Leon
Battista Alberti
Momo
o del principe
Proemio
Il principe e l'artefice
delle cose, il Dio ottimo e massimo, mentre distribuì tutte le qualità più
ammirevoli alle sue creature in modo tale che a ciascuna singolarmente toccasse
almeno un segno delle più alte lodi divine, volle riservare a sé ‑ è
chiaro, lo si tocca con mano! ‑ il privilegio di essere l'unico e solo
interamente fornito degli attributi d'una divinità totale. Diede infatti forza
agli astri, splendore al cielo, alla terra bellezza, ragione ed immortalità
alle anime, distribuendo tutte le meraviglie di questa sorta alle singole cose
quasi una per una, e in quanto a sé, volle esser l'unico dotato in tutti i suoi
aspetti di quella perfezione che non ha pari. E proprio questa qualità, se non
andiamo errati, va ritenuta la prima in un ente divino: essere senza
concorrenza unico e solo.
Da ciò deriva che tutte
le rarità, cioè quelle cose che non hanno la minima somiglianza con tutte le
altre, per antica opinione degli uomini sono giudicate quasi divine. E così gli
eventi mostruosi, i prodigi, le strane apparizioni e i fenomeni del genere, per
il fatto di accadere raramente, venivano annoverati dagli antichi tra i segni
della sacra presenza degli dèi. La natura poi, come si è potuto osservare a
memoria d'uomo fino ad oggi, ha messo insieme l'immensità e la stranezza con la
rarità, tanto che sembra incapace di concepire nulla di bello e di grandioso
che non sia anche raro. È forse per questo che, se notiamo persone che spiccano
per ingegno ed emergono dalla massa, in modo da essere, ciascuna secondo i suoi
titoli di merito, fuori del comune e quindi rare, le definiamo divine e le
facciamo oggetto di ammirazione ed onori assai simili a quelli divini, spinti
dall'insegnamento della natura. Per questa via, senza dubbio, ci rendiamo conto
che tutte le rarità hanno un che di divino in quanto tendono ad essere
considerate uniche e fuori dell'ordinario, ben distinte dall'ammasso numeroso
di tutte le altre cose.
Potrei indicare un gran
numero di cose apprezzate per il semplice motivo d'essere uniche; lasciando
stare tutto il resto, quante argomentazioni degli antichi scrittori sarebbero
apprezzate se dessero l'impressione di banalità, di luoghi comuni? Al contrario,
quale non verrà letta con grandissimo piacere e ammirazione se sarà
riconosciuta non dico come un'idea messa da parte e respinta da tutti gli altri
scrittori, ma almeno poco letta in precedenza e poco approfondita, al punto che
riterrei dovere dello scrittore non mettersi a scrivere nulla che non risulti
ignoto e imprevisto ai suoi futuri lettori?
Alla luce di queste
considerazioni, non mi sfugge certo quanto sia difficile, quasi impossibile
tirar fuori qualcosa che non sia già stato trattato ed escogitato da parecchi
in un così gran numero di scrittori. Antico è il proverbio: "Nulla è detto
che non sia già detto". Perciò ritengo che andrà giudicato appartenente ad
una rara categoria di uomini chiunque sarà capace di proporre argomenti nuovi,
mai toccati prima e fuori del senso comune e delle aspettative del pubblico.
Gli starà molto vicino chi saprà affrontare contenuti noti, fors'anche molto
diffusi, in uno stile in certo qual modo nuovo e imprevedibile. Pertanto, se si
troverà uno scrittore che predisponga e orienti i lettori al gusto d'una vita
migliore col rigore delle scelte espressive, la dignità, la varietà e
l'eleganza degli argomenti, e al tempo stesso riesca a divertirli e
intrattenerli con invenzioni brillanti e piacevoli (non ce ne sono stati ancora
molti fra i latini, che abbiano raggiunto un tale risultato), penso che non lo
si debba certo mettere nel mucchio degli scrittori triviali.
Come vorrei avere tanto
ingegno, quant'è stata l'applicazione diligente con cui ho puntato a questo
solo obiettivo, difficile senza dubbio! Probabilmente, infatti, sarei allora
riuscito a comprendere meglio che quello che stavo trattando è anch'esso, a suo
modo, un genere filosofico tutt'altro che di second'ordine; ed ho imparato dal
mio stesso lavoro quanta fatica bisogna metterci se si vuol essere a qualunque
costo originali, mantenendo però il decoro e la serietà: poiché lo scrittore
che si assume il compito di trattare argomenti molto seri senza mai abbandonare
una forma divertente e piacevole, dignitosa ed elevata per quanto insolita, ci
troverà più lavoro e difficoltà di quanto non pensi chi non l'ha provato.
Eppure ce ne sono di quelli che, protesi come sono alla ricerca di
quell'originalità di cui discorriamo, per quanto esprimano concetti della
massima banalità, tuttavia riescono a presentarli con una certa maschera di
serietà, tanto da essere ritenuti degni dei giudizi più favorevoli.
Io, diversamente, mi sono
dato da fare perché i lettori si divertissero, e d'altra parte si accorgessero
di essere guidati all'approfondimento di concetti utili e per nulla spregevoli.
Quanto sia riuscito nello scopo, lo giudicherai tu a lettura ultimata: e se
avrai l'impressione che la mia comica piacevolezza sia riuscita, quasi un
condimento, a rendere più leggero e gradevole un argomento della massima
gravità, leggerai, se non mi sbaglio, con maggior diletto.
Non sarà però fuor di
luogo chiarire l'impostazione del mio lavoro, sia perché ne risulti più agevole
la comprensione, sia per giustificarmi di aver introdotto personaggi divini,
prendendomi in una narrazione in prosa quella licenza che si concede ai poeti.
Mi sono reso conto, infatti, che gli scrittori antichi hanno ragionato in modo
da lasciar intendere sotto i nomi degli dèi quelle inclinazioni dell'animo che
ci spingono a questo o a quell'altro comportamento. È per questo motivo che
hanno introdotto Plutone, Venere, Marte e il cieco Cupido e, per converso,
Pallade, Giove, Ercole e divinità dello stesso tipo: i primi simboleggiano le
rovinose attrattive della cupidigia e del piacere, la furia delle passioni
esagitate, gli altri la forza intellettuale e la fermezza nelle decisioni; per
effetto di queste inclinazioni gli animi s'imbevono di virtù e si lasciano
guidare dalla ragione, oppure fanno cattivo uso di se stessi, compiendo e
meditando azioni malvage e sconsiderate. Essendo, dunque, perpetuo e difficile
a comporsi il contrasto tra queste passioni negli animi umani, niente di strano
che gli dèi siano proprio come li hanno messi in scena Omero, Pindaro, Sofocle
e i migliori poeti. Ma sarà altro il luogo per trattare questi argomenti, se mi
capiterà di scrivere sul sacro e le divinità.
Io dunque, a imitazione
dei poeti, mettendomi a scrivere sul principe, che come l'anima razionale
governa l'intero corpo dello Stato, mi sono servito degli dèi, indicando per
mezzo di essi, con una forma particolare d'ironia, gli uomini passionali, gli
iracondi, i gaudenti, gli ignoranti, i superficiali e pieni di sospetti, e per
contro le persone serie, mature, coerenti, attive, sollecite e perbene: come si
comportano di fronte alla varietà degli eventi, a seconda di quale dei due
modelli di vita hanno preso a seguire; quali valori positivi o negativi, quale
stabilità politica o eversione ne derivano per la prosperità, dignità e autorevolezza
dello Stato. Così in questi quattro libri, se l'amore per il mio lavoro non
m'inganna, troverai non poche idee riguardanti la formazione dell'ottimo
principe, e inoltre si presenterà anche una discreta serie di osservazioni
rivelatrici sul carattere di coloro che al principe fanno seguito; però ho
deliberatamente tralasciato gli adulatori, di cui le corti principesche sono
stipate: hanno trattato esaurientemente l'argomento i poeti antichi, i comici
in particolare. Sono talmente lontano dalle caratteristiche dell'adulatore che
a volte mi espongo alle critiche perché tralascio le lodi di chi se le merita
davvero, perfino nelle circostanze dovute, pur di non dare l'impressione a me
stesso d'aver voluto imitare in alcun modo quel genere di persone che detesto
profondamente: ed è una mancanza che mi si può far rilevare anche in questa
occasione, verso di te. Chi è, infatti, che non si mette a fare il lecchino
quando scrive un proemio, facendo gran mostra di plauso verso il dedicatario,
per adornare e abbellire di elogi, magari fittizi, l'argomento, secondo una
norma codificata dalla tradizione? Io ti ho presentato un'introduzione senza
fronzoli, non ho passato in rassegna nessuna delle tue qualità numerose quanto
grandissime, ed ho fatto una cosa che chi conosce te e me non spregerà di
certo. Tu infatti agisci per tuo conto in modo tale che la tua virtù si
diffonderà con chiara fama per tutta l'opinione pubblica, conseguendo
ampiamente il premio della gloria tra i posteri: in questo perciò non hai
bisogno dell'appoggio altrui. Io, per quanto sta a me, osservando e facendo
tesoro delle tue parole e azioni, preferisco abbracciarti con tutto il mio
libro e raccomandarti agli appassionati di buone letture, perché abbiano un
ottimo esempio da imitare, piuttosto che accarezzarti, per dir così, con
superficiali parole di lode.
Ma basta così. Per il
resto, quando mi leggerai nei momenti liberi, e la tua lettura procederà
secondo il mio desiderio e le tue aspettative, mi rallegrerò assieme a te tutte
le volte che ti capiterà di spassartela. Vorrei proprio che provassi anche
ammirazione per le mie arguzie e invenzioni tutte le volte (non poche!) che ti
verrà da ridere per le situazioni comiche di cui questa storia è stracolma. E
allora leggi, soprattutto per divertirti, ma poi anche per mostrare benevola
attenzione alle mie fatiche e alle mie veglie con tanto piacere. Auguri di
felicità.
Libro primo
Mi meravigliavo ogni
volta che mi capitava di notare, nel trascorrer la vita in mezzo a noi umili
mortali, una qualche discordanza d'opinioni o incostanza nei giudizi: ma da
quando ho preso ad osservare più accuratamente gli stessi dèi massimi, a cui è
attribuita ogni lode di saggezza, ho smesso di stupire per le inezie umane. Ho
infatti scoperto tra di loro una diversità di tendenze e di caratteri che ha
quasi dell'incredibile. Alcuni si danno un contegno grave e severo, alcuni
invece sono sempre pronti al riso, alcuni ancora, a loro volta, sono così
differenti da tutti gli altri che a mala pena li si potrebbe credere del numero
dei celesti. Per quanto tuttavia essi siano fatti a questo modo, con caratteri
così discordanti, né tra gli uomini né tra gli dèi se ne può trovare nessuno di
natura così singolare e stravagante che non se ne possa riscontrare un altro
simile per molti aspetti, fatta eccezione per uno degli dèi, di nome Momo. Si
parla di costui come di un tipo dotato di forte spirito di contraddizione,
straordinariamente testardo, un gran criticone, rompiscatole, molesto quanto
mai: ha imparato ad infastidire e irritare perfino i suoi familiari con le
parole e coi fatti, ed è abituato a mettercela tutta perché nessuno che abbia a
che fare con lui possa restare senza il volto accigliato e l'animo gonfio
d'indignazione. Insomma, Momo è l'unico tra tutti gli dèi che ci prova gusto
non solo ad avercela con gli altri uno per uno, ma anche ad essere detestato da
tutti in modo incredibile. La tradizione vuole che per la sfrenata insolenza
del suo linguaggio sia stato scacciato ed escluso, su richiesta e col consenso
di tutti, dall'antico consesso degli dèi del cielo: ma era così potente,
nell'inaudita malvagità del suo carattere e con i suoi sinistri artifici, che
riuscì a spingere proprio sull'ultima spiaggia tutti gli dèi e tutto il cielo e
perfino l'intera macchina dell'universo. Ho deciso di mettere per iscritto
questa storia, perché possa servire ad una vita guidata dalla ragione; ma
perché ciò si realizzi più agevolmente, si dovranno prima esaminare cause e
modalità della cacciata in esilio di Momo; poi andremo avanti con il resto del
racconto, pieno d'imprevisti e ricchissimo per la serietà degli argomenti
importanti non meno che per la comicità delle situazioni spassose. Quando Giove
ottimo massimo ebbe messo su questa sua opera meravigliosa, il mondo,
desiderando che fosse abbellito al meglio in ogni sua componente, ordinò agli
dèi che ciascuno secondo le sue possibilità aggiungesse a quella creazione
qualcosa di elegante e di degno. I celesti obbedirono a gara all'ordine di
Giove: e così tutti fecero cose diverse ‑ chi l'uomo, chi il bue, chi la
casa - tutti ad uno ad uno, eccetto Momo, tirarono fuori qualcosa, dono gradito
per Giove. Solo Momo, testardo e arrogante per natura, si vantava che da lui
non si sarebbe cavato nulla, ed in mezzo alla comune frenesia degli altri per
produrre qualcosa perseverava col massimo piacere nella sua ostinazione.
Finalmente, dopo che moltissimi avevano tanto insistito perché avesse più
rispetto e considerazione per il favore e l'autorità di Giove, non certo
commosso dai loro ripetuti consigli, ma perché non riusciva più a sopportare la
nausea per tutti quegli inviti, esortazioni e preghiere, accigliato come sempre
esclamò: "Avete vinto, scocciatori! Vi darò soddisfazione piena!". E
allora ne escogitò una degna di lui. Riempì il mondo di cimici, tignole,
vesponi, calabroni, scarafaggi e animalacci schifosi del genere, simili a lui.
In un primo momento, la cosa fu presa dagli dèi dal lato ridicolo, la si
accettò come una trovata scherzosa; ma lui non poteva sopportare che non se ne
sentissero indignati, e allora cominciò a vantarsi della sua bella impresa e a
criticare con pignoleria i doni altrui, denigrandone gli autori: finì con
l'attirarsi ogni giorno di più l'odio di tutti con le sue insolenze. Tra gli
altri celebri artefici celesti godevano di particolare ammirazione per i doni
che avevano escogitato Pallade per il bue, Minerva per la casa, Prometeo per
l'uomo; vicinissima in graduatoria stava la dea Frode, che sembrava aver avuto
una bellissima pensata concedendo agli esseri umani le attrattive femminili,
l'arte della finzione, il riso e le lacrime. Mentre, quindi, tutti gli altri
dèi portavano in palmo di mano costoro, solo Momo li criticava aspramente:
diceva che, certo, il bue era un animale utile, abbastanza adatto ai lavori
pesanti, però non aveva gli occhi messi al posto giusto sulla fronte: così,
quando andava all'assalto con le corna in avanti, avendo gli occhi fissi a
terra non era in grado di colpire il nemico nel punto che voleva: era stata
proprio un'incapace la sua creatrice a non mettergli anche un solo occhio in
alto, dalle parti delle corna! La casa, analogamente, diceva che non meritava
per niente l'approvazione di cui la circondavano quegli incompetenti degli dèi,
poiché di sotto non le era stato applicato un carro con cui poterla trasportare
da un quartiere malfamato a una zona più tranquilla. Quanto all'uomo, affermava
che era, sì, un qualche cosa di quasi divino: ma la bellezza estetica che si
poteva ammirare in lui non era certo un'invenzione del suo creatore, ma era stata
fatta a immagine e somiglianza degli dèi. E poi, nel farlo gli sembrava si
fosse proceduto senza riflettere a ficcargli la mente nascosta dentro il petto,
in mezzo ai precordi, mentre sarebbe stato opportuno sistemarla in alto sulla
fronte, nel punto più scoperto del volto. Per il resto, secondo lui nessuna
trovata ingegnosa era degna d'encomio quanto quella della dea Frode: lei,
infatti, aveva scoperto il modo per mettere in un canto Giunone e diventare
l'amante del re degli dèi: Giove, dongiovanni com'era, senza dubbio avrebbe
concupito una fanciulla tenera e delicata, e così, mentre la sposa indignata
per l'offesa avrebbe disdegnato il letto coniugale, la dea artefice del trucco
si sarebbe conquistata le grazie di quel principe sempre a caccia di sottane;
se Giunone se ne fosse accorta, se avesse voluto salvare per l'eternità il suo
rapporto d'amore, si sarebbe risolta a far bandire la dea Frode dal consesso
divino. Momo ripeteva in continuazione queste malignità sul conto di Frode, per
quanto ne fosse pazzamente innamorato: ma, poiché in quel periodo ce l'aveva
con lei per motivi di gelosia, l'attaccava sparlandone più del necessario; e
allora la dea, stuzzicata da tutti quei pettegolezzi malevoli, decise di
mettercela tutta per vendicarsi. Così, per rendere pan per focaccia al suo
ingrato amante, fidando nelle sue arti fa finta di voler fare la pace con Momo:
gli sta sempre appresso, scambia con lui discorsi interminabili, gli dà subito
ragione in tutto quel che dice, fa tutto ciò che vuole lui. Si mette poi a
rivelare all'amante, che c'è cascato, un sacco di assurde storielle
spacciandole per grandi segreti, chiede ipocritamente consigli per le sue
faccende e, mettendo insieme verità e invenzioni, si mette a fare infiniti
pettegolezzi dei più contorti sul conto di questo e quel dio, allo scopo di
stuzzicare quel petulante e farlo straparlare: insomma, non ne perdeva una pur
di riuscire a combinargli qualche grosso casino al momento opportuno. Con
questi trucchetti era riuscita a strappare molti discorsi compromettenti a
quell'imprudente, e poi li andava a riferire a quelli che pensava se la
sarebbero presa, con la speranza che, provocata l'insofferenza e l'odio di
tanti contro il solo Momo, al momento decisivo avrebbe sferrato l'attacco
finale con forze ben più valide. Per di più la dea Frode s'era data da fare
affinché tutti i giorni venissero presentate a Giove continue lagnanze contro
Momo per bocca di diversi postulanti e, per allontanare da sé qualunque
sospetto di malizia, se capitava che si facessero in sua presenza discorsi sul
pessimo carattere di Momo, fingeva, quasi per obbligo d'amante, di prenderne le
difese, e con lunghi discorsi, per quanto freddini, proteggeva Momo dalle
accuse e dalla condanna generale, dicendo che Momo in fondo non era cattivo, ma
aveva uno spirito forse troppo anarcoide, e per questo pareva una malalingua
più sfrenata di quanto non fosse veramente. A un certo punto alla dea, che
teneva occhi ed orecchie ben aperti, si presentò un'occasione magnifica per
sferrare il colpo. Gli dèi non avevano preso molto bene il fatto che fosse
stata creata una seconda specie di divinità, gli uomini, e che questi fossero
molto più beati dei celesti perché avevano l'aria, l'acqua, la casa, i fiori,
il vino, il bue e tutte le altre fonti di piacere; allora Giove ottimo massimo,
poiché avrebbe voluto rafforzare il suo potere col consenso degli abitatori del
cielo, promise, per quanto stava a lui, di prendere i provvedimenti del caso, e
dichiarò che avrebbe fatto in modo che in futuro nessuno dei celesti non
avrebbe preferito esser dio piuttosto che uomo. E così infuse negli animi umani
gli affanni e la paura, e mandò le malattie, la morte e il dolore. Poiché gli
uomini a causa di questi malanni si erano ridotti ormai in una condizione molto
peggiore che quella degli animali bruti, l'invidia degli dèi verso di loro non
si spense soltanto, ma si tramutò in compassione. Occorre aggiungere che Giove,
per guadagnarsi consensi, cominciò ad abbellire tutta quanta la sfera del
cielo: dispose la collocazione delle dimore celesti e le adornò di molte statue
diversissime, oro e diamanti ed ogni sorta di delizie in splendida abbondanza e
varietà. Alla fine le regalò agli dèi Febo, Marte, Saturno suo padre, Mercurio,
Venere e Diana e, per esercitare da allora in poi un potere assoluto piacevole
e ben accetto agli abitatori del cielo restando libero da seccature, si mise a
distribuire a chi gli parve uffici, incarichi elevati e posti di comando. E per
prima cosa affidò l'alto commissariato per la rotazione dei corpi celesti e la
direzione generale dei fuochi al dio Fato, il più efficiente e responsabile sul
lavoro, un tipo sempre in attività, senza un minuto libero, che non trascura
mai un particolare per pigrizia; uno che né raccomandazioni né bustarelle
riescono a far deflettere dalla rigorosa osservanza delle norme che è radicata
nel suo animo. Tutto questo, non senza aver fatto una pubblica dichiarazione
nella quale affermò ripetutamente di avere un desiderio enorme di tempo libero,
per cui voleva che delle prerogative del potere gli rimanesse soltanto quella
di godere a suo piacimento, assieme agli altri dèi, di una gioia perfetta; gli
sembrava, del resto, che fosse una giusta ricompensa ai suoi meriti verso gli
dèi se gli fosse concesso, con la loro benevola approvazione, di trascorrere
una vita libera da ogni sorta di preoccupazioni.
Poiché ho detto che la
direzione generale dei fuochi era stata data al Fato, sarà bene che spieghi
cosa siano mai questi fuochi e che importanza abbia averne il controllo. C'è
tra gli dèi un fuoco sacro, eterno, che tra le altre sue proprietà
straordinarie ha quella di brillare di fiamme perpetue alimentandosi da sé,
senza bisogno di alcun'altra sostanza solida o liquida; e addirittura, rende
immortali ed incorruttibili, fin tanto che vi sta unito, tutte le cose a cui si
attacca. Se però si applicano fiamme prese da questo fuoco ad elementi
terrestri, sia solidi che liquidi, questi si disgregano spontaneamente per
ritornare di corsa alla loro sede originaria, a meno che non siano investiti da
soffi continui in rapido movimento. C'è da aggiungere che lo stesso fuoco sacro
si mantiene vivo solo tra i fili delle stoffe tessute dalla dea Virtù. Una
fiammella attinta a questo fuoco sacro brilla in capo alla fronte di tutti gli
dèi, ed ha il potere di lasciarli trasformare a loro arbitrio in tutte le forme
che vogliono: la maggior parte dei massimi dèi l'hanno fatto, e qualcuno s'è
tramutato in pioggia d'oro oppure in cigno, qualcun altro in un animale
diverso, seguendo gli impulsi della passione amorosa. Quando Prometeo trafugò
una scintilla di questo fuoco, fu esiliato ed incatenato al monte Caucaso per
il sacrilegio commesso. Poiché, dunque, il fuoco era adatto al compimento di
azioni tanto importanti, i celesti con il conferimento di un mandato speciale
sui fuochi badarono a prevenire furti del genere da parte di qualche altro
temerario.
Ma facciamola finita con
i fuochi, e riprendiamo il filo del racconto. Quando Giove ebbe offerto quegli
splendidi doni, i celesti affluivano a caterve di fronte a tanta generosità.
Già l'intera folla degli immortali, dando prova di incredibile rapidità, s'era
radunata a palazzo reale per ringraziare Giove: e lì si trovavano in
competizione gli uni con gli altri nel cercare le più alte espressioni di lode con
cui fare il loro dovere, mentre erano tutti d'accordo nell'affermare che
l'ottimo principe Giove, nella sua saggezza, aveva preso provvedimenti
improntati a sacri principi di giustizia in favore della comunità dei celesti.
Solo Momo, scuro in viso, in atteggiamento scontroso, con un sopracciglio
aggrottato, guardava storto tutti quelli che arrivavano di corsa per prendere
parte alla festa di ringraziamento. Allora la dea traditrice, intenta soltanto
a studiare il nemico, si accorse che Momo ce l'aveva con Giove. Perciò, tornata
ai suoi artifizi, prepara quel che occorre alla bisogna: piazza dietro all'ara
del banchetto lì vicino, alla quale per caso stava appoggiato Momo, la figlia
del dio Tempo, Verina, e Proflua, un'amante di Giove che dicono abbia fatto da
mamma alle ninfe, ed ordina loro di mettersi a sedere a terra e di nascondersi,
fingendo di essere occupate da altre faccende: quei preparativi erano fatti
nell'interesse di Giove, perciò dovevano eseguire con precisione il loro
compito, ascoltare in silenzio tutto ciò che si diceva in quel luogo e
prenderne nota. Messa a punto la trappola, la dea si avvicina all'amante
sorridendo; si salutano, poi Frode, dopo esser stata zitta un pezzetto, a un
tratto esclama inarcando le sopracciglia: "Cosa c'è, Momo mio? Ho
l'impressione che anche tu, quanto ai meriti di Giove verso i celesti, la pensi
diversamente da questa massa d'ingenui. Non sei d'accordo con me? Io non avrei
il coraggio di confessare le mie impressioni a nessuno tranne che a te, che amo
come gli occhi miei. Ma perché dovrei nascondermi con te, se capisco che mi ami
come merito per la mia sincerità e fedeltà? Ah, poveri noi, che a costui… no,
no, un'altra volta!… Ah, non metto in dubbio che siano belle le opere di Giove,
anche se è ovvio che tutto quel che fa il principe degli dèi massimi non possa
esser mai superato né eguagliato. Tu, con la tua saggezza, capisci cosa voglio
dire meglio di quanto io possa spiegarlo". Così la dea; e Momo: "Stai
proprio intuendo la verità; io però non ho ancor chiaro se queste cose siano
l'opera di un principe folle o di un ambizioso". Allora la dea sorridendo:
"Ma come può essere l'una delle due, visto che in lui non ci sono difetti,
dico io, ma buon senso?". E Momo: "Tu chiami buon senso una cosa che
ha tutta l'aria di pura follia? Che maniera equilibrata di procedere! Ti dico
io come si fa, secondo me. Oh, come sarebbe governata meglio la comunità degli
dèi, se le decisioni venissero meditate più seriamente! Non basta, infatti, che
il principe provveda in vista del piacere del momento, senza valutare i pro e i
contro anche di quel che verrà dopo, in modo da potersi mantenere non a spese
degli altri, ma, come si dice, di tasca propria. Che pazzia gli è presa, al re
degli dèi? Certo una volta era proprio contentissimo, Giove ottimo massimo,
della creazione degli uomini, perché, dritti o storti che fossero i suoi scatti
d'ira, aveva dei concorrenti da esporre alla nostra gelosia; ma poi, dacché ha
ritenuto più saggio che le dimore celesti fossero aperte ai loro antichi abitatori
piuttosto che ad una folla mortale di dèi a tempo determinato, ha voluto
tenersi gli uomini laggiù per scaricare su di loro la sua rabbia tempestosa
infierendo con terribile crudeltà. Perciò ha messo insieme in un solo mucchio i
fulmini, i tuoni, le epidemie e la cosa più dura e insopportabile per i poveri
animi umani: gli affanni, le paure e tutti i mali possibili e immaginabili.
Dall'altra parte, se non ne possono più di lottare contro i mali, ha lasciato a
quei poveracci, fortezza inespugnabile in cui scampare alla crudeltà del
nemico, la morte; se invece hanno voglia di lottare, o Giove sconsiderato, non
hai tolto agli omiciattoli la capacità di sopportazione, con cui possono
vincerti, principe degli dèi, irato e armato quanto ti pare. Cos'è che potrei
dire a proposito del ministero dei corpi celesti e dei fuochi, senza
commiserazione per i guai che ormai incombono su di noi? Chi è così insensato,
chi ha la mente tanto ottusa da non accorgersi, basta che ci faccia attenzione,
che è inevitabile tu faccia una brutta fine, Giove, per colpa di nessun altro
che te, traditore di te stesso? Non sei stato tu a concedere al Fato una simile
pienezza di poteri assieme a margini di discrezionalità così ampi? E poi, se
quelli che hanno ricevuto la guida delle stelle e dei pianeti non la
smetteranno di desiderare sempre novità, com'è già loro abitudine, chi vuoi che
non si renda conto che prima o dopo daranno ai celesti un altro re?".
"Eh?!"
intervenne Frode "un re?". "Perché no?" disse Momo
"Pensi forse che Giove sia altro che un dio, perché è il re degli
dèi?". "Le tue ipotesi" disse Frode "mi sembrano proprio
verosimili. Ma chi potrà mai ritenersi degno d'un potere così grande, anche se
il destino ce lo spinge?". "Ridicola che sei!" fece Momo
"Pensi che tutti gli dèi siano gente modesta e di poche ambizioni, al
punto da credere che non se ne trovi nessuno che non si tirerebbe indietro di
fronte all'occasione di andare al potere, qualora gli si presentasse?".
"In effetti" disse Frode "per quanto io ti ritenga degno dei
massimi onori, in un affare così grosso vedo un qualche cosa che potrebbe far
tentennare anche te. Ma poi? E a me, che ruolo toccherà, se ti capiterà
l'occasione di prendere il potere?". "Sarai per me" disse Momo
"una seconda Giunone". Allora Frode scoppiò a piangere dicendo:
"Ma uno che può fare tutto quel che gli garba non è certo costante nei
sentimenti! Ti troverai un'altra innamorata, Momo; e Frode, che ti amerà senza
speranza, ti verrà a noia". Continuarono per un pezzo a scambiarsi frasi
del genere, finché Frode costrinse il suo amante a giurare sull'ara stessa che,
qualora fosse diventato re degli dèi, avrebbe messo Frode al posto di Giunone.
Poi, mentre fa ritorno trionfante nel consesso delle dèe, istruisce a puntino
le testimoni Verina e Proflua sulle parole e il contegno da usare e il momento
da scegliere per riferire a Giove tutto ciò che avevano ascoltato di nascosto
vicino all'ara.
Tutto si svolge secondo
il piano. Giove, turbato dal terribile sospetto che gli veniva affacciato di
perdere il potere, divenne in segreto ancor più ostile verso Momo di quanto non
lo fosse di già per causa altrui. Ora, scorgendo che razza di avversario dei
suoi interessi gli prospettava quell'insinuazione, si dimostrò capace di
vendicarsi aspramente delle offese. Tutte le cose si misero a tremare per l'ira
di Giove: rimasero stupefatti i celesti. Si convoca in seduta straordinaria
l'assemblea degli dèi: la dea Proflua, nutrice delle ninfe, e Verina, figlia di
Tempo, ricevono l'ordine di testimoniare sulle parole che avevano inteso dire
poc'anzi a Momo vicino all'ara. Il padre degli dèi e re degli uomini, Giove,
intendeva fissare con la massima solennità un giorno per il processo, e
proponeva di nominare una giuria che istruisse il dibattimento secondo le procedure
legali. Ma a quel punto da tutti gli scranni si levò all'improvviso una sola
acclamazione, a proclamare il pericolo pubblico Momo colpevole di lesa maestà.
"In galera l'autore del delitto!". "In catene, al posto di
Prometeo!". Momo, trepidante e prostrato da una simile cospirazione di
avversari e da tanta animosità che si abbatteva tempestosamente contro di lui,
decise di darsi alla fuga. Scappando a rapidi passi cercava di guadagnare il
fiume celeste, l'Eridano, e lì procurarsi un'imbarcazione per raggiungere col
favore della corrente le nostre regioni. Ma, mentre correva per sottrarsi agli
inseguitori strepitanti, andò a finire prima che se ne accorgesse in una
voragine dall'ampia apertura, che è chiamata il pozzo del cielo: di là, perduta
la sacra benda, distintivo divino, andò a sbucare in territorio etrusco, come
un secondo Tagete. Trovò una popolazione profondamente imbevuta di sentimento
religioso: ricominciò allora a farla da protagonista e stabilì che il suo unico
interesse sarebbe stato quello di far dimenticare, per vendicarsi, all'Etruria
il rispetto per gli dèi, spingendola ad osservare e imitare quel che faceva
lui. Così, non ce n'era uno dei grossi guai che fino ad allora avevano
combinato gli dèi in questo o quell'angolo dell'universo, che sfuggisse alla
memoria di Momo, il quale, da vero inquisitore, se li annotava tutti con la
massima precisione. Aveva preso perciò l'aspetto di poeta, e andava raccontando
alla folla, tra il serio e il faceto, tutte le storielle oscene che
riguardavano gli dèi. A scuola, a teatro, per strada si sentivano raccontare
gli adulteri, gli stupri, le tresche amorose di Giove; e venivano messe in
piazza anche le incredibili mascalzonate di Febo, di Marte, di questo e
quell'altro dio. Tra verità e invenzioni, insomma, andavano ogni giorno
crescendo il numero e la risonanza delle porcherie che venivano rese di
pubblico dominio, cosicché non c'era più dio, né maschio né femmina, che non
fosse giudicato uno sporcaccione e un depravato. Successivamente, preso
l'aspetto di un filosofo, con la sua barba incolta, l'aria minacciosa, le
sopracciglia foltissime, un atteggiamento arrogante e presuntuoso, andava a
tenere affollatissime conferenze nelle università, sostenendo la tesi che la
potenza degli dèi non è nient'altro che un'invenzione senza senso, il parto
sciocco di cervelli in preda alla superstizione; non esistono dèi,
particolarmente di quelli che abbiano voglia di preoccuparsi dei problemi degli
uomini; in conclusione, tutti gli esseri animati hanno un'unica divinità comune,
la Natura, che ha il compito preciso di governare non solo gli uomini, ma anche
bestie da soma, uccelli, pesci, tutti gli altri animali che, in quanto hanno
tutti per comune istinto una maniera molto simile di muoversi, di provare
sensazioni, di provvedere alla propria difesa e sopravvivenza, è bene siano
diretti e governati tutti con criteri analoghi. Non si trova un'opera della
Natura fatta così male che non abbia, fra tanta abbondanza di cose create, un
aspetto che torni molto utile alle altre: pertanto tutte le cose create dalla
Natura hanno una loro funzione ben precisa, buone o cattive che siano dal punto
di vista umano, dal momento che di per se stesse non hanno alcuna potenza se la
Natura si oppone e non le asseconda. Molte cose il pregiudizio comune prende
per difetti, mentre non lo sono affatto; uno scherzo di Natura è la vita umana.
Con questi ragionamenti Momo s'era conquistato parecchi seguaci, e già si
cominciava a trascurare i sacrifici, le feste solenni stavano passando di moda
e il rispetto per gli dèi diventava sempre meno diffuso tra gli uomini. Appena
la notizia giunse ai celesti, accorsero tutti al palazzo di Giove. Si lamentano
per la loro situazione, si chiedono aiuto a vicenda (come si fa nei casi
d'emergenza), si aspettano ormai che non ci sarebbe stato più motivo di
ritenersi dèi, una volta scomparsi tra gli uomini la fede e il timor di dio.
Nel frattempo Momo non desisteva certo dal suo accanimento vendicativo, ed
entrava in polemica serrata con tutte le correnti di pensiero. Da un pezzo i
filosofi accorrevano in massa ai dibattiti tenuti dal dio, un po' per gelosia
di mestiere, un po' per la smania di blaterare: gli si mettevano intorno, nelle
prime e nelle ultime file, interrompevano, contestavano. Ma Momo, tenace,
risoluto, sosteneva da solo l'attacco di tutti più con la prontezza nel
replicare che con la forza dei suoi argomenti. Alcuni obiettavano che esiste un
capo che governa l'universo; altri avanzavano la tesi della corrispondenza
delle quantità, per cui al numero dei mortali doveva corrispondere un egual
numero d'immortali; altri dimostravano l'esistenza di un'intelligenza pura,
incontaminata dalla materialità corruttibile delle creature terrene e mortali,
dalla quale le cose divine e umane traggono alimento e guida; altri asserivano
che dev'essere considerata dio quella forza infusa a tutte le creature, che le
fa muovere e di cui le anime umane sono una sorta di emanazione; e la
contraddittorietà delle tesi creava tra i filosofi stessi un disaccordo non
meno veemente dell'unità d'intenti con cui tutti quanti si contrapponevano
polemicamente a Momo. Quest'ultimo, ostinato com'era in tutte le sue questioni,
difendeva sempre più accanitamente la sua opinione, negava l'esistenza degli
dèi, diceva che gli uomini si sbagliano se pensano che divinità diverse dalla
Natura presiedano a tutto quel roteare d'orbite che vedono in cielo e che li
impressiona tanto. La Natura, poi, adempie meccanicamente al suo compito innato
nei confronti del genere umano, non ha mai bisogno del nostro intervento né può
essere influenzata dalle nostre preghiere; in conclusione, è inutile aver
timore di dèi che non esistono o che, se pure esistono, sono certo benigni per
loro propria natura.
I celesti, scossi dal
chiasso di quel dibattito, accorsero a osservare la situazione in un punto del
cielo da cui era possibile udire con chiarezza i discorsi, e stavano con
l'animo sospeso ad aspettare la conclusione della polemica, ora preoccupati per
le repliche di Momo, ora sollevati dagli interventi dei filosofi. I filosofi
infatti, ambiziosi com'erano di natura, presuntuosi e abituati ad incarognire
nelle polemiche, tutti surriscaldati contro Momo gli stavano sempre più
addosso, lo tormentavano senza esitare a sfotterlo: e così andò a finire a male
parole. Alla fine, nell'infuriare della baruffa passarono a vie di fatto,
prendendo a pugni e strapazzando di graffi e di morsi il viso di Momo che
insisteva nel suo sproloquio. L'intervento di alcune personalità autorevoli
riuscì a sedare il tumulto. Momo allora, invocando protezione e aiuto da
costoro, andava mostrando il volto malconcio, con mezza barba strappata;
infatti, mentre Momo circondato dalle mani dei nemici cercava una via di scampo
e si faceva largo a forza di gomiti tutto agitato, un soldo di cacio di cinico
gli si era avvinghiato al collo e gli aveva strappato la barba con un morso. Le
autorità non potevano tollerare che, in loro presenza, si arrecasse un'offesa
così grave a un uomo con tanto di barba, e si misero a cercare il colpevole;
però era impossibile sentire il racconto dell'episodio con sufficiente
chiarezza, in mezzo a quel casino di filosofi che urlavano accuse contro Momo;
finalmente, ricostruita la vicenda, quando gli fu portato al cospetto il
colpevole, quel cinico piccoletto così bravo a dar morsi, ed ebbero guardato il
soggetto, malconcio e con gli occhi pesti per i pugni che aveva preso, che
sforzandosi di parlare sputava con grandi scaracchi i peli della barba che si
era mangiato, si misero a ridere e se ne andarono senza occuparsi più della
faccenda.
I celesti pensarono che
non avrebbe giovato di certo alla dignità divina se gli uomini imparavano ad
alzare le mani contro un dio, per quanto farabutto e poco conosciuto.
Prevedevano d'altra parte che se Momo avesse portato avanti la sua vendetta
come aveva cominciato, con l'assenso delle masse ignoranti e credulone, di
sicuro le tradizioni religiose e gli onori sacri dovuti agli dèi sarebbero ben
presto caduti nel dimenticatoio. Alla riunione del senato che fu convocata per
discutere il problema venivano avanzate due proposte. Una, che incontrava
l'approvazione generale, era quella di mandare a restaurare la dignità e
l'autorità dei celesti alcuni dèi che godessero di buona popolarità tra gli
uomini, perché si adoperassero con qualunque sistema a ridar lustro e vigore
agli antichi riti e al culto divino. Sulla seconda proposta ci si divideva, ma
aveva dalla sua sostenitori autorevoli: era quella di richiamare Momo, il cui
carattere era ben noto da un pezzo a tutti gli abitanti del cielo, visto che in
seguito al suo esilio la comunità divina si stava tirando addosso molti più
guai che tenendosi in casa quel parolaio pettegolo a cui nessuno avrebbe più
dato retta; se poi ci provavano soddisfazione che Momo fosse punito, la peggior
specie d'esilio era proprio stare in mezzo ai suoi, emarginato e antipatico a
tutti. In conclusione, per decreto di Giove e del senato, la dea Virtù, in
forza della maestà del suo aspetto e dell'enorme prestigio di cui godeva tra i
mortali, viene inviata ai terrestri, con una sorta di incarico straordinario,
col massimo dei poteri, e riceve il mandato di evitare che la comunità degli
dèi avesse a subire ulteriori danni. Alla partenza della dea tutte le categorie
divine si affollarono a darle commiato; a uno a uno i membri del senato
celeste, secondo l'intimità dei rapporti che avevano con la partente, le
facevano preoccupate raccomandazioni, la invitavano ad applicare qualunque
strategia per la salvezza di tutti nel comune pericolo; consigliavano di fare
in modo che fosse proprio lei, che rendeva possibile l'esistenza dei sacerdoti
degli dèi, a salvaguardare col suo scrupoloso intervento la sacrosanta maestà
degli immortali. E lei, facendo dichiarazioni programmatiche improntate a
ottimismo pur in quella grave crisi divina, prese tempestivamente tutte le
iniziative che quella drammatica congiuntura poteva consentire. La dea Virtù
aveva quattro figli adolescenti, il fiore della gioventù celeste per bellezza,
grazia, disinvoltura e bontà d'animo; la dea se li porta in viaggio con sé,
elegantissimi, per conquistare grazie a loro, se non c'era altro mezzo, gli
ospiti tradizionali degli dèi, cioè i mortali più autorevoli e gli eroi, che
sapeva quanto siano attratti dalla bellezza. A che prezzo si volevano annullare
i tentativi di Momo! Ecco dunque la dea avanzare in formazione quadrata:
davanti andavano da una parte Trionfo, dall'altra Trofeo, i due figli maschi di
Virtù, vestiti di pretesta; nel mezzo la madre Virtù, le due figlie, Lode e
Posterità, seguivano la madre. La folla divina, formando un lungo corteo,
accompagnò la dea in partenza fino al segnale del settimo miglio. A quel punto
gli incaricati divini salirono sulla nube più candida, su cui scivolarono in
giù per l'etere fino a posarsi a terra. In tutto il cielo gli dèi confessarono
di sentirsi molto sollevati da questa partenza di Virtù: sostenevano che
indubbiamente la dea, con l'appoggio di simili collaboratori, sarebbe riuscita
a riparare i danni che gli attacchi di quel criminale maniaco di Momo avevano
arrecato alla maestà dei celesti. Appena la dea toccò il suolo, che meraviglia!
Che manifestazioni di giubilo dava la terra col suo aspetto! Non vi dico come
si siano aperti al sorriso i venti, le fonti, i fiumi, i colli all'arrivo della
dea! Aveste visto i fiori spuntare perfino dalla viva roccia, sorridere e
inchinarsi in segno di venerazione al passaggio della dea, emanare i loro
effluvi più delicati per rendere profumatissimo il suo cammino! Aveste visto
gli uccelli canori svolazzarle d'intorno, facendo festa con le ali variopinte,
per salutare col loro canto quegli ospiti divini! Che altro? Gli occhi di tutti
i mortali eran fissi nell'ammirazione di quei volti divini. Molti lasciavano il
lavoro e si mettevano ad andar dietro a quell'apparizione straordinaria per
poterla ammirare più a lungo; alcuni mentre la seguivano erano stupefatti per
la meraviglia, fino a rimanere quasi completamente bloccati. Sbucavano da tutti
i lati, da strade e stradine, madri di famiglia, ragazze da maritare, persone
anziane, gente di ogni età; nessuno ne sapeva nulla, eppure si chiedevano l'un
l'altro in continuazione chi erano i nuovi arrivati e cos'erano venuti a fare.
Il contegno della dea, che procedeva con maestosa lentezza facendo lievi cenni
di saluto col volto disteso, ispirava fiducia e rispetto; essa percorse la via
militare, passò davanti all'università e al teatro, alla fine andò a fermarsi
dentro il tempio del Diritto pubblico umano.
Momo s'era accorto che
c'erano dèe in circolazione; però, se da un lato preferiva sottrarsi alla loro vista
per odio verso gli dèi e per la sua situazione fastidiosa, dall'altro si
sentiva attratto a seguirle perché aveva visto da lontano Lode, la bellissima
figlia di Virtù, e aveva cominciato a eccitarsi d'amore. Siccome stava sempre
sul chi vive, si rendeva conto che le dèe erano state mandate proprio per lui,
e diversi pensieri lo agitavano nell'intimo, facendolo stare in ansia. Gli
venivano in mente i motivi per cui aveva contro gli dèi. Aveva provato a sue
spese che gli uomini, tra i quali aveva cercato scampo, erano molto più
violenti e selvaggi di quanto si possa ritenere; ricordava, d'altra parte, che
gli dèi di solito si lasciano piegare dalle preghiere. Pensava che però non
sarebbe stato vantaggioso, per un esule come lui, tentare un approccio con la
delegazione divina senza accompagnarlo con grandi manifestazioni di
sottomissione e umiltà, e Momo riteneva che mostrarsi in atteggiamento di
supplice fosse una cosa completamente estranea al suo carattere, né sapeva
trovare il modo per ordinare a se stesso di accantonare quel ruolo di
brontolone attaccabrighe che s'era scelto da un pezzo e aveva mantenuto con una
testardaggine senza fine. Temeva anche, però, che la sua ostinazione
esasperasse la dea, di solito così dolce e disponibile; e capiva che era suo
interesse non mettersi contro una da cui avrebbe potuto ottenere appoggio e
consigli per la sua causa. A tutto questo ora si aggiungeva la cotta che s'era
preso per Lode. Alla fine si decise a far visita alla dea; e, nello sforzo
d'imporsi un autocontrollo, diceva così: "È proprio il caso che un
disgraziato metta da parte la superbia, Momo; riserviamo la coerenza a migliore
occasione; per salvare la faccia, sarà sufficiente recuperare a qualunque costo
l'antica dignità, uscendo da questa situazione di merda. Non credere di
sputtanarti se ti comporti come si deve. La persona accorta, infatti, si sa
adattare alle circostanze, ed anche a Momo tornerà utile prepararsi a forza di
salamelecchi e preghiere la via per conquistare posizioni migliori. Di' pure: non
posso non esser Momo; non posso non essere quello che sono stato sempre,
anarchico e testardo. Benissimo: resta così come vuoi nel profondo del cuore,
purché tu sia capace di adattare il viso e il linguaggio alla necessità,
simulando e dissimulando. Hai voglia di ridere per le situazioni assurde che si
creeranno, con te in una parte brillante, e gli altri che se la bevono!".
Rimuginando così tra sé,
Momo era arrivato vicino al tempio, dove osserva ammirato quanta folla vi si
fosse radunata in così poco tempo, e che razza di spettacolo di varietà
stessero allestendo. Il fatto è che, fra le ragazze divine, Lode era uno di
quei tipetti molto frivoli, che lanciano certi sguardi provocanti, e già se
n'era tirati dietro moltissimi con la voglia matta di lei, i quali, facendosi
sotto a caterve, avevano quasi cinto d'assedio le dèe. E così tutti si
mettevano in mostra per piacere alla ragazza; chi suonava uno strumento,
cantava o ballava, chi si esibiva in esercizi ginnici, chi faceva ostentazione
delle sue ricchezze: ciascuno, insomma, cercava di offrire il meglio di sé.
Quella puttanella di Lode, senza che sua madre la riprendesse, si dava un gran
daffare con tutte le arti di cui era capace per rendersi piacevole a tutti,
specialmente a quelli che si facevano notare per la loro eleganza. Momo era
scocciato d'essersi imbattuto in tutti quei rivali. Tuttavia, ansioso per il
motivo che l'aveva spinto a venire, manda uno dalla taverna più vicina, per
comunicare alla dea Virtù che c'era uno della sua gente, Momo, che aveva un
gran desiderio di far loro una visita, se l'avessero gradita: temeva, infatti,
di fare una figuraccia davanti alla folla, nel caso che fosse stato messo alla
porta cercando d'incontrare la dea senza prima indagare per esser certo delle
sue buone disposizioni verso di lui. Allora la dea Virtù esclamò: "Magari
si fosse ricordato abbastanza di appartenere alla nostra gente! Non avrebbe
combinato di certo tanti pasticci. Ma venga pure, se vuole".
Come gli furono riportate
queste parole, Momo non sapeva bene in che senso intenderle, girava gli occhi,
il viso, la mente stessa in tutte le direzioni. Finalmente arrivò tutto
angosciato all'ingresso del tempio, dove poté profferire a stento un paio di
parole per la coscienza della sua situazione: ma, visto che la dea gli faceva
un'accoglienza molto benevola, tornò in sé e cominciò a dire qualcosa di più.
Prese così a ricordare la loro antica amicizia, i favori che s'erano scambiati,
i suoi sentimenti così affettuosi verso la dea; si lamentava dei suoi guai, chiedeva
aiuto, si raccomandava in tutti i modi. La dea seppe cogliere perfettamente
l'opportunità e, per risollevare l'animo dell'esule, diede quelle risposte che
riteneva più adatte alla situazione. Gli ricordò, fra l'altro, che quando si ha
a che fare con uno che è caduto in disgrazia è meglio che questi la smetta una
buona volta di andarsi a cercare l'odio e l'antipatia di tutti: una lingua
troppo svelta e sempre pronta a criticare blocca qualunque via d'uscita. Gli
chiese di lasciar perdere la sua eccitazione e mettere un freno a quel
caratteraccio: nella sua condizione, era proprio assurdo incaponirsi nel
ricordo delle offese ricevute. Doveva rendersi conto che, più che colpire gli
dèi, tutte le iniziative a cui metteva mano contro di loro si sarebbero probabilmente
riversate sulla sua testa. Se considerava cos'aveva ottenuto con le sue arti e
il suo vecchio modo di fare, non gli restava che dolersi perché le sue azioni
erano scese quasi al punto che nemmeno chi avesse voluto dargli aiuto era in
grado di farlo. Lei tuttavia, in nome dell'antica amicizia, non aveva mancato
di adoperarsi per lui in pubblico come in privato perché i celesti non
smettessero di pensare alla sua salvezza, e si sarebbe adoperata perché lo
ricompensassero largamente, se avesse dimostrato di meritarlo. Ora Momo doveva
capire che toccava a lui ripristinare negli animi umani la fede negli dèi e il
sentimento religioso, che i suoi discorsi avevano messo in pericolo e fatto
quasi precipitare. Momo, colpito da improvviso benessere, si mise a promettere
qualunque cosa e ad offrire garanzie d'ogni sorta, giurando che tutto era
dovuto da parte sua a dèi che lo trattavano così bene.
Nel frattempo i
personaggi più in vista e le signore dell'alta società (tra cui c'è chi ritiene
vi fossero Ercole, il padre Libero figlio di Semele, Medio Fidio, i fratelli
Tindaridi e poi Matuta figlia di Cadmo, Carmenta, Cerere e altre personalità di
quel livello), spinta di lato la massa e tolto di mezzo con essa anche Momo,
fecero il loro ingresso nel tempio per rendere omaggio alla dea. Avevano
cominciato col chiedere di voler cortesemente confermare che erano di stirpe
divina, come l'abito e il portamento lasciavano immaginare, e la invitavano con
insistenza ad accettare ospitalità nelle loro case, quando Momo, tutto pieno di
speranze e ringalluzzito per la presenza delle dèe, cominciò ad agitarsi un po'
troppo. E così non la finiva più di dare suggerimenti e far critiche, sempre in
mezzo ai piedi, finché tutti quanti, con le tasche piene per le arie che si dava
quel grandissimo presuntuoso, non lo buttarono fuori dal tempio.
Infuriato per quella
mancanza di rispetto inattesa, Momo dava in escandescenze; intrufolatosi in
mezzo al popolino, gridava così: "Dovremo sopportare in eterno, o
cittadini, l'insensatezza di questi signoroni, continuando a subire simili
ingiustizie? Passi che abbiano tante ricchezze ‑ gli vadano in malora,
gli pigliasse un accidente! Passi che stiano più in alto di noi poveracci
rubando a tutto spiano, finché la sorte glielo permette, e che detestino la
gente perbene come noi, perché disapproviamo le loro porcherie; risplendano
pure di gemme e d'oro, stiano impregnati di profumo, si diano pure alla pazza
gioia e alla lussuria sfrenata: noi con gli abiti consumati, tutti sporchi di
sudore, ce la passeremo sempre male per la loro bella faccia? Sopporteremo
sempre la loro intollerabile insolenza? È mai possibile che un valoroso, perché
è ridotto in povertà, non riesca a incontrarsi con dei connazionali, suoi
parenti per giunta, se costoro non lo permettono? Che indescrivibile disastro
per la nostra libertà collettiva, che sfacelo! Ci disperdono, ci fanno
sloggiare come gli pare con la loro prepotenza. E noi, di fronte a una
provocazione così violenta, non difenderemo valorosamente la nostra dignità?
Noi che siamo così numerosi, non ci metteremo mai insieme per respingere la
straordinaria sfrontatezza di pochi? Vergogna di questa ripugnante
sottomissione! Dimostrate adesso che siamo liberi cittadini anche noi! Avanti,
valorosi, dimostrate che non ne potete più degli oppressori. Fate vedere una
volta per tutte che siete capaci di tutelare i vostri diritti, di difendere la
libertà anche a costo di preferire la morte alla sottomissione. Avanti,
cittadini, l'arroganza sfrontata va repressa con la forza: chi si ritiene un
vero cittadino degno della libertà segua il liberatore. All'armi, uomini,
all'armi!
Questo fu il discorso di
Momo. Intanto i cittadini che gli stavano attorno, poiché è difetto congenito
del popolo esser sempre pronto a correr dietro a tutti i propugnatori di
rinnovamento sociale e a buttarsi a capofitto nelle manifestazioni sediziose,
avevano cominciato a fremere d'indignazione e si raccoglievano da tutte le
parti per far casino, lanciando slogan di denuncia contro l'azione provocatoria
dei signori. Quando la dea se ne accorse, si portò all'ingresso del tempio e,
chiamato da parte quello che aveva dato inizio all'agitazione, Momo, riuscì a
sedare facilmente quel principio di sommossa della massa che strepitava, con la
sola espressione del volto ed i gesti, in atteggiamento di regale maestà; poi,
rivolta a Momo, disse: "È così, Momo, che stavi incominciando a fare
quello che mi avevi promesso poco fa? Stavi eccitando quella folla
incontrollabile a un'impresa mostruosa per mettere me e queste ragazze in mezzo
al pericolo del ferro, del fuoco e delle armi, perché noi dèe ritornassimo dai
celesti cosparse del sangue di morti e feriti che ci sarebbero caduti addosso?
Vorremmo che d'ora in poi Momo ragionasse con più senno". "Io" rispose
Momo "desolato per la mia situazione, oppresso da tante contrarietà, fra
cui la mancanza di rispetto di questi mortali, non posso evitare di lasciarmi
andare alla disperazione, per poco che faccia caso alle mie disgrazie. Toccherà
a te, Virtù, decidere una cosa: io dovrò ricambiare in eterno offese oppure
buone azioni?". "Vieni qua" disse la dea. "Vorrei ti
convincessi che io non mancherò mai di preoccuparmi per il tuo bene. E perché
tu esegua il tuo compito con speranze e prospettive più solide, dammi la mano,
guarda cosa ti prometto: se tu col tuo comportamento tra gli uomini sarai
capace (e credo proprio lo sia) di acquistarti benemerenze presso gli dèi, ti
assicuro che non avrai nessun motivo di pentirti del tuo impegno. Del resto, ho
buone ragioni per garantire per te: conosco il tuo carattere, Momo, e so bene
che, se ti sei proprio deciso a fare qualcosa che ti procuri la salvezza e sia
gradito agli dèi, lo farai senz'altro secondo le tue intenzioni. Ora tu datti
da fare e dimostrati degno dell'antico favore degli dèi: la ricompensa sarà
molto superiore alle mie promesse".
A queste parole, Momo non
sapeva dove battere la testa, e non aveva che lacrime da dare in cambio di quei
buoni consigli. Un altro fatto commosse poi la dea: una vecchietta rattrappita
per l'età, mezza morta per la paura di quel che stava succedendo, si avvicinò
tutta tremante, senza fiato, e disse sottovoce: "Ehi, tu! Certo non sai
che rischio stai correndo. Scappa via di qua, disgraziato, sfuggi all'attacco
preparato contro di te. Ho visto uno dei signori togliersi dal fianco un
pugnale e consegnarlo a un suo servo con l'ordine di ucciderti al più presto,
perché sei un pericolo per l'ordine pubblico". La dea, temendo che venisse
commesso davanti a lei un atto di violenza così infame, avvolse il velo che la
ricopriva intorno alla testa di Momo, al posto del sacro copricapo che lui
aveva perso cadendo nel pozzo mentre scappava dal cielo, e disse: "E
allora tu potrai trasformarti in tutte le figure che vuoi, e sfuggire a tutti
gli attacchi; se poi, com'è tuo dovere, saprai operare nell'interesse degli
dèi, ti garantisco che le tue buone azioni ti procureranno grandi motivi di
gioia". La dea si rivolse poi ai signori e disse che aveva deciso di
passare la notte nel tempio, e solo lì; però, se fossero ritornati l'indomani
mattina, avrebbe voluto discutere con loro di affari della massima importanza.
Infine, congedati i visitatori, fece mettere subito delle pesanti doppie porte
di bronzo al tempio, per stare più al sicuro, con tutte le entrate sbarrate, da
eventuali oltraggi di qualche temerario sporcaccione.
Momo, visto che le sue
sciagurate imprese davano buoni risultati al di là di ogni aspettativa,
recuperando grazie ai successi lo spirito di una volta, si era dato anima e
corpo a meditare qualche altro misfatto dei suoi. Fu così che inventò un modo
di far danno proprio originale e imprevedibile, grazie al quale poteva fare la
figura di aver agito in modo retto e pio, mentre in realtà metteva sottosopra
ogni cosa senza riguardi, e in cambio della sua mala pensata gli sarebbero
giunti i ringraziamenti proprio di quelli che ne avrebbero pagato le
conseguenze.
C'era una ragazza, una
sorella di Tersite, famosa nell'intera città per la sua bruttezza fuori del
comune. Costei era andata in campagna per curarsi l'itterizia che l'affliggeva.
Mutatosi in lei, Momo si mescola a tutte le altre fanciulle che si erano
riversate proprio allora nei crocicchi e per le stradine: faceva una bellissima
impressione, con quel viso che non era più brutto e anemico come prima, ma era
diventato come per miracolo tutto rubicondo e attraente nel suo splendore, e
accarezzandosi con le mani i bei capelli biondi altrettanto diversi dal solito.
Tutte le ragazze erano prese d'invidia, e domandavano come aveva fatto una del
sangue di Tersite, la fanciulla meno attraente di tutte, a diventare tutt'a un
tratto così prosperosa. Momo, con la faccia più amabile di questo mondo,
rispose: "Venite qua, tesorucci, ragazze mie, e state attente, se potete,
a ciò che vi sto per dire, vi può essere utilissimo e piacevole. V'insegnerò in
che modo anche voi potrete diventare così belle. Anzi, sarete tanto più belle
di me in quanto ciascuna di voi per sé sola è molto più formosa e attraente di
me. Se gli dèi che m'han fatto un dono tanto magnifico non mi avessero ordinato
di comportarmi così, forse ‑ se vi posso confessare il mio peccato ‑
avrei potuto tenermi tutta per me questa gioia nel profondo del cuore, e andar
fiera del mio trionfo in mezzo alle ragazze: ma obbedisco di buon grado agli
dèi del cielo. Tu Venere, tu Bacco e tu, Aurora dorata, assistetemi con la
vostra protezione mentre io, secondo il vostro comando santo e pio, rendo
partecipi di una grazia così straordinaria questi miei cari tesori di
ragazze".
A queste parole di Momo,
non è facile dire quanto si dimostrarono desiderose di ascoltare e imparare le
ragazze. Allora Momo cominciò a tirar fuori una storia inventata di sana
pianta, condita di paroloni, pressappoco alla maniera che segue.
In campagna al mattino
presto, verso l'alba, s'era addormentata, stanca e distrutta dopo una notte
passata in bianco per i suoi problemi, e aveva sognato di stare a discutere
quegli stessi problemi con la sua balia morta. Il suo guaio era questo: se la
prendeva aspramente con la sorte perché si rendeva conto che una ragazza come
lei, non certo da buttare per le doti del carattere, doveva essere per forza
sgradevole a chiunque, evitata e messa in disparte per un solo motivo
soprattutto, la bruttezza del colorito. Ma la vecchia balia diceva nel sogno:
"Smettila di consumarti a piangere, anima mia! Ti darò io il mezzo per
diventare bellissima. Fai un voto agli dèi, a Venere, a Bacco e all'Aurora, e
vai a mettere alle loro statue sull'altare corone di fiori appena colti che tu
stessa intreccerai, perché ti diano una mano a diventare graziosa: gli dèi,
memori e gratissimi dell'omaggio, ti daranno qualunque cosa tu chieda".
Recitando questo discorso
della balia, Momo era ormai riuscito a colmare di speranze e desideri il cuore
delle ragazze. Vedendole così eccitate, le guardò in faccia ad una ad una e
proseguì il suo discorso facendo le mossette più carine: "Così disse la
mia balia" fece. "Ed io appena sveglia ho fatto il voto a mani
giunte, con tutta la fede che mi veniva dal sogno. Ci credereste? La prospettiva
allettante mi ha dato subito la sensazione di essere più in forma. Per non
farla lunga, mi sono assopita di nuovo, e in sogno la dea Aurora mi ha
insegnato a truccarmi con la resina e la biacca, a passarmi la pomice, a far la
tintura di croco e di nitro ai capelli. Perciò credo che noi ragazze siamo due
volte fortunate, perché con queste arti possiamo imitare quanto ci pare il
volto divino di Aurora, e anche perché se ci sono problemi che ci angosciano
abbiamo spalancata una via per chiedere soccorso agli dèi immortali di lassù e
tenerceli buoni. Per questa via possiamo chiedere ai celesti pace e protezione;
per questa, col volere e il consenso divino, possiamo mantenere coi celesti una
specie di filo diretto, facilissimo da usare. Andate dunque, ragazze, e non abbiate
paura di chiedere agli dèi coi vostri voti tutto ciò che vi pare".
Raccontata questa
storiella, Momo adornò con molta grazia questa e quella ragazza, e le istruì
per benino quasi tutte nell'arte di truccarsi. Chiese però che prendessero
l'abitudine di farlo di nascosto, per evitare che anche gli uomini si
concedessero assieme a loro una simile sciccheria, o che in casa lo venissero a
sapere le matrigne noiose, sempre pronte a brontolare. Così parlò Momo, poi se
ne andò, e ripensando tra sé a quel che aveva combinato stava quasi impazzendo
dalla gioia. "È proprio come dicono" faceva, "tutte le cose sono
soggette ai capricci del destino! Chi avrebbe mai potuto immaginare che la mia
situazione sarebbe cambiata da così a così in questo modo? Fino a poco fa ero
un esule sommerso dalle sciagure, odiato e sbeffeggiato da uomini e dèi; ora,
di colpo, eccomi passare da una condizione disperata a uno spasso simile: non
ho ragione di ballare dalla gioia? Non so ancora bene se devo rallegrarmi di
più perché, richiamato dall'esilio, sto per recuperare l'antica dignità, oppure
perché m'è saltato in mente un sistema per rivalermi che più spassoso di così
non si può: bisogna proprio frequentare gli esseri umani se ci si vuol far le
ossa a tutte le astuzie, gli inganni e le truffe. Che razza di animali a due
zampe, gli uomini! Alla larga! Eppure, di questo duro esilio c'è una cosa che
mi sta bene: esser diventato, con la furbizia e con l'inganno, un autentico
esperto nel trasformismo e nell'arte di filar via per la tangente, simulando e
dissimulando. Di certo non avrei mai acquistato queste tecniche vantaggiose e
utilissime restandomene lì in mezzo agli dèi, tra i piaceri della lussuria e il
dolce far niente. Ora che ho dovuto passare i miei guai, Frode, cos'altro posso
temere da te? Ah, se avessi immaginato, nel mio antico benessere, che effetto
fa doversi scontrare tutti i giorni coi guai, non mi avresti fatto bandire,
Frode traditrice, con le tue arti sleali! Ma se torno fra gli dèi… Lasciamo
perdere! Una cosa è certa: nessuno riuscirà a ingannare Momo, ora che si è
messo bene in testa che tutti quanti possono comportarsi da farabutti. Torniamo
al punto; la faccenda sta in questi termini: qui in mezzo agli uomini, dovendo
sopportare scontri e difficoltà, s'impara la strategia per condurre a buon
esito imprese grandiose ed illustri. Per esempio, chi potrà lodare quanto
merita la trovata che ho escogitato per prendermi la rivincita? Non mi sono
dimostrato architetto elegante di ogni malizia? Sono sicurissimo delle conseguenze
della mia azione: l'uomo imparerà a rompere le scatole agli dèi con i suoi
voti: conosco la sua petulanza, so bene che faccia tosta si ritrova, quant'è
arrogante e temerario. Non c'è bene altissimo e divino che non ritenga gli sia
dovuto. Su cosa non si lancerà coi suoi voti? Avrà desideri senza senso,
ambizioni presuntuose, chiederà senza ritegno, si convincerà che non gli si può
dir di no, che tutto gli dev'essere offerto senza neanche domandarlo. Andrà a
finire che un solo omiciattolo qualunque farà stancare tutti quanti gli dèi con
l'impertinenza delle sue richieste. Quegli allegri compagnoni, che hanno deciso
di passare l'eternità nell'ozio e nella quiete nelle loro splendide dimore
celesti, se vorranno darsi qualche pensiero di questa faccenda dei voti, sarà
bene che si mettano all'opera anima e corpo, e la smettano di spassarsela come
gli scemi coi loro Ganimedi, le loro Veneri, i loro Amori. C'è di più: se
cominceranno a fare concessioni ai mortali, il lavoro aumenterà di giorno in
giorno per quei pigroni buoni a nulla. Se invece non se ne daranno pensiero per
pigrizia e indifferenza, è finita: non contano più nulla; senza chi ubbidisce,
hai voglia di comandare! Se gli dèi non avessero chi sottomette il suo cuore
alla venerazione della loro divina maestà, che valore vuoi che avrebbe stare
lassù? Per di più gli dèi sono ambiziosi più del dovuto, e incredibilmente
avidi della deferenza e dell'adulazione delle masse, ma al tempo stesso amano
prendersela comoda, da veri fannulloni; per loro, che stanno immersi fino al
collo nel nettare e nell'ambrosia, una faccenda strana e imprevista come questa
sarà come una sveglia improvvisa, e così nessuno saprà che decisioni prendere
per i fatti suoi, né escogiterà soluzioni utili al problema comune. Saranno più
le baruffe che le discussioni sensate. Si vedrà allora quanto vale il mio
operato. Infatti, per come conosco il loro solito modo di fare, posso prevedere
che nel fuoco della discussione nasceranno tra loro odio e rancori. Non c'è
dubbio che la furia di quelle tempeste si rovescerà in gran parte su di me, ma
io, per giustificarmi e farla franca dai loro attacchi di bile, potrò sempre
dire d'aver agito in buona fede, nell'interesse della loro sacra autorità, per
quanto mi permetteva il mio buon senso privo di contorsioni, e non si poteva
certo addossare a me, che anzi, nei miei limiti, avevo fatto tutto a fin di
bene, la colpa per le conseguenze imprevedibili della faccenda. E poi, in
fondo… Giove è pure andato in sollucchero per certe contadine rozze: ora che son
diventate più carine per merito mio, non gli si scalderà il sangue? E ti saluto
Giunone!".
Mentre prospettava tra sé
un tale scenario, saltò in mente a Momo di mettere mano a un'altra spaventosa
impresa, odiosa, rovinosa e abominevole per gli dèi celesti e infernali e per
tutto il genere umano. Vale la pena di raccontare come da un futile motivo ‑
se lo si può definire così ‑ abbia potuto sortire un male così disastroso
e degno di esecrazione. E poi lo stesso misfatto, per l'originalità della
trovata, contiene elementi adatti a suscitare il piacere dei lettori.
S'è già detto che Momo
aveva preso una cotta per Lode, una delle figlie di Virtù. Si era dunque
risolto a non lasciar nulla d'intentato per conquistarla. Andava girovagando
perciò intorno al tempio chiuso, scrutando attentamente tutte le vie
d'ingresso, che cercò di forzare a più riprese; ma quando ebbe compreso che
tutti i suoi tentativi sarebbero andati a vuoto contro quelle porte sprangate,
aveva cambiato direzione ai suoi passi e ai pensieri, come a togliere l'assedio
appena iniziato. Ma, mentre si allontanava, si fermò a guardare ancora una
volta verso il tempio, e alzando lo sguardo di nuovo con un sospiro a questo e
a quel punto scorse una finestra sul retro, dimenticata aperta per caso: decise
di servirsene per cogliere il frutto della sua passione, di nascosto o con la
forza. Trasportare una scala in quel luogo pubblico fin troppo frequentato,
oltre che difficile e arduo, era tutt'altro che sicuro. Perciò, appeso alla
finestra con lo sguardo, si rigirava tra mille pensieri, prendeva mille
risoluzioni, pronto a tutto, poi però ogni cosa l'impauriva; tutto eccitato
dalla voglia, ondeggiava tra speranza e timore. Tornato poi in sé, si ricordò
dei poteri che aveva grazie al velo datogli dalla dea Virtù, allora si fece
coraggio e cercò di attaccarsi con tutta la forza delle braccia e delle gambe
al muro del tempio reso scabroso dagli anni, tendendo in su le braccia più che
poteva e piantando le unghie e la barba nelle giunture fra le pietre, finché, trasformato
in edera, strisciò in alto fin sulla finestra. Da quel punto poteva vedere
Lode, che, guarda caso, era la sola ancora sveglia, mentre sua madre e i
fratelli si erano addormentati, intenta a rifarsi l'acconciatura ai capelli
davanti alla pietra levigata del tempio, come fosse uno specchio. Incapace di
controllarsi per la passione amorosa, eccitato a qualsiasi audacia, non sa che
combinare, che altro decidere se non aspettare acquattato in silenzio
l'occasione del colpo d'amore. Perciò, distendendosi pian piano per il muro,
stava appeso con le braccia allargate, l'animo in ansia; difficile dire quanto
fosse insofferente di quella pausa e di sé, in quella posizione d'attesa.
Essendo ora più vicino alla ragazza, ardeva più violentemente del fuoco d'amore;
d'altra parte, agghiacciava e rabbrividiva per la gran paura. Ora si sentiva
pronto all'assalto, ora si tratteneva al minimo segnale sospetto; ancora una
volta si eccitava all'azione temeraria, e ancora una volta esitava al momento
cruciale, e non poteva evitar di tremare con tutte le foglie ad ogni sussulto
del cuore impaurito nel pieno della tensione.
La dea fanciulla, appena
il lieve rumore delle fronde agitate richiamò la sua attenzione, vi fissò gli
occhi sopra. Poi, visti i rami dell'edera che pendevano e le foglie che
s'agitavano come a farle festa, smise per un po' d'arricciarsi i capelli e, con
la sua solita leggerezza, volle farsi una corona con uno di quei rami
verdeggianti. Che dire a questo punto dell'audacia di Momo? Mentre la ragazza cercava
di toccarlo, la afferrò e la strinse con tutta la forza delle braccia, e
tenendo occhi ed orecchie ben aperti nel timore che si svegliassero gli dèi, e
andasse quindi a vuoto il suo tentativo, riuscì a strappare la vittoria. Si
ritrasse poi sul bordo della finestra, fermandosi lì per un pezzo a
contemplare, vittorioso e rilassato, l'amore suo.
Ma guardate a che punto
arriva la sfacciataggine. Alcuni volgarissimi vagabondi, gente del popolino, di
quelli che pensano che non avere nessun rispetto né per gli dèi né per gli
uomini sia il sistema di vita migliore e più comodo, si arrampicavano in gruppo
su per quella stessa edera con l'intenzione di violare e profanare il tempio, e
afferrati qua e là dei ramoscelli vi si appoggiavano con forza, cercando di entrare
per la finestra. Il risultato fu che Momo, come se l'avessero tirato per i
capelli, fu trascinato in giù a precipizio assieme a un pezzo di muro
fatiscente per la vecchiaia. Momo non sopportò quell'insulto. Così, mutatosi in
torrente, trascinò quei vagabondi svergognati in una fogna puzzolente e ve li
sommerse.
La dea Virtù, svegliata
dal primo strillo di sua figlia che si dibatteva, grazie alla sua intelligenza
e alla sua presenza di spirito prese la migliore delle decisioni possibili in
una circostanza del genere, che ha incontrato fino ad oggi l'approvazione di
tutte le persone colte ed esperte della vita. Poiché non c'era modo di
cancellare l'accaduto, si trattenne dal gridare, per non renderlo di pubblico
dominio a vergogna sua e della famiglia, evitando che in aggiunta all'oltraggio
ricevuto da una sua figliola ulteriori atti ostili si rovesciassero contro i
suoi cari. Così, di fronte all'iniquità del frangente, ritenne preferibile
stare in ascolto facendo finta di dormire, finché un'altra occasione non avesse
permesso di riparare al malfatto. Rimane perciò china a osservare schifata, e
aspetta in silenzio di vedere come va a finire. La ragazza, terrorizzata
dall'inatteso colpaccio di Momo, aveva raccolto a stento lo spirito nonché i
capelli; e quasi nel preciso momento in cui si accorse d'essere stata messa
incinta da quella violenza carnale, e anzi sentiva già avvicinarsi le doglie,
incredibile a dirsi, vide che il feto sbucava fuori con le sue sole forze; poi,
quando lo raccolse e vide che aveva dato alla luce un mostro orribile e
spaventoso, restò stupefatta e profondamente addolorata. Fra gli altri
particolari raccapriccianti, il mostro (incredibile!) aveva tanti occhi, tante
orecchie, tante lingue quant'erano le foglie dell'edera cresciute in corpo a
suo padre. Dimostrava inoltre quella stessa frenesia di guardarsi intorno a
cogliere il minimo movimento che aveva invaso suo padre durante la seduzione; e
quel che sconcertava ancor più, era dotato d'una loquacità straordinaria fin
troppo precoce: perfino al momento di nascere, infatti, aveva provato ad
articolare parole.
La ragazza non poteva non
detestare quel malanno che aveva partorito; cercò quindi di sopprimerlo in
tutti i modi, ma senza successo. Quell'essere generato da un dio e da una dea resisteva,
non essendo soggetto alla morte; non la finiva più di saltellare di qua e di là
sfuggendo alle mani di sua madre, di strisciarle sul seno, d'infilarsi sotto le
sue vesti; anzi, più colpi gli si davano, più gli crescevano la voce, il corpo
e le forze. C'era lì vicino un sacro guanciale di piume d'airone: la ragazza
sconvolta lo prese, e cercò con quello di schiacciare il mostro che non stava
un attimo fermo, per soffocarlo. Ma il mostro, nella sua resistenza
straordinaria, strappò con le unghie e coi denti il guanciale, tanto da
sgusciare in mezzo alle piume. La ragazza continuava a sforzarsi di ficcarcelo
dentro, così, se non riusciva ad uccidere il mostro, poteva almeno nasconderlo,
togliendolo di sotto gli occhi ai parenti. A forza di provare, a un certo punto
non ce la fece più.
La dea madre, dopo aver
osservato per un pezzo la ragazza colpita da tanta disgrazia, diede un gemito.
Poi, per soccorrere la figliola in un simile frangente, facendo finta di
essersi svegliata proprio allora, si alzò e disse: "Lascia stare, ci penso
io!" e, avvicinandosi a rapidi passi, schiacciò col piede destro il collo
del mostro che si dibatteva. Il mostro, benché così intrappolato facesse fatica
a respirare, continuava a tirar fuori parole con incredibile faccia tosta, e
non la finiva più di spifferare tutto ciò che si poteva vedere, anzi, riferiva
tutto quello che aveva visto e sentito mettendo insieme talvolta il vero e il
falso. Giurava che Trionfo e Trofeo non erano figli di Virtù, ma di Caso e
Fortuna, e che uno dei due era scemo e l'altro deficiente. E strillava
sfottendoli: "Viva Trofeo! Viva Trionfo! Ehi tu, Trofeo, perché non vai a
piazzarti agli incroci, al solito tuo, per farti vedere dai ragazzini e dai
passanti stanchi, che mugoli come fanno i muti?". Sosteneva poi che Lode
aveva un occhio cisposo, e Posterità camminava coi piedi all'indietro. Poi,
rivolto alla dea Virtù: "Quando Lode si pettina di fronte a te, il petto e
il grembo ti si riempiono di sporcizia".
La dea Virtù, turbata
dalla petulanza di un simile mostro, considerava che quasi tutti i grandi
chiacchieroni hanno la caratteristica inveterata di lasciar perdere subito le
storie vecchie, pur di averne di nuove per sproloquiare, e si ricordava che
essi sono felicissimi delle voci dell'ultima ora, di qualunque provenienza, e
di metter via le storie già note per afferrare materia di pettegolezzo più
fresca. Allora la saggia dea esclamò: "Vattene alla malora, Fama, visto
che non la fai mai finita di far chiacchiere, e cercati da un'altra parte altre
favole da raccontare!". Così dicendo, buttò fuori il mostro per la stessa
finestra dov'era passato Momo per fare il colpo. Fama allora, non appena le
membra liberate glielo permisero, distese subito le braccia e cominciò ad
agitarsi e a star sospesa su in aria svolazzando, poi imparò ad un tratto a
volare a una velocità che non teme confronti, né con la luce e l'ombra, né con
lo sguardo e nemmeno con la forza del pensiero. Si racconta che Fama sorvolò in
un attimo solo le pianure di Maratona e di Leuttra, Salamina e le Termopili,
Canne e il Trasimeno, le Forche Caudine, gli scogli di Scilla e i massi
scagliati dal Ciclope, il bosco Idalio, Cadice sacra ad Ercole, Birsa e Tala,
il polo d'Atlante e il luogo dove Aurora frena i bianchi cavalli di Febo, e poi
quello dove il sole ribolle immerso nell'oceano glaciale: tutti questi luoghi,
e molti altri ancora, ripeto, in un attimo solo! Per di più, con quella sua
ardente passione di vedere, ascoltare e riferire, non c'era luogo, per quanto
fuori mano, nascosto e coperto di nebbia, che la dea Fama non si mettesse ad
osservare ed a spiare senza sosta per poi renderlo noto a tutti con
instancabile precisione: solo lei poteva fare una faticaccia simile!
Momo, osservando quel
malanno disgustoso che aveva fatto nascere, sulle prime aveva cominciato a
sospettare che avrebbe avuto dei guai con gli dèi. Gli tornava in mente che
razza di delitto aveva commesso nel tempio, violando ogni sacra norma divina e
umana. Lo preoccupava anche il pensiero di essersi messo contro, con l'impudenza
di quel delitto passionale, proprio la dea che rappresentava i suoi interessi
tra i celesti, e temeva che grazie a tutta quella pubblicità fatta da Fama
l'autorità e la maestà dei grandi dèi avrebbero acquistato popolarità in mezzo
agli uomini, e quindi le masse credulone avrebbero preso l'abitudine di
rispettare e venerare gli dèi. Aveva però anche motivi d'esser contento, perché
si rendeva conto che Fama si divertiva a passare in rassegna non solo le altrui
azioni meritevoli, ma anche e soprattutto quelle disoneste, e aveva osservato
come gli uomini abbiano la tendenza a scandalizzarsi per le azioni che non
hanno tutta l'apparenza della correttezza più di quanto non li commuovano
quelle giuste e pie; ricordava poi un'altra caratteristica degli uomini:
sospettano sempre di chi esprime giudizi positivi, anche se è una persona
seria, e invece danno il massimo credito ai denigratori più superficiali; hanno
meno piacere ad ascoltare il racconto di azioni encomiabili, di quanto gliene
procurino le calunnie degli sciagurati; fanno passare per buona e con tanto di
prove qualsiasi calunnia, mentre hanno sempre qualcosa da togliere ai giudizi
positivi, per sminuirne il valore. Oltre tutto, davanti al più piccolo neo, al
minimo sospetto di colpa non hanno più la minima considerazione per la
meravigliosa e divina bellezza dell'animo, dell'intelligenza, del carattere
umano e della sua onorabilità. Alla luce di queste considerazioni, Momo era
sicuro che le chiacchiere di Fama avrebbero danneggiato seriamente la reputazione
divina tra i mortali, dato che non c'è quasi nessun dio che non si ritrovi in
casa qualche buon motivo di vergogna. Del resto, per la faccenda della ragazza
violentata nel tempio, pensava che non sarebbe stato difficile giustificarsi
davanti a Giove per uno come lui, che ammetteva d'aver agito in preda alla
passione d'amore, imitando, com'era evidente, il padre degli uomini e re degli
dèi.
Queste erano le
elucubrazioni di Momo. Da un'altra parte, intanto, la dea Fortuna, ostile a
Virtù perché aspirava da un pezzo al ministero degli affari umani e non aveva
mandato giù il fatto che le avessero preferito la dea Virtù, faceva tutti i
preparativi per dar fastidio alla rivale. Perciò, osservando quel che succedeva
tra i mortali, si rese conto di che razza di mostro terribile fosse apparso
sulla terra; e siccome aveva un gusto matto di farsela con i mostri, e poi
aveva preso il partito di mandare a monte con ogni mezzo le iniziative della
dea Virtù, scese tutta contenta sulla terra col desiderio d'incontrare Fama e
per cercar l'occasione di sferrare i suoi attacchi. Ma ecco che gliene capitò
una proprio carina: s'imbatté infatti in Ercole, l'ardito sfidante di tutti i
mostri, che con la clava in mano andava in cerca di Fama senza badare a
fatiche. Allora stette un po' a riflettere sul da farsi. C'erano molte buone
ragioni per essere in ansia, soprattutto una: sentiva Fama schiamazzare per
tutto il cielo, mettendo in piazza azioni e decisioni degli dèi. Una di quelle
storie diceva che era arrivata la dea Fortuna a intralciare i piani di Virtù,
mentre Virtù aveva fatto accendere sull'altare un fuoco con la fiamma divina,
grazie al quale fosse aperta agli uomini la via del cielo. Per quanto
chiacchiere del genere la preoccupassero, la dea Fortuna era tuttavia felice
che l'eco solenne del suo nome risuonasse per tutti i monti e le valli della
terra; le dava ulteriore piacere l'aspetto deforme del mostro, con quella sua
incredibile ostentazione di stranezze in tutti i particolari del corpo: perciò,
pur detestando tutto quello spettegolare a vuoto, desiderava che il mostro
rimanesse sano e salvo. Poi, quand'ebbe concluso che in fondo anche Ercole era
per certi aspetti assai simile a un mostro, non si trattenne dal corrergli
incontro e abbracciarlo. "Cos'è questa storia" disse "che tu,
armato di un tronco di quercia massiccio e pesante, affronti tanta fatica
tentando un'azione dura e difficile contro la prole di un dio? Sei così poco
osservatore da non accorgerti che è di stirpe divina una che sta sospesa nell'aria
leggera, mostrando simili capacità oratorie e tali poteri? Ti ricordo che è più
probabile che un mortale acquisti l'immortalità, che un immortale soccomba a un
mortale qualunque. Ora stai bene a sentire, ti dico io come dovrai fare,
nell'interesse di tutt'e due. Ti insegnerò un sistema facile per intrufolarti
nella schiera degli dèi senza bisogno del fuoco che Virtù ha fatto mettere
sull'altare. Fai così: impugna la sola scorza di questa clava, per diminuirne
il peso ed essere più spedito, e nasconditi nell'ombra in mezzo a quest'erba
tenera; fatti vedere da lì che agiti la scorza, e mettiti a ululare, a muggire,
a fare un sacco di versi. La dea, curiosa com'è di conoscer qualunque cosa,
arriverà di corsa; allora tu afferrala d'un balzo e portala via; ed io, per
evitare che, una volta prigioniera, si divincoli e fugga, intreccio nei tuoi
capelli questo filo d'oro: darà più forza ai tuoi muscoli e saldezza al cuore.
Però stai bene attento a non farti scappar di mano la scorza, se non vuoi fare
una figuraccia, qualora la dea riesca a rubartela e a volar via!".
L'azione riuscì ad Ercole
proprio secondo il piano. Quando Momo vide che Ercole veniva trasportato in
alto, avvinghiato stretto al collo del mostro, fu preso da un turbamento
indescrivibile. All'inizio, pensando che un uomo non ce la poteva fare a
reggere il gran peso della clava e quello del suo stesso corpo, si mise a
incitare la dea sua figlia a portarsi più in alto che poteva quel nemico
temerario, in modo che si andasse a fracassare precipitando. Come poi lo vide
sempre più in alto, le urlava in continuazione di scuoterlo per farlo cadere.
Alla fine, quando si rese conto che Ercole era ormai arrivato in cielo, fino
alla reggia di Marte, e che vi si era fermato nel cortile, per la stanchezza o
perché aveva mollato la presa di proposito, cominciò a strapparsi i capelli dal
dolore, a graffiarsi il viso, a percuotersi il petto e a darsi del disgraziato
con gli strilli più acuti, dicendo: "È la fine per te, Momo, è la fine!
Non avevo abbastanza nemici tra i celesti, ci mancava pure questo, uno di
quelli che hanno messo in mano a un servo il pugnale per uccidermi, che ora è
assunto in cielo per responsabilità mia! Mi par già di vedere costui, che a
forza di adulare, leccare e vantarsi (tutte tecniche abituali per gli uomini)
in capo a tre giorni otterrà da un principe senza alcuna malizia come Giove di
occupare un posto di potere in mezzo ai capi degli dèi, proprio lui che quaggiù
è andato a servizio da una donnetta! Pazzo scatenato che sono, che cosa m'e
saltato in mente? Perché ho attirato su di me attacchi destinati ad altri?
Perché a rischio della testa, senza mezzi di difesa, esule, odiato, antipatico
come sono, mi sono andato a cercare altri avversari? Che me ne fregava? Non
potevo starmene zitto a guardare la lotta tra Ercole mortale e la mia figliola
immortale, Fama? Tu, Momo, proprio tu hai spalancato ai mortali la via al cielo
con la tua incapacità di controllare la rabbia, tu hai innalzato in cielo un
nemico! Un saggio, nella vita, non dovrebbe aver mai il voltastomaco. Si
dovrebbero ingoiare le offese degli uomini, ma per la nostra insofferenza va a
finire che bocconi che potrebbero passar lisci s'ingrossano fino a diventare un
gran tormento, proprio perché non li sappiamo mandar giù. Ora ragioni, Momo, ora
fai della filosofia a buon mercato. Ecco che i mortali arrivano in cielo, e tu
stai in esilio, Momo, te ne stai scacciato ed escluso in esilio. Che m'importa
di non essere mortale, se mi tocca piangere ogni giorno nuove disgrazie? O
morte, dolce requie ai travagli, data in dono ai mortali dagli dèi!… Ma che sto
dicendo? Sragiono al punto di non capire che felice sviluppo verrà alla mia
situazione da quello che credevo un guaio? È proprio vero quel che dicono,
quando si ha paura la gioia va a nascondersi. Non ti ricordi più, Momo, il
carattere degli uomini, quanto sono vanitosi, facce toste, temerari? Quanti ce
ne saranno di questi eroi, che non si sentano anch'essi degni del cielo? E
così, non pochi di tutti questi verranno appresso ad imitare Ercole, escogitando
sempre nuove insidie, con qualunque truffa, con qualunque raggiro, pensando che
tutto gli è permesso. Ammettiamo che anch'essi, magari due soli, siano accolti
nelle regioni dei celesti: oh, che uragani di discordie provocheranno! Mi
sembra di veder già le schiere celesti in preda all'eversione per le male arti
di questi spioni dalla calunnia facile. E anche qui tra i mortali, quante
stragi m'immagino, quante città sconvolte, quanti futuri massacri! Finché sono
infiammati gli uni contro gli altri nella smania di far come Ercole, finché
questi si riscaldano per la conquista della Fama e quelli, invidiosi, per
togliergli il posto, combatteranno a morte col ferro e col fuoco. Ora sì che mi
sta bene essere immortale, ora non ho di che prendermela per l'esilio, dato che
sto per vedere il mare pieno di cadaveri, le nazioni insanguinate, le stelle
offuscate dal fumo delle città in fiamme, e tutto per un'unica ragione!
Gioisci, Momo!".
Così pensò Momo e, tanto
per cominciare a gettare in mezzo agli uomini il seme di questi disastri,
prende l'aspetto di Ercole e va a raccontare per filo e per segno ai cittadini
autorevoli, che si erano riuniti a discutere problemi di grande importanza,
come era diventato un dio, dando anche molti consigli pratici, finché li convince
a fare come lui. Poi, appena li vede armati e pronti a passare all'azione, si
trasforma in vento e svanisce; chiede poi alla figlia di giocare al suo posto,
mostrandosi ora a questo ora a quell'altro dei signori. Intanto la dea Fortuna,
ritenendo utile impedire che qualcun altro la precedesse a occupare le orecchie
ancor libere di Giove parlando male di lei per quella storia di Ercole (sapeva
bene quanto sia importante dar forma alle prime impressioni nell'animo di
chiunque), si andò a presentare in gran fretta davanti a Giove, consigliandogli
di prendere dal lato migliore quell'arrivo imprevisto di Ercole. Infatti non
c'era argomento più brillante per mostrare ai mortali la maestà divina, perché
ne avessero venerazione e timore, che quello d'insegnargli che un giorno anche
loro potevano diventare dèi.
Nel frattempo la dea
Fama, lasciato perdere Ercole, si era diretta verso la vicina sede di Giove,
nella sua smania di curiosare. Gli dèi, atterriti dal suo aspetto tremendo e
minaccioso, si agitarono per tutto il cielo, e quelli che poco prima avevano
storto il naso per l'arrivo di Ercole, adesso pensavano non solo che era un
grosso vantaggio che fosse arrivato, ma che avrebbe dovuto esser richiamato da
laggiù se non ci fosse stato, anzi, sostenevano che era loro precipuo interesse
combattere con alla testa proprio lui contro certi mostri straordinari e così
spaventosi. Viene perciò consegnata ad Ercole la clava di ferro di Giove, opera
di Vulcano, per scacciare con essa la Fama mostruosa che andava curiosando per
tutti i recessi divini. Così armato Ercole muove allo scontro. Fama decise di
non starsene certo lì ad aspettare un avversario così ben armato e gagliardo, e
si lanciò a precipizio dalla sommità del cielo; nella sua caduta urlava con
strilli acuti: "Quelli come me, nati da esseri divini, respinti dal cielo
ancor prima che ci vedessero, sono cacciati senza colpa in basso, sulla terra
dei mortali; e i peggiori criminali fra i mortali si fregiano di armi divine, e
in cambio di tanti oltraggi ecco cosa ci tocca, che proprio chi ci ha colpito
sia ammesso nel numero degli dèi".
Dicendo così, Fama in
volo scopre i nuovi preparativi scellerati degli uomini; allora lascia perdere
tutto il resto, come fosse ubriaca, e vola con gran sbatter d'ali da sua madre
a raccontare a voce piena quello che aveva visto, strillando così:
"Scappate via di qua, dèe! Scappate, ché certi donnaioli smaniosi, pronti
a usare violenza, si avventano armati contro il tempio per impossessarsi con la
forza delle proprietà celesti!". Le dèe, sconvolte da queste parole, e
udite le grida degli armati furiosi, non certo avvezze a un simile trambusto,
non sanno dove sbatter la testa; così dentro c'è trepidazione, mentre fuori,
tutt'intorno alle porte del tempio, esplode la baraonda; perfino la dea Fama è
stordita dal baccano. Ecco gli uomini armati che, infrante le serrature, fanno
irruzione nel tempio, mentre gli dèi ragazzini in preda al terrore strillano in
grembo alla madre. La madre Virtù grida di non tirarla per il vestito, e li
invita a trasformarsi il più presto possibile in una cosa qualunque e a fuggire
con lei. Ma quelli, ottusi e lenti per natura, e per di più terrorizzati alla
vista degli uomini armati, restavano fermi. Allora la dea Virtù, indignata per
la sfrontatezza dei mortali e l'inettitudine dei figlioli, augurò con la più
solenne delle preghiere divine a quei buoni a nulla di non trovare più aperto
alcun ingresso al cielo, e che non fosse loro concesso di tramutarsi in più
d'una forma. Lanciate queste maledizioni, si trasformò in fulmine e volò via
sfolgorante. Lode, figlia di Virtù, fece cadere il mantello e si trasformò in
fumo sottile, lasciando accecati alcuni di quelli che cercavano di afferrarla.
Momo, alla vista di quel
tremendo delitto degli uomini, non poté fare a meno di gemere per la sorte di
quei tre dèi abbandonati nel tempio, commosso dall'analogia con le sue
disgrazie. Entra quindi in fretta e furia nel tempio, sempre sotto forma di
vento, e prega gli Dèi di trasformarsi in una cosa qualunque per conservare la libertà.
Quelli gli chiesero se era il caso di trasformarsi in uomini per strappare le
armi agli assalitori e menar strage del nemico; Momo rispose: "Eccome
desidero che muoiano di quello stesso pugnale con cui mi volevano aggredire! Ma
preferirei che diventaste qualsiasi cosa piuttosto che uomini, perché sulla
terra niente ha una vita più dura dell'uomo! Anzi, non vi consiglio d'assumere
l'aspetto di nessun essere animato, perché chi è entrato in un corpo mortale,
oltre a tutti gli altri danni dovrà subire il peggiore: gli toccherà portar da
sé il suo proprio carcere".
Così disse Momo. Trionfo
rispose però che non voleva vivere senza aver relazione alcuna con un corpo,
grazie al quale godere i piaceri. Così, trasformatosi in farfalla, volò via
sgusciando con le ali veloci dalle mani degli uomini che cercavano di
acchiapparlo ammirati. Trofeo invece, che era di grossa stazza, mutandosi in un
masso enorme schiacciò alcuni di quelli che gli avevano messo le mani addosso.
La giovane dea Posterità prese una decisione più consona alla sua dignità e
alla necessità del momento: si trasformò in quella dea che è stata chiamata
Eco. Gli uomini delusi per come era andata a finire, a forza di tirar di qua e
di là nella baruffa il mantello strappato a Lode lo fecero in mille pezzetti,
che si disputarono con accanimento.
Libro secondo
Gli sconvolgimenti
provocati dall'esilio di Momo tra gli uomini sono stati fin qui l'argomento
della nostra storia; ora è tempo di raccontare in che modo egli dalla sua
condizione di esule tornò nelle grazie di Giove, e che razza di idee originali
andò ad escogitare per creare casino, spingendo quasi all'ultima spiaggia
uomini e dèi e l'intera macchina dell'universo. Varrà proprio la pena di
leggere la varietà delle situazioni ambigue, l'originalità degli imprevisti, la
frequente successione di avvenimenti notevoli: tanto che io stesso non so se
sia più forte l'esitazione a proseguire il racconto per sfiducia nelle mie
capacità, di fronte a tanta elevatezza e abbondanza di argomenti, o la voglia di
scrivere attratto dal divertimento che la narrazione procura.
Si potrà dire che tutto
quel che si è letto fin qui su Momo non è nemmeno paragonabile a quel che verrà
dopo. Quando, dunque, le ragazze sospinte da Momo incominciarono a fare agli
dèi richieste futili, da quattro soldi, gli dèi si divertivano di quei voti
ridicoli, comportandosi come quei papà amorosi che, quando i bambini gli
chiedono balbettando le caramelle o che so io, gliele danno con un bel sorriso:
nella loro beata ingenuità, una pregava perché era grassottella, un'altra
perché troppo magra, un'altra faceva una diversa richiesta per la sua bellezza,
e gli dèi concedevano benevolmente cose così facili da ottenere, togliendo a
questa ragazza quel che davano a quell'altra. L'usanza poi prese piede, tanto
che, incontrando sempre la stessa disponibilità divina, anche padri di famiglia
e persone di una certa età cominciarono a chiedere grazie; in un primo momento
erano richieste ragionevoli, di quelle che si possono fare sulla pubblica piazza,
come si suol dire, con l'approvazione di amici e non: erano perciò esaudite ben
volentieri dagli dèi. Finì che poi anche re e Stati potentissimi presero
l'abitudine di chieder grazie agli dèi.
Sulle prime tutta questa
devozione degli uomini verso gli dèi fu così gradita ai celesti, pienamente
soddisfatti per la nuova scoperta, che non trovavano occupazione più piacevole
di quella di accogliere benevolmente i voti dei mortali. Si fece quindi
un'inchiesta e, quando si seppe chi aveva avuto un'idea così bella, tutti
tramutarono in misericordia e benevolenza il malanimo che avevano verso Momo.
Viene allora approvata per acclamazione unanime una legge di revoca dell'esilio
di Momo, piena di parole altisonanti, e due dèe, Pallade e Minerva, vengono
delegate ad andare a prendere Momo per restituirgli col massimo degli onori il
suo posto nella schiera celeste, in riconoscimento dei suoi altissimi meriti
verso la schiatta divina; vien loro affidato, racchiuso in una coppa preziosa,
il fuoco sacro degli dèi, per insignire della sua fiamma divina il copricapo
del reduce. Pallade era riluttante ad andare tra gli uomini, perché aveva
sentito dire che erano armati e coraggiosi: ma alla fine, convinta dall'ordine
espresso di Giove e dall'incoraggiamento degli amici, prese la corazza e le
armi e si decise a ubbidire. Su nel cielo la legge era stata appena approvata,
quand'ecco che Fama accorre tutta ansiosa da Momo, facendo strider le ali e,
poiché è sua caratteristica mescolare vero e falso e ingigantire con le parole
ogni minima cosa, va a raccontare a suo padre che tra gli dèi c'è una gran
baraonda, si preparano grossi movimenti e già alcuni dèi armati cominciano a
venir giù dal cielo. Al sentir quella notizia Momo crolla, terribilmente
agitato dalla consapevolezza dei suoi crimini. Lo tormentava il ricordo di aver
usato violenza contro ambasciatori del re ottimo e massimo degli dèi immortali;
pensava che tutto quanto il cielo ce l'avesse a morte con lui per quel delitto
esecrando, e non si sentiva in grado di sostenere l'impeto di tanta animosità;
si mette perciò a supplicare la figlia di ostacolare gli dèi in arrivo e
tenerli a bada finché può, per dargli il tempo di decidere qualcosa e di
nascondersi, caso mai fosse possibile cavarsela sparendo dalla circolazione.
Fama vola a ubbidire al padre. È difficile dire quanti e quali turbamenti
assalirono allora Momo. Si sentiva disposto a molte soluzioni, ma nessuna gli
stava bene; le cercava tutte, senza escluderne nessuna, purché la immaginasse
appena appena utile alla sua salvezza; d'altra parte non si sentiva sicuro di
niente e in nessun posto, decideva una cosa e subito dopo se ne pentiva; non
c'era figura in cui non desiderasse trasformarsi.
Il ritorno di Fama
rinfrancò Momo da tanta angoscia; essa disse infatti: "Ti annuncio che
avrai il pieno favore degli dèi, Momo! e, roba che non t'aspetti, offrono pace
e indulgenza e vengono a portarti in dono la sacra fiammella divina".
Sentita la notizia, ripensando alla sua vecchia ostilità con la dea Frode
temeva che gli si stesse tendendo un tranello per farlo fuori; comunque, poiché
non aveva un posto dove nascondersi (non poteva nemmeno farlo, dato che gli dèi
del cielo vedono tutto), e poi perché non ne poteva più neanche di se stesso,
aveva fretta di buttarsi incontro a qualunque cosa gli si parasse davanti.
Decise perciò di prendere l'iniziativa e di nascondere del tutto con abile
dissimulazione l'abbattimento del suo animo e i suoi veri sentimenti, avanzando
a testa alta e con un'aria distesa. Andò allora incontro alle delegate e, dopo
uno scambio di convenevoli, le loro parole e la loro espressione lo resero
proprio convinto che lo si richiamava, al di là di ogni speranza, dalla sua
difficile situazione al godimento celeste, e veniva riammesso al suo antico
livello di dignità dopo le lunghe tenebre della disgrazia. Fuori di sé per la
gioia improvvisa, non trovava parole adatte a esprimere il suo piacere ma,
quasi in delirio per la contentezza, cominciava a dire un sacco di cose
avventate senza star tanto a rifletterci, e nel mezzo gliene scappò una grossa:
"È così che, Momo, come si dice sulla terra, tutti dall'esilio arrivano al
potere?".
A queste parole di Momo
Pallade ‑ le donne, si sa, son sempre disposte a pensar male e a
intendere nel senso peggiore, sempre pronte a far danno ‑ fece delle
considerazioni ben più profonde di quanto non lasciasse trapelare alcun segno
esteriore. Riflettendo in silenzio nel profondo del cuore sull'indole disonesta
di Momo, pensava che non era affatto conveniente agli interessi di Giove e dei
celesti dare ampia facoltà di gestire affari della massima importanza a uno
sciagurato come quello, memore senza dubbio dell'antica offesa e dispostissimo
a ogni sorta di audacia, nella sua inveterata abitudine al male. I ragionamenti
che faceva la spinsero infine a porsi questo problema: "Noi dèi abbiamo
resistito a stento a questo progenitore di mostri finché era indebolito
dall'esilio e abbattuto dalle disgrazie. E ora ce la faremo a resistergli senza
correre rischi, ora che è nel pieno dei suoi poteri, rafforzato dalle
concessioni dei celesti? C'è una bella differenza tra tener sotto controllo la
furia di Momo facendogli balenare la prospettiva del premio divino, e provocare
l'occasione per sovreccitare ancor più un tipo sempre pronto al delitto! Chi,
dopo aver subito ingiustizie, l'esilio per giunta, chi vuoi che non desideri
che gli si offra l'occasione per rivalersi? E chi è che, desideroso di
rivalersi, non metterebbe mano a qualunque cosa, quando gliene abbiano messo di
fronte la speranza e la possibilità?".
Spinta da queste
riflessioni, Pallade, per definire più agevolmente la questione insieme alla
collega, ordina a Momo di andarsi a preparare al fonte d'Elicona, per togliersi
di dosso tutta quella sporcizia e far ritorno in aspetto più dignitoso a rendere
omaggio al re degli dèi. Mandato via Momo, le dèe discussero un pezzo tra loro
e conclusero che era competenza di Giove stabilire quanto convenisse alla
comunità divina che Momo tenesse un posto di prestigio fra i celesti, dotato
della sacra fiammella, senza aver prima indagato a fondo per sapere cosa
passava per la testa a quello stravagante incontrollabile.
Mentre è solo che si
lava, Momo pensa così tra sé: "Una volta a buon diritto stavo sulle
scatole a tutti per quel personaggio tosto e tristo che m'ero scelto, con
quell'andatura impettita, l'aspetto truculento e spaventoso, vestito come un
selvaggio, con la barba e i capelli ispidi e incolti; con quell'aria da
fanatico fin troppo accigliato, chiuso in un silenzio ostinato o sempre pronto
a punzecchiare e far battute pesanti, facevo paura proprio a tutti quanti. Ma
ora mi pare giunto il momento di entrare in un altro personaggio, più
confacente alla mia nuova condizione. Quale personaggio, Momo? Senz'altro uno
che si mostra simpatico, mite e cordiale. Sarà bene che impari ad essere alla
mano con tutti e accondiscendente, a ricevere di buon umore le persone,
intrattenerle amabilmente, farle andar via contente, E tu, Momo, potrai far
cose che contrastano a fondo con la tua natura? Certo che potrò, se voglio. E
com'è possibile che lo voglia? Perché no? Attratto dalla speranza, spinto dalla
forza delle cose e dai vantaggi che si prospettano, potrò ben modellare me
stesso e adattarmi a quel che sarà utile. Vai avanti, Momo: otterrai da te
stesso tutto quel che vuoi, e sarai capace di realizzare nel modo più brillante
tutto ciò che non ti sarai precluso da solo. E poi? Perderemo per questo
l'abitudine innata e inveterata di colpire? Neanche per sogno; però la terremo
sotto controllo con un comportamento discreto, e conserveremo l'antica
animosità contro gli avversari con un nuovo sistema per colpire di sorpresa.
Penso, insomma, che gli uomini d'affari e chi ha un'intensa vita di relazione
debbano comportarsi in questo modo: non dimenticare mai nel profondo del cuore
le offese ricevute, senza lasciar trapelare il rancore in nessun caso, e
adattarsi scrupolosamente alle circostanze, simulando e dissimulando; e, nel
far tutto questo, non distrarsi un attimo, star sempre alle vedette, pronti ad
afferrare i sentimenti di ciascuno, le sue ambizioni, i suoi pensieri, le
intenzioni che ha, cosa si sta mettendo a fare, con chi è intrallazzato, di
cosa ha bisogno, chi sono i suoi amici e i suoi nemici, quali sono le sue
opinioni, le sue preferenze, le probabilità di successo negli affari e la linea
di condotta che porta avanti. Dall'altra parte, devono saper nascondere le
proprie ambizioni e i desideri con l'abile arte di fingere; sempre vigili,
sempre all'erta, siano sempre pronti a non lasciarsi scappar l'occasione di farsi
valere, quando gli si offre; devono aver sempre il pieno controllo di se stessi
e non aver mai pietà per gli avversari, se non quando si vuol colpire più
forte, alla stregua d'arieti, che prendono la rincorsa da lontano per caricare
con più violenza; infierire sul nemico con le azioni più che con le parole, coi
fatti più che con manifestazioni di aperta ostilità; tener ben coperta
l'animosità interiore sotto un'apparenza amichevole e melliflua; pensare che i
discorsi di ognuno possono essere tutti indistintamente pieni d'insidie; non
credere a nessuno, ma far vista di credere a tutti; non aver riguardi per
nessuno, ma abituarsi ad approvare e adulare chiunque in pubblico. Chi si
mostrerà carrozzato in questo modo avrà fama di persona a posto, sarà apprezzato
dagli intellettuali, tutti lo rispetteranno e cercheranno di compiacerlo,
soprattutto quando si accorgeranno che conosce a puntino tutti i fatti loro,
come se li avesse schedati; al contrario, se uno si lascia un po' andare, se
lascia fare ai petulanti, se sopporta i rompiscatole, va a finire che se ne
approfittano e diventano ogni giorno più sfacciati grazie alla sua pazienza, e
che magari certi ubriaconi arroganti si sentiranno in qualche modo autorizzati
a tormentarlo. C'è altro da aggiungere? In definitiva, una sola è la cosa che
serve ricordare sempre e comunque: colorare bene e abilmente tutto quanto con
le tinte fittizie dell'onestà e dell'incapacità di far male; conseguiremo
brillantemente l'obiettivo se ci abitueremo a modellare perfettamente le parole,
il viso e tutto quanto l'aspetto esteriore in modo da sembrare molto simili a
quelli che sono ritenuti buoni e inoffensivi, per quanto siamo profondamente
diversi da loro. Che ottima cosa saper celare e avvolgere nella nebbia i propri
sentimenti con l'esperienza nell'arte colorita e ingannevole della simulazione!
Così Momo. Intanto
Pallade e Minerva avevano deciso di lasciare alla libera scelta di Giove la
decisione se si dovesse concedere o meno il sacro distintivo divino a un tipo
ribelle e facinoroso come Momo. Per il momento, comunque, si mettono a parlare
con l'esule con la massima amabilità, lo rinsaldano nelle sue speranze e gli
consigliano di accettare l'insegna divina dalle mani del sommo re degli dèi
piuttosto che da quelle di suoi delegati. Momo non si sottrae ad alcuna
condizione pur di sfuggire ai terrestri, ed entra all'istante nel ruolo che si
era imposto recitando brillantemente e con diligenza la sua parte con le
ambasciatrici: simulando così ingenuità e bontà d'animo, si mette a piangere, e
dichiara a capo chino di saper bene che valore abbia essere reintegrato
nell'onore per mano del re degli dèi ottimo e massimo; ammette di sentirsi
indegno di un premio così grande, comunque ce l'avrebbe messa tutta per
dimostrare a Giove e agli altri dèi che lui non era affatto immemore e ingrato
del beneficio ricevuto; pensava proprio di farcela, dal momento che aveva
fermamente deciso di andare molto al di là delle aspettative delle persone
buone con il suo comportamento retto, e sperava di sventare tutti i tentativi
d'attacco degli invidiosi e dei suoi avversari con la pazienza e con tutte
quelle buone qualità che inducono a sentimenti amichevoli e benigni;
addomesticato dalla lunga disgrazia, prostrato dalle sventure, egli aveva
imparato a sopportare le avversità e a rimanere calmo e rassegnato se qualche
contrarietà veniva a intralciare i suoi progetti e i suoi desideri: ecco perché
era diventato capace, senza più doverselo imporre, di non raccogliere le
provocazioni e di dimenticare del tutto le offese ricevute; la sua massima
aspirazione, insomma, era che gli venisse concessa l'opportunità di obbedire
ossequiosamente ai buoni consigli di persone migliori di lui.
Dopo questa copiosa ed
elegante dissertazione Momo, ormai vecchia puttana, aggiunse sospirando col
volto compunto: "Ma che stiamo facendo? Andatevene, dèe, degne del cielo,
tornate alla vostra beatitudine e lasciate questo sventurato, infelicissimo
esule nell'abiezione e nello squallore; lasciatemi vivere nel dolore e nella
solitudine e sopportare la sventura che mi opprime e mi distrugge, perché è
così grande che non si può aggiungere nient'altro alla mia infelicità". Le
dèe allora, mosse a pietà, lo consolarono a lungo; poi si misero Momo nel mezzo
e se lo portarono in cielo. Quando Momo giunse al cospetto di Giove,
continuando a far la parte del lecchino, abbracciò le ginocchia del re e chiese
perdono e clemenza con parole ben misurate, ma non fu accolto da Giove con la
benevolenza che avrebbe desiderato. Il fatto è che Giove era gonfio di rabbia
nei confronti di Febo, quindi era preso dal problema di rimproverare Febo più
che da quello di ricevere gli omaggi di Momo. Ma il povero Momo, all'oscuro del
fatto, si abbatté completamente, pensando che si mettesse male fin dall'inizio;
non sapendo a che santo votarsi, credeva di essere stato trascinato come un
imputato davanti alla corte il giorno del processo, e cominciava a prepararsi
la difesa per salvare la pelle, cercando il genere di discorso con cui
scrollarsi di dosso la colpa per i suoi crimini, e ad abbozzare dentro di sé
gli argomenti pietosi e strappalacrime coi quali rabbonire Giove. In questo
frattempo torna Mercurio, che era stato mandato da Giove a indagare, e
riferisce che Febo si sarebbe presentato in persona di lì a poco: non era come
volevano insinuare le calunnie dei suoi nemici, che si fosse fatto trattenere
dalle grazie di Aurora, né che non avesse voluto fare il suo dovere per
superbia, ma gli era piombata addosso una massa enorme di voti, e questo gli
aveva impedito di salire secondo la tradizione al castello reale di Giove per
porgere i dovuti omaggi al re, come fanno gli dèi tutti i giorni. Allora Giove
si rasserenò; poi disse, rivolto a Momo: "Questi tuoi voti, Momo, ci
sommergeranno, se non ci si dà una regolata!"; poi rimase zitto per un
po'. Questa frase di Giove fece subito sorgere nella mente di Momo l'ipotesi di
aver provocato un certo scompiglio coi suoi voti, e ciò fece tanto piacere a
quel tipo così smanioso di novità che non poté fare a meno di dimenticare la sua
tristezza e manifestare la gioia che gli nasceva dentro. Si agitava tutto per
lo splendido esito tanto desiderato delle sue trame, e diceva tra sé: "Mi
vada pure a finir male, basta che abbia combinato qualche danno quassù, come mi
sembra!".
Giove, intanto, si
rivolse a Minerva e a Pallade: "Perché non avete riportato assieme a voi
anche Virtù? Che fine ha fatto? Cosa sta combinando?". Le dèe allora
risposero che esse, secondo la prassi istituzionale delle delegazioni, nel
corso della loro missione avevano badato solo ed esclusivamente al loro
specifico incarico, e che avevano avuto anche troppo da fare andando in cerca
del solo Momo, perché questi se ne stava nascosto in luoghi solitari e
desolati, come fanno i poveracci caduti in disgrazia. Allora Giove passò a
domandare a Momo se avesse visto Virtù sulla terra. A questo punto Momo, preso
dal dubbio atroce che quella domanda alludesse alla porcheria che aveva
combinato, sbiancò in viso e ammutolì; ma si riprese subito e, con l'aria
distesa di uno sicuro del fatto suo, disse sorridendo: "Non sai di già,
eccellentissimo principe degli dèi, quel che succede ogni giorno sulla
terra?". E Giove: "Lascia perdere quello che so io, rispondi alla
domanda!". Allora Momo riprese a tentennare e a spaventarsi, non sapendo
di preciso a che mirassero quelle parole, ma, sollecitato ancora una volta da
Giove a rispondere, ripreso il controllo di sé, tornò all'arte della
dissimulazione, che aveva cominciato così brillantemente a esercitare, e disse:
"Mercurio, che è il più sveglio di tutti, se lo conosco bene, sa di certo
dove si trova quella lì, lui che a buon diritto è innamorato fedele di Virtù,
la più bella fra le dèe; e tu, Mercurio, quanto tempo lascerai che il tuo dolce
amore ti manchi?". Allora Mercurio si mise a ridere e assicurò che lui,
Giove e tutti gli altri dèi erano stati così presi da quell'unico problema dei
voti che non gli era stato possibile badare a nient'altro, occupatissimi
com'erano; pensava che aveva fatto benissimo la dea a tenersi lontano dalla
seccatura di tante pratiche da sbrigare. Quel discorso rinfrancò ancora una
volta Momo, che fu preso di nuovo da una gioia incredibile; poi, vedendo che la
dea Virtù non era lì in mezzo a Giove e agli dèi, da quel gran figlio di
puttana che era diventato si dispone totalmente alla finzione, con abile scelta
del tono della voce, dell'espressione e dei gesti, e rifà il racconto delle sue
peripezie che abbiamo seguito in precedenza, ma in maniera tale che, mentre
tirava fuori le porcherie degli uomini, si sarebbe detto che volesse
soprattutto difendere la loro causa e strappare il perdono per i loro errori.
Comincia a raccontare prendendola molto alla lontana, poi, come se non l'avesse
fatto apposta, ma sospinto dal filo stesso della narrazione, racconta in che
modo alcuni signori avessero fatto irruzione nel tempio, gli dèi ragazzini
terrorizzati dalla baraonda fossero rimasti indietro rispetto alla madre e si
fossero salvati dalla temeraria insolenza di quella masnada di criminali
mutandosi in varie forme. Aggiunge proprio a questo punto che anche lui aveva
subito pesantissimi oltraggi, ed era riuscito a fuggire dopo aver perduto mezza
barba. E così, proprio con questa maniera di raccontare, non trascurò nessun
particolare che potesse servire a suscitare odio contro gli uomini, e ci mise
tutta la sua forza di persuasione oratoria perché gli dèi si convincessero che
quella era stata un'autentica infamia. A sentire il racconto di Momo, Giove e
gli altri dèi lì presenti si erano naturalmente commossi, soprattutto per l'indegna
disgrazia toccata alla dea Virtù; d'altra parte, non potevano trattenersi dallo
sghignazzare apprendendo le ridicole disavventure di Momo. Quando li vide cotti
a puntino, Momo esclamò: "Starà a voi giudicare quanto sia grande il mio
buon senso a proposito di ciò che sto per dire: dal canto mio, posso garantire
che è la scrupolosità della mia coscienza che mi spinge a fare questo discorso.
Vedo bene, o Giove fondatore del mondo, che hai sistemato proprio al posto
giusto, nella maniera più brillante, tutto quanto può servire alla bellezza e
all'ornamento del tuo regno, ma forse, per quel che m'è lecito osservare, una
cosa ti manca: non hai nessuno che ti informi delle cose che succedono tra i
mortali, e quella gente, credi a me, non va affatto sottovalutata".
Quand'ebbe detto queste parole, Giove, un po' soprappensiero, fece un cenno
d'assenso e affermò che avrebbe voluto provvedere a quest'unica carenza, ma
purtroppo nella schiera così numerosa dei suoi non c'era nessuno, secondo lui,
abbastanza ben disposto e capace a cui affidare la missione. "Ma sì che
c'è" intervenne Momo "qualcuno a cui affidare con tutte le garanzie
di sicurezza questo incarico, e non ne troveresti un altro più abile e adatto!
C'è mia figlia Fama, la più sveglia di tutti, e, cosa che fa proprio al caso,
velocissima a piedi e in volo come nient'altro; e poi lei è così affezionata a
me, mi rispetta tanto che ti posso garantire una cosa, in cambio del beneficio
che mi fai: lei porterà a termine rapidamente e con la massima fedeltà e precisione
tutto quel che tu le ordinerai, soprattutto se è cosa che riguarda me".
Giove ringraziò Momo per il suggerimento e l'impegno assunto. E allora Momo
disse: "Devo chiederti una grazia, Giove clementissimo, se si deve ritener
grazia e non piuttosto obbligo una cosa del genere verso un supplice sventurato
come me: caso mai venga fuori che lei è il frutto di qualche mia colpa amorosa,
metti sull'altro piatto della bilancia i dolori che ho passato quando mi hanno
strappato la barba!". Scoppiarono a ridere e, appresa tutta la storia, si
mostrarono indulgenti.
L'arrivo di Giunone su
tutte le furie interruppe queste risate; infatti, mentre si facevano quei
discorsi al cospetto di Giove, Pallade e Minerva si erano allontanate dalla
compagnia ed erano andate a ossequiare Giunone; memori del fatto che Giunone ce
l'aveva con Momo e degli insulti che lui le aveva lanciato in passato,
spiegarono alla dea per quale ragione non avevano più restituito a Momo il
fuoco sacro che tenevano nella coppa preziosa. Giunone lodò il loro operato,
poi si precipitò da Giove a testa alta, senza poter trattenere la rabbia, con
gli occhi torvi, e disse che gli voleva parlare subito di una cosa molto
importante, perciò fece allontanare i presenti e cominciò: "Per quale
ragione, dico io, marito, ti vedo diventare ogni giorno più superficiale anche
nelle faccende più serie? Ti sei scocciato di esser Giove, ti vergogni di esser
ritenuto un re e di poter fare tutto quel che ti pare, visto che ti sei tirato
addosso uno bell'e pronto a contenderti il potere? Cosa diavolo ti ha spinto ad
apprezzare quel farabutto intrigante, che ha provocato una cosa che ti ripugna?
Onorerai i nemici, perfino i più abietti, e permetterai che i tuoi cari siano
trattati peggio di tutti, per quanto te ne frega? Ordini che si portino in
cielo, anche senza che lo vogliano, banditi esiliati, gente che ne ha combinate
di tutti i colori contro gli dèi, e respingi me, la tua Giunone, e le mie
preghiere! Tu hai regalato a chi ti pareva palazzi d'oro, porte, tetti, scalinate
d'oro, colonne d'oro, architravi d'oro, pareti affrescate e adorne d'oro e
diamanti, mettendo completamente da parte tua moglie. Quelli là abitano i più
splendidi palazzi; e chi sono, poi? Mercurio, il buffone degli dèi,
quell'ubriacone di Marte e quella gran puttana di Venere. Ah Giunone infelice,
Giunone che tu neanche vedi! O me sventurata, sono esclusa dalla beneficenza di
mio marito! E casa mia per giunta, quella casa dove abitavo respinta, abbellita
solo della sua immacolata purezza, tu, marito carissimo, l'hai riempita di
quella schifezza di voti disgustosi: son proprio degna della mia perenne
fedeltà e costanza verso di te, se mi scarichi addosso questa spazzatura! Ma
sia pure permesso al re degli dèi ornare chi gli pare, e gli piaccia accogliere
presso di sé il pericolo pubblico, questo Momo nefasto e scellerato, e metterlo
a arte del potere, dimenticando se stesso e i suoi cari; permetta pure che le
stanze di sua moglie siano insozzate da uno scolo di voti, al punto che perfino
i cavalli di Febo si rifiutano di entrarci, schifati dalla puzza! A me però non
va più di stare a lamentarmi a vuoto delle pesanti offese ricevute davanti a
uno che si ostina a fregarsene; ti ho rotto le scatole abbastanza, Giove, ne ho
abbastanza di frustrazioni. A che serve chiedere in eterno quel che viene
sempre negato, a meno che uno abbia la smania di aggiungere continuamente
qualche altra angoscia all'antico dolore? Non pregherò più, non continuerò di
certo a dare un peso a me stessa col troppo pregare, diventando così per te
oggetto di spasso, visto che non consideri niente la mia situazione impossibile
e dici di no a tutte le mie preghiere. Tu continua ancora a dir di no e a
fregartene di quello che sarebbe tuo dovere concedere spontaneamente. Ma forza,
rispondi se ne hai la faccia: visto che hai fatto tanto per i comodi degli
altri, anche quelli d'infimo rango, non sarebbe stato opportuno provvedere
anche al fatto che non era giusto che tua moglie avesse una casa più indecente
rispetto a tutta la massa del popolino celeste? Quanto costava a Giove ottimo
massimo elargire a sua moglie che lo pregava in lacrime quello che hai concesso
di tua iniziativa perfino ai più miserabili? E se avessi avuto pretese più
alte? Infatti non ti chiedevo nulla di più che di permettermi di usare le sole
offerte d'oro dei mortali per abbellire il mio palazzo; non riuscirò mai a
ottenere una cosa come questa, io che sono tua moglie, per quanto ti preghi e
ti supplichi da tanto tempo? Marito mio, sarai sempre cattivo con Giunone? E se
nel mio interesse non riesco a piegarti in mio favore, almeno, marito mio,
permettimi di darti un consiglio nell'interesse tuo: guarda attentamente chi
accogli, a chi dai credito, a chi affidi te stesso, le sorti e l'autorità del
tuo potere: per poco che avrai conosciuto questo Momo, ripenserai tante volte a
quel che ti ho detto".
Così disse Giunone, poi,
dopo essersi asciugata con un velo delicato un paio di lacrimucce, manifestò a
Giove i suoi timori sui sentimenti di Momo verso di lui, e impiegò tutta l'arte
oratoria di cui era capace per insinuargli dentro i pungenti aculei del
sospetto; subito dopo riportò il discorso sulla richiesta delle offerte. E
Giove le rispose: "Dovrei dire anch'io per quale ragione, moglie, non mi
capita mai di non vederti arrabbiata! Mi dispiace per te e le tue
preoccupazioni, che, per quanto molto lievi, vedo che sono più che sufficienti
a metterti in agitazione. Che diavolo fai, Giunone? Andrai sempre in cerca di
nuovi pretesti per tormentarmi? Di che cosa mi dovrei giustificare? Hai detto
che vuoi avere le offerte d'oro per fabbricare. Non ti basta questo nostro
palazzo dove vivi nel massimo splendore, che vuoi costruirtene di nuovi? Ma
prenditela vinta, moglie, prenditi pure le offerte d'oro, prendi da questo
ostinato strafottente quel che comandi! Tu però non continuare a impormi questa
tua regola di mandare sempre all'aria quel che io vorrei fosse fatto. Metti via
queste diffidenze ‑ preferisco chiamarle così, anziché gelosie ‑ e
d'ora in poi aspettati qualcosa di più da Giove! Io, infatti, non mi sono
dimenticato d'esser Giove al punto di non riflettere sul da farsi prima di
metterlo in atto, e anzi sto a considerare che cosa mi conviene in modo da non
dovermi mai pentire di una mia decisione. Sono i superficiali e gli irriflessivi,
piuttosto, che si lasciano distogliere dai loro propositi a ogni leggero
sospetto (e di sospetti è piena ogni cosa). Questo non vuol dire, tuttavia, che
io non sia disposto ad accettare i tuoi consigli, ma non ne posso proprio più
di dover essere assillato in qualunque modo da ambigue delazioni. E tu,
Giunone, non guardar storto Giove quando ti dà buoni consigli; una cosa vorrei
ottenere da te, e te l'ho chiesta in eterno senza risultati: prima impara a
ubbidire, Giunone, poi esamina pure e critica le decisioni e gli atti di chi
comanda. Nel frattempo, Giunone, moglie mia, ottieni pure quel che desideri,
Giove lo vuole, Giove te lo dà".
Così disse Giove, e volle
sembrare più infervorato nella questione di quanto non fosse, sia per
respingere la veemenza della moglie sia per esprimere meglio la sua ira contro
Pallade per non avere eseguito il suo ordine durante la missione; anzi, alzò
tanto la voce a questo proposito da farsi sentire bene dalla cerchia degli dèi
che stavano a una certa distanza. Mandata via Giunone, se ne stava in silenzio
rimuginando tra sé sul conto della moglie; tutti gli altri dèi erano
ammutoliti, sbigottiti per il malumore del re. Ma il caso volle che Giove e con
lui tutti gli dèi fossero mossi al riso dal modo di fare inatteso di Momo.
Mentre Giunone aveva con Giove il battibecco che abbiamo visto, Momo aveva
domandato a Mercurio com'era possibile che i voti avessero impedito a Febo di
andare a rendere omaggio a Giove. Mercurio gli aveva risposto così:
"C'erano tanti motivi per non prendere in considerazione i voti degli
uomini, in particolare il fatto che erano pieni di sciocchezze: e infatti non
li si prendeva in considerazione. Proprio per questo Giove e tutti gli altri
dèi avevano deciso di farne piazza pulita, eliminandoli dalle nostre dimore
celesti. Per non dir altro, tra i voti ce n'erano di quelli di gente che voleva
messo a posto il naso storto, gli occhi gonfi, un ascesso, e anzi si era
arrivati al punto veramente insopportabile che avevano il coraggio di far voto
agli dèi perché avevano smarrito un ago o un fuso. Ma questo non era ancora
niente; la cosa peggiore è che avevano riempito tutte le corti del cielo di
quelle porcherie puzzolenti e nauseabonde di cui la maggior parte dei voti era
infarcita: odio, paura, rabbia, dolore, tutto il marciume e la corruzione che
si attaccano in fondo al cuore umano. I celesti erano disgustati e inorriditi
soprattutto dal fatto che saltavano fuori perfino voti fatti per ottenere la
morte violenta di genitori, fratelli, figli e soprattutto mariti. Devo dirti la
più odiosa? Avevano anche il coraggio di far voti per chiedere la distruzione e
lo sterminio d'intere città e nazioni! Si dibatté a lungo, divisi in due
schieramenti, se tutte quante le offerte votive dovessero essere respinte e
mandate via dal cielo; alla fine prevalse il parere di chi suggeriva di
trattenere le offerte d'oro. Il guaio è che a questo punto, anche dopo il
rifiuto delle offerte, i mortali, ormai abituati a fare un sacco di richieste
coi voti, non la finiscono più di ammassare voti su voti, per quanto non
vengano esauditi, quindi con quell'ammasso incredibile di voti ingolfano
l'atmosfera, viene ostruito il passaggio a Febo, il cortile di Giunone ne è
interamente cosparso, perfino gli dèi stessi son pronti a scendere in lotta a
causa dei voti. Perciò tu, Momo, con questa tua trovata, dai del filo da
torcere a tutto il cielo e a tutti i celesti!".
A sentir questo discorso
di Mercurio Momo nella sua gioia non poté trattenere una fragorosa risata, che
fece voltare tutti verso di lui. Quando gli chiesero cosa diavolo ci trovasse
da ridere, recuperò subito, da vero camaleonte, e disse: "Rido di cuore,
Mercurio, perché dicevi che i mortali vi chiedevano coi loro voti di
rimettergli in sesto quelle facce brutte e mal lavorate. Bisognerebbe allora
che tutti voi dèi foste mastri artigiani per queste ragazze, se per aggiustarne
una sola come vorrebbe lei non c'è abilità artistica che basti! Guarda che bei
musi si portano da casa!". Allora Giove scoppiò a ridere, divertito più
che dalle battute di Momo dal suo modo di muoversi come un buffone (ce l'aveva
proprio messa tutta a rendersi ridicolo); poi invitò a cena gli dèi lì
presenti, Momo in particolare, avendo voglia di ridere ancora. Riderai di Giove
e di Momo, lettore, e resterai ammirato: non è facile dire, infatti, quanto sia
stato bravo Momo in quella cena a fare il buffone tra una portata e l'altra
nella sorpresa generale, raccontando un sacco di guai che gli erano capitati
durante il suo esilio, divertenti e istruttivi. Raccontò anche di aver voluto
provare tutti i sistemi di vita degli uomini e le loro professioni, per
adagiarsi tranquillo in quello più comodo, quando l'avesse scoperto; si era
applicato in ciascuno di essi per riuscire a diventarne un esperto, unendo una
scrupolosa preparazione all'esperienza e alla pratica, però non ne aveva
imparato nessuno in modo tale da sembrare abbastanza ferrato ai suoi stessi
occhi, anzi aveva scoperto che è tipico di ogni disciplina che più cose utili
s'imparano in teoria e nella pratica, più ci si accorge che ne restano da
imparare. Era arrivato alla conclusione che tutte quelle maniere di vivere che
godono altissima reputazione tra gli uomini sono molto meno utili e meno adatte
al bene e beato vivere di quanto pretendano i consueti ragionamenti dei saggi;
per cominciare dalle più importanti e conclamate, gli era parsa molto
conveniente in un primo momento la carriera militare, soprattutto perché è per
mezzo di essa che le classi dirigenti si formano, conquistano posizioni di
potere, conseguono il premio della fama tra i posteri. Oltretutto, il pensiero
di essere immune da pericoli grazie alla sua immortalità lo spingeva a vedere
nella vita militare la strada più adatta a lui: era stato perciò un soldato,
aveva dato prova di valore, era arrivato infine a comandare un esercito, aveva
schierato truppe, diretto le manovre navali, aveva visto le iscrizioni
trionfali delle sue numerose vittorie ricevere spesso il plauso e i
festeggiamenti dei cittadini; ben presto però aveva detestato la vita del campo,
gli stendardi, le armi, le trombe, tutto lo strepito fragoroso dei guerrieri: e
questo non per sazietà, per una forma di nausea dei ripetuti successi, ma per
un motivo giusto e retto, da vera persona sensata: infatti in tutto ciò che è
collegato con la vita militare non riusciva a trovar niente che avesse l'aria
dell'equilibrio, che non fosse l'esatto contrario della giustizia; in tutta
quella moltitudine di uomini armati non vedeva il minimo senso di umanità e
pietà, tutto era trascinato alla convenienza personale, alla considerazione
ambiziosa del proprio momentaneo vantaggio, passando per ogni sorta di violenza
ed empietà; i premi non erano sicuro appannaggio dei valorosi, ma dipendevano
tutti dalle opinioni di una massa incompetente; le azioni e i piani erano
giudicati in base al successo, e le ricompense non venivano attribuite al
valore, ma all'audacia temeraria. Per non parlare dei pericoli e delle fatiche
che bisognava affrontare, al sole in mezzo alla polvere, di notte sotto la
pioggia a cielo scoperto; e poi c'era da farsela in mezzo a gente disposta a
rimetterci il sangue e la vita, avida del sangue altrui, corrotta, senza
religione, di una crudeltà spaventosa; in fondo alla canaglia degli sciagurati,
dei criminali banditi dalla patria per i delitti commessi; in mezzo alla
rovina, al fragore, al fumo e alla cenere dei templi che crollano! Momo,
insomma, assicurava che in tutta la vita militare non aveva trovato niente che
gli piacesse almeno un po', a parte il fatto che qualche volta manipoli e
battaglioni in preda a esaltato furore si lanciavano a passo di carica verso lo
scontro armato: era davvero uno spettacolo vedere quella mostruosa,
pestilenziale concentrazione di esseri umani in corsa verso la morte, nello
strazio di sé e dei loro simili, farsi a pezzi con le proprie mani! Momo aveva
poi desiderato anche diventare re, in quanto giudicava il potere regio il più
vicino alla maestà divina, e aveva dato un grande valore, una volta, al fatto
di essere temuto e rispettato da una folla sempre a sua disposizione, pronta ad
ossequiarlo e a pendere dalle sue labbra, e così pure di vivere in splendidi
palazzi, incedere in mezzo agli onori, dare feste e banchetti sontuosi.
All'inizio temeva che gli sarebbe stato molto difficile raggiungere quella meta,
poiché vedeva che molti si erano battuti invano per conquistarla, a prezzo di
enormi fatiche e a rischio della vita, ma ben pochi c'erano riusciti; poi però
aveva osservato che erano aperte due vie al principato, brevi e niente affatto
difficili: una, basata su lotte di parte e cospirazioni, si percorre a forza di
saccheggi, vessazioni, distruzioni, abbattendo qualsiasi ostacolo si frapponga
al proprio cammino; l'altra via al potere, invece, procede in linea retta da
una preparazione ad alto livello, dall'osservanza dei buoni costumi e
dall'ornamento delle virtù; essa richiede la capacità di diventare, e mostrarsi
a tutti, una persona ritenuta degna di rispetto e devozione, la sola a cui
rivolgersi nei momenti difficili, alle cui decisioni e al cui parere tutti si
abituino a dare il massimo rilievo. Sulla terra, infatti, non c'è animale più
riluttante alla sottomissione dell'uomo; eppure non se ne può immaginare uno
più incline dell'uomo stesso alla mansuetudine e all'arrendevolezza. Momo
sapeva però che esercitare il potere non è certo da tutti: se gli animali privi
di senno e le fiere selvagge sono retti da un istinto naturale che li tiene a
freno sotto una precisa forma di disciplina, perché non dovremmo riuscire a
governare con metodi razionali l'uomo, incline per natura alla solidarietà e al
controllo imposti da una vita di relazione, dal momento che ubbidisce
spontaneamente, come si può vedere, senza bisogno di coercizione a chi sa dare
ordini giusti e retti? Affermava però che il potere, una volta ottenuto o
conquistato, è una cosa che senza dubbio logora chi ce l'ha. Cosa c'è nella
vita, infatti, di più duro e faticoso di una posizione in cui, quando la si è
raggiunta, bisogna trascurare i propri interessi e occuparsi di quelli degli
altri, riservare da soli la propria attività e le proprie energie alla
sicurezza della pace e della tranquillità di molti? A queste osservazioni Momo
aggiungeva anche che le cariche pubbliche vanno tutte incontro al gravissimo
inconveniente che, se le si esercita da soli, non si è mai all'altezza, se
invece ci si serve di collaboratori la cosa si presenta estremamente rischiosa;
comunque, essere superficiali nell'esercizio del proprio ufficio, oltre che
vergogna e disonore, arreca anche disastrose conseguenze. In conclusione, se si
considera con una certa attenzione ciò che va sotto il nome di potere ci si
rende conto che si tratta di una sorta di pubblica schiavitù a faccende che è
meglio evitare, decisamente intollerabile. Quanto al resto, Momo aveva deciso
in partenza di lasciar perdere tutte le attività economiche e finanziarie,
perché l'abbondanza e la pratica dell'accumulazione generano sazietà e noia, e
poi, se si è spinti dall'avidità a desiderare più del necessario, possono anche
portare a una forma di ansia gretta e meschina. Per concludere, diceva di non
aver trovato alcun genere di vita che valesse la pena di scegliere e desiderare
in tutti i suoi aspetti, tranne quello di coloro che vanno in giro a chiedere
l'elemosina, i cosiddetti vagabondi. Si mise allora a dimostrare con molto
spirito e ricchezza di argomenti che questo è davvero l'unico sistema di vita
agevole, chiaramente vantaggioso, privo di disagi, ricco di libertà e di
piacere; e sosteneva tra l'altro: "Dicono i geometri che tutto quel che
c'è da sapere nella loro professione lo conosce altrettanto bene un
principiante che un esperto, una volta che l'ha imparato. Succede pressappoco
la stessa cosa nell'arte del vagabondaggio: nello stesso breve spazio di tempo
in cui la si apprende, eccola già bell'e nota e assimilata. C'è una sola
differenza: chi vuol fare il geometra ha bisogno di un altro geometra che gli
insegni il mestiere, invece il vagabondaggio si apprende senza bisogno di alcun
maestro. Ogni altra forma di professionalità richiede periodi d'istruzione, la
fatica del tirocinio, esercizio continuo, una rigorosa programmazione, e poi
sono necessari sussidi didattici e altri strumenti di lavoro di cui questa sola
arte non ha affatto bisogno. Quest'arte sola si regge con sufficienti garanzie
sulla completa indifferenza per tutte quelle cose che si ritengono
indispensabili nelle altre arti, e sulla loro mancanza. Non c'è bisogno di
mezzi di trasporto, di una nave o di una bottega; non si deve aver paura dei
mangiapane a tradimento, delle rapine, della congiuntura sfavorevole. Non c'è
da investire nessun capitale tranne la povertà e la faccia tosta nel chiedere,
e tutto il lavoro da fare per perdere i propri beni e chiedere quelli degli
altri consiste solo nel volerlo. Inoltre il vagabondo mangia alle spalle degli
altri, occupa il suo tempo come gli pare e piace, chiede liberamente, non ha
problemi a dire di no, prende da tutti, perché anche i poveretti offrono
volentieri, e le persone agiate non si tirano indietro. Che dire poi della loro
libertà, della loro maniera di vivere anarchica? Ridono, lanciano accuse, fanno
critiche, blaterano quanto gli pare senza mai doverne pagare le conseguenze. Il
fondamento essenziale del loro potere sta proprio nel fatto che gli altri
ritengono un disonore mettersi a disputare con un vagabondo e considerano una
colpa alzare le mani su uno che non ha mezzi per difendersi. Poter fare quello
che si vuole senza nessuno che stia a censurare le tue parole e le tue azioni:
ecco un sostegno e un valido mezzo di conservazione del potere! Non concederò
neppure ai re il vantaggio di potersi servire delle ricchezze meglio dei
vagabondi: sono dei vagabondi i teatri, dei vagabondi i portici, dei vagabondi
qualunque luogo pubblico! Gli altri non avrebbero il coraggio di mettersi a
sedere sulla piazza o di parlare con la voce un po' alterata e, temendo le
occhiatacce dei benpensanti, si comportano in pubblico sempre secondo le buone
norme, senza mai seguire le loro inclinazioni istintive. E tu invece,
vagabondo, ti sdrai in mezzo alla piazza, alzi la voce liberamente, fai tutto
quello che ti va assecondando i tuoi desideri. Nei tempi duri gli altri stanno
a consumarsi in silenzio tutti mesti, tu canti e balli. Se al potere c'è un
principe cattivo gli altri fuggono a peregrinare in esilio, tu frequenti le
feste di corte. Il nemico vincitore imperversa: tu solo del tuo popolo non hai
paura a stargli di fronte. E quel che ciascuno ha messo insieme dopo grandi
fatiche, rischiando anche la pelle, tu glielo chiedi come fossero primizie a te
dovute. Un'altra particolarità molto conveniente è che nessuno ha invidia di
chi vive in questo modo, e anche tu non hai invidia per nessuno, in quanto non
vedi negli altri niente che tu non possa facilmente ottenere, se vuoi. Inoltre
la condizione del vagabondo si adatta così facilmente a qualsiasi altra
professione che dovunque egli abbia messo mano ci fa una bellissima figura, il
che non si verifica certo per le altre categorie d'uomini: infatti si accusa di
superficialità chi cambia sempre mestiere, e ogni volta che lo fa ha un bello
spreco di energie. Penso che non si debba dare ascolto a chi va dicendo che la
maniera di vivere dei vagabondi presenta un sacco d'inconvenienti. Posso
affermare in base alla mia esperienza che in tutte le altre professioni mi sono
imbattuto in un gran numero di difficoltà e di fastidi di cui avrei fatto a
meno volentieri. Infatti a qualunque attività sono strettamente connessi molti
aspetti pesanti e fastidiosi, che bisogna tuttavia sopportare se la si vuol
esercitare; invece solo nell'arte e nella disciplina (chiamiamola così!) del
vagabondaggio non ho mai trovato nessuna cosa che non mi piacesse in tutto e
per tutto. Tu vedi i vagabondi vestiti leggeri a cielo scoperto, coricati sulla
dura terra, e li disprezzi, li guardi schifato come fa la maggioranza. Bada
però che non siano i vagabondi a disprezzare te e tutti gli altri. Tu ti dai un
sacco da fare per gli altri, il vagabondo non muove un dito per te né per gli
altri, quel che fa lo fa per sé. C'è proprio bisogno di dire quanto siano degne
d'un uomo sciocco e insensato certe cose che la maggioranza ammira, come la
toga, la porpora, l'oro, la mitra e roba del genere? Chi non si metterebbe a
ridere a vederti camminare tutto impacciato dall'intrico dei vestiti che ti
pesano addosso, per piacere agli occhi altrui? Questo il vagabondo non lo fa,
perciò ride. E tu, se sei una persona di buon senso, non cercherai di non
essere infastidito dal peso dei vestiti, non ti rifiuterai di aver le membra
oppresse e soffocate pur di seguire la moda, per sembrare più ricco ed
elegante? Usiamo i vestiti per coprirci, non per metterci in mostra! Chi ha
vestiti per ripararsi dalla pioggia e dal freddo è ben messo quanto basta
all'utilità pratica e al naturale decoro. Il vagabondo si corica per terra:
embè? Quando si ha sonno, si dorme forse con gli occhi meno chiusi sul nudo
pavimento che in mezzo alle coperte? La natura ha dato le piume ai cigni perché
si coprissero, non per farne letti raffinati: se si avesse un sonno profondo
quanto il materasso su cui ci si corica, non c'è dubbio che si dormirebbe
moltissimo e bene. Con l'abitudine, il posto per riposare che la natura ci
concede diventa ogni giorno più soffice e più salutare, e se mancano le
comodità il sonno farà da cuscino agli uomini stanchi.
Se un vagabondo si mette
a fare un discorso, anche se dice le stesse cose del primo oratore
ingualdrappato che capita, chi avrà mai un pubblico più fitto? Chi ascolteranno
con più attenzione? Quali perorazioni desteranno una commozione più grande? Chi
susciterà approvazioni più calorose durante l'intero discorso? Grande è
l'autorità di questa categoria d'uomini nei frangenti più gravi, nessun'altra
ne ha di più. Non capita spesso di vedere che le cose che dice un vagabondo
ubriaco in preda al delirio vengono accolte come vaticini e le si applica anche
a questioni molto serie, come se fossero responsi di un oracolo? Su questo,
comunque, torneremo magari un'altra volta; riprendo a parlare di me. Sai che
valore aveva il fatto che io mantenessi sempre lo stesso equilibrio, senza
agitarmi in un senso o nell'altro, nelle situazioni difficili? È una qualità
che tu desideri, Giove, principe degli dèi, se hai buon senso, e che vorresti
ardentemente conquistare. Cos'altro serve di più a godere la tranquillità, a
dar prova di grandezza e a fare onore alla propria autorità, che avere un
equilibrio che permetta di non cambiar mai linea di condotta, qualunque cosa
accada? Arrivavano gravi notizie, accolte con orrore da tutti gli altri
terribilmente impauriti: liquidi mai visti sgorgavano dalla dura roccia,
s'erano accese fiamme in mezzo alle sorgenti, le montagne avevano preso a
cozzare tra loro. La massa era attonita, le classi dirigenti in trepidazione,
ogni cosa in preda al panico e all'ansia per quel che sarebbe avvenuto. Alcuni si
mobilitavano per la salute pubblica, altri erano presi dalla smania di
conservare i propri privilegi, agitati dalla speranza e dal timore. Momo
invece, privo di angosce, dormiva tranquillo comunque si rigirasse, non avendo
niente da sperare o da temere; e tra una pennichella e l'altra soleva dire
così: 'Cosa vuoi che sia, Momo, e a te che importa di cose come queste, non
avendo niente da perdere?'. Si parlava di fatti prodigiosi: alcuni avevano
cavalcato su una strada tracciata sul mare; altri avevano fatto passare una
flotta per monti e foreste; altri avevano scavato le montagne e avevano guidato
i loro carri tra le rocce fino in fondo alle viscere della terra, altri avevano
dato la scalata al cielo su di un'immensa catasta, altri ancora avevano strappato
al mare fiumi e laghi prosciugandoli, e avevano racchiuso distese d'acqua
dentro l'arida terra. Tutti erano pieni di meraviglia e di stupore di fronte a
questi fenomeni, invece Momo diceva sempre così: 'Anche in questo caso, Momo,
niente che ti riguardi'. Si diceva che i più ricchi e potenti re della terra si
attaccavano tra loro con eserciti sterminati, il cielo era coperto di frecce, i
corsi d'acqua erano ostruiti dai cadaveri, il mare si alzava per il sangue dei
caduti. A sentire queste notizie tutti gli altri ondeggiavano in preda a vari
sentimenti, secondo i loro interessi e le loro passioni di parte; solo Momo
continuava a dire: 'Anche questo, Momo, non ti riguarda'. Si vedevano terreni
in fiamme, devastazioni, saccheggi, si sentiva il lamento dei caduti, il
fragore dei tetti che crollavano, le urla di chi era stato colpito dalla
disgrazia; si esitava, si trepidava, si correva da tutte le parti; grida,
fracasso, confusione in tutte le strade e gl'incroci; ma Momo sbadigliava,
sdraiato a sognar donne nude, e non chiedeva nemmeno cosa significasse tutto
quel baccano, se non qualche volta, con indifferenza e anche un po' di
fastidio. Se poi qualcuno si metteva e deplorare davanti a lui sconvolgimenti
così grandi e tempestosi, Momo diceva strofinandosi una gamba: 'Nemmeno ora c'è
niente che ti possa preoccupare, Momo; dormi!'. Che altro infine? Per prendermi
gioco di tutta questa gente in preda a tanta agitazione, quando li vedevo,
raccolti in cerchio con le teste che si toccavano, macchinare qualcosa in gran
serietà, correvo subito lì, mi piazzavo vicino, mi rivolgevo a loro chiedendo
in continuazione di fare la carità a un poverello; quelli si arrabbiavano, io
ero felice di fare l'importuno; quelli si scaldavano a rimproverare la mia
antipatica buffoneria fuori luogo, e Momo rideva!".
Così raccontava Momo tra
le risa di tutto quanto il cielo, ma Giove, quando ne ebbe abbastanza di
ridere, interruppe il racconto di quelle spiritosaggini: "Ehi, Momo!
Succede anche ai vagabondi d'invidiarsi l'uno con l'altro, come dicono che
fanno i vasai ed i fabbri?". E Momo: "Ma chi dovrebbe invidiare uno
che fa ostentazione della sua miseria?". Giove allora: "Se non
sbaglio, chiunque potrebbe invidiare uno che è tanto miserabile, e vorrà
sembrare degno di compassione anche lui. Se non è così, devo ammettere che
questo tuo vagabondaggio non è solo privo d'inconvenienti, come dicevi tu, ma
straordinariamente indicato per raggiungere la tranquillità e il massimo della
felicità, al punto che lo preferirei alla beatitudine di noialtri dèi. Oh che
grandissimo malanno l'invidia! Oh l'invidia, che grandissimo malanno!".
Momo rispose: "Mi spingi ad accusare me stesso, Giove ottimo e massimo! Ne
sentirai una bella. C'era tra i filosofi un raro esemplare di fannullone, uno che,
se l'avessi visto, l'avresti senz'altro creduto il primo sciagurato di questo
mondo: si faceva notare particolarmente, in mezzo ai vagabondi, per com'era
combinato. Ora te lo descrivo bene: aveva la faccia schiacciata, il mento
rugoso, la pelle screpolata, tutta pustole, che gli calava giù dalle guance
come a un bue, il viso nero come il carbone, gli occhi gonfi e sporgenti
all'infuori, uno pesto e l'altro mezzo cisposo, tutt'e due insieme storti e
strabici; aveva un naso così grosso da far pensare a un naso ambulante.
Camminava con la testa curva, inclinata sulla spalla sinistra, il collo
allungato e ripiegato: avresti detto che non guardava il suolo con gli occhi,
ma con un orecchio; una scapola gli si gonfiava in una gobba pesante;
l'andatura era a passi lunghi e larghi, lentissima, eppure barcollava a ogni
pie' sospinto per le gambe fiacche, come se una lunga malattia gli avesse
rammollito le articolazioni. Non parliamo poi del vestito e di quel che si
portava appresso, le bisacce tutte rattoppate, il tabarro antenato di tutti i
tabarri, dove avevano fatto il nido mille topi con le doglie del parto; portava
appesi a una spalla un sacchetto, un paniere e un vaso da notte zozzi e
puzzolenti da morire. Devo ammettere di aver forse invidiato qualche volta
quest'uomo, non perché era così conciato, ma perché mi accorgevo che a tanta
gente sembrava degno di pietà, mentre si meritava odio più che pietà. Un'altra
cosa che mi dava fastidio era vedere fin troppi vagabondi a passeggio in
piazza. Però l'unica cosa del vagabondaggio che non riuscivo a mandar giù era
quando i ragazzini scatenavano contro di me certi cagnetti latranti che si
lanciavano coi denti in fuori sui miei calcagni scoperti. So che non è facile
farvi capire quanto siano molesti quei monellacci, ma se fastidi del genere
capitassero agli dèi massimi, non riuscirebbero a trovare nulla di più
spiacevole in tutto l'universo. Comunque sorvoliamo, e torniamo al punto. Tra i
mortali, dunque, non si può trovare una maniera di vivere più comoda di quella
dei vagabondi, se è vero, com'è vero, che è facile e fornita di tutto, nessuna
disgrazia li può colpire, nessuna cattiveria può portargli via qualcosa, non ci
si può trovare nessun motivo per lamentarsi". "Sciocco che sei
stato" intervenne Giove "a lasciare tante belle cose per salire tra i
celesti! Cosa vai a raccontare, Momo, che non hanno potuto nulla contro di te
sulla terra cose che fanno un gran danno quassù tra noi! Dove non arriva la
cattiveria?". A questo punto Momo si mise a giurare che non era mai stato
così poco toccato da preoccupazioni come quand'era un vagabondo, e che nel far
quella vita non aveva mai avuto dolori se non una volta sola, per una storia
futile in sé, ma che meritava comunque d'esser raccontata. Gli era capitato
d'imbattersi in uno schiavetto uscito fresco fresco dall'ergastolo, che colpiva
col bastone un asino che tirava calci e non ne voleva sapere di camminare.
All'inizio era scoppiato a ridere di uno che montava su tutte le furie a quel
modo, ma poi gli era tornato in mente quanti debiti hanno i poveracci con gli
animali da soma: caso mai non ce ne fossero, andrebbe a finire che i ricchi si
farebbero portare in spalla dai poveri. Allora, indignato, aveva incominciato a
rimproverarlo così: "Selvaggio con due zampe, pecorone, la vuoi smettere
di fare il matto? Non ti rendi conto di quanta riconoscenza si debba a questa
razza d'animali, che se non ci fossero, tu e i tuoi pari portereste sacchi e
bagagli al posto delle bestie da soma?". Questo aveva detto Momo; ma
quello là, bestione com'era, lasciò perdere l'asino e si diresse contro chi lo
rimproverava, dicendo: "E allora perché non le prendi tu al posto
dell'asino?", e con lo stesso bastone con cui aveva battuto l'asino riempì
Momo di botte. C'erano per fortuna alcune brave persone, che riuscirono a
bloccare lo schiavo coi loro rimproveri, ed espressero a Momo il loro rammarico
per l'accaduto; ma lui aveva risposto che se l'era andata a cercare, perché,
dopo aver raggiunto l'indifferenza per le più grandi tribolazioni degli uomini,
si era lasciato commuovere dai guai di un asino.
Giove, conquistato dalla
parlantina brillante di Momo, gli disse che poteva sentirsi di casa nel suo
palazzo, cosa che lui si mise subito a fare, in forza del comando di Giove.
Guardate un po' adesso che potenza ha il favore di un principe verso qualcuno,
la faccia che gli fa: non appena gli dèi videro Momo, il pericolo pubblico del
cielo, emarginato, guardato di traverso, antipaticissimo a tutti, diventato
caro al principe e suo intimo, cominciarono subito a pensar bene di lui, a
ritenerlo degno di ricevere le loro profferte d'amicizia, il loro rispettoso
ossequio: e così gli dèi uno per uno facevano a gara nel far visita a Momo, nel
rendergli omaggio, nel cercare di compiacerlo in tutti i modi con le parole e
coi fatti.
A tutto questo movimento
prendevano parte insieme a quasi tutti gli altri anche Pallade, la dea
mascolina (se si può dir così), e Minerva, onore e luce di tutte le arti; varrà
la pena a questo punto seguire il comportamento di Pallade e Minerva, per riconoscere
anche tra gli dèi la natura delle donne. Esse infatti erano indotte a
riflettere per benino sulla loro posizione pubblica e privata dal fatto che un
principe beatissimo come Giove, a cui non rimaneva altro desiderio che di
godere una gioia eterna, si divertisse della buffoneria di Momo; tutt'altro che
ignare del potere che hanno sull'animo di ciascuno certe paroline infamanti
buttate lì al momento opportuno ‑ soprattutto da parte di chi gode di
libero accesso presso di te, libero o impegnato che tu sia, erano già da un po'
vivamente preoccupate e, ricordando che Momo aveva subito da loro un'offesa
recente a proposito del fuoco, avevano validi motivi per temere che
quell'attivo frequentatore della corte stesse preparando qualche tiro con la
sua assidua presenza così divertente. Ma, siccome erano femmine, ragionarono da
femmine, senza il minimo senso dell'opportunità. Minerva, infatti, si mise a
parlare con Momo con l'arte oratoria di cui era esperta, facendogli così
conoscere tutta la faccenda del fuoco sacro, di cui lui era all'oscuro, mentre
cercava di convincerlo che non c'era stata mancanza da parte sua, allo scopo di
defraudare Momo di un simile dono divino, e gli chiarì i motivi della mancata
consegna affermando che non le sarebbe mai passato per la testa di impedire in
qualunque modo a Momo, così benemerito verso di lei e la schiatta divina, di
tornare col massimo onore tra gli dèi, secondo l'espressa volontà di Giove; ma
ammetteva il suo errore, non aveva avuto il coraggio di contraddire le richieste
in tal senso di una dea armata e prepotente come Pallade; non c'era da
stupirsi, del resto, che Pallade ci avesse provato, visti i debiti di
riconoscenza che aveva con la dea Frode, c'era anzi da guardare con una certa
indulgenza al fatto che due dèe, accomunate dalla stessa passione, si fossero
date aiuto a vicenda nel tentativo di non accrescere la gloria di un
avversario. Lo pregò infine di non prendersela con lei, ma di mettere alla
prova in futuro le sue buone intenzioni verso di lui, piuttosto che averla in
antipatia senza motivo.
Momo si sentì prendere da
una rabbia feroce, ma, risoluto a simulare e dissimulare in ogni occasione, si
liberò di Minerva con poche parole blande e moderate, assicurandole, fra
l'altro, di non voler raccogliere assolutamente l'offesa, soprattutto per non
andarsi a cercare quel fastidio che di solito accompagna il desiderio ansioso
di prendersi la rivincita; si augurava che da allora in poi i suoi nemici e
denigratori avessero sentimenti più buoni, e se poi non avessero smesso di
attaccarlo, lui comunque avrebbe ritenuto suo preciso dovere mostrarsi
tollerante con gli avversari, facendo così vedere a tutti com'era diventato
buono e caro il povero Momo dopo tante disgrazie. Ricevuta questa risposta,
Minerva se ne andò, ma era quasi appena uscita dal palazzo quando Pallade,
spinta dagli stessi presentimenti, spuntò davanti a Momo e cercò di convincerlo
che erano state le astuzie di Minerva a trascinarla a non comportarsi bene con
lui: era enormemente pentita di questa mancanza e chiedeva perdono. Continuando
a dissimulare, Momo si comportò con Pallade non diversamente da prima con
Minerva; si sentiva però bruciare talmente di dolore e di rabbia che tratteneva
a stento le lacrime. Il dolore di Momo fu sollevato dall'arrivo di Temi,
messaggero degli dèi, che era venuto per ordine di Giove a invitare Momo al
banchetto per la festa di Ercole. Giove infatti desiderava rendere
piacevolissima con l'umorismo di Momo anche la cena di Ercole, come parecchie
altre precedenti. Ma andò a finire in modo molto diverso dalle sue intenzioni:
durante la cena, infatti, i commensali si scambiavano un sacco di battute, ed
Ercole in particolare raccontò alcune barzellette, quando a un certo punto fu
chiesto a Momo di raccontare quella vecchia storia di come fosse scappato via
in mezzo ai filosofi con la barba strappata. Momo, vedendoli pronti a ridere
alle sue spalle, perse la pazienza; non poteva sopportare che non fosse
bastato, a Giove e agli dèi, ascoltare quella storia un paio di volte, riassunta
in breve, ma la volevano sentire di nuovo, in un banchetto a cui partecipava il
fior fiore delle autorità divine, per spassarsela con Momo come fosse una
pietanza anche lui, il piatto forte della serata! Così, lui che fin'allora con
la sua disponibilità si era prestato ad essere il passatempo di tutte le
categorie di dèi, adesso considerava una grave mancanza di rispetto il fatto
che lo invitassero non per rendergli onore, ma per farsi quattro risate.
Inoltre, da un po' aveva fatto indossare al suo animo una personalità nuova,
messa via la precedente: da quando si era reso conto, infatti, di essere
portato in palmo di mano dalla massa degli dèi per via del favore del principe,
montato dal successo (capita così!), aveva cominciato a nutrire ambizioni più
alte e, lasciato da parte quel suo modo di fare simpatico, si era messo a poco
a poco sulla via della massima austerità, per sembrar degno di credito agli
occhi di Giove, e di prestigio a quelli degli altri celesti. Per questa
ragione, offeso dalla faccia tosta dei commensali, di Ercole soprattutto, diede
una magnifica lezione a quegli insolenti per mezzo di una trovata veramente
ingegnosa. Dichiarò di aver sempre fatto volentieri tutto ciò che riteneva
gradito agli dèi, e che anche in quell'occasione non gli sembrava un fastidio
far contente, anche a prezzo di un certo dolore, persone che lo trattavano
tanto bene, per quanto avrebbe preferito cancellare completamente dal suo animo
il ricordo triste del suo periodo nero piuttosto che riaprire tante volte la ferita.
Ma al racconto delle sue sventure era strettamente intrecciato un motivo di
gratitudine per il beneficio ricevuto dal re degli dèi, il ricordo del quale
gli procurava senza dubbio una gioia; anzi, quel beneficio ricevuto sarebbe
rimasto eternamente impresso nel suo cuore, e lui non avrebbe mai mancato di
fare il possibile per ricambiarlo. La pena dell'esilio non gli era mai riuscita
dura e pesante al punto di perdere la convinzione che si dovesse tenere una
buona condotta verso la stirpe degli dèi del cielo, e il rimorso per la colpa
commessa aveva lenito il dolore della punizione; perciò aveva potuto sopportare
con moderazione, costanza e forza d'animo tutti i guai che ogni giorno gli
toccava subire, ma non era facile dire da quanti cumuli di avversità era stato
sommerso: la cosa che lo affliggeva più di ogni altra era il fatto che non gli
si presentava nessuna occasione di dimostrare, senza danni per gli dèi, come
fosse diventato buono Momo attraverso qualche buona azione. In qualunque
occasione pensasse di dare il meglio di sé, qualunque cosa gli stesse
particolarmente a cuore, ecco che andava a sbattere contro l'ostilità di un
numero spropositato di rivali, aspri e accaniti oltre ogni limite. Proprio
dalle caratteristiche e dallo stile di vita di costoro voleva iniziare il suo
discorso; poi avrebbe parlato un po' delle loro enormi scelleratezze,
scegliendo solo i più significativi degli innumerevoli delitti che avevano
commesso. Esisteva sulla terra una categoria di persone che, a vederle
camminare con gli occhi fissi a terra, col viso e le movenze atteggiati al
rispetto della morale tradizionale con una precisione da professionisti della
scena, se ne avrebbe senz'altro venerazione; se però si osservano più da vicino
le loro abituali inclinazioni, e si vede come son pronti a buttarsi a pesce su
qualunque azione immorale, si hanno buoni motivi per detestarli. Costoro
pretendevano di esser chiamati gli osservatori dell'universo, e, in relazione a
tale qualifica, avevano ingegni in sé tutt'altro che tardi e ottusi, ma il
cumulo delle loro vergognose sconcezze aveva del tutto offuscato la luce di
quelle eccellenti qualità (se proprio le possedevano); avevano fatto del loro
titolo e della semplicità del tenore di vita non una scelta esistenziale, ma un
mezzo per conquistarsi una superficiale aureola di gloria e la pubblicità di
una fama immeritata presso tutti quelli che non li conoscevano a fondo; la loro
presunzione era talmente assurda e sfrenata che sostenevano di conoscere a
perfezione l'essenza di tutte le cose. Al principio correvano tra loro due tesi
a proposito degli dèi, ma in seguito tirarono fuori le idee più svariate, da
respingere in blocco non tanto per il numero quanto per il carattere delirante
delle posizioni in contrasto: non era però ancora abbastanza chiaro quale di
tutte quelle tesi meritasse il più alto disprezzo. Alcuni infatti negavano
completamente l'esistenza degli dèi, e sostenevano che l'universo era il
prodotto del caso, in seguito a quell'unione fortuita delle particelle
infinitesimali che permea di sé tutte le cose, e non la costruzione eseguita
dalla mano degli dèi; altri non credevano all'esistenza degli dèi (se ci
avessero creduto, avrebbero vissuto in un altro modo!) ma volevano che la
maggioranza ci credesse, per il loro interesse, per essere onorati, per
rafforzare con la paura degli dèi le loro posizioni di potere e garantirne la
stabilità; e completavano il loro ragionamento con una serie di vuote
invenzioni, per far credere di essere essi stessi gli intermediari degli dèi e
di intrattenere frequenti rapporti con le ninfe, con le divinità locali e con
gli dèi maggiori. Con tutti costoro Momo aveva ingaggiato una battaglia
estenuante su diversi fronti, una volta per dimostrare l'esistenza degli dèi,
un'altra per chiarire che non era certo caratteristica degli dèi farsi complici
e responsabili dei delitti di uomini scellerati. Per la sua maniera di
partecipare alla battaglia, la forza stessa della sua causa lo rendeva
eloquente, e la stessa verità razionale gli prestava facilmente assistenza e
difesa nel parlare; però, se i suoi discorsi contro i filosofi erano stati
abbastanza abili e adatti a tutelare l'interesse degli dèi, per quanto
riguardava la causa della sua salvezza personale, e dei gravi rischi cui andava
incontro, non si era saputo dimostrare un avvocato difensore altrettanto
capace. La passione con cui si era messo al servizio della causa divina,
l'impegno a cui si sentiva obbligato gli avevano giocato un brutto scherzo: era
stato oggetto di pesanti invidie, e aveva eccitato contro di sé l'astiosità
delle persone più presuntuose e sfrenate che ci siano, gente disposta a
sopportare qualunque cosa pur di non dare a vedere di essersi arresa alla
saggezza e al buon senso di chicchessia. C'era poi una terza categoria di persone,
di raffinata formazione culturale, ma eccessivamente avida di elogi e di
gloria, che non ambiva a meritarsi la rinomanza postuma impegnandosi in imprese
valorose o con la rettitudine dei pensieri e delle azioni, ma a guadagnarsi una
fama immortale con l'arte di fare discussioni puramente accademiche. Costoro
avevano l'abitudine di frequentare i dibattiti pubblici, senza mai assumere una
posizione precisa e coerente, specialmente rispetto ad interlocutori che
apparissero piuttosto preparati, ma cercavano, ricorrendo di volta in volta a
nuovi sistemi d'adulazione, di accattivarsi le simpatie dell'uditorio e
attirare su di sé l'ammirazione del pubblico, non tanto nel tentativo di
guidare al bene sentimenti e opinioni della massa, quanto modificando di giorno
in giorno le proprie posizioni per adattarle agli orientamenti della massa
stessa, senza darsi il minimo pensiero se fosse vera o falsa, giusta o ingiusta
la tesi che stavano difendendo, ma sforzandosi in tutti i modi di far vedere
che, nel sostenere proprio quella, avevano avuto il sopravvento sulle opinioni
degli altri nel corso della polemica. A Momo succedeva talvolta di lasciarsi
trascinare dalla magnificenza e dall'impeto della loro oratoria, tanto da non
trovare argomenti per ribattere: erano potenti quelli là, con l'abbondanza
delle loro parole, erano potenti con la loro erudizione e la loro esperienza,
al punto che non c'era nulla che non potessero ottenere, quando lo avessero
voluto, o con la loro eloquenza o col prestigio da poco conquistato. Durante la
disputa sugli dèi, un uomo appartenente a questa categoria fece il seguente
intervento: "Io non sono il tipo, egregi signori, che oserebbe affermare
che gli dèi non esistono e che il cielo gira a vuoto, soprattutto in forza del
fatto che la credenza negli dèi è radicata nell'animo umano; tuttavia, se non
vado errato, non c'è nemmeno uno di voi che oserebbe affermare che esistono in
base a una prova sicura e inoppugnabile. Qualche volta però mi capita di
domandarmi per quale motivo definiamo 'padri' e 'clementissimi' gli dèi
celesti. Mi rivolgo alla vostra benevola cortesia perché prestiate la massima
attenzione a quel che dirò adesso: non vi spiacerà, se non m'inganno, ascoltare
un mio contributo nuovo e originale a una discussione così importante. Immaginate
che siano qui presenti quei nostri antichissimi progenitori che riteniamo molto
vicini agli dèi, e che essi, considerata l'infelicità della condizione umana a
cui siamo destinati, facciano questa domanda a Giove, padre degli uomini e re
degli dèi, in nome dell'affetto paterno non ancora affievolito dal tempo:
'Dovremmo credere, o padre Giove, che sia stato un atto di grande generosità
averci voluto strappare in qualsiasi modo tutte le cose che gli uomini
considerano desiderabili? Chi mai potrebbe sopportare con animo sereno da
qualunque padre, per quanto adirato contro i suoi figli scapestrati, che egli
permetta che tocchi in sorte una vita peggiore di quella degli animali bruti
proprio a coloro che vorrebbe tenersi cari? Lasciamo stare la forza, la
velocità, l'acutezza dei sensi, tutte cose in cui le bestie danno molti punti a
noi uomini; ai cervi e alle cornacchie voi dèi avete concesso tanti anni di
vita, mentre avete voluto che gli uomini cominciassero a sentirsi invecchiare e
indebolire fin dal momento della nascita, e piombassero nella morte nel bel
mezzo dei loro sforzi di far qualcosa, prima ancora di sentirsi stabilmente
vivi - proprio gli uomini, per i quali era così importante una concessione come
quella, per di più nel precipuo interesse dei celesti, visto che sono gli
uomini che istituiscono templi, sacrifici e feste magnifiche, e che onorano le
cerimonie religiose e ogni manifestazione del sacro. Ma sia pure la morte, per
decisione divina, una via d'uscita dalle tribolazioni, sia pure la morte il
migliore dei beni perché sottrae ai mali! Io sarei più disposto a credere che
la morte non è un male se vedessi che gli dèi se la sono accaparrata, e non
disprezzerei il dono, se ci fosse dato da chi non è all'origine di tanti mali.
Invece, perché mai i celesti hanno preso possesso di quasi tutte le altre cose
che possono presentare aspetti piacevoli, e hanno tenuto ben lontana da loro la
morte? Di tutte le cose buone, qual è quella che i celesti non hanno
rivendicato per sé e non si sono assegnata? Gli dèi si son portati su nel cielo
i nostri Ganimedi, le nostre navicelle, le nostre corone, le lire, le fiaccole,
i turiboli, le coppe, togliendoci tutto quel che trovarono di bello, leggiadro
e sontuoso; han portato in cielo leprotti, cagnolini, cavalli, aquile,
sparvieri, orse, delfini, balene! Non sto adesso a lamentarmi perché si
prendono diletto delle cose nostre, delle meraviglie carpite quaggiù, ma non
posso nemmeno approvarlo; la cosa che mi dispiace è che quegli esseri beati di
lassù non si commuovano per le nostre disgrazie, e, considerando che ci sono
padri, chi sarebbe capace di sopportare senza dolore e turbamento il
trattamento così cattivo che essi ci riservano? Chi potrebbe sopportare che
noi, creature divine, siamo destinati a una sorte peggiore di quella delle
creature degli animali? Se è vero che noi siamo i figli e loro i padri, come
sarebbe stato giusto renderci partecipi di quel loro immenso potere! Loro
invece hanno scacciato i figli dalle dimore paterne, riempiendo il cielo di belve;
hanno voluto escludere gli uomini, e hanno riempito il cielo di esseri strani.
E allora che valore dovremmo dare al fatto di non essere stati creati idre o
ippocentauri, anziché uomini? Eppure c'è chi va sostenendo che gli dèi hanno
messo a disposizione degli uomini un mucchio di cose utili, piacevoli e belle:
le messi, i frutti, l'oro, le pietre preziose e così via. Sarebbe bene allora
considerare attentamente tra noi, a questo proposito, se non sia vero quel che
si suol dire, che se uno asserisse che gli dèi hanno fatto quelle cose per
darci delle illusioni, per deludere le nostre speranze e i nostri progetti,
forse non avrebbe tutti i torti! Quanti sono infatti, e chi, che non desiderano
cose del genere, secondo il volere divino, quanti quelli che riescono a
ottenerle senza l'opposizione divina, quanti quelli che riescono a godersele
dopo averle ottenute? Ma, ammesso che abbiano creato quelle cose nell'interesse
degli uomini: di quali uomini, c'è da chiedersi, dei buoni o dei cattivi? Se mi
si rispondesse che hanno pensato per i buoni, dovrei domandare allora perché
quei beni non vengono assegnati ai buoni e tolti ai malvagi. Perché mai portano
via ai più buoni quegli stessi beni che concedono ai peggiori criminali? Ma
guarda! Hanno dato agli onesti il senso della giustizia, così questi si
sforzano di procurarsi lo stretto necessario ingegnandosi in mezzo a veglie e
fatiche, mentre hanno elargito a piene mani anche il superfluo agli ingiusti,
agli sfacciati, perfino a chi disprezza gli dèi. Ma perché io dovrei dissuadere
certa gente dal bestemmiare gli dèi, quando mi accorgo che essi hanno scaricato
una tale quantità di mali sull'intero genere umano che, se qualche volta
concedessero una pausa alla loro furia, avrebbero il desiderio di non averlo
mai potuto fare? O stirpe dei mortali invisa agli dèi! Infatti, oltre alle cose
insopportabili che abbiamo già visto, gli dèi ci hanno dato anche il dolore, la
febbre, le malattie, gli angosciosi affanni interiori, le tempeste e i
terribili tormenti del cuore e dell'anima! Poveri mortali sommersi dai travagli
nella miseria più cupa! I celesti ci tormentano tanto, ci colmano tanto di mali
che non si può mai essere senza disgrazie, e in tanta assiduità di situazioni
dolorose c'è sempre un nuovo motivo per soffrire che si leva minaccioso su di
noi, per cui all'uomo tocca vivere in perpetua afflizione, e nessuna ora di
tutta la nostra vita può mai essere uguale alla precedente. Chi di voi, egregi
signori, ha la sensazione che sia rimasto per lui un minimo di comodità, a
parte quelle cose senza le quali non potremmo nemmeno esistere? Non c'è motivo
di ritenere che la luce, l'acqua, il nutrimento eccetera siano stati creati a
vantaggio nostro più che degli altri esseri viventi; l'uso della parola e un
sistema di vita che ci permette di collegarci più strettamente l'un l'altro ce
li siamo inventati da noi, sotto la spinta della necessità; e chi di voi non sa
che tutti gli altri beni strappati a noi sono stati regalati a esseri privi di
ragione? Quindi, una volta di più maltrattati, noi miseri mortali! Cosa abbiamo
fatto per dover tirare avanti una vita infelice, sommersi da sventure e
difficoltà, mentre ci è stato sottratto tutto quanto poteva tornare piacevole e
comodo? Ma siano pure degni del cielo, quegli dèi, si godano giustamente i beni
più grandi: noi uomini, nati per l'infelicità, non ci tireremo indietro di
fronte al cumulo dei mali. Però, a chi di voi resta oscura l'idea che può farsi
una persona qualunque dell'intera schiatta divina? Non è il caso di esporre
quel che ne penso io, stabilirete voi su quali punti della questione si può
concordare, giacché si dice che alcuni di noi sono saliti ad aumentare il
numero degli dèi. Uno che si è tirato fuori dalla mandria degli uomini per
essere cooptato tra i beatissimi padroni del mondo, dico io, non vorrà essere
oggetto di onore e venerazione, ritenendosi degno di un rango, di una sede e di
un'autorità simili? Nel caso che poi conoscesse perfettamente la strada per
risalire tra i celesti, gli sarebbe più facile diventare qualunque altra cosa
che un abitante del cielo. Le circostanze casuali, la necessità, ma soprattutto
la disonestà e la stoltezza degli uomini hanno dato numerose occasioni ad
alcuni dei sommi dèi di essere innalzati, anche senza volerlo, a una tale
altezza da domandarsi stupiti come sia potuto accadere. Come sarebbe più facile
aver rapporti con loro se si sapessero comportare da dèi secondo la loro
dignità! Se un omiciattolo qualunque mostrasse di saper amministrare gli affari
come si comporta di solito la maggioranza dei grandi dèi, verrebbe giustamente
preso a legnate. Ma come si può pensare che siano dèi questi qua che mostrano
tanta sonnacchiosa indifferenza di fronte ai problemi degli uomini? Oppure si
giudicheranno degni del benché minimo culto religioso questi che, come si può
vedere, rendono onore solo ai mostri? Mi aspetto già la risposta: che c'è di
strano se essi, abituati a troppa libertà, fanno pazzie, e se, accorgendosi di
potere tutto ciò che vogliono, vogliono tutto ciò che possono e, in definitiva,
pensano che ciò che vogliono sia lecito? Sia dunque lecito agli dèi disprezzare
le esigenze degli uomini, e rotolarsi in mezzo ai banchetti assieme a Ganimede,
immergersi nel nettare e nell'ambrosia. Non sarà lecito anche a noi commuoverci
di fronte a tanta infelicità? Non ci sarà lecito pensare che gli dèi di lassù o
non hanno alcun pensiero degli uomini o, se ne hanno uno, è di odio? E a che
serve chiedere con tante preghiere supplichevoli la clemenza di dèi che hanno
altro a cui pensare, o che ci ricambiano col male? Facciamola finita con la
stupidaggine d'infastidire con cerimonie inconcludenti esseri che, occupati
solo a godere, odiano chi è solerte e operoso! Smettiamola con questa nostra
inutile fissazione di guadagnarci benemerenze presso esseri che non esistono o
che, se esistono, nella loro astiosa ostilità son sempre pronti a rovesciare
mali sugli uomini sventurati!"
Momo affermò che questo
era stato il discorso di quel presuntuoso, e assicurò di essere rimasto
talmente indignato a sentirne il tono provocatorio e sobillatore che si era
trattenuto a stento dal mettergli le mani addosso per la rabbia; senza dubbio
se fossero stati lì presenti di persona Giove ottimo massimo, l'essere più
mite, e gli dèi così giusti e tolleranti, e avessero conosciuto direttamente la
faccia di svergognato dell'oratore, la sua maniera insopportabile di
gesticolare, l'enfasi ostentata delle sue parole, avrebbero deciso lì per lì di
scaricare tutta la violenza del fulmine su quell'intera criminale congrega
d'intellettuali, per portarsi via in una volta tutti i filosofi con tutte le
loro università, i loro libri e le loro biblioteche. Lui aveva dovuto
controllarsi, per le esigenze imposte dalla situazione, ma, per portare avanti
il compito che si era assunto, non aveva potuto fare a meno di sbottare,
rimproverando quei tipi che si mettevano a sproloquiare a quel modo intorno
agli dèi, e avvertendoli che era meglio riflettere mille volte se non volevano
farsi un'idea completamente stravolta di esseri dai quali avevano ricevuto
tante grazie divine, e sbagliare nel comportarsi così verso di loro; era meglio
stare bene attenti, se non volevano, mentre stavano a negare l'esistenza degli
dèi, accorgersi di quanto è forte la loro presenza e come sanno distinguere
bene i giusti e gli ingiusti, gli onesti e i disonesti; aveva augurato loro,
infine, di avere verso i celesti una disposizione d'animo che li tenesse
lontani da grossi guai.
A questo punto quei
presuntuosi, che tutto potevano tollerare con moderazione, ma non di dare a vedere
di arrendersi alla saggezza e al buon senso di chicchessia, avevano trovato
l'accordo ed erano saltati su tutti quanti all'attacco contro di lui, esagitati
dal furore e dallo sdegno per gli avvertimenti di Momo, che odiavano a morte da
tempo, avendo dovuto cedergli in molti dibattiti; gli fecero allora quella
violenza che lui aveva raccontato molto spesso in altre occasioni; Momo però
pregava Giove ottimo massimo ed i massimi dèi di non prendersela per quella
manifestazione di sciocchezza umana, ma di coltivare piuttosto intenzioni degne
di loro, inclinate a una benevola indulgenza, e di continuare a far del bene ai
mortali, mettendo in secondo piano gli inconvenienti e le mancanze di rispetto
che lui aveva subito.
Mentre faceva questo
racconto a voce bassa e accorata, triste in viso, Momo si sentiva soddisfatto
soprattutto perché si rendeva conto chiaramente che tutti gli dèi, Giove in
particolare, erano scossi dalla sottile abilità del suo discorso. Vedeva
infatti che Giove era ammutolito e batteva nervosamente le dita di nascosto
sulla tavola imbandita, perciò esultava di gioia dentro di sé. Ercole intuì la
cosa e disse sorridendo: "Mi faccio forte di quello che hai detto, caro
Momo, perché tu non te la prenda se anch'io desidero in qualche modo che la causa
degli uomini non sia del tutto abbandonata davanti a Giove"; poi, rivolto
a Giove: "Bisogna certo essere indulgenti, o Giove, con gli uomini per un
errore, soprattutto se si tien conto che si sono ingannati nei riguardi di Momo
che non conoscevano affatto, mentre anche qui tra gli dèi Momo si comporta in
modo tale che non è facile conoscerlo, e potrebbe sembrare del tutto diverso da
quel che è. Ma bisogna anche stare attenti a che nessuno la sappia troppo
lunga, volendo procurare inconvenienti e danni agli altri, o sia più abile
nell'arte di ingannare di quanto non si convenga alle persone buone, quelle che
hanno una faccia sola! Quanto sia potente l'eloquenza degli uomini si può
capire chiaramente proprio da Momo, che è tornato al cielo dalle università
umane preparatissimo nella scienza squisita e ricercata della persuasione. Ma è
evidente quali impressioni debba aver Giove ottimo e massimo sul discorso di
Momo e sull'intera questione; cosa invece gli tocchi decidere, lo vedranno
altri. Però tu, Momo, vorrei che riflettessi su una cosa: ti pare che un
banchetto sia il luogo e l'occasione adatta per metterti a discutere di cose
così poco amene, come se stessi sostenendo una causa per un delitto di sangue?
Dove volevi arrivare, Momo? A suscitare intolleranza per i filosofi e le
persone di cultura, oppure a provocare gli dèi coi tuoi discorsi ironici? Ma
noi, o dèi del cielo, commossi dall'orazione così ampia e accurata di Momo,
cosa faremo? Ci faremo sfuggire proprio quel che è necessario ricordare, cioè che
da che mondo è mondo ci sono sempre state diversità di opinioni, varietà di
passioni di parte e dispute a vuoto? Ma di' un po' tu, Momo, il più austero
degli dèi: vorrai negare che a questi circoli di intellettuali contro i quali
ti sei scagliato con tanta acrimonia si è sempre collegata una continua ricerca
del vero e del bene? Vorrai negare che si deve all'influsso dei filosofi se il
genere umano non è all'oscuro di sé e del proprio destino? Non verrò certo meno
alla mia funzione, Momo, se replico alla tua provocazione. Quando mai s'è visto
sulla terra uno tanto presuntuoso da credersi degno della grandezza e della
maestà dei grandissimi dèi? Chi non si riterrebbe quasi indegno di tanti beni
ricevuti dagli dèi? Chi sarà così insensato, così sconvolto dalla follia da non
ammettere con sicurezza che sono stati concessi agli uomini per somma grazia
divina, anzi derivano direttamente dalla mente e dalla ragione divina tutti i
beni più luminosi ed elevati, il pensiero, la ragione, l'intelligenza, la
memoria e altri che sarebbe lungo elencare? Le persone colte, educate nelle
università e nelle biblioteche, non in mezzo a vagabondi e ubriaconi, hanno
operato in modo che gli uomini riconoscessero chiaramente tutti questi beni,
coi loro discorsi, i loro saggi consigli, la loro capacità di persuadere,
facendo vedere cos'è giusto, cos'è conveniente, cos'è necessario, senza andare
in cerca del successo, senza ridere degli afflitti o irritare i rattristati;
gli intellettuali, ripeto, con i loro ragionamenti accuratamente meditati ed
argomentati hanno permesso che fosse reso onore agli dèi, si osservassero le
cerimonie religiose e si avesse rispetto per i sentimenti di devozione e per la
virtù. E hanno agito così per rendere migliori gli altri, non per procurarsi
una gloria inconsistente: ma ammettiamo pure che essi si siano assunti il peso
di affrontare lunghe veglie, fatiche, tanti argomenti difficili ed ardui con
tutta quella diligente attenzione per impulso del desiderio di gloria: chi fra
tutti gli dèi potrebbe prendersela con loro per questo, tranne te solo, Momo?
Chi fra tutti gli dèi tranne te solo, Momo, non ammetterebbe che si sono
comportati lodevolmente? Chi tranne te solo, Momo, non direbbe che li si deve
ringraziare, amare, aiutare e difendere? Non è nostro dovere, o dèi del cielo,
dare un caloroso appoggio a persone che venerano e rispettano gli dèi, chiunque
esse siano, provvedere alla loro salvezza, sostenere la loro causa e tutti i
loro interessi? E Momo, col suo grande attaccamento alla causa divina, vorrebbe
odiare proprio costoro, ai quali si devono tante cose degne e ben accette,
grazie ai quali siamo creduti dèi e venerati, per giunta con il consenso
celeste e senza provocare reazioni! È questo l'impegno appassionato con cui hai
imparato a servire gli interessi degli dèi, Momo, se con tutti i tuoi giri di
parole cerchi di esporre all'odio dei celesti proprio chi laggiù sulla terra
s'è dato tanto da fare per mettere in piedi il culto, la venerazione, le
preghiere verso noi dèi? Se tu non lo sai, Momo, i filosofi, ripeto, i filosofi
sono gli unici esseri umani dai quali gli dèi abbiano ricevuto ‑ e non
possono metterlo in dubbio - il migliore sostegno all'affermazione solenne
della loro maestà e del loro potere, e a costoro i celesti sono debitori di
ogni atto di giustizia, come sono pronti a riconoscere. E i celesti amano
quella consorteria di studiosi, Momo; ben più di quanto non desiderino mandarla
a fondo spinti dalle tue parole, desiderano che essi non siano i più infelici,
ed è giusto così, in quanto costoro col metodo razionale hanno ottenuto
l'effetto che non esiste un uomo che non senta ed ammetta la forza e la sacra
potenza degli dèi, e non si adegui a una vita ispirata ai principi morali. Non
vorrei però che tu, Giove, credessi che il nostro amico Momo, il dio più
simpatico, ce l'abbia col genere umano al punto di odiarlo, forse perché ha
fatto arrivare in mezzo ai celesti qualcuno di origine mortale. E io, dio di
fresca nomina, posso ben dirlo: devo moltissimo a Momo per aver dato ordine a
sua figlia di tirarmi su da voi. Devo elogiarti, Momo ‑ se intendo bene
la tua disposizione d'animo riguardo ai mortali ‑ perché consigli Giove
di tener conto della propria clemenza più che degli oltraggi altrui, se si deve
prendere per oltraggio un'azione commessa da uomini precipitosi. Perciò, se non
mi sbaglio, Momo intendeva dire questo: una volta che sei andato in collera con
gli stolti, è tuo dovere mostrare ogni amorosa beneficenza ai saggi e ai
benemeriti degli dèi. Quando Giove vorrà agire così, celesti ottimi, chi amerà,
chi esalterà, chi giudicherà degni del cielo? Quelli che creano sempre
scompiglio, incapaci di pensare o di far niente in modo sereno e tranquillo, o
piuttosto coloro ai quali un sistema di vita saldamente regolato dalla virtù, e
non dalla disonestà degli scapestrati, ha mostrato la via d'accesso alla grazia
e alla benevolenza di Giove e degli dèi? Colui che si è applicato con passione,
diligenza, operosità, fatiche e pericoli a moltissime ricerche, e molte verità
ha scoperto, senza trascurare un solo particolare, su ciò che è utile ai
bisogni vitali, al bene e beato vivere e alla serena tranquillità, su ciò che
porta alla conservazione, al miglioramento e al prestigio nelle faccende
pubbliche e private, su tutto quanto può servire alla conoscenza divina, al
timor di dio e al rispetto della religione!".
Questo discorso di Ercole
a Momo fu troncato, e gli animi già preparati a prender parte alla polemica
furono distratti dal frastuono che si udì improvvisamente venire dall'entrata
del cielo. Tutti, posati i calici, corsero a vedere di che si trattava, e con
gran meraviglia si videro di fronte un enorme arco di trionfo di tutti i
colori. L'aveva tirato su Giunone, rivestendolo con l'oro fuso delle offerte
votive; la struttura della costruzione e le decorazioni erano talmente notevoli
che i migliori architetti del cielo avevano negato la possibilità della sua
realizzazione, e tutti i pittori e i cesellatori dovevano ammettere che le foro
capacità tecniche erano state superate in quelle opere di rivestimento.
Guardando in un'altra direzione, gli dèi dovettero poi domandarsi con
meraviglia ancor più grande che significava quella folla laggiù di dèi massimi
che sbraitavano tra loro e correvano sul sentiero di guerra in direzione della
reggia del cielo. Stavano perciò in sospeso, con gli occhi in una direzione e
le orecchie nell'altra, l'animo in ansia da tutt'e due i lati. Li scosse ancor
più il fatto che erano appena arrivati sul posto quando quell'immensa
costruzione per cui era stato buttato tanto materiale prezioso vacillò e cadde:
il rumore fragoroso andò a ripercuotersi sulla volta del cielo e questa,
siccome è di bronzo, lo fece riecheggiare con un immenso boato, per cui gli
intenditori di musica, con parola derivante dal tintinnio metallico che risuona
da una cassa armonica, diedero il nome di Tinide a quell'opera fragile ed
effimera di Giunone, perché ne restasse memoria tra i posteri; essa però fu
comunemente chiamata in seguito Iride per la corruzione del termine. Giove e
gli altri celesti, dal canto loro, ebbero l'ennesima occasione di osservare
quanto siano sconsiderati e del tutto inetti i ragionamenti e le intenzioni
delle donne in qualunque faccenda; e poco dopo in seguito a quel fatto poterono
vedere con chiarezza che le iniziative delle donne hanno sempre la tendenza a
provocare motivi di discordia e di litigio. Infatti, anche se gli dèi appena
arrivati di corsa avevano già qualche ragione di non essere precisamente
unanimi e concordi, quella trovata originale di Giunone non aveva fatto altro
che eccitare l'animosità e le tensioni, riportando a galla le vecchie rivalità.
Quando ebbero esposto a Giove le loro ragioni, questi si rivolse ad Ercole,
dicendo con animo fortemente turbato: "Ecco quanto costa esser principi!
Perché gli uomini si lamentano di non aver mai un'ora uguale all'altra e che
tutto gli va storto? Anche noi, dèi e principi dell'universo, non riusciremo
mai a concludere una sola cena senza seccature! Con che cosa me la devo
prendere? Con le ambizioni fuori luogo e i folli desideri di questi qua, o
piuttosto con la mia negligente arrendevolezza, grazie alla quale, oltre a
pensare che tutto gli sia permesso per mezzo mio, a volte gli salta anche il
ticchio di farneticare un po' troppo? Preferirei essere tutto quello che vuoi piuttosto
che un principe, fin tanto che i tuoi sudditi, per i cui interessi perdi il
sonno, cercando la loro tranquillità, mettendo in secondo piano le fatiche che
fai, non si ricordano mai dei benefici ricevuti né dei loro doveri verso di te,
e non la smettono un istante di rompere le scatole con richieste futili e ogni
sorta di raccomandazioni insistenti! Sempre, scocciatura che non siete altro,
sempre vi ostinerete a cercare nuovi pretesti per venire a litigare davanti a
me? Quante volte ho appianato i vostri diverbi, trattenendovi dalle male parole
e dalle legnate, e vi ho fatto rinsavire! Quante volte ho dovuto sedare questi
casini che combiniamo! Una volta Vulcano ce l'aveva con Teti (son tutte storie
vecchie, le vostre!) perché offuscava e cancellava del tutto la luce e lo
splendore della sua dignità. Diana e gli dèi Silvani ce l'avevano con Vulcano
perché attaccando con la sua furia selvaggia devastava le loro dimore amene e
appartate. Con questi ce l'aveva Eolo, perché spezzavano le ali e strappavano
le piume a Zefiro, a Noto, agli Austri, agli Aquiloni e a tutti gli altri suoi
compagni di battaglia per andarle a mettere ai mostri scolpiti sulle navi.
Nettuno ce l'aveva con Eolo perché agitava ogni cosa, sconvolgendo fino in
fondo la calma e l'uniformità delle sue regioni. Teti a sua volta se la
prendeva con Nettuno per l'empia ospitalità che le aveva dato, violando
addirittura il fiore puro e illibato della sua verginità. Anche adesso è
saltata fuori nuova materia di litigi e rancori: Nettuno accusa Giunone di aver
scaricato per sfregio sopra il suo altare la spazzatura dei voti e il materiale
di scarto della costruzione. Cerere non vuole che vengano buttati sul suo
terreno; e anche Vulcano dice di non aver spazio per poterseli tenere nelle sue
officine; e le lamentele, il malcontento e i litigi di questa gente senza il
senso del limite vengono portati tutti davanti a me! Io do ascolto con la
massima pazienza a questi farneticanti, ed essi non la finiscono di
approfittarne, senza nessun riguardo. Che razza di faccia tosta è questa? Non
la finirete mai di stuzzicarvi a vicenda con i vostri pettegolezzi, e di
rompermi le scatole in continuazione? Va bene che vi mettete a fare i matti
proprio a causa della mia pazienza, ma dovreste vergognarvi una buona volta di
avere di me un'idea così sfacciatamente bassa! Non è il colmo della faccia
tosta voler scaricare sullo stomaco del principe tutto ciò che non si sopporta
di tenersi appresso? Non vogliono che i voti degli uomini siano messi a casa
loro: non c'è altro posto dove metterli: allora si corre da me e si chiede che
li porti via io di qua e di là! Che significa? Che altro è se non pretendere di
andare a scaricare nella sala da pranzo reale tutto quel che non gli piace, gli
sembra una porcheria e non vogliono prendersi, con tutto quello spazio vuoto
che hanno a disposizione! Povero me, se dovessi acconsentire a questi
svergognati; disgraziato che sono, se mi tocca comandare su gente che non ha
alcun rispetto per il principe, nessun senso della misura e della decenza! Io
credevo che, avendo messo tutto a posto con gran precisione, e distribuiti i
posti di potere in base alla dignità, sarei rimasto finalmente libero
soprattutto da queste seccature. E ora non solo i celesti, ma (cosa ci tocca
sopportare!) pure gli ometti ci si mettono, per ostacolare i progetti di Giove
ottimo massimo, principe dell'universo e re degli dèi. Ma perché mi devo
arrabbiare con questa singolare sciagura vivente, per non dir uomini? È chiaro
che è tutta colpa della mia disponibilità: desiderando accontentare tutti di
mia iniziativa, ho finito per autorizzare l'arroganza di tutti verso di me.
Avevo dato ai mortali molto di più di quanto gli fosse lecito sperare, proprio
per addolcire quella loro incorreggibile testa dura con l'ammirazione per le
nostre grazie divine, cercando di spingerli a giudicarci bene a forza di
benefici. All'inizio gli avevo dato la primavera, così dolce e profumata, con
tutta quell'abbondanza inesauribile di fiori! E quelli espressero il desiderio
che io portassi a maturazione i frutti che quei fiori promettevano; allora gli
ho dato pure l'estate, facendo lavorare a pieno regime gli operai delle
fonderie di Vulcano per far salire la linfa dal fondo delle radici fino ai rami
e alle gemme, e far crescere i frutti. Che succede allora? Ormai satolli al
punto giusto di tanta bella frutta, mi chiesero di far tornare la primavera. E
io ho acconsentito anche a questo capriccio: ho messo insieme le fiammelle
necessarie alla riproduzione di ogni specie di pianta e le ho racchiuse dentro
le gemme come in scrigni, alimentandole col caldo soffio vitale, perché si
conservassero fino a primavera. Ma quei mascalzoni di mortali, immemori di
tutti i favori che gli avevo fatto, ingrati, senza dignità, sempre con la
voglia di cambiare, incontentabili, mentre non hanno cosa chiedere e cosa
aspettarsi di più da parte mia, mentre io gli concedo di mia iniziativa cose
che non oserebbero neanche sperare se avessero un po' più di discrezione, ecco
che, in cambio di tutta la beneficenza ricevuta, non hanno altro da dare che
puro e semplice odio! Imprecano un po' per il caldo, un po' per il freddo, un
po' per il vento, e se la prendono con noi per tutto quello che non gli sta
bene; non si peritano di affermare che noi facciamo cose che non farebbero neppure
i pazzi scatenati! Fanno bene a prendersela con noi, visto che ci ostiniamo a
beneficare gente che meriterebbe le si sguinzagliassero dietro le Erinni
infuriate. Certo che la follia li sta facendo agitare anche troppo, se si son
messi in testa di essere gli eredi degli dèi e pretendono una fetta di potere!
C'è follia più grande di andare allo sbaraglio dietro tutti i capricci, farsi
trascinare dalla presunzione, avere ambizioni indegne e senza limiti, non
sapersi accontentare dei beni che si hanno e lamentarsi perché gli altri
raggiungono premi che essi si rifiuterebbero di prendere per la loro maledetta
infingardaggine? E si lamentano del breve tempo che gli è dato da vivere, loro
che sprecano tanto tempo standosene in panciolle, e nella vecchiaia marciscono
senza far nulla! Vanno dicendo che malattie e disgrazie le mandano gli dèi. Che
cosa si dovrebbe dire, se l'uomo è la massima delle disgrazie per il suo
simile, se una peste è l'uomo per l'uomo? Tu, uomo, tu, con la tua sfrenata
ingordigia, con l'intemperanza delle tue voglie hai ottenuto di esser
tormentato dal dolore, di languire per le malattie, di rovinarti completamente
perché non sai sopportare te stesso! Sono molto addolorato per la stoltezza
degli uomini, vorrei tanto che fossero più capaci di controllarsi. Ma cosa
posso fare, cosa devo cercare? Chi sarebbe capace di trovare una soluzione,
quando caterve di scocciatori gli stanno sempre attorno? Chi è fatto di ferro,
e così ben piantato a resistere agli assalti dei seccatori da riuscire a sopportare
a lungo questa situazione? Una volta ci rompono le scatole portandoci davanti i
loro litigi, un'altra volta veniamo sommersi dai voti, o meglio dalle
imprecazioni. Non si troverà mai il sistema per liberarsi di tutte queste
scocciature? Per forza si dovrà trovare. E come? Il mondo che hanno a
disposizione non gli piace. Questa situazione è pesante e insopportabile. E
allora inventeremo una nuova maniera di vivere: ci sarà da metter su un altro
mondo. Va bene, va bene, sarà fatto, agli ordini!".
Tutti gli dèi erano
ammutoliti allo scoppio d'ira di Giove. Momo, invece, esultava a vedere che
razza di casino era riuscito a combinare agli dèi e agli uomini; si sentiva
molto fiero di essersi saputo prendere una rivincita colpendo in modo così
originale, e intendeva andare avanti con quello spasso. Però, per continuare a
dissimulare, fece una faccia buona buona e disse con un sorriso:
"Ascoltami, per favore, Giove, e considera, se non ti spiace, se quel che
dirò adesso fa al caso tuo. Mi par di capire che la cosa che ti irrita di più è
la sfacciataggine umana, e hai proprio ragione. Chi potrebbe sopportare a lungo
le loro assurdità, infatti, a parte te? Succede anche a me di chiedermi spesso
per quale strano motivo sei così poco accetto a questi omuncoli ingrati, che
non ti meritano, soprattutto per la tua disponibilità e la tua bontà. Considera
però se è proprio il caso di addossarti la fatica di tirar su un altro mondo
per liberarti delle lamentele di quegli ingrati; considera se ti conviene voler
mettere a posto la pazzia degli uomini con un'impresa di tanta mole. Comunque,
rifletterai tu sull'intera questione, col tuo grande buon senso. Se arriverai
alla conclusione di castigare per bene gli omuncoli per la loro temeraria
insolenza, so io cosa si deve fare, anziché imbarcarsi in una simile impresa
edilizia. Quelli là vantano un'origine divina per il solo fatto di avere, a
differenza degli altri animali, il volto eretto a guardare le stelle; pensano
così che sia affar loro sapere quello che fa o quello che pensa ogni singolo
dio del cielo. Per di più si prendono il gusto di criticare parole e azioni dei
celesti, e non hanno alcun ritegno a sottoporre a una forma di censura la
moralità degli dèi. Se darai retta a me, Giove, gli ordinerai di camminare
sulle mani, a testa in giù e piedi all'aria, così si distingueranno da tutti
gli altri quadrupedi e, dovendole usare per andare a spasso, terranno le mani
lontane da furti, saccheggi, incendi dolosi, avvelenamenti, assassini e
peculati e da tutti gli altri tremendi delitti per loro abituali. Ma no, cambio
parere. Conosco quelle teste: in capo a tre giorni impareranno a rubare anche
coi piedi, ad attaccare coi piedi, a commettere coi piedi qualunque crimine; e
allora penso che la miglior cosa in assoluto sia raddoppiargli le femminelle!
Che terribile punizione, che gran varietà di supplizi senza sosta dovranno
provare! La donna è carnefice dell'animo, fuoco di affanni, incendio di follia,
peste, rovina e disastro di qualunque vita serena. Ma no, no: se penso agli interessi
degli dèi celesti, devo cambiare di nuovo parere: infatti, se aggiungi una
donna soltanto al genere umano, quella lì combinerà tanti guai, provocherà
tanti disastri e tante tempeste che sicuramente, oltre a rimanere sconvolta e
distrutta tutta la terra, per colpa sua vacillerebbero anche le fondamenta del
cielo, scosse alla base!".
Allora Giove disse a Momo
ammiccando: "E com'è, Momo, fai il buffone anche quando si parla di cose
serie?". Momo rispose: "Hai ragione, smetto subito di farti divertire
colle mie parole e passo a quel che ci preme. Tu, principe dell'universo, dimmi
una cosa ‑ ti chiedo se la tua cortesia me lo permette: ho un gran
desiderio di venire a sapere se hai deciso di costruire un mondo nuovo per
l'utile tuo, degli dèi o degli uomini. Quanto a me, penso proprio che non ti
manca assolutamente nulla, dopo aver portato a termine una creazione così bella
e perfetta; non vedo neanche il motivo, dopo che ci hai messo tutta la tua cura
e tutte le forze del tuo ingegno per terminare questa, di voler cambiare
qualcosa per rinnovarla, se non in peggio. Se invece è l'interesse del prossimo
a spingerti in un'impresa del genere, e hai deciso di regolarti sui gusti di
quelli per cui ti stai mettendo all'opera, suggerirei di fare prima un sondaggio
d'opinione tra loro, se non vuoi far cosa sgradita proprio a chi vorresti
gratificare, sprecando così mezzi ed energie. Penso che la prima cosa da
verificare sia se vogliono la rivoluzione, o solo le riforme; subito dopo si
dovranno indagare le loro preferenze sul modello di mondo futuro. Frattanto si
dovrà prendere un po' di tempo per la decisione definitiva, separando la fase
di progettazione dalla realizzazione pratica. Del resto, ti resterà sempre la
piena possibilità di rimproverare le loro sciocchezze, uomini o dèi che siano,
e potrai sempre dargli le punizioni che ti sembreranno opportune. Il saggio non
fa mai troppo in fretta quel che si può fare con calma e dopo averci
riflettuto, e ogni azione per troppi aspetti prematura oltre ad andare in fumo può
provocare guai. I voti, infine, li puoi mettere, se ti pare, sul bagnasciuga,
là dove si separano il mare, la terra e l'aria. Se farai così, nessuno di
questi qua potrà dire che gli stai mancando di rispetto, e si eliminerà una
causa di ulteriori litigi, Oltre tutto, così i voti saranno completamente fuori
dei piedi, tanto da poter dire che non sono da nessuna parte".
Giove si lasciò
persuadere facilmente dal suggerimento di Momo, che incontrò la generale
approvazione degli dèi. Ed è per questo che i voti sono sparpagliati in fondo
alle spiagge; anzi, c'è chi dice che siano voti quelle ampolline da quattro
soldi che si trovano lì, luccicanti come fossero di cristallo. Sistemato tutto
in questo modo, gli dèi presero congedo da Giove. Allora la dea Frode, ripensando
al discorso di Momo, non ebbe difficoltà ad intuirne la forte capacità di
eccitare gli animi a qualunque sentimento, e comprese che quel Momo lì, con la
straordinaria esperienza che aveva acquistato nell'arte dell'inganno, era
diventato anche troppo potente nel fingere e sgusciare da tutti i lati. Decise
perciò di guardarsi bene in futuro da avere motivi di rivalità con Momo e, per
conciliarsi il favore del suo avversario, adopera ogni arte per fargli una
faccia dolce, disponibile e amichevole. Momo, memore dell'antica offesa
ricevuta da Frode, continua col massimo puntiglio a mettere in scena quel suo
nuovo ruolo di persona seria. Non è il caso di raccontare nei particolari come
tutti e due si comportarono da grandi artisti della simulazione, prendendosi in
giro a vicenda; alla fine, capitò che la dea Frode in mezzo a tante smancerie
domandasse a Momo cosa glien'era parso di quel po' po' di ricevimento messo su
da Ercole, che aveva avuto il coraggio, unico fra tutti gli dèi, d'invitare a
pranzo l'eccellentissimo principe dei celesti. Momo rispose: "Cosa credi,
che Ercole non sia degno di passare avanti a Momo, e che tu te lo tenga tanto
caro e mi metta da parte?". La dea allora: "Perché fai così, Momo? Io
preferirei un altro a te, con cui da moltissimo tempo ho tanta intimità e tanto
affetto? Ma sorvoliamo! Piuttosto dimmi una cosa, per favore: questo Ercole tu
non l'hai conosciuto in mezzo agli uomini?". Momo rispose: "E va
bene, continua come hai cominciato, corri dietro ogni giorno a nuovi amori: la
dea Frode se lo può permettere. Ma devi proprio fare così? Devi proprio
tormentare di gelosia quelli che ti amano più di se stessi? Ma ama pure il tuo
Ercole, corri dietro ad Ercole, parla di Ercole, non guardare nemmeno Momo: mi
vuoi anche prendere in giro?". Allora la dea si mise a fargli tante moine,
dicendo fra l'altro: "Povera disgraziata che sono, se ti può venire in
mente che io abbia voglia d'innamorati di questo genere! Per me i tipi come
Ercole sono da tenere ben alla larga, montati come sono, con tutte le arie che
si danno per i loro successi, arroganti, inopportuni, che pensano gli sia
dovuto tutto a loro capriccio! Cosa dovrei aspettarmi da uno che ha avuto il
coraggio di invitare in casa d'altri il principe degli dèi, con l'avallo
incondizionato dei suoi colleghi divini? Come potrei star tranquilla dicendo
qualche volta di no a un simile sfacciato, se caso mai mi concedessi a lui?
Sarebbe una schiavitù, non un amore. Io non ho il buon senso di Marte, che
permette a un farfallone come quest'ospite appena arrivato in cielo di far
certe follie in casa sua!". Allora Momo colse al volo l'occasione di dare
una scottatina ad Ercole col marchio dell'ignominia, dicendo: "Ercole non
è certo il tipo che non sa imparare a comandare o a ubbidire, secondo le
circostanze. Non è poi così prepotente da farmi credere che tu lo
detesti". Disse allora la dea: "È vero che Ercole ha dovuto imparare
a ubbidire? Veramente l'avevo sentito dire, ma mi pareva una malignità". E
Momo con un sorriso: "Cos'è che avevi sentito dire?". Frode allora:
"Vuoi farmi far la pettegola, interrogandomi con tanto garbo: ma sono
innamorata, e non mi costa niente accontentare il mio innamorato. Avevo sentito
dire che Ercole, sì, proprio lui, è andato a servizio sulla terra. È vero, Momo
mio, quello che dicono? Perché stai zitto?". Allora Momo, tutto agitato e
con l'aria di chi non ne può più, esclamò: "Che credi, che io resista a
lungo a farmi prendere per fesso da te? Ercole ha offerto un banchetto: che te
ne frega? Ercole fa il magnifico: che te ne frega? Ami Ercole, ecco cosa ti
frega tanto! Però non riuscirai a farmi montare in collera contro di te: ti
amerò anche se non lo meriti, ti amerò anche se non lo vuoi". Con queste
parole, e una faccia più che mai adatta a simulare la rabbia, se la squagliò.
La dea guardandolo allontanarsi mormorava tra sé: "Addio, Momo! Ti hanno
strappato la barba, ti hanno strapazzato per bene ma tu sei tornato dalla terra
più fine di quando eri partito, con tutti i tuoi misteri! Addio, addio!".
Libro terzo
I precedenti libri han
procurato diletto - almeno credo - per la varietà delle situazioni e la
comicità di certi passi: ma in essi dovrebbe esserci anche qualche insegnamento
utile per trovare un ordinato sistema di vita, come si è potuto vedere. I libri
che restano non vanno assolutamente posposti ai precedenti per abbondanza di
motivi comici e originalità di situazioni imprevedibili; e può darsi, se non
m'inganno, che li si possa anche preferire ai precedenti, in quanto i fatti che
essi comprendono sono a un livello più elevato. Vi potrai vedere, infatti, come
la salvezza degli uomini, la maestà divina e il potere universale siano stati
trascinati quasi all'ultima spiaggia, e proverai ammirazione a notare come in
un argomento di estrema serietà come questo ci possa essere anche tanta
comicità.
Ma riprendiamo il filo
del racconto. Giove, dunque, aveva reso noto il suo progetto di mettere in
piedi un altro mondo nell'interesse di uomini e dèi, e tutti gli dèi grandi e
piccoli approvavano col massimo consenso questa decisione. Infatti, come
succede di solito, ognuno guardava ai suoi interessi, interpretando la novità
nel senso del proprio vantaggio personale: e quei celesti che magari erano di
condizione più bassa o in genere estranei al palazzo si lasciavano prendere con
facilità dalla speranza che tutto quel rinnovamento gli avrebbe fornito il
mezzo e l'occasione di fare un bel salto di qualità; invece quelli che godevano
di dignità più elevata pensavano che Giove non avrebbe certo potuto fare a meno
della collaborazione delle massime autorità in un'operazione complessa come
quella: si erano quindi proposti di trarre il massimo vantaggio dalla
situazione per rafforzare la loro posizione. Di conseguenza, gli dèi minori
erano sempre addosso a Giove, cercando con tutti i mezzi di convincerlo a
mettere in esecuzione il progetto; ma anche i più autorevoli dèi appoggiavano
con sufficiente convinzione quella causa, tacendo e facendo qualche cenno
d'assenso: capivano benissimo quale strategia usare col principe, e la praticavano
con abilità. Così si comportavano in modo da coprire con la dissimulazione le
loro avide aspirazioni, ostentando indifferenza proprio per le cose a cui
tenevano di più con qualche osservazione poco impegnativa, in modo che i loro
consigli, quando erano richiesti, sembrassero rivolti al bene del principe e
della collettività più che al loro tornaconto personale. Del resto, tra le più
alte autorità divine c'erano anche dei personaggi accorti, i quali, o perché
collaboravano al lavoro di Giove con serietà e integrità morale, o per il
semplice fatto di ritenere cosa saggia in ogni occasione far previsioni meno
ottimistiche di quanto non consenta l'apparenza, consigliarono Giove di
pensarci su molte volte prima di accingersi a un'impresa di quella portata, per
evitar d'incontrare, strada facendo, qualche intoppo che mandasse tutto
all'aria, e di fare la massima attenzione, per non doversene poi pentire,
soprattutto agli imprevisti che potevano saltar fuori all'improvviso,
provocando risultati ben diversi dalle intenzioni; ma c'erano anche quelli che,
pensando a mantenere i propri privilegi, avevano l'esclusiva preoccupazione di
distogliere Giove dai suoi propositi di rinnovamento generale: per esempio
Giunone, diventata appaltatrice per la grande affluenza di voti, era disposta
ad accettare qualunque cosa, ma non certo lo sterminio dell'umanità, e alla sua
posizione aderivano calorosamente, oltre ad Ercole, che era deputato alla
salvezza degli uomini, Bacco, Venere, la dea Follia e numerosi altri dèi di questo
genere, che erano particolarmente onorati dalla massa dei mortali. Anche Marte
aveva deciso di mettere a disposizione di Giunone tutti i suoi mezzi per la
causa della salvezza umana, poiché aveva progettato con l'architetto Ruggine la
costruzione di un porticato di bronzo che avrebbe dovuto avere cento colonne di
ferro perfettamente limate e rifinite, e tegole d'acciaio per copertura: dagli
uomini, infatti, non solo riceveva ogni giorno materiale in abbondanza, proprio
del tipo che gli serviva, ma si procurava anche calli e sudore con cui levigare
il più possibile le colonne. Perciò questi dèi si davano un gran da fare a
dissuadere Giove e a fargli mille raccomandazioni perché non passasse
all'azione alla cieca.
Un simile sconvolgimento
spingeva Momo a ragionare così fra sé: "È proprio come si suol dire, non
esiste una gioia così grande che non sia piccola se non si ha con chi
spartirla! Come sarebbe grande adesso la mia gioia se avessi qualcuno a cui
manifestarla senza rischi! Come sono felice! Sono riuscito coi miei discorsi a
spingere il principe in un'impresa di questa portata! Finora, però, gli ho dato
solo una spintarella, ora è il momento di farcelo ruzzolare dentro. Ma cosa
dico? Mi attirerò certo l'antipatia di molti! Embè? Ce l'abbiano con me quanto
gli pare, purché io resti caro solo a questo qua! Finché Giove non mi respinge,
finché mi accoglie con questa benevolenza avrò più sostenitori di quanti me ne
servano. Chi non farebbe il matto, stando con un principe che è andato fuori di
senno? Tanto peggio tanto meglio, dicono! E allora tu, Momo, ti metterai come
tutti gli altri a consigliare cose che biasimeresti, se fossero già realizzate?
Ma certo, come no! Mostrerò immediata approvazione a tutto ciò che mi sembrerà
gradito al principe. Ma che dico? Fortunato che sono, ripeto, se con la mia
tattica ho sistemato le cose in modo da sentirmi proprio il re dei celesti!
Cosa non sarà più alla mia portata, ora che ho buttato il sasso in mezzo per
far litigare i potenti col massimo accanimento, ed è molto probabile che
dovranno ricorrere proprio alla mia mediazione? Bisogna che insista su questo
punto. Infatti sarà molto conveniente che quelli di cui temi gli attacchi siano
in disaccordo tra loro. Così, se alcuni di loro ti daranno addosso, cercherai
rifugio dagli altri, e avrai tanti alleati quanti sono quelli alle cui
posizioni avrai aderito. Comunque, mi saprò regolare secondo le circostanze.
Per il momento ho bisogno di guadagnare ancora posizioni nel favore di Giove.
Devo cercar di calmare tutta l'eccitazione che l'ha preso. Ehi! E se gli
passassi quelle bellissime osservazioni sul potere che ho raccolto a suo tempo
frequentando i filosofi, e ho buttato giù in rapidi appunti? Se le leggerà,
egli stesso e la cura dei suoi affari ne trarranno di certo profitto!"
Così pensava Momo. E
Giove? Siccome è vecchia e radicata abitudine di parecchi principi, per non
dire di tutti, voler essere giudicati responsabili e coerenti più che esserlo
per davvero, ecco che si mettono a fare cose che hanno poco a che vedere con
l'esercizio onorato della virtù e molto con il flagello del vizio; è per questo
che non danno il minimo peso al venir meno alle promesse fatte a chicchessia, e
mancando di parola mostrano in tutta evidenza la loro slealtà, e con essa la
loro leggerezza e incoerenza; ma se invece si sono messi in testa di
danneggiare qualcuno, considerano degno della loro maestà e del bastone del
comando assecondare il loro capriccio con la massima puntigliosità e coerenza;
e in questo modo mostrano di preferire l'ostinazione in uno scatto di rabbia al
tener fede ai patti. Anche Giove in quella circostanza non voleva dar
l'impressione d'essersi scordato le antipatie e di non pensare più alle offese
ricevute, vedendo che non riusciva a trovare un modello del nuovo mondo da realizzare
che non gli sembrasse robaccia in confronto all'antico, e rendendosi conto che
le sue competenze e capacità non erano all'altezza del programma che si era
proposto, decise di approfittare dei consigli altrui. Cercava di afferrare al
volo impressioni e idee degli esperti, in modo che, qualora saltasse fuori
qualche osservazione azzeccata, lui non avrebbe avuto alcun obbligo nei
confronti di chi l'aveva fatta, anzi, avrebbe potuto controbilanciare
l'impopolarità dell'azione rinnovatrice con una trovata ad effetto. A questo
scopo intratteneva con discorsi tortuosi ora l'uno ora l'altro dio fra quelli
che giudicava più acuti (e in particolare Momo, l'unico che ritenesse veramente
superiore a tutti gli altri in raffinatezza intellettuale) e intrecciava con
loro lunghe conversazioni che erano in realtà solo un pretesto per adescarli a
tirar fuori le loro impressioni. Non ne trovava nessuno di cui potesse lodare
lo zelo, pochissimi davvero avevano un ingegno superiore alla media ed erano
molto rari quelli che non si tenessero alla larga dalla fatica di pensare e
dalla passione per la ricerca: tutti comunque si comportavano, com'era facile
capire, in modo di dare a Giove l'impressione di saperla molto più lunga di
quanto non fosse. Quasi tutti erano comunque del parere che si dovessero
consultare i filosofi, di cui sulla terra si dice che sanno tutto; sulle
importantissime questioni che erano in gioco, infatti, quelli avevano scritto
volumi su volumi e avevano fatto continue, approfondite ricerche; non c'era problema
da discutere di fronte a cui si tirassero indietro; con l'intelligenza e la
cultura che avevano erano capaci di risolvere qualsiasi difficoltà, bastava che
ci mettessero un po' di applicazione.
Giove, sentendo che i
filosofi erano esaltati in quel modo dal cielo intero, fu preso da un
indescrivibile desiderio di parlare personalmente con loro. Anzi, se non
l'avesse trattenuto il timore di accumulare nuovi motivi d'invidia oltre ai
vecchi, probabilmente avrebbe preso volentieri la decisione di cooptare le
consorterie di filosofi tra gli dèi del cielo, per aumentare l'onore del
parlamento divino con la luce emanante da tanti chiarissimi gentiluomini, e
consolidare la sua posizione di preminenza grazie ai consigli del fior fiore
dei saggi. Prevalse però la considerazione che lui non era certo abituato ad
avere al suo fianco gente a cui c'era poco da comandare, anzi c'era da
ubbidire, data la loro serietà veramente ragguardevole, e che bisogna
circondarsi soprattutto di persone da cui ci si sente rispettati e temuti, non
di tipi da trattare coi guanti. Egli inoltre respingeva quelli che gli potevano
insegnare ad operare rettamente, mentre preferiva dare il suo favore a quelli
che non respingevano mai i suoi ordini. Alla luce di questi ragionamenti, passava
un sacco di tempo a riflettere su chi dei suoi mandare a consultare i filosofi:
la sua ricerca gli fece toccar con mano quanto se la passasse male, visto che
tra tanti suoi cortigiani non se ne poteva trovare uno a cui affidare un
incarico così rappresentativo. Osservò con rammarico che tutti i suoi erano
talmente rozzi e impreparati da essere completamente digiuni di studi
superiori: non conoscevano una sola cosa degna dell'uomo, a parte quelle che
avevano imparato con una lunga pratica di sottomissione: essere al loro posto a
palazzo reale in grande eleganza, stare impalati vicino al principe, ricevere
le visite tirando fuori un sacco di salamelecchi, raccontare storielle, leccare
i piedi, intrattenere a vuoto; gli veniva quasi voglia di toglierseli di torno
tutti quanti! Però riteneva tutt'altro che conveniente ai suoi scopi scegliere
elementi nuovi di cui non conosceva bene la personalità. Quindi, per non
doversi affidare alla discrezione altrui soprattutto in una faccenda come
quella, che avrebbe voluto coprire col segreto di Stato, decise di metter via
l'abbigliamento regale e di raggiungere da solo, in incognito, i filosofi, per
consultarli, ma anche per poterli vedere da vicino. Prima però, volendo
apprendere generalità, caratteristiche particolari e domicilio dei filosofi più
importanti, s'intrattenne un pezzo con Momo e, gettando l'esca con lunghissime
chiacchiere, riuscì a prendere all'amo qualche notizia utile. Nel corso di
questa conversazione Momo tirò fuori dal petto i suoi blocchetti di appunti e
li porse a Giove dicendo: "Per la fedeltà e l'amore che ti porto, Giove,
ho ritenuto mio dovere dedicare un po' del mio impegno, nei limiti delle mie
capacità, al successo della tua politica: ho tentato perciò di approfondire
problemi che ritenevo riguardassero da vicino l'altezza del tuo potere. Tu,
quando avrai tempo, potrai prender visione delle mie riflessioni in questi
quaderni su cui le ho riportate, a patto che tu voglia accettare come pegno di
fedeltà anche tutte quelle osservazioni che non ti convincono".
Giove prese i quaderni
ma, congedato Momo, non li aprì nemmeno e li buttò in un angolo del suo studio
senza badarci più di tanto; poi si preparò a partire, tutto pieno di
eccitazione. Alla fine, però, dovette pentirsi amaramente d'aver fatto un
simile pellegrinaggio: infatti, appena giunto sulla terra capitò nell'Accademia
e vi trovò una quantità di strani personaggi che giravano di qua e di là
perlustrando tutti gli angoli, come se stessero cercando un ladro che si era
nascosto la notte. Vedendoli in preda a tanta agitazione Giove si stupì e
rimase fermo all'ingresso dell'istituto. Ma poi, quando vide che tenevano tra
le dita certe lucciolette a luce rossa e le usavano come lanterne nella
penombra, attaccò a ridere, finché uno dei ricercatori non lo interruppe
dicendo: "Ehi, bel tomo, sei venuto anche tu a cercare il nostro Giove dei
filosofi!". "A cercare chi?" domandò Giove; e quelli subito:
"Platone, il prodigio di natura! Siamo sicuri che si trova qui in
istituto, ma non sappiamo dove trovarlo. Qualche volta abbiamo avuto la
sensazione di sentire la sua voce, e a volte ci è parso anche di avere la sua
faccia sotto gli occhi; ma lui, nisba! Un momento… Dov'è la tua
lucciola?". A queste parole Giove cominciò a sospettare e a spaventarsi, pensando
che quelli là, di cui s'era messo in testa che sapevano tutto, anche le cose
più occulte, potevano svergognarlo con quella messinscena, rinfacciandogli di
aver celato così male il sacro distintivo divino che si capiva chiaramente di
essere di fronte a un dio, anche se non lo si poteva riconoscere abbastanza
chiaramente. Perciò andò via di là, cominciando già a brontolare per l'idea di
partire che gli era venuta. A un tratto, passando per un vicolo, notò in un
cantuccio un tale che si rotolava dentro una botte puzzolente che era tutta un
rottame, sbadigliando con la bocca a voragine; avvicinandosi a guardare con
meraviglia l'uomo raggomitolato nella botte, gli fece casualmente ombra. Allora
quel tipo chiuso là dentro gli fece certi occhiacci e lo apostrofò con una voce
spaventosa: "Levati dai piedi, curioso che non sei altro! Visto che non mi
puoi dare il sole, almeno non me lo togliere!". A questo punto Giove,
irritato dalla scontrosità di quel rifiuto umano, si dimenticò per la rabbia
della sua missione segreta ed esclamò: "Io ti posso dare il sole eterno e
te lo posso togliere quando mi pare!". Appena quello ebbe sentito, tirò
fuori la testa dalla botte come una tartaruga e cominciò a gridare:
"Accorrete paesani, venite qua!", finché non si radunò di corsa un
mucchio di operai; allora aggiunse: "Afferrate questo qua, è Giove!
Fategli riempire di sole i vostri bassi e le vostre baracche!". Allora
Giove, ricordando le disavventure di Momo e della dea Virtù, si aspettava
qualsiasi colpo basso da quella massa di arroganti che lo circondava, e pensava
che se la sarebbe cavata a buon mercato se avesse pagato la sua assurda
decisione perdendo mezza barba e basta. Ma uno di quelli che si erano raccolti
intorno, un padre di famiglia, gran brava persona, vedendolo atterrito e tutto
tremante disse: "Forestiero, lascia perdere questo filosofo cinico che fa
la vita che si merita, dato che ha deciso di non tenersi nient'altro che la
possibilità di insultare e dar morsi a tutti". Ma Giove, appena seppe che
quello lì era un filosofo, aggiunse naturalmente un nuovo motivo di sospetto
alla fifa che aveva, pensando di essere stato riconosciuto di nuovo. Pensò
quindi che fosse la cosa migliore filarsela di corsa alla larga da tutto quel
popolino accalcato.
Mentre si allontanava, si
accorse che in fondo a un avvallamento appena fuori le mura stava seduto un
tale in mezzo a ripugnanti carogne di animali, forse cani forse topi, intento a
squarciarle ad una ad una con un coltello da macellaio e a farle a pezzi.
Siccome l'operazione gli era parsa stupefacente per un verso e ridicola per un
altro, si avvicinò per rendersi conto meglio e si fermò vicino. Ma quell'uomo
non era smosso per niente dall'arrivo di Giove; però ad un tratto, sentendo
venire da una casa vicina il grido lamentoso di una donna che piangeva la morte
del figlio, smise per un po' di sezionare animali e disse, guardando in faccia
Giove con un sorriso: "Serve a molto volere l'impossibile?". Giove
pensò che quella frase non si riferisse ‑ com'era in effetti ‑ alla
donna, che forse avrebbe desiderato che suo figlio fosse immortale, ma a lui.
Se ne andò dicendo: "Che malattia gli ha preso, agli uomini? Anche i pazzi
si mettono a fare i filosofi!"; e ormai aveva deciso di tornarsene in
cielo, a scanso di guai peggiori.
Uscendo dalla città,
mentre passava a fianco di uno steccato che recingeva, con una siepe, il
giardino di una casa, caso volle che gli sembrò di sentire dentro alcune
persone che discutevano l'argomento dèi, e si scaldavano parecchio nella
polemica. Si fermò. A un certo punto uno dei contendenti alzò di più la voce e
attaccò a dire: "Perché vi siano chiare le mie opinioni, le espongo così:
l'universo non è certo opera artigianale, né tanto meno si possono trovare
architetti capaci di un lavoro così immenso; in effetti, questo mondo è
immortale ed eterno, e siccome vi si possono osservare molti aspetti che
sembrano porzioni di una sostanza divina, allora quest'intera costruzione in
movimento è dio. Se c'è un solo dio in natura, mortale o immortale, chi sarebbe
disposto ad obiettare che il mondo è destinato a finire? Forse crederà che un
dio possa impazzire, o sarà pazzo lui, piuttosto, a pensare che un dio non
voglia la conservazione di opere così grandi e perfette, ma la loro
rovina?". Un altro obiettò: Io invece la penso così: nello spazio profondo
infiniti mondi si formano e si logorano continuamente per effetto
dell'aggregazione di particelle infinitesimali di materia". "Allora
tu" intervenne un altro "escludi gli dèi? Bada che non stiano a sentire
quanto sei empio: ogni cosa, infatti, è piena di divinità".
Sentendo queste ultime
parole Giove rimase a bocca aperta e, data la sua fissazione, non la finiva più
di chiedersi meravigliato da dove quella razza d'uomini avesse ricavato una
tale chiaroveggenza da riconoscerlo per quanto si fosse nascosto
accovacciandosi dietro la siepe di recinzione. "Non è possibile"
disse "che io resti a lungo qui sulla terra senza danni": si diresse
allora verso il cielo con la testa piena di una tale idea dei filosofi da farlo
ardere dal desiderio di sapere quali conclusioni avrebbero tratto quei saggi a
proposito del suo progetto: non aveva dubbi che quelli sapessero e potessero
qualsiasi cosa, anche la più enigmatica e difficile, dopo che ne aveva avuto
così chiara dimostrazione col fatto di averlo riconosciuto; e quell'idea era
rafforzata dall'aver visto nell'Accademia, tra quegli uomini in cerca, alcuni
personaggi dalla splendida barba, elegantemente vestiti e con la porpora sulle
spalle, avanzare con passo quasi etereo, lo sguardo serenamente assorto, tanto
che li riteneva degni di salire in cielo a tener lezioni agli dèi. Ma siccome
voleva tenersi per sé la gloria dell'operazione come aveva deciso, e si rendeva
conto che con la sua sola testa non ce l'avrebbe fatta, ebbe un'alzata d'ingegno.
Fece venire Mercurio e gli ordinò di andar giù sulla terra a prendergli la dea
Virtù: non stava bene, infatti, non aver messo a parte di una questione così
importante una dea di tanto riguardo, la migliore di tutte. Mercurio rispose
che non era facile rintracciare la dea, non tanto ben accetta agli dèi del
cielo né a quelli dell'oltretomba, che probabilmente aveva fatto perdere le sue
tracce proprio per questo motivo. Disse allora Giove: "Se non sbaglio la
troverai in mezzo ai tuoi amici filosofi, che le si sono interamente
dedicati". Mercurio rispose: "Non credere di poter trovare
millantatori come quelli! Per fartela intendere, io stesso qualche volta ho
chiesto a quelli là se avevano visto la dea, perché sono affezionato a Virtù;
quelli giurano che lei è in grande intimità con loro, però, stringi stringi,
non c'è mai". E Giove: "Tu comunque vai e domanda: bisogna fare
così". Giove si comportava in questo modo perché sapeva quant'era curioso
Mercurio, e come gli piaceva stringere continuamente nuove relazioni ospitali e
nuovi rapporti d'affari; immaginava perciò che il dio linguacciuto, in mezzo
alle chiacchiere che avrebbe fatto, com'era sua abitudine, sulle faccende
divine che sapeva e anche su quelle che non sapeva, avrebbe potuto afferrare
qualche informazione e gliel'avrebbe riferita, a tutto vantaggio dei suoi
progetti.
Nel frattempo tra i
celesti le passioni di parte e le rivalità tra le correnti erano degenerate al
punto che tutto il cielo era diviso in non meno di tre schieramenti. Da una parte
Giunone, che smaniava dalla voglia di costruire, metteva assieme con le buone o
con le cattive un esercito, il più ampio possibile, di sostenitori, e lo teneva
in riga con la parola d'ordine di difendere la salvezza degli uomini;
dall'altra parte si formava spontaneamente uno squadrone di dèi di basso ceto e
di tutti quelli che non se la passavano come avrebbero voluto: questi però
coprivano lo smodato desiderio di mutamenti che li infiammava con la maschera
della buona intenzione di far cosa gradita al principe degli dèi. Al centro
dello schieramento stavano quelli che ritenevano grave e pericoloso mettersi
alla testa di una massa indistinta e superficiale, ma non erano disposti a
calar la testa di fronte ad un dio qualunque di bassa estrazione: essi si erano
proposti di aspettare tranquillamente l'esito di quelle lotte, con l'intenzione
di scegliersi al momento opportuno e in tutta sicurezza il partito in cui
entrare di corsa, e muoversi in modo da spingere l'evolversi della situazione
nel senso da loro desiderato. Tutti quanti insieme stavano appresso a Giove a
chiedergli la medesima cosa, ma coi pretesti più svariati: c'era chi andava a
congratularsi quando le cose marciavano secondo le sue aspettative, chi cercava
d'intervenire in tempo se non andavano per il verso voluto, chi di afferrare al
volo eventuali buone occasioni. La sostanza, però, era sempre quella:
aspettavano che Giove si decidesse a comunicare le sue decisioni sul
rinnovamento universale.
In questa situazione
Giove, per togliersi di mezzo quella seccatura continua dei postulanti, fidando
soprattutto nel buon esito della missione di Mercurio (era convinto di ottenere
un successo sbalorditivo presentando a quella massa di dèi ignorantoni qualche
splendida trovata dei filosofi), comunicò che alle prossime calende celesti
avrebbe esposto in un pubblico discorso le sue decisioni, dando soddisfazione a
tutte le categorie divine. Ma la speranza riposta in Mercurio lo deluse molto:
arrivato sulla terra, infatti, Mercurio s'era tolto i calzari alati e si era
diretto verso l'Accademia, ma nella stessa piazzetta dove sorge quella fabbrica
di filosofi s'era imbattuto nel filosofo Socrate solo soletto: vedendoselo
davanti scalzo e col vestito consumato, pensò che fosse un popolano qualunque,
e quindi gli si presentò in tutto lo splendore del viso e della sua natura
divina. "Ehi, buon uomo!" disse. "Dove sono quelle persone che
fanno diventar gli uomini colti e buoni?". Socrate, che era uno di
compagnia, veramente spassoso, osservando quel giovane forestiero di
straordinaria bellezza, con quella sua abile maniera di discorrere che era per
lui ormai istintiva cominciò a fargli partorire chiacchiere una dopo l'altra,
finché venne a sapere che quello era Mercurio, e la ragione precisa per cui era
venuto, e che cosa stessero preparando i celesti, tutto insomma. Nel frattempo
arrivavano alla spicciolata gli allievi di Socrate, e quando Socrate vide che
ce n'erano a sufficienza, lui per primo mise le mani addosso a Mercurio
urlando: "Venite, amici cari! Acchiappate questo qui! Sarà un giovane di
nobili sentimenti, ma è matto, matto da non credersi, matto come non se ne son
visti mai! Che sciagura la condizione i umana! Quante vie per scombussolarci il
cervello sa trovar la follia! Cosa c'è da commiserare in quelli che escono
pazzi per amore, per l'odio, per le ambizioni e le voglie? Cosa c'è? Questo qui
va dicendo in giro che è Mercurio e l'ha mandato Giove a cercare dov'è la dea
Virtù raminga fuori del cielo, e che i celesti si preparano a distruggere
l'universo per rimetterlo a nuovo! Che razza di follia è mai questa?". A
sentire queste parole quelli che avevano afferrato Mercurio si sbellicavano
dalle risa e non facevano molto caso a sorvegliarlo; allora Mercurio, che aveva
piedi lesti, se la squagliò, e andò a finire, guarda caso, nel vicolo dove
abitava Diogene dentro la botte. Allora si fermò, stanco per la corsa, in quel
posto appartato dove non lo vedeva nessuno. Intanto un disgraziato figlio di
mignotta, ubriaco per giunta, levò il bastone che si portava dietro contro la
botte di Diogene ‑ già quasi alla fine, vecchia e fradicia com'era ‑
e la fracassò colpendola a tutta forza, dopo di che sparì di gran carriera.
Diogene, incazzatissimo per quella provocazione, saltò fuori dalla botte
scassata e, non vedendo nessun altro che Mercurio seduto, lo assalì brandendo
lo stesso bastone che l'aveva colpito. Mercurio, atterrito da quell'inopinato
assalto, gridava con tutta la sua voce: "Aiuto! Soccorso!" alla gente
del quartiere, poi esclamò urlando, rivolto a Diogene che l'aveva picchiato:
"Come ti permetti di fare una simile ingiustizia verso un uomo libero che
non ti ha fatto niente?". Diogene ribatté: "Come ti permetti tu di
lamentarti, se ti prendi da un servo quello che ti meriti? Tu, svergognato, tu,
farabutto, sei stato tu ingiusto, che hai avuto il coraggio di stuzzicare uno
che se ne stava per i fatti suoi, e gli hai distrutto la casa, l'hai strappato
al suo focolare! Tua, sì, tua è questa intollerabile ingiustizia! In quel che
ho fatto io non c'è ingiustizia, semmai c'è un errore, perché avevo mirato alla
testa col bastone, non alla guancia!". Alle grida di Mercurio erano
accorse un paio di persone che, appreso il fatto, lo invitarono a non
prendersela troppo con un filosofo di quel genere. Poi si misero a rimproverare
Diogene facendogli presente che non stava bene, per uno che si professava
filosofo, non saper frenare la rabbia, e che era una colpa per lui non esser
completamente privo di un difetto comunemente tanto biasimato; e poi non c'era
cosa più vergognosa di un poveraccio senz'arte né parte che va fuori di senno
per incapacità di sopportazione. Allora Diogene sbottò: "Ecco cosa mi
tocca sentire! Si mettono a dar consigli proprio quelli che vorrebbero che io
mi comportassi nei fatti miei come loro non si sanno comportare in quelli degli
altri. Mi si ordina di sopportare con pazienza il mio dolore, quando non si
riesce a mantenere un po' di controllo davanti a quello altrui!"
Mercurio, allontanandosi
nero di bile, rimuginava così: "C'è da dar retta a chi sostiene che questo
genere umano è pieno di saggezza perché maneggia tanta carta scritta, se alla
prova dei fatti è una massa di forsennati? Mi domandavo come può essere che
alla loro saggezza non sia unito un minimo d'amor proprio. Vanno in giro mezzi
nudi, vivono in mezzo alla sporcizia, abitano nelle botti, soffrono il freddo e
la fame. Chi li potrebbe sopportare, se loro stessi non si sopportano? Si
privano di tutto ciò che gli altri desiderano. Ma non è una pazzia non volersi
giovare di tutto quel che serve a vivere un po' più decentemente, al contrario
di tutti gli altri mortali? Se credono di essere più saggi degli altri in una
cosa del genere, questa è superbia, è una follia che mi fa pensare che essi
commettano altrettanti errori anche in tutte le altre cose di cui si dichiarano
grandi conoscitori. E se si rifiutano di esser simili agli altri uomini nei
doveri della vita civile, vuol dire che una specie di brutalità selvaggia li ha
invasati! Ma lasciamo al loro destino questi zozzoni, finché gli va di vivere
in un modo così poco piacevole seguendo le loro odiose astruserie
filosofiche!".
Fatti questi
ragionamenti, tornò dai celesti, salutò Giove e disse ridacchiando: "Ero
andato a spiare le intenzioni degli altri e ho trovato uno che mi ha strappato
tutti i miei segreti!". Giove, vedendo Mercurio di ritorno così presto e
con una guancia livida, gliene chiese conto e ragione; e non è facile dire se
il racconto di quel viaggio gli procurò più piacere o dolore: piacere a sentire
tutta quella storia spassosa, dolore a rendersi conto di essere sempre al punto
di partenza. Quando ebbe parlato per un pezzo con Mercurio, che non la finiva
più di lanciare ogni sorta d'improperi contro i filosofi, Giove disse:
"Stai attento, questo tuo parlar troppo può essere un grosso errore, e
forse per questo motivo quelli che tu criticavi te l'hanno fatta pagare come ti
meritavi. So quel che dico: quelli là sanno un sacco di cose misteriose, più di
quanto tu creda. E se si fossero accorti, con le loro doti di investigatori, che
tu, Mercurio, hai la brutta abitudine di accusarli davanti a me, dicendo che
sono dei ciarlatani?". Mercurio rimase piuttosto preoccupato a queste
parole, e preferì cambiare aria. Allora Giove si mise a fare il punto della
situazione e, in tanta penuria d'idee, si attaccò alla prima che gli venne in
mente. Convoca a porte chiuse Apollo, l'unico di tutti gli dèi che riteneva
molto saggio e molto affezionato a lui, e lo mette al corrente dello stato
d'emergenza: non mancava molto alle calende fissate, e non aveva elementi per
stendere il decreto da notificare all'assemblea generale degli dèi: insomma gli
espone proprio tutto, tranne il viaggio suo e di Mercurio dai filosofi. Lo
prega infine di prestare tutto l'appoggio possibile alla sua politica, giunta
ormai quasi al punto critico. Apollo promette d'impegnarsi con tutto il suo
zelo e la sua operosità nella difesa dell'autorità di un principe che era stato
sempre così affettuoso con lui, nei limiti delle sue capacità di fronte a
un'impresa così grossa; ma di sicuro non gli sarebbero mancati fedeltà e
scrupolo, e non si sarebbe tirato indietro di fronte a fatiche, pericoli,
difficoltà di ogni sorta pur di assicurare il successo a Giove. Lo invita poi a
valutare se i suoi progetti si accordavano con certe idee che gli erano venute
in mente. Infatti sulla terra c'è un tipo particolare di uomini, chiamati
filosofi, parecchi dei quali si sono cimentati nel tentativo di ipotizzare
nuovi modelli di mondo assolutamente originali; egli intendeva andarli a
consultare, non avendo perplessità, in una situazione così incerta, a ricorrere
alla competenza di tecnici dotati di una preparazione ad altissimo livello.
Giove allora abbracciò Apollo e lo baciò, dicendo: "Ora sì che posso
cominciare a respirare di sollievo grazie a te, Apollo! So come sei preciso e
attivo: mi aspetto da te tutti gli interventi più opportuni a sostegno di
questa causa. Vai, procedi pure, e io ti farò vedere che avrai lavorato per uno
che si ricorda dei favori che gli fanno". Allora Apollo, preparandosi a
partire, domandò: "Ti serve qualcos'altro? Non fare complimenti!".
Giove rispose: "Be', sì veramente: tra i mortali c'è un certo Democrito,
famoso perché taglia a pezzetti gli animali; se sia pazzo o sano di mente, i
pareri sono discordi: c'è chi lo vuole un filosofo, chi uno strampalato. Io
vorrei proprio assicurarmi del valore di quest'uomo". E Apollo: "Ma
che importanza ha? Che c'entra col tuo problema principale, quello di rinnovare
il mondo? Comunque, me la sbrigo subito: fai conto di saperlo già". Allora
tirò fuori questi versetti dalla borsa dove conservava gli oracoli:
Qual messe o frutto dà la
terra arata?
La gloria cos'è mai, se è
gloria e basta?
Letti i versetti,
esclamò: "Questo qui è il più stolto di tutti i mortali!". Giove
ridacchiò e disse: "Per favore, tira fuori un altro oracolo e guarda se
quello che ho nominato è un saggio o un dissennato". Apollo tirò fuori
questi altri versetti:
Sapere avrei voluto
quanto danno
fa un colpo sfortunato.
“Allora" disse
"è proprio il più saggio di tutti!". A questo punto Giove esclamò,
ridendo a crepapelle: "Che buffone! Cosa dovrei dire di questi tuoi
oracoli che hanno il potere di trasformare di colpo Democrito da stolto a
sapientissimo? Non potevi trovarne una diversa?". Apollo replicò: "Ma
se è chiarissimo cosa vuol dire! Ora ti spiego: all'interrogazione di Apollo, a
cui spetta illuminare il giorno, l'oracolo ha risposto dicendo che tipo è
Democrito di giorno; invece poi a quella di Giove, a cui spetta tutto, tolto
quel che ha distribuito agli altri, l'oracolo ha esposto, chiaro come l'acqua,
com'è Democrito in tutto il resto del tempo: così, bisogna che ci convinciamo a
questo punto che quell'uomo di notte brilla di saggezza, di giorno
sragiona". Risero, poi Apollo andò via.
Giove, pieno di speranza,
aspettava le calende con grande eccitazione. Quando queste arrivarono, gli dèi
si radunarono a frotte, tutti contenti, nell'atrio della reggia, come facevano
di solito in tali ricorrenze, e stavolta anche in attesa del suo discorso, però
Apollo non si vedeva proprio: allora Giove era lì lì per crollare dallo
sgomento. I Fati, che avevano il compito di badare ai fuochi sacri, si stavano
già preparando a eseguire il cerimoniale. Dalla parte opposta c'era una folla
fittissima di dèi che chiedevano a Giove di tenere quel famoso discorso che era
il principale motivo per cui erano venuti. Lui non se la sentiva di affrontare
un pubblico così ansioso, dato che non aveva preparato neanche qualche appunto,
però pensava che non fosse conforme alla serietà di un principe, e nemmeno
tanto conveniente, mettersi sotto i piedi il suo stesso decreto che fissava il
discorso: si rendeva conto di come fosse importante per Giove non esser
minimamente considerato volubile e incostante, e di quanto convenga ai
governanti far quadrare tutti i loro conti, per così dire, se vogliono dormire
fra due guanciali, sicuri d'aver preso decisioni giuste ed equilibrate. Quindi,
per dar qualcosa da fare a quegli dèi impazienti, creando magari un po' di
confusione, in modo da intrattenerli per un po' distraendoli da quella faccenda
per lui così complicata, ordina ai Fati di dare inizio alla cerimonia: lui
sarebbe arrivato subito e avrebbe pensato a sbrigare tutto il resto. Ecco
dunque i Fati in alta uniforme, impettiti con una mano alle porte, passare in
rassegna le file di dèi e di dèe che entravano, e ravvivare a tutti i celesti
le fiammelle sacre che, come s'è detto, stanno alla sommità della loro testa in
segno di divinità. Intanto Giove, mentre cerca di far passare il tempo chiuso
in una stanza appartata, piomba in fondo alla depressione. Alla fine esce, più
per far qualcosa che sapendo cosa fare, ed entra nel sacro parlamento. Allora,
terminata la cerimonia rituale secondo le sacre tradizioni antiche, i
parlamentari divini cominciano a rendere omaggio a Giove, e intanto si comincia
a notare l'assenza di Apollo, in pratica l'unico assente fra tutte le più alte
personalità: anzi, c'era chi iniziava a irritarsi per quella mancanza di
riguardo. Giove non poteva giustificare l'assente, ma nemmeno sopportare con
calma quelli che lo accusavano: perplesso più che mai, cercava di prender tempo
in tutti i modi. Alla fine ebbe l'idea di nominare Momo presidente
dell'assemblea, non perché lo ritenesse degno di tanto onore, ma per far vedere
a certi dèi sfacciati e presuntuosi che lui aveva tutte le buone intenzioni di
favorire quelli che imparavano a non pretendere di dare ordini, ma ad essere
accondiscendenti e ossequiosi. Gli ordina allora di far entrare in sala le
diverse classi di dèi, di far sedere tutti al loro posto e di farsi suo
portavoce davanti all'adunanza, riferendo che Giove desiderava che le sue
azioni e i suoi progetti incontrassero la massima approvazione generale, perciò
aveva deciso di regolarsi secondo le preferenze di tutti, nessuno escluso, per
quanto gli era possibile; di conseguenza, prima di manifestare la sua decisione
voleva accertarsi se c'era qualcosa che essi intendevano conservare di
quell'enorme massa che era il mondo, per trasferirla integralmente nella nuova
realizzazione, o se preferivano buttar giù tutto quanto riducendolo ai minimi
termini. Giove voleva che sull'intera questione si aprisse un dibattito franco
ed aperto, in cui ciascuno avesse la massima libertà di esprimere le proprie
opinioni su quello che riteneva più conveniente tanto nell'interesse personale
quanto in quello generale: egli non sarebbe stato presente alla seduta per una
scelta di opportunità, volendo evitare che gli dèi di condizione inferiore e
quelli non avvezzi a parlare in pubblico s'intimidissero per la presenza del re
e magari si sentissero impacciati a manifestare le proprie impressioni. Questa
delega fu all'origine di grosse grane impreviste. Forse Momo, acuto e sveglio
com'era, aveva il presentimento di quello che sarebbe accaduto, ma non aveva il
coraggio d'infastidire Giove dandogli nuovamente consigli, dopo che gli aveva
già prestato la sua consulenza per iscritto su quei famosi quaderni; tuttavia
era convinto che si dovesse in qualunque modo toglier di testa a Giove quella
sua smania di voler cambiare il mondo. Disse perciò: "Giove, potresti
dirmi per cortesia se hai letto il manoscritto che hai avuto da me qualche
giorno fa?". "Ne parliamo dopo", fece Giove "ora pensa alle
cose urgenti". Giove non si ricordava nemmeno che gli fosse stato dato un manoscritto.
Momo trovò i parlamentari
con una gran voglia di mettersi al lavoro, e talmente ben disposti per il
desiderio di novità che quasi non credeva ai suoi occhi vedendoli mettersi in
ordine e far silenzio così di buon grado; ma non appena cominciò a espletare il
mandato di Giove esercitando le sue funzioni di presidente dell'assemblea,
sentì subito che c'era stato un grosso cambiamento nello stato d'animo di tutti
quanti, e non sarebbe stato possibile trovare altri motivi per aumentare il
malumore impresso su quelle facce. È appena il caso di ricordare quanta invidia
verso Momo e quante recriminazioni nei confronti di Giove furono suscitate da
quella nomina, sia tra le personalità di prestigio sia tra gli dèi d'infimo
grado: non ce n'era uno a cui la vista di Momo non provocasse fastidio e
irritazione, non fossero moleste le sue parole, antipatico il suo modo di fare;
l'odio contro Momo s'infiammava a tal punto che questi si sentiva gridare
insulti sul muso, e dovunque girasse gli occhi vedeva gente che si metteva a
fischiare e a far gestacci per provocarlo. Però tutti, per quanto eccitati al
punto di trattenersi a stento dal fare a pezzi gli scranni per armarsi e
assalire Momo, cercavano di controllare la loro rabbia per paura del sommo
Giove.
Finalmente, su richiesta
dell'assemblea, prese la parola per primo Saturno, con una voce così
impacciata, parole così rade e movimenti così stanchi che il suo si sarebbe
detto un tentativo di discorso più che un discorso: pochi riuscirono ad
afferrare qualcosa di quel mormorio; alcuni comunque riferivano che Saturno
aveva detto che si scusava se l'età avanzata non gli permetteva di parlare
meglio, dato che aveva i fianchi e il petto rovinati, era senza fiato, la
vecchiaia l'aveva rattrappito e gli aveva consumato le forze. Subito dopo prese
la parola Cibele, la madre degli dèi: tentennò a lungo, deglutendo in
continuazione come tutte le vecchie, e alla fine, dopo essersi osservata per un
pezzo le unghie, disse: "In effetti, era proprio il caso di riflettere su
problemi così gravi ed insoliti!". Il terzo intervento fu quello di
Nettuno: questi divagò in lungo e in largo a forza di banalità e di luoghi
comuni, parlando con voce stridula, con un tono sgradevole, quasi alla maniera
di un attore tragico, e riuscì a dar la sensazione di aver discusso di tutto,
tranne dell'argomento all'ordine del giorno. Venne poi il turno di Vulcano, il
quale concentrò tutto il suo intervento sulla vibrante affermazione che era
proprio ammirato di vedere nel novero degli dèi tanti elementi così ingegnosi
che sapevano trattare con competenza e precisione i problemi per cui era stata
convocata l'assemblea. Marte poi, quando toccò a lui, dichiarò che l'unica cosa
che aveva da dire sull'argomento era che lui si sarebbe tenuto pronto a intervenire
in qualsiasi momento sotto il comando supremo di Giove, e avrebbe prestato la
sua opera nella distruzione totale del mondo. Il discorso di Plutone sembrò
ispirato a una certa avidità: fece sapere, infatti, che lui disponeva di nuovi
modelli di mondo davvero splendidi, ed era pronto a esibirli, se si fossero
accordati sul prezzo, dato che aveva deciso di non concedere le sue prestazioni
professionali senza la prospettiva di un guadagno. Ercole, ora che gli si
presentava l'occasione di fare davanti a un'assemblea così numerosa e ricca di
personalità di prestigio quel discorso di autocelebrazione che si era preparato
da un pezzo, non se la lasciò certo sfuggire: esaltò con un sacco di paroloni
le sue imprese, e promise grandi cose per l'avvenire; in conclusione, dichiarò
di rimettersi al parere di Giove sull'intera faccenda. Venere fece ridere
tutti: assicurava di aver escogitato certe novità che erano proprio capolavori,
però un piccolo particolare era di grosso impedimento: comunque avrebbe
consultato lo specchio, il migliore dei maestri. Diana s'impegnò a reperire un
architetto bravissimo: però i professionisti di quella categoria non erano
disposti ad accettare le osservazioni degli incompetenti, volendo evitare che
altri, tanto per dare l'impressione d'aver fatto qualcosa, rovinassero e
deturpassero con interventi di modifica le loro elaborazioni artistiche. Più
avveduta fu giudicata Giunone, che proponeva di fare parecchi mondi di forme
svariate, fino ad esaurimento delle scorte. Quando arrivò infine il turno di
Pallade, essa, recitando la parte concordata in precedenza con Giunone e gli
altri compagni di fronda, dichiarò di dover necessariamente conferire con Giove
in persona; a quel punto saltarono in piedi diversi dèi (ai quali il piano
fraudolento che era stato preordinato assegnava questo compito) a protestare ad
alta voce, criticando la superbia di Pallade, che riteneva una simile assemblea
di personalità divine indegna di ricevere comunicazioni su progetti elaborati
nel comune interesse; quella ribatté stizzita; allora molti, eccitati dalle
passioni di parte, lasciarono i banchi e cominciarono a scambiarsi invettive,
dando vita a una mischia schiamazzante. Momo, vedendo quella gazzarra e quella
confusione tra i banchi, richiamava all'ordine ora l'uno ora l'altro con quella
sua voce tonante che superava tutte le altre, gridando a tal punto che in mezzo
a quell'assemblea così affollata si sentiva solo lui. Dopo aver fatto invano
ripetuti tentativi di riportare la calma nell'assemblea, irritato da quella
situazione indecorosa cominciò a trascendere, al punto che la rabbia gli fece
perdere il controllo di quello che diceva: per esempio, disse che non avevano
avuto torto i mortali a prescrivere, con una norma antichissima e solenne,
l'interdizione perpetua delle donne dai pubblici uffici; e addirittura esclamò:
"Quale tana d'ubriaconi si può paragonare a questo casino?". La
frase, udita dall'intera assemblea, colpì gli animi già gonfi di rabbia di
tutti, che del resto ce l'avevano con lui fin dall'inizio della seduta; ecco
cosa dicevano: "Ah, è così? Momo con quella barbetta morsicata è stato
richiamato dall'esilio per ergersi a nuovo censore, con nostra vergogna?".
La dea Frode, cogliendo
un tale stato d'animo dell'assemblea, pensò di sfruttare la circostanza: ecco
che va di corsa da Giunone e esorta con insistenza a tenere a freno quella
belva scatenata che permetteva di offendere tutti così spudoratamente. Giunone
già per conto suo aveva da un pezzo sufficienti motivi di antipatia contro
Momo; adesso, istigata dalla dea Frode, si lasciò andare a un'azione senza
precedenti. Buttò via il mantello ed esclamò: "Tutte da questa parte,
signore! E tu, Ercole, afferra Momo e portalo subito qui: così comanda la
sorella e la moglie di Giove!". Ercole non se lo fece dire due volte:
afferrò Momo per la zazzera che gli copriva mezza fronte, e per quanto si
dibattesse di qua e di là strillando, con la gran forza che aveva se lo
rovesciò sul dorso e lo portò davanti a Giunone a testa in giù, col collo
allungato, che pareva un pezzo di legno. Immediatamente moltissime dèe misero
le mani addosso allo sventurato. Non entro nei particolari: per mano delle
femmine Momo, da maschio che era, divenne uno che maschio non era più: gli
strapparono completamente gli attributi e lo fecero precipitare nell'oceano.
Subito dopo, con Giunone alla testa, corrono da Giove a presentare le loro
lagnanze e a porgli un ultimatum: o relegava Momo, il pericolo pubblico numero
uno, oppure doveva mandare in esilio la totalità delle dèe. Delle signore divine
non potevano vivere tranquille in luoghi frequentati da quel maniaco mostruoso;
perciò lo supplicavano (con qualche lacrima di contorno) di ascoltarle e di
provvedere all'incolumità di tante persone care e affezionate a lui col castigo
di un solo criminale, piuttosto che andarsi a cercare l'ostilità di tutto il
cielo per favorire uno sciagurato.
Giove, per quanto non
fosse molto contento per via del precedente più che del fatto in sé, decise
tuttavia di fare la concessione richiestagli con tanto ardore e a furor di
popolo. Infatti i movimenti di massa erano sempre stati un pericolo per lo
Stato se non venivano repressi, e non c'era altro modo per reprimerli che fare
concessioni. Sotto un certo aspetto, poi, non poteva proprio lamentarsi che
fosse andata a finire così, soprattutto perché in questo modo si era liberato
dell'angoscia che lo opprimeva, non avendo un discorso presentabile da fare
all'assemblea in attesa. Allora fece un cenno col capo, e subito si calmò il
cicaleccio di quelle femmine petulanti; poi sintetizzò in un breve discorso
tutta la sua indignazione per l'indecorosa gazzarra: si disse molto più
addolorato del fatto che una simile smania di rovinare Momo avesse preso tante
persone a lui care, anche sue parenti, di quanto fosse intenzionato a
rimproverarle: avrebbe preferito che non si fosse agito per impulso, senza
riflettere, anche perché ci fosse la possibilità di tenere un dibattito sereno
e pacato finché non fosse arrivato lui a comunicare le sue decisioni; dato che
ciò non era possibile per la disgrazia di Momo, non volendo dire per
l'intemperanza dei suoi cari, affermò di ritenere più opportuno non procedere,
per il momento, secondo le precedenti decisioni: non aveva rimorsi a
soprassedere, visto che gli animi delle autorità erano ancora sovreccitati;
comunque molto presto avrebbe riferito al comitato ristretto degli dèi
principali su tutte le soluzioni utili e necessarie allo Stato che fosse
riuscito a trovare.
Quando quella folla di
donne scatenate uscì finalmente dalla stanza, s'incontrò per combinazione con
Apollo di ritorno dalla terra; appena lo videro, siccome lo ritenevano un
indovino bravissimo a far previsioni sul futuro, pensarono che si fosse tenuto
fuori di proposito da quella baraonda, non senza buoni motivi. Perciò dicevano,
strizzandogli l'occhio: "Ah birbantone! Tu sì che ci sai fare! Come sei
bravo a stare al mondo, evitando i pasticci!". Si formò allora una calca
attorno ad Apollo, e restavano tutti in piedi a spingersi davanti all'ingresso,
premuti in mezzo a quel viavai di persone. In quella confusione c'era anche la
dea Notte, che ha una straordinaria passione per i furti, anzi, ha acquisito
una tale abilità in quell'arte che potrebbe rubare perfino gli occhi ad Argo,
se volesse. Appena essa vide la borsa rigonfia di oracoli che pendeva al fianco
di Apollo l'afferrò con una destrezza tale che nessuno si accorse assolutamente
del colpo. Intanto Apollo, salutando ora questo ora quello, apprese la cronaca
dell'assemblea, e si rallegrò, a parte il resto, che tutto si fosse risolto a
vantaggio di Giove. Entrò allora da Giove tutto allegro, ma inaspettatamente fu
ricevuto con un'espressione più accigliata del normale. Giove chiese infatti,
dopo aver mandato via tutti gli altri: "Perché cavolo sei tornato così
tardi?". Apollo rispose: "Non ho avuto altro pensiero che eseguire
con efficienza e rapidità i tuoi ordini. Però quei filosofi che ho avvicinato
hanno una formazione mentale che non gli permette di esporre nessun concetto
peregrino senza avvolgerlo in enormi giri di parole, quindi mi hanno trattenuto
mio malgrado con divagazioni interminabili; pensavo tuttavia che si dovesse
stare a sentirli, poiché cercavo di soddisfare con la massima precisione le tue
aspettative. Certo però che sono tutti quanti dei parolai, escluso Socrate,
senonché anche lui qualche volta si mette a divagare con certe domandine, e
sembra puntare ad altro; tuttavia, comunque la si giri, a me è sempre parso una
brava persona, l'ho proprio visto di buon occhio e ho infuso in lui quel tanto
delle mie caratteristiche che basta ad evitare guai e disgrazie. Apprezzerò
sempre l'animo disinteressato di quest'uomo, il suo autocontrollo, l'umanità,
la simpatia, la serietà, l'integrità morale, assieme alla sua passione per la
ricerca del vero e al suo culto della virtù. Una volta gli ho sentito fare una
dissertazione splendida, veramente memorabile, nella quale ha dimostrato
ampiamente la superiorità delle sue idee: quando me la sentirai esporre, credo
che non ti peserà più il fatto che io mi sia attardato un po' ad ascoltarla
attentamente, e forse ammetterai che non c'è ragionamento più adatto di questo
per sistemare bene la tua politica. Se ti va di concentrarti nell'ascolto, te
la riassumerò in poche parole". Allora Giove: "Sì, sì, parla: è
sempre utile godere dei discorsi e delle massime dei saggi, anche quando non
riguardano direttamente i problemi del momento". Apollo riprese: "Tra
i filosofi ho trovato solo due persone dalle quali ho sentito fare discorsi
davvero seri e perfettamente coerenti: Democrito e Socrate. Ti parlerò di
Socrate, ma prima voglio raccontarti un aneddoto su Democrito che dovrebbe
toglierti dal viso quest'insolita espressione preoccupata e restituirti il
buonumore. Sentirai una storia divertente, ma anche molto profonda. Ho
incontrato Democrito intento ad osservare un granchio pescato in un torrente lì
vicino, con l'espressione attonita e gli occhi pieni di stupore, tanto che
anch'io son rimasto stupito a vederlo così. Sono rimasto fermo lì per un po',
poi ho cercato di rivolgergli la parola, ma lui non si destava mai da quel suo
sonno ad occhi aperti (se è così che lo devo intendere). Ho pensato perciò che
era meglio lasciar perdere quella statua di Democrito, per così dire, finché
non si fosse svegliata da sola, piuttosto che star lì a sprecar tempo. Ho
potuto così andare un po' in giro, e ho incontrato tanti altri filosofi, a
caterve; e chi non criticherebbe le loro abitudini? Chi non detesterebbe quel
genere di vita? Chi è in grado di comprendere e approvare i loro discorsi e le
loro idee? Sono proprio oscuri, ambigui come nient'altro". Giove allora
disse con un sorrisetto: "Come! Tu, Apollo, che sei il maestro nell'arte
dell'interpretazione, non sei capace d'interpretare i discorsi di
costoro?". Apollo rispose: "Ti devo confessare che qualunque altra
cosa mi riesce più facile: quei ragionamenti sono così mutevoli e vaghi da un
lato, così in contrapposizione, così in contraddizione dall'altro! Ma lasciamo
perdere. La sostanza è che gli uomini di questo tipo non si trovano mai
d'accordo su un solo ragionamento, ma si contraddicono tra loro in tutte le
loro idee, mentre l'unica scemenza in cui vanno tutti d'accordo è che ognuno di
loro è convinto che tutti gli altri uomini siano pazzi furiosi, tranne quelli
che hanno il loro stesso tipo di vita, di abitudini, passioni, desideri,
sentimenti, metodi e così via. Inoltre quel che piace ad uno non piace
all'altro, quel che uno detesta gli altri non lo detestano, quel che commuove
gli uni lascia indifferenti gli altri: e si offendono pure, per questo! Quindi,
è difficile dire quante aspre polemiche siano scoppiate tra loro, perché
ricorrono anche agli insulti e alla violenza, ogni volta che possono, pur di
spingere tutti gli altri a seguire i loro principi; ti riuscirebbe difficile
ammettere che una tale follia si annidi in uomini che han fatto della sapienza
la loro professione!". Disse allora Giove: "Perché dovrei stupirmi se
i filosofi vorrebbero far vivere gli altri a modo loro, se vedo continuamente
anche persone del popolo chiedere agli dèi, come gli fa dire la testa, ora la
pioggia, ora il sole, il vento e anche i fulmini, eccetera eccetera?".
Rispose Apollo: "Non m'interessa cosa fanno gli altri. A proposito di
costoro, di una cosa sono convinto: fin tanto che ciascuno di loro vorrebbe che
il mondo andasse come vuole la sua follia, fin tanto che non hanno nessuna
certezza stabilita, sono convinto, ripeto, che se vorrai dar retta alle loro
assurdità dovresti metterti a creare un numero infinito di mondi che cambiano
secondo come gli gira sul momento, oppure uscir pazzo per le continue proteste
dei postulanti. Ma basta parlare di tutta questa razza di filosofi! Torno a
Democrito. Mi avvicino di nuovo a lui e lo trovo intento a tagliare a pezzi
quel granchio che stava osservando con tanto stupore, come avevo detto: con la
testa china e lo sguardo concentrato, se lo andava studiando di dentro
guardando attraverso le viscere, e faceva il conto dei nervi e degli ossicini.
Lo saluto, ma quello, manco per il cavolo! Non posso fare a meno di ridere:
sentirai che buffo, Giove! Mi è venuta un'idea: ho preso una cipolla dal campo
vicino, l'ho divisa in due e mi son piazzato di fronte a lui, poi mi son messo
a imitare tutti i gesti e i movimenti che faceva: lui corrugava il viso, e io
pure; piegava la testa da un lato, e io pure; sporgeva in avanti certi
occhioni, e io pure. Insomma, facevo di tutto per essere simile a lui, e c'ero
riuscito quasi completamente: l'unica differenza era che Democrito aveva gli
occhi asciutti, io invece li avevo pieni di lacrime per il fastidio che mi dava
l'odore pungente della cipolla. Per non farla lunga, con quella trovata da
buffone ho ottenuto lo scopo che non avevo potuto raggiungere facendo la
persona seria, cioè riuscire a parlare con lui. Infatti mi osservò da capo a
piedi ridacchiando, poi disse: 'Ehi tu, cosa fai lì che piangi?'. Allora io
replicai, squadrandolo a mia volta: 'Tu piuttosto che fai? Che hai da ridere?'.
Lui disse: 'Te l'ho chiesto prima io'. Rispondo: 'Ma io ti ho risposto per
primo'. Allora, vedendo che la cosa poteva finire in lite, fece un gran sorriso
e disse: 'E va bene, sei tu il più bravo! Allora io ti spiegherò cosa sto
facendo. Da tempo dedico molto lavoro a sventrare gli animali (mi sembrava
empio sezionare col ferro gli esseri umani) per scoprire il luogo dove ha sede
il principale malanno degli esseri viventi, la collera, e capire così l'origine
degli scatti, dei bollori, del fuoco che sconvolge la mente umana e distrugge
ogni forma di razionalità: pensavo di trarre da tale scoperta molte conseguenze
della massima utilità per la vita umana. Riuscivo a fare alcune osservazioni
pienamente soddisfacenti riguardo alla maggior parte degli animali, ma per quel
che concerne l'uomo non riuscivo a comprendere l'origine di quelle eccitazioni
che portano alla follia. Ecco cosa ho scoperto: più o meno in mezzo al petto
c'è un umore che, per effetto del soffio continuo delle fiammelle vitali, si
riscalda e si riversa nel sangue in modo da formare singoli composti delle sue
varie particelle; uno di questi composti scorre formando una schiuma quasi
impercettibile alla superficie del sangue e va a confluire in un piccolo
condotto che madre natura ha predisposto allo scopo. Questo liquido dalla
struttura infiammabile ha la caratteristica di scaldarsi e andare in ebollizione
ogni volta che si agita il cuore oppure un'infiammazione d'origine esterna si
attacca in fondo alle viscere; allora le sue scintille penetrantissime,
assottigliate dalla natura stessa del composto e spinte dall'alta temperatura,
entrano in circolo velocissime e risalgono fino alla sede della ragione, la
invadono completamente, ed esercitando una pressione violenta e disordinata
fanno scoppiare l'incendio nelle parti più profonde del temperamento naturale,
fino a sconvolgere del tutto la mente con i loro continui stimoli. Ho osservato
chiaramente questo fenomeno negli altri animali; adesso però avevo deciso di
dedicare un'indagine più accurata a questo animale che ho tra le mani, che mi
sembrava particolarmente fornito di attributi naturali adatti a qualsiasi forma
di duro combattimento. Ha la corazza, ha le tenaglie, madre natura ha
provveduto a coprirlo interamente di scaglie; così, sapendo che le armi sono
fragili e perfettamente inutili se non c'è l'impulso aggressivo, avevo motivo
di ritenere che la natura lo avesse fornito anche di molte sostanze eccitanti
per stimolarne l'aggressività: però non riesco a localizzarle, e la cosa che mi
sconcerta di più è che non riesco nemmeno a trovare il cervello di questo
animale, e la ragione non permette di pensare che questo solo essere vivente
sia privo di cervello, infatti l'animale si muove, quindi è necessario che
abbia un cervello da cui riceve forza vitale, dal momento che tutto il sistema
nervoso si dirama proprio dal cervello. Come possa mancare di cervello questo
qui, che ha la possibilità di fare tanti movimenti con la forza e la varietà
delle sue membra, non riesco a comprenderlo'. Così parlò Democrito. Allora, per
fargli vedere che anch'io ero capace di speculazioni astratte, saltai su a dire
che stavo studiando la cipolla che avevo in mano per sapere se gli dèi
avrebbero distrutto il mondo o l'avrebbero conservato in eterno. Quello
esclamò: 'Che indovino da operetta che sei! Dove ti sei andato a cercare questa
nuova maniera di prevedere il futuro?'. Rispondo: 'Ma se è una diretta
conseguenza dei ragionamenti che fate voi quando vi mettete a sottilizzare, e
dimostrate che il mondo è un'enorme cipolla!'. E lui: 'Questa è davvero carina,
indagare in una sfera così piccola la sorte del mondo così grande! Ma che c'è?
Cos'hai trovato di tanto sgradito in questo interno di cipolla, che ti fa
piangere?'. Io: 'Vedi qua, nella cipolla tagliata, la lettera c e la lettera a?
Non è evidente per te quello che vogliono dire?'. Lui: 'Come? Tu credi che la
cipolla parli, come certuni dicono che il cielo canta?'. Io: 'Ma no! Ma se te
lo mettono davanti agli occhi! Metti insieme la a e la c: o affonderà, dicono,
o crollerà; separale: non dicono la stessa cosa, cioè che il crollo avverrà?. A
questo punto quello scoppiò in una fragorosa risata: 'E allora' disse 'tu,
benedetto figliolo, piangi la distruzione totale del mondo! Ma guardatelo! Dove
pensi che gli dèi butteranno le macerie del mondo attuale, se hanno intenzione
di distruggerlo?'. Sono rimasto senza parole di fronte a questa affermazione,
che mi sembrava profonda e quanto mai attinente al nostro problema; e dicevo
fra me: 'Tu sì che hai cervello, mentre avrei detto che ti mancava, quando lo
andavi cercando nel granchio!'.
Ora basta con Democrito,
torniamo a Socrate, quell'uomo straordinario che merita ogni elogio. L'ho
trovato in un laboratorio di calzature che faceva un sacco di domande a un
artigiano, al solito suo: ma sono cose che non ci riguardano". Intervenne
Giove: "Bel tipo d'uomo straordinario, come dici tu, uno che se la passa
con i calzolai! Ma dimmi, Apollo, ti prego: cos'erano tutte queste domande di
Socrate? Ho proprio voglia di sentire discorsi veramente suoi, non roba messa
assieme da altri e attribuita a lui". "Quella volta, se ben ricordo,
diceva così: 'Dimmi una cosa, artigiano: se decidessi di fare una scarpa di
classe, non penseresti che ti sia necessario cuoio di prima qualità?'. 'Certo
che lo penserei' rispose quello. E Socrate: 'Per un lavoro così prenderesti il
primo cuoio che capita, oppure credi che sia meglio sceglierlo da un
campionario?'. 'Sì che lo credo' rispose. Socrate aggiunse allora: 'E come fai
a riconoscere la qualità del cuoio? Non ti metti davanti un qualche cosa che,
tastando i vari tipi, ti è parso un cuoio particolarmente buono e adatto allo
scopo, per poter scegliere attentamente il tuo mettendolo a confronto con
questo, e vedere più chiaramente cos'ha di più o di meno ciascun altro tipo?'.
'Faccio così' rispose l'altro. E Socrate: 'Colui che ha fatto quel cuoio di
prima qualità, c'è arrivato per caso o con un metodo, per farlo senza nessun
difetto?'. 'Con un metodo' disse l'artigiano. 'E qual è stato il metodo' disse
Socrate 'per affrontare quell'impegno? Forse quello che aveva imparato con
l'esperienza, con la sua pratica nel lavorare il cuoio?'. 'Proprio quello'
rispose l'artigiano. 'Forse' disse Socrate 'anche lui nell'approntare il cuoio
ha fatto gli stessi confronti che faresti tu per sceglierlo, mettendosi a
osservare insieme le parti ed il tutto, finché il cuoio da confezionare non
corrispondeva punto per punto a quello che lui aveva in testa'. 'Proprio così'
fece l'altro. E Socrate: 'E se non avesse mai visto lavorare il cuoio? Dove
diavolo avrebbe preso quel modello ideale di cuoio di ottima qualità?'". A
questo punto Giove, che aveva seguito con grande attenzione tutte queste
domande, se ne uscì con una straordinaria esclamazione di entusiasmo per
Socrate: "Che uomo meraviglioso! Oh, devo proprio dirlo un'altra volta:
che uomo meraviglioso! Lasciamo stare che Socrate ti abbia riconosciuto, caro
Apollo, per quanto ti fossi travestito; di lui oserei dire che sapeva chi eri,
e per quali affari e con quali intenzioni eri venuto: insomma, sapeva proprio
tutto. Il fatto è che i filosofi, per quanto risulta alla mia esperienza, hanno
un'acutezza tutta particolare nell'indagare qualunque mistero, così grande in
tutta la loro categoria da superare ogni immaginazione. So quel che dico, lo so
perché ci sono passato! Ma guarda un po' come ti ha saputo servire a puntino,
appena ti ha riconosciuto e si è reso conto di tutto! Capisco dove vuoi andare
a parare coi tuoi doppi sensi, caro il mio Socrate! Vuoi dire che bisognerà
rifare il mondo prendendo a modello questo qui, nella cui creazione ho tirato
fuori ogni sorta di bellezze, oppure si dovrà procedere per tentativi, fino a
quando il caso non ce ne metta davanti uno perfetto. Ma che altro ha detto, che
altro?". Apollo rispose: "A quel punto l'artigiano ha detto di non
saper rispondere alla domanda ed è rimasto zitto. Allora mi sono fatto avanti
educatamente, e lui mi ha accolto nel modo più ospitale. Abbiamo parlato un
pezzo, di cose su cui sarebbe lungo soffermarsi; per quanto ci riguarda più da
vicino, ho trovato interessantissima soprattutto la sintesi che ha fatto a
conclusione d'una serie di domande minute: diceva più o meno che questo mondo
nel quale è contenuta ogni cosa è fatto evidentemente in modo tale che non
esiste, all'infuori di esso, nient'altro che nessuno possa aggiungergli. Ma se
non gli si può aggiungere niente, non gli si può nemmeno togliere niente, non
lo si può nemmeno distruggere: come si può aggiungere qualcosa, infatti, a un
mondo all'infuori del quale nulla può esistere? E come si fa a distruggere ciò
che non è soggetto a disgregazione?". Intervenne Giove: "Questa però,
comunque la si presenti, è un'osservazione trita e ritrita, per niente
paragonabile a quella di poco fa sul calzolaio". Rispose Apollo:
"Stai attento a sputare sentenze, Giove: potresti seguire i pregiudizi più
che la verità. Non vorrei che l'eccessivo prestigio di cui gode quest'uomo ai
tuoi occhi ti abbia fatto cadere in errore, e ti ci faccia restare: nessuna
cosa quanto la simpatia, infatti, ha una gran forza di persuasione, e non ce
n'è una capace di oscurare la verità più di quanto lo sia il prestigio.
Pitagora ha ottenuto un tale prestigio che i suoi discepoli non facevano caso
se quello che sosteneva fosse vero o falso, accettavano tutte le sue opinioni,
non avevano il coraggio di contraddirne o metterne in dubbio nessuna, insomma,
pretendevano che gli altri prendessero per buone e provate anche le
affermazioni più assurde, al punto che anche quando andava dicendo di essere di
ritorno dall'aldilà giuravano che diceva il vero". Giove allora:
"Questo discorso capita a proposito: stavo appunto per domandarti se ti
sei incontrato con qualcun altro dei filosofi più famosi, che so, Aristotele,
Platone, lo stesso Pitagora eccetera. E allora? Ne hai ricavato qualche perla
rara?". Apollo rispose: "Aristotele me lo son visto gesticolare davanti,
dopo che aveva preso a pugni Parmenide e Melisso, non so che filosofo da
quattro soldi: attaccava briga con tutti quelli che incontrava, e con un'aria
di superiorità insopportabile e un'incredibile prepotenza non dava a nessuno la
possibilità di esprimersi. Teofrasto l'ho visto accatastare tutti i suoi
scritti per bruciarli. Di Platone qualcuno diceva che era molto lontano, in
quel suo Stato invisibile che aveva fondato. Quanto a Pitagora, ho sentito dire
che pochi giorni innanzi era stato riconosciuto in un gallo, e forse adesso lo
si sarebbe potuto trovare in una gazza o in qualche pappagallo chiacchierone:
lui infatti aveva l'abitudine di passare da un corpo all'altro". A questo
punto Giove esclamò: "Oh, Apollo, come mi piacerebbe tenere in gabbia a casa
mia un filosofo del genere! Come diventerei bravo a condurre gli affari di
governo! Che ne pensi? Non c'è nessun modo di catturarlo?". Rispose
Apollo: "Perché non dovrebbe farcela un cacciatore esperto, purché lo
riconosca?". E Giove: "Qui sta il difficile, riconoscere
l'intelligenza di un filosofo in un corpo senza valore". Apollo: "Ma
no, è facile, basta stare attenti!". Giove: "Come, ti prego? Forse
con le tue arti, con gli oracoli?". Apollo: "Faremmo meglio a mettere
una taglia sul loro capo, ed essi si presenteranno da soli!". Giove:
"No, preferisco provare a rintracciarli con le tue arti. Su, per piacere,
cerca di vedere dove si trovano". Allora Apollo, volendo consultare in
proposito i suoi oracoli, si accorse che la cinghietta era rotta e gli avevano
portato via la borsa, e cominciò a strillare lamentandosi dell'infame delitto
commesso ai suoi danni; e siccome si era intrattenuto anche troppo
amichevolmente con Socrate, era persuaso che il furto l'avesse commesso proprio
quell'imbonitore, e ci avrebbe giurato. Sarebbe lungo ripetere tutte le male
parole che scaricò sul filosofo: lo chiamava scroccone e spasso per i
meccanici. Diceva anche che aveva ragione Momo a dire che gli uomini sarebbero
stati capaci di rubare pure coi piedi, in mancanza d'altri mezzi. Quando si fu
scaricato un po', e la fece finita con le imprecazioni, Giove lo fissò negli
occhi e disse: "Non sarebbe meglio, Apollo, se tu fossi il granchio di
Democrito, vista la rabbia che ti ha preso? Il granchio è incapace di andare in
collera, ma ha forza più che sufficiente per attaccare, con le armi di cui è
dotato; a te invece, per quanto ti scaldi e perdi la tramontana, non rimane
nessuna possibilità di rendere la pariglia. Che farai? Con chi te la prenderai?
In che modo potrai punire i colpevoli, o colpire chi non c'entra? Che beni gli
puoi portar via, se non possiedono nulla, e che mali puoi mandare a persone che
non hanno affatto paura della povertà, del dolore eccetera?". Apollo
replicò: "Com'è bravo a dar consigli, questo qua! Appena lo toccano vorrebbe
far precipitare il mondo, e ordina di star calmo a me che ho perso un simile
tesoro. E dire che io posso far morire gli uomini di caldo e di sete, Giove!
Posso far morire gli uomini, ho detto!". Giove allora: "Certo che
puoi fare qualunque danno, però non farai proprio nulla, visto che ormai non si
potrà decidere più nulla in cielo senza che i mortali lo sappiano subito: i
filosofi infatti, o con la loro abilità nello svelare i misteri o con l'aiuto
dei tuoi oracoli potranno prevedere tutto quel che stiamo per fare e correre ai
ripari con la loro immensa saggezza. È per questo che voglio vederti spegnere i
tuoi ardori. Smettila di lamentarti ancora per questa disgrazia. Ritorna in te.
Penseremo un'altra volta a punire come si deve questi furfanti, anche se io
ritengo che tu abbia perso il tuo tesoro in un'altra circostanza". Apollo
rispose: "Hai ragione, seguo il tuo consiglio; e poi c'è una cosa che mi
conforta: per quanto essi siano in possesso degli oracoli, non riusciranno mai
a scoprire il modo d'interpretarli. Io potrò rifare gli oracoli con poca
fatica, ma addosso a loro gli oracoli faran piovere ansie ed angosce più che
vantaggi".
Mentre tra i celesti
accadevano i fatti narrati, il Caldo, la Fame, la Febbre e altri dèi del
genere, avendo sentito che si preparava la fine del mondo, cominciarono subito
a tormentare l'umanità per autoridursi il lavoro che ben presto avrebbero
dovuto fare per uccidere tanti milioni di uomini, e si portarono via una grossa
quantità di esseri viventi. Spinta da queste calamità, la razza umana, avendo
compreso che gli dèi erano particolarmente sensibili alle offerte in oro, offrì
loro in voto feste di straordinaria solennità, magnificamente contornate di
ogni genere di spettacoli, senza badare a spese. Non vi dico che folla
innumerevole di musicisti, commedianti, poeti si radunò da tutte le nazioni,
fin dalle più remote regioni del globo. Misero insieme, per rendere più
sontuosi il tempio, le cerimonie e i giochi, il meglio che ogni popolazione
potesse offrire. E non voglio parlare di tutto il resto! Non posso però
tralasciare, per la sua straordinaria grandezza, l'enorme tendone ricamato in
oro che ricopriva di sopra e tutt'intorno il teatro del padiglione centrale
della festa. Ai posti d'onore erano sistemate le statue dei massimi dèi; tutte
quante splendevano di oro e diamanti sparsi intorno, ma superava in bellezza
l'oro e i diamanti, quanto questi lo superavano in valore, il fatto che tutte
acquistavano leggiadria dai fiori cosparsi d'intorno, tutte ricevevano gli effluvi
più delicati ed erano cinte di ghirlande. Inoltre dipinti, tavolini d'alabastro
e giochi di specchi riempivano la gente di meraviglia e di stupore; e perché
non ci fosse neanche un angolino privo di cose belle da vedere, la statua di un
eroe occupava ogni singolo intervallo tra le colonne, anche nei punti meno in
vista. Di fronte a preparativi del genere, i celesti si rendevano conto della
gran considerazione in cui li teneva l'umanità, e non potevano non sentirsene
commossi. La conseguenza fu che anche coloro i quali per disciplina di partito,
o nella speranza di trarne vantaggi, erano stati accaniti oppositori della
causa degli uomini modificarono la loro posizione, un po' per un senso di
pietà, un po' sotto la spinta di un'offerta così grande, abbandonando
l'intransigenza rivoluzionaria di qualche tempo prima; e quelli che
desideravano già prima la salvezza dell'umanità, che avevano in Ercole il loro
leader, insistevano con Giove perché scegliesse di tenere obbligati con la
concessione di grazie quegli uomini sempre più benemeriti, e non li punisse con
la distruzione: nel primo caso, oltre che in popolarità c'era tutto da
guadagnare in elogi, mentre nell'altro non solo non si prospettavano vantaggi,
ma si correva il rischio di dar esca alle peggiori critiche; Ercole consigliava
di valutare attentamente se voti come quelli, fatti con devozione non inferiore
al sacrificio finanziario, corrispondevano alle calunnie di Momo, se erano,
cioè, voti di gente che non credeva nell'esistenza degli dèi, o non erano
piuttosto, al contrario, fatti da chi desiderava essere il più possibile caro e
ben accetto agli dèi. Consigliava anche di ripensare bene al caratteraccio di
Momo: sarebbe così arrivato a una conclusione, stabilendo se uno che aveva
cercato di rendere gli dèi ostili e antipatici agli uomini, che lo odiavano,
poteva lasciar nulla d'intentato pur di danneggiare gli uomini suoi nemici nei
riguardi degli dèi, dai quali si sentiva bene accetto; che razza di odio Momo
nutrisse verso i mortali era chiarissimo, del resto, fra i tanti esempi, dal
fatto che quasi ancor prima di vederli aveva creato per dargli fastidio quegli
animaletti schifosi che si riesce a stento a nominare senza ribrezzo; perciò i
celesti dovevano considerare se era mai possibile che uno che le aveva provate
tutte contro gli dèi, i quali si limitavano a rimproverarlo, fosse passato
sopra a un'ingiuria come quella della barba presa a morsi. Infine Ercole,
invocando la testimonianza dell'Ombra, figlia della Notte (cioè con la formula
più solenne di giuramento divino), affermò che tutte le accuse lanciate quella
sera a cena da Momo contro gli uomini erano, esse sì, infarcite di ogni sorta
di falsità criminale, e che erano di Momo, non degli uomini, quelle bestemmie
contro gli dèi di cui faceva frequente abuso parlando con i filosofi. Aggiunse
poi la considerazione che gli dèi più saggi non riuscivano a capire quali
fossero le intenzioni di Giove. Se con quell'idea di fare una rivoluzione
voleva accontentare la maggioranza, o ottenere l'approvazione delle masse era
l'unico premio che andava cercando col dispendio di tante energie, in ogni caso
ci sarebbe sempre stato qualcuno non del tutto soddisfatto dei risultati, e non
potevano certo mancare, soprattutto tra gli dèi d'alto rango, quelli che desiderano
la stabilità più di quanto non abbiano il gusto del rinnovamento. E poi quei
vecchi, bravissimi architetti che avevano portato a termine con tanta perizia
il mondo attuale erano tutti vecchi decrepiti; quella categoria di tecnici
escludeva del tutto la possibilità di una realizzazione più bella ed elegante e
più durevole nel tempo rispetto a quella già fatta, che destava in ogni suo
elemento la più alta ammirazione. Se poi si fosse voluto mettere alla prova
degli architetti nuovi, si era già avuta sufficiente dimostrazione del loro
valore nella costruzione dell'arco di Giunone, per non fare altri esempi: certo
non aveva tutti i torti la gente a commentare che era stato costruito con
l'unico scopo di crollare durante i lavori! Queste erano le argomentazioni di
Ercole, che incontravano approvazione e consensi non solo da parte di Giunone,
Bacco e Venere e tutti gli altri aderenti alla corrente di Giunone, i quali
mostravano apertamente il loro caloroso sostegno, ma da parte di quasi tutta la
comunità celeste. E così Giove, sulla base di queste esortazioni, poco
fiducioso nella riuscita di un'impresa così ardua, e per di più allettato dalla
magnificenza dei voti, non fece difficoltà a modificare le sue decisioni. E a
quel punto afferrò ben volentieri l'occasione di scrollarsi di dosso
l'impopolarità scaricandola su Momo, pur cercando di far passare per benigna
concessione quel che lui stesso era già intenzionato a fare. Disse perciò:
"Non c'è bisogno che vi ripeta, celesti, in che gran conto io ho sempre
tenuto gli uomini, i vostri cari tesori; però sono gli uomini stessi, con la
speranza ansiosa con cui presentano i loro voti, a dimostrare di non conoscere
abbastanza bene le nostre disposizioni d'animo nei loro confronti. A chi ci si
rivolge per chiedere aiuto con tanta fiduciosa speranza, quando ci si trova nei
guai, se non a qualcuno a cui si sa di essere cari e raccomandati? Non vorrei
che pensaste che sia stata una cosa facile per me far finta di non arrabbiarmi
con chi era insofferente dello stato di cose attuale, o di non sapere a cosa
mirassero i fautori della rivoluzione. Perciò, se considererete con una certa
attenzione i problemi sul tappeto, non ho dubbi che approverete il mio operato,
anzi direte che non si poteva far meglio di così. Lasciamo stare tutto il
resto: che ve ne pare del fatto che io sia riuscito, stimolando un dibattito
collettivo, a rendere lampante anche a parecchi che non ci avevano mai fatto
caso che questo mondo, insomma, è così totalmente perfetto che non ci si può
aggiungere proprio nient'altro? Devo quindi esser lieto d'aver fatto piazza
pulita, per il futuro, di tutti gli eventuali reclami dei mascalzoni su questo
argomento. Ma la cosa che mi spinge a complimentarmi vivamente con me stesso è
che mi sono reso conto con la massima chiarezza di come molte persone possano
avere un carattere ben diverso da quel che vogliono far credere. E prima di
tutti il nostro Momo ha dato un magnifico esempio di cosa avesse intenzione di
fare con le sue finzioni e dissimulazioni! Lo ammetto, il trasformismo di Momo,
la sua abilità a raccontar balle mi avrebbero potuto far commettere
l'imprudenza di raffreddare i miei sentimenti perfino per Giunone, che mi ama
tanto: e questo soprattutto perché stavo cascando nella sua trappola, e lo
credevo effettivamente abbattuto e trasformato dal peso delle sue disgrazie.
Per di più, le sue esperienze di vita e i suoi rapporti con i filosofi gli
davano l'aria di persona molto saggia, ed io pensavo che non fosse per niente
disonesto, ma davvero ammirevole un ingegno passato per una raffinata
formazione. Che c'è di strano, quindi, se nella mia imprudenza davo un certo
credito a uno che avevo caro, ed era poi così multiforme ed astuto? Non sto a
dirvi gli sforzi che ha fatto per convincermi, l'insistenza con cui cercava di
spingermi a buttarmi a corpo morto in un'impresa rivoluzionaria! A me però
tornava spesso in mente una bella massima di saggezza: certi tipi troppo
istruiti sono meno onesti di quanto possa ammettersi. E certo, come si può
vedere, non sono affatto spontanei e sinceri: in realtà sono ben diversi dalle
apparenze esteriori, fanno un pessimo uso della loro eccezionale acutezza
d'ingegno rivolgendola al male, e proprio quando si studiano di sembrare onesti
e sinceri, ecco che ti colpiscono a tradimento. Non appena mi sono accorto che
Momo era fatto così, continuavo a sopportare quel simpaticone che si voleva far
credere e di cui recitava la parte, per poter penetrare più a fondo nell'intimo
di quel tipo scaltro quanto subdolo; e intanto stavo in guardia, senza credere
a nulla. Ma ora, comunque sia andata a finire, penso che abbiate fatto una cosa
buona a liberarvi di quel seminatore di zizzania. Avrei preferito, l'ho già
detto, che non ci fosse confusione, né sollevazioni di massa; passi, comunque,
che Giunone sia ricorsa a qualunque mezzo pur di espellere dalla comunità
divina quell'odiosissimo delinquente. Spetterà al nostro buon senso, visto che
conosciamo l'indiavolata acrimonia di Momo, togliergli la possibilità di
provocare ulteriori disastri per sconvolgere nuovamente la tranquillità degli
dèi e la vita umana. Ecco cosa ho deciso in proposito: considerato che il
criminale Momo, turbatore dell'ordine pubblico, odiato dagli dèi e dagli
uomini, non è capace di tenere una condotta leale, ordinata, pacifica e tranquilla;
che con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso opera al fine di
danneggiare o rovinare completamente beni e persone, accanendosi in particolare
contro gli interessi dei ceti privilegiati dal destino; che esercita senza
sosta una funzione suscettibile di provocare gravi calamità e disgrazie a danno
e rovina totale di tanti poveri innocenti; che organizza e sostiene
associazioni a delinquere col concorso di elementi sovversivi, ribelli, senza
religione e criminali incalliti; che esercita opera incessante d'istigazione al
delitto; che con i suoi discorsi e le sue azioni dà luogo a trame atte a
costituire una minaccia costante per l'ordine universale; che non tralascia
occasione alcuna d'incrementare con nuovi comportamenti delittuosi il lungo
elenco dei suoi crimini; allo scopo di impedirgli di danneggiare ulteriormente
gli dèi ed opprimere e rovinare gli uomini, che godono della protezione divina,
a suo completo arbitrio; decretiamo che sia relegato e incatenato a uno scoglio
in modo che tutto il corpo, con la sola eccezione della testa, rimanga immerso
nell'acqua per l'eternità".
A questo punto Giunone
baciò Giove con un largo sorriso di gioia e disse: "Hai agito come si
deve, marito mio. Ma c'è un particolare che vorrei aggiungere: vorrei che Momo,
che si è scagliato con tanta petulanza, tanta faccia tosta, al di fuori di ogni
rispetto per se stesso e per noi contro il sesso femminile, tu, da mezzo uomo
qual è, lo rendessi femmina in tutto e per tutto". Giove acconsentì. Da
allora in poi i celesti chiamarono Momo, bandito e mutilato per le note
vicende, "humus": e così gli mutilarono anche il nome.
Libro quarto
Guarda a che punto arriva
la disonestà malvagia: proprio quando si crede spenta la sua capacità di
colpire, eccola rinascere più forte di prima. Momo, infatti, esiliato e
attaccato allo scoglio creerà più turbamenti di prima, quand'era assolutamente
libero di sfogare il suo furore. E adesso apprenderai in che modo per
responsabilità sua l'autorità divina sia arrivata all'ultima spiaggia; il
racconto comprenderà tanti di quei motivi divertenti, da far pensare che la
parte precedente sia del tutto priva di comicità, in confronto.
Ormai, dunque, tutte
quelle fiumane umane, per dir così, erano confluite nella città per via dei
giochi e degli spettacoli. Squillavano le trombe sul sottofondo dei flauti,
mentre nacchere, tamburelli, cornette e tutti gli strumenti battevano il ritmo.
Anche la volta celeste risuonava delle note di quell'immensa armonia. In più
c'era il mormorio intenso della gente, un intrecciarsi continuo di voci e
rumori diversi; tutti quanti i celesti si bloccarono in ammirazione, attratti
da quel suono insolito e fenomenale. Allora il dio Stupore, il più scemo di
tutti, volendo intrufolarsi nelle grazie di Giove, come aveva fatto Momo, con
qualche battuta di spirito, siccome era piuttosto ritardato e grossolano gli si
avvicinò e disse con una voce da selvaggio: "Oh, capo! Son tanti gli
uomini che rumoreggiano qui sotto, che se li scuoiassi tutti senza dubbio ne
avresti da coprire il cielo intero!". E Giove: "Ma pensa quant'è
profondo questo qui! Che succede, Stupore? Che cosa ti salta in mente? Però la
tua idea è bellina davvero: siccome senti sempre freddo, ti sei preoccupato che
il cielo, stando scoperto, si buschi il raffreddore". Gli dèi scoppiarono
a ridere; poi si andarono a piazzare in tutte le posizioni migliori dal punto
di vista panoramico e acustico per godersi lo spettacolo terrestre. Ecco in
processione la nobiltà e le varie categorie cittadine, seguite da schiere di
signore di tutte le età, compiere il rito di purificazione della città: si dà
mano alle fiaccole, e una solenne luminaria risplende nel buio della notte. Le
ragazze più belle sfilano sotto i portici ornandoli con la loro presenza, e
rendono onore agli dèi con canti corali, danzando in corteo. I celesti erano
ammutoliti di fronte a tanto spettacolo, e ognuno di loro rimaneva nel posto
che si era scelto ad osservare con la massima attenzione a bocca spalancata.
Nel frattempo, rispettando una tradizione che risaliva ai tempi della disgrazia
di Prometeo, numerose divinità, in particolare quelle marittime, si erano
avvicinate a Momo per rendergli omaggio e portare un po' di conforto al suo
dolore: fecero così per esempio le Naiadi, le Napèe, le Driadi, le Forcidi e
altre ninfe. Momo sollevò gli occhi quasi consumati dal pianto e vide brillare
in alto nel cielo le fiammelle che avevano in testa gli dèi; chiese che senso
avevano tutte quelle luci spuntate così di colpo nel cielo, e, appreso il
motivo, per la rabbia di non poter assistere anche lui a uno spettacolo simile
lasciò partire dal più profondo del petto, fra tanti lamenti, un sospiro così
lungo che il vapore emesso, condensandosi, formò una nebbia cupa e fitta che
rimase stabilmente sospesa attraverso tutta l'atmosfera. Alla vista del
fenomeno Momo ebbe subito l'idea di combinarne qualcuna delle sue, e si mise a
supplicare con tanta insistenza le divinità presenti, finché ottenne dalle
ninfe venute a fargli visita che, siccome non avevano altra possibilità di fare
qualcosa per lui, gli rendessero almeno una grossa cortesia per alleviare il
suo dolore: dilatare il più possibile quella nebbia andandola a fissare alle
cime dei monti, in modo da impedire a quegli dèi tanto astiosi e cattivi con
lui di godersi lo spettacolo delle sue sofferenze. Le ninfe accondiscesero alle
suppliche del povero Momo, e sudarono sette camicie per realizzare il suo
desiderio: la conseguenza fu che, siccome per via di quel nebbione di mezzo non
si poteva più vedere gli uomini che si recavano ai santuari degli dèi, alle
cappelle e agli altari, ma si riusciva solo a sentirli, i celesti si esposero a
un grosso rischio. Infatti, non contenti di sentir cantare i loro elogi con
l'accompagnamento del flauto, ma desiderosi soprattutto di vedere, quasi fuori
di sé, decisero di scender giù dal cielo per soddisfare da vicino le proprie
voglie. E così andarono a prender posto sui tetti delle case umane. Solo
Ercole, probabilmente per paura delle insidie degli invidiosi e di chi avrebbe
voluto imitarlo e anche della difficoltà del ritorno alle dimore celesti,
affermò che non era confacente alla maestà divina, e nemmeno tanto sicuro, che
gli dèi si andassero a mescolare con la folla dei mortali. Egli, infatti, aveva
ridotto a totale impotenza i mostri più grandi e spaventosi della terra, ma non
era mai riuscito neanche a fronteggiare l'urto di una folla concorde
nell'andare all'assalto alla cieca: la massa era facile a scaldarsi, di
principi tutt'altro che saldi, capricciosa, passionale; era facile indurla a
qualunque misfatto senza che riflettesse se fosse giusto o meno quel che il
consenso della maggioranza reclamava; si sollevava selvaggiamente e passava
all'attacco sfrenata, senza che potessero trattenerla o controllarla abbastanza
i consigli ragionevoli delle persone di buon senso o gli ordini di chi cercava
soluzioni positive; la massa impazzita non era nemmeno capace di non volere
tutto ciò che era suo completo arbitrio; non si preoccupava se le sue
iniziative fossero criminali e vergognose oppure no, pur di portarle a termine,
e non smetteva di compiere atrocità se non per iniziarne di peggiori. Ma la
cosa veramente strana era che gli uomini, presi singolarmente, erano quasi
tutti assennati e conoscevano ciò che era giusto, ma appena si mettevano
assieme, eccoli subito pronti a far pazzie e ad uscire immediatamente dalla
buona strada.
Questi erano gli
avvertimenti di Ercole; gli dèi però non stettero a sentirlo ed entrarono nel
teatro. Giove per primo ammira le innumerevoli, enormi colonne di marmo pario,
frammenti di montagne, opera gigantesca: era pieno di stupore nel vedere che
erano state trasportate fin lì, o erette sul posto, così grandi e così
numerose, e per quanto se le vedesse davanti non voleva ammettere che un'opera
del genere fosse possibile, ma non la finiva più di osservare e lodare anche
troppo, in preda alla meraviglia, dandosi dell'idiota e del ritardato in cuor
suo perché non si era rivolto ai costruttori di un'opera così straordinaria,
invece che ai filosofi, per pianificare il modello del mondo futuro. Gli era
successo proprio quello che si sente dire: una volta che ci si è messi in testa
che uno è competente in qualcosa, si è portati a credere che lo sia sempre, e
che sia esperto in ogni campo. Così pensava Giove. Finalmente, al termine del
rito di purificazione della città, gli uomini tornarono a frotte alle loro case
per la cena e il riposo. A questo punto agli dèi venne il desiderio di
assistere ai giochi e agli spettacoli teatrali in programma la mattina
seguente. "E allora, che facciamo?" dicono tra loro "Dobbiamo
tornarcene a casa, o ci fermiamo qui per vedere gli spettacoli?". La
voglia di spettacoli ce l'avevano tutti, ma erano diverse le proposte su dove
pernottare: in cielo, oppure nei templi? Alla fine prevalse l'idea di uno che,
per disgrazia degli dèi, penso, suggerì che ognuno si trasformasse nella sua
statua messa nel teatro, per evitare la fatica di un viaggio di andata e
ritorno e per potersi riposare nei luoghi più confacenti alla loro dignità,
senza il rischio di subire oltraggi. C'era una sola difficoltà: non sapevano
proprio dove mettere al sicuro le statue tolte da lì. Mentre stanno a pensarci
su, il dio Stupore, che era un tipo robusto e muscoloso, ne fa una delle sue:
senza dir niente a nessuno di quello che ha in testa, si mise a correre in una
maniera così sgraziata e sconnessa da far pensare che gli fosse venuto un
attacco di furor bacchico, e poi cominciò a fare una cosa ridicola in sé, ma
talmente adatta alla bisogna che tutti gli dèi l'approvarono subito e si
comportarono allo stesso modo: si attaccò infatti alla sua statua sistemata nel
teatro, chiamando con quel suo vocione tutti gli dèi più robusti perché lo
aiutassero, e se la caricò sulle spalle. La statua era enorme e pesantissima,
ma quando l'ebbe presa sul dorso la trasportò da solo e andò a sistemarla in un
angolo buio di una caverna fuori mano, all'interno di una fitta foresta. Poi
ritornò in teatro, madido di sudore, e si trasformò nella statua che aveva
trasportato, occupandone il posto rimasto vuoto. Per quanto ridessero della
cosa, anche gli altri pensarono di dover fare così: e quindi, seguendo
l'esempio di Stupore, ciascuno nascose la sua statua nel posto che gli andò a
genio, mentre Cupido, Mercurio e altri come loro, che potevano contare su ali e
calzari alati, non si peritarono di lasciare le loro statue coricate sul
cornicione che dominava il teatro.
Mentre gli dèi si erano
sistemati in questo modo, ciascuno a suo piacimento, nel teatro, una situazione
veramente buffa, senz'altro da raccontare, si verificò sia nella foresta
dov'era la statua di Stupore, sia nel teatro. Enope, filosofo e commediante al
tempo stesso, imbevuto della stessa scandalosa smania di parlar male degli dèi
che aveva preso a suo tempo Momo, siccome aveva tagliato per il bosco nella
fretta di partecipare allo spettacolo, fu catturato dai briganti i quali, dopo
avergliene date un sacco e una sporta, lo condussero proprio dentro la grotta
dov'era stata messa la statua del dio Stupore. Appena arrivati sul posto, i briganti
si misero a discutere se era meglio strozzare il prigioniero o cavargli gli
occhi e lasciarlo andare vivo. Enope, trovandosi in un frangente come quello,
anche se fino a quel giorno aveva sostenuto con convinzione che gli dèi non
esistono e il cielo è vuoto, ora che stava rischiando la pelle cominciò a
pregare per la sua salvezza i massimi dèi, pronto a fare qualunque offerta.
Intanto i briganti chiusero la discussione decidendo d'interrogarlo per vedere
quanto poteva pagare di riscatto. Era una notte buia e senza vento: ecco che i
briganti si procurano quel che serve per la tortura. Qualcuno intreccia una
corda, altri strappano da un olmo certi rami nodosi, altri fanno sprizzare il
fuoco da una pietra. Mentre erano intenti a queste occupazioni ne successe una
bella. Appena le prime scintille fecero un po' di luce, i briganti ebbero
l'impressione di vedere qualcosa dentro la grotta - e tutto potevano aspettarsi
in un posto come quello, fuorché una statua; avvicinarono allora il fuoco per
fare più luce, e avvertendo chiaramente una presenza divina ammutolirono,
atterriti dall'imprevisto, e scapparono subito tra le urla, lasciando perdere
il prigioniero. Avessi visto che scena! Fecero cadere le armi fuggendo che
parevano ubriachi, e andarono a sbattere contro un orno che si trovò sulla loro
strada; altri inciamparono nella corsa in una radice sporgente di quercia,
mentre altri, inciampando a loro volta sui compagni a terra, ruzzolarono di qua
e di là; poi, mentre cercavano di rimettersi in piedi, con la faccia pesta,
sputando sangue e pezzi di dente, furono sbattuti di nuovo a terra dall'urto di
quelli che li seguivano; altri invece alla vista del dio sembravano diventati
anch'essi una statua di Stupore: sul momento restarono immobili, poi si
sentirono mancare per lo spavento. Solo Enope riuscì a non perdere il controllo
della situazione. Uscì dalla grotta e si risollevò a guardare quell'ammasso di
gente caduta e ridotta allo stremo; poi disarmò uno di quelli, afferrò per i
capelli un altro che era completamente annichilito dal terrore e lo rovesciò a
terra legandolo con la stessa corda con cui i briganti volevano legare lui. Poi
si mise quell'uomo davanti e se lo portò tutto contento in città, giurando in
cuor suo di non pensare mai più che non esistono dèi la cui presenza egli aveva
toccato con mano nell'ora del pericolo. Questa fu l'avventura di Enope nel
bosco; poi, entrando in teatro, trovò ad aspettarlo i commedianti della sua
compagnia, che stavano tenendo un comportamento non precisamente corretto verso
di lui e verso gli dèi: imprecavano infatti per il suo lungo ritardo e
bestemmiavano gli dèi massimi, che li costringevano a passare una notte in
bianco. Questa fu la prima cosa che lo fece indignare, ma la cosa peggiore fu
sorprendere in mezzo agli attori uno schiavo ubriaco fradicio in atteggiamento
sconcio verso la statua di Giove. Ho un certo ritegno a proseguire, però è
inevitabile. Vedendo l'ubriaco che pisciava, Enope, in nome dei suoi nuovi
sentimenti religiosi, cercò di fargli paura rimproverandolo aspramente. Ma lo
schiavo gli si rivoltò esclamando: "Ehilà! Sei tu, filosofo? Perché mi
tratti così? Da dove ti son venuti di colpo tutti questi scrupoli? Hai sempre
detto che gli dèi non esistono, e ora ti metti a ossequiare una statua fredda,
delle immagini prive di realtà?"; e mentre diceva queste parole, non
contento d'aver pisciato, si preparava anche a sgravarsi del peso intestinale.
Allora Enope esclamò: "Farabutto! Non puoi trovarti un altro posto per
fare le tue porcherie?". Quello schiavo selvaggio e ubriaco rispose:
"Ma se voi filosofi dite che gli dèi sono dappertutto!".
"Così" gridò Enope "tu manchi di rispetto agli dèi perfino in
loro presenza, e fai pure dell'ironia!". E quello zoticone: "Ma che
filosofo coltissimo! Pensi che sia un dio, e la chiami così, questa statua
fredda e vuota messa su a forza di ferro e fuoco da qualche artigiano in modo
da farla somigliare a stento a un uomo più che a un mostro? Dillo tu, testa di
bronzo, con quanti colpi di martello e quanti soffi di mantice gli artigiani
hanno sbozzato questo faccione duro! E magari tu stesso, Enope, non hai visto
qualche giorno fa questa statua all'acquedotto pubblico, versare acqua ai
facchini da quella coppa? Insomma, dovremmo venerare come fosse Giove questo
pezzo di bronzo sconclusionato che non ha niente di buono, manodopera a parte?
Ah, com'è ben detto quello che sento spesso recitare in teatro:
Chi fa nel bronzo o in
marmo i sacri volti
non fa gli dèi: chi
prega, sì, li fa".
Allora Enope, provocato
da quel comportamento indecente e dalla sfacciataggine di quei discorsi,
sbottò: "Va' in malora! Non vuoi proprio smetterla di declamare, per dire
le tue bestemmie! Via di qua!". Ma lo sporcaccione, mentre Enope lo tirava
via per il collo, mandò aria dallo stomaco con un rumore indecente e disse:
"Via di qua tu, profano, che disturbi le mie sacre funzioni: non capisci
che costoro gradiscono molto queste esalazioni rituali?". E tuonò di
nuovo. Enope non ce la fece più: prese a pugni e calci l'ubriacone, lo rotolò
nelle sue sporcizie e lo fece ruzzolare per la gradinata. L'ubriaco punito si
mise allora a piagnucolare, continuando a buttar fuori indecenze con quella
faccia livida di botte e tutta imbrattata: "Ti auguro che succeda anche a
te la stessa cosa, dio per colpa del quale ho sopportato tutto questo, chiunque
tu sia, visto che costui che ha sempre negato l'esistenza degli dèi mi ha
maltrattato tanto per colpa tua, perché mi comportavo come lui".
Giove, che aveva visto
tutto, considerava dentro di sé la situazione. "Si può credere che quello
che è successo stanotte mi vada bene? Eppure costui non fa che il suo mestiere:
che altro ci si può aspettare da un ubriacone o da un farabutto? E poi l'ha
pagata cara: è stato più il sangue che ha buttato del vino che si era
tracannato. Non è proprio il caso di privarsi del piacere dei giochi per una
cosa del genere. I guitti facciano gli sporcaccioni quanto gli pare: basta che
nessuno sappia che noi siamo nel teatro. Però, se se ne accorgono, come
facciamo? Non mi pare che facesse così per dire quel filosofo, Enope, parlando
di dèi qui presenti. Oh, ma basta, insomma, cosa può succedere? Alla fin fine,
quanto meno saremo venerati di presenza dal popolo".
Subito dopo l'episodio
appena narrato, i colleghi chiesero ad Enope perché si fosse portato dietro un
uomo legato a quel modo, e come mai si fosse così inopinatamente votato
all'ossequio della religione, mentre prima non credeva nell'esistenza degli
dèi; quello allora raccontò per filo e per segno la sua avventura coi briganti;
disse che però non era riuscito a riconoscere il dio che l'aveva soccorso,
grazie al cui intervento se l'era cavata così bene, e quindi aveva un
grandissimo desiderio di sapere chi dovesse ringraziare del beneficio ricevuto.
Non gli era sembrato Giove, né Febo o Giunone, nessuno, insomma, degli dèi più
famosi a cui sono dedicati i templi, ma un dio raro, uno che non s'incontra di
frequente. Dissero allora i guitti: "Ma qui in teatro ci sono le statue di
tutti gli dèi! Dai, passale tutte in rassegna, così potremo rendere omaggio a
un dio tanto disponibile alle grazie, e invocarlo nostro patrono in caso di
bisogno: infatti gli dèi più importanti non fanno più caso da un pezzo ai voti
della povera gente". Detto fatto, accendono una fiaccola e cominciano ad
esaminare le statue lì attorno guardandole in faccia una per una, finché non
arrivano davanti a Stupore: appena lo vide, Enope piombò ginocchioni in
preghiera e si prostrò al suolo in atto d'adorazione. Ma i guitti, vedendo la
faccia di Stupore e il suo atteggiamento, scoppiarono a ridere per la sua
bruttezza spaventosa: stava con la bocca spalancata, il labbro sporgente, gli
occhi di fuori, le tempie incavate, le orecchie a sventola, insomma, aveva
tutto l'aspetto di uno che non si ricorda nemmeno chi è. Più si studiavano il dio,
più i commedianti della compagnia erano spinti a sghignazzare, dicendo:
"Ecco il valoroso, ecco lo sgominatore dei banditi!". Allora Enope
esclamò: "È proprio questo che rafforza le mie nuove convinzioni sugli
dèi: da solo, timido e disarmato, con la sua sola presenza ha gettato lo
scompiglio in una banda di uomini armati, audaci, pronti a qualunque crudeltà,
e li ha ridotti all'impotenza!".
Il dio Stupore, sentendo
quei discorsi su di lui, per quanto tardo e proprio duro di mente, non lo era
al punto di essere insensibile agli elogi o ai commenti pesanti; e così
rifletteva tra sé sulla condizione umana: "Come dovrei chiamare questo
guaio che hanno gli uomini, che ridono di un dio presente e hanno rispetto e
terrore della statua di uno che non c'è? Questo qui s'è messo in testa d'aver
ricevuto una grazia e ha dimenticato completamente le sue profonde convinzioni
contro gli dèi e l'insistenza con cui le sosteneva; questi altri, benché messi
sull'avviso dal sole, dalla luna e da tutti gli altri segni evidenti
dell'esistenza degli dèi, revocano in dubbio quel che essi stessi ammettono di
potere, e dovere, credere. La mia statua di bronzo posta in un luogo profano ha
avuto il potere di distogliere dalla loro crudeltà banditi sanguinari, far
venire la paura degli dèi, convertire alla fede; ed io che sono un dio qui
presente non riesco a rendere un po' più educate e rispettose verso gli dèi
persone che fanno un lavoro collegato alle pratiche del culto religioso! Ma
come faccio a distoglierli dalla loro empietà, se continuano a fare gli empi
proprio contro di me?". Così meditava Stupore. Ma Enope, quand'ebbe
adorato per un po' il suo dio protettore, non poteva certo starsene
tranquillamente a veder trascurato a quel modo uno che gli aveva fatto la
grazia: prese perciò un pezzo di ferro e si mise a grattare la ruggine che
imbruttiva ulteriormente la faccia di Stupore. Il dio Stupore si sarebbe
privato volentieri di quella fastidiosa grattata, ma, ritardato com'era, non
sapeva come fare. D'altra parte, pensava di dover sopportare quell'uomo che
cercava di fargli una cosa gradita, sia pure a sproposito; qualche volta, però,
allargava la bocca di nascosto per evitare quella lima che passava e ripassava
facendo un male cane. Gli dèi, ripensando alla sua sparata che si poteva
coprire il cielo con la pelle degli uomini, avrebbero riso di cuore a vederlo
mezzo spellato da un ometto, ma l'idea di poter subire danni ancora più gravi
dagli uomini li rendeva propensi a pensare al rischio che correvano piuttosto
che a ridere della stupidità altrui, e poi non potevano negare di avere
anch'essi una buona dose di macchie di ruggine.
Questi fatti si
verificavano dunque nel teatro; so che al benevolo lettore essi potrebbero
apparire volgari, almeno in parte, ed estranei ai principi morali che ho sempre
osservato nella mia attività di scrittore, guardandomi bene dal toccare nelle
mie opere e nelle mie dichiarazioni argomenti meno seri e puri di quanto
permettano la religione delle lettere e il rispetto per la religione. Però, se
consideri quel che ho cercato di esprimere in questo brano, come del resto nel
complesso dell'opera, ti rendi conto senz'altro che i principi dediti al
piacere finiscono col fare porcherie molto più gravi di quelle che ho
raccontato io: vorrei perciò che tenessi conto della mia coerenza con la scelta
fatta all'inizio del presente lavoro, più che con la mia consueta disciplina
intellettuale e morale. Ma forse ho detto più di quel che avrei voluto, per
quanto sia sempre meno del necessario. Comunque, basta così; riprendo il
racconto.
Mentre in teatro
avvenivano cose di quel genere, nell'aldilà cominciarono ad accadere fatti
nuovi, molto divertenti e soprattutto di enorme interesse. Caronte, infatti,
aveva appreso dalle continue dicerie dei defunti che il mondo stava per essere
totalmente distrutto, e che le Parche e le Ispiadi avevano già cominciato a
sterminare intere famiglie, mentre tutto quanto andava tristemente in rovina
nel terrore della distruzione imminente. Pertanto Caronte aveva deciso di
andare a vedere questo mondo, prima che una creazione così grande e
meravigliosa venisse distrutta, poiché non l'aveva mai visto in passato., e in
futuro non avrebbe potuto più farlo; però aveva sentito dire che il percorso
che conduceva dagli inferi alla terra degli uomini di lassù era molto
rischioso, e sapeva bene come fosse noto e consentito solo a pochissimi. Non
aveva quindi il coraggio di partire senza precauzioni, e in tutta la
moltitudine dei defunti non gli riusciva di trovarne uno che si lasciasse
convincere, con qualunque offerta, a ritornare nel posto da cui era fuggito
molto volentieri, liberandosi del tetro carcere del corpo: anzi, per
dissuaderlo da quell'intenzione parlavano diffusamente delle sventure umane e
mettevano a confronto i mali dei vivi con la libertà dei morti; dicevano, per
concludere, che era meglio sopportare qualunque guaio piuttosto che tornare ad
affrontare le angosce umane. Il caso volle però che ci fosse tra i morti un
certo Gelasto, un filosofo in complesso tutt'altro che banale, che però Caronte
aveva lasciato da parte da molto tempo per il semplice motivo che era morto in
estrema povertà e quindi non si era portato niente per pagare il costo dei
traghetto. Caronte si mette d'accordo con lui che l'avrebbe trasportato gratis
se quello gli avesse fatto da compagno e da guida nel suo viaggio sulla terra.
Gelasto si assunse l'incarico, per quanto malvolentieri e senza sapere la
strada. Del resto, che avrebbe potuto fare quel poveraccio, se non c'era
possibilità di pagare? Doveva restar fermo in eterno in quel luogo, senza poter
essere considerato né tra i vivi né tra i morti? È chiaro che era costretto ad
affrontare qualunque evenienza, il noto e l'ignoto, le prove più dure,
soprattutto perché non arrivava mai nessuno, né tra i suoi amici né tra le
persone più ricche, a cui fosse possibile chiedere una mano d'aiuto: infatti a
nessuno dei defunti è stato mai concesso di portarsi dalla terra più della
moneta che serve a pagare il traghetto.
Così Caronte, facendo i
preparativi per il viaggio, tirò in secco la barca e stette un pezzo a
riflettere se non convenisse lasciarla da qualche parte dell'aldilà; infine,
pensando che fosse la migliore soluzione, la capovolse e la sollevò
mettendosela sopra la testa, in modo di stare al riparo di una sorta di tenda
in miniatura, e si mise in cammino tenendo il remo in mano. La folla assiste
ammirata alla partenza di quel vecchio ardimentoso e in pieno vigore a dispetto
dell'età. Strada facendo, tra un discorso e l'altro Gelasto chiese a Caronte
perché trasportava la barca in quel modo, e non aveva preferito lasciarla in
secco sulla spiaggia. Caronte rispose: "Vuoi proprio che ti parli delle
stramberie dei defunti? Non ce n'è uno che non vorrebbe farmi navigare ai suoi
ordini! Anzi, proprio qualche giorno fa un mangione di cui non ricordo il nome
mi ha strappato il remo e si è messo a dimenarsi che pareva un argonauta. Gli
dico: 'Ma chi sei? In vita forse sei stato ammiraglio?'. 'No' risponde 'ma una
volta nella nostra famiglia ci sono stati parecchi rematori'. Mi sono messo a
ridere, sbalordito dalla scemenza, più che dalla sua faccia tosta, vedendolo
partire in quarta senza esitazione per fare una cosa di cui non aveva la minima
pratica. Allora uno dei defunti suoi compagni di viaggio mi fa: 'Non è vero,
Caronte, questo qui e i suoi parenti non hanno mai visto il mare nemmeno in
cartolina: montanari sono, se la son sempre fatta nelle cave di pietra a cui
erano assegnati!'. Se questo ha avuto tanta faccia tosta, come pensi che si
comporterebbero gli altri, se gli si offrisse l'occasione di cavarsi il gusto
di traghettare o di fare una bravata, lasciando lì la barca?". Disse
allora Gelasto: "Ma se essi si mettessero a fare così non per
sfacciataggine o arroganza, ma per la voglia d'imparare?". Rispose Caronte:
"Imparare nuovi mestieri qui all'inferno? Neanche per sogno! Degli
sfrontati, ecco cosa sono. Ma come si può ammettere che il primo che passa
voglia insegnare a remare a Caronte?". Intervenne Gelasto: "Il tuo
discorso mi offre lo spunto per dire che io ho subito un'ingiustizia da parte
tua, Caronte: tu hai traghettato un sacco di sfacciati o giù di lì, e hai
rifiutato per tanto tempo me, che sono la negazione assoluta dell'arroganza e
della mancanza di discrezione". Caronte rispose: "Dici di non esser
stato petulante e indiscreto? E non è petulanza chiedere gratis le mie
prestazioni? Non è indiscrezione incaponirsi a chiedere continuamente una cosa
che è stata negata cento volte?". E Gelasto: "Io intendevo lamentarmi
del mio guaio, Caronte, non chiedere le tue prestazioni, visto il tuo
atteggiamento di chiusura inesorabile proprio verso di me, che non avevo più
altre risorse se non le preghiere". Caronte rispose: "Avresti fatto
meglio a impiccarti, prima di ridurti al punto di poter contare solo sulle
preghiere!". "Ammetto" disse Gelasto "la mia poca prudenza,
il motivo, però, forse non è proprio malvagio. Pensavo, infatti, che il mio
primo dovere di filosofo fosse quello di tenermi completamente lontano dal
denaro, fonte di tutte le preoccupazioni, come si dice in giro, e di votarmi
interamente con assoluta dedizione e libertà d'animo allo studio e alla
conoscenza dei problemi più complicati ed elevati". "Che idea
bislacca!" esclamò allora Caronte "Sei ridicolo se ti limiti a
crederci, ma se cerchi davvero di affrontare in piena libertà d'animo le cose
più complicate, e la povertà soprattutto, allora sei matto da legare! Ammesso e
non concesso che te la cavi senza fastidi, vuol dire che i problemi non sono
complicati; ma se lo sono, richiederanno troppa applicazione perché tu possa
permetterti di dire di non avere preoccupazioni. Dicono poi che il denaro è
fonte di preoccupazioni: ma chi è che lo dice, ti domando? Le persone sagge,
rispondi tu. Bell'idea di saggezza hanno i filosofi, se preferiscono tirare a
campare in mezzo al freddo e alla fame, chiedendo l'elemosina, piuttosto che
vivere nel benessere e nell'agiatezza! Eppure vivono, dirai tu. Ma questo non è
vivere, Gelasto, è combattere coi guai: quando uno si riduce alla fame e al
gelo, vuol dire che è proprio un poveraccio! Insomma, dove sta la vostra
saggezza, in particolare per ciò che vi tocca direttamente, filosofi?".
Gelasto rispose: "Chiedi dove sta la nostra saggezza? Ma noi sappiamo
tutto, le cause e il moto degli astri, delle piogge, dei fulmini; conosciamo la
terra, il cielo, il mare. Siamo noi gli inventori delle migliori teorie; i
nostri consigli, validi quasi come leggi, prescrivono le regole di
comportamento da seguire e il modo per migliorare le relazioni tra gli
uomini". E Caronte: "Persone illustri e rispettabilissime, a quel che
sento, se le loro azioni sono coerenti con le parole. Ma di' un po', voi in
queste vostre leggi non stabilite anche che l'uomo sia d'aiuto all'altro uomo,
ché ci si scambi rispetto e collaborazione?". Rispose Gelasto: "Per
noi questo è il primo dei doveri". "E allora è un dovere" fece
Caronte "sollevare dai fastidi chi ci sta al fianco, sollevarlo dalle
seccature, aiutarlo in tutti i modi?". "È proprio come dici tu"
rispose Gelasto. E Caronte: "Allora tu, visto che hai stabilito questa
regola, aiutami a portare questa barca che pesa una tonnellata!". E
Gelasto: "In questo caso, però, bisogna tener conto anche del tuo dovere!
Perciò, Caronte, considera se non sia tutt'altro che doveroso pretendere di
caricare un peso simile sulle spalle di un morto di fame, uno che ha tirato a
campare a forza di elemosine". E Caronte: "Almeno il remo!".
"Ma se hai detto" rispose Gelasto "che all'inferno non è
possibile intraprendere nuovi mestieri! Nella mia vita ho imparato a maneggiare
la penna, non il remo!".
Cammina cammina, tra una
chiacchiera e l'altra giunsero all'estremo lembo del mondo, il cosiddetto
orizzonte, in quel luogo dove ci si trova davanti a due porte, una di fronte
all'altra, separate da uno spazio molto ampio, che dall'inferno aprono la
strada una verso l'oceano, l'altra verso la terraferma; una è ornata d'intarsi
d'avorio, l'altra invece, di corno, si apre su un basso sottopassaggio.
Caronte, che di acqua in vita sua ne aveva vista a sazietà, preferì prendere la
via di terra, ma si stancò per la forte pendenza, non essendo abituato agli
strapazzi di un viaggio, e buttava fiumi di sudore; si fermarono allora a
riposare sul primo praticello che trovarono. Caronte ha una sensibilità
sviluppatissima, la sua vista, l'udito eccetera superano ogni immaginazione.
Quindi, appena il profumo dei fiori sparsi nel prato raggiunse le sue narici,
si mise subito a raccoglierli e a guardarseli con tanta gioia e meraviglia che
non voleva esser portato via di là. Gelasto, infatti, gli ricordava che la
strada ancora da fare era troppa per stare fermo a trastullarsi cogliendo fiori
come i bambini: dovevano far cose ben più importanti, e poi gli uomini avevano
tanti di quei fiori che ci camminavano sopra senza neanche accorgersene. Quello
si decise a ubbidire alla sua guida, anche se non avrebbe potuto ricevere
ordini più sgraditi. Per strada, poi, Caronte, vedendo che paesaggio piacevole
e vario offriva la natura, i colli, le valli, le fonti, i corsi d'acqua, i
laghi e così via, chiese a un certo punto a Gelasto da dove il mondo avesse
attinto tutto quel lussureggiante splendore. E Gelasto, per dar prova della sua
eloquenza filosofica, cominciò a sciorinargli la seguente dimostrazione
dottrinale: "Per prima cosa è bene che tu sappia, Caronte, che in natura è
impossibile l'esistenza, attuale o potenziale di qualcosa che sia privo di una
causa. Col termine 'causa' intendiamo tutto ciò che provoca il moto o la
quiete. Col concetto di 'quiete' indichiamo la cessazione del moto, mentre
quello di 'moto' ci spiega come una cosa possa trasformarsi in un'altra.
Bisognerebbe sapere anche che è stato l'intervento del moto a riversare le
forme nella stabilità primigenia dell'universo, e a dare varietà alla
disposizione al mutamento delle forme stesse; altri, invece, sono dell'idea che
questo artificio della natura dipenda dalla congiunzione della sostanza con gli
accidenti. Non vorrei però farla lunga a vuoto: è chiaro fin qui,
Caronte?". Caronte rispose di non aver mai sentito esporre cose così
semplici con paroloni così grandi, né idee più confuse in modo più ordinato.
Allora Gelasto attaccò daccapo, ricominciando il discorso da un altro punto:
colui che per primo si mise a fare qualcosa, prima si fissò bene in testa il
risultato che avrebbe voluto ottenere, e chiamò "forma" appunto
questa immagine che aveva concepito con precisione dentro di sé; subito dopo si
procurò qualcos'altro, semplice o composto di più parti messe insieme, a cui
applicare la forma quasi avvolgendogliela attorno, oppure per riempire per
mezzo di esso la forma stessa, rendendola solida: questo qualcosa alla fine lo
chiamò "materia". Ma non avrebbe potuto portare a termine l'opera
senza ricorrere a un qualche sistema per mettere assieme facilmente, secondo il
suo progetto, la materia e la forma: questo espediente lo definì
"moto". A questo punto del discorso di Gelasto, Caronte lo
interruppe: "Anch'io ho sentito dire che tutte le cose hanno avuto origine
da una specie di reciproco, armonioso contrasto, e che si trasformano incessantemente
per l'aggregazione e la disgregazione di particelle infinitesimali. Ma vuoi che
ti dica quel che penso di te? Credevo che voi filosofi sapeste tutto, ma, a
quanto vedo da te, non sapete niente, se non parlare in modo da non farvi
capire nemmeno se discorrete delle cose più ovvie. Come vuoi che io ti creda
così su due piedi se tu, che sostieni di sapere cosa avesse in testa il
creatore originario delle cose, hai sicuramente dimenticato la strada di casa,
come capita ai bambini? Infatti, se mi oriento bene, ci hai fatto fare un gran
giro, e siamo tornati alle regioni del Tartaro! Ecco lì la nebbia oscura dello
Stige; non senti venire il cupo brontolio e i lamenti dei colpevoli sottoposti
ai supplizi?". Poi indicò un lupo e aggiunse: "Vedi laggiù
quell'anima vagante?". Gelasto rispose ridendo: "Non ti devi stupire,
Caronte, io questa strada non l'ho fatta più di una volta sola! Ma, perché tu
ti raccapezzi, quello che ti è parso un urlo lamentoso è il suono di una tromba
militare che viene di là, spinto dal vento, da un accampamento di uomini; se
non sbaglio, stanno suonando il primo cambio della guardia. Quanto alla nebbia,
mi sto chiedendo anch'io da dove ne salti fuori tanta, e mi meraviglio anche di
te, che dici di veder qui altre anime di defunti oltre la mia". E Caronte:
"Ehi, ma quello è di sicuro quel re! Ehilà, re…!". Gelasto disse:
"Un lupo tu me lo chiami re? Quadrupedi del genere, per quanto danno
facciano agli uomini, sono animali mortali, lontani anni luce dalla natura
umana e dalle anime dei defunti". Il lupo, nel frattempo, aveva strappato
gli intestini a un cadavere a forza di morsi e se ne stava fermo lì a
divorarseli. Disse allora Caronte: "Devo proprio darti ragione:
all'inferno non si mangia. Io avevo creduto che quell'animale fosse il re con
cui l'araldo Peniplusio diede vita a un'interessante discussione, una volta,
sulla mia nave; te la racconto al ritorno, se vuoi". Disse Gelasto:
"D'accordo; ma tu dove hai mai visto o sentito dire che i re siano
lupi?". E Caronte: "Ma che bravo filosofo, conosci il corso degli
astri e non sai niente delle cose umane! Caronte il barcaiolo ora t'insegna a
conoscer te stesso! Ti dirò quel che ricordo del discorso non di un filosofo
(tutte le vostre grandi teorie si riducono a sottigliezze e giochi di parole),
ma di un pittore. Lui sì che, a forza di osservare attentamente le forme del
corpo, ha visto da solo più di tutti voi filosofi messi insieme, con tutte le
vostre misurazioni e ricerche sul cielo. Stai attento: sentirai una cosa
davvero fuori del comune. Ecco cosa diceva quel pittore: il creatore di
un'opera così grande aveva fatto un'accurata selezione per scegliere la materia
con cui fare l'uomo; chi dice fosse fango impastato col miele, chi cera
riscaldata col calore delle mani: qualunque cosa sia stato, dicono che vi
applicò due sigilli di bronzo, impressi uno sul petto, sul viso e su tutto ciò
che si vede da questa parte, l'altro sulla nuca, la schiena, le natiche e via
seguitando. Formò parecchi esemplari umani e mise da parte quelli difettosi e
mal riusciti, soprattutto quelli leggeri e vuoti, per farne le femmine;
distinse le femmine dai maschi togliendo alle une un pezzettino da dare in più
agli altri. Con dell'altro fango, inoltre, e con sigilli di vario tipo fece
numerosi altri esemplari di esseri animati. A lavoro ultimato, vedendo che
alcuni uomini non erano sempre e comunque contenti della forma che avevano,
stabilì che chi lo preferiva poteva assumere l'aspetto di qualunque altro
animale gli fosse andato a genio. Indicò poi il suo palazzo, bene in vista sulla
cima di una montagna, e li esortò a salirvi per la strada ripida e diritta che
si vedeva, per andarsi a prendere tutti i beni in grande abbondanza; dovevano
però stare tante volte attenti a non prendere strade diverse da quella:
sembrava impervia all'inizio, ma andando avanti diventava quasi pianeggiante.
Fatto questo discorso se ne andò; gli omuncoli cominciarono la salita, ma ben
presto alcuni, nella loro stoltezza preferirono aver l'aspetto di buoi, asini,
quadrupedi in genere, mentre altri, traviati dalle passioni, erano andati a
perdersi per vie traverse. Allora, trovandosi bloccati in valloni scoscesi e
rimbombanti, in mezzo a fitte macchie, di fronte all'impraticabilità dei luoghi
si tramutarono in vari esseri mostruosi e tornarono sulla via principale, dove
però furono respinti dai loro simili a causa del loro aspetto orrendo. Perciò,
scoperto del fango simile a quello di cui erano fatti, si fecero delle maschere
somiglianti ai volti degli altri e le indossarono; questo espediente di
mascherarsi ha preso piede in seguito, al punto che si fatica a distinguere le
facce finte da quelle vere, se non ci si mette a guardare attentamente
attraverso i buchi della maschera sovrapposta: solo così i diversi aspetti
mostruosi sono visibili agli osservatori. Queste maschere, chiamate 'finzioni',
resistono fino alle acque di Acheronte, non di più, poiché quando si arriva a
quel fiume va a finire che il vapore acqueo le scioglie: è per questo che
nessuno è passato sull'altra riva senza perdere la maschera, venendo quindi
scoperto". Gelasto chiese: "O Caronte, stai scherzando o parli sul
serio?". "Altroché! Se con le barbe e le ciglia delle maschere ho
intrecciato questa gomena, e ho la barca piena zeppa di quel fango!".
Mentre Caronte faceva
questo discorso, si stavano ormai avvicinando al teatro. Egli allora fece delle
domande a Gelasto, venendo così a sapere chi aveva messo su quella costruzione
così grande e a quali scopi era destinata; quando capì che quello era un
teatro, fatto per recitarvi delle storie, scoppiò a ridere a crepapelle per
l'assurdità degli uomini, che avevano sprecato tante di quelle energie a
distruggere i monti per mettersi poi a innalzare a loro volta una costruzione
enorme. Imprecò poi contro la stoltezza delle autorità, le quali permettevano
che in città si perdesse tanto tempo in spassi. Ma Enope, quel commediante
filosofo di cui s'è già raccontata un'avventura ridicola, vedendo da lontano
qualcuno arrivare con una barca in testa, pensò che si trattasse di un nuovo
tipo di attori e allora si fece da parte con tutti i suoi compagni per spiare
di nascosto se Caronte aveva intenzione di mettere in scena qualche spettacolo.
Quando arrivarono nel mezzo del teatro, Gelasto domandò: "E allora,
Caronte, che te ne pare?". Caronte rispose che secondo lui il teatro e
tutte quelle splendide decorazioni non erano per niente paragonabili ai fiori
che aveva colto nel prato. Ammise poi il suo stupore davanti al fatto che gli
uomini danno più valore a cose che possono ottenere grazie al lavoro di una
qualunque manovalanza che a quelle che sono incapaci perfino di sfiorare col
pensiero. Disse: "Voi trascurate i fiori: dovremmo ammirare le pietre? Nel
fiore tutto quanto concorre alla bellezza e alla grazia. In queste opere umane
l'unica cosa veramente sorprendente è che si debba biasimare un tale assurdo
spreco di energie. E poi vorrei sapere da te, filosofo, a chi sono utili queste
cose, giacché dici che in questo posto vengono rappresentate molte storie che
insegnano a viver bene. Agli adulti? Che sciocchezza mettersi ad ammaestrare
chi ha già imparato con l'esperienza tutto ciò che è utile. Ai giovani? Che
assurdità pretendere di dare dei precetti con le parole a chi non sta a
sentire. Tanto varrebbe che mi dicessi che chiedono ai poeti, non ai filosofi
le regole per vivere!". E Gelasto: "Come vuoi tu, Caronte: però
quello che si ascolta con piacere dai poeti si afferra più facilmente, lo si
assimila per bene e resta impresso. E se poi vedrai queste gradinate riempite
da una folla di illustri personaggi non dirai più che è un'opera assurda, e non
ti dispiacerà esserci anche tu. Sicuramente, come si dice, non è senza la
volontà di un dio che si riuniscono in tanti, giacché l'esperienza t'insegna a
venerare quando sono riuniti quelli che non valuteresti un fico secco, presi ad
uno ad uno, e a restare in religioso silenzio davanti a loro". Allora
Caronte, indicando l'una e l'altra statua divina, domandò: "Di', Gelasto,
tu questi li valuti un fico secco presi singolarmente, e li venereresti se
stessero tutti insieme?". Gelasto rispose con un sorrisetto: "Se
fossi solo forse riderei, in presenza di molti altri li venererei".
Mentre stavano a guardare
le statue, Caronte ebbe l'impressione di sentire qualcuno parlare sottovoce al
riparo di un arco un po' appartato, e dire così: "Le battute di Gelasto
son roba rimasticata, e di tutta la rappresentazione di costoro l'unica cosa
valida, per me, è la maschera di Gelasto: certo gli somiglia come più non si
può!". Caronte sentì poi altri dire che Gelasto in vita era stato molto colto
e saggio, mentre altri sostenevano che era sciocco e faceva stramberie,
soprattutto perché si lasciava offendere e subiva senza far rispettare se
stesso e la propria dignità, per vigliaccheria. Non ritenevano valida quella
sua scelta di perseverare in eterno a far del bene a tutti mentre molti lo
provocavano e lo offendevano continuamente. Costoro avrebbero dovuto vedersela
con Enope, il quale mostrava la sua forza respingendo e rintuzzando gli
attacchi più che cercando di tener a freno l'arroganza dei provocatori con la
troppa sopportazione. Quando anche Gelasto afferrò questi discorsi di Enope e
riconobbe la sua voce, disse: "Caronte, voglio farti vedere quant'è
valoroso questo smargiasso!". Detto fatto, balzò di corsa verso quei
criticoni. Essi, alla vista del morto che si avvicinava, appena lo riconobbero
rimasero stupefatti, mentre Enope non trovò di meglio che darsela subito a
gambe, lasciando il suo prigioniero. Allora, tornando da Caronte, Gelasto
disse: "Che te n'è parso del nostro grande campione, che appena ho mosso
il piede ha voltato le spalle? Sono proprio stupito nel vedere quest'uomo che
in vita era mio intimo amico fare certe critiche su di me e provare paura a
vedermi, anziché gioia. Ma ora capisco che il suo modo di fare era una finzione,
un prodotto di quell'artificio di mascherarsi che m'hai spiegato tu; una
finzione, non la verità era la faccia amichevole che mi faceva, lui che certo
non avrebbe messo tante volte a dura prova la mia pazienza quand'ero vivo, come
non avrebbe attaccato il mio buon nome ora che son morto, se mi fosse stato
amico davvero!". Stava parlando così, quand'ecco che un pesante macigno
colpì la barca di Caronte provocando un gran rimbombo (l'aveva scagliato con
tutta la sua forza quel selvaggio ubriaco di prima). Caronte, atterrito dal
colpo, si mise a gridare facendo rintronare tutto il teatro. Gelasto, fremente
di rabbia, si stava lanciando contro l'ubriaco, ma Caronte esclamò:
"Lascia perdere, Gelasto, lascia perdere! Tu li attacchi con l'ombra,
questi qua ci prendono a pietrate! Abbiamo girovagato abbastanza. Qui, a parte
le assurdità e la cattiveria, non trovo niente che valga la pena di vedere, e
la cosa migliore è detestare le assurdità e stare alla larga dalla cattiveria.
Andiamocene!". Gelasto cercava di richiamare Caronte, questi se la filava
saltellando tutto tremante. A quello spettacolo gli dèi lì nel teatro
scoppiarono in una gran risata, che ebbe l'effetto di attirare su tutti loro un
grosso guaio, assolutamente imprevedibile. Racconterò presto che cosa avvenne,
prima però farò un resoconto dell'avventura capitata a Caronte, inattesa e
veramente spassosa. Sentendo il riso delle statue, disse dunque Caronte:
"Ridete quanto vi pare: io preferisco esser deriso che prenderle". Il
fatto è che credeva che a ridere fossero stati quei rompiscatole dei
commedianti, per quanto notasse con meraviglia l'enorme risonanza della risata
divina. Ma Gelasto, che era pratico di teatro, si mise immediatamente a correre
gridando: "Accidenti, Caronte! Accidenti, aspetta che arrivo!".
Caronte si voltò a guardarlo, stupito per la sua fifa. "Che ti
piglia?" disse "Ti han tirato una pietra?". E quello, quasi
fuori di sé, tutto tremante: "Non hai sentito le statue?". "Che
cosa?". "Si son messe a ridere!". "E allora?" fece
Caronte "Volevi che piangessero, o è la fifa che ti fa credere che le
statue hanno riso?". Gelasto, pallido di paura, non si reggeva più sulle
gambe, così al primo incrocio che incontrò fuori città andando dietro a
Caronte, si attaccò alla poppa capovolta della barca e disse: "Fermati,
Caronte, per favore!". Quello rispose: "Non sopporto queste
mascherate che fate sempre voialtri mortali! Tu non avevi paura dei sassi, e
ora fai finta di essere terrorizzato per una risata; e poi tu insistevi tanto
di non voler tornare qui sulla terra, ma ora bisogna strapparti a forza! Non ti
ringrazio per niente d'avermi tolto il piacere di raccoglier fiori per portarmi
in mezzo a liti e baruffe. Se c'è da aver paura non solo delle sassate, ma
anche di questa risata delle statue, chi è che non se la squaglierebbe di qui?
Ma tu fa' quel che ti pare, io me ne vado". Gelasto, colpito dai modi
arcigni di quel vecchio intrattabile, disse allora: "Sei tu ora che ti
metti a fare con me giochi di parole e sottigliezze, di cui dicevi sono esperti
i filosofi, o Caronte!". Rispose Caronte: "È per questo che è così
importante frequentare chi sa parlar bene: s'imparano tante cose dagli
intellettuali!". Gelasto allora pensò per sé, e, non certo per togliere un
peso a Caronte, ma per impedirgli di andarsene se avesse insistito a filarsela
alla svelta lasciandolo indietro, disse: "È giusto che anch'io impari
qualcosa da te. Va bene! Imparerò a maneggiare il remo". E Caronte:
"Il remo qui in secco?". Ma l'altro afferrò il remo e si mise a
dimenare le scapole, camminando carponi. "Era così Ercole con la
clava!" diceva "E se in teatro avessi avuto questo remo, mascalzone
d'un Enope, a cui ho fatto tanti piaceri, me l'avresti pagata! Ti avrei
assalito come si assale un mostro, e te ne avrei date tante, dopo che ho
sopportato pazientemente la tua disonestà e la tua cattiveria!".
Intervenne allora Caronte: "Gelasto, stammi un po' attento: ne ho tanti di
anni sulla breccia al punto del passaggio, e ne ho vista molta di gente colta
ed esperta con cui ho discusso di questi problemi! Vorrei che sapessi una cosa:
secondo il parere di tutte le persone più accorte, non bisogna sempre usar
pazienza; la loro opinione è che c'è una regola da osservare in generale fra i
mortali: niente in eccesso; solo di pazienza, però, nella vita bisogna averne o
niente affatto o in eccesso. Probabilmente si trova più gente che rimpiange
d'esser stata paziente che di non esserlo stata". Gelasto esclamò:
"Che osservazione profonda! Lo vedo in base alla mia esperienza: posso dire
d'essermi tirato addosso più fastidi con la mia pazienza di quanti non me
n'abbia fatto incontrare l'intolleranza".
Tra una chiacchiera e
l'altra erano ormai giunti al mare. Gelasto allora si fermò a guardarsi intorno
esitante; Caronte, che cominciava a irritarsi, disse: "Ti blocchi anche
qui?". Gelasto rispose: "Non ti arrabbiare, Caronte, mi sto dando da
fare per tutti e due. Ti confesso che non sarò una buona guida in una così
vasta distesa, senza strade tracciate né punti di riferimento". Caronte
rispose: "Ho sentito dire che la via per l'inferno è facile: basta andare
da quella parte dove non si vede e non si sente niente. E allora montiamo in
barca e facciamo rotta in quella direzione!". Mentre navigano nel mare
calmo, Caronte dice: "Vedi come me la cavo meglio non dando retta a voi
filosofi? Se ti avessi dato ascolto, mi avresti sepolto con i tuoi dubbi; non
ti ho dato retta, per questo navighiamo così bene. Ma tu perché hai finto di
aver paura di questo mare, dopo aver visto l'Acheronte? Questo qui sembra più grande,
te lo concedo, ma non può essere né più profondo né più burrascoso. Ehi, ma che
razza di mostro è quello laggiù, che avanza solcando il mare nella nostra
direzione? Che sia quello che ha procurato tanti disastri agli inferi, e dicono
si aggiri per i mari? Come capita a proposito! Non sono mai riuscito a capire,
infatti, che roba sia. Ed ecco che sta per passarci davanti, lo vedremo, e
questo è un bene. Ora sì che son contento d'essere andato sulla terra! Eccolo
qui, lo vedi?, lo Stato in navigazione!". Gelasto esclamò: "O
Caronte! Che definizione appropriata hai trovato, chiamando 'Stato' una nave!
Se volessi descriverla a modo, non potrei trovare espressione più chiara! Anche
qui infatti, come in uno Stato, comanda la minoranza, la maggioranza è comandata
e così impara a reggere il potere; le loro passioni, i loro progetti di
carriera e di benessere cercano di adattarli a tutte le situazioni. Inoltre
anche qui, come in uno Stato, la direzione generale è affidata a uno solo, o ad
alcuni, o a molti; essi, se sanno tener conto del passato, prevedere il futuro
e analizzare attentamente il presente, e se affrontano con razionalità e metodo
tutti i problemi, senza cercar di stornare a loro favore, anziché
nell'interesse generale, nessun bene, allora sono dei governanti, e tutto
procede a meraviglia; se invece si accaparrano ogni cosa e mettono in secondo
piano tutto quanto di fronte alle loro passioni, allora sono degli oppressori,
e tutto va in rovina. Inoltre, se ascoltano i consigli degli esperti, se si mantengono
sempre disponibili, se la loro efficienza è sincera e trovano l'unanimità
nell'esecuzione delle decisioni, allora la situazione fila liscia e stabile; se
invece sono in disaccordo, se si fanno pregare e si tirano indietro, ecco che
lo Stato ne viene sconvolto ed entra in una grave crisi. Ehi, ma che
stupidaggine stiamo facendo? Non abbiamo saputo tirarci fuori da un disastro
imminente: siamo capitati davanti ai pirati!". Al sentire la parola
pirati, Caronte si spaventò, perché aveva inteso più d'una volta che sono
quanto di più terribile e crudele; eppure, nonostante i brividi di terrore,
fece finta di nulla pur di continuare a punzecchiare Gelasto. Disse:
"Quanti trucchi hai intenzione d'inventare, Gelasto, per interrompere il
nostro ritorno all'inferno? Una volta ti trattiene l'incertezza sulla rotta,
un'altra volta è scoprire il pericolo dei briganti che ti blocca! Che motivo
hai di temerli, se non possono toglierti neanche la vita? Comunque, è meglio
evitare questa seccatura: ti lascerò a terra". Detto fatto, diresse la
barca verso la spiaggia, remando a tutta forza. Gelasto si accorse che Caronte
s'era spaventato e disse allora ridendo: "Fai bene a squagliartela,
Caronte! Se catturassero un vecchio lupo di mare come te, lo farebbero certo
schiavo, mettendolo tra i loro sventurati rematori! E magari ti strapperebbero
barbone e capelli per intrecciarci le funi, proprio come hai fatto tu!".
Giunto che fu sulla spiaggia, Caronte s'imbatté negli abitanti del luogo, che,
avendo visto i pirati mentre si trovavano nei bagni pubblici lì vicino, stavano
tagliando la corda e gridavano ai due di stare alla larga da quei criminali
ferocissimi e di salire sulle montagne. Caronte disse che non poteva
abbandonare la sua barca, e non ce la faceva più a portarsela dietro: si era
stancato da morire cercando di guadagnare la terraferma remando a più non
posso. Andò allora a nascondere la barca in una palude nelle vicinanze,
coprendola sotto il fango, poi si rintanò in mezzo alle canne più vicine.
Gelasto, invece, salì fino ad un anfratto, dove si nascose in mezzo a un
cespuglio.
Ed ecco tosto i pirati,
già fatto il bottino, saltare di corsa giù dalla nave: entrano nello
stabilimento e lì, per divertirsi, decidono di nominare tra loro un re dei
crapuloni, con un sistema strano e originale. Fanno corona tutt'intorno, poi un
topo viene lanciato in acqua: è nominato re quello che il topo nuotando tocca
per primo. Con questa forma di estrazione a sorte, di tutta la ciurma uscì
fuori come re un tipo davvero raccomandabile. Poi si danno tutti alla gioia più
sfrenata, divertendosi un mondo a fare tutto ciò che si può fare nei bagni. A
un certo punto un mozzo di cambusa, proprio il peggiore in quella ciurma senza
freni, si proclamò re per burla anche lui in seguito a una cospirazione di
uomini di fatica e mozzi suoi pari. Quello che era stato sorteggiato re per
primo, di fronte alle insistenze della maggioranza, gli cedette spontaneamente
il posto. Il gioco è tirato avanti per le lunghe, si ride per gli scherzi più
strani in mezzo all'approvazione generale, in primo luogo del capo dei pirati,
il quale incoraggia addirittura a continuare. Allora il nuovo re dice di
volersi assicurare con un giuramento la fedeltà dei compagni di baldoria:
ordina pertanto di mettere in mezzo a loro una scodella nera affumicata, sulla
quale tutti, anche se non vogliono, devono giurare come su un altare, finché
venne il turno anche del capo pirata: ma questi si rifiutò di giurare, perciò
fu trascinato davanti al re e fu condannato, con decisione collegiale, in
quanto renitente agli ordini; ora, la pena prevista per i renitenti era
d'immergerli in acqua. Così anche lui, come tutti i ribelli, viene immerso
nell'acqua, ma lo immergono in modo da farlo restar soffocato in quel nugolo di
mani. Attendenti e amici del capo, sbigottiti per la fine dell'annegato e per
l'impresa temeraria dei congiurati, son lì lì per perdere il controllo. Ma
tutti quelli che stavano col re, esultanti per il successo, prendono
immediatamente possesso della nave e del timone, proclamano che la loro azione
ha dato a tutti la libertà e salpano a far festa dirigendosi al largo,
scomparendo nella stessa direzione da cui erano arrivati.
Gelasto, che aveva
seguito la fine del capo pirata dal suo punto di osservazione, corse subito a
raccontare tutto a Caronte. Questi non aveva mai mostrato tanto interesse per
un racconto: quindi, infangato e sozzo com'era da capo a piedi, si mise a
saltellare di gioia, abbracciò Gelasto e lo riempì tutto di fanghiglia a forza
di baci. "Ora tiro un bel respiro!" diceva "A chi poteva andar
meglio? E chi avrebbe immaginato che quella testa pelata e piena di bitorzoli
racchiudesse intenzioni del genere? A questo punto gli perdono volentieri tutti
i danni che m'ha procurato: se eri qua, Gelasto, che risate avresti
fatto!". "Avrei riso dei tuoi danni?" chiese Gelasto.
"Perché no" rispose Caronte "se ci riderei sopra anch'io, mentre
prima avrei pianto per la paura del pericolo? Devi sapere che un paio di quei
mozzi erano venuti a cospirare qui, vicino a questo tronco di salice. E anch'io
ero diventato quasi un altro tronco, me ne stavo immobile, impaurito dalla loro
venuta; me ne stavo steso nel fango, tenendo su solo il volto, e cercavo di
sentire cosa macchinavano. Riuscivo a stento ad afferrare le loro parole, comunque
m'è parso che uno dicesse: 'Basta così. Sono d'accordo: lo faremo morire
affogato'. A quel punto mi prende la fifa, perdo quasi la coscienza. Poi, messo
a punto il piano, quelli lì prendono a buttare in mezzo al fitto canneto,
proprio nella mia direzione, le interiora di un caprone sacrificato che si
erano portati dietro col pretesto di doverle andare a gettare. Soprattutto
quello splendido esemplare di re con la testa rasata tira con una forza che, se
non mi schivavo, erano guai! Ho proprio desiderato avere ancora per elmo la
barca, come prima in teatro. 'Ehi! Ehi!' dicevo 'Da queste parti i caproni
danno testate anche da morti?". Così narrò Caronte, poi prese subito la
barca, ed eccolo prendere il mare. Gelasto lo invitava a farsi un bagno, per
non esser preso in giro all'inferno con tutto quel sudiciume addosso. Ma
Caronte non volle, sostenendo che preferiva apparire il più sporco e miserabile
all'inferno piuttosto che il più elegante sulla terra, pur di scampare a quelle
belve terribili che sono gli uomini. Gelasto disse allora: "Ho capito
cos'hai in mente! Vuoi tornare all'inferno in maschera pure tu!".
Questi i discorsi di
Caronte e Gelasto. A un certo punto mentre si dirigevano al largo raccontandosi
la storia dei pirati e del re narrata poc'anzi, Caronte si decise a esporre
l'interessantissima discussione tra quel Peniplusio e il re, che aveva promesso
di narrare al ritorno quando aveva visto il lupo Però un nuovo pericolo si mise
di mezzo, impedendo la narrazione. Il mare, infatti, cominciò a gonfiarsi in
gorghi turbinosi e ad ingrossarsi furiosamente, abbattendosi contro gli scogli;
i naviganti avevano perso ogni speranza di salvezza, a meno che non fossero
riusciti ad approdare alla scogliera più vicina, selvaggia e frastagliata.
Riparano proprio là, dunque, e vi trovano, legato ben stretto, Momo, più
curioso di conoscere la causa di una tempesta così violenta che addolorato per
i suoi guai. La tempesta l'avevano provocata i venti in lite tra loro: stavano
infatti discutendo violentemente, rinfacciandosi l'un l'altro la colpa del
tremendo misfatto che avevano combinato nel teatro; si erano accalorati tanto,
avevano provocato un tale trambusto che finirono per mescolare mare e cielo.
Era successo che, al momento della fuga di Caronte dal teatro, la risata degli
dèi aveva fatto rimbombare tutta quanta la terra, ed Eolo, richiamato dalla
risata, volò via dalla sua grotta per vedere cosa stava accadendo. I venti
chiusi nella grotta, stando con l'animo in tensione, le orecchie attente,
ebbero l'impressione di sentire la voce della dea Fama che svolazzava in lungo
e in largo facendo stridere l'ali, raccontando cos'era successo agli dèi e a
Caronte. A quel punto, fu tale il desiderio di vedere gli dèi e gli spettacoli
che s'impadronì dei venti, che questi, sbarazzandosi con la forza di catenacci,
serramenti e ostacoli di ogni sorta, irruppero tutti in una volta in teatro con
violenza selvaggia, talmente privi di controllo da rompere i legami e far
rovinare, assieme a parte del muro, il telone steso sopra il teatro, e con esso
anche le statue che alcuni celesti avevano depositato sul cornicione. La caduta
del telone e delle statue non mancò di provocare un grosso danno agli dèi:
alcuni furono sbattuti a terra, altri travolti, non ce ne fu uno che non
riportasse qualche contusione. Per non parlare degli altri, Giove stesso rimase
impastoiato nei legami del telone, cosicché finì col cadere a testa sotto e
piedi all'aria, picchiando col naso. La statua di Cupido, piombando dall'alto,
stava per schiacciare la dea Speranza, e comunque riuscì a staccarle
completamente un'ala dalla spalla; la statua di Speranza a sua volta, quando si
piegò il tendone si mise a traballare e colpì nel petto Cupido. Gli dèi,
sbigottiti, non sapevano a che santo votarsi. Ma Giove superò se stesso,
facendo l'unica cosa degna di un principe molto saggio, e rifletté su quel che
dovessero fare i celesti di fronte all'emergenza. Gli venne il timore che gli
uomini potessero pensare che tutto quell'apparato festivo non era stato gradito
dagli dèi e quindi avrebbero tralasciato, in futuro, di darsi da fare per
acquistare meriti di fronte agli dèi, nel caso che avessero trovato il teatro
senza più statue. D'altra parte, aveva intenzione di sottrarre i suoi a quella
baraonda tutt'altro che gradevole: pertanto dà gli ordini che gli sembrano
necessari: ciascun dio doveva rimettere a posto la sua statua in teatro e poi
andar via subito, per evitare che il fatto venisse risaputo ed essi fossero
derisi dai mortali: era meglio per gli dèi sopportare qualsiasi inconveniente,
piuttosto che rimetterci il prestigio e la reputazione. Tutti obbedirono a
Giove, eccetto il dio Stupore, che era diventato pallido e duro come una
pietra; però, quando si fece l'appello in cielo, non risultarono assenti solo
Stupore e Speranza, che era rimasta, mutilata, sulla terra, ma anche Plutone e
la dea Notte.
Sarà un vero spasso
seguire le ragioni che li avevano trattenuti a terra, soprattutto per quanto
riguarda Plutone. Caso volle che la dea Notte (per cominciare da lei) avesse nascosto
la sua statua proprio sotto i medesimi gradini del teatro e proprio vicino a
quella di Apollo e, siccome era cava, ci aveva ficcato dentro quella borsa
piena d'oracoli trafugata ad Apollo come s'è detto, per evitare che se ne
impadronisse a sua volta, approfittando della confusione, qualcuno tra la gran
folla dei mortali, tra i quali aveva sentito dire che c'erano dei pericolosi
rapinatori. Mentre, dunque, ci si dà un gran daffare per obbedire all'ordine di
Giove, guarda caso, Apollo facendo leva col petto tirò su non la sua, ma la
statua di Notte, facendo sì che la borsa gli scivolasse tra i piedi durante il
trasporto. Però, occupato com'era, non si accorse della borsa. La dea Notte, in
preda a uguale eccitazione in quell'operazione così confusa, si prese in collo
quella statua che trovò. Ma poi, resasi conto dell'errore, pensando che Apollo
si fosse portato via di proposito una statua non sua, se ne andò a piangere in
grembo alla figlia per il rimorso del suo furto. La figlia di Notte è Ombra, e
Apollo ne è così perdutamente innamorato che non è capace di andare da nessuna
parte se non c 'è Ombra con lui. Quanto alla famosa borsa, se la trovò sotto i
piedi Ambiguità, la dea più bugiarda che esista. Appreso il fatto, Apollo fu
arso da una tale indignazione contro Notte che da allora in poi non seppe
trovar di meglio che correr sempre all'inseguimento della sua odiata nemica: e
lei si ripara nascondendosi in grembo ad Ombra. Plutone, dal canto suo, era
rimasto intricato in quel gran viluppo di tende, finché il frastuono non
richiamò lì alcuni magnacci che stavano a letto nei bordelli con le loro
baldraccone. Essi, trovato Plutone, gli misero un cappio al collo e lo tirarono
fuori, poi alcuni provarono a pestargli i piedi con dei sassi per verificare se
fosse proprio d'oro massiccio come immaginavano, altri nello sforzo di
strappargli gli occhi vitrei (pensavano fossero diamanti) glieli strapazzarono
al punto da fargli schizzar fuori una pupilla, mentre l'altra gliela
frantumarono del tutto. Plutone non stette a sopportare stoicamente il dolore e
l'oltraggio, ma diede un gemito, poi gliela fece pagare a parecchi di quei
magnacci del malanno: si buttò da una parte con tutto il suo enorme peso,
schiacciando chi gli capitò, pestando e mutilando mani e piedi a questo e
quello; da allora si dice che vada errando per il foro, privato della vista,
abbandonato al suo destino da quegli sporcaccioni rapaci.
Cose del genere
capitarono in teatro! E alla fine i venti, resisi conto d'aver causato tanti
disastri, si guardarono in faccia tra loro e ammutolirono, il rimorso e la fifa
li scombussolarono, poi presero a scambiarsi reciproche accuse di sventatezza
incontrollata; non la finivano più, insomma, d'insultarsi con ira facendo un
gran casino. Alla fine, nell'ardore della lite andarono a scegliersi per campo
di battaglia il mare, e da questo aveva avuto origine quell'improvvisa tempesta
di cui s'è detto. Spinti, dunque, da questa tempesta, Caronte e Gelasto
approdarono a quello scoglio dove si trovava Momo strettamente legato, e lì
ripresero conforto considerando i guai di Momo: credevano di trovarsi al
culmine della disgrazia, dopo tanti rischi e fatiche, ma quando videro il viso
di Momo che ce la faceva appena a respirare sotto la furia dell'oceano e tutto
intriso di lacrime, la commiserazione per i guai altrui mitigò il loro dolore.
E così gli chiesero chi era e perché mai si trovava lì a subire quell'atroce
supplizio, promettendogli che, se potevano far qualcosa per lui, si sarebbero
prestati senz'altro. Momo però rispose: "Poveri noi, che altro può fare un
naufrago per un condannato, se non mettersi a piangere i suoi guai assieme a
lui?". Ciò detto, scoppiò in un pianto dirotto, poi li pregò di tirarlo un
po' su dall'acqua, visto che era proprio fatto a pezzi per l'uragano. Quando
l'ebbero risollevato, subito Momo e Gelasto si riconobbero: infatti quando si
trovava in mezzo agli uomini Momo aveva affrontato numerose discussioni con
Gelasto su argomenti della massima profondità. Cominciarono perciò a
rammentarsi a vicenda circostanze e discorsi, e a un certo punto Momo disse:
"Quando facevo il filosofo in mezzo a voi, esule dal cielo per iniziativa
della dea Frode, procedevo alla cieca, però nel cercar di risollevare la mia
dignità di fronte alla gravissima ingiustizia subita sono stato sempre coerente
nel voler apparire il più umile tra i mortali piuttosto che un dio tra i
filosofi. Certo, ho fatto qualche concessione al mio immenso dolore e alla mia
acredine più che giustificata; ben altre però ne ho fatte alla reputazione
degli dèi, se è vero che ho potuto sopportare dagli omiciattoli, pur di non
danneggiare la schiera celeste manifestando la mia vera identità, cose che
nemmeno i miei avversari si sono sentiti di lasciarmi subire più a lungo. A far
nascere la compassione per i miei guai, oppure a placare l'animosità di chi mi
odiava, ha dato certo un grosso contributo quella mia incredibile capacità di
sopportare le disgrazie. Sono stato perciò riammesso in cielo e, per darti un
esempio del senso di giustizia di sua eccellenza Giove e degli dèi, i quali per
non aver dato alcun altro fastidio che buone azioni e giusti consigli m'avevano
mandato in esilio, mentre perché ho violentato una donna, dea e vergine per
giunta, dentro al tempio, si son messi a ridere tutti quanti. Quello che era
risalito tra i celesti era il vecchio Momo di sempre, però animato da nuovi
propositi: e così io che ero avvezzo a collegare sempre le mie idee alla
verità, i miei desideri al dovere, i discorsi e il viso ai principi di
giustizia che sentivo nel cuore, dopo il mio ritorno ho imparato ad adattare le
idee al pregiudizio fanatico, i desideri alla passione sfrenata, il viso, le
parole e anche il cuore alla macchinazione d'insidie. Aggiungo una cosa sola:
fin tanto che mi sono applicato a siffatte arti perverse in mezzo a quella
conventicola di beati son rimasto caro al principe, approvato da tutti quanti,
prestigioso di fronte a chiunque, oserei dire molto gradito perfino agli
avversari. Quel che m'ha fatto piombare in disgrazia è aver pensato, dopo aver
ricevuto tante manifestazioni d'onore, che fosse mio interesse lasciar perdere
ormai i malvagi artifici e riassumere l'antica indipendenza, buttando da parte
il lecchinaggio untuoso e servile. Sono perfettamente consapevole di quello che
ho fatto, di come ho cercato di fare il bene degli dèi. Per non parlare di
tutto il resto, ho avuto tanta sollecitudine per gli dèi da mettere insieme a
prezzo di molte notti bianche per Giove, quando faceva progetti di rinnovamento
totale, tutti quei vecchi ragionamenti sui compiti degli dèi e dei governanti
su cui ero solito intrattenermi con te, Gelasto mio, e glieli ho consegnati,
sintetizzati in un opuscolo, ma la mia disgrazia dimostra quanto valore lui gli
abbia dato. Per quanto si può osservare, quella serie di consigli onesti ed
utili non è piaciuta a Giove, gli è piaciuto invece relegarmi in questa
condizione infelice. Voi adesso cos'è che riterrete degno di critiche più
severe, la leggerezza con cui si trascurano gli affari di Stato o l'ingiustizia
con cui ci se ne occupa? Consideri lui stesso quanto sia utile allo Stato
questo modo di operare del principe. Nessuna persona onesta potrà dire che sia
giusto, e non sappiamo ancora quanto andrà a finir bene per quelli che
gioiscono della mia disgrazia, e nemmeno lui, che ricambia col male chi gli dà
consigli retti mentre colma di beni chi trama azioni malvage, può avere
abbastanza chiaro quanto durerà la sua fortuna procedendo per questa via. Ma
pensino altri a queste cose, quelli che hanno ancora la possibilità di sperare:
io devo pensare esclusivamente ad affrontare la mia triste condizione".
Quando Momo finì il suo discorso, Gelasto gli rispose: "Ho tanta
comprensione per te, mio caro Momo! Ma perché dovrei mettermi a raccontare le
mie sventure? Tanto per consolare il tuo dolore, io, esule dalla patria, ho
consumato gli anni più belli della vita in continue peregrinazioni, in mezzo a
disgrazie senza fine; sempre in lotta col bisogno, eternamente tartassato dai
torti non solo dei nemici, ma anche dei miei cari, ho dovuto affrontare il
tradimento degli amici, la rapina dei parenti, le calunnie dei concorrenti e la
spietatezza degli avversari; cercando di scampare agli assalti di un'avversa
fortuna, sono andato a piombare nella completa rovina che mi si preparava. Scombussolato
dai repentini cambiamenti di situazione, sepolto dalle sventure, schiacciato
dal peso dell'ineluttabile, ho sopportato ogni cosa senza mai lasciarmi andare,
sperando che gli dèi piissimi e il fato mi riservassero una sorte migliore di
quella che m'è toccata. Eppure, come sarei stato felice se solo un esito
migliore fosse stato la ricompensa per la mia applicazione allo studio di
quelle discipline elevate alle quali mi son sempre dedicato! Ma spetta agli
altri giudicare i miei risultati letterari. Questo di me posso affermare, di
essermi dato da fare con tutta la mia capacità, la mia passione, la mia buona
volontà per non dover mai rimpiangere i progressi che facevo di giorno in
giorno. I risultati hanno deluso ogni aspettativa: da chi mi doveva sentimenti
amichevoli m'è piovuto addosso malanimo, da chi c'era da aspettarsi un aiuto
materiale oltraggi, là dove le persone buone prospettavano un esito buono i
malvagi hanno risposto col male. Dirai: non t'è successo nulla di diverso da
quel che suole accadere agli uomini, ed è bene che ti ricordi d'esser uomo. E
allora, Momo, che dirai sentendo quello che è capitato a Caronte, a questo dio?
Mentre, seguendo una sua decisione senza dubbio giusta e saggia, s'è messo
d'impegno per non restare all'oscuro delle faccende umane, messo in fuga a
sassate s'è nascosto in uno stagno, e alla fine, dopo aver corso i rischi
peggiori sulla terra e in mare, per caso è arrivato a fatica qui da te; come
andar via, che direzione prendere, dove trovare un punto fermo, non ha niente
di certo, tanto che credo di dovermi felicitare con me stesso, anche in tutti
questi guai, sia per aver compagni divini nel miei guai, sia perché vedo dèi,
nati per un destino migliore, trovarsi in una sorte più infelice o quasi di
quella in cui mi son trovato io. E anche per voi, Momo e Caronte, dovrebbe
esser motivo di sollievo reciproco vedere che nessuno di voi due è al riparo
delle disgrazie".
Al termine di quei
discorsi commoventi sopraggiunse il dio Nettuno il quale, venuto a sapere
dell'azione impudente dei venti, aveva dato ordine alle nuvole di tenerti fermi
facendo pressione dall'alto fino a che lui non avesse fatto un rapido giro per
rimproverare come si deve quei forsennati. E così, un po' coi rimproveri, un
po' a colpi di tridente era riuscito a bloccare la loro furia scatenata
riportando la calma in tutto il mare, dopo di che si era recato a far visita a
Momo. Trovati lì Caronte e Gelasto, volle sapere come ci fossero arrivati;
appresa la storia delle loro traversie, deplorò pesantemente la follia dei
venti che con una sola azione sconsiderata avevano dato adito a tanti malanni:
avevano mandato a monte gli spettacoli, sconvolto i mari, messo nei guai gli
dèi. Poi, di fronte alle domande di Momo e Caronte, espose per filo e per segno
quello che era capitato a Stupore, Giove, Plutone nonché a tutti gli altri dèi.
Infine Nettuno disse: "Avete altre richieste da farmi? Ora che ho rimesso
a posto l'oceano, dovrei tornare da Giove e dai celesti". Gelasto allora:
"Se non ti spiace, Nettuno, vorrei tanto che tu convincessi Giove ottimo
massimo, nell'interesse suo e degli uomini, a servirsi dell'opuscolo di Momo
nella gestione degli affari di Stato: ci troverà un gran numero di spunti per
tirarsi su e rinforzare nel migliore dei modi la sua posizione". Nettuno
si disse scettico sulla possibilità che Giove si lasciasse prescrivere la linea
da seguire da chicchessia: di un principe pieno di sé si può ammettere
qualunque cosa, ma non che si lasci guidare, e non è tipo da accettar consigli
quando vuol fare una cosa o da lasciarsi influenzare se non la vuol fare; in
entrambi i casi aveva sempre fatto di testa sua, preferendo mettere in risalto
le proprie capacità piuttosto che dare importanza a quelle altrui. Ciò detto,
andò via. Anche Caronte se ne andò, e durante la navigazione disse: "O
Gelasto, come dovrei definire una cosa come questa in un principe, in
particolare Giove che ha fama di grande saggezza? Lasciamo perdere che sia un
po' troppo dipendente dal piacere, che abusi del potere a danno di persone
senza colpe, che preferisca il potere al mostrarsi degno del potere e che
voglia mostrarsene degno più che esserlo davvero: son tutte cose che si possono
anche tollerare. La cosa grave è senza dubbio un'altra, cioè che il principe
abbia la caratteristica ineliminabile di non vedere di buon occhio chi dà buoni
consigli e di non lasciarsi influenzare dai buoni consigli". Gelasto
rispose: "Come vuoi che vadano le cose se quello, circondato da una folla
di adulatori, si dimentica ogni giorno di più di poter sbagliare, e regola in
base all'arbitrio le sue passioni, in base alle passioni l'esercizio delle sue
funzioni, al punto che io non ho ancora ben chiaro se sia meglio essere un
principe di tal sorta o un servo". Riprese Caronte: "Mi fai tornare in
mente il racconto su Peniplusio che avevo iniziato prima della tempesta: una
storia certo interessante, per quanto non riesca a trattenere il riso al
pensiero di uno che affermava che una persona d'infima condizione come lui è da
preferire al più grande dei re". Allora Gelasto: "Anch'io adesso mi
chiedo com'è possibile nell'animo di ciascuno di noi che quando sopraggiunge la
paura perdiamo tutto il gusto del piacere, e poi, passato il pericolo, il gusto
del piacere ritorna subito. Tu, nel veder la tempesta, perché ti sei spaventato
al punto non solo di lasciar perdere il racconto iniziato, ma anche di smarrire
quasi la coscienza di te?". Rispose Caronte: "E come potevo
comportarmi vedendomi gonfiare intorno e piombare addosso simili montagne
d'acqua?". E Gelasto: "E va bene, montagne! E allora tu che mi
rimproveravi perché avevo paura dei pirati e non ti davi pensiero di un mare
ostile, di cosa ti sei spaventato? Proprio del mare, se non solo hai visto
l'Acheronte, ma ci sei invecchiato? O di che altro? Un vecchio lupo di mare
come te, Caronte, ha avuto paura del pericolo, pur essendo immortale?".
Caronte rispose: "Lupo di mare e immortale quanto ti pare, una cosa era
sicura, se facevamo la prova: o ingollarci tutta quell'acqua o finire
annegati". E Gelasto: "Come vuoi tu, Caronte; ma continua, racconta
quella discussione. Mi par proprio che sarà interessante". Caronte allora:
"Sentirai una storia di enorme interesse, e mi fa piacere raccontarla ora
che abbiamo imboccato questo fiume, se la rotta non m'inganna. Riconosco il
solito odore dell'acqua e, se non mi sbaglio, quella lì è la caverna bassa dove
dobbiamo passare noi. Qualche volta, nei momenti liberi, ho fatto un giretto da
queste parti. E allora, visto che c'è da posare il remo possiamo lasciarci
trasportare dalla corrente favorevole, mettiamoci comodi e concediamoci il
piacere di questo racconto. Il re Megalofo e l'araldo Peniplusio, saliti
assieme sulla mia barca, cominciarono subito a disputarsi il posto con battute
simpaticissime; il primo affermava d'essere un principe, degno di qualsiasi
onore, raccontando molte sue imprese valorose, mentre Peniplusio ribatteva
così: 'Caronte, ti chiamo a giudice: vedi tu che differenze e che punti di
contatto ci siano tra noi. Io sono stato uomo, e anche costui uomo - infatti tu
non sei nato dal cielo, Megalofo, né io da un pezzo di legno. Lui è stato al
pubblico servizio, e io pure. Di' che non è così, oppure dimmi che altro è il
potere, Megalofo. Non è forse un impegno pubblico, in cui anche chi non ne ha
voglia deve eseguire le prescrizioni di legge? Quindi siamo stati pari, tutt'e
due eravamo soggetti alle leggi, e se le abbiamo rispettate abbiamo fatto il
nostro dovere, tu come me: così siamo stati servi tutt'e due, alla pari. Siamo
pari anche in altre cose, e se non lo siamo sono superiore io proprio in quelle
in cui tu ritieni di sopravanzarmi. Tu credi d'aver avuto una posizione più
fortunata: vediamo se è proprio così. Non parlo dei piaceri della vita e della
realizzazione dei desideri e dei progetti, tutte cose per me molto più agevoli,
vantaggiose e rapide che per te. Tralasciamo poi il fatto che tu eri odiato da
molti, avevi paura di molti, mentre a me volevano tutti bene, non c'era uno di
cui non potessi fidarmi. Tu per poter sopportare te stesso, per soddisfare pienamente
le tue voglie avevi bisogno di molte cose, dovevi stare in guardia da tanti
lati, avevi un sacco di perplessità, tutto era pieno di rischi; per me non
c'era nessuno di questi ostacoli, anzi nel fare i fatti miei avevo a
disposizione tanti mezzi da non poterli nemmeno usare tutti. A te mancava
sempre qualcosa di cui avevi bisogno. Comunque, come ho detto, sorvoliamo su
questo. Se hai accumulato ricchezze per te grazie al potere, hai fatto un
pessimo esercizio delle tue funzioni, ti sei comportato non da governante ma da
oppressore; se le hai procurate allo Stato ti sei comportato come si deve, però
nemmeno quello è motivo di gloria per te, è titolo di merito non tuo, ma della
totalità dei cittadini che le hanno prodotte conquistandole in guerra o facendo
fruttare i loro beni. Dirai: con la mia efficienza ho dato lustro alla città e
allo Stato, ho conservato pace e ordine con le mie leggi, col mio comando
supremo ho procurato prestigio e prosperità ai miei cittadini. Però noi in
tutto ciò che abbiamo fatto da soli abbiamo agito senza risultati, e quel che
abbiamo fatto con l'attiva partecipazione di molti non vedo perché dovremmo
attribuirlo a nostro merito. Ma proviamo a esaminare il contributo che hai dato
tu e quello che ho dato io nelle cose che seguono: tu l'intera notte dormivi
carico di vino oppure te la spassavi nella lussuria; io vegliavo al mio posto
di guardia, proteggendo la città dagli incendi, i cittadini dal nemico e te
stesso dalle insidie dei tuoi uomini. Tu proponevi le leggi, io le rendevo di
pubblico dominio; quando tenevi un discorso, spesso il popolo ha schiamazzato
per protesta, invece quando io divulgavo un ordine tutti stavano ad ascoltarmi
con la massima attenzione. In guerra tu incitavi i soldati, ma il segnale lo
davo io; i soldati obbedivano ai tuoi ordini, ma era al suono della mia tromba
che muovevano all'assalto del nemico o battevano in ritirata. Per finire, a te
davano ragione tutti quanti, a me non c'era uno che non obbedisse. Ma di cosa
stiamo a discutere? Tu avresti dato tranquillità ai cittadini, se è a causa tua
che in città ci sono stati così spesso polemiche e scontri armati, se le tue
macchinazioni hanno riempito d'invidie, rivalità e ogni sorta di porcherie
tutti gli affari pubblici e privati, il sacro e il profano? Perché vorresti
elencare tutte le altre dissennate ostentazioni nella tua pratica di governo?
Cos'hai da vantarti d'aver fatto costruire templi e teatri, non per rendere più
bella la città, ma per avidità di gloria e per una vana rinomanza tra i posteri?
E che valore potremo dare a queste tue leggi così ben scritte, che i disonesti
non rispettano mentre gli onesti non ne avrebbero avuto bisogno? Però avrei
potuto - dirai - perseguitare duramente i miei oppositori: chi ha più capacità
e più mezzi di me in questo tipo di azioni malefiche? Tu certamente avresti
potuto colpire questo o quel cittadino, ma non senza rischi, non senza tumulti
e col concorso di molte persone; io, se avessi voluto, avrei potuto mandare in
sfacelo l'intera città tacendo e dormendo. Ci sono altre due cose in cui ero
molto avanti a te. Chi ti stava vicino ti definiva padrone assoluto di tutti i
beni e di tutte le fortune; in questo io non avevo solo il potere di mandarli
tutti in sfacelo, come ho già detto, ma anche quello che i beni e le fortune di
tutti venivano amministrati esattamente come volevo io. Infatti in nessun tipo
di affari, in nessun luogo pubblico o privato succedeva nulla senza che io lo
volessi; per te c'era nulla dei tuoi beni e delle tue fortune che procedesse
secondo le tue scelte? Avevi sempre desideri al di sopra delle possibilità; io
di ogni cosa non volevo nulla di più dell'esistente, volevo che tutto fosse
esattamente com'era e niente di più. Infine, se tu avessi perduto i tuoi beni
ti saresti impiccato, io sarei scoppiato a ridere"'.
Mentre agli inferi si
verificava tutto ciò, Giove, nella solitudine della sua stanza, considerando
tra sé i suoi guai e l'esito dei suoi progetti si rimproverava con un discorso
di questo genere: "Cosa ti sei andato a cercare, padre degli uomini e re
degli dèi? Chi era più felice di te? Per una serie di fastidi da poco e
sopportabilissimi, quante fatiche, che rischi, che razza di disagi hai
affrontato! Il giorno delle calende t'ha insegnato quanto hai saputo bastare a
te stesso nel prendere le tue decisioni. Il naso mutilato sarà in eterno un
ammonimento su quanto convenga respingere i buoni consigli e dar retta alle
smanie degli sconsiderati. Ci scrollavamo di dosso con fastidio i voti di
quegli stessi supplicanti di cui in seguito abbiamo dovuto subire la sfottente
sconcezza. Dovevamo proprio aver vergogna d'esser beati, se per afferrare nuovi
piaceri abbiamo dato un taglio all'antica dignità! Cercavamo di costruire un
mondo nuovo, quasi provassimo fastidio di un'eterna serenità; con tutta la
serenità che avevamo, cercavamo serenità, e andandone in cerca volevamo
meritarcela. Che cosa abbiamo concluso? Abbiamo accolto in cielo tra gli dèi
gente indegna, ed i benemeriti li abbiamo banditi o ce li siamo fatti scappare.
Ma che sto facendo? L'ho pagata poco la follia commessa, se vado in cerca di
altre torture per le amarezze e il ricordo spiacevole di tempi assai duri?
Andate via, tristi affanni! Bisogna che trovi qualcosa da fare, se non voglio
restare senza far nulla e lasciarmi prendere dai ricordi angosciosi. Lo so cosa
fare: metteremo in ordine questo gabinetto dove regna la confusione". Si
tolse allora il pastrano e i vestiti, cominciò a cambiare completamente la
distribuzione delle poltrone e ripose in un posto più adatto parecchi libri
buttati qua e là e tutti impolverati. Mentre metteva ordine gli capitò tra le
mani l'opuscolo di Momo, della cui consegna a Giove s'è detto a suo tempo.
Trovandolo, Giove non poté evitare di provare ancora turbamento, ripensano a se
stesso e alle sue disavventure; alla fine si mise a leggere avidamente il
manoscritto con una gioia e un dolore così grandi che non gli se ne poteva
aggiungere neanche un po', tante erano le cose piacevoli e quelle spiacevoli
che conteneva. Era piacevole ritrovarvi consigli ottimi, davvero necessari alla
formazione e all'attività di un grande governante, tratti dalle dottrine dei
filosofi; spiacevole aver potuto fare a meno per tanto tempo, per colpa della
sua superficialità, di tanti insegnamenti così adatti a conseguire gloria e
successo. Questo era il contenuto dell'opuscolo: dev'essere proprio del
principe evitare di non far nulla come di fare ogni cosa; quello che fa non
deve farlo da solo né con la partecipazione di tutti; deve evitare che qualcuno
da solo abbia moltissimi mezzi, come che la maggioranza non abbia mezzi né
possibilità. Deve far del bene ai buoni anche se non vogliono, non far male ai
cattivi se non perché costretto. Giudicherà le persone dalle caratteristiche
evidenti a pochi più che da quelle che si notano subito. Eviterà iniziative
innovatrici, a meno che una situazione d'emergenza ce lo spinga per la tutela
del decoro dello Stato oppure si aprano prospettive più che sicure
d'incrementarne il prestigio. In pubblico darà dimostrazione di magnificenza,
in privato si atterrà alla parsimonia. Combatterà contro i piaceri non meno che
contro i nemici Procurerà tranquillità ai suoi, a sé gloria e popolarità con
arti pacifiche piuttosto che con imprese belliche. Si adatterà ad accettare le
suppliche e sopporterà con pazienza i comportamenti inopportuni dei più umili,
così come pretenderà che chi sta più in basso di lui si adatti al suo
aristocratico distacco.
L'opuscolo conteneva un
gran numero di massime del genere, ma una fu l'idea migliore per reggere gli
innumerevoli fastidi del potere: era quella di suddividere in tre mucchi la
totalità delle cose, uno composto delle cose buone e desiderabili, uno delle
cattive, e il terzo di quelle cose che di per sé non sono né buone né cattive.
Questo tipo di divisione prescriveva che Operosità, Attenzione, Zelo,
Diligenza, Perseveranza e gli altri dèi del genere attingessero in abbondanza
al mucchio dei beni e, disponendosi per strade, portici, teatri, templi,
piazze, insomma in tutti i luoghi pubblici, li offrissero spontaneamente a
tutti quelli che incontravano, consegnandoli con piacere a chi li volesse. Dal
canto loro Invidia, Vanagloria, Voluttà, Pigrizia, Ignavia e le altre dèe
simili portassero in giro in grande abbondanza i mali e li regalassero
spontaneamente a chi non li rifiutasse. Le cose che invece non sono né buone né
cattive (per esempio quelle che son buone per chi le sa usar bene, cattive per
chi le usa male, tra le quali si annoverano le ricchezze, gli onori e simili
oggetti dei desideri umani) fossero lasciate tutte all'arbitrio di Fortuna,
perché attingesse ad esse a piene mani e, scegliendo a capriccio quanto e a chi
darle, le assegnasse.
Leonis
Baptistae Alberti
Momus
Proemium
Principem opificemque
rerum, optimum et maximum Deum, cum pleraque omnia admiratione dignissima ita
distribuisset rebus a se procreatis ut singulis nota aliqua praestantissimarum
divinarumque laudum obveniret, illud praesertim sibi servasse palam et in
promptu est, ut voluerit unicus admodum solusque plena et integra esse divinitate
accumulatissimus. Nam cum vim astris, nitorem caelo, orbi terrarum
pulchritudinem, rationem vero atque immortalitatem animis et huiusmodi mirifica
omnia rebus singulis quasi viritim impertiens adegisset, voluit ipse esse unus
tota et integra confertus counitusque virtute, cui penitus parem non invenias.
Quae res quidem omnium esse prima in divinitate, ni fallimur, censenda est, ut
sit unice unus, unice solus.
Hinc fit ut rara omnia,
quae a ceterorum similitudine segregentur, quasi divina esse vetere hominum
opinione existimentur. Namque et monstra, portenta, ostentave et huiusmodi,
quod rara evenerint, deorum religioni apud veteres adiudicabantur. Tum et
natura rerum maxima et invisa quaeque ita cum raritate coniunxisse a vetere
hominum memoria in hanc usque diem observatum est, ut elegans grandeque nihil
effingere, nisi id quoque sit rarum, novisse videatur. Hinc fortassis illud est
quod si quos praestare ingenio et prae ceteris eo a multitudine deflectere
animadvertimus, ut sint illi quidem suo in laudis genere singulares ac perinde
rari, hos divinos nuncupemus proximeque ad deos admiratione et honoribus
prosequamur natura edocti. Qua nimirum intelligimus rara eo sapere omnia
divinitatem, quo illuc tendant, ut unica atque egregie sola a ceterorumque caetu
et numero segregata habeantur.
Possem et multa repetere
nullam ob gratiam habita in pretio, nisi quod unica sint; quod, ut cetera
omittam, quam multa sint apud veteres scriptores quae probentur, si esse
vulgata et trita videantur? Aut quid erit illud quod non maxima cum voluptate
admirationeque legatur, si erit eiusmodi ut a ceteris non dico neglectum et
explosum, sed parum praevisum parumque perceptum intelligatur, ut scriptoris
officium deputem nihil sibi ad scribendum desumere quod ipsum non sit iis qui
legerint incognitum atque incogitatum?
Quae cum ita sint, non me
tamen fugit quam difficillimum ac prope impossibile sit aliquid adducere in
medium quod ipsum non a plerisque ex tam infinito scriptorum numero tractatum
deprehensumque exstiterit. Vetus proverbium: nihil dictum quin prius dictum.
Quare sic statuo, fore ut ex raro hominum genere putandus sit, quisquis ille
fuerit, qui res novas, inauditas et praeter omnium opinionem et spem in medium
attulerit. Proximus huic erit is, qui cognitas et communes fortassis res novo
quodam et insperato scribendi genere tractarit. Itaque sic deputo, nam si
dabitur quispiam olim qui cum legentes ad frugem vitae melioris instruat atque
instituat dictorum gravitate rerumque dignitate varia et eleganti, idemque una risu
illectet, iocis delectet, voluptate detineat (quod apud Latinos qui adhuc
fecerint nondum satis exstitere) hunc profecto inter plebeios minime censendum
esse.
Cuperem in me tantum
esset ingenii, quantum in hac una re procul dubio difficili assequenda adhibui
studii et diligentiae. Nam fortassis essem assecutus ut apertius intelligerem
versari me in quodam philosophandi genere minime aspernando; et didici quidem
ipsa ex re quantum industriae debeatur ubi te studeas esse quovis pacto
dissimilem ceteris dignitate et gravitate servata. Sin vero a te susceperis ita
scribere, ut in rebus gravissimis tractandis nusquam a risu iocoque discedas,
cum insueto tum et digno et liberali profecto, illic plus laboris et
difficultatis invenies quam inexperti opinantur. Etenim sunt qui dum huic uni,
de qua loquimur, raritati intendunt, etsi ea dicant quae admodum vulgata et
plebeia sunt, eadem tamen quadam severitatis sumpta persona ita proferunt, ut
dignissimi laude habeantur.
Nos contra elaboravimus
ut qui nos legant rideant, aliaque ex parte sentiant se versari in rerum
pervestigatione atque explicatione utili et minime aspernanda. Id quantum
assecuti simus tuum erit iudicium ubi nos legeris. Quod si senseris nostra hac
scribendi comitate et festivitate maximam rerum severitatem quasi condimento
aliquo redditam esse lepidiorem et suaviorem, leges, ni fallor, maiore cum
voluptate.
Sed non erit ab re
instituti nostri eo rationem explicare, quo cum operis comprehensio fiat
clarior, tum me purgem cur deos introduxerim et quasi poetarum licentia in
scribenda historia abusus sim. Nam veteres quidem scriptores ita philosophari
solitos animadverti, ut deorum nominibus eas animi vires intelligi voluerint,
quibus in hanc aut in alteram institutorum partem agamur. Ea de re Plutonem, Venerem,
Martem et caecum Cupidinem et contra Palladem, Iovem, Herculem huiusmodique
deos introduxere: quorum hi cupiditatum voluptatumque illecebras atque labem,
concitatosque impetus ac furores, hi vero mentis robur consiliique vim
significant, quibus animi aut virtute imbuuntur rationeque moderantur, aut
interea de se male merentur, prava inconsiderataque agendo et meditando. Itaque
cum sit in hominum animis perassidua difficilisque istorum concertatio, nimirum
sunt dii quales esse et Homerus et Pindarus et Sophocles et optimi poetarum
introduxere in scaenam. Sed de his alius erit tractandi locus, si quando de
sacris et diis conscribemus.
Nos igitur, poetas
imitati, cum de principe, qui veluti mens et animus universum reipublicae
corpus moderatur, scribere adoriremur, deos suscepimus, quibus et cupidos et
iracundos et voluptuosos, indoctos, leves suspiciososque, contra item graves,
maturos, constantes, agentes, solertes, studiosos ac frugi notarem, quasi per
ironiam, quales futuri sint in vitae cursu et rerum successu, dum aut hanc aut
alteram vitam inierint; quid laudis aut vituperii, quid gloriae aut ignominiae,
quid firmitatis in republica aut eversionis fortunae, dignitatis maiestatisque
subsequatur; ut his quatuor libris, ni me laboris mei amor decipit, cum
nonnulla comperias quae ad optimum principem formandum spectent, tum etiam non
paucissima sese offerant quae ad dinoscendos mores pertinent eorum qui
principem sectantur: ni forte illud desit, quod assentatorem, quo principum
aulae refertae sunt, praetermiserim consulto. Nam illud quidem veteres poetae,
praesertim comici, abunde explicarunt. Tum et a me tantum abest ut possim quae
assentatoris sunt, ut interdum me redarguendum praebeam, qui emeritas et locis
debitas dignissimorum laudes omittam, ne mihi ipse videar id genus hominum
voluisse ulla ex parte imitari, quos penitus oderim: qui error nunc mihi
habetur tecum. Nam quis est qui in prooemiis scribendis non blandiatur, non
applaudere gestiat his ad quos scribat, ut fictis etiam collaudationibus vetere
et praescripta prooemiorum lege rem ornare ad decus ducat? Ego nudum prooemium
attuli, tuisque tantis tanquam maximis ex virtutibus nullam recensui, et feci
quod qui te meque norunt non vituperabunt. Nam et tu ex te id agis ut tua sese
virtus, fama et celebritate, per omnium aures et ora mirifice efferat
posteritatisque fructum accumulatissime consequatur: ergo aliorum ope in ea re
non indiges. Ego vero (quoad in me sit) tua et dicta et facta observans et
colligens malo te totis voluminibus amplecti atque cupidis litterarum
commendare, ut habeant quem egregie imitentur, quam levi (ut ita loquar)
congratulatione permulcere.
Sed de his hactenus.
Ceterum cum nos per otium legeris et tibi inter legendum res ex desiderio meo,
tua pro expectatione, successerit, totiens congratulabimur quotiens incideris
ut rideas. Et utinam tam saepe eveniat ut sales et inventorum formas admireris,
quam non interraro dabitur ut rideas iocos et comitatem quibus haec historia
refertissima est. Ergo lege vel maxime ut ipsum te recrees, proxime ut faveas
et studiis et lucubrationibus nostris volens ac lubens. Sis felix.
Liber primus
Mirabar si quando apud
nos humiles mortales in vita degenda pugnantem aliquam et inconstantem rationum
iudiciorumque vigere opinionem intelligebam: sed cum superos ipsos maximos,
quibus omnis sapientiae laus attributa est, caepi animo accuratius repetere,
destiti hominum ineptias admirari. Nam apud eos repperi varia et prope
incredibilia esse ingenia et mores: alios enim sese habere graves et severos, alios
contra exstare leves et ridiculos, aliosque deinceps ita esse a ceteris
dissimiles, ut vix esse ex caelicolarum numero possis credere. Qui tamen cum
ita sint, cum longe moribus inter se dissideant, neminem tamen seu apud homines
seu apud superos reperias ita singulari et perversa imbutum natura, cui non
alium quempiam multa ex parte comperias similem praeter unum deorum, cui nomen
Momo. Hunc enim ferunt ingenio esse praeditum praepostero, mirum in modum
contumaci, naturaque esse obversatorem infestum, acrem, molestum, et didicisse
quosque etiam familiares lacessere atque irritare dictisque factisque, et
consuesse omne studium consumere ut ab se discedat nemo fronte non tristi et
animo non penitus pleno indignatione. Denique omnium unus est Momus qui cum
singulos odisse, tum et nullis non esse odio mirum in modum gaudeat. Hunc
memoriae proditum est ob eius immodestam linguae procacitatem ab vetere deorum
superum caetu et concilio omnium conspiratione et consensu deiectum exclusumque
fuisse, sed inaudita pravitate ingenii et pessimis artibus tantum valuisse, ut
potuerit superos omnes deos omneque caelum et universam denique orbis machinam
in ultimum discrimen adducere. Hanc nos historiam, quod ad vitam cum ratione
degendam faciat, litteris mandare instituimus. Id ut commodius fiat, repetenda
prius est quaenam causa et modus extrudendi in exilium Momi fuerit; post id
reliquam historiam omnium variam et non minus rerum dignarum maiestate quam
iocorum venustate refertissimam subsequemur. Nam cum Iuppiter optimus maximus
suum hoc mirificum opus, mundum, coaedificasset, et eum quidem esse quam
ornatissimum omni ex parte cuperet, diis edixerat ut sua pro virili quisque in
eam ipsam rem aliquid elegans dignumque conferret. Iovis dicto certatim paruere
superi: idcirco alii alias res, alii hominem, alii bovem, alii domum,
singulique praeter Momum aliquid muneris Iovi non ingratum in medium produxere.
Solus Momus, innata contumacia insolescens, nihil ab se fore editum
gloriabatur, et in tanto aliorum tanquam communi producendarum rerum studio sua
in pervicacia summa cum voluptate perseverabat. Tandem cum plurimi maximopere
ex eo expostulassent ut Iovis gratiam et auctoritatem modestius consultiusque
coleret, non quod illorum suasionibus aut monitis moveretur, sed quod assiduas
monitiones, hortationes precesque multorum nequiret sine stomacho diutius
ferre, aspero, ut semper, supercilio, "Vincite" inquit "molesti:
abunde quidem vobis satisfaciam". Inde igitur rem se dignam excogitavit.
Universum enim terrarum orbem cimice, tinea, fuconibus, crabronibus,
statanionibus et eiusmodi obscenis et sui similibus bestiolis refertissimum
reddidit. Ea res primum apud caelicolas ridiculo haberi, ioco ludoque accipi.
Ille indigne ferre quod non exsecrarentur, verum gloriari suo secum facto et
passim aliorum munera improbare, munerum auctores vituperare: denique
universorum odia dictis factisque in dies magis ac magis subire. Erat inter
ceteros celebres opifices deos magna in admiratione suorum a se conditorum
munerum Pallas quod bovem, Minerva quod domum, Prometheus quod hominem
effecissent; proxime ad hos accedebat ut belle dea Fraus fecisse videretur quod
muliebres mortalium adiecisset delitias, artesque fingendi risumque
lacrimasque. Etenim hos praesertim cum ceteri dii laudibus extollerent, solus
Momus vituperabat: aiebat enim utilem quidem esse bovem et ad fortitudinem
aeque atque ad laborem satis comparatum, sed non suo decentique loco fronti
fore oculos adactos, quo fiat ut cum pronis cornibus oppeteret, oculis ad
terram destitutis, non destinato et praefinito loco liceat ferire hostem, et
ineptam procul dubio fuisse artificem, quae non summa ad cornua vel unum saltem
oculum imposuisset. Domum itidem asserebat nequicquam esse tantopere
approbandam uti ab imperitis diis approbabatur, quandoquidem nullos currus
subegisset, quo malo a vicino in pacatius solum posset trahi. At hominem quidem
affirmabat quippiam esse prope divinum; sed, si qua in eo spectaretur formae
dignitas, id non auctoris inventum, sed ab deorum esse ductum facie. In eoque
opere illud tamen stulta videri commissum ratione, quod intra pectus mediisque
in praecordiis homini mentem abdidisset, quam unam suprema ad supercilia
propatulaque in sede vultus locasse oportuit. Ceterum apud se nullius probari
aeque atque Fraudis deae ingenium: eam enim adinvenisse quo pacto, pulchra
Iunone abdicata, sese pellicem deorum regi subigat; amatorem esse Iovem et
facile delicatam ornatamque virginem appetiturum; futurum hinc ut irata ob eam
iniuriam coniuge et thoros iugales dedignante, doli artifex dea mulierosi
principis gratiam aucupetur; quod si sapiat Iuno, si suos amores integros
perennesque velit, ex deorum caetu deam Fraudem sibi ducat exterminandam. Haec
Momus dicere adversus Fraudem usurpabat, tametsi deam ipsam amabat perdite: sed
quod suspicionibus amoris per id tempus dissidebat, criminose iracundeque magis
iactabat quam esset par, ut iam tum hinc acerba istiusmodi lacessita iniuria
dea suas omnes decreverit curas et cogitationes ad sui vindictam prosequendam
exercere. Itaque, ut pulcherrime ingrato amanti pro meritis referret, suis
freta artibus, in gratiam volens ac lubens cum Momo rediisse simulat: frequens
ideo una esse, crebros cum illo trahere sermones, dicenti ultro omnia
assentiri, petenti obsequi. Subinde credulo amanti futilia quaedam
commentitiaque secreta aperire consiliumque suis in agendis rebus ficta fide
poscere, ac modo veris modo falsis verbis unis atque item alteris diis inflexo
diductoque sermone obtrectare ut procacem ad obloquendum illiceret; postremo nihil
praetermittere quo illi esse in tempore nocua egregio aliquo malo posset. His
artibus multa ab inconsulto et incaute confabulanti extorserat, quae quidem ad
eos ipsos quos id gravate ferre arbitrabatur detulerat, ea spe ut, multorum in
unum Momum invidia odiisque citatis, ad hostem obruendum impetu et manu
firmiori attemperate irrumperet. Dederat praeterea operam Fraus dea ut per
varios interpretes crebre in dies multorum adversus Momum querimoniae
exporgerentur Iovi, et quo omnem ab se istius malivolentiae suspicionem
amoveret, si quando de Momi nequitia se coram sermo habebatur, quasi pro amoris
officio patrocinium praestare se assimulabat, et pluribus verbis, sed frigidula
oratione Momum omnibus accusantibus et omnium sententiis damnatum defendebat, inquiens
Momum quidem esse mente alioquin non pessima, sed animo fortassis immoderate
libero: eaque re videri lingua esse dicaciori et intemperatiori quam sit.
Interea totis oculis et auribus evigilanti deae accommodissima laedendi occasio
oblata est. Nam aegre ferentibus diis novum alterum deorum genus, homines,
procreatum esse, et eos quidem aura, fontibus, domo, floribus, vino, bove et
huiusmodi delitiis multo ferme quam superos esse beatiores, Iuppiter optimus
maximus, quod caelicolarum benivolentia suum sibi regnum vellet communire, quae
suae fuere partes, huic se rei probe provisurum pollicitus est, et daturum se
operam asseruit ut superum nullus posthac sit, quin se deum malit esse quam
hominem. Ergo in hominum animos curas metumque iniecit, morbosque et mortem
atque dolorem adegit. Quibus aerumnis cum iam adeo essent homines longe
deteriori in sorte quam bruta animantia constituti, non modo deorum erga se
invidiam extinsere, verum et sui misericordiam excitavere. Accessit ut
gratificandi studio Iuppiter caelum ornare latissime aggressus sit: caeli enim
domicilia constituit eaque multis variisque signis, auro ac gemmis, omnique
denique copia delitiarum pulcherrime distinxit. Demum haec diis Phoebo, Marti,
Saturno patri, Mercurio, Veneri, Dianaeque ultro elargitus est, et quo laetam
dehinc et omnibus caelicolis gratam acceptissimamque suam tyrannidem curis
vacuus ageret, munia, magistratus imperiaque in quos visum est impertitus
distribuit. Et inprimis Fato deo, ad res curandas agendasque omnium solertissimo,
semper agenti, nunquam otioso, nihil per ignaviam, per inertiam praetereunti,
nihil precibus aut praemiis a vetere more, a legitimisque institutis
deflectenti, volvendorum orbium curam summamque ignium potestatem legavit,
concione habita, qua in concione illud iterum atque iterum affirmavit, sese
otii esse cupidissimum, ac rerum quidem regni aliud nihil sibi esse relictum
velle, quam ut una cum reliquis diis integra voluptate ex animi libidine
frueretur. Suorum vero erga deos meritorum hoc satis sibi videri praemium, si
per eorum mansuetudinem dabitur ut possit vitam degere curis vacuam atque
liberam.
Hic locus admonet ut
quando summam ignium potestatem Fato datam diximus, quinam ipsi ignes et
quaenam sit ea potestas referam. Est apud superos sacer aeterno ab aevo ductus
focus, cui quidem cum cetera, tum illud insit admirabile, ut nulla substituta
materia nulloque liquore subfuso sese confovens perpetuis lucescat flammis:
quin et huiusmodi est, ut quibus adhaeserit rebus, eas quoad una constiterit
immortales incorruptibilesque reddat. Sed si ex eo foco sumptas flammas crassis
liquentibusque rebus terrenis adegeris, sponte sua diffluent ad pristinamque
sedem, ni assiduis flatibus celerique motu exagitentur, dilabentur. Accedit
quod solis in villis mapparum quas dea Virtus contexuit sacer ipse ignis
vigeat. Isthoc sacro ex foco hausta flammula ad summum frontis verticem
quibusque deorum illucet, atque ea quidem in diis hanc habet vim, ut ea
conspicui in quas velint rerum formas sese queant ex arbitrio vertere, quod
ipsum plerique maximorum deorum effecere, alii in aureum imbrem cygnumve, alii
aliud in animans sese, prout sua tulit libido, convertentes. Hoc ex foco cum
Prometheus radium subripuisset, ob perpetratum sacrilegium ad Caucasum montem
fixum relegarunt. Quae cum ita res sese haberet, cum is focus ad tantas res
agendas esset commodus, cavere superi, magistratu ignium creato, ne huiusmodi
furta posthac ullius audacia temeritateve possent perpetrari.
Haec de ignibus hactenus
dicta sint, ad rem redeo. Itaque tantis ab Iove exhibitis donis caelicolae, pro
insigni suscepta munificentia, ordinibus confluebant iamque universa
immortalium multitudo incredibilem prae se alacritatem ferens ad regiam
convenerat habitura gratias Iovi. Eoque loci quisque certatim maximis laudibus
rem prosequi aggrediebatur: recte enim pieque optimum principem Iovem pro sua
prudentia caelicolarum ordini providisse uno ore affirmabant. Solus Momus,
vultu tristi, gestu moroso alteroque sublato supercilio, hunc atque hunc ad
congratulandum properantem torvo obliquoque lumine despectabat. Sensit illico
perfida dea, unicum erga inimicum intenta, Momum esse animo in Iovem
subinfenso. Idcirco suas ad artes conversa quae opus facto sint parat: Temporis
enim dei filiam Verinam, Iovisque pellicem Profluam, quam eandem nympharum esse
alumnam praedicant, proximam post ad convivalem aram, ad quam fortassis
adhaerebat Momus, collocat iubetque uti assideant humo et aliud inter se
dissimulantes latitent. Iovis enim causa parari quae sic parentur: proinde rem
sedulo exequantur et tacite quae illic dicentur auscultent atque adnotent.
Compositis insidiis, dea vultu hilari ad amantem propius accedit; salutant
mutuo sese; post id, cum paululum Fraus obticuisset, mox contracto supercilio
"Et quidnam" inquit "mi Mome? Num et tu, ut videor videre, de
Iovis in superos merito secus atque vulgus hoc imperitum sentis? Ne vero eadem
una mecum de hisce rebus statues? Non ausim ea cuiquam profiteri quae sentio,
ni forte uni tibi, quem aeque atque hosce oculos meos diligo. Verum quid me
celem apud te, a quo me intelligam in amore ita accipi prope ut merita sum mea
simplicitate et fide? Hei nos infelices, qui quidem huic... Sed de his alias.
At pulchra esse opera Iovis non inficior, tametsi meminisse deceat quaeque
princeps maximorum deorum aggrediatur ea esse omnia oportere ita, ut nihil
supra et nihil aeque. Rectius pro tua prudentia tu quae dixisse velim
intelligis, quam a me explicentur". Haec dea. Tum Momus
"Profecto" inquit "sentis uti res est. Sed nondum satis apud me constat
stultine sint ea principis opera magis an ambitiosi". Hic dea subridens:
"Et quid tum" inquit "utrumque, illi forte si adsit non vitium,
inquam, sed consilium?". Tum Momus "Consiliumne" inquit "tu
id quod meram sapiat stultitiam nuncupas? En bene constitutam rerum agendarum
rationem! Loquar quae me decere arbitrer. O quam commodius cum deorum republica
ageretur, si maturius consilia pensitarentur! Neque enim sat est principem
praesenti libidini prospexisse, ni et quae futura sint ita utramque in partem
perpenderit atque adduxerit, ut non aliena posthac, sed sua praesertim sibi
vivendum sit (ut aiunt) quadra. Vel quid hoc dementiae deorum regi incessit?
Scilicet tum primum maiorem in modum gaudebat Iuppiter optimus maximus homines
factos esse, ut haberet quos nobis superis, seu iure seu iniuria succensus,
aemulos ad invidiam obiectaret; post, ubi antiquius duxit veteribus incolis
quam adventitiae mortalium deorum multitudini superas patere sedes, illic
homines habere sibi voluit, in quos suos irarum aestus ex animo profunderet, in
quos ut immani saevitia grassaretur. Hinc fulgura, hinc tonitrua, hinc pestes
et quod durius intolerabiliusque est miseris hominum animis, curas metusque et
quaecumque excogitari fingique possint mala, ingessit atque in unum accumulavit.
Alia ex parte, si certare adversus mala pigeat, miseris reliquit, quo se ex
crudeli hoste munitissima tutissimaque recipiant in castra, mortem; sin vero
certare iuvat, o inconsulte Iuppiter, qua te et iratum et armatum deorum
principem superent, homunculis non ademisti patientiam! De orbium igniumque
provincia quid est quod sine commiseratione iam iam nostrorum impendentium
malorum referam? Quis tam vecors, tam obtusi exstat ingenii quin istuc mentem
adhibens intelligat non defuturum ut nullis magis quam te auctore, o Iuppiter,
tuique ipsius proditore pereas? Tune Fato tantam vim et potestatem agendarum
rerum tanta cum volubilitate coniunctam dedisti? Quod si semper, ut caepere,
novas res cupere et posse astrorum orbiumque ductores non desistent, quis hoc
non perspicit futurum, ut olim quempiam alium superis daturi sint regem?".
"Hen" inquit hic Fraus "regemne?". "Quidni?"
inquit Momus "An tu Iovem alium esse quam deum reris, quod deorum sit
rex?". "Mihi quod autumas" inquit Fraus "fit non iniuria
verisimile. Verum et quisnam tanto imperio dignum se, etiam iubentibus fatis,
deputet?". "O te ridiculam!" inquit Momus "Tamne esse deos
omnes animis modicos et pusillos censes, ut non aliquem invenire credas, qui
imperandi oblatam sortem non recuset?". "Te quidem" inquit Fraus
"etsi maxima quaeque mereri deputem, tamen est aliquid tanta in re, quo te
quoque posse commoveri arbitrer. Sed quidnam tum? Nos vero quanti voles esse
apud te, si forte dabitur ut imperes?". "Mihi tu" inquit Momus
"altera eris Iuno". Hic Fraus caepit collacrimari: "Atqui
nimirum" inquit "cui prae libidine quae velit liceant, huic nihil
diutius cordi est. Aliam tibi reperies amatam, Mome: tibi Fraus, quae te misere
amet, erit fastidio". His et plerisque huiusmodi ultro citroque dictis,
coegit Fraus iurare amantem, ipsa in ara, sese cum factus forte deorum fuerit
rex Fraudem Iunonis loco habiturum. Post haec ad dearum caetum victrix rediens
Verinam et Profluam arbitras bene et docte subornat quibus verbis, quo gestu,
qua hora ad Iovem quicquid ad aram ex insidiis audissent referant.
Fiunt omnia ex sententia:
atroci ergo ad se delata amittendi regni suspicione commotus Iuppiter, quod iam
pridem aliorum causa esset, erga Momum occulte factus iratior. Nunc suis
rationibus quantum coniectura prospiceret paratum adversarium intuens, sese
acerbum iniuriarum vindicem exhibuit. Irato Iove omnia atque omnia contremuere:
obstupuere superi. Cogitur frequens deorum senatus: iubentur Proflua dea,
nympharum alumna, et Verina, Temporis filia, testificari quae a Momo dicta
nuper ad aram subaudissent. Instituebat deum pater et hominum rex Iuppiter
solemni more diem reo dici, constitutisque iudicibus audiri causam, legitimoque
iudicio litem percenseri. Sed tum totis ab subselliis una omnium eademque repente
oborta vox publicum odium Momum maiestatis teneri acclamavit: io, prehendendum
sceleris obnoxium! Io, et Promethei loco vinciendum! Tanta inimicorum
conspiratione tantisque in se unum insurgentibus irarum procellis Momus animis
prostratus et trepidans fuga sibi consulendum statuit. Eridanum caeli fluvium
citato gradu fugiens petebat, quo inde sumpto navigio secundis aquis ad nostras
hominum regiones applicaret. Sed, dum ab insequentium strepitu sibi cavisse
properat, in voraginem multo hiatu praeruptam, quae quidem caeli puteus
dicitur, incautus corruit: illinc, amisso flamine deorum insigni, in solum
etruscum quasi alter Tages irrupit. Eam gentem religioni maiorem in modum
deditam offendit: suas idcirco primas suscepit partes idque sibi unum indixit
fore negotium, vindictae gratia Etruriam ab deorum cultu ad se observandum
imitandumque abducere. Itaque nullum erat uspiam deorum commissum flagitium in
eam diem, cuius Momus diligentissimus exquisitor non meminisset codicibusque
adnotasset. Ergo obscenas quasque superum fabulas, desumpta poetarum persona,
seriove iocove ad multitudinem decantabat. Iovis audiebantur in scholis, in
theatris, in triviis adulteria, stupra turpiaque amoris furta; tum et Phoebi et
Martis et horum et item horum superum nefanda facinora vulgo asseverabantur.
Denique veris falsa miscebantur et vulgatorum in dies scelerum numerus et fama
multo excrescebat, ut iam deorum dearumque caput nullum non incestum
flagitiisque perditum haberetur. Post id, philosophantis persona sumpta, ut
erat barba promissa, torvo aspectu, hispido supercilio, truci nutu et gestu, ut
ita loquar, fastuoso, per gymnasia non sine multorum corona concionabundus
disceptabat deorum vim aliud nequicquam esse quam irritum et penitus frivolum
superstitiosarum mentium commentum; nullos inveniri deos, praesertim qui
hominum res curasse velint, vel tandem unum esse omnium animantium communem
deum, Naturam, cuius quidem sint opus et opera non homines modo regere, verum
et iumenta et alites et pisces et eiusmodi animantia, quae quidem consimili
quadam et communi facta ratione ad motum, ad sensum, ad seseque tuendum atque
curandum consimili oporteat via et modo regere atque gubernare; neque tam malum
comperiri Naturae opus, cui non sit in tanto productarum rerum cumulo ad reliquorum
usum et utilitatem accommodatissimus locus: fungi idcirco quaecumque a Natura
procreata sint certo praescriptoque officio, seu bona illa quidem, seu mala
pensentur ab hominibus, quandoquidem invita repugnanteque Natura eadem ipsa per
se nihil possint. Multa pensari peccata opinione, quae peccata non sint; ludum
esse Naturae hominum vitam. Itaque his dicendi rationibus plerosque mortalium
moverat Momus ut iam intermitti sacrificia et solemnes antiquari cerimoniae
deorumque cultus passim apud mortales deseri occiperent. Id ubi a superis
cognitum est, fit ad Iovis regiam concursus. Actum de rebus suis queruntur,
opem auxiliumque mutuo (ut fit in perditis rebus) alter ab altero exposcunt,
iamque se prospicere affirmant, sublata apud homines opinione deorum et metu,
nequicquam esse quod se amplius deos deputent. Interea Momus vindictas acrius
prosequi, et omnium philosophantium scholas disputando incessere non
desistebat. Disputanti deo iam tum seu invidia seu garriendi cupiditate
catervae occurrebant philosophorum; etenim cominus eminusque circum astabant,
interpellabant, vexabant. Momus vero acer, durus, omnium impetum magis
pervicacia quam iustis viribus solus sustinebat. Alii praesidem moderatoremque
rerum unum esse aliquem arguebant; alii paria paribus, et inmortalium numerum
mortalium numero respondere suadebant; alii mentem quandam omni terrae
crassitudine, omni corruptibilium mortaliumque rerum contagione et commercio
vacuam liberamque, divinarum et humanarum esse rerum alumnam principemque
demonstrabant; alii vim quandam infusam rebus, qua universa moveantur, cuiusve
quasi radii quidam sint hominum animi, Deum putandum asserebant; neque magis
inter se varietate sententiarum philosophi ipsi discrepabant, quam uno
instituto omnes una adversus Momum sese infestos variis modis obiiciebant.
Ille, ut erat in omni suscepta controversia pervicax, suam durius tueri
sententiam, negare deos, ac demum falli homines, qui quidem ob istum, quem
caelo spectent, conversionum ambitum moti, praesides deos ullos praeter Naturam
putent. Naturam quidem ultro ac sponte suesse erga genus hominum innato et suo
uti officio, eamque haud usquam egere nostris rebus, sed ne eam quidem nostris
moveri precibus; ac demum frustra eos metui deos qui aut nulli sint, aut si
sint nimirum suapte natura benefici sunt.
Disceptantium
philosophorum tumultu perciti superi, unde a caelo exaudiri voces possent ad
rem spectandam accursitarant suspensique animis disputationis eventum
exspectabant, nunc Momi responsis tristes, nunc philosophorum vocibus laeti.
Etenim philosophi adversus Momum concitati, natura ambitiosi, mente arrogantes,
usu vehementes, uti erant, altercatores, pertinacius instabant, urgebant, neque
interdum convitiis parcebant: hinc ad maledicta utrinque prorumpere. Postremo
ardescente rixa pugnis, unguibus, dentibusve obstinatum garrientis Momi os
obtundere lacerareque prosecuti sunt. Tumultum supervenientes nonnulli proceres
sedavere. At Momus horum ipsorum fidem opemque implorans dimidia deperdita
barba foedatos vultus ostentabat; eam enim, dum circum hostium manibus
obvallatus oppressusque fugam meditaretur et cubito et umbone validus hunc
atque hunc deturbasset, pusillus quidam cynicus trepidantis Momi ab collo
pendens morsu barbam decerpserat. Proceres tantam barbato homini illatam iniuriam
prae se moleste ferre, sceleris auctores quaeritare, sed circumstrepentium
philosophorum vocibus Momum accusantium satis explicite exaudiri homo nemo
narrans poterat. Tandem, tota intellecta historia, ubi pusillum eum cynicum
demorsorem adductum reum conspicati sunt, et hominem accepto pugno commaceratis
oculis obscenum et inter conandum loqui maximis screatibus demorsae vorataeque
barbae pilos expuentem intuentur, mutuo risere atque re neglecta despectaque
abiere.
Superis id ad maiestatem
deorum conducere nequicquam visum est, ut discant homunculi in quemquam divorum
tametsi consceleratissimum atque penitus incognitum inferre manus. Alia ex
parte prospiciebant non defuturum quin propediem, Momo, ut caeperat, vindictam
prosequente plebeque ignara et credula assentiente, prisci gentium ritus et
iusta diis sacra labefactata obliterarentur. Coacto ea de re senatu deorum,
duae proferebantur sententiae. Una erat, in quam quidem pedibus ibant cuncti,
ut ad superum dignitatem auctoritatemque revocandam grati aliqui acceptique
hominibus mitterentur, qui apud mortalium animos quovis argumento in integrum
statas veteres cerimonias ac venerationem deorum restituerent atque
refirmarent. Altera erat sententia, in qua variabatur, sed primarios habebat
auctores, ut Momus, cuius iam tum mores caelicolis omnibus essent cogniti,
revocaretur: plus enim detrimenti ex illius exilio divorum ordini redundaturum
quam si garrulum blatteronem, cui nulli amplius credituri sint, domi
continuerint; quod si Momi poena delectentur, esse quidem genus exilii
deterrimum ita inter suos versari ut omnibus invisus atque infensus sit. Tandem
ex Iovis senatusque decreto Virtus dea, quod et aspectus maiestate et apud
mortales auctoritate plurimum valeret, ad terrarum incolas, veluti in provinciam,
summa cum imperii potestate demittitur mandaturque ut provideat ne quid deorum
respublica detrimenti patiatur. Dea proficiscente universi ordines comitandi
gratia frequentes adfuere; tum et singuli senatores caelicolae, prout
necessitudine aut familiaritate apud proficiscentem valebant, solliciti
admonere, hortari rogareque ut quibus possit artibus communi in periculo
publicam ad salutem advigilet detque operam ut cuius ope deorum flamines
exstarent, eius cura et diligentia sacrosancta immortalium maiestas tueretur.
Illa, optimam de se spem in tanto deorum discrimine pollicita, quantum ex
tempore captari afflictis rebus consilii potuit, mature inivit. Quatuor deae
Virtutis filii aderant adolescentes, formae venustate indolisque gratia et
vultus proceritate morumque praestantia facile principes caelicolarum
iuventutis; hos laute ornatos secum dea proficiscens ducit, per quos, sin
aliter nequeat, deorum veteres hospites, proceres mortalium heroasque, quos
esse pulchrorum amatores meminerat, moveat: tanti erat Momi conatus velle
evertere! Eccam igitur deam quadrato reptantem agmine: hinc Triumphus, hinc
Trophaeus duo Virtutis mares liberi praetextati praeibant; Virtus mater subinde
media subsequitur; matrem deam binae item puellae filiae Laus atque Posteritas
consequebantur. Deorum numerus ad septimum usque lapidem longo ordine confertim
deam egredientem comitati sunt. At legati illic nubem candidissimam omnium
conscenderunt, qua quidem per aethera proclive labentes ad terras delati
devenerunt. Hac Virtutis profectione dii plurimum recreari toto caelo professi
sunt: neque defuturum arguebant quin, tam praeclaris fulta coadiutoribus, dea
violatam caelicolarum maiestatem ab impuri facinorosissimique Momi iniuriis
esset vendicatura. Dea ut primum appulit ad terras, mirabile dictu quantum
universa terrarum facies plausu laetitiaque gestiret! Sino quid aurae, quid
fontes, quid flumina, quid colles adventu deae exhilarati sint. Videbas flores
vel ipso praeduro ex silice erumpere praetereuntique deae late arridere et venerando
acclinare, omnesque suavitatum delitias, ut odoratissimum id iter redderent,
expromere. Vidisses et canoras alites prope advolitantes circum applaudere
pictis alis, motuque vocis deos hospites consalutare.
Quid multa? Omnium
mortalium oculi divinos ipsos ad vultus contuendos intenti haerebant. Multi
spretis officinis tantum adventantium specimen diutius contemplaturi iterum
atque iterum sectabantur; nonnulli inter sectandum prae admiratione
obstupescebant, quoad prope attoniti redditi haerebant. Undique confluebant ex
vicis, ex angiportibus et matres et nurus et senes et omnis aetas, et quinam
hospites et quid sibi velint inscii mutuo ab insciis sciscitando fatigabantur.
At dea, composito gradu et vultu, multa prae se ferens admixtam cum dignitate facilitatem,
lento motu laetoque supercilio salutatrix per militarem viam ad gymnasium, inde
ad theatrum, postremo in aedes Publici Iuris hominum subingressa constitit.
Senserat Momus advenisse
deas, sed partim odio deorum taedioque rerum suarum e conspectu diffugiebat,
partim, quod procul visam Laudem Virtutis filiam, omnium pulcherrimam, ardere
incepisset, seductus sectabatur. Atque, ut erat ingenio suspiciosissimo, sua
fuisse deas causa demissas interpretabatur, et curis plenus varia intimo
pectore consilia volvebat. Veniebat in mentem quid sibi esset cum iratis divis
causae. Senserat apud quod divertisset mortales molto <magis> quidem quam
possis credere truces et truculentos; deos alia ex parte meminerat solere
flecti precibus. At deorum legatum congredi haud putabat fore utile exuli, ni
forte id multa fiat cum significatione animi penitus deiecti atque demissi, et
supplicem praebere se Momus omnino ab suo instituto esse alienum statuebat,
neque inveniebat quo pacto sibi ipse imperaret ut acris, austeri semperque
infesti improperatoris personam poneret, quam quidem dudum susceptam aeterna
pervicacia servasset. Alia ex parte metuebat ne deam ipsam, alioquin facilem et
mitem, sibi exasperatam redderet sua contumacia, et convenire suis rationibus
intelligebat hanc ab se fore non alienam, a qua aliquid opis consiliique sua in
causa esset impetraturus. Accedebat eo novissimus erga Laudem initus amor.
Tandem in hoc irrupit consilii, ut deam sibi conveniendam duceret. Itaque sese
dictis castigans "Ponendi nimirum" inquit "sunt miseris, o Mome,
fastus, servandaque rebus felicioribus gravitas; satis pro decore fiet, Mome,
ubi te, quoquo id queas pacto, ex infimo abiectoque loco in pristinam
dignitatem vendices. Neque tu hoc putato dedecere, cum agas ut quae agas deceant.
Nam est quidem sapientis parere tempori, quin et assentando supplicandove
conferet ad res maiores capessendas aditum parasse Momo. Dices: esse nequeo non
Momus; nequeo non esse qui semper fuerim, liber et constans. Esto sane: ipsum
te intus in animo habeto quem voles, dum vultu, fronte verbisque eum te simules
atque dissimules quem usus poscat. Et tuam, qui tam belle id possis, et illius,
qui id non recuset, rideto ineptias".
Huiusmodi secum versans
Momus, cum propius accessisset ad templum, tam repente tantam illuc
accursitasse multitudinem tamque varios illic ludorum conari apparatus
demiratur. Namque inter divas puellas ingenio erat Laus levissimo et oculorum
flagrantia propemodum immodesta, iamque ut se appeterent illexerat complurimos,
quorum catervis circum adventantibus divae pene obsidebantur. Etenim alii
fidibus, cantu, saltuve, alii palaestra, alii opum divitiarumque ostentatione,
denique quisque qua plurimum posset polleretque re placere Laudi puellae
adoriebatur. Lasciva Laus omnibus, ac praesertim iis qui lauta praestarent
veste, amoenam offerre se quantis poterat artibus, matre non recusante,
elaborabat.
Tantos Momus offendisse
rivales aegre ferebat. Sed, qua de re advenisset sollicitus, quendam ex proxima
taberna emittit, qui Virtuti deae nuntiet esse aliquem suae gentis, Momum, qui
se non invitas percupiat adire: metuebat enim ne, si non tentata et cognita
deae in se gratia adivisset exclusus multitudini ludibrio haberetur. At Virtus
dea "Utinam" inquit "satis meminisset is quidem nostra se
habitum esse ex gente! Non profecto sibi tantas commisisset rerum
perturbationes. Verum accedat ut lubet".
His verbis Momus
nuntiatis quam in partem acciperet non tenebat: oculis, vultu animisque se in
omnes partes versabat. Tandem curarum plenus ad templi vestibulum adstitit, quo
loci vix unum aut alterum pro sui conscientia verbum poterat proferre: sed ab
dea perbenigne susceptus, ipsum se colligens, plura est orsus dicere. Etenim
veterem caepit familiaritatem, mutua officia, summam erga deam benivolentiam
commemorare, suas calamitates deplorare, opem orare, seque modis omnibus
commendatum facere. Dea ut fractum exulis animum recrearet, quae ad rem
pertinere arbitrabatur, mature et graviter pro loci temporisque ratione
respondit. Inter quae non defuit illud, ut admoneret commodius cum profligato
agi si desineret olim non usque se omnibus praebere infensum atque invisum;
obesse rebus agendis nimium properam et proclivem ad detractandum loquacitatem.
Rogare ut poneret animos concitatos, temperaret iracundiae: abhorrere quidem a
suis temporibus ut iniuriarum tam obstinate meminerit. Eo mentem intendat, ut
spectet quam quaeque in superos astruat, facilius ea quidem in sui caput sint
ruitura quam superos affectura. Repetat ipse secum quid assecutus sit suis artibus
et vetere vivendi more: dolendum quidem ad id pene redactas esse Momi rationes,
ut qui velit opitulari nequeat. Sed tamen pro vetere gratia non defuisse cum
publice, tum private Momi causa curasse ut superi Momi salutem non negligant,
curaturamque ut benemerenti accumulatissime referant, modo suas esse partes
Momus sentiat ut in animis hominum suis verbis labefactatam et pene convulsam
deorum opinionem religionemque restituat. Momus insperato gaudio excitus cuncta
polliceri, nihil non spondere, omnia ab se deberi diis magnifice de se meritis
deierando insistit.
Interea proceres
primariaeque matronae, inter quos sunt qui opinentur affuisse Herculem,
Liberumque patrem natum Semele, Medium Fidium, fratresque Tindaridas atque item
Matutam Cadmi filiam, Carmentam, Cereremque et istiusmodi, hi, plebe abacta et
una protruso Momo, in templum deam consalutatum ingressi sunt. Cumque
caepissent poscere ut bona venia liceret nosse essentne, quales aspectu et
corporis habitu viderentur, ortae ex deorum genere, cumque rogare obsecrarique
perseverarent ut privatim apud se hospitio diverterent, Momus, admodum spe
plenus et dearum praesentia fretus, sese elatius agitare caeperat quam esset
par. Etenim imperitare, obversari detrectareque non cessabat: at multitudo,
insolentissimi unius huius arrogantiam contumaciamque fastidita, e templo
extrusere.
Insperata iniuria
commotus Momus, mediam inter plebem sese ingerens, huiusmodi dictis
excandescebat: "Ne vero tantis lacessiti iniuriis, o cives, istorum
procerum dementiam aeternum perferemus? Sint illi quidem, malam suam in rem,
malumque in cruciatum, opum affluentia et praedarum cumulis nobis humilioribus,
quoad eorum fata velint, superiores, nosque innocentes, quod eorum flagitia non
probemus, oderint; fulgeant auro et gemmis, stent unguentis illibuti, dum et
omnium libidinum sordibus delibuti et immersi degant: nos trita veste, sudore
obsiti, semperne pessundabimur istorum impudentia? Semper intolerabilem istorum
insolentiam perferemus? Non ergo licebit fortibus viris, quod pauperes simus,
nostrae gentis necessitudineque coniunctos hospites, istis ipsis invitis,
congredi? O nefandam et perniciosam nostrae communis libertatis labem atque
excidium! Arroganti imperio dispellunt, superbo impetu deturbant: nos vero
nostram dignitatem, tam atroci iniuria lacessiti, virtute non tuebimur? Nos
insignem paucorum audaciam tam multi uno consensu et conspiratione nunquam
refellemus? Pudeat foedae servitutis! Hic cives liberos esse nos ostendite.
Adeste viri fortes, tyrannos nequire diutius perferre ostendite. Ius vestrum
tueri, libertatem defendere ac denique vitam servituti postponere olim posse
ostendite. Adeste cives, vi temeritas coercenda: sequatur libertatis vindicem
qui se civem libertateque dignum putat. Arma, arma, viri!".
Haec Momus. At cives qui
aderant, ut est vulgi vitium et natura sponte quosque rerum novarum auctores
sequi et praecipites in ostentatos seditionum fluctus ruere, iam tum irritatis
animis fremebant et passim indignum facinus procerum accusantes undique ad
tumultum insurgebant. Id cum animadvertisset dea, ad templi vestibulum se
conferens, perturbationum auctore Momo accito, facile surgentem tumultum
circumstrepentis plebis sedavit frontis et manus gestu, regia quadam cum
maiestate innuens, et ad Momum conversa "Num tu hoc" inquit
"pacto, Mome, quae modo apud me pollicebare incohabas? Siccine indomitam
multitudinem ad immanem audaciam concitabas, ut me et hasce puellas medias
inter pericula facium, ferrique, armorum constitueres, ut mutilatorum
cadentiumque nostra inter gremia cruore aspersae divae ad superos rediremus?
Saniore esse Momum posthac mente optamus". "Ego vero" inquit
Momus "desperatus meis in rebus, tantis laesus incommodorum et horum
istorum mortalium iniuriis, non possum ipsum me cohibere quin mea mala sentiens
paululum cedam dolori. Tuum erit, Virtus, hoc providere: utrum iniuria nobis
sempiterna magis quam beneficiis certandum est?". "Adsis" inquit
dea "hoc velim de me tibi persuadeas, tuis me commodis curandis minime
defuturam; et quo firmiori spe atque exspectatione quae tuae sint partes
exequare, da manum, hoc tibi spondeo: tu quidem, si quid, uti mea de te fert
opinio, bene de genere deorum apud mortales fueris promeritus, profecto
efficiam ut nulla ex parte officii tui poeniteat. Atqui est quidem ut de te
mihi omnia pollicear: novi ingenium tuum, Mome, et de te sic statuo, dum ita
instituas aliquid et tibi salutare et diis gratum velle experiri, profecto ex
sententia perficies. Tu modo id para et te pristina deorum gratia dignum
praesta: maiora longe a nobis rependentur quam promiserimus".
Momus ad haec quid aut de
se statueret, aut benigne admonenti referret praeter lacrimas non habebat.
Illud commovit deam, quod vetula quaedam incurva cum senio, tum et metu
praesentium rerum pene confecta, properans, tremitans, anhelitans, voce
submissa "Hoe, homo, hoe" inquit "ne tu quantis in periculis
versere non intelligis! Fuge hinc, miser, teque ab paratis adversum te insidiis
eripe. Acinacem vidi servo ab latere procerem tradere, ac iubere uti quam
primum te rerum omnium perturbatorem confoderet". Dea, ne quid coram
immite huiusmodi et nefarium perpetraretur verita, velum quo esset accincta,
instar apicis quod e caelo in puteum corruens amisisset, ad Momi caput
advolvit. "At tu" inquit "quas voles varias in facies versus
infestam in te insidiarum manum aufugies, quod si pro tuo officio quae ad
deorum rem pertineant exequere, id mihi assumo de te, ut benemerito benefactum
congratuleris". Post haec ad proceres conversa dea sese nisi in templo
alibi pernoctare instituisse negat, sed postridie mane, si redierint, habere
quippiam quod cum illis sit maximis de rebus actura. Demum, ubi salutatores
missos fecit, e vestigio aeneas graves valvas obducit templo, quo ab
impurissimorum audaciumque contumeliis sit obclusis foribus tutior.
Momus, postquam quae
nequam et improbe tentasset tam praeter spem atque exspectationem bene vertere
animadvertit, suis ab successibus animos atque spiritus pristinos resumens,
omnes curas cogitationesque suas ut aliquod se dignum facinus aggrederetur
intenderat. Ergo novam atque inauditam laedendi rationem adinvenit, qua ubi
nefarie misceret omnia, illic pie et probe fecisse videretur, et pro malo
invento ab iis qui iniuriam accepissent gratiae haberentur.
Puellarum enim una erat,
Tersitis soror, inprimis ob egregiam deformitatem urbe tota cognita. Haec, quod
regio langueret morbo, rus valitudinis gratia petierat. In hanc conversus Momus
se ceteras inter puellas, quae tunc forte in triviis atque angiportibus
congruerant, immiscet vultusque suos non ut antea pallentes et squalidos, sed
novo quasi miraculo factos roseos et miro venustatis splendore amoenos
ostentans, manuque sibi insuetos aureos capillos demulcens, bellissime
inflectebat. Invidentibus puellis atque poscentibus unde una haec Tersitea omnium
incuriosissima puella tam repente connituerit, Momus, composito ad delitias
vultu, "Eo dum" inquit "adeste meae cupidines, meae puellae,
animoque, si id vacat, advertite quae vobis utilissima et gratissima dictura
sum. Discetis enim a me quo pacto etiam vos huiusmodi vultu ornatissimo
prodeatis. Atqui eritis quidem tanto quam ipsa sim ornatiores, quanto prae me
vestrarum quaeque ex se est longe formosior atque decentior. Quod ni ita ut
facerem tam mirifici doni largitores dii imperassent (meum apud vos sit fas
profiteri peccatum) fortassis poteram tacendo meo cum animo mecum hoc nostro
solo potiri gaudio, proprioque hoc inter puellas triumpho gloriari: sed superis
diis sponte ac lubens pareo. Tu Venus, tu Bacche, tuque aurea Aurora adeste
faveteque, dum sancto pioque vestro pro imperio tanti tamque divini muneris
meas hasce amantissimas carissimasque puellas participes facio".
His Momi dictis puellae
facile non dici potest quam sese audiendi discendique avidas praestiterint. Tum
Momus commentitiam fabulam ordiri grandi verborum apparatu caepit in hanc ferme
sententiam. Nocturna se quidem vigilia fessam curisque animi fractam atque
defatigatam ruri mane diluculo obdormivisse et in somnis visam sibi curas
easdem sua cum defuncta nutrice repetere. Id erat suam se vehementer sortem
accusare quod alioquin non omnino repudiandam ob ingenii dotes puellam videret
se nullis fore non ingratam atque una praesertim re, coloris obscenitate,
haberi a cunctis mortalibus spretam atque reiectam. At vetulam nutricem visam
dicere: "Desine, anime mi, te hisce fletibus commacerare, dabo quo pacto
fias formosissima. Ito, voveto superis et Veneri et Baccho atque Aurorae diis
te coronas tua manu illibatis floribus consertas ad aram illorum simulacris
admoturam, modo aliquid dent ad te honestandam opis. Namque obsequii memores et
gratissimi dii quaeque petieris praestabunt". Hac nutricis oratione
recitata, Momus iam tum animos puellarum spe atque cupiditate maiorem in modum
oppleverat. Quas cum ita affectas intueretur, unam atque alteram spectans,
perquam bellulo gestu caeptos sermones prosecuta, "Haec mea" inquit
"dixerat nutrix. At ego experrecta pronis manibus quanta dabatur animi
fide ex insomnio vovi. Credin? Illico me bona spe factam firmiorem sensi. Quid
multa? Iterato consopitam me Aurora dea per somnium qua arte resina cerusaque
pingerem et pumice fingerem et croco nitroque crinem tingerem edocuit. Qua ex
re nos puellas bis felices arbitror et quod divinos Aurorae vultus his artibus,
quoad lubeat, liceat imitari, et quod nostris in curis et laboribus patefactam
ad superos deos immortales consulendos placandosque viam habeamus. Hac pacem
opemque poscere superum, hac, diis volentibus et annuentibus, quasi quodam
rerum agendarum commercio iungi superis facili levique negotio possumus. Ite ea
de re posthac puellae, atque a diis audete votis quaeque collibuerint
petere".
His fabulis recitatis,
Momus puellam unam atque alteram bellissime adornavit atque sese qua pingerent
arte instructas plerasque omnes reddidit. Verum petiit in abdito facere id
consuescerent, ne viri quoque sibi una tantas delitias usurparent, neve domi
morosae et causatrices novercae resciscerent. Haec Momus, atque abiit ita acta
sua secum reputans, ut prae laetitia prope insaniret. "Etenim" aiebat
"profecto, uti aiunt, rerum omnium vicissitudo est. Quis tantam tamque
variam temporum meorum commutationem conversionemque factam uspiam potuisset
suspicari? Nuper exul, miseriis obrutus, diis atque hominibus odio et ludibrio
qui fueram, nunc repente ex afflictis perditisque rebus in tanta haec mea
tractus gaudia nimirum exulto laetitia. Sed nondum apud me constat inprimis ne
congratuler quod ab exilio restitutus pristinam dignitatem recuperaturus sim,
an quod haec mihi vindicandi mei ratio in mentem inciderit, qua inveniri nulla
possit festivior: et profecto hic apud homines versari oportet, si quid ad
dolum et fraudem velis astu perfidiaque callere. Hui quale bipedum genus
homines! Appage! Atqui hoc mihi ex acerbo exilio obtigisse voluptati est, quod
vafre et gnaviter versipellem atque tergiversatorem praebere me simulando ac
dissimulando perdoctus peritissimusque evaserim. Quas profecto artes commodas
et usui pernecessarias in illo apud superos otio et luxuriae illecebris
constitutus nunquam fuissem assecutus. Nunc his meis vexatus exagitatusque
casibus, quid est quod te, Fraus, verear? O me felicem, si illa pristina in
rerum affluentia quid possent in dies nova incommoda tenuissem: non me,
fedifraga Fraus, tuis proditoriis artibus exterminasses! Quod si ad superos rediero...
Sed de his alias. Hoc scio, Momum fallet nemo, quandoquidem omnes fore improbos
perdidicit Momus. Ad rem redeo. Sic se res habet: hic apud homines ferendo
tolerandoque dura et adversa ad grandes praeclarasque res prospere agendas
ratio et modus comparatur. Vel quis meum hoc, uti par est, satis laudarit
vindicandi commentum? Ne vero non me architectum elegantem omnis malitiae
praebui? Hoc nimirum meo facto id venturum sentio: superos discet mortalis voto
incessere, novi eius petulantiam, novi procacitatem, arrogantiam, temeritatem.
Nihil sibi rerum optimarum atque divinarum non deberi deputat. Quid erit quod
votis non aggrediatur? Stulte appetet, temere affectabit, proterve exposcet,
nihil sibi negandum, nihil non ultro conferendum ducet. Denique quivis unus
humunculorum cunctos deos sua insolentia expostulando defatigabit. Illi vero
delitiosi, qui quidem lauta inter caeli domicilia omne aevum per otium et
incuriam ducere instituere, si quid has res votorum curarint, conferant ad res
agendas manum animumque oportet, ac desinant quidem suo cum Ganimede, sua cum
Venere et Cupidine desipiscere voluptatibus. Adde quod, si de mortalibus bene
mereri occeperint, in dies excrescet desidiosis inertibusque labor. Sin haec
negligent desidia et fastidio, actum est, nulli sunt: tolle qui pareant,
frustra imperes. Non habeant dii qui ad sui numinis venerationem animos
subigant, quanti tu putes esse te superum? Accedit huc, quod sunt quidem dii
ipsi plus satis ambitiosi et popularis submissionis assentationisque maiorem in
modum avidi; sunt alia ex parte supini, ignavi, desides, quo fiet ut, nectare
atque ambrosia immersi et obruti, nova et insperata huiusmodi re quasi a somno
exciti, quid quisque privatim sibi consiliorum captet non habeat et communi in
re quid statuisse conferat non inveniat. Disputabunt altercationibus magis quam
sententiis. Illic nostrae aderit operae pretium non mediocre. Nam, me ni eorum
mores et consuetudo fallit, futurum profecto video, ut in contentionis studiis
aliquid irarum et odii inter eos excitetur. Neque dubito quin in me multa ex
parte illarum perturbationum aestus redundet, sed quo me purgem atque ab inita
invidia revocem illud semper patebit, ut dicam me bona fide illorum maiestati
consuluisse quantum ingenio et simplici prudentia valui; et bene mihi quidem,
quod in me fuit merito, insperatum rei eventum ad culpam esse non detorquendum.
Postremo et quid illud? Num qui incultas agrestesque potuit puellas deperisse
Iuppiter, factas per me venustiores non ardebit? Vale, Iuno!".
Dum haec secum
commentaretur Momus, incidit in mentem ut tetrum aliud adoriretur facinus, diis
superis et diis inferis et hominum generi invisum, infestum et detestabile.
Digna res memoratu levi re, si id ita licet dicere, tam exitiosum execrabileque
malum esse exortum. Tum et ipsum flagitium ob inventi novitatem habet in se
quippiam quod quidem legentibus voluptatem afferat.
Momum diximus Laudem,
unam Virtutis filiam, caepisse adamare. Laude igitur ut potiretur animo
destinarat nihil rerum omnium praetermittere. Ea de re ad obclusum templum
circum astabat, lustrans omnes aditus, undique repetens omnia atque pertentans;
sed cum omnes eius haberi fustra conatus obiectis firmatisque templi portis
intelligeret, pedem animumque inde quasi iam tum caeptam obsidionem dissolvens
averterat. Sed cum inter discedendum iterato ad templum versus constitisset et
suspirans rursus huc atque illuc suspexisset, forte neglectam posticam
fenestram animadvertit: per ipsam hanc, seu furtim seu vi, suos sibi fore
petendos amores instituit. Scalas eo admovere loco et publico et hominum
frequentia circunsepto cum difficile atque arduum, tum et pro re agenda erat
haudquaquam tutissimum. Ergo isthinc oculis ab fenestra ipsa pendens, hinc vero
animum in omnes partes concitans plura deliberabat, multa audebat, cuncta
metuebat, furoreque libidinis agitatus inter spem atque metum aestuabat. At cum
sese collegisset et memoria repetisset quid velo ab dea Virtute suscepto
posset, illico sese hortatus ad murum templi vetustate asperum adhaerescere et
brachia multo sursum versus tendere, unguesque barbamque inter lapidum
iuncturas infigere totis manibus totisque contendit pedibus, quoad in hederam
versus ipsam per fenestram arduus irrepsit. Illinc ubi aspexit solam fortassis
Laudem, matre fratribusque consopitis, in suis concinnandis capillis ad tersum
templi lapidem quasi ad speculum advigilare, prae amoris furore male sui compos
et animo in omnem audaciam percitus, quo se vertat, quid captet consilii non
invenit praeter id, ut pronus tacitusque amatorii furti occasionem
praestoletur. Idcirco muro sensim diffluens intensis brachiis animo suspensus
dependebat; quo in statu atque exspectatione positus difficile dictu est quam
et morae et sui esset impatiens. Ad puellam enim factus propior acrius
flagrabat amoris facibus, alia ex parte, multa veritus, refrigescebat atque
contremiscebat. Rursus omnia poterat aggredi, rursus item sese levissima quavis
oborta suspicione revocabat atque continebat; iterato ad temeritatem
excitabatur, iterato inter audendum haesitabat ac ad omnes animi intento
facinore concitatos metus nequiebat totis frondibus non titubare.
Puella dea, commotarum
frondium levi tum primum allecta sonitu, oculos eo defixerat. Mox ubi pendentis
ramos hederae et quasi plausu gestientes frondes conspicata paululum a crinibus
innodandis destitisset, suae non oblita levitatis viridanti sibi ex palmite
coronam facere aggrediebatur. Quid hic Momi audaciam referam? Etenim sese
attrectantem puellam totis lacertis complexus oppressit, atque omnem in partem,
ne diis a somno excitatis male quod tentasset verteret, oculos atque aures
intentas atque arrectas porrigens pervicit. Mox se in fenestrae limitem
retraxit et illic paululum suos inde amores victor securusque spectans
constitit.
Sed vide quid faciat
improbitas. Plebei aliqui vilissimi scurrae, quod nullos neque deos neque
homines vereri, id demum in vita optimum commodissimumque deputent, per hederam
istam ipsam conscendebant stuprandi profanandique templi gratia, prehensisque
hinc atque illinc ramusculis multa vi innixi in fenestram evadere elaborabant.
Qua ex re effectum est ut Momus, non secus ac per capillos distractus, cum
parte putrentis vetustate muri corruere coactus sit. Eam iniuriam Momus aegre
tulit: idcirco in torrentem versus impudentes ipsos scurras foetidam per
cloacam traxit atque submersit.
At Virtus dea, primo
reluctantis filiae strepitu excita, ut erat ingenio acutissimo et consilio
praesenti, optimum opportunissimumque ex tempore consilium inivit, quod quidem
doctissimi prudentissimique rerum agendarum in hanc usque diem cuncti
comprobavere. Quam enim rem ne facta esset poterat ope nulla consequi, eam
noluit ad praesentem suam suorumque notam et ignominiam promulgare atque
committere fortassis clamitando, ut ad unius filiae acceptam contumeliam novae
etiam inimicitiae in suos redundaturae accumularentur. Itaque praesentis pro
temporis iniquitate commodius ducit quasi per somnum dissimulando et
obaudiendo, quoad tempus ferat rei atrocitatem levare. Ergo prona despectat,
tacitaque exspectat qualem sibi res ipsa exitum adducat. Puella vero, insperato
Momi scelere exterrita, vixdum animos crinesque collegerat, cum se factam
compressu gravidam et partui maturam sentit, eodemque ferme temporis momento
(mirum dictu) sponte sua foetum erupisse animadvertit; post id, quod ex se
natum esset colligens monstrum horrendum teterrimumque demirans stupuit atque
vehementer indoluit. Monstro praeter cetera foeda et obscena illud aderat longe
incredibile, quod totidem oculis, totidem auribus, totidem micabat linguis quot
et ipse parens hederae consertus fuerat foliis. Accedebat quod prae se eam
ipsam animi ferebat sollicitudinem et curiositatem circumspectandi omnesque
motus excipiendi qua inter vitiandum parens agitabatur, illudque vehementius
perturbabat, quod mira et nimium intempestiva esset loquacitate praeditum:
namque vel nascendo quidem conari verba caeperat. Tantum ex se natum malum
puella non odisse non poterat: ea de re id opprimere omnibus aggressa est
modis, sed frustra. Deo enim deaque progenitum animans, morti nequicquam
obnoxium, vigebat, sed hinc, huc, illac e matris manibus resultitare,
suffugitare, rursus repere per sinus per vestesque interlabi non cessabat: quin
et plagis ictibusque collisum voce, corpore ac viribus excrescebat. Aderat
illic prope ex leuconicis plumis pulvinar, quo sollicita puella volutabile
inquietissimumque id monstrum suppressans opprimere innitebatur. At monstrum
miris modis reluctans unguibus dentibusque ita pulvinar collaceravit ut medias
inter plumas inserperet. Etenim tum istic puella intrudere monstrum iterum
atque iterum innitebatur, quo saltem, si minus posset necare, a suorum oculis
obderet atque exponeret. In eo exequendo opere iam tum animis viribusque
defecerat.
Tantis igitur casibus
confectam puellam dea mater dudum conspicata ingemuit. Ergo ut puellae tanto in
discrimine opem afferret, quasi tum primum a somno expergefacta adstitit, ac
"Desine" inquit "ipsa expediam", graduque citato properans
dextro pede volutantis monstri colla compressit. Monstrum vero, etsi quasi irretitum
nequicquam hisceret, verborum tamen petulantia insolescebat quaeque enim illic
conspicarentur decantare minime intermittebat, quin et quae audisset
vidissetque, nonnunquam vera falsis miscens, referebat. Triumphum enim
Trophaeumque non Virtute natos, sed Casus Fortunaeque filios, et eorum alterum
esse stolidum, alterum dementem adiurabat, hosque irridens "Io Throphee,
io Triumphe!" vociferabat "tuque heus, Trophaee, quidni, uti assoles,
in triviis ad pueros fessosque vectores tete ostentans signis, mutorum more
ganniens, restitas?" Addebat et Laudem oculo esse indecenter lippam, tum
et Posteritatem pedibus retroversis aegre pergere affirmabat. Et ad Virtutem
deam versum "Cum tibi" inquit "Laus capillum pectit ad frontem,
pectus gremiumque tuum multa conspergitur sordium foeditate".
Monstri istiusmodi
commota procacitate Virtus dea animo repetebat quam ferme omnium dicacissimorum
sit natura et ingenium ut facile queant vetera negligere, modo nova ad
obloquendum suppeditent, et eosdem meminerat recentibus in horas undevis captis
rumoribus gaudere, spretisque vulgatis historiis semper aliquid recentis
fabulae captare. Quae cum ita essent, bene consulta dea "Abi tu"
inquit "malam in rem, Fama, quandoquidem fari non desinis, aliasque tibi
quas recites fabulas alibi comperito", atque haec dicens, per quam
fecisset Momus fenestram furtum, per hanc monstrum eiecit. Fama idcirco, quo
primum solutis membris licuit, eo repente lacertos intentans se agitare ac
perinde sublimi pendere aere volitando institit, quoad e vestigio didicit
evolare tanta pernicitate ut non radius et umbra, non oculi acies, non animi
ulla vis ulla ex parte ad unius istius celeritatem possit comparari. Ferunt
hanc unico temporis momento campos Marathonios Leutricosque et Salaminas et
Thermopylas et Cannas et Trasimenum et Furculas et Scylleos scopulos et
cyclopea saxa Idaliasque silvas et Herculeas Gades et Byrsen et Thalas et
Atlantis axem et ubi niveos Aurora Phoebo frenat equos et ubi glaciali stridet
oceano immersus Sol, omnia, inquam, haec et pleraque omnia quaevis alia
istiusmodi momento lustrasse Famam. Accessit quod visendi, auscultandi
referendique aviditate ac studio flagrans, nihil uspiam tam seclusum, abditum
obinvolutumque latitabat, quod ipsum Fama dea non continuo scrutari, renoscitare,
vulgoque propalare summa industria, incredibili vigilantia, intolerabilique
labore inniteretur.
Tam exsecrabile ex se
progenitum malum intuens Momus primum caeperat suspicari fore ut pessime secum
a diis ageretur. Redibat in mentem quale ab se foret in templo, praeter deum
hominumque ius fasque, commissum facinus. Illud etiam perturbabat, quod suorum
apud divos commodorum interpretem deam alienasset ab se audaci temerarioque
libidinis scelere, et verebatur ne maximo istius unius Famae praeconio magnorum
deorum apud homines ius et maiestas innotesceret, atque inde et metuere et
venerari deos credulum vulgus molto assuesceret. Sed alia ex parte erat ut se
recrearet quod intelligebat Famam non quae approbes modo, verum etiam et
inprimis quae improbes aliorum gaudere facta recensere, et adnotarat mortalium
mores, qui quidem non tam recte pieque cuiusquam factis moveantur quam ut ex
iis quae pro officio minus facta appareant graviter offendantur, esseque
hominum ingenium huiusmodi meminerat, ut graves etiam laudatores atque maturos
habeat suspectos, levissimis vero obtrectatoribus ultro credat, et optimorum
egregie facta minori cum voluptate audiat quam perditissimorum calumnias,
calumniasque ipsas pro cognitis exploratissimisque referat, veris vero laudibus
aliquid semper detrahat atque imminuat. Adde his quod totam hominis mirificam
divinamque animi, ingenii, morumque pulchritudinem et laudis decus unico
suspecto vitii naevo despiciunt atque fastidiunt. Quae cum ita essent, de re
ipsa sic statuebat Momus fore ut, quo superum ferme invenias neminem cui non
insint domesticae aliquae insignes illustresque maculae turpitudinis, eo non
defuturum quin Famae rumoribus apud mortales deorum opinioni vehementer
officiatur. Ceterum, pro vitiata ab se in templo puella, non difficilem habere
se apud Iovem causam rebatur, eum qui, amore captum, se non neget quippiam
fecisse, in quo patris hominum deorumque regis facta imitatus videatur.
Haec tum secum Momus.
At alia ex parte dea
Fortuna, Virtuti ob eam rem infensa, quod iam pridem constituendarum rerum apud
mortales provinciam affectasset quodve in ea re sibi deam Virtutem praelatum
iri dedignaretur, totam se ad aemulam deturbandam apparabat. Ea de re, dum
quaeque apud mortales agerentur observat, sensit quale interea esset terris
obortum immane monstrum, cumque visendis monstris maiorem in modum
delectaretur, et instituisset suas esse partes Virtutis deae caepta, quoad in
se esset, dirimere, laeta ad terras applicuit conveniendi Famam cupiditate
captandaeque ad laedendum occasionis gratia. Sed illico in rem sibi gratissimam
incidit: namque Herculem quidem, acrem assiduumque adversus monstra
perduellionem, clavam manu librantem totoque innixu Famam petentem offendit. Ea
de re substitit, secum ipsa quidnam consilii caperet pensitans. Multa
offerebantur quae sese perturbarent, inter quae illud inprimis animo
versabatur, quod audiebat coram bacchantem Famam et deorum facta consiliaque
toto aethere explicantem. Quas inter fabulas illud erat, adventasse Fortunam
deam ut Virtutis deae caepta interturbaret et Virtutem instituisse in ara apud
mortales focum succendere divorum flamma, quo mortalibus in astra pateret via.
Huiusmodi vocibus tametsi commoveretur, Fortuna dea tamen quod totis terrarum
montibus atque convallibus festivissime resonaret delectabatur; accedebatque ad
voluptatem monstri ipsius species informis, omnique corporis facie longe
praeter exspectationem opinionemque ostentuosa, ex quo fiebat ut cum monstri
futilitatem odisset, tum et cuperet salvum esse atque illaesum. At vero ubi
perpendit ipsum Herculem nonnulla ex parte monstri esse persimilem non se
continuit quin hominem accursitans amplecteretur. "Et quidnam hoc rei
est" inquit "quod denso gravique roboris trunco fretus, tete
fatigans, dura et difficilia praemeditaris in deorum genus? Num tu adeo ignarum
te rerum aestimatorem habes, ut quam oratione rationeque pollentem levi pendere
aere sentias non eandem ex deorum progenitam genere intelligas? Hoc moneo,
facilius quidem efficies ut quod ipsum mortale sit immortalitatem assequatur,
quam ut quod immortale siet a mortali quoquam opprimatur. Tu proinde quae tuam
in rem futura sint dum et tua et mea causa refero, auscultato ipsa: quo
argumento te in deorum ordinem facile irrepas edocebo, neque erit ut foco quem
posuit in ara dea Virtus tibi opus deputes. Hoc age: clavae istius corticem
delibrato, quo levigato sis onere expeditior, teque inter molles istas herbas
obdito in umbra, illinc corticem agitans ostentato et insibilato et immugito,
vocesque crepitusque varios personato. Dea, ut est rerum omnium noscendarum
curiosa, confestim ad te properabit: illam tu saltu prehendito atque rapito;
ego, ne semel ea facta manceps te discusso diffugiat, aureum hunc crinem tuum
ad capillum innecto: hic robur nervis et pectori firmitatem adhibebit. Unum
cave manu corticem mittas, ne te fortassis foedato, expetita cum praeda advolet
dea".
Etenim successit Herculi
res ex sententia. At complicitum ad monstri collum toto amplexu haerentem Momus
efferri in altum Herculem ut vidit, non facile dici potest quantis utramque in
partem commotus animi perturbationibus exstiterit. Principio, non posse hominem
ratus tam immane pondus clavae suique una corporis molem diutius substinere,
caepit hortari filiam deam ut hostem audacem et temerarium quam alte sublimem
tolleret, quo collapsus casu gravius confringeretur. Sublatum vero ut vidit,
iterum atque iterum caepit efflagitare ut ab se discuteret atque dimitteret. Ut
demum perpendit Herculem ipsum ad Martis usque regiam advectum in caelum atque
illic in area Martis seu fessitudine seu consulte elapsum restitisse, caepit
prae dolore capillum vellere, genas unguibus lacerare pectusque contundere et
magno cum eiulatu sese miserum vociferare, "Actum est, Mome" inquiens
"de te; actum est! Ne vero non mihi erat apud superos inimicorum satis, ni
et is ex numero eorum qui quidem servo acinacem ut me confoderet praebuerant,
in caelum me auctore asportaretur! At videre quidem iam videor hunc artibus
istis, quibus apud mortales assuevere assentando, blandiendo et sese iactando,
apud minime malum illum principem Iovem triduo assecuturum ut qui hic
mulierculae servierit illic regnum inter deorum principes ineat. Vel ego,
omnium stultissimus, quid insanivi? Quid alienas iniurias ad me recepi? Quid
mei capitis periculo, nullis munitus copiis, exul, invisus, male acceptus,
sponte graves aliorum inimicitias subivi? Quid mea intererat? Num tacitus
poteram mortalem Herculem immortali cum filia Fama luctantem spectare? Tu,
Mome, tu mortalibus in caelum patefecisti viam tua irarum impatientia, tu
hostem in caelum substulisti. Et profecto in vita ita convenit, sapientem
nullum habere stomachum. Vorandae quidem sunt hominum iniuriae, sed nostra
intolerantia fit ut quae fortassis levia ferendo essent, ea gravem molestamque
in aerumnam crescant male ferentibus. Itaque nunc sapis, Mome, nunc gratis
philosophabere. En mortales caelum petunt, tu exulas, Mome, tu eiectus,
exclusus exulas. Et quanti est me esse non mortalem, cui novis in dies
molestiis congemiscendum sit? O dulcem laborum requiem, mortalibus dono a diis
deditam, mortem! Sed quid? Ego itane sum demens? Non perpendo quam pulchre quae
putabam incommoda ea sint meam futura in rem? Est ergo uti aiunt, sub metu
voluptas latitat. Quid igitur? Tene fugiunt hominum mores, Mome, quam sint illi
quidem ambitiosi, procaces, audaces? Quotus erit quisque istorum heroum, qui
non et se quoque caelo dignum deputet? Hinc fiet ut tanto ex numero non
paucissimi qua valebunt quidem fraude, quo poterunt dolo, quo licere sibi omnia
putabunt, ex novis excogitatis insidiarum artibus Herculem imitati
consequantur. Da forte ut sint illi quidem, vel duo, in eas recepti regiones
caelicolarum: proh, quantos discordiarum turbines conflabunt! Videre videor
plenos caelicolarum caetus seditione malis istorum et delatorum et
calumniatorum artibus. Hic demum apud mortales quantas clades, quantas urbium
eversiones, quanta gentium excidia futura intueor! Dum Herculem imitari inter
se studiis contentionis inflammati ardescent, dum hi per ambitionem Famam
occupasse, hi contra per invidiam occupantes interpellasse, ferro, igni,
vitaque certabunt. Nunc me iuvat esse immortalem, nunc non est ut pigeat
exilii, quandoquidem unam hanc ob rem refertum cadaveribus mare, cruentatas
provincias, foedata astra flagrantium urbium fuligine visurus sum. Gaude,
Mome!".
Itaque haec Momus, atque
ut horum inter homines malorum quasi seminaria iniiceret, in Herculis speciem
versus ad proceres, qui de summis rebus consulturi convenerant, composita
oratione tum multa quae ad rem faciant, tum et qua sit ratione et via factus
deus refert seque ut imitentur persuadet. Mox ut eos ad rem exequendam animis
iam et armis accinctos vidit, in auram conversus evanuit, filiaeque edixit ut
hunc sibi ludum usurparet, mutuo sese his atque his proceribus ostentando.
Interea Fortuna dea, quod
usui futurum arbitrabatur ne quis vacuas Iovis aures ad invidiam sui ob
Herculis factum praeoccuparet, docta quam in animum cuiusque primas
inscripsisse formas intersit, confestim ad Iovem institit, suadens hunc
Herculis insperatum eventum optimam fore in partem accipiendum. Non enim alio
illustriori potuisse argumento deorum maiestas ad venerationem et metum deorum
mortalibus monstrari, quam ut discerent olim se fieri posse deos.
Dum haec aguntur Fama
dea, ab Hercule excedens, studio visendi propinquas Iovis sedes petierat. Huius
tetro truculentoque aspectu territi dii toto caelo tumultuavere, et qui modo
Herculem ad se delatum aegre tulerant, hi non modo percommode hospitem
appulisse, verum et ab inferis arcessendum ni adesset arbitrabantur, at
permaximi quidem interesse asserebant quo duce contra insueta et immania
monstra dimicarent. Datur idcirco Herculi ferrea Iovis clava, Vulcani arte
facta, qua monstrum Famam penetralia omnia deorum lustrantem abigat. Hac fretus
Hercules duellum adversus congreditur. Fama, armatum acerrimumque perduellionem
nequicquam sibi exspectandum statuens, caelo a summo se praecipitem dedit,
atque inter veniendum magno cum eiulatu vociferabat: "Nos, diis genitae,
prius reiectae caelo quam conspectae ad infimas mortalium terras insontes
pellimur; facinorosissimi mortalium armis deorum ornantur, et pro tantis
iniuriis illud rependitur, ut qui nos laeserint in deorum numerum
ascribantur!".
Haec dicendo Fama
pervolans nova nefandaque mortalium caepta offendit; ea de re ad matrem,
ceteris omissis rebus, quasi temulenta, ingenti alarum stridore advolat, magna
voce referens quod viderat ac vociferans: "Fugite hinc, deae, heu fugite,
namque proci amatoresque mortales, vim inferre parati, ad templum adventant,
adsunt armati ut vi de caeli possessionibus paciscantur!". His concussae
vocibus deae, armatorumque strepitu subaudito furentium, istiusmodi motibus
insuetae, quo se vertant non reperiunt: itaque intus trepidatur, at foris
circum ad templi portas tumultuatur; ipsa dea Fama fremitu virum attunditur.
Etenim fit hinc refractis vectibus armatorum irruptio in templum, hinc
perterritorum deorum adolescentulorum ad matris gremium eiulatus. Mater Virtus
ne se ita vestibus comprehensam detentent admonet, seque una inde quam ocissime
in quippiam rerum versi proripiant sollicitat. Illi cum hebetes tardique
natura, tum armatorum aspectu animis consternati haesitabant. Dea vero Virtus,
et mortalium audacia et suorum ignavia irritata, maximo deorum voto imprecata est
ne desidibus posthac in caelum uspiam aditus pateat, atque ignavis diis nisi
unam liceat in formam verti. His peractis exsecrationibus, in fulgur versa
emicans evolavit. Laus Virtutis filia, pallio amisso, levem in fumum versa hos
atque hos sui prehensatores occaecatos reliquit.
Momus, nefastum tetrumque
mortalium scelus conspicatus, nequivit non facere quin, suorum temporum
similitudine commotus, trium relictorum in templo deorum vicem ingemisceret.
Ergo, ut erat in auram versus, in templum ad divos confestim pervadit, rogatque
se vertant in quampiam rem, quo se in libertatem vendicent. Consulentibus divis
in hominemne, quo, raptis insultantium armis, strage et occidione infestos
occiderent, "Et sic opto" inquit Momus "ut quo acinace ipsum me
petierint eodem cadant! Vos tamen quidvis fieri velim quam homines, namque in
terris nihil est homine quod vivat durius. Quin et animantis cuiusquam personam
ne induatis admoneo: namque mortale qui iniverit corpus cum multa offendet
incommoda, tum illud grave atque iniquum urgebit, quod sui ferre carcerem
oportebit".
Haec Momus. At negavit
Triumphus admodum se absque corporis commercio, quo voluptatibus perfrueretur,
velle degere. Idcirco in papilionem se vertens attrectantium admirantiumque e
manibus lubricis alis delapsus evolavit. Trophaeus vero, ut erat corpore vasto,
immane in saxum versus aliquot eorum qui manum ad se attulissent suppressit.
Puella dea Posteritas pro dignitate et temporis necessitate rectius consuluit:
in eam enim se vertit deam, quam quidem Echo nuncuparunt. Quae cum ita essent,
frustrati mortales non sine rixa ereptum Laudi pallium horsum istorsumque
carpendo collacerarunt et minutissimas in particulas, ut casus tulit,
conscissum diripuerunt.
Liber secundus
Quas perturbationes Momi
exilium apud mortales excitaverit hactenus recensuimus; nunc dicendum qua
ratione ab exilio in Iovis gratiam restitutus fuerit et quam novis inauditisque
perturbandarum rerum artibus pene ultimum in discrimen deos et homines et
universam orbis machinam adduxerit. Atqui erit quidem operae pretium legisse
quam varia incertaque consilia, quam insperati inauditique rerum eventus
quamque frequentes et digni memoratu sint casus subsecuti, ut nesciam ipsa ne
me rerum dignitas et magnitudo et copia plus ab scribendo, dum ingenio
diffidimus, absterreat, quam historiae amoenitas ad scribendum voluptate
illectet atque invitet. Dices de Momo quicquid hucusque legeris fore nulla ex
parte comparandum cum iis quae deinceps consequentur. Nam cum auctore Momo
caepissent puellae ab superis diis levia primum et pusilla poscere, quod solent
amantissimi patres blaesis puerulis et delicatis filiolis poma et similia
poscentibus tradere cum voluptate et risu, ita et diis iucunda erant puellarum
vota illa ridicula, dum aliae quod pingulentae essent, aliae quod nimia
macritudine non placerent, aliae quod aliud quippiam ad speciem liberalis
formae desiderarent, id simplici quadam animi puritate deprecarentur, et quo
erat facile obsequi, eo et dii benigne conferebant, hinc desumentes quod huic
alterae puellae contribuerent; ac manavit quidem res, pari deorum facilitate,
usque dum patres maioresque natu facere et ipsi vota accessere, sed primo iusta
atque ea quidem eiusmodi, ut facere palam medio in foro amicis (ut aiunt)
inimicisque probantibus deceret: ergo ab diis sponte ac volentibus audiebantur.
Accessit item ut reges ditissimaeque respublicae votis deos poscere
assuescerent.
Principio hominum haec
adversus deos et veneratio et cultus adeo fuit accepta superis, inventi
novitatem mirifice probantibus, ut nulla in re libentius versarentur quam in
votis mortalium benigne suscipiendis. Perquisitoque idcirco atque cognito huius
tam gratae rei auctore, cunctorum animi ab eo quo erant erga Momum praediti
odio ad misericordiam fuere atque ad benivolentiam conversi. Hinc summo omnium
consensu et sententiis fit amplissimis verbis de revocando Momo lex,
constituunturque legati Pallas dea atque altera Minerva, quae quidem optime de
deorum genere promeritum Momum quam honorificentissime suas in pristinas sedes ad
caelicolarum ordinem reducant atque restituant, et datur inclusus gemma sacer
ignis deorum, quo divinitatis insigne apicem inflamment ad verticemque adigant
reduci. Recusarat Pallas velle ad mortales accedere, nam eos quidem armis posse
et animis valere audierat: tandem, imperio Iovis et amicorum suasionibus victa,
sumptis thorace et armis, parere instituit. Vixdum rogata erat apud superos
lex: eccam Famam alis stridentibus properantem ad Momum anxiam atqui, uti est
eius natura veris falsa immiscere et omnia tametsi pusilla dicendo reddere
grandiora, parenti nuntiat tumultuari apud superos, parari maximos motus, iam
caepisse delabi caelo armatos deos. Quam rem audiens Momus, flagitiorum suorum
conscientia exagitatus atque aestuans, procidit. Vexabat animum quod violatos
ab se fore optimi et maximi deorum immortalium regis legatos meminisset, quo
suo detestabili scelere omne caelum in se infestum iraque incensum
arbitrabatur, et tantos irarum impetus perferre diffidebat; ea de re maximis
precibus agit apud filiam uti, quoad in se sit, deos ipsos adventantes
interpellet atque frustretur, quo sibi et captandi consilii interea et
delitescendi locus detur, si forte liceat fallere subterfugiis. Fama ut parenti
obtemperet advolat. Momus vero difficile dictu est quam omnes in animi
pertubationes iactarit se atque agitarit. Multa incohabat consilia, cuncta
displicebant; omnia temptabat, nihil non aggrediebatur quod ad opem atque
salutem suam facere suspicaretur; alia ex parte singulis diffidebat locisque
rebusque, quicquid inierat consiliorum repudiabat; nihil fuit formae, in quod
vertere se non affectarit.
Tantis curis confectum
Momum Fama rediens recreavit, nam "Bonis commodisque usurum te diis, Mome,
annuntio" inquit "et, quod minime reris, pacem gratiamque afferunt,
et una sacrum deorum igniculum ad te dono deferunt". Id cum intellexisset,
etsi veteris cum dea Fraude inimicitiae memor verebatur ne quid doli ad se
intercipiendum importaretur, tamen, quod abscondendi sui nullus aut locus aut
facultas dabatur diis superis omnia spectantibus, quodve taedium sui ferre
diutius dedignaretur, in quoscumque sibi essent parati casus praecipitem
obiicere se admodum festinabat. Ergo ultro progredi animumque alioquin
labefactatum atque prostratum erecto vultu fictaque hilaritate integre et de
seipso quid sentiat habere alta reconditum dissimulatione instituit. Factus
inde obviam, cum se mutuo salutassent atque ex legatorum vultu verbisque plane
atque aperte intellexisset praeter spem se ex omnium rerum difficultate ad
superum delitias evocari exque diuturnis tenebris miseriarum suarum in summum
illustremque pristinae dignitatis gradum assumi, amens factus repentino gaudio,
quibus verbis pro animi libidine congratularetur non habebat, sed prae laetitia
prope delirans multa dicebat inconsiderate, inter quae illud ex ore inconsultum
excidit, ut diceret: "Siccine, Mome, quod apud mortales aiunt, omnes ab
exilio ad imperium veniunt?".
Quod Momi dictum Pallas
(ut sunt mulieres ad suspicandum pronae, ad perversa interpretandum faciles, ad
nocendum paratae et proclives) altiori discursu pensitavit quam ut id ulla
vultus frontisve significatione indicaret, sed tacita profundo pectore Momi
naturam atque improbitatem versans statuebat neque Iovis neque superum
rationibus convenire ut huic nequissimo veteris iniuriae procul dubio memori et
innata consuetudine improbitatis ad omne genus audaciae promptissimo id
conferatur, quod magnas gravesque res agendi potestatem et facultatem praestet.
Repetebat item cum ceteras, tum has rationes Pallas, ut suo cum animo diceret:
"Nos quidem debilitatum exilio et fractum aerumnis hunc monstrorum
procreatorem aegre sustinuimus. Quid tum, verum ac superum donis confirmatum et
integrum nullo cum periculo sustinebimus? Quid illud, aut quanti intererit,
divini muneris spe et exspectatione Momum a furore cohibere, an porrigere quod
promptum et in flagitium accinctum excitatumque impellat? Vel quis erit
iniuriis atque inprimis exilio lacessitus, qui non vindicandi sui praestari
occasionem cupiat? Et quis erit vindicandi sui cupidus, qui non perficiendi
facinoris proposita spe et facultate omnia aggrediatur?".
His rationibus mota
Pallas ut commodius rem totam cum collega definiret edicit Momo ut sese interea
ad fontem Helicona comparet atque ornet, quo posito squalore honestior ad
consalutandum superos redeat. Misso Momo, cum satis deliberassent inter se,
decernunt deae fore id Iovis consilium ut mature videat quam e republica deorum
deputet Momum versari insignem inter caelicolas atque munitum sacro deorum
igniculo, ni prius perversi indomitique animi rationes perspectas et cognitas
habeat.
Momus ubi solus lavat
haec secum animo caepit deputare: "Olim quod tristem personam gererem
illam et severam, tetrico incessu, truculento et terribili aspectu, vestitu
aspero, barba et capillo subhorrido atque inculto, quod superstitiosa quadam
severitate multo supercilio multaque frontis contractione gestiebam, quod me
contumaci quadam taciturnitate aut odiosa obiurgandi mordendique acrimonia
publicum terrorem omnibus offerebam, merito nullis eram non invisus atque
infensus. Nunc vero aliam nostris temporibus accommodatiorem personam imbuendam
sentio. Et quaenam ea persona erit, Mome? Nempe ut comem, lenem affabilemque me
exhibeam. Item oportet discam praesto esse omnibus, benigne obsequi, per
hilaritatem excipere, grate detinere, laetos mittere. Ne tu haec, Mome, ab tua
natura penitus aliena poteris? Potero quidem, dum velim. Et erit ut velis?
Quidni? Spe illectus, necessitate actus propositisque praemiis, ipsum me potero
fingere atque accommodare his quae usui futura sint. Sequere, Mome, namque abs
te quicquid voles impetrabis et quae tute tibi non negabis, ea tu quidem omnia
perquam pulcherrime poteris. Quid tum? Igiturne vero nos insitum et penitus
innatum lacessendi morem obliviscemur? Minime; verum id quidem moderabimur
taciturnitate, pristinumque erga inimicos studium nova quadam captandi
laedendique via et ratione servabimus. Demum sic statuo oportere his quibus
intra multitudinem atque in negotio vivendum sit, ut ex intimis praecordiis
nunquam susceptae iniuriae memoriam obliterent, offensae vero livorem nusquam
propalent, sed inserviant temporibus, simulando atque dissimulando; in eo tamen
opere sibi nequicquam desint, sed quasi in speculis pervigilent, captantes quid
quisque sentiat, quibus moveatur studiis, quid cogitet, quid tentet, quid
aggrediatur, quid quemque expediat, quid necesse sit, quos quisque diligat,
quos oderit, quae cuiusque causa et voluntas, quae cuique in agendis rebus
facultas et ratio sit. Alia ex parte sua ipsi studia et cupiditates callida
semper confingendi arte integant; vigilantes, solertes, accincti paratique
occasionem praestolentur vindicandi sui praestitam ne deserant; sempiterne sui
sint memores; nunquam adversariis parcant nisi cum velint gravius laedere,
arietum more, qui quidem abscedendo impetum concitant, quo vehementius
impetant; mulctandoque inimico re quam verbis, facto quam ostentatione
insistant; fronte, familiaritate et blanditiis iram animi operiant; omnium
sermones aeque esse insidiosos deputent; credant nemini, sed credere omnibus
ostendant; nullos vereantur, sed coram quibusque applaudere atque assentari
omnibus assuescant. Qui se sic instructum paratumque exhibuerit vulgo habebitur
frugi, servabitur apud doctos, metuent omnes, obsecundabunt, idque praesertim
cum te viderint quasi ex commentariis omnem eorum vitam ad unguem tenere;
alioquin si ipsum te neglexeris, si cesseris petulantibus, si pertuleris
irritantes, fiet ut immodesti in te in dies insolentiores reddantur tua
patientia, fiet item ut procaces temulentique quodammodo ad te unum vexandum
illectentur. Sed quid plura? Omnino illud unum iterum atque iterum iuvabit
meminisse, bene et gnaviter fucare omnia adumbratis quibusdam signis probitatis
et innocentiae: quam quidem rem pulchre assequemur si verba vultusque nostros
et omnem corporis faciem assuefaciemus ita fingere atque conformare, ut illis
esse persimiles videamur qui boni ac mites putentur, tametsi ab illis penitus
discrepemus. O rem optimam nosse erudito artificio fucatae fallacisque
simulationis suos operire atque obnubere sensus!".
Haec Momus. At Pallas et
Minerva interea constituerant Iovis arbitrio relinquere ut provideret
turbulentone et concitato ad omne facinus Momo deorum sacrum insigne
commodetur. Verum interea exulem perquam benigne conveniunt, multa spe
confirmatum hortantur ut malit summi deorum regis quam legatorum manu
divinitatis insigne suscipere. Nullam recusat Momus conditionem, modo ab
terrarum incolis diffugiat, et quam quidem ipse sibi personam gerere imperarat,
impraesentiarum apud legatas belle ac sedulo initam agit: quadam enim simulata
simplicitate et bonitate caepit collacrimari, et acclinato vultu inquit se
quidem non ignorare quam intersit maximi optimique deum regis manu ornari se
atque restitui, fateri quidem tantorum se putare munerum esse immeritum,
daturum tamen operam ut Iovi ceterisque diis, quoad in se sit, perspectum et
cognitum reddat se neque immemorem esse neque ingratum accepti beneficii; idque
sperare se assecuturum, quandoquidem agendo recte omnem exspectationem bonorum
de se longe superare instituerit, et fracturum invidorum inimicorumque erga se
conatus et impetum patientia atque rebus his omnibus quibus ad gratiam et
benivolentiam flectantur: se quidem longa perdomitum calamitate atque aerumnis
confectum didicisse perpeti adversa et facile moderateque ferre si quid forte
suam praeter sententiam et voluntatem exciderit; quibus rebus fiat ut possit
non invitus illatas iniurias ad se non recipere et susceptas funditus
oblivisci; demum cupere et ad felicitatem putare id, sibi ut detur locus quo
melioribus et bene consulentibus pareat atque obtemperet.
Itaque haec Momus cum
ornate copioseque disseruisset, qui caeperat esse veterator, ficto vultu
suspirans "Et quid agimus?" inquit "Abite vos dignae caelo,
deae, ac redite ad vestras delitias, sinite miserum et infelicissimum exulem
versari in sordibus et squallore; sinite me in luctu, in solitudine degere et
calamitatem qua oppressus obruptusque sum ferre, quandoquidem et tanta est ut
ad miseriam addi nihil amplius possit". Hic deae quidem permotae
misericordia multa ad consolandum prosecutae, medium inter se Momum excepere
atque ad superos adduxere. Ad Iovem igitur cum appulisset Momus, pro suscepta
assentatoris persona regis genua amplexatus veniamque et pacem compositis
verbis deprecatus, non, uti concupisset, exceptus exstitit benigne ab Iove. Nam
adversus Phoebum factus iratior Iuppiter intumuerat et ad redarguendi Phoebi
quam ad salutandi Momi causam erat occupatior. At miser Momus, rerum istarum
ignarus, suas rationes malo iniri apud superos exordio interpretatus, penitus
concidit, et quo se verteret non inveniens, quasi indicta ad iudices die reum
se accitum atque adductum putare et pro capite causam meditari quo dicendi
genere culpam ab se suorum scelerum amoveret, quibusve deprecationis et
commiserationis locis Iovem mitigaret secum ipse commentari occeperat. Interea
qui ab Iove scrutatum missus fuerat, Mercurius, rediens refert Phoebum ipsum
illico affuturum, neque, quod inimici calumniis insimularant, aut Aurorae
illecebris et amoribus detineri aut suam per superbiam exequi officium
dedignari, verum immani quadam votorum phalange obiecta interpellari quominus
ad regiam Iovis arcem pro vetere more et consuetudine, ut assolent dii, singulis
diebus regem consalutatum et veneratum ascenderet. Hic Iuppiter, remissa
frontis severitate, in Momum versus "Nos" inquit "vota isthaec
tua, Mome, ni modus adhibeatur, obruent", dictisque paululum conticuit. At
Momo id Iovis dictum illico in animum induxit ut faceret coniecturam se aliquid
turbarum suis votis concivisse, idque cupidissimo rerum novarum tam fuit
voluptati ut non potuerit non oblivisci moeroris sui, conceptamque animo
laetitiam nequivit non propalare. Secundo enim optatissimoque flagitiorum
suorum successu gestiebat atque intra se "Peream" aiebat "ut
lubet, modo, quod videre videor, hic aliquid laeserim".
Interea Iuppiter ad
Minervam Pallademque versus inquit: "Quidni et Virtutem una vobiscum
reduxistis? Quid ea? Quid rerum agit?". Hic deae se quidem, pro vetere
legatorum more, curasse in sua profectione aliud nihil respondere praeter unum
id, cuius gratia proficiscerentur, at satis quidem se superque habuisse negotii
in uno Momo pervestigando, quando, ut miseri calamitosique faciunt, in solitudine
et squallore abditus latitaret. Caepit ergo Iuppiter de Momo sciscitari
Virtutemne apud mortales viderit. Hic Momus, dura suspicione perculsus ne quid
ea interrogatio ad factum ab se vitium spectet, expalluerat et obmutuerat; sed
brevi sese colligens, obducta ad speciem comiter fidentis fronte, subridens
"Num tu, o dignissime deorum princeps, quae apud mortales in dies
gerantur" inquit "ignoras?". "Mitte" inquit Iuppiter
"quae norimus, dic quod rogare". Tum Momus iterato titubare et quo ea
spectent verba dubius expavescere, sed iterato ab Iove admonitus ut
responderet, sui memor, ad belle initas artes dissimulandi rediit atque inquit:
"Mercurius, qui omnium solertissimus est, si quid eum novi, ubi ea
consideat tenet, qui quidem non iniuria dearum pulcherrimam Virtutem unice
amet; et dulces amores tuos, o Mercuri, quamdiu sines abs te abesse?". Hic
Mercurius cum arrisisset asseveravit seque, Iovem deosque reliquos omnes adeo
fuisse hac una votorum cura perpeditos, ut nullis rebus praeterquam votis vacare
occupatissimis diis licuerit, et putare se quidem optime consultam deam a
tantis rerum agendarum molestiis secessisse. Momus hac de re iterato recreari,
iterato efferri incredibili gaudio, et cum Virtutem deam videret apud Iovem
deosque desiderari, ut erat mirus admodum redditus veterator, eleganti vocis,
vultus gestusque artificio totum se ad fingendum comparat, et superiorem illam
quam recensuimus historiam refert de suis perpessis rebus, sed ita ut dum
mortalium expromeret scelera, tum quidem maxime hominum causam tueri et erratis
velle veniam impetrare diceres. Etenim aliis ex fabulis insinuatione adducta eo
devenit ut quasi non ex proposito, sed ipsa ex re admonitus in id incideret, ut
enarraret irrupisse proceres in templum, tumultu exterritos adolescentulos deos
a matre restitisse variasque in formas versos sibi a consceleratorum temeritate
et audacia cavisse. Subinde annectebat se quoque gravissimis iniuriis affectum,
et media deperdita barba diffugisse. Itaque his admodum rationibus nihil praetermisit
quod valeret ad odium adversus homines excitandum, in eoque omnem vim orationis
exposuit, ut indignissime factum id dii statuerent. Confabulantem Momum
Iuppiter audiens et ii qui aderant dii nimirum commovebantur cum ceteras ob
res, tum ob iniquam indignamque Virtutis deae calamitatem; alia ex parte non
poterant non facere quin in cachinnum irrumperent ridiculos Momi casus
intelligentes. Quos cum ita vidisset affectos Momus "Quantum ista in
re" inquit "quam dicturus sum valeam prudentia, vestrum erit iudicium:
ego vero sic de me ipso testor, summa fide adduci ut haec referam. Tibi quidem
o rerum conditor, Iuppiter, omnia probe et praeclare fore constituta sentio
quae quidem ad imperii decus et ornamentum faciant, ni forte illud, quantum
videre licet, desit, quod quae apud mortales agantur habes neminem qui ad te
referat, et eam gentem, mihi crede, minime neglexisse oportet". Cum haec
dixisset, Iuppiter, secum ipse suspensus, innuens affirmavit uni se huic rei
cupere providisse, sed in tanto suorum numero aegre ferre quod haberet neminem,
ex animi sui sententia, quem volentem et ad rem exequendam non ineptum possit
mittere. "At habes quidem" inquit Momus "cui recte ac tuto eam
demandes provinciam, ut promptiorem accommodatioremque dari si optes, nunquam
alibi invenias. Habes enim ex me natam Famam, omnium pervigilem et, quod ad rem
conferat, celerem pedibus et pernicibus alis ut nihil supra; tum est illa mei
quidem cupidissima atque observantissima, ut hoc tibi spondeam pro accepto abs
te beneficio: eam quaeque imperaris, mea praesertim causa, mature summa fide et
summa diligentia executuram". Habuit Momo gratias eam ob commonefactionem
et pollicitationem Iuppiter. Ergo Momus "Hoc pro beneficio," inquit
"si beneficium potius quam officium id supplici et calamitoso Momo
putandum est, peto a te, benignissime Iuppiter, ut si qua in illa procreanda
forte videar amorum culpa obnoxius, eam ereptae barbae doloribus
compenses". Risere atque re cognita indulsere.
Hunc risum intercepit
iratae Iunonis adventus: nam dum apud Iovem sic confabularentur evenit ut
Pallas Minervaque sese e corona subriperent Iunonique ut gratificarentur
abscederent; quod Iunonem et in Momum esse infestam et veterem contumeliam
meminissent, qua de causa sacrum deorum ignem inclusum gemma reddere Momo
destitissent edocuere. Illis ea de re collaudatis, Iuno ad Iovem irrupit ardua,
irarum impotens, torvo aspectu, atque illic habere quidem se inquit quippiam
quod de rebus maximis cupiat conferre, amotisque arbitris sic orsa est:
"Et quidnam esse causae dicam, mi coniunx, ut fieri te in dies etiam
maioribus in rebus negligentem intuear? Pigetne te Iovem esse, pudetne te regem
haberi et omnia licere ex arbitrio, qui tibi paratum imperii aemulum induxisti?
Vel quidnam fuit causae ut quam tu rem fastidias, eius tu rei auctorem improbum
et factiosum probes? Inimicos eosdemque abiectissimos ornabis, tuos vero, quoad
in te sit, omnium esse indecentissime acceptos voles? Extorres, proscriptos,
pessimeque de deorum genere meritos et invitos in caelum accerseri iubes, me
vero quae te quae Iuno measque preces respuis. Tu aedes auro, tu fores, tecta,
gradusque auro, aureas columnas, aurea epistylia, parietes auro gemmisque
pictos ac redimitos quibus visum est condonasti, uxore praeterita atque
neglecta. Lautissimas aedes illi incolunt, at et quinam? Mercurius deorum
scurra et temulentus Mars et pellex Venus, infelix Iuno, despecta Iuno! O nos
miseras, a nostri coniugis beneficentia excludimur! Adde quod et nostras sedes,
quas hinc reiectae incolebamus, cum essent nulla re alia praeter puritatem et
sordium vacuitatem honestae, tu amantissime, tu coniunx, replesti foedissimorum
votorum obscenitate: me dignam profecto hac mea in te perenni fide et
constantia, in quam istarum purgamenta reiicias! Sed liceat deorum regi ornare
quos velit, ac velit quidem publicum odium, istum nefarium et
consceleratissimum Momum, ad se recipere, regni consortem facere, sui et suorum
oblitus, aulas uxoris ita foedari votorum illuvie patiatur ut vel iumenta
Phoebi ea subisse respuant ac pro foetore horrescant. Sed non hic committam
amplius ut frustra apud obstinatum aspernatorem graves meas iniurias deplorem;
satis obtudi aures tuas, Iuppiter, satis frustrata sum. Et quid iuvat aeternum
poscere quod semper negetur, ni forte studeas ut continuo aliquid curarum ad
veterem dolorem accumules? Non rogabo, non profecto prosequar, ut qua in re
tibi sum voluptati (dum nostram importunitatem flocci pendis et omnia negas
deprecanti) in ea mihi sim gravis nimium rogando. Tu sequere negando et
aspernando iam quae ultro erat officii tradere. Sed, si per te liceat, agedum:
num illud oportuit, cum aliorum commodis etiam infimorum tam multa contulisses,
hoc etiam animadvertere, ne indecentius uxor quam caelicolarum infima plebes
habitaret? Et quanti erat elargiri uxori ab Iove optimo et maximo, non sine
lacrimis precanti, quod indignissimis ultro erogasti? Quid si maiora
expostulavissem? Nihilo enim plus rogabamus dari quam ut ad aedium nostrarum
ornatum vota mortalium quae essent aurea commodares; idque tamdiu supplex
orans, obtestans, coniunx, tandem abs te haud usquam potero exorare? Mi vir,
semperne eris in Iunonem durus? Quod si te mea in causa nequeo flectere, at, mi
vir, illud liceat admonuisse tua praesertim causa, ut videas quos ad te
recipias, quibus credas, cui committas teque remque maiestatemque imperii tui;
hunc tu Momum si satis noris, etiam atque etiam quae commonefeci
pensitabis".
Haec Iuno, cumque unas et
item alteras lacrimulas tenui velo abstersisset, quaeque de Momi animo erga
Iovem vereretur subtexuit et omni dicendi qua poterat arte gravissimos infigere
aculeos suspicionum elaboravit; subinde iterato ad vota expostulanda orationem
deflexit. Cui Iuppiter "Esse et ego quid hoc dicam causae" inquit
"o coniunx, quod nunquam te non iratam offendo? Dolet me tui et curarum
tuarum, quas nimirum esse alioquin leves, sed ad te sollicitandam plus satis
graves intueor. Et quid agis, Iuno? Semperne sic novas res aucupaberis et
captabis, quo me vexes? Quid est quod me tibi purgem? Aurea dixisti velle habere
vota ut coaedificares. An parum tibi apud nos suppeditat aedium ubi splendide
lauteque habites, ni et novas tibi arces construas? Sed vince, coniunx, habe
tibi vota aurea, cape ab obstinato frustratore quae imperas. Tu modo ne nobis
istas leges imposuisse prosequare, ut quae facta velim tu reddere infecta
cures. Pone tuas istas malo suspiciones dicere quam simultates, deque Iove
posthac sperato meliora. Neque enim adeo me Iovem esse oblitus sum ut non prius
quae facto opus sint mediter quam facta velim, tum et quae me deceant ita
prospicio ut nusquam mei me poeniteat consilii. Negligentis potius esset atque
inconsulti levium suspicionum occursu, quibus omnia referta sunt, ab instituto
deici. Non tamen hinc est ut me admoneri abs te feram moleste, sed defatigari
delationum ambagibus, utcumque id fiat, stomachor. Tu contra, Iuno, aeque
admonentem Iovem ne despice; hoc est quod abs te impetrasse velim, quod item
frustra aeternum petivi, ut cum parere didiceris, Iuno, tum eorum qui imperent
consilia et gesta pensites atque corrigas. Interea quae tua fieri causa voles,
et Iuno, et coniunx, Iove audiente volenteque assequere".
Itaque haec Iuppiter, et
in ea re consulto commotior videri multo voluit quam esset id quidem cum ut
coniugis vehementiam retunderet, tum ut Palladi pro non executo in legatione
imperio honestius succenseret; ac fuit quidem ea de re in dicendo usus voce ita
elata ut a corona deorum, qui tum semoti astabant, exaudiretur. Missa ab se
Iunone, varia secum ipse de uxore repetens conticebat; ceteri dii velut
attoniti ob regis iniucunditatem obmutuerant. Sed tulit casus ut Momi quodam
facto insperato Iuppiter unaque dii omnes ad risum excitarentur. Namque Iunone
apud Iovem quae recensuimus disputante, Momus de Mercurio interrogarat quidnam
id ita esset, cur Phoebum ad Iovem salutandum proficiscentem vota
interpellarint. Cui Mercurius in hunc modum responderat: "Mortalium quidem
vota cum multis de causis, tum quod plena venirent ineptiarum, ut erant
aspernanda ita aspernabantur. Ea de re Iuppiter diique omnes iusserant ab his
caelicolarum sedibus expurgari atque excludi. Ut maiora omittam, in votorum
numero erant quae nasum aduncum oculosque perturgidos strumamve informem
emendari expostularent, eoque devenerat res ut, quod longe fastidias, acu aut fuso
amisso votis deos poscere auderent. Sed haec erant levia: illud erat gravius,
quod quo erant vota ipsa pleraque omnia referta odiis, metu, ira, dolore et
huiusmodi putridis corruptisque pestibus quae hominum pectoribus immersae
haerent, eo aulas omnes caeli obscena tetraque odoris foeditate et nausea
complerant. Illudque inprimis superi abhorrebant atque exsecrabantur, quod
inter vota comperiebantur quae parentum, quae fratrum quae liberorum virique
inprimis necem atque interitum exposcebant. Quid et quod magis oderis? Vota
audebant facere quibus urbium provinciarumque ultimum exitium atque excidium
flagitarent. Sed anceps et diutina fuit deliberatio cunctane vota caelo
exterminarent atque reiicerent; vicit tamen eorum sententia, qui aurea
retinenda consulerent. Nunc hoc successit incommodi, exclusis votis, ut multa
votis poscere mortales assueti, votis vota dum non audiuntur addere non
cessent, quo fit ut incredibili votorum vi aethera occupent, votis Phoebo via
interpelletur, votis Iunonis area consternatur, ipsi denique inter se dii
votorum gratia grave inire certamen parati sint. Ergo tu, Mome, his tuis
inventis omne caelum, omnes caelicolas exerces".
Hanc Mercurii orationem
Momus audiens non potuit ipsum se continere quin prae animi laetitia in maximum
cachinnum irrumperet ita ut omnium ora in se converteret. At rogatus quid ita
inepte ridendo insaniret, illico versipellis, se recipiens, inquit: "Sane
rideo, Mercuri, quod aiebas mortales votis poscere ut indecentes et male
dolatos vultus suos reconcinnaretis. Etenim fabri sitis omnes dii oportet
puellarum gratia, siquidem una sola in puella pro eius animi sententia
construenda quicquid ubique est artis artificiique consumitur. Proh et quae ora
et quos vultus domo afferunt!". Hinc exhilaratus Iuppiter non tam Momi
salibus quam gestus insipiditate, qui dedita opera et studiose se ridiculum
exposuerat, arrisit; perinde eos, qui tum illic aderant deos, inprimisque
Momum, ridendi cupidus vocavit ut secum esset in coena. Ridebis atque
admiraberis Iovemque Momumque, nam in coena non facile dici potest quam inter
epulas praeter omnium opinionem iocosum se Momus exhibuerit, multa referens
quae suum per exilium pertulerat cum ridicula, tum et digna memoratu. Inter
quae illud fuit, ut referret omnes quidem se voluisse hominum vivendi rationes
et artes experiri, quo reperta commodiore acquiesceret; in singulis quidem
elaborasse ut studio et diligentia coniuncta exercitatione et usu evaderet in
egregium artificem; nullam tamen ita didicisse ut sibi satis instructus videretur,
tam comperisse omnes artes huiusmodi ut quo plura quae ad peritiam faciant usu
et doctrina sis assecutus, eo plura discernas tibi deesse ad cognitionem. Sed
eas omnes quae apud homines inter egregias habeantur vivendi artes reperisse
eiusmodi esse, ut sint longe minus utiles minusque commodae ad bene et beate
vivendum quam sapientis hominis cognita ratio postulet; atqui, ut a primariis
et honoratissimis incipiat, militiam sibi inprimis visam percommodam, id
quidem, cum alias ob res, tum quod per eam virorum principes reddantur,
potentatus nanciscantur, posteritatisque fructum assequantur. Accedebat eo ut
arma sibi potissimum eligenda duceret quod se ab armorum periculo immortalitate
immunem meminisset, ac fuisse quidem militem se beneque rem gessisse manu et
animi viribus, postremo ductitasse exercitum, instruxisse acies, exercuisse
classem, suos vidisse titulos victoriarum quamplurimos excepisse
frequentissimos civium plausus et congratulationes; sed brevi odisse castra,
vexilla, arma, classica, omnemque virorum strepitum fremitumque: non id quidem
satietate aut fastidio quodam iteratae gloriae, sed iusta rectaque, minime
insolentis viri, ratione, quandoquidem in his omnibus rebus quae ad arma
spectant nihil inveniri intelligeret quod saperet aequitatem, quod non esset
alienum a iustitia, quando item in omni illa armatorum multitudine intueretur
nihil quod quidem ad humanitatem aut pietatem spectaret, omnia cerneret ad
utilitatem, ad animi libidinem, ad rerum temporumque suorum rationem et
conditionem per vim nefasque referri, nulla fortibus certa aut merita referri
praemia, omnia imperiti vulgi iudicio et opinione pensari, res consiliaque
eventu putari, praemia non virtuti, sed audaciae et temeritati referri. Sinere
se pericula et labores quos in sole et pulvere, noctuque sub imbre et divo
obire oporteat; sed illud non praeterire, quod inter sanguinis vitaeque suae
prodigos, alieni cupidos, impuros, impios, diritate immanitateque teterrimos,
in fece et sentina perditissimorum et a suis patriis sedibus perpetratis
flagitiis profligatorum, inter ruentium templorum stragem, fragorem, fumum
cineremque versandum esset, ut tota illa in re bellica nihil se invenisse Momus
deieraret quod satis delectaret praeter id, quod interdum, stulto et vesano
furore conciti, turmae atque manipuli armatorum mutuum in ferrum praecipites
ruerent. Operae quidem pretium esse coram intueri portenta illa impurissima et
pestes hominum properantium in mortem, suique similium scelere et manibus
contrucidari. Voluisse et regem fieri se, quod proxime ad deorum maiestatem
regium imperium arbitraretur ac magni quidem duxisse olim vereri observarique
se a multitudine, eamque praesto adesse, pendere ad obsequium, parere dictis;
item magnifice habitare, honorificentissime progredi, laute ac splendide
convivari et concelebrari. Principio quidem veritum ne id sibi foret arduum
assequi atque difficile, quoniam multos videbat ea una in re nanciscenda
frustra maximis laboribus et ultimo discrimine contendisse, perpaucos
attigisse; sed animadvertisse duas ad principatum patere vias breves et
haudquaquam difficiles: unam quidem, quae factionibus et conspirationibus
muniatur, hanc teneri expilando, vexando, collabefactando, sternendoque
quicquid tuis curriculis obiectum ad interpellandum offenderis, alteram vero ad
imperium viam bonarum esse artium peritia, bonorumque morum cultu ac virtutum
ornamentis deductam atque aptam, qua quidem te ita compares, ita exhibeas
hominum generi oportet, ut te gratia et benivolentia dignum deputent, unum te
in suis adversis rebus adire, tuis potissimum assuescere consiliis et stare
sententiis condiscant. Neque enim ullum in terris vigere animans quod ipsum sit
homine contra servitutem magis contumax; contra item homine ipso fingi posse
nihil ad mansuetudinem tractabilitatemque propensius. Sed scire imperium agere
artis esse minime vulgaris, quod si pecudes, brutaque et quae ad feritatem
agrestem nata sunt usu domita reguntur et certa quadam disciplina continentur,
quid hominem ad facilitatem frugalitatemque societatemque vitae natum non
moderabimur arte et ratione, quandoquidem iusta et recta imperantibus, ut
videre licet, sponte ultroque obtemperet? Sed imperium postquam adeptum
partumve est rem esse procul dubio difficillimam imperantibus asserebat. Nam eo
cum sis adductus loco ut tua negligere, aliena curasse oporteat, cum item tua
unius cura et sollicitudine multorum otium et tranquillitatem tueri ac servare
opus sit, quid potest in vita difficilius dari atque laboriosius? His addebat
publica esse negotia omnia penitus ardua atque impeditissima, in quibus si tua
unius utaris opera non sufficias, et aliorum si utaris opera casibus id atque
periculis refertissimum sit; negligere vero quid sit officii cum ad dedecus et
ignominiam, tum ad calamitatem exitiumque redundet. Denique, si rem satis
spectaris quod isti imperium nuncupant, id profecto publicam et intolerabilem
esse quandam fugiendarum rerum servitutem intelliges. Ceterum nummularias
ceteras quaestuosasque artes et facultates ultro abdicatas ab se esse voluisse,
quod vel satietatem ex copia, vel fastidium ex usu, vel taedium ex quaestu
praebeant, vel si tandem cupiditate adducaris ut tibi plura esse velis quam
oporteat, fore ut sordidam illiberalissimamque sollicitudinem afferant.
Postremo nullum genus vitae se aiebat comperisse quod quidem omni ex parte
eligibilius appetibiliusque sit quam eorum qui quidem vulgo mendicant, quos
errones nuncupant. Hanc esse quidem omnium unam facilem artem, in promptu
utilem, vacuam incommodis, plenam libertatis ac voluptatis, quam rem ita esse
multa cum festivitate Momus cum plerisque aliis argumentis, tum his rationibus
demonstrabat: "Etenim sic" inquit "dicunt quidem geometrae,
quaeque versentur in arte sua aeque teneri a quovis rudi discipulo atque ab
eruditissimo, modo semel ea percepta sint. Idem ferme ipsum in hac erronum arte
evenit, ut uno temporis momento perspecta planeque cognita atque imbuta sit.
Sed in hoc differunt, quod geometra instructore qui futurus est geometra
indiget, erronum vero ars nullo adhibito magistro perdiscitur. Aliae artes et
facultates habent edocendi tempora, ediscendi laborem, exercendi industriam,
agendive quendam definitum descriptumque modum; item adminicula, instrumenta et
pleraque istiusmodi exigunt atque desiderant, quae hac una in arte minime requiruntur.
Una haec artium est incuria, negligentia inopiaque rerum omnium, quas aliis in
rebus ducunt esse necessarias, satis fulta atque tuta. Hic non vehiculis, non
navi tabernave opus est, hic non decoctoris perfidia, non raptoris iniuria, non
temporum iniquitas metuenda est. Hic nullum congeras capital praeter egestatem
rogandique impudentiam oportet, ac tua ut perdas, aliena ut roges nihil plus
negotii est quam ut velis ita mereri de te. Adde quod aliorum sudore et
vigiliis erro pascitur, suo quantum lubeat otio abutitur, rogat libere, negat
impune, capit a quibusque, nam et miseri ultro offerunt et beati non denegant.
Eorum vero quid referam libertatem atque solutam vivendi licentiam? Rides
impune, arguis impune, obiurgas, garris tuo quodam iure impune. Quod illi ad
dedecus ignominiamque deputant verbis cum errone contendere, quod illi statuunt
flagitio manum impotenti inferre, id ad regni quasdam conditiones et leges
facit. Posse quae velis et nullos habere dictorum factorumque censores, ea
demum regnandi suffragia et praesidia sunt. Neque illud concedam regibus ut
divitiarum usu magis quam errones fruantur: erronum theatra, erronum porticus,
erronum quicquid ubique publici est. Alii in foro ne considere neve altercari
quidem voce paulum elatiori audebunt, et censoria veriti patrum supercilia
publico ita versantur ut nihil sine lege et more, nihil pro voluntate et
arbitrio audeant. Tu, erro, tranverso foro prostratus iacebis, libere
conclamitabis, faciesque ex animi libidine quaecumque collibuerint. Duris temporibus
ceteri moesti mutique tabescent, tu saltabis, cantabis. Malo regnante principe
alii diffugient errabuntque exilio, tu arcem tyranni concelebrabis. Hostis
victor insolescet, tu solus tuorum intrepidus coram adstabis. Et quod quisque
summo labore capitisque periculo sibi accumularit, tu illius quasi debitas tibi
dari primitias expostulabis. Est et illud quod ad rem egregie faciat, ut cum
nemo sic viventi invideat, tum et ipse nullis invideas, quandoquidem in aliis
cernas nihil quod non facile possis assequi, dum velis. Adde his quod erronis
conditio ita est ad quamvis artium aliarum accommodata, ut quoquo te contuleris
recte ac digne fecisse videare, quod quidem ceteris mortalium haud aeque
evenit: nam et levitatis putatur suam qui assueverit artem linquere et non sine
dispendio ad alias transmigratur. Neque illos audiendos puto qui quidem hanc
unam erronum sectam dicant plenam esse incommodorum. De me illud profiteor,
ceteris omnibus in artibus unas et item alias plerasque res offendisse quae et
durae et acerbae fuerint quaeve, cum eas noluerim, tum iisdem illis aegre
carere non potuerim. Nam omni quidem in artificio multa sunt, insita natura et
quasi innata, quae etsi gravia et molesta sint, ferenda tamen sunt iis qui in
ea velint versari; at hac in sola una erraria (ut ita loquar) disciplina et
arte nihil unquam offendi quod quidem ulla ex parte minus placuerit. Nudos
vides errones sub divo atque duro in solo accubare: eos contemnis, despicis una
cum vulgo atque fastidis. Vide ne teque vulgusque errones ipsi contemnant atque
despiciant. Tu aliorum causa facies multa, erro nec tua, nec aliorum causa
facit quippiam, sibi facit quicquid facit. Quid hic referam quam sint illa
quidem inepti et stulti hominis quae vulgo admirantur, toga, purpura, aurum, mitra
et huiusmodi? Aut quis non irrideat, cum videat te vestium gravi involucro et
implicamento obligatum atque compeditum prodire, ut aliorum oculis placeas? Hoc
non facit erro, ergo ridet. Tune sanus non cavebis tibi esse vestium pondere
infensus, tune, ut lautior et cultior videare, non recusabis habere membra ad
aliorum arbitrium occupata et obstricta? Veste utemur ut tegamur, non ut
admiremur. Imbrem et frigora qui veste proteget, erit is quidem satis et ad
usus commoditatem et ad naturae decus ornatus. At solo cubabit erro: et quid
tum? Ne vero si somnus aderit apertioribus obdormies oculis nudo in pavimento
quam inter peristromata? At cygnis dedit quidem natura plumas ut integerentur,
non ut ad lectorum delitias conferrent: tibi si tantum dedisset somni quantum
subiecit strati ubi dormiens accubas, procul dubio perquam maximum dormitares.
Fitque is quem natura dedit ad requiescendum locus et sedes usu in dies mollior
atque salubrior, quod, si quid ad delitias desit, pro pulvinari praesto erit
fessis somnus.
Ceterum, conscendat in
concionem erro, dicat eadem quae quivis stragula veste indutus orator dicit:
cuinam maior confertiorque accurret audientium corona? Quem attentius audient?
Quo perorante magis commovebuntur? Cui tota in causa vehementius assentientur?
Magna est in rebus gravissimis horum disciplinae hominum auctoritas, ut nihil
supra. An tu interraro videbis ebrii et deliri erronis dicta accipi pro vatum
monitis eademque seriis in rebus referri ac si oraculi essent ore decantata?
Sed de his alias, ad me redeo. Quid illud, et quanti erat arduis me et
periculosissimis in rebus hominum aeque atque in levissimis versari animo
aequabili, nullam in partem commoto? Quam quidem rem tu, o Iuppiter, deorum
princeps, si sapis, optas atque maiorem in modum posse concupiscis. Et quidnam
est quod ad fructum otii et specimen amplitudinis maiestatisque decus faciat
magis quam ita sese habere paratum et compositum, ut nullis uspiam rerum
motibus de statu decidas? Nuntiabantur gravia, quae ceteri omnes exterriti pavefactique
horrescebant: novos invisosque liquores ex duro silice manasse, mediisque ex
fontibus arsisse flammas, tum et montes inter se arietasse. Stabat attonitum
vulgus, trepidabant patres, omnia erant in metu et sollicitudine rerum
futurarum. Alii publicam salutem advigilabant, alii suis commodis servandis
insanibant, spe agitati aut metu. At Momus, curis vacuus, in quodcumque velis
latus dulce obdormiscens nihil sperabat, nihil metuebat, interque stertendum
illud usurpabat dicere: 'Quid tum, Mome, et quid haec ad te, ad quem neque
pauperiem afferent neque quippiam auferent?'. Narrabantur et rerum monstra:
alios strata mari via obequitasse, alios per sylvas perque saltus traduxisse
classem, alios subfossis montibus media per saxa intimaque per viscera terrae
suos traxisse currus, alios immani strue caelum aggressos petere, alios flumina
et lacus eripuisse mari atque extinxisse, mediumque intra aridum terrae solum
acclusisse maria. Haec admirantibus ceteris atque stupentibus, Momus illud
assuescebat dicere: 'Enimvero, Mome, et hoc nihil ad te'. Ferebant
locupletissimos amplissimosque reges orbis innumerabili hominum manu impetum
inter se facere, contegi caelum sagittis, flumina sisti cadaveribus, mare
hominum cruore excrescere. His rebus cognitis ceteri, prout rerum suarum ratio
et studia ferebant, aestuabant variis animorum motibus; solus Momus illud
observabat dicere: 'Et istuc, Mome, nihil ad te'. Spectabantur agrorum
incendia, vastitates, populationes, audiebantur cadentium virorum gemitus,
ruentium tectorum fragor, calamitosorum eiulatus; haesitabatur, trepidabatur,
discursitabatur; strepitus, crepitus, fremitus totis triviis, totis
angiportibus; at Momus resupinus nudis feminibus oscitans allucinabatur, et
quid sibi tanti tumultus vellent ne rogabat quidem nisi negligenter sane atque
morose. Tum si quis coram tantos turbines et rerum tempestates deplorare
aggrediebatur, Momus, perfricato crure, aiebat: 'Nequedum, Mome, quicquam est
hic, quod quidem tibi recte cures: dormi'. Quid postremo? Quo hos atque illos
animis affectos atque perturbatos mihi ludos facerem, cum eos coactis circulis
collatisve capitibus serio aliquid ordiri atque conferre spectabam, repente eo
advolabam, istic assistebam, ab iis petebam, assiduus efflagitabam ut aliquid
ad pietatem elargirentur inopi atque egeno; illi indignabantur, ego mea
gaudebam importunitate; illi nostram odiosam intempestivamque scurrulitatem
exsecrabantur atque excandescebant, Momus ridebat".
Itaque Momus huiusmodi
toto ridente caelo referebat. Sed Iuppiter, cum satis risisset, Momum facetias
istas recensentem interpellavit. "Atqui" inquit "heus Mome, num
et, quod aiunt, figulus figulo, faber fabro, ipsum idem aeque erronibus evenit,
ut inter se invideant?". Tum Momus: "Enimvero et quis huic invideat
qui prae se ferat miserum esse se?". Tum Iuppiter: "Ni fallimur,
invidebit quisquis prae illo qui admodum miserabilis sit, volet sese dignum
videri misericordia. Quod ni istuc siet, fateor una haec tua erronum vita est
non modo, uti aiebas, vacua incommodis, sed egregie directa ad quietem atque
summam ad felicitatem apta, ut eam statuam huic nostrae deorum beatitudini esse
longe anteponendam. O malum maximum invidia, maximum invidia malum!". Tum
Momus "Admones," inquit "o Iuppiter optime et maxime, ut ipsum
me accusem: audies rem festivam. Versabatur inter philosophos egregius quidam
nebulo, quem unum si spectes facile credas principem esse abiectissimorum
hominum, ita corporis forma et omni membrorum ornatu se agebat inter errones
insignem atque nobilem. Describam tibi hominis speciem et habitum. Aderat illi
os impressum, mentum obductum, cutis hispida, crispissata atque ab genis pro
palearibus dependens, omnis vultus perfuscus, oculi turgidi et aperte
prominentes, horumque alter luciosus, alter sublippus et ambo perverse strabi;
naso tam erat multo ut non hominem, sed nasum existimes ambulare. Pergebat
procurva cervice et inversa in sinistrum humerum, collo protenso et acclinato,
ut terram non prospicere oculis sed auricula diceres; surgebat spatularum una
in strumam pergravem, incedebat gradu lato, tardo, vasto, sed lassis artubus et
quasi longo morbo spondylibus dissolutis ad cuiusque pedis motum innutabat.
Sino vestitum et reliquum apparatum, saccos centipelles, lacernam attavam
lacernarum, in qua mille parturientes mures nidificarant; pendebant humero
pera, calathus atque cantharus sordibus obsceni, foetore exsecrabiles. Huic me
fateor homini fortassis interdum invidisse, non quo esset ille quidem ita
informis, sed quod non obscure perspiciebam pluribus hunc videri dignum
pietate, cum esset non pietate, sed odio potius dignissimus. Tum et illud
pigebat, quod errones nimium multos volitare foro conspiciebam. Unum profecto
erat in tota illa erronum arte quod animo ferebam minus aequo: id erat cum
latrantes et infestis dentibus nudos talos appetentes caniculas pueri adversum
me concitabant, et quam sint illi quidem molesti scio vobis non posse facile
persuaderi, sed ea irritamenta si maximis diis accidissent, nihil in rerum orbe
universo est quod illis inveniri posset laboriosius. Sed de his alias. Nunc
vero ad rem redeam, hoc est ut affirmem apud mortales nihil inveniri commodius
erronum vita, siquidem et facilis et paratissima est, siquidem huic neque
calamitas officere neque improbitas adimere quicquam potest, siquidem in ea
nihil inveniri potest quod doleas". "O te igitur stultum" inquit
Iuppiter "si tanta bona reliquisti, ad superos ut conscenderes! Vide,
Mome, quid recites, non potuisse in te apud mortales ea quae apud nos divos
plus satis possunt. Quid est quod nequeat improbitas?". Hic Momus caepit
deierare nunquam se fuisse minus affectum curis quam cum esset erro, nunquam
praeter semel tota illa in vita doluisse, atque id quidem re alioquin levi
obtigisse, sed non tamen indigna memoratu. Incidisse enim ut offenderet quendam
ascripticium servulum ex ergastulo qui detrectantem et calcitrantem asinum
fuste caederet. Primo caepisse efferate excandescentem illum ridere, post id
incidisse in mentem ut repeteret quam ab pauperum numero iumentis debeatur,
quae si forte desint fiat ut divites velint portari a pauperibus. Ea de re
indignatum caepisse redarguere atque increpare his verbis: "O bipes
indomite, servum pecus, non cessabis furere? Ne tu non intelligis quam huic
animantium generi debeatur, quod ni essent tu tuique similes pro iumento
sarcinas atque impedimenta ferres?". Haec dixisse Momum. At illum, ut erat
immanis, relicto asino obiurgatorem petiisse et dixisse: "Quin immo tu pro
asino feres?", fusteque ipso quo asinum percusserat reddidisse Momum
onustum plagis. Affuisse tum illic nonnullos viros probos qui servum hunc
dictis castigarent et factum maledicerent atque condolerent; Momum vero
affirmasse id factum optime, quandoquidem, maximis hominum aerumnis neglectis,
asini incommodis moveretur.
Tanta Momi lepiditate
nimirum captus Iuppiter edixit ut suis aedibus posthac uteretur
perfamiliariter. Quam quidem rem cum ex Iovis imperio factitaret (vide quid
possit principis erga quemvis gratia et frons), Momum, publicum caelicolarum
odium, abiectum, despectum diisque omnibus pessime acceptum, ut primum videre
factum principi familiarem et gratum, illico bene de illo sentire dignumque
ducere cui sese ultro ad amicitiam offerrent, observarent, colerent: idcirco
Momum singuli deorum adire, consalutare, gratificari dictis et factis
certabant.
Quo in numero atque
errore cum plerique omnes, tum et Pallas dearum una (ut ita loquar) mascula, et
Minerva, cunctarum decus et lumen artium, versabantur; et erit operae pretium
legisse qualem se Pallas Minervaque deae gesserint, quo etiam in diis naturam
mulierum recognoscas. Nam illae quidem, quod intuerentur beatissimum principem
Iovem, cui relictum esset nihil quod amplius cuperet praeterquam ut perpetuis
voluptatibus frueretur, Momi scurrulitate delectari, idcirco movebantur ut de
publicis deque privatis rebus suis plurimum cogitarent, et cum essent non
ignarae quid in cuiusque animum et mentem possint conspersae verborum aptis
temporibus maculae, illius praesertim qui quidem ex arbitrio ad te sive otiosum
sive sollicitum habeat aditum, iam tum animis erant vehementer commotae, et cum
meminissent ab se proxima ignium iniuria fore lacessitum Momum, non temere
vereri caeperant ne diligens solersque sectator aliquid iocosa illa sua
assiduitate adversi moliretur. Sed, uti erant mulieres, consilio usae sunt
muliebri, minime opportuno minimeque attemperato. Enimvero Minerva qua callebat
dicendi arte convenit Momum, ac de sacrorum ignium facto ex ignaro fecit ut
esset certior, dumque suadere institit non id quidem sua fore amissum opera, ut
tanto deorum dono Momus fraudaretur: omnem largitionis offensionem explicavit,
affirmans id sibi nusquam potuisse venire in mentem, ut aggrederetur quippiam
quominus bene de se deque deorum genere meritus Momus ex Iovis decreto ac
voluntate ad superos rediret honestior; sed fateri suum errorem, se quidem
Palladi et armatae et praepotenti deae sic petenti non fuisse ausam non
obtemperare, neque mirandum Palladem hoc temptasse, quae quidem Fraudi deae
plurimum debeat, quin et indulgendum si studiis coniunctissimae deae in
adversarii gloria non augenda mutuo opitulentur. Ceterum orare ne quid sibi
succenseat, sed posthac malit sui cupidam experiri quam odisse immeritam.
Momus, etsi acrem animo
ex ea re indignationem concepisset, tamen, quod simulare dissimulareque omni in
causa decrevisset, tenui oratione et levibus dictis ab se Minervam missam
fecit, ac inter cetera illud adiuravit, non id se accipere ut iniuriarum velit
reminisci cum alias ob res, tum ne eam animo ferat molestiam quam vindicandi
cura et sollicitudo soleat afferre; meliorem posthac optare inimicis atque
obtrectatoribus suis mentem, qui si tandem esse infesti non desinant, ad
officium tamen ducturum se ut suas esse partes deputet ferendis adversariis
palam facere quali sit calamitosus infelixque Momus animo redditus miti et
mansueto. His acceptis responsis Minerva abiit, sed vixdum ex aula excesserat
cum e vestigio Pallas, iisdem animi suspicionibus excita quibus et fuerat
Minerva, ad Momum appulit suadereque institit astu et artibus Minervae adductam
se ut de Momo non bene mereretur, cuius quidem erroris maiorem in modum
poeniteat veniamque poscat. Non fuit aliud frontis aut verborum ad
dissimulationem in Momo adversus Palladem quam fuisset ad Minervam; ardebat
tamen ita et dolore et iracundia, ut vix compesceret lacrimas. Sed hunc animi
dolorem Themis deorum apparitoris adventus sustulit, qui Iovis iussu ad solemne
convivium Herculis Momum accersiturus advenerat. Cupiebat enim Iuppiter ut
multas alias superiores sic et coenam apud Herculem ducere lepiditate Momi
voluptuosissimam. Verum id longe evenit secus quam voluisset: nam cum inter
coenandum pleraque dicta ultro citroque a commessantibus iactarentur et
praesertim ab Hercule nonnulli sales recitarentur, rogareturque Momus ut
veterem illam historiam enarraret, quo pacto apud philosophos avulsa barba
diffugisset, Momus hos intuens ita ridicule in se affectos non potuit facere
quin stomacharetur: aegre enim ferebat non illud sat videri Iovi et diis semel
atque iterum succincte et breviter audisse, ni et rursus in convivio, in quo
maximorum deorum flos et nitor discumberet, quasi epularum obsonium et mensae
condimentum Momum ad irridendum deposcerent. Qui ergo in hanc usque diem fuerat
ex studio ludus iocusque omnium ordinum sua affabilitate, is nunc sibi contumeliae
loco ascribebat se invitari non honoris gratia, sed ad risum. Accedebat quod
novissimam animo personam imbuerat, superiore illa omissa; namque posteaquam
intellexerat plurimi se ab deorum vulgo fieri ob principis gratiam, rerum
suarum successu (uti fit) elatus, caeperat spe et cupiditate maiora appetere de
se atque, intermissa pristina conveniendi festivitate, per maturitatem et
gravitatem sensim elaborabat ut dignus videretur apud Iovem gratia et apud
caelicolas auctoritate. Quae cum ita essent, factum est ut, convivarum et
maxime Herculis petulantia offensus, pulcherrimo quodam commento insolentes
bellissime castigatos reddiderit. Se quidem, inquit, nunquam non fecisse
libenter ea omnia quae maximis diis grata intelligeret, nequedum id sibi inpraesentiarum
videri molestum si suo etiam cum dolore tam praeclare de se meritorum
voluptatibus satisfaceret; malle quidem tristem turbulentissimorum suorum
temporum memoriam delesse ex animo quam totiens refricasse. Sed suis
recensendis aerumnis venire quandam annexam complicatamque rationem gratiarum
pro accepto ab deorum rege beneficio, cuius quidem meminisse procul dubio
gaudeat, at futurum quidem sempiterne inscriptum animo beneficium quod
acceperit, et nunquam non retributurum officio quod potuerit. Exilii quidem sui
poenam fuisse nunquam adeo sibi acerbam et molestam quin de genere deorum
superum bene fore merendum statuerit, et doloris sui poenam erroris culpa
mitigasse; inde illud fuisse, ut quae sibi in dies forent mala subeunda, ea
quidem cum moderate, tum et fortiter atque constanter perferret, sed quantis
rerum adversarum cumulis obrueretur non facile dici posse, inter quae illud
inprimis angebat, quod nullae salvis deorum rebus darentur occasiones quibus
qualis demum esset Momus praeclare agendo ostenderet. Accidisse ut qua in re se
pulcherrime officio fungi intelligeret quamve unice ac maxime curaret, in ea
nimium multos, nimium acres, nimium infestos oppugnatores atque hostes
offenderet, quorum de vita et moribus dicendum sibi sit prius; mox de illorum
gravissimis sceleribus pauca ex incredibili numero facinorum, quae ad rem
faciant, referentur. Esse apud mortales genus quoddam hominum, quos si spectes
progredi oculis in terram defixis, fronte corporisque habitu ad omnem veterem
morem et honestatem quadam scaenica superstitione composito, facile venerere;
sin vitae consuetudinem et studia ad omnem flagitii turpitudinem pronam et
praecipitem respectes, merito oderis. Hos quidem sese spectatores dici rerum
voluisse, ac esse quidem eos pro nominis dignitate ingenio praeditos alioquin
non tardo neque hebeti, sed tam praeclarae atque excellentis virtutis lumina,
si qua in illis sunt, foedissimarum sordium cumulis perdidisse; quaesivisse
illos titulo cultusque parsimonia non vitae modum, sed inanis cuiusdam gloriae
levem auram et famae immeritae rumorem apud eos quibus parum essent cogniti;
eosdem tam inepte, tam intemperanter esse ambitiosos ut rerum quae sint omnium
pulchre et praeclare nosse causas profiteantur. Horum duas primum de diis
exstitisse sententias, subinde multas et varias manasse opiniones, non tam
multitudine quam disceptantium deliramentis repudiandas; sed inter omnes
quaenam sit maiore digna odio nondum satis constare. Nam alii ullos esse deos
penitus negare: orbem rerum concursu quodam fortuito minutissimorum, quo sunt
omnia referta, corporum esse factum casu, non deorum opere aut manu
constructum; alii deos esse cum ipsi non credant (nam si crederent aliter
viverent) credi tamen vulgo velint sua praesertim causa, id quidem ut
venerentur, ut arma, castra imperiaque sua deorum metu muniant atque ad
stabilitatem firmitatemque corroborent; cui sententiae illud addunt, ut se
quidem esse deorum interpretes, cum nymphis, cum locorum numinibus magnisque
cum diis grandia habere rerum agendarum commercia excogitatis vanitatum
figmentis assimulent. Cum his adeo sibi fuisse certamen varium atque
laboriosum, hic ut deos esse ostenderet, illic ut non esse deos tales probaret
quos scelerosi mortales suorum facinorum auctores sociosque habeant. Sed ita congressum
in certamen ut cum eloquentem ipsa causa faceret, tum se dicente veritas ipsa
atque ratio facile tutaretur atque defenderet; at pro deorum quidem re satis
commodam sibi atque accommodatam fuisse contra philosophos orationem, pro
salute autem sua et pro capitis sui periculo parum se sibi utilem patronum
exstitisse. Quo enim deorum rationibus inservierit studio et contentione qua
debuit, eo sibi pessime consuluisse, gravem subiisse invidiam, acerba odia
adversum se excitasse ambitiosorum immodestissimorumque hominum, qui quidem
eiusmodi sunt ut omnia possint facilius perpeti quam videri cuiusquam
prudentiae et consilio acquievisse. Accessisse et tertium quoddam genus
hominum, sane doctrina et praeclaris artibus excultissimum, sed nimis cupidum
laudis et gloriae, qui quidem non fortiter factis aut recto rerum agendarum
consilio fructum posteritatis mereri, sed umbratili quadam confabulandi arte
suum commendare nomen immortalitati affectent. Hos per conciones vagari
solitos, nihil sibi assumentes certi atque constantis quod affirment,
praesertim apud eos qui usu et exercitatione rerum sapere quicquam videantur,
sed novis in dies assentationum artibus auditorum aures aucupari et popularium
de se admirationem captare, non tam multitudinis sensum atque cogitationes
flectendo et deducendo, quam ad multitudinis nutum sua omnia instituta vertendo
in dies et inmutando, et in ea re verumne an falsum, rectumne an pravum id sit
quod dicendo tueantur minimi eos pendere: illud omnibus nervis eniti, ut id
prae ceteris recte sensisse in suscepta altercatione videantur. Horum se
amplitudine et impetu orationis interdum rapi et obrui solitum, ut quid
respondendum esset non succureret: posse illos copia verborum, posse
eruditione, posse usu ut nihil sit, modo velint, quod vel dicendi facultate,
vel adepta iam tum auctoritate nequeant. Hoc ex genere hominum quendam, cum de
diis disputaretur, his verbis orsum fuisse dicere: "Non is sum, o viri
optimi, qui nullos esse deos et inane volvi caelum ausim affirmare, inveterata
praesertim in animis hominum opinione de diis, quos tamen vestrum nemo, ni
fallor, est qui ullos esse certa praestantique ratione audeat affirmare. Sed
illud interdum occurrit, ut possim dubitasse quid sit illud, cur patres et
piissimos deos superos nuncupemus. Quaeso, adeste animis et pro vestra
humanitate quae dicturi sumus attendite: novas inauditasque de rebus optimis
disputationes ex me audisse, ni fallor, minime pigebit. Fingite adesse hic
primos illos parentes nostros quos diis proximos arbitramur et eos, hac nostra
hominum qua constituti sumus miseria perspecta, ab Iove hominum patre et deorum
rege pro nondum obsoleta parentis gratia ita rogare: utrumne illud, o pater
Iuppiter, statuemus officium fuisse piissimum, ut, quoad in te fuerit, omnia
nobis esse per te erepta volueris, quae quidem homines optanda ducerent? Quis
illud a quovis irato patre etiam in perditos liberos animo unquam ferat aequo
et moderato, ut quos haberi suos velit eosdem inferiore sorte quam bruta
pleraque animantia agere vitam patiatur? Sino vires, velocitatem, sensus
acuitatem, quibus longe homines a bestiis superamur; cervisne atque cornicibus
tam multos vitae annos dedistis ut degerent, homines vero, quorum intererat id,
vel maxime superum causa, per quos templa, sacrificia et ludorum magnificentia,
a quibus omne sacrorum specimen religionisque honos colitur, tum primum inter
nascendum consenescere atque deficere, et antequam se in vita constitutos
sentiant in ipsoque aliquid incohandi conatu ruere in mortem voluistis. At sit
mors, deorum sententia, quidam exitus ab aerumnis sitque perinde mors bonorum
optimum quod a malis adimat! Mortem ego facilius crederem esse non malam si eam
sibi deos arripuisse perspicerem, donumque non delaudarem si ab iis esset
deditum qui malorum tantorum causa non fuissent. Verum quid hoc? Ceteras prope
res omnes quae quidem ulla ex parte possent placere superi occuparunt, mortem
longe ab se exclusere. Quid est bonarum rerum omnium quod sibi non vindicarint
superi atque ascripserint? Nostros dii Ganymedes, nostras dii naviculas,
nostras dii coronas, lyras, lampadas, turibulos, crateras, nobis quicquid
belli, venusti lautique invenere sustulerunt atque asportaverunt in caelum: in
caelum lepusculos, in caelum caniculas, in caelum equos, aquilas, vultures,
ursas, delphinas, cete. Quod autem nostris delectentur, quod monstra hinc rapta
in delitiis habeant non doleo, sed ne probo quidem; illud doleo, beatos illos
superos nostris non moveri incommodis, et cum patres sint, tam de nobis mereri
pessime eos quis animo ferat non aegro et perturbato? Nos, deorum filios,
deteriori esse in sorte constitutos quam pecudum filios quis possit ferre? Ne
vero nos, si filii sumus, si patres ipsi sunt, tam maximi eorum regni
participes facere non oportuit! At illi filios a patriis sedibus pepulere,
belluis caelum replevere, homines exclusos voluere, monstris caelum refertum
reddidere. Et quantine putabimus nos hydras atque hippocentauros potius factos
non esse quam homines? At hominum gratia tam multa in medium effudisse deos
praedicant, quae quidem cum ad usum, tum ad voluptatem atque ornamentum
faciant: fruges, fructus, aurum, gemmas et huiusmodi. Haec igitur iuvet inter
nos considerasse, itane sint uti ferunt, quod si quis deos ea fecisse asserat
ut iis nobis illudant, nostras spes et exspectationes frustrentur, fortassis
non mentiatur. Quotus enim quisque est qui istiusmodi non appetat volente deo,
quotus est qui adipiscatur deo non repugnante, quotus est qui adeptis fruatur
aut gaudeat? Sed ea demum cedo fecerint hominum causa, quaero bonorumne an
malorum? Si bonis providisse dicent, quaeram quid igitur ea bonis non
erogentur, improbis non auferantur. Cur eadem optimis adimant et scelestissimis
condonent? Eccam pietatem probis dedere, ut quae ad necessitatem faciant omnia
per industriam, vigilias laboresve quaeritent, impiis vero, audacibus deorumque
contemptoribus etiam adiecere quae nimia penitus sint. Sed quid ego ullos ab
deorum iniuria excipiam, cum videam eos in universum mortalium genus tam multa
intulisse, quae interdum si quid furere desinant sibi non licuisse optent? O
diis invisum genus mortalium, quandoquidem, praeter eas gravissimas res quas
recensuimus, dolorem quoque febremque atque morbos et acres pectoris curas et
turbidos praecordiorum impetus et saevissimos animi cruciatus importarunt! O
nos extrema in miseria gravissimis durissimisque aerumnis obrutos mortales,
quos ita vexant, ita in dies afficiunt malis superi ut cum nunquam vacare
calamitatibus liceat, tum assiduis acerbissimisque casibus semper nova dolendi
ratio insurgat atque immineat, quoad perpetuo in luctu homini vivendum sit, et
ita vivendum ut omni in vita hora nulla succedat horae similis. Vel quis
vestrum est, viri optimi, qui sibi commodarum rerum omnium quippiam relictum
sentiat, praeter eas tantum res, quibus ademptis omnino futuri simus nulli?
Lucem, undas, fruges et huiusmodi non est ut nostra potius quam ceterorum
animantium causa fore producta assentiamur; loquendi usum et vitae modum, quo
esset alter alteri adiunctior, coacti necessitatibus ipsi adinvenimus; cetera
omnia nobis erepta brutis fuisse condonata vestrum quis ignorat? O nos igitur
iterum male acceptos! Quid admisimus miseri mortales ut, rebus omnibus quae
gratae commodaeque sint ereptis, nos aerumnis et difficultatibus obruti vitam
miseram degamus? Sed sint illi quidem dii caelo digni, optima omnia mereantur:
nos mortales, ad miseriam nati, obrui cumulis malorum non recusemus. Tametsi de
omni deorum genere quid possit quispiam interpretari, quis est vestrum quem id
fugiat? Quid tamen sentiam ipse non est ut referam, vos id adeo statuetis quid
tota in re assentire oporteat, quandoquidem ex nostro mortalium numero dicuntur
aliqui ad deorum numerum augendum conscendisse. At voletne ille quidem ex medio
hominum grege abreptus et inter beatissimos rerum dominos adscitus, voletne,
inquam, ille venerari et coli et metui, tantarum sese rerum gradu et sede et
maiestate dignum deputans? Cui forte iterato si via sit, ac sibi plane cognita
et explorata, qua conscenderit ad superos redeundum, quidvis facilius possit
quam caelicolam fieri. Multa praestitit occasio, multa tulit necessitas, sed
plura adiecit hominum improbitas atque stultitia, quibus rebus summorum forte
deorum aliqui vel inviti in id amplitudinis rapti sunt ita adeo ut se mirentur
unde tantum siet. Et quam commodius cum illis ageretur, si se nossent pro
dignitate deos gerere! Quod si nostrum quispiam homunculorum talem se exhibeat
in rebus administrandis qualem plerique magnorum deorum se habent, merito
plecteretur. Sed tu deosne esse hos putes, qui res mortalium tam supine
desidioseque negligant, aut hos qui monstra, ut videre licet, inprimis colant,
ulla rerum piissimarum procuratione dignos putabis? Scio quid hic respondeas,
dices: quid mirum si nimia in licentia constituti insaniunt, si dum omnia posse
quae velint sentiunt, hi quidem velint omnia quae possint, et quae demum
velint, licere omnia arbitrentur? Atqui id ita liceat diis, spreta hominum
causa: cum Ganymede inter epulas volutari, nectare et ambrosia immergi. Nobisne
non licebit tantis miseriis moveri? Non licebit opinari superos deos aut nullam
gerer mortalium curam, aut si gerant odisse? Et quid iuvat tantis
supplicationibus obsecrationibusque pacem deum alias res agentium, aut mala
reddentium, exposcere? Desinamus inepti eos sollicitare irritis cerimoniis qui,
voluptatibus occupati, solertes agentesque oderint. Caveamus inutili nostra
superstitione de his velle bene mereri, qui quidem aut nulli sunt aut, si sunt,
irritati, infesti semper ad miseros mortales malis conficiendos invigilant".
Huiusmodi fuisse
ambitiosi illius orationem Momus rettulit, et hac sese oratione adiuravit ita
commotum dictorum petulantia et flagitii indignatione ut prae ira vix manum
continuerit, nec dubitare quin si Iuppiter ipse optimus maximus, omnium mitissimus,
diique piissimi et modestissimi affuissent impudentissimumque illud oratoris os
et intolerabilem gestus verborumque iactantiam atque magnificentiam fuissent
intuiti, illico in illam omnem scelestissimam familiam litteratorum omnem vim
fulminