E voltossi a Niccola, e sorrise e disse: - Dove eravate voi addritti? Forse ad essercizio, che? Ben fate. L'essercizio e la sobrietà, due cose ottime, conservano la sanità, mantengono la gioventù, producono la vita. E questi be' soli c'invitano a godere questa amenità di questi nostri prospetti lietissimi. Vorrebbesi testé, Battista, esser laggiù a quel nostro Gangalandi co' cani, o alle colline o a' piani, ed essercitarsi qualche ora, e poi ridursi agli studi delle lettere e a filosofia come è tua usanza, Battista. Ma se vi pare, Niccola, e se voi siete oziosi, passeggiamo per insino a' Servi. Gireremo da S. Marco, e restituiremoci qui. Piacevi? - Questo disse Agnolo.
Risposegli Niccola: - Nulla suol pari dilettar qui Battista quanto l'essercizio; e vidilo io non raro lo 'nverno, perché fuori piovea, uscire da' libri ed essercitarsi colla palla in ogni moto e flessione e agilità. Gli altri dì asciutti raro fu che non salisse su erto a salutare el tempio di S. Miniato. E in villa quali siano e' suoi essercizi, ve gli vedete voi, Agnolo, che gli sete vicino. E certo s'io avessi edificio sì atto e sì magnifico in luogo sì grato e sì salubre come voi, Agnolo, non so dove traducessi molta parte de' miei dì altrove che solo ivi. Adunque a Battista, a cui diletta lo essercitarsi, non dubito piace quel che a voi. Ed era nostro pensiero essere pure con voi ovunque a voi talentassi; e questo sì per farvi compagnia, - ché a noi l'esser con voi, omo maturissimo e gravissimo, acquista reverenza e grazia, - sì ancora ci diletta essere con voi per richiedere e impetrare da voi quanto poi ieri sera ne promettesti di narrarci oggi, quello che restava circa a moderar e assettare gli animi nostri per vivere liberi e vacui d'ogni perturbazione. A questo siamo non solo oziosi, ma in prima cupidissimi d'udirvi e insieme seguitarvi. Avvianci.
AGNOLO. Are' io forse, come e' dicono, levatomi di spalla un peso per pormelo in capo? I' mi levai quella molestia dalle spalle di que' che mi voleano in Palagio, e venni a voi per caricarmi d'una maggior soma. A quale vi prometto nulla mi succinsi e assettai con premeditarvi quanto io dovea. Ma di che possiamo noi ragionare più accommodato a questi tempi e a questa nostra pubblica fortuna che solo di questa una cosa per quale ne rendiamo liberi e vacui d'ogni estuazione e turbidamento d'animo? E non recuso satisfarvi quanto in me sia. E sarà el mio ragionare un quasi investigare e commentare con voi quel che giovi. Se ci abbatteremo pure a una cosa commoda e che ci attagli, sarà buona opera la nostra, già che el merore, le tristezze e gli altri crucciati dell'animo sono, come dicea Crisippo e come chi lo pruovò el sa, molto maggiori e più acerbi che que' del corpo. E per curare el corpo quante cose s'investigorono, quante tuttora si ripruovano? Per sanificare l'animo e restituirlo a sua naturale integrità chi sarà che ne biasimi se investigheremo e accoglieremo ogni ragione di argumenti? Ma noi, - come e' dicono, nihil dictum quin prius dictum, - che potremo noi adducere cosa non spesso udita e racconta da molti altri? Referiremo quanto verremo di cosa in cosa ricordandoci; e forse in molte qualcuna ci si acconfarà. E come alle infermità del corpo uno solo modo di curarlo basta, così alla malattia dell'animo una qualche sola curazione forse basterà.
Ma donde cominceremo noi? Investigheremo noi quante siano le perturbazioni dell'animo, opera né facile né picciolissima? Se, come si dice, ogni animo perturbato sente d'insania, e infinite sono le spezie della pazzia, saranno e infinite le perturbazioni. A Biante filosofo parea morboso quello animo quale appetisse le cose impossibili. Rido. E guardiamo, Niccola, ancora noi che questa nostra non sia manifesta infermità d'animo volere col nostro ingegno, a tanta opera debolissimo, trattar quello che sia impossibile pur connumerarlo.
NICCOLA. E' si legge appresso de' poeti che quel Sileno insegnò a Mida non temer la morte. Non referisco Platone e gli altri simili quali con suoi ammonimenti e ricordi giovorono a chi forse gli ascoltò. Così voi, non dubito, con tanta vostra copia, quanta ieri ne esplicasti, pari potrete giovarci e satisfarci. Né fie questa cosa a voi difficile e non atta. Vedemmo già prove maggiori del vostro ingegno, e preghiamovi e aspettiamo ne satisfacciate.
AGNOLO. A che penso io testé? A tutti quando siamo vacui di merore ci duole el dolore altrui; e quando siamo oppressi da dolore, ci agrata el dolore altrui, e ne' nostri mali pigliamo conforto da' mali altrui. Quinci el vendicare, el punire e rendere alle offese. Donde vien questo?
NICCOLA. E intendiamovi, Agnolo, e dilettaci. Seguite. Voi fate come fece Dario in Asia, qual dispargea qua e là fuggendo l'oro, le gemme e le cose preziosissime per meglio suttrarsi in fuga e per arrestare e ritardare chi lo perseguia. Così voi, per distorci da quanto ci promettesti, ora interponete nuove quistioni, degne certo ma da considerarle altrove. Noi vi preghiamo; donateci questa opera. E quanto sino a qui motteggiasti, sia quasi come proemio a questa materia.
AGNOLO. Così vi piace, e Dio ne aspiri. Su, convienci resummere una delle divisioni nostre d'ieri in questa materia; e diremo che le perturbazioni accorreno e insisteno ne' nostri animi o dalla commozione de' tempi, o dalla durezza della fortuna nostra, o da qualche sinistro caso, o da malignità e protervia degli uomini co' quali ne abbiamo in vita, o da qualche nostro detto o fatto con poca maturità e consiglio. Questa fu nostra divisione ieri. Aggiugniànvi quest'altra, che alcuni sono rimedi che giovano a non più una che un'altra perturbazione. Alcuni giovano a una e non pari a un'altra nostra commozione e perversione di mente e ragione. Addurremo adunque prima a ciascun morbo que' propri rimedi quali adattati e bene accommodati svelgano e diradichino ed espurghino da noi ogni concetto e infisso rancore. Poi accoglieremo insieme que' tutti rimedi quali stimeremo atti a sedare ed estinguere qualunque molesto agitamento e furore fusse eccitato e commosso in le nostre menti e pensieri. E cominceremo a curare quelle contusioni e punture d'animo quali importò in noi la nostra imprudenza e temerità. Qui non bisogna preterire uno commune e grave errore di molti, quali si reputano constituti in vita quieta e tranquilla, succedendogli la fortuna e le cose grate secondo li suoi pensieri e voglie. E non s'avveggono costoro così sé essere in mezzo avvinti da veementissime oppressioni, e stimansi poi iniuriati dalla fortuna e affannati dalle avversità dove essi sono a sé stessi gravezza e molestia. Ed eccovi come a colui, omo fortunatissimo, diletta la casa, la villa, gli ornamenti; stima l'amplitudine, la dignità, el potere in sue voglie e sentenze più che altri; agradagli la moglie; gode vedersi fatto padre; gloriasi in ogni buona indole e speranza de' suoi nati. Oh inezia degli uomini! Oh ragione mal compensata! Questi sono, o mortali, questi a voi sono e' veneni dell'animo. Quinci insurge quello che corrumpe a' nostri petti la vera e degna virilità; onde poi effeminati non tolleriamo noi stessi e inculpiamo la innocenza altrui de' nostri errori. Fu el troppo amare quella e quell'altra cosa, fu el troppo ricevere a te questa e quest'altra voluttà, seme e ignicolo di tanta e sì importuna fiamma qual t'incende ad ira e a dolerti d'avere interlassato e perduto quello che tanto ti contentava.
Ad uno che volea fuggire la patria e irne in essilio, disse Socrate: “Più tosto, per mio consiglio, fuggi questa morosità dell'animo tuo, qual fa che dovunque tu sia abbi te non bene”. Voglionsi adunque in prima deporre queste affezioni e adempimenti d'ogni suo diletto, qual cose son radici e capo di tante nostre ansietà e tormenti. Deporremole consigliandoci col vero e ubbidendo alla ragione. Queste a te mostreranno onde tu possa riconoscere le volontà e instituti di chi tu ami essere da natura volubile e inconstante; e mostrerannoti gli animi di chi ti si porge amico essere iunti a benivolenza teco solo tanto quanto fra voi durerà quel vincolo quale vi strinse ad amarvi insieme. Ché se vi collegò a tanta coniunzione qualche utilità o qualche gratissima ragione di convivervi insieme con festa e sollazzo, non voglio ti persuada avere la fortuna tra voi sempre equabile e secunda. Né dubitare, a te succederanno e' tempi tali quali per sua usanza e natura sino a questo dì succedereno a te e agli altri mortali. E tu riconoscilo quanto d'ora in ora e' furono vari e mutabili. Onde conoscerai che queste tue fortune, questo fiore e grazia di vostra età e forma, quando che sia, voleranno fra le cose perdute e spente.
Adunque,
non preporre alle espettazioni tue tanta speranza, che tu escluda ogni ragione
e consiglio per quale possi dubitare e presentire in te quello che può e suole avvenire
ad altri con suo gravezza e tristezza. Eccoti padre a questi e questi
figliuoli; eccoti fra' tuoi cittadini e altrove non rari amici, molti coniunti
a familiarità, innumerabili conoscenze e commerzi; eccoti ricchezze pari a un
re, amplitudine, autorità, dignità, quanto si può desiderare fra' mortali. Oh!
te uomo e infelice, se forse arai ogni altra cosa, e non arai te stessi. Né
pensare aver te stessi ove non possi moderarti molto più in le cose seconde che
in le avverse. E non sempre, no, rimane el figliuolo erede al padre; né so se
molti più furono padri e madre quali facessero essequie a' suoi minori che non
furono figliuoli quali piangessero e' suoi maggiori. E questi nostri amici, chi
affermerà che ne apportino in vita più piaceri che dispiaceri? Ben disse
Valerio Marziale: Nemini feceris te nimium sodalem: amabis minus, dolebis
etiam minus.
Dico,
Niccola, e dico a te, Battista: Oh perniziosissima peste a' mortali el troppo
amore! Scrive Plinio che Publio Catineio Filotimo, lasciato erede in tutte le
fortune di colui a cui e' fu servo in vita e molto amato, per troppo desiderio
del padrone suo si gittò in mezzo del fuoco dove s'ardea e onorava el morto. Fu
cosa questa d'animo impotente e furioso. Ma quali siano e' furori che tuttora
traportino que' miseri mortali in quali arde troppo amore, altrove ne
disputeremo. E queste nostre speranze e contentamenti quant'elle siano certe e
stabili, lascio considerarlo a chi più spera e gode che non si li conviene.
Questo bene ricorderei a chi mi volesse udire, che in ogni suo accogliere suo
ragione e summa in questa causa, soscrivesse insieme le durezze e maninconie
qual sono aggiunte e asperse con tante sue voluttà e letizie. E chi non vede
ch'ogni umano piacere, altro che quello qual sia posto in pura e semplice
virtù, sempre sta pieno d'infinite suspizioni e paure e dolori, ora di non
asseguire, ora di perdere quello che gli dilettava e satisfacea? Appresso di
Virgilio, Eneas fuggendo da Troia suo patria incesa ed eversa col padre in
collo e col figliuolo a mano, non e' suoi armati nimici, ma e' coniuntissimi lo
perturbavano. Leggiadro poeta!, namque inquit:
et
me, quem dudum non ulla iniecta movebant
tela
neque adverso glomerati ex agmine Grai;
nunc omnes terrent aure, sonus
excitat omnis
suspensum et pariter comitique
onerique timentem.
Ma non mi estenderò in demostrarvi che 'l gaudio e lo sperare sono per sé all'animo perturbazione e morbo non meno che si sia la paura e insieme el dolore. Altrove sarà da disputarne. Basti avervi, quasi accennando, mostrato che per vivere vita quieta e tranquilla, bisogna moderarci e frenarci in ogni nostra voluttà e successo d'ogni nostra opinione ed espettazione. E se da qualche nostro o detto o fatto inconsiderato e immoderato, o da qualche passata desidia e inerzia nostra ne perturbiamo, siaci non ingrato quel pentimento per quale impariamo odiare e fuggire ogni immodestia e intemperanza. E se, come dice Catullo poeta, a ciascuno è attribuito el suo errore, ma niun vede quanto a lui sia magro el dorso, giovici qualche volta avere errato dove indi ne riconosciamo fragili e non più divini che gli altri mortali. E così indi a noi stia un certo eccitamento e stimolo a meglio meritar di nostra industria e solerzia: Me dolor et lacrimae, - dicea Properzio poeta, - merito fecere disertum. E quanti, perché fastidirono suoi brutti costumi passati, divennero ornatissimi di vita e virtù! Scrive Elio Sparziano istorico che Adriano principe, beffato in Senato per una orazione quale e' pronunziò con troppa inezia, deliberò emendarsi, e datosi con assiduità e diligenza agli studi divenne ottimo oratore. E non senza ragione Peto Trasea, presso a Cornelio storico, dicea che tutte le egregie leggi e onesti essempli quali sono infra e' buoni, nacquero da' delitti e mancamenti de' non buoni. Adunque si vuole non solo come dicea ….., presso a Terenzio, dalla vita altrui emendare la sua, ma in prima dal nostro proprio vivere e costumi si vuole di dì in dì prendere argumento e via a miglior stato di mente e d'animo, e succedere emendandoci e godendo in ogni nostro acquisto e accrescimento in virtù e laude.
Dicemmo delle perturbazioni quale in noi insurgono non altronde che da noi stessi. Seguita testé luogo da investigare in che modo rendiamo e' nostri animi quieti e tranquilli se forse da iniuria e improbità d'altrui fussimo concitati e vessati. Ma prima assolveremo quanto a questa parte bisogna intendere, che non raro crediamo nulla errare ed erriamo, che ne adduciamo in perturbazione e grave molestia col nostro inconsiderato discorso di ragione e imprudenza. E simile spesso ne stimiamo offesi da altri dove siamo d'ogni nostro dispiacere autori e apparecchiatori.
Che credi tu, Niccola, che sia facile a noi mortali schifare e non ricevere a sé invidia quando ella si succenda e infiammisi da tante parti, or dalle cose quali in altrui vediamo e sentiamo, ora da cose quali in noi riconosciamo? Grave, hui! Grave perturbazione l'invidia! Ma quanto ella possi ne' nostri animi assai ne scrisse el tuo Leonardo tragico, omo integrissimo e tuo amantissimo, Battista, in quel suo Hiensale, quale egli apparecchiò per questo vostro secondo certame coronario, instituzione ottima, utile al nome e dignità della patria, atta ad eccitare preclarissimi ingegni, accommodata a ogni culto di buoni costumi e di virtù. Oh lume de' tempi nostri! Ornamento della lingua toscana! Quinci fioriva ogni pregio e gloria de' nostri cittadini. Ma dubito non potrete, Battista, recitare vostre opere; tanto può l'invidia in questa nostra età fra e' mortali e perversità. Quel che niuno può non lodare e approvare, molti studiano vituperarlo e interpellarlo. O cittadini miei, seguirete voi sempre essere iniuriosi a chi ben v'ami? E dovete sì certo, dovete favoreggiare a' buoni ingegni e meglio gratificare a' virtuosi che voi non fate. Son questi e' frutti delle vigilie e fatiche di chi studia beneficarvi? Ma della invidia e degli incommodi quali sono in le lettere, altrove sarà da disputarne. Tu, Battista, seguita con ogni opera e diligenza esser utile a' tuoi cittadini. Dopo noi sarà chi t'amerà, se questi t'offendono.
Per ora qui basti al nostro proposito constituire che la invidia in molti modi nuoce alle cose pubbliche e alle private: ed è un male occulto quale prima n'ha infetti e compresi che noi sentiamo le sue insidie. E nasce la invidia non tanto da quel che in altrui abbunda, quanto e da quel che in noi forse manca. E surge ancora l'invidia da quello che invero né qui manca né quivi abbunda, ma da quel che la nostra inetta opinione e immoderato appetito e libidine ne suade. E può la invidia questo ne' petti ancora di quelli che si stimano savi e prudenti, che e' si reputano iusti e pii dove e' sono pure invidi, iudicano indegno di tante fortune colui quale appare sordido e troppo astretto a porgere beneficio di sé e gratitudine; e credono el suo dolore essere iusto ove a sé manchi quel che ad altri superabunda; né misurano e' suoi commodi con quel che si richiede, né pesano le sue copie col bisogno, ma terminan queste cose non colla ragione ma sì con la volontà e collo intemperato appetito; e vogliono non quel che a bene e beato vivere loro manchi, ma sì quello che a loro pare, per qualsiasi o iusta o iniusta ragione, di volerlo; e sono queste cose volute le più volte tali che elle né gioverebbono loro avendole né nuocono non le avendo.
Così adunque ne avviene che, abbagliati dalle faci della invidia, non discerniamo in che modo questi nostri sinistri movimenti siano in noi non addutti da ragione ma commossi e impinti da perturbazione e perversità di mente. Udisti che non so chi Filippides in due dì corse da Atene persino a Lacedemonia, spazio di stadi MCXL: e Filonio, corriere d'Alessandro, mosso da Sitione, in quel dì giunse ad Elim, che furono stadi MCCCV. E quel Strabo leggesti presso a Varrone che da lungi spazio incredibile vide l'armata uscire del porto di Cartagine. E dicono che Erodes fu cacciatore e pugnatore tale che non era da poterlo sostenere, e che egli uccise in uno solo dì fere circa XL. Vorresti e simile tu potere, e ancora a tuo posta forse vorresti come Icaro volare sopra l'acque, o come forse quella Pantasilea scorrere sopra alle somme spiche del grano. Se qui fusse la natura e proccurator delle cose apparecchiata a satisfarti in ogni tuo iusto desiderio, credo periteresti chiedergli simili cose immoderate e superchie. E se pur le chiedessi, ti risponderebbe: assai ti basta per viver lieto e contento quanto io ti diedi, e composi in te ogni loda e prestanza delle mie cose: a te el corpo formosissimo più che agli altri animali; a te e' movimenti atti e vari più che non sapresti desiderargli; a te ogni senso acutissimo, destissimo, nettissimo; in te ingegno, ragion, memoria, pari agli iddii immortali: quest'altre cose disoneste e non accommodate a beatitudine e felicità, in che parte potranno elle farti migliore e più fermo in virtù? E non ti rendendo migliore, che potranno elle mai ben contentarti?
Avvedianci adunque del nostro errore, e non insistiamo in questa perturbazione di compensare quel che in altrui ci pare male assettato, e desiderarlo a noi ove e' non bisogna credendoci eccitati non da invidia ma da iusto e libero sdegno. E così riconosciuto in noi che 'l nostro male vien non altronde che dalla nostra male addutta opinione, facile ne emenderemo e rassetteremoci a più quiete.
Succede ancora che non raro per esser troppo indulgenti a' nostri errori, induciamo a noi stessi gravezza e acerbità, e duolci se altri forse non si ritiene di narrare e predicare quello che noi non ci contenemmo dire o fare con poca ragione e precipitata volontà. Se quel ch'altri referisce di te non è bello, incolpane te che a lui desti materia e istoria di così ragionarne, e inculpane chi prima errò, non chi ora dice el vero. Sentenza d'Agamenon presso di Euripide poeta tragico: tu che ardisti peccare, bisogna sostegni coll'animo non turbato molte cose ingrate. Aggiugni a questo che spesso la troppa cupidità d'essere lodato e il troppo studio di vedersi onorato e riputato, sta pieno di gravissima perturbazione. E certo bisogna qui non dimenticarci quel che e' prudenti dicono, che il volere piacere a molti non è altro che un volere dispiacere a' buoni e a' savi. Bastici tanto acquistar fama e asseguir gloria fra el vulgo con nostre fatiche e vigilie quanto intendiamo per noi essere satisfatto a' nostri ozii, e quanto conosciamo che chi ci loda e stima invero può affermarci iusti e temperanti e virtuosi. E de' biasimi e favoleggiamenti qual forse venissero in nostro detrimento da' nostri emuli, invidi e inimici, vorrebbesi potere essere di tanta maturità che noi statuissimo in noi uno animo qual più curasse essere in sé e buono e dotto che parere apresso degli altri. Dicono che all'uomo savio la coscienza sua è un grande celeberrimo teatro. Né cerca l'uom savio altri arbitri di suo vita e fatti che sé stessi. E aggiugneva Bion filosofo a queste sentenze che all'uomo perfetto in virtù era dovuto udire e' detti altrui verso di sé iniuriosi, non con altro fronte e stomaco che se si recitasse una commedia in scena. E vorrebbesi, non niego, come e' dicono, dall'infestazione degli inimici imparar mansuetudine per sapere poi viver lieto e iocondo co' buoni amici. E certo quando e' sia opera d'animo forte più el sofferire con mente equabile e non commossa e' detti acerbi d'altrui, che con animo turbato vendicarsi, lodere' io chi in questo frenasse sé stessi e moderassi gl'impeti e movimenti dell'animo suo. Ma poi che oggi così si vive come dicea quel poeta comico: lupo è l'uno uomo all'altro, - forse bisogna contro alle offese e sentirle e refutarle e vendicarle.
Vendetta si potrà fare niuna maiore che coll'opere buone render bugiardo chi di te mal parli. E sarà vendetta rara e massima se chi nulla vorrebbe, molto convenga lodarti, e chi molto vorrebbe, nulla possa biasimarti. Tu, voglio, scrisse Cicerone a Dolobella, coll'animo sia forte e saputo in modo che la tua moderanza e gravità infami l'iniuria altrui. E Planco a Cicerone scrive: “In questo piglio io voluttà che certo quanto più e' mi odiano questi miei nemici, tanto maggior dolore apporta loro el non potere biasimarmi”. E Socrate, offeso da que' suoi poeti, ridea e dicea: “Voi con questi vostri motti illustriate ogni mia vita, e morsecchiandomi mostrate qual siano e' vostri lezi, e qual sia la mia virtù. Tal porrà or mente a' miei costumi che prima non mi curava; e tal mi amerà che mi conoscerà virtuoso, qual prima di me iudicava sol quello che egli udia. Io, come un scoglio a mezzo el mare, persevero sopportando le vostre onte, e sofferendo vinco, in modo che quanto più arditi mi pettoreggiate, tanto più infrangerete voi stessi, ed evvi tanto più acerbo poi el pentirvene”. Così faremo e noi: colla pazienza e col soffrire la insolenza altrui vinceremo; e imiteremo Antonio oratore, qual dicono che col frenarsi e ritenersi facea che chi l'aizzava con parole immoderate parea al tutto furioso. Marco Ottavio ruppe colla tolleranza e' furiosi impeti di Tito Gracco. E appresso di Iosefo istorico, dicea quell'Agrippa re de' Ierosolomitani che chi è offeso e soffre, facile induce col suo soffrire a chi l'offende un vergognarsi di tanto perseverare in sua malignità. Numa re de' Romani, abducendo e' cittadini suoi dall'uso ed essercizio dell'arme al culto e osservanza della religione, gli rendè meno infestati e meno molestati da' suoi finittimi e vicini, e acquistò loro amore e reverenza. E vuolsi sapere perdere qualche volta quando il vincere sia non necessario; ed è in guadagno quella perdita onde pello avvenire segue che tu men perda.
Ma se forse questi tuoi avversari e inimici cominciassero pur aversi teco con loro ingiurie e malignità troppo infesti e molesti, non sono io quello qual voglia da uno animo umano cosa alcuna non umana. Scrive Iulio Capitolino che ad alcuni quali vetavano piangere un calamitoso in sua presenza, disse Antonino Pio: “Lasciatelo essere uomo, imperoché gli affetti dell'animo non si possono con imperio togliere né con alcuna filosofia in tutto distenere”. Così io non vieto che tu non senta le cose acerbe agli uomini quando e tu sia uomo. Proverbio antiquo presso de' Greci: chi non sente le iniurie, si è più di sei volte bue. E come diceano, presso a Livio istorico, que' Tarquini: egli è cosa pur pericolosa vivere fra' mortali non con altro che colla sola innocenza. Conviensi alle volte mostrare che 'l tuo stomaco ha collera come quello del compagno. Un che avea l'occhio non sincero e netto, rispose a un zembo e zoppo: “Ben dicesti ch'io veggo male quando io ti stimai diritto ed equale”. Così noi. E per non lasciare oltre errare ad altri, e per non cadere, come dicea Laberio poeta, che la spesso offesa pazienza diventa furore, con modo scuoteremo e distorremo da noi chi troppo assiduo fusse mordace e petulante, per non abbatterci poi a rompere in qualche superchio cruccio; e piacerammi provegga di non esser sempre quel cantuccio dove ogni botolo scompisci. Ma voglio in questo servi modestia; e quel detto di Senofonte, qual dicea che del vincere molto mai fu da pentirsi, voglio interpetri in migliore parte che tu forse non stimi. Assai molto vince e' suoi malivoli chi nulla perde; e perderesti a te stessi ove tu te precipitassi ad immatura alcuna ira e cruccio. Non cedere all'iracundia, ma serbati a qualche attemperata e adattata occasione e stagione di satisfarti, dove tu in tempo possi spiegare le tue copie e forze. Intanto quasi come in insidie contieni, qual fece Socrate appresso di Platone in quel Gorgias morso di parole contumeliose da ….., non rispose allora, ma dopo molto ragionare, ove accadde gli rendè suo merito e con bel modo gli rimproverò ch'egli era temulento, e disse: “Tu che farai quando sarai vecchio, se ora giovane non ti ricordi di qui quivi?”. Simile noi, dove bisogni non altro che parole, gioverà per una volta sfogarsi, versarvi quanto vorremo ogni impeto, qual fece Tullio in Vatinium testem. E poi, spenta quella vampa e evaporato l'incendio, sarà da rivocarsi e raccogliersi. E dove forse bisogni altro che parole, Niccola, le ingiurie sono mala cosa; ma non conviensi stizza e subitezza, ma consiglio e maturità. Col tardo consiglio si fanno e' fatti presto. L'ira si è nimica d'ogni consiglio, però che l'ira è una breve insania; né condicesi l'insania col consigliarsi. E fie quella via brevissima a satisfarti qual sia sicura.
Que' buoni Sabini, spogliati con fraude da' Romani, per vendicare la ingiuria acerbissima ricevuta in loro moglie e figliuole, nulla con furore, nulla con ostentazione, ma con ragione e modo si preparorono; onde in tempo ruppono con tanto impeto d'animo e d'arme che chi gli offese gli conobbe uomini e virili e indegni di tanta ingiuria e contumelia. Così noi non precipiteremo le nostre faccende, ma comporremole e porgeremole a miglior fine. E se il tempo e occasione non ci si presta come forse desideriamo, non però faremo come Iunone dea presso a Virgilio poeta, quale offesa serbava eternum sub pectore vulnus; ma faremo secondo che ammoniva Fenix quel buon vecchio presso di Omero, qual dicea ad Achille: “Doma questo tuo animo sbardellato, quando gli dii, quali certo ti superano di virtù e dignità, sono flessibili”. Domeremo noi stessi, fletteremo più a facilità e indulgenza che a severità e austerità. E forse non rarissimo gioverà fare come fece Agrippina, quale, avvedutasi in quella nave del suo pericolo sotto le macchine tese da Nerone per opprimerla e sfracellarla, iudicò utile e solo rimedio de' suoi mali el mostrare di non le conoscere e dimenticarle. Ultimo e ottime fine di qualunque ingiuria sempre fu el dimenticarla. E quando pure el conceputo sdegno ne contamini in modo che a nulla ci sia lecito el dimenticarlo, almeno lo asconderemo o dissimuleremo. Presso a Curzio istorico, quello Eustemon, uno de' iiij M. presi e stagliuzzati da' Persi, quando e' si consigliavano insieme se dovessero ritornare in Grecia così deformati, senza naso, senza occhi e senza mani, dicea: “Coloro sopportano bene le sue miserie quali le ascondono; agli afflitti la patria è solitudine; niuno ama chi e' fastidia; e la calamità si è querula, e la felicità è superba. Ciascuno si consiglia colla fortuna sua quando e' delibera della fortuna altrui. Se noi non fussimo insieme così a un modo miseri, l'uno sarebbe fastidio all'altro. Che maraviglia se e' fortunati cercano e' pari a sé fortunati”. Parole degne di memoria; però le raccontai.
Ma quanto a noi bisogni, così faremo: consiglierenci colla nostra fortuna, e in le calamità saremo non queruli, e in le buone speranze del vendicarci saremo non rigidi né superbi. E intanto asconderemo e' nostri mali aspettando qualche accommodata occasione e luogo di satisfarci. E faremo come presso a Silio poeta fece Annibal, udita la morte del fratello, quale:
compescit
lacrimas... vincitque ferendo
constanter
mala, et inferias in tempore longo
missurum
fratri, clauso immurmurat ore.
E se pur ti duole né puoi sofferire te stessi, e forse te conosci tale quale conoscea Tibullo poeta sé, ove e' dicea:
Non
ego firmus in hoc, non haec patientia nostro
ingenio,
frangit fortia corda dolor,
farai come presso d'Omero fece Ulisses, quando quel citarista cantava in cena cose a lui forse iniocunde, che si coperse el capo e lacrimò; poi, finito el cantare, si discoperse e mostrossi lieto bevendo a grazia degli dii. Così noi cederemo alla nostra imbecillità quanto potremo occulto e coperto. Ma che cerchiamo noi in questi nostri ricordi? Onde possiamo noi accogliere altronde erudizione accommodatissima che da Omero, poeta certo divino, qual sì atto e con tanta grazia esplicò quello si debba in vita dove esso scrive in qual modo e con quanta ragione Ulisses tradusse e' casi suoi? Vide Ulisses costumi di molti uomini, e vide le consuetudine di molte città; scorse lontani paesi, e sofferse varie e dure e molte fatiche in vita, fra l'arme, in mezzo l'onde e tempesta del mare, con tanto e sì intero consiglio che egli acquistò indi nome e immortale fama; e pertanto affermano che fu uno sopra tutti gli altri prudentissimo ed essercitatissimo. Riconosciamo adunque gli andamenti suoi per meglio sapere in tempo seguire e' suoi vestigi bisognando.
Doppo a tanti suoi naufragi Ulisses, tornato alle gente sue sconosciuto e mal vestito, vide la casa sua fatta quasi come una taverna pubblica, piena di gente lasciva e immodesta qual dissipava e consumava ogni sua domestica entrata. Addolorò, e deliberò vendicarsi; ma intanto si contenne e seco disse: o cuore che altrove già tempo obdurasti nei tuoi mali, sostieni. Fu chi diede a Ulisses un calcio, e Ulisses quieto e muto, e per più dissimulare, simile a un gaglioffo porgendo la mano pregò a uno a uno chiunche ivi era in sala; in qual sala forse più volte avea ricevuto e onorato e' principi di Grecia. Ancora di nuovo percosso con uno deschetto, e lui pur quieto e saldo, niuna parola, niuno atto, se non quasi come fusse un sasso; nulla più che un poco mosse el capo. Vollono que' temerari pacchiatori che facesse a' pugni con quello Irone, omo abiettissimo, qual volea cacciar Ulisses di casa; e lui nulla ricusò, e pugnando non volle quel che e' potea; ma per non impedire quello dove e' tendeva a maggior fatti, gli diede un pugno de' suoi lieve. Ancora di nuovo Ethisippus gittò uno stinco di bue per ferire Ulisses nel capo, e Ulisses, quieto, solo acclinò el capo. Oh pazienza in uno uomo incredibile, fermezza inaudita e rarissima! Oh essemplo degno di memoria fra e' mortali! In casa sua da gente insolentissima e perfino da' gaglioffi mal ricevuto, svilito, percosso, ributtato, e lui né in parole né in gesti mai scoprirsi. Tutte le ubriachezze degli altri sofferse, con tutti dissimulò el suo sdegno, a tutti si diede giuoco e strazio, a ogni altrui iniuria tacito e paziente, perché così bisognava al suo instituto. Lui solo: quella brigata e molta e bestiale. Lui non atto per ancora a vendicarsi: coloro presti e pronti a superchiarlo d'iniurie. Lui né discoprirsi sanza estremo suo pericolo né partirsi sanza intollerabile tristezza e acerbità d'animo: loro e ivi lieti e pieni di vino, e altrove molti e pertanto quasi insuperabili. Adunque deliberò soffrire e dissimulando aspettare se il tempo o la stultizia di chi l'offese aportasse occasione e luogo alcuno di rimeritarli e vendicarsi. Solo a quella Melancum, fanticella di Penolopes, quale infestava Ulisses con parole femminili e proterve, si rivolse col piglio grave e collo sguardo sì terribile ch'ella impaurì. Prudentissimo Ulisses non volle quella molestia quale e' potea deporre sanza interturbare suo incetto. Fece come amonia Plutarco, che non si vuole ultro et sponte offerirsi alle molestie e maninconie non bisognando. Ma dove così attagli, fie nostro officio non recusare occasione alcuna per quale ne adopriamo in virtù. Così adunque fece Ulisses. Ultimo, quando fu tempo, quella brigata inzuppata di vino, stracchi del ridere, lassi dalla sazietà e pienezza; e Ulisses pronto e sobbrio coll'arco in mano prima tenta le cocche, rivede la corda e ogni suo nervo, prepara e sé e sue saette a quel che avvenne. Nulla volle preterire onde potesse per sua negligenza o precipitata voglia di vendicarsi avvenire che e' forse meno si satisfacesse in tanta impresa. Indi vedi con quanta virilità e' rende opera a chi da lui meritava male.
Simile faremo e noi. Se forse al tutto deliberiamo satisfare a' nostri sdegni, provederemo col maturo consiglio quel che bisogni, aspetteremo con sofferenza quel che attagli, useremo non stizza, non subitezza, ma virilità e fermezza d'animo dove e quando così ci si presti luogo e tempo a satisfarci; e in ogni nostro discurso escluderemo ogni fretta e ardore di volontà. Mai venne tardi quel frutto qual venne in tempo; e persino alle pine, frutto durissimo e tardissimo, hanno suo tempo e maturità. E piacciati bene sperare delle voglie tue quando elle sono giuste. Favoreggiano e' cieli alle iuste imprese. In questo mezzo seda te stessi, e non aggiugnere al tuo dolore nuovo stimolo e cruccio; ma ripensa una e un'altra volta quanto e' sia necessario teco statuire tanta impresa. Ciò che tu potevi restare e ricusare di fare, questo fu non necessario. Ma tu forse stimi questa offesa, e misurila col viver tuo, e pesila co' tuoi costumi. Oh cosa dolce el viver nostro, se tutti e' mortali fossero e buoni e simili a te! Ma forse tu argumenti così: questo mai feci io, né questo fare' io. Non torresti el suo capro a Dameta, né Dameta torrebbe el bracco ad Atteone, né Atteone torrebbe a Platone que' libri pittagorici tanto pregiati. Trahit sua quemque voluptas. E molto più la necessità, e non meno la natura e consuetudine del vivere alletta e tira e' nostri animi a vari costumi e vita. Ma non ci stendiamo. Vuolsi tanto diminuire alla ricevuta offesa quanto a chi offese s'aggiunse o ragione o condizione di così farti e così trattarti. Era Codro povero; però tolse a Crasso. Era M. Celio formosissimo; però accedette a quegli amori di quella Clodia. E simile, in questo comparare e accogliere tutti e' calculi, forse t'occorrerà che l'offesa ti si presenterà maggiore fatta in quel tempo, fatta in quel luogo, fatta da costui quale tu amavi e di dì in dì obligavi ad amarti con assiduo beneficio e grazia. Non insistere quivi, però che ogni tempo è alieno, e in ogni luogo è indegno d'usarvi iniustizia. E se cosa niuna, come si dice, a noi sta acerba se non quanto la stimiamo, né stanno e' tuoi incommodi posti nella stultizia altrui, ma seggono in la tua opinione, a lui qual fu incontinente e immoderato se ne aggradi el biasimo non a te s'aggravi el dolore. E scopertasi occasione di vendicarti, qual sarà maggiore vendetta che adducerlo a pentersi d'avere offeso chi e' non dovea? Questa vendetta fie più facile essequirla col beneficare chi t'è iniquo che col superchiarlo d'offese. E sarà beneficio gratissimo e laude prestantissima donar questa nuova grazia alla amicizia antiqua; e sarà officio d'animo degno d'imperio con questo rarissimo beneficio fundare nuova benevolenza. Ma qualunque siano e' tuoi pensieri, tanto ti rammento che in ogni tuo deliberare e statuire tua impresa, mai acceda dove la perturbazione t'alletta; ma come chi navica, se 'l vento preme questa banda, tu in quell'altra osta e offirmati. Non favoreggiar sempre alla causa tua, ma confirma teco ogni ragione e scusa di chi ti spiacque. Così seguiranno tuo corsi in vita, sopra e' flutti e tempesta del vivere, equabili e sicurissimi.
Dicemmo de' dispiaceri quali in noi occorsero da noi stessi, e dicemmo de' dispetti e iniurie ricevute dagli altri uomini. Ora investigheremo ragioni e modo di sedarci e acquietarci dalle perturbazioni commosse in noi da' tempi communi, da' casi e fortune nostre. Ma qui prima interporrò quanto mi si porge a mente che noi non rarissimo in nostre molestie e affanni incolpiamo forse e questo e quell'altro uomo di cose quali in prima surgono d'altronde che da chi noi le riputiamo. Et tu, dicea Valerio Marziale,
sub
principe duro,
temporibusque
malis ausus es esse bonus.
E quale imperitissimo non conosce quanto possano e' tempi e ragion pubblice negli animi de' privati cittadini? Quinci avviene forse che tu truovi costumi perversissimi e modi di vivere pieni di fizione e falsità. Pènsavi tu se mai fusti in terra alcuna ove quanti vi siano uomini, tante vi siano trappole, quante vi s'usano parole, tante vi siano bugie e periuri. E conviensi fra simili uomini pendere col viver pubblico. E che la fortuna possa in noi mortali, o Niccola, che in noi mortali possa la fortuna, tu, o Battista, riconosci. Riconosci e' tempi nostri, quanti buoni vivono vita misera e non degna alle loro virtù. E contro, mira che monstri e quanto inauditi e incredibili crebbero nelle cose della fortuna; che dicea Iuvenale satiro poeta:
Si
Fortuna volet, fies de rhetore consul;
si
volet haec eadern, fies de consule rhetor.
E se così è che non pochissimo in noi possino e' cieli, fia nostra opera fare come chi giuoca: se gli avviene buono, vinca; se forse caddero sinistri partiti, moderigli con qual vi si adatti ragion migliore. E certo conviensi, secondo quell'ottimo proverbio antiquo, vivere oggi come si vive oggi. Dicono che ben consigliarsi e ben mantenersi son cose felicissime in vita. Sì; ma chi stimasse ben consigliato colui qual con dolersi de' suoi casi e fortune pur non volesse quel che a lui è necessità sofferire? Dicea Tales Milesio che la necessità vince. E qual si truova cosa che adduca necessità pari a' cieli? Onde ben disse Mannilio poeta:
Heu nihil invitis fas quemquam fidere divis.
E che così sia, vedi a Vergilio quel Laocon sacerdote, qual curando la salute della patria sua percosse col dardo quella macchina di quel cavallo di legno sacrato a <Pallade> e pregno d'armati. Erano e' tempi fatali in eccidio di Troia, e però non gli fu creduto. Non vorrei errare adducendo da' cieli in tutte le cose de' mortali necessità inevitabile, e quel ch'io al tutto niego essere. Forse come e' medici allo infermo danno per giovargli quel che nocerebbe a' sani, e quel che e' vietano in altri, come incanti e filaterie, aggiungono a sé quando e' duole loro; così e noi, in nostre perturbazioni e mala fermezza d'animo, non senza qualche utilità ascolteremo chi forse disse che ciò che ora è, mai potrà non essere stato, e ciò che avvenne, qualche himarmones e fatal condizione e cagione fu, onde e' non potea non avvenire. E poi che quella e quell'altra cosa accrebbe, ella durerà non più nulla se non solo quanto in lei potranno que' suoi cieli e fati quali sono volubili e instabili. Adunque saranno le cose né sempre in uno essere né continuo in una quadra. Dicea Properzio:
Tempora
vertuntur; certe vertuntur amores.
Et
deus, et durus vertitur ipse dies.
Qual volubilità vediamo pari in le cose pubbliche come nelle private. Non fu sempre la fortuna pubblica de' Romani seconda e vittoriosa: trovorono Annibale quale in molta parte gli domò e distrinse. Né fu sempre la fortuna propizia ad Annibale contro e' Romani: abbattèssi a Marcello, qual mostrò ch'e' cartaginesi esserciti si poteano vincere. Adunque facciamo colla fortuna come scrive Laerzio Diogene che facea quel Demofon in mensis prefetto d'Alessandro Macedone, quale al sole abrigidava e in umbra sudava. Quando e' tempi e successi delle cose appaiono gravi, si vuole opporvi consiglio e prudenza in evitare gl'impeti avversi; e dove forse le cose sinistre ti si presentano inevitabili, bisogna opporvi fortezza d'animo e pararsi a sofferirli, e non fare come alcuni enervati quali alla prima ombra avversa caggiono in tristezza e addolorati languiscono e giaciono perduti. In quel numero furono da biasimare que' Gallogreci racconti da Iustino, quali perché in loro sacrifici vedeano segni di fortuna prossima non lieta, timidi non cadere alle mani de' loro inimici, uccisero suo madri e suoi figliuoli, e perderono ogni sua cosa, e arsero casa e suoi beni e sé. Furore immanissimo, per dubbio di male farsi male. Molte cose accennano da' suoi principi esser dure e dannose, qual poi riescono contro a ogni tua opinione a fine buono e commodo. Piacemi di quei tuoi cento apologi, Battista, a questo proposito, quello LXXXVIII, quando e' laghi credeano ch'e' nuvoli fussero montagne per aria e pendessero sopra loro in capo tuttora per cadere, e per questo e' laghi eran divenuti pallidi, squallidi, e tremavano; poi quando videro che que' nuvoli si colliquifaceano in pioggia e acqua, tutti si sullevorono e grilleggiorono di letizia. E come dicea colui in Eunuco presso a Terenzio, qualche volta el male suole essere cagione di molto bene. E intervenne a non rarissimi che chi volea loro fare male, gli fece bene. Qual caso avvenne a molti altri, e fra loro a quel Fedro Iasone, quale da' suoi nimici ricevette una ferita in luogo che per quella tagliatura e' guarì da morbo prima non sanabile per cura de' medici.
Adunque a' nostri preveduti mali opporremo consiglio e ragione ad evitarli e a prepararci a bene soffrirli. E in prima sarà utile preparare a se stessi buona espettazione delle cose che hanno a venire, ché quando bene avvenisse la cosa in male, almeno in quel mezzo viverai sanza quella sollicitudine e ansietà d'animo. Così quando appaiono e' tempi lieti, interpognianci qualche suspizione di cose avverse quasi come temperamento di tanta letizia. E se alle tue iuste e lodate imprese ti si attraversa qualche sinistro intoppo, non abbandonare te stessi: fa come disse la Sibilla ad Enea:
Tu
ne cede malis, sed contra audentior ito,
quam
tua te fortuna sinet. Via prima salutis,
quod
minime credis, Graia pandetur ab urbe.
Dicono che nulla si truova fidissimo renditore quanto la terra. Ella ciò che tu gli accomandasti rende, secondo el precetto di Esiodo, non a pari ma a maggior misura. Ancora più troverai fedele la industria e vigilanza tua, presertim quella qual tu porrai a cose oneste e degne, quando in queste e' cieli e ogni fato si adopera in satisfare a' tuoi meriti. Mai fu la virtù senza premio di lode e grazia. E gustate, priegovi, questo argumento: le cose di quaggiù sono rette o da noi uomini o da altri che noi mortali. S'altri le regge che noi, lasciànne la cura a chi già tanto numero d'anni le resse e con ragione e bene. Ma se forse, come tu scrivi in una delle tue iocundissime intercenali, Battista, la fortuna di noi mortali non viene dal cielo ma nasce dalla stultizia degli uomini, ricevianle fatte come dagli uomini simili a te, proclivi e dati a ogni passione d'animo e inconstanza. Qual tua sentenza mi diletta, e confermola; già che se Cesare non avesse tratto Ottaviano in tanta amplitudine, e que' suoi commilitoni non si fussero sottomessi a Cesare, sarebbe né questo né quello stati principi e ministri di tanto imperio. Anzi l'uno forse sarebbe stato simile al padre argentiero, e l'altro forse causidico. Adunque, se le cose di noi uomini conseguono contro a nostra voluntà, elle succedono secondo el volere di chi così le guida. E certo sarebbe intollerabile arroganza la mia, se io pur volessi ch'ogni cosa isse a mio arbitrio, e nulla uscisse del mio disegno e proponimento. Tante nostre volontà adempiemmo altrove; ora lasciamo che altri ancora in qualcuna sua voglia si contenti.
Ma poi che giugnemmo a questo religiosissimo tempio, entriamo a salutare el nome e figura di Dio. E, quel che sopra tutti e' documenti e ammonimenti de' prudentissimi scrittori giova, preghianlo che e' non ci adduca dura alcuna condizione di vivere, e prestici buona sanità di mente e buon consiglio e intera fermezza a nostre membra, e concedaci animo virile e constante a sostenere e soffrire ogni impeto e gravezza delle cose avverse.
LIBRO III
Ne' duo libri di sopra investigammo vari e utili rimedi a non ricevere a sé perturbazione alcuna; e vedesti non pochissimi particulari e succinti rimedi atti a sedare e' sinistri movimenti dell'animo, quando forse insurgessono in noi o da nostro errore, o da vizio altrui, o dalla condizione de' tempi e volubilità della fortuna e durezza de' casi nostri. Restavano ora certi ammonimenti generali accommodati ad espurgare qualunque fusse in noi insita e obdurata grave maninconia, - materia certo utile e degna, qual vederai disputata in questo terzo libro dal nostro Agnolo e dal nostro Niccola, uomini civilissimi e peritissimi, non forse con quanta dignità si converrebbe alla autorità e prestanza loro, però che in me, confesso, non è tanta eloquenza né tanto ingegno ch'io possa imitare la gravità e maturità d'Agnolo Pandolfini in miei scritti e sentenze, e affermo non potrei esprimere la suttilità d'ingegno e prestezza d'intelletto quale io conosco essere in Niccola. Né mi sento essercitato in modo ch'io possa coniungere e conchiudere con arte e ordine tanta esquisita dottrina e maravigliosa erudizione qual ciascuno de' nostri cittadini sente e già più tempo conobbe essere in ciascuno di que' due. Ma saranno e' documenti raccolti e referiti da costoro per sé sì approbatissimi che non dubito ti diletterà riconoscerli presso di noi, qualunque sia in me eloquenza e adattezza a dire. E udirai da questi due uomini dottissimi cose degne, grate e utilissime. Leggimi, come sino a qui facesti, con avidità e attenzione, e proponti quasi essere quarto fra noi a questi ragionamenti del nostro Agnolo, omo integrissimo e prudentissimo, quale alle disputazioni prossime di sopra, usciti che noi fummo di chiesa e iti due e due altri passi, si fermò, e prese a mano di qua e di qua Niccola e me, e commovendo qualche poco el capo disse: - Io mi credea avervi assoluta e prefinita questa impresa, e stimava restasse nulla altro in questa causa che l'ultimo epilogo e breve enumerazione delle cose recitate da noi. Ma ora m'avveggo in più modi del mio errore, e vorrei non aver cominciato quello ch'io non seppi con ordine e via conducere sino a qui. Né qui so dirizzarmi a tradurlo dove io da lungi scorgo bisognerebbe tragettarlo. Dissi cose assai, e forse non inutili; ma e' mi intervenne come a chi truovò nella vigna quasi el cucuzzolo d'un gran sasso, e parsegli da scoprirlo, ma poi si pentì del sudore e tempo perdutovi sino a qui, ove e' lo scorge maggiore e men da poterlo muovere e transportarlo che e' non si fidava.
Così disse Agnolo, e poi di nuovo tacendo oltre s'avviò passeggiando. Adunque Niccola, uomo acutissimo, verso me ritenne el passo e disse: - Concederemo noi, Battista, qui ad Agnolo quel che e' dice che 'l suo disputare sino a qui sia stato senza ordine? E tanta copia di varie, degnissime e rarissime cose accolte da lui, diremole noi non esposte in luogo e porte e assettate dove bello si condicea e convenia? Molti appresso de' nostri maggiori Latini e ancor molti presso de' Greci, Agnolo, scrissero simile parte e luoghi di filosofia. Non però vidi in tanta frequenza alcuno di loro più che voi composto e assettato. E notai in ogni vostra argumentazione e progresso del disputare esservi una incredibile brevità, iunta con una maravigliosa copia e pienezza di gravissimi e accommodatissimi detti e sentenze. E quello che a me pare da pregiare in chi scrive o come voi qui disputa e ragiona di queste dottrine dovute a virtù e atte a viver bene e beato, Agnolo, si è quello che in prima in voi mi parse bellissimo. Non so se fu Cipreste, del quale Vitruvio scrive tanta lode, o se fu altro architetto inventore di questo pingere e figurare, come oggi fanno, el pavimento. Ma costui qualunque e' fu trovatore di cosa sì vezzosa, forse fu a quel tempio ornatissimo di <Efeso>, quale tutta l'Asia construsse in anni non meno che settecento; e vide costui a tanto edificio coacervati e accresciuti e' suoi parieti con squarci grandissimi di monti marmorei, e videvi di qua e di là colonne altissime; e videvi sopra imposti e' travamenti e la copertura fatta di bronzo e inaurata; e vide che dentro e fuori erano e' gran tavolati di porfiro e diaspro a suoi luoghi distinti e applicati, e ogni cosa gli si porgea splendido; e miravavi ogni sua parte collustrata e piena di maraviglie: solo el spazzo stava sotto e' piedi nudo e negletto. Adunque, e per coadornare e per variare el pavimento dagli altri affacciati del tempio, tolse que' minuti rottami rimasi da' marmi, porfidi e diaspri di tutta la struttura, e coattatogli insieme, secondo e' loro colori e quadre compose quella e quell'altra pittura, vestendone e onestandone tutto el pavimento. Qual opera fu grata e iocunda nulla meno che quelle maggiori al resto dello edificio. Così avviene presso de' litterati. Gl'ingegni d'Asia e massime e' Greci, in più anni, tutti insieme furono inventori di tutte l'arte e discipline; e construssero uno quasi tempio e domicilio in suoi scritti a Pallade e a quella Pronea, dea de' filosofi stoici, ed estesero e' pareti colla investigazione del vero e del falso: statuironvi le colonne col discernere e annotare gli effetti e forze della natura, apposervi el tetto quale difendesse tanta opera dalle tempeste avverse; e questa fu la perizia di fuggire el male, e appetire e conseguire el bene, e odiare el vizio, chiedere e amare la virtù. Ma che interviene? Proprio el contrario da quel di sopra. Colui accolse e' minuti rimasugli, e composene el pavimento. Noi vero, dove io come colui e come quell'altro volli ornare un mio picciolo e privato diversorio tolsi da quel pubblico e nobilissimo edificio quel che mi parse accommodato a' miei disegni, e divisilo in più particelle distribuendole ove a me parse. E quinci nacque come e' dicono: Nihil dictum quin prius dictum. E veggonsi queste cose litterarie usurpate da tanti, e in tanti loro scritti adoperate e disseminate, che oggi a chi voglia ragionarne resta altro nulla che solo el raccogliere e assortirle e poi accoppiarle insieme con qualche varietà dagli altri e adattezza dell'opera sua, quasi come suo instituto sia imitare in questo chi altrove fece el pavimento. Qual cose, dove io le veggo aggiunte insieme in modo che le convengano con suoi colori a certa prescritta e designata forma e pittura, e dove io veggo fra loro niuna grave fissura, niuna deforme vacuità, mi diletta, e iudico nulla più doversi desiderare. Ma chi sarà sì fastidioso che non approvi e lodi costui, quale in sì compositissima opera pose sua industria e diligenza? E noi, Agnolo, che vediamo raccolto da voi ciò che presso di tutti gli altri scrittori era disseminato e trito, e sentiamo tante cose tante varie poste in uno e coattate e insite e ammarginate insieme, tutte corrispondere a un tuono, tutte aguagliarsi a un piano, tutte estendersi a una linea, tutte conformarsi a un disegno, non solo più nulla qui desideriamo, né solo ve ne approviamo e lodiamo, ma e molto ve ne abbiamo grazia e merito. Aggiugni che non tanto el tessere e connodare in un sieme vari detti e grave sentenze appresso di voi fu cosa rara e maraviglia, ma fu e in prima quasi divino el concetto e descrizione di tutta la causa agitata da voi, qual compreendesti faccenda da niuno de' buoni antiqui prima attinta, e mostrasti in che modo si propulsino e in che modo si escludano le maninconie. E confessovi in ogni vostro successo del ragionare troppo mi dilettasti e tenestimi di cosa in cosa continuo sospeso e attentissimo, e ogni vostro detto molto mi si persuase. E ricordommi di quello che e' referiscono di Alessandro Macedone, quale essendogli presentato un forzerino bellissimo lavorato, non sapea che imporvi cosa preziosissima e condegna d'allogarla in sì maravigliosa cassetta. Pertanto comandò vi riponessero e serbassono entro e' libri di Omero, quali certo, non nego, sono specchio verissimo della vita umana.
Ma che volle Omero fingendo sì inaudita e ostinata pazienza in quel suo Ulisses? Se la pazienza è quella quale rende noi simili a chi nulla curi le offese, non sarà e' più lode al tutto nulla curarle e lasciarne altrui non solo el giudicio e determinazione, ma e ancora la fatica di punire e punendo render migliore chi teco mal visse? E se la pazienza sarà in noi quale fu in Ulisses in dissimulare di sentire quello che lo accuori, non io sono colui che tanto appruovi e preferisca questo instituto di vendicarsi in vita ch'io, per valermi di una onta, sostenga più e più strazi di me e di mia dignità. Né seppi mai meco sì adattarmi a non curare e sopportare la temerità e protervia altrui, che a me non paresse in quel tanto essere omo servile e da biasimarmi. Questi la lodano e prepongonla alle prime virtù, e dicono che la pazienza col starsi cortese vince le squadre delle Furie armate. Se egli è vittoria el ricevere assidui fastidi e trovarsi oppresso da gravissime e intollerabili molestie, essi dicono el vero. Io veggo e provo questo in me tutto el dì, che 'l mio essere sofferente a me frutta non altro che solo iniurie. El soffrire apre via e alletta la insolenza altrui esserti noioso: el soffrire d'ora in ora t'adduce e oppone nuove traverse e dure offese: el soffrire mai non fu utile se non quanto el mostrarsi e libero e uomo era periculoso. E quanto e' sia insuave, molesto, difficile e tedioso el sopportare la stultizia altrui, altrove sarà da disputarne. Ma giovi, quando che sia, fra 'l vivere e conversare della moltitudine questo dissimulare di nostre voluntà e questo negligere noi stessi e trascurare ogni nostra dignità, qual cosa voi chiamate pazienza. Dite, qual virtù sarà quella che noi sollievi oppressi da e' nostri casi avversi e dalle ruine de' nostri tempi? Diranno que' savi: non curare e' tuoi dolori. Facile precetto a dirlo, facile a dirlo. Ma colui el quale perdette e' noti a sé, domestici, coniunti, amici, e perdette l'altre sue commodità e onestamenti, e perdette sue fortune domestiche, amplitudine, autorità publica e luogo di dignità, e ora si truova in solitudine, assediato da ogni necessità, abietto, destituto, e forse malfermo e poco intero in suoi nervi e membra, come aiterà e soverrà a sé stessi? Voi forse a costui adducerete que' detti vulgatissimi e notissimi: non ti dispiaccia la cecità tua, non ti aggravi la surdità. Quando molte cose testé non vedi e non odi quali soleano adolorarti, assai vedi quando tu discerni le buone cose dalle non buone, le degne dalle non degne, e assai odi quando tu odi te stessi in quelle cose che faccino a virtù e laude. E bene hassi la notte in sé ancora e' suoi diletti. Le fortune, el nome, lo stato, la felicità del vivere, direte che siano cose caduce e fragili. Ed elle pur sono quelle per quali tutti e' mortali contendono col ferro e col fuoco, e per quali espongono suo sudore e sangue e vita; e voi vorrete ch'io non le curi né desideri? E pure mi duole, Agnolo, e duolmi non le avere. E bench'io mi disponga coll'animo e al tutto m'affermi a non curare e non desiderare quello che a me sia vetato e perduto, pur quando spesso ora vedo e' luoghi e cose, quando odo e sento questo e quest'altro, quando nel mio pensare trascorro di cosa in cosa, allora, come non solo dicea Dido presso a Virgilio: agnosco veteris vestigia flammae, ma e in prima mi si rinnuovano mie triste memorie e raccendonmisi insieme e' miei dispiaceri oltramodo; e dico anche io:
dulces exuviae, dum fata deusque sinebant;
e viemmi lacrimato prima ch'io m'avegga del mio o volete errore o volete dolore. Diresti: e perché piagni? Rispondere'ti come rispose Solone filosofo: piango perché sento che 'l pianger nulla giova al mio dolore. Ma in questo chi mi ripreendesse? Noi vediamo natural desiderio fino alle fere silvestre intorno a' nidi e presso a' covili suoi dar segni manifesti de' loro incommodi. E prudentissimo fu quel detto del figliuolo di Nestorre presso del nostro Omero: io non lodo el piangere. E piangere nulla e' morti suoi mi par biasimo, quando questo solo onore si debba a' miseri mortali usciti di vita. Vedi che Priamo, re prudentissimo, alle essequie del suo Ettor, fortissimo figliuolo, comandò si celebrassero e' pianti interi nove dì, poi el decimo dì si sepellisse e facessonsi le essequie, e l'undecimo dì ordinò se gli construisse el sepolcro onoratissimo. Ed ebbe in queste funerali cerimonie chi con modi e canti e versi piangiosi eccitava mestizia e sospiri a chi udiva e vedea. Simile lodano Marco Fabio che, perduto el fratello, recusò la grillanda, insigne publico onoratissimo. Ma che raccontiamo noi essempli de' principi mortali, o donde meglio compreenderemo quel che in questo s'appruovi presso de' dotti e famosissimi scrittori, quando la Dea degl'iddii, presso a Omero, prese el velo nero nel suo merore e cordoglio?
AGNOLO. Or così fa, Niccola; tu omo qual sopra gli altri sempre fusti in ogni tuo vita sempre pazientissimo, segui meco argumentando e dissuadendo la pazienza. S'io volessi mostrarti quanto el sapere, come e' dicono, vorare la inezia del volgo e piegarsi alle temerità de' venti e aure populare sempre fu cosa commodissima, e s'io volessi esplicarti quanto l'essere non subito, non precipitoso, non aventato in suoi movimenti d'animo e volontà, sia cosa necessaria in vita, atta a virtù, conveniente a bene e beato traducere ogni suo età piena d'officio, piena di frutto, piena di merito, nulla difficile, nulla iniocunda, nulla disconveniente a chi sia ben confirmato con ragione e bene instituito ad onestà, e dato ad acquistar lode e buona grazia fra i mortali e posterità, non mi basterebbe el dì; tanta copia d'ottimi argumenti mi si inondarebbe e suppeditarebbe. Forse altrove a tuo posta ne disputaremo. Per ora, quanto accade al nostro proposito, a me nulla dispiacerà ti consigli colla necessità e colla opportunità de' tempi tuoi. Che dici tu? E' mi dolgono le offese. Io desidero le cose pregiate. Che adunque? E che faremo? Al primo impeto ne scopriremo e ostaremo armati. Guarda, Niccola, quanto sia utile questo consiglio. Dirai: e a te, Agnolo, che ti pare? Vedi quanto io mi ti dia facile e largo. Non vorrei essere udito da questi miei filosofi. Dico, Niccola, e tu, Battista, della sofferenza si vuole avere o nulla o troppo. Nell'altre cose giovi usare mediocrità. In questa, dove tu non puoi presentarti e averti libero, ubbidisci a chi più può. Ad Euripide poeta parea la inobbidienza della moltitudine più che 'l fuoco valida, e più atta a destruere e consumare le cose. E dicono che la moltitudine sempre fu insuperabile. Omero dicea che 'l male sempre vince; ma quanto e dove e a chi bisogni cedere t'insegnerà la necessità. E iudica necessario el cedere sempre dove tu cedendo non peggiori tuo stato; e quello che per ora si può mutare se non in peggio, iudicalo ottimo. Nel resto ti concedo che dove a te sia lecito, mostrati uomo non al tutto sanza stomaco. Spegni, attuta l'arroganza di qualunque te incende ad ira. E così adunque a me non dispiacerà ti consigli colla necessità e colla opportunità de' tempi tuoi in ogni tua impresa e faccenda. Né ti distolgo da' tuoi sensi e proclività umane; né ti interdico che a te non dolga perdere e non avere tuo care cose e amate. Ben ti rammento non perseveri col dolerti, né pur seguiti essere e a te grave e a' tuoi bisogni inutile e sinistro, e che desideri e che chiedi quel che e' mortali pregiano e prepongono, e per quale s'espone el sudore, el sangue, la vita. Questo, s'egli è possibile acquistarlo e recuperarlo col dolerti e col piangere, come molti fanno, segui; vivi in assiduo e profondissimo dolore tanto che tu a te satisfaccia e asseguisca e' tuoi desideri ed espettazione. Fa come fece quel M. Livio, uomo onoratissimo in Roma, quale sperava e a sé stessi promettea el consolato, ma poi repudiato dal populo e caduto dalle sue espettazioni in quella petizione del consolato se lo reputò ad ignominia, e per questo si commise in solitudine, e fuggì piazza, teatri e templi, e fuggì ciascuno luogo pubblico e celebre, e fuggì la patria, e visse anni otto in villa vita cordogliosa e squallida. E se tu pur vedi che 'l tuo lagnarti, e questo tuo condolerti entro a te e questo tuo vivere in tristezza e merore nulla t'apporti d'alcuna di tante cose qual tu vorresti, che stultizia sarà la tua non abdicare da te quel che ti strazia e atterra? Nulla si truova grave e molesto a' nostri animi quanto l'attristarsi dell'altre perturbazioni. La libidine ha in sé un certo ardore, la immodesta letizia ha in sé una inetta levità, la paura ha in sé non so che diffidarsi e troppo umiliarsi. Ma questa egritudine d'animo qual chiamano tristezza, questo dolersi e vivere tedioso a se stessi, ha in sé maggior mali insiti e infissi. Dicea Omero che la miseria presto c'invecchia. E tu così vedi e' cordogliosi deformati, languidi e fedissimi contorcersi ne' loro intimi crucciati, e simile a un trave annoso e corroso da tarli putrirsi e insordidirsi. Adunque e che insania fie la tua pur nutrire in te quel che ti seduce e distiene da ogni tua speme ed espettazione? Che pur segui tu ove nulla giova e molto nuoce el condolerti e attristirti? Non senti tu che questo tuo involgerti e sospignerti col pensiere in questa ortica di tuo triste e ingrate memorie ti rende inabile a discernere e distinguere quel che al bene a te s'acconfaccia in vita, e rendeti inutile ad escogitare e preordinare le cose buone e opportune e abili per evitare e propulsare e' pericoli e difficoltà quale tuttora incorsano e da molte parti noi urtano in vita. Se a te dolgono e' tuoi incommodi, tu a te stesso in questo ne dai cagione quale dolendoti male curi e' fatti tuoi. Se a te dolgono le tue voluttà perdute, riconosciti omai in colpa, ove tu non fughi da te ogni tristezza, e te dai ad altri nuovi diletti e amenità e piaceri. S'e' tuoi onestamenti e gradi perduti ti perturbano, tu in questo rimanti di sinestrar te stessi ove dimostri non esserti per tua prudenza persuaso già più tempo che tu eri non dissimile dagli altri mortali, e sentivi e riconoscevi te subietto ed esposto a' casi vari e volubilità della fortuna. E che giustizia fie la tua se tu pure obdurerai recusando in te alcuna delle condizioni dovute a chi vive? E che officio di prudenza sarà la tua non riconoscerti uomo? E che modestia sarà la tua non por, quando che sia, fine e termine alle tue querele? E che lode d'animo grande e fermo sarà la tua, se tu nato a imperare e regger gli altri, non saprai moderare te stessi? E se in cose alcune bisogna moderazione e ragione e virtù, certo bisogna contro al dolore. Oreste per dolore divenne furioso. Cleobolo filofoso, estinto da sue grave maninconie, uscì di vita. Eccuba fingono che per acerbissimi morsi de' suoi dolori diventò cane e arrabbiò. Niobe fingono che addolatara si convertì in sasso. Adunque se pel dolore si diventa e furioso uomo e arrabbiata bestia e insensato sasso, qual sarà che non curi con ogni sua opera e forza lunge propulsare da sé questo dolersi? Ma tu, Niccola, in ogni mia argumentazione vedi tu come io a te nulla vieto che tu non sia in tue opinioni e volontà uomo sì, ma proibisco non diventi efferato e immanissimo. E tu pur quivi t'affolti, e come la coturnice rinchiusa nella gabbia pur vorrebbe uscire per quel poco che a lei pare non bene intero, tu così quinci forse vorresti uscire in maggior disputazione ed estenderti in più lati campi d'argumentare contro a' detti miei. Oh! egli è cosa molesta e veemente el dolore, e vince: egli è cosa difficile e dura el non sentire e non cedere a' mali suoi. Eschilo poeta tragico, quando egli adduce uno e uno altro degli dii venuti a consolare Prometeo relegato e alligato a quel sasso al Caucaso, non diceano: O Prometeo, non curare e' tuoi mali e non gli sentire; ma diceano: Quello che a te è imposto dal summo Iove, quello che tu non puoi recusare, quello che a te è necessità soffrire, soffrilo con quanto men puoi agitare e infuriare te stessi. E Prometeo pur si lagnava con parole immoderate, e dicea: Io pur feci ch'e' mortali mai più morranno. Io imposi loro molta speranza e molto cieca; e insieme aggiunsi quel vivo e celeste ardore. E qui l'Occeano, massimo degli dii, li rispondea: “Tu, o Prometeo, lascia questo tuo fasto ed elazione antiqua. Usurpa testé nuovi costumi quando el cielo serve a nuovi tiranni, e al tutto modera a questa tua lingua e procacità. L'ira di chi può tanto in te quanto tu pruovi, si sederà colla tua summissione molto più che coll'alterezza. L'ira che ti incuoce si spegne e medica colle umili parole; e gioveratti non raro parere men savi e men dotti che noi non siamo. Della Necessità sono ministri e' Fati triformi e le mai dimentiche Erine”.
Così dicea l'Occeano a Prometeo. E appresso di Euripide, pur greco poeta e tragico, dicea Ulisses ad Eccuba quando e' gli nunziava che l'essercito de' Greci constituiva per utile e salute del nome di Grecia sacrificare agl'iddii la sua figliuola: “Pensa tu, o Eccuba, ora non più lungi a' tuoi mali, e dà senza contumacia quello che tu non puoi denegare a' casi tuoi”. Sempre fu opera di savio usare senno ancora in le cose non buone. E noi che faremo in le nostre avversità? Nulla udiremo questi ottimi ammonimenti degnissimi di mandarli e osservàlli a perpetua memoria? Anzi, come el puledro, pur ne combatteremo e straccheremo subagitando e resteggiando qua e qua, obdurati in nostra contumacia contro a chi ne osserva a regge? E non ci mitigheremo né sosterremo chi ci contiene legati e frena? Indi e come reputeremo noi, disposti a nulla desiderare quello che fia irrecuperabile, costui a cui da ogni minima favilla di sue già estinte memorie si raccendono maggiori cure al petto, né s'avvegga del suo errore altronde che dalle sue proprie lacrime? E che piangi, uomo effemminato? Perdetti; non ho; vorrei. E' fanciugli vezzosi imparano piangere dalla troppa indulgenza della mamma, e quando e' non impetrano da lei quello ch'essi chieggono, allora giova el piangere per satisfarsi. E noi in questo siamo e più leziosi e con men senno ch'e' fanciugli, dove pur perseveriamo contorcendoci e singhiozzando in nostri convenevoli e piagnisteri, e vediamo e conosciamo che nulla giova. Quando a casa di Febe convenirono molti dii per confortarlo nel caso di Fetonte suo figliuolo, piacque a Febo convitarli, e apparecchiò loro secondo el costume antiquo quello epulo e lettisternio consueti. Erano infra que' divi el Pianto e ancora el Riso, fratelli gemini e nati in un solo parto, figliuoli nati della dea Mollizie e di quello Fauno quale e' chiamano Stolidasperum. Pirteo, ordinatore dello apparecchio, procedeva disponendo a' convivati loro luoghi e seggi. Quando e' divenne a questi duoi fratelli, e' si fermò, ché non potea non maravigliarsi mirando quanto e' fussero in ogni loro effigie e liniamenti troppo simili; né appena discerneva indizio alcuno per quale e' riconoscessi l'un dall'altro, che stavano ambedue simili colla faccia straformata dagli altri dii. Vedevigli colla bocca di qua e di qua inversata, collo ciglio contratto e innodato, con gli occhi lucciolosi e rappresi, colle mani e petto e umeri implicati e discommessi. Solo una differenza vi s'aggiugneva: questo è che l'uno di loro ti si porgea tutto bavoso e tutto muccilutoso; l'altro era non in tutto quanto costui a vederlo sozzo e iniocundo. Miravagli Pirteo e dicea: “Non saprei chi mandarmi di voi inanzi a sedere; ma qualunque di voi si move prima, l'altro lo seguiti”. E questi due stavano pur quasi stupidi, né cosa favellavano, ma rompevano in voce e gesti inettissimi e disonestissimi. Pirteo, vedendogli così osceni e transformati, si maravigliò che 'nfra 'l numero degli dii ottimi e massimi fussero due sì osceni e iniocundissimi monstri. E nel maravigliarsi, quando esso guardava fiso costui, gl'intervenia che fingeva per maraviglia in sé viso simile a chi e' pendea col guardo e colla mente. E quanto summirava quest'altro, simile imitava quest'altro. Gli dii chi surrise della inezia loro, chi forse si condolse di tanta loro disadattaggine, ed esclusongli dicendo: “Né tu hai viso da onorare un simile convito, né tu hai faccia da consolare e' calamitosi”. E certo pur sì, chi vedesse se stessi quando e' piange, o befferebbe tanta svenevolezza o dorrebbegli tanta sua bruttezza. Dirai: e chi può tenere le lacrime nei suoi mali? Natural desiderio. Vedi sino alle bestie pe' boschi e pe' diserti danno segni manifestissimi del loro furore. Forse come per altre molte cose, e per questo ancora in prima sono bestie, se desiderano quello ch'elle nulla possono trovare, o se credono col suo urlare e accanirsi trovar più tosto e con men fatica quello ch'elle siano forse per asseguire. E tu, uomo, che piangi? Se tu avessi altro che fare, certo non piangeresti. E' Ierosolimitani in quel suo ultimo eccidio in quale perirono più di secentomilia conosciuti ebrei oppressi dalla fame, non solo non piangeano, ma si dimenticavano sepellire e' suoi cari e amati. Ulisses presso a Omero, - non senza voluttà rammento spesso el nostro Omero, quando anche a te e' pare specchio della vita umana, - in cena, a chi chiedea da lui che recitasse e' casi suoi, pregò che lasciassino prima ch'e' satisfacesse alla fame e sete sua quando la fame fa dimenticarmi ogni altro merore. E que' compagni di Ulisses non prima che doppo cena appresso l'isola Hyperionis cominciorono a piangere e' suoi perduti cari e amici. E chi troverai tu a chi non superabbundino tuttora cose maggiori e più necessarie e utili e più degne che 'l piangere? E se pur questa insania del piangere ti diletta, almeno fuss'ella con qualche scusa.
Lasciamo a dietro l'altre cose in pronto esposte e manifeste quale, quando che sia, onesterebbono le nostre lacrime. Chi è che mai pianga pur uno di tanti suoi dì perduti oziosi o adoperati in vizio e vituperio? E qual ti pare mal maggiore o perdere quello che mai si possa, non dico recuperare ma né ristorare, o perdere quelle cose quali siano e nate per perdere e atte a riaverle? Non voglio stendermi in amplificare e coadornare questo luogo. Tanto dico che se pur lice el piangere a noi uomini tinti di lettere, sarà quando o perderemo tempo o commetteremo qualche errore. Ma né qui ancora voglio teco essere rigido e austero. Come in la battaglia el fortissimo milite, ove e' si sente stracco e oppresso, così tu cedi alquanto ad secundos, at non inter triarios ordines, e ivi astergi el sudor e priemi fuori el sangue circumpresso a quella scalfittura ricevuta in te dove tu non eri bene armato. E ancora non ti inculperò se tu darai qualche lacrimetta delle tue all'uso e l'oppinioni degli altri, quasi segno e testificazione della umanità tua. Ma in questo odi e tu el tuo Omero dove Ulisses dicea: conviensi por modo a' nostri pianti acciò che di queste femminelle qualcuna vedendoci col viso madido e mezzo non ci reputi forse ebbri. E certo sarà alienissimo d'ogni constanza virile porgersi tale che sia o simile alle femminelle o simile a chi sia poco sobbrio e continente. E sarà nostro officio e proprio d'uomo far non più che solo come fece Enea presso a Virgilio, quale in tanti pericoli suoi e circumstanti mali solo ingemuit et palmas ad sidera tendit. Le molte lacrime, gli acerbi pianti, l'urla e stridi femminili, a nulla sono degni d'uomo.
Appresso de' Litii, populi civilissimi, era una legge che chi pur volesse piangere si vestisse con veste di qualche femmina. Ma tu, se pure a que' gemiti virili forse v'aggiugni una e un'altra lacrima, e sfoghi qualche intimo sospiro, ponvi modo. Numa re de' Romani, omo religiosissimo e piissimo, vetò ch'e' morti si piangessero più mesi a numero che fussero gli anni quali que' morti erano stati in vita; né volse ch'e' fanciugli da anni tre in giù punto si piangessero. Il Senato di Roma, ricevuta la clade apud Cannas gravissima e da viverne tutta quella età adolorati, comandò si sedasse ogni lutto in Roma, né più si protraessero e' pianti loro che sino al trigesimo dì. Cesare dittatore el terzo dì impose fine a ogni lutto domestico e pubblico con qual si degnasse e onestasse le essequie della sua morta figliuola. Così e noi, quanto potremo subito, porremo fine a queste inutilissime inezie.
Né pero tanto mi fastidia questa levità femminile del piangere e scalfirsi le guance e pelarsi el capo, quanto mi pare da odiare e fuggire quella insania di molti quali per loro concette maninconie sviano el sonno, interlassano el cibo, perdono se stessi, fuggono e vedere ed essere veduti dagli altri uomini, e in sua solitudine e umbra stanno stupidi e quasi stolidi, dolgonsi e predicano essere sé sopra tutti e' mortali miseri e infelicissimi; né però restano aggiugnere a sé stessi continua infelicità e miseria mentre che così si crucciano e tormentano con sue triste memorie e conceputi dispetti e dispiaceri.
Ma noi siamo e imprudentissimi ove male conosciamo lo stato nostro. Se, come dicea Socrates, tutti accumulassimo in un sieme e' nostri mali, a ciascuno parrebbe men peso riportarsi que' suoi antichi incarchi quali e' portò quivi, che di nuovo entrare sotto a questo inusitato peso e molestia quale a lui converrebbe se tutta la summa de' mali universi de' mortali si distribuisse per sorte equale a tutti. E quanto sarebbe somma più abile quella di Priamo, di cui si cantano que' versi troppo teneri e molto veementi ad eccitarci a compassione de' mali altrui, e a contenerci e ritrarci da ogni nostro inconsulto discurso in nostri effetti e immoderata voluntà:
Haec finis Priami fatorum; hic
exitus illum
sorte
tulit, Troiam incensam et prolapsa videntem
Pergama,
tot quondam populis terrisque superbum
regnatorem
Asiae...
Non mi estendo in raccontarti le calamità sue. Felice lui, se di tutta quella summa qual dicea Socrate, non più a lui fusse stata imposta dalla fortuna sua che solo la parte sua.
Appresso ….. era una consuetudine che gl'infermi giaceano fuori a' vestibuli e intrate del tempio. Chi entrava a salutare Iddio, vedea e udia ogni progresso di quella infermità, e dicea: questo medesimo intervenne al tale, e intervenne a me: fecivi quello e quell'altro rimedio, e sanificammo. Contrario uso mi pare el nostro ch'e' medici, onde impariamo sanificarci, stanno a' vestiboli de' tempî nostri. Quanto mi sollievano, Niccola, questi afflitti e lassi dalla sua fortuna e morbo, quali tu vedi nudi, sauciati, in età stracca, imbecillissimi, sedere e giacere su dove tu poni e' piedi, e pregarti limosina e pietà. Indi, Battista, indi prenderemo ottimi e salutiferi rimedi. Colui povero e priegami; io ricco, e dono: colui ogni suo membro nudo; io persino alle mani e molta parte del viso (membra da volerle espeditissime) tengo vestite e obinvolute: colui scabbioso, leproso, immundissimo, tutto carco di malattie e lutoso di fetido e virulento umore; io nitido splendido e tutto vezzi. Di tanta oscenità e fedità toccherebbe parte a me, se ogni cosa si distribuisse per sorte; e non si distribuendo, io pur sono lungi molto più felice che costui. O costui è poltrone, gaglioffo, e piacegli essere non altri che e' si sia omo; e pure è di quel medesimo luto che tu. E tanto più debba moverti a pietà, e insieme tanto più debba muoverti a riconoscere la tua sorte e la sua calamità, quanto in lui sono e membra e mente men sane che in te. E appresso dimmi: quello antiquo Mecenas nobilissimo, editus atavis regibus, quello amico e nutritore di tutti e' buoni studiosi, quanto ti parse egli per tanta sua nobiltà degno della sua assidua molestia? Costui molta sua età sostenne in sé perpetua febbre, sanza dormire solo uno minimo momento d'ora. Troppo sarebbe cosa troppa divina non esser gaglioffo, se solo quella generazione di uomini soffrissero gli ultimi mali.
Ma non mi stendo, già che in recitare le miserie dei mortali mancherebbe el dì. Tanto dico che non solo riconoscerci uomini e pensare alle sorte e condizioni umane, come ieri dicemmo, fanno escludere le maninconie, ma e ancora giovano a espurgare le già concepute e al tutto infisse miserie entro all'animo. E non solo questo riconoscere te stessi, ma insieme qualunque cosa propulsa e distiene da noi le perturbazioni; questa medesima le evacua, e risanifica l'animo nostro già contaminato e corrutto. E massime quei luoghi d'argumentare, quali tu usurparesti in consolare altrui, que' tutti adduceranno a te stessi molta utilità. Quali forse saranno questi: se uno de' mortali fu quello da cui tu ricevesti ingiuria, - mala cosa la ingiuria, perché mai fu ingiuria sanza vizio, né vizio sanza colpa, - ma el vizio e la ingiuria rimane a lui, ed è non tua, ma sua di chi la fece. Se il male è d'altrui, non bisogna ch'e' dogga a te; e se forse furono e' cieli e que' ministri della volontà di Dio, quali e' teologi antiqui appellavano dii, quelli che così t'addussero in calamità, accettalo in miglior parte, quando tanti beni ricevesti da loro, quali per loro natura sempre furono benefici e liberali e cupidi di vederti migliore. Aggiugni che sempre fu officio de' prudenti provedere a sé che nulla gli oppressi. E simile sempre fu officio d'animo forte soffrire qualunque cosa avvenga avversa. Voglio ne' tuoi mali invochi aito da Dio. Ma non voglio in questo t'abbandoni e diati a intendere non potere in te di te quello che tu puoi. Resta, quando che sia, sollicitare gli dii con tanti tuoi voti e chieste. Eccita in te la tua virtù: Sat sit mens sana in corpore sano. La mente nostra sarà sana quanto la vorremo esser sana. La fortuna buona ben possiamo appetere dagli dii. Ma da noi conviensi chiedere la virtù, da noi, dal nostro studio, da nostra diligenza impetreremo sapienza, ornamenti d'animo e lode di ben composta mente. Chiederai ne' tuoi casi avversi forse dagli dii sapienza e virtù, subito ti si presentarà la prudenza, quale a te veterà perseverare in questo tuo condolerti, onde a te niuno resulti profitto; ed eccoti colla prudenza insieme la temperanza, a quale null'agrada ogni tuo fatto e detto immoderato e non maturissimo. E in prima la giustizia, lume e splendore di tutte le virtù, e accusa e appellasi deserta da te, dove tu così quasi in pruova degeneri dalla virilità e dal giusto e retto stato di ben vivere, abbandonando te stessi e tuo officio. E alla fortitudine, a cui fastidia ogni tua imbecillità, e vilipende qualunque sia cosa non eccelsa ed erta, come sarai tu bene accetto, mentre che tu giacerai in solitudine e in umbra, marcendo te stessi? Sollievati adunque omai, e aita te stessi, e adattati a vincere, e vincerai per tua virtù quando vorrai, e aiteratti a vincere chi tu meno credi. Questa tua fortuna avversa t'insegnerà essere paziente; la pazienza confermerà la virilità, e colla virilità si vince, e vincendo in ogni milizia si diventa fortissimo e insuperabile.
La fortuna per sé, non dubitare, sempre fu e sempre sarà imbecillissima e debolissima a chi se gli opponga. Ma tu, non aggiugnere a' reflui e ritrosi della fortuna e' sinistri impeti di te stessi. Pure intraversandoti contro a te e contro all'ozio tuo, e contro a ogni dovuta quiete dell'animo tuo, fuggi combattere contro a te, e resta ferire assiduo ivi dove tu ti senti più debile e men provisto e armato. Fuggi in ogni tuo ragionamento, quale tu hai fra te, ogni parola in condolerti e ogni gesto e ogni gratificazione a te stessi, quale tu, presente gli amici e inimici tuoi, altrove non useresti. E come in mare l'ancora, così in ogni estuazione tua d'animo e mente fondavi e affermati con integra ragione e virilità. E a questo molto insieme a te gioverà consolar te stessi con qualche lieta memoria delle cose passate o qualche grata espettazione delle cose che siano per avenire, contraponendo a' mali tuoi ogni tuo bene e lode quale a te sia o dalle tue fortune addutto o alle membra tue aggiunto o imposto nel tuo ingegno. E gioveratti far come Eneas, quale ne' duri suoi casi ed errori: fatis (inquit) fata rependo meis. A tanti espettati beni, non ingiuria, si debbono queste e maggior fatiche. Quanti meno sono che potessero soffrire coll'animo non rotto ed equabile queste durezze, tanta sarà lode maggiore la mia bene averle sofferte. E quanto bello assettò Virgilio, ottimo poeta, in più luoghi questa ragione di consolarsi afflitto e mestissimo. Sono versi qui di Battista in suoi poemi toscani in quali imitò Virgilio:
Grave più cose già soffrimmo altrove,
e darà el tempo a queste ancor suo fine.
Ed Eneas presso a Virgilio:
Forsitan (inquit) et haec olim meminisse
juvabit.
In tanto suo furore e ultima immanità Dido adiudicatasi e precipitosa in morte non potette quinci non consolarsi:
Urbem praeclaram statui, mea moenia vidi.
Appresso d'Omero, Ettor ferito a morte consolava sé stessi con sperare a sé gloria immortale ed eterna fama; e dicea: “satisfeci al mio fato, esco di vita forse in età non matura, ma esco non sanza qualche piena e bene appresa gloria quando feci più e più cose degne di memoria e posterità”. E Ulisses, sofferti a sé molti oltraggi da Alcinoo re Feicorum, quando e' vide seco reconciliati gli dii e secundargli commodi e' venti al suo principiato corso in mare, dimenticava seco stessi ogni cosa avversa passata, e molto seco si consolava con tanta presenza d'ogni bene.
Così a noi converrebbe e castigarci con giuste amonizioni, e confirmarci con vere e integrissime ragioni, e consolarci con buona speranza, ioconde memorie e dolci contentamenti d'animo. Ma noi desidiosi e ignavi, quali tante ragioni e ammonimenti addutti da me sino a qui, e tanti modi di vendicarci in libertà e sottrarci dalle ingratissime nostre molestie, non attagliano forse, giacendo e gemitando desideriamo a' nostri sconci aver chi con sua qualche arte e senza alcuna nostra opera e diligenza noi restituisca ad integrità e a fermo stato d'animo e di mente. Vorrebbesi aver quaggiù fra noi quel Peion medico degli dii, qual mai si parte dalla presenza di Giove, e assistegli continuo in cena; e costui non però so se e' potesse in noi quello che non potemo noi in noi stessi, se già quella Elena, figliuola di Giove, presso ad Omero, non gli porgesse quella pozione con quale ella inducea oblivione d'ogni male a chiunque ne bevesse. Questa sarebbe cosa utile fra noi mortali; benché Diodoro, greco istorico, dice trovarsi una certa spezie di farmaco chiamato elena, composto dalla moglie di Tono medico, qual farmaco spegne le lacrime ed estingue il merore. Ma voglio ridere con voi, Niccola; né però dirò cosa non accommodata a questi ragionamenti, quando dagli dii ministri della natura e compensatori della condizione umana interviene, come dicea Ulisse ad Achille, che a' nostri mali d'animo non è chi per ingegno o per impiastri o medicamenti alcuni possa rimediarvi. Dianci a qualunque aito e amminiculo ci sollievi fiacchi e afflitti da sinistri incarchi. Rido. E' dicono che Bacchus fra 'l numero degli dii si chiamava Liber pater, po' che e' liberava l'animo dalle cure e sedavagli el dolore e rendevalo ringiovanito. E questo facea solo col vino, frutto della terra alacre e iocundissimo. Molti impongono a Flacco, poeta lirico, calunnia quale s'ascrive a tutti noi vecchi, e accusanlo che fu bevitore; e questo arguiscono perché in molte sue ode e' loda el vino. Certo, come e' dicono di noi stracchi omai del vivere, aquilae senectus. Pertanto non vorrei in mie parole parere men sobbrio ch'io mi sia sempre stato in ogni mia vita. Voglio in questa causa da me essere preiudicato e preconstituito questo, che io in ogni altro uso del vivere biasimo la immodestia del vino. E vidi e notai in molti altrove robusti e vivacissimi uomini che la intemperanza del vino gli atterrò e abbreviò loro vita e privogli di sanità. E non mi estenderò di raccontargli in quanti modi l'essere poco sobbrio oppressi e' nostri corpi di gravissime infermità. Ma Omero chiama el sonno domatore d'ogni acerbità, e introduce che ad Ulisses, dopo quel suo miserabile naufragio, giunto che fu el terzo dì al lito, la dea Atena, qual una sempre lo sovenne in ogni sua avversità, sopragiunse e trovollo giacere in su un suo quasi covile quale e' s'avea fatto di frasche e di frondi; e forse lo trovò repetendo e' suoi mali condolersi della sua calamità. Per questo mossa a pietà la dea Atena, non come in quel suo naufragio, gli sustese el velo o la vesta ove e' posasse el petto e le sua membra; ma solo gl'indusse, per suttrarlo alquanto da tante miserie, el sonno, e adormentollo. Stratonices presso a Iesippo istorico, presa da' nemici vincitori, deliberò uscire di servitù e uccidersi; ma in quel curare e procacciare quanto forse ella cercava per satisfarsi con men dolore e con più degnità, fu interpellata e compresa dal sonno. Dormì, e in quel dormire si spense tanto suo furore e immanità.
Bene adunque dicono che 'l sonno è dolce dimenticatore d'ogni male. Allettatore ottimo del sonno pare pure a me, il dirò, Niccola, el vino. Consiglio di Diomede: bei e mangia; poi dormendo ti racconsolerai. Benché appresso del nostro comico, Cherea dica in le sue cure amatorie: “Io in villa mi straccherò facendo qualche opera, tanto che lasso poi dormirò”. Omero trovò a questo nuovi rimedi, dove egli introduce quella Tetis che suade al figliuolo suo adolorato cosa quale io non voglio dire, ché sapete gli dice: “Figliuol mio, trastullati con qualche tenera fanciulla stanotte”. E altrove afferma el tuo gravissimo Omero che 'l coito introduce sonno dolcissimo e innocuo. E' Greci chiamano le cure dell'animo acidos. Indi nominorono Venere acidalia, ditta che lievi le cure dell'animo. Ma che diremo del vino? Rammentati in quanti luoghi egli adoperi el vino a sollevare le triste gravezze dell'animo. Iunone si lagnava non essere stata, quanto ella desiderava, accetta a Iove, e Vulcano, pincerna degli dii, gli diede el vino col quale ella dilavasse ogni tristezza. E Laodices, moglie di Elicanore, al figliuolo stracco in fatti d'arme diede el vino dolce, e disse: “el bere restaura le forze e rafferma l'animo”. Scrive Iulio istorico che Massimino, uno de' successori a Cesare moderatore dello imperio romano, quel che solea in un dì mangiare quaranta libre di carne lui solo e bere una anfora di vino, e solea ricevere in certe tazze el suo sudore quando e' s'affaticava, e spesso monstrava tre sestari vasi pieni del suo sudore, - costui iudicato inimico della patria dal Senato, essarse in tanta ira che percosse per furore el capo al parete e corse per cavar l'occhio al figliuolo. Solo uno ottimo rimedio giovò a tanta sua estuazione: inebbriossi. E quanto io, non ardisco a biasimare questo rimedio, qual pur giova, benché a me e' non sia bello. Molte cose fatte piacciono quali sono non belle mentre ch'elle si fanno.
E ancor veggo che
questo uso del vino non in tutto dispiacque a più e a più ottimi e degnissimi
uomini. Solone e Archelao, nominatissimi e filosofi e principi, e Catone, vivo
simulacro di severità e austerità in Roma, soleano lassare le cure dure e
acerbe dell'animo e ammezzarle col vino. Piaccia questo rimedio del vino a chi
e' forse s'attagli. A me aggradono alcuni altri rimedi forse non dissimili da
questi, ma più degni e più convenienti a uno uomo moderato e constantissimo. E
in prima mi piace quello omerico Achille, quale per requiescere dalle molte sue
faccende militari solea sedare l'animo cantando insieme col plettro e colla
lira, instrumento musico. Quinci credo el nostro Virgilio introdusse quel suo
Polifemo in antro, quem
Lanigerae
comitantur oves; ea sola voluptas
solamenque
mali de collo fistula pendet.
E certo in questo convengo io colla opinione de' pittagorici quali affermavano che 'l nostro animo s'accoglieva e componeva a tranquillità e a quiete revocato e racconsolato dalle suavissime voci e modi di musica. E provai io non rarissimo questo in me, che in mie lassitudini d'animo questa dolcezza e varietà de' suoni e del cantare molto mi sullevorono e restituirono. E proverrete questo voi, se mai v'accade: mai vi s'avvolgerà pell'animo e mente alcuna sì cocente cura che subito ella non si estingua ove voi perseverrete cantando. E non so come a me pare che 'l cantare mio qualunque e' sia, più a me satisfaccia e più giovi che 'l sonare di qualunque altri forse fusse ottimo ed essercitatissimo musico. Né fu senza commodo instituto quel costume antiquissimo, qual poi interdisse el concilio arelatense, che le escubie funerali si vegghiassero cantando. Credo io così faceano que' buoni antiqui per distorre l'animo da que' tristi pensieri del morire. Ma a questi nostri religiosissimi forse parse più utile el ricordarsi d'essere uomo simile a quel morto; e parsegli officio più pio riconoscersi mortale e d'ora in ora caduco che darsi ad alcuna levità e lascivia. Ma el disputare di questo poco sarebbe a proposito. Tanto affermo, che qualunque cosa faremo per recrearci qual sia fatta senza iniuria di persona, sarà non indegna d'uomo studioso. Dice Plutarco: el trasferirsi qua e qua si è quasi come imitare chi fugge. E certo giova pigliare nuovi spassi in vari luoghi e sollazzi; correre, saltare, lanciare, sibillare alla caccia, e fra la gioventù in luogo e tempo atto non mi dispiace. Né mi dispiacerebbe el convivare, el motteggiare, el perdurre la notte co' lumi e giucando con tuoi amici e con la gioventù, e ancora cantare danzando. Quel nostro poeta gridava:
Non
placet iste ludus, clamo et diludia posco.
A me non in tutto dispiacerebbe se qualche giuoco alquanto lascivo piacesse a chi e' bisognasse per dimenticarsi la sua mala sanità d'animo. L. Silla cantava non rarissimo, e Cimon, quel celebratissimo ateniense, doppo cena cantò appresso di Laumedonte. Scipione, qual fu lume non solo dell'arme e impeto romano, ma lume in prima illustrissimo d'ogni civiltà latina, solea con molta grazia spesso danzare. E Appio Claudio, uomo che trionfò, sendo grave e maturo, persino in ultima sua età danzò molto volentieri e con molta iocondità. Augusto, quel primo successore a Cesare, quale tre volte chiuse el tempio di Iano Quirino, non più che una o due volte prima veduto in Roma non aperto, scriveno che per suo trastullo solea pescare coll'amo, e non raro giucare alle nocciuole in mezzo di più fanciugli quali fossero d'aspetto dolce e di parole arditi. Ed Eraclito filosofo simile non fue più volte veduto appresso al tempio di Diana giucare alle murelle co' fanciugli? E Socrate, principe d'ogni modestia e gravità, non soleva egli per ricrearsi giucare a que' simili giuochi puerili insieme co' fanciugli? Lelio e Scipione sul lito presso a Gaeta soleano simile trastullarsi co' calculi e fargli balzellare sopra l'acque e a maraviglia insieme rinfanciullire. Referirovvi a questa similitudine ciò che a me verrà in memoria. Publio Muzio iurisconsulto giucava per darsi ozio a quel giuoco quale e' chiamavano duodecim scripta; e Claudio Cesare giucava a quel giuoco chiamato alea, e scrissene un libro non solo per esplicare che artificio vi bisogni per vincere, ma forse in prima per pigliarsene diletto scrivendone. E simile C. Macio e M. Ambivio, patrizi romani, dice Columella, scrissero que' duo libri Quocum et Pistorem, dove e' comandano a questi che venendo a mescolarsi con qualche femmina tocchin nulla se prima e' non si lavin le mani in fiume. E scrissero costoro non per insegnare cuocere el pane e fare la cucina, ma credo solo per imitare Solone, prestantissimo principe e filosofo in Grecia, quale recita Plutarco che per recrearsi dalle fatiche delle sue faccende solea darsi a scrivere versi lascivi. Penolopes, presso ad Omero, tenea in sue delizie venti oche, credo io, bionde bionde, e gratificavagli intanto dimenticarsi el suo Ulisses quanto ella curava quella sua domestica greggia e famigliuola. Alessandro, quello ottimo principe romano nimico de' ladri, quale talvolta con tanto stomaco si versava contro a' rapaci cittadini che la collera si li rompea e fuori in terra traboccava, costui, principe ottimo e constantissimo, dicono che per suo sollazzo e vezzi tenea colombi paia ventimila, e pasceagli del frutto de' loro pippioni: godea vedergli volare, e, come dicono e' poeti, godea sentirgli gemere ne' suoi amori e applaudere e festeggiare coll'ale a chi ben gli nutriva. Racconta Suetonio istorico che Tiberio Cesare principe romano pigliava sollazzo in mezzo al bagno natare con più e più tenerucci fanciugli, e ridea dicendo: questi sono e' mia pesciatellini. Ulisses solea presso a Circes lavarsi co' bagnuoli odoriferi. Catone, quel buon romano si levava dalle fessitudini delle sue faccende e tessea paneruzzole. Vidi io alcuni di natura duri, bizzarri, inessorabili, a cui bisognava quasi come per escludere e pignere fuori quel piuolo rotto del pertuso infiggervi uno altro intero piuolo, e per trargli la bizzarria bisognava litigar seco di qualche cosa ed eccitar seco qualche rissa tanto che si sfogasse, e poi era mansuetissimo e facilissimo e flessibile in ogni parte. A Pirro Eliensis filosofo, figliuolo di Plistarco, scrive Laerzio istorico, fu trastullo tenere una sua scrofa ben munda dal loto e ben pulita, e forse se la tenea, qual fanno le mamme, in collo per sua bambina. Così molti simili essempli e modi da espurgare la erumna e gravezza de' duri pensieri e atti a restaurarci, s'io vi pensassi, potrei esporveli, co' quali e' nostri maggiori soleano recrearsi. Ma questi per ora bastino a quanto intendiamo.
Adunque e noi, quando forse ci si presentassero triste alcune memorie e insurgessero in noi turbulenti pensieri e agitazione di nostra mente, e già cominciassero opprimerci grave alcune e dure sollicitudini, subito in que' principi osteremo prima che l'animo sia convinto, però che l'animo non può mai poi imperare a se stesso. A que' primi insulti adunque subito usurperemo simili remedi; e con ogni arte e diligenza cureremo vendicarci in tranquilla ed espedita libertà d'animo e di mente. E vuolsi, come si dice, se un solo non giova, molti forse gioveranno, vuolsi provarne più e più, tanto che tu senta da qualche uno l'animo tuo acquietato e pacificato con teco stessi.
Restano alcuni ultimi e ottimi ricordi a questa materia quali non voglio preterirli, e sono questi: non repetere all'animo tuo e' passati sinistri; ragiona e con teco e con altri d'ogni altra cosa che de' casi e infortuni tuoi. In Roma el simulacro della dea Angeronia aveva la bocca legata e suggellata, e a costei faceano e' sacerdoti sacrificio nel sacello della dea Voluppia; qual misterio interpetra Macrobio significare che soffrendo con taciturnità le angustie dell'animo tornano poi in voluttà. Ma perché pare, quando siamo soli, meno possiamo non repetere e' nostri mali, e quando siamo non soli più troviamo da consolarci co' e' ricordi e ammonimenti di chi ne ascolta, però mi piace quel precetto antiquo che in tue infelicità e miserie sempre fugga la solitudine. E a questo lodano trovarsi co' cari noti e amici in teatro, ne' tempi, e dove siano feste e giuochi privati e pubblici. E simile lodo io el tradursi colla gioventù in villa a quello aiere libero, suso que' lieti colli, fra que' culti e prati amenissimi. E per divertere l'animo da ogni trista memoria e duro pensiero, dicovi questo: nulla troverete utilissimo quanto occupare le membra e occupare l'animo vostro ad altre varie o grate o ingrate faccende ch'elle siano. Que' di Pompeio, quando e' lo viddero ucciso e tronco giacere in sul lito, tanto restorono di condolersi quanto essi attesero a fuggire. Converrassi adoperare coll'uccello, co' cani alle caccie, tendere alle fere, a' pesci. Sarà non disutile intrapreendere qualche patrocinio in la causa del tuo noto o vicino. Così con altri e con simili essercizi sarà utilissimo al tutto lungi fuggire ogni ozio e solitudine. E non vi tacerò quel ch'io provai in me. Parravvi forse cosa lieve, ma ella porta seco ottimo e presentaneo rimedio. Cosa niuna tanto mi disdice da mia vessazione d'animo, né tanto mi contiene in quiete e tranquillità di mente, quanto occupare e' miei pensieri in qualche degna faccenda e adoperarmi in qualche ardua e rara pervestigazione. Soglio darmi a imparare a mente qualche poema o qualche ottima prosa; soglio darmi a commentare qualche essornazione, ad amplificare qualche argumentazione; e soglio, massime la notte, quando e' miei stimoli d'animo mi tengono sollecito e desto, per distormi da mie acerbe cure e triste sollicitudini, soglio fra me investigare e construere in mente qualche inaudita macchina da muovere e portare, da fermare e statuire cose grandissime e inestimabili. E qualche volta m'avvenne che non solo me acquetai in mie agitazioni d'animo, ma e ancora giunsi cose rare e degnissime di memoria. E talora, mancandomi simili investigazioni, composi a mente e coedificai qualche compositissimo edificio, e disposivi più ordini e numeri di colonne con vari capitelli e base inusitate, e collega'vi conveniente e nuova grazia di cornici e tavolati. E con simili conscrizioni occupai me stessi sino che 'l sonno occupò me. E quando pur mi sentissi non atto con questi rimedi a rassettarmi, io piglio qualche ragione in conoscere e discutere cagioni ed essere di cose da natura riposte e ascose. E sopratutto quanto io provai, nulla più in questo mi satisfa, nulla tutto tanto mi compreende e adopera, quanto le investigazioni e dimostrazioni matematice, massime quando io studi ridurle a qualche utile pratica in vita; come fece qui Battista, qual cavò e' suoi rudimenti di pittura e anche e' suoi elementi pur da' matematici, e cavonne quelle incredibili preposizioni de motibus ponderis. Non voglio estendermi in recitarvi di me quello che in me possano queste arti matematice; né voglio insistere a persuadervi quel che io stimo per miei detti di sopra esservi persuaso. Tanto solo v'affermo: cosa niuna più giova a espurgare ogni tristezza che immettersi in animo qualche altra occupazione e pensiere. Confesserovvi di me stesso, a me non rarissimo intervenne ch'io, posto in mezzo dove erano alcuni invidi, procaci e temulenti, de' quali più d'uno con vari stimoli e aculei di parole per incitarmi ad ira di qua e di qua mi saettavano, stetti parte sì occupato ad altre mie investigazioni, parte ancora sì disposto a nulla curarli più che se fussero quel corvo che salutava Cesare, o quel psittaco che gridava chere, chere, che io nulla udiva, nulla vedea, nulla sentiva altri che me stessi; meco ragionava, meco repetea miei studi e vigilie, e a me stessi intanto promettea buona grazia e posterità. Quinci pensate voi quali siano gli animi più pieni che 'l mio di maravigliosa investigazione. M. Marcello presso a Siracuse comandò a' suoi armati che in tanto eccidio di sì nobile terra servassero quello Archimede matematico, quale difendendo la patria sua con varie e in prima non vedute macchine e instrumenti bellici, aveva una e un'altra volta perturbato ogni ordine suo e rotto l'impeto di tanta sua ossidione ed espugnazione. Trovoronlo investigare cose geometrice quale e' disegnava in sul pavimento in casa sua; e trovoronlo sì occupato coll'animo e tanto astratto da ogni altro senso che lo strepito delle armi, el gemito de' cittadini quali cadeano sotto le ferite, le strida delle moltitudine quali periano oppressi dalle fiamme e dalle ruine de' tetti e de' tempi, nulla el commoveano. Cosa per certo mirabile che tanto fracasso, tanta caligine del fumo e del polverio non lo stogliesse da questa una sua investigazione e ragione matematica a quale egli era tanto occupato e adiudicato.
Così, non dubitate, se instituiremo in noi buona ragione di vivere, se ci daremo a lodati essercizi, se insisterremo in pervestigazioni di cose degne e prestantissime, se ci adempieremo di virtù e constanza, certo potremo, con nostra pace e lieta quiete e degna tranquillità d'animo, quanto vorremo contro a' casi avversi, contro le ingrate lassitudini e fatiche, contro al dolore, e contro ogni avversità e ingiuria de' tempi e della fortuna, e contro ogni malizia e malvagità di qualunque sia omo in vita perfido e iniquissimo.
- Fine -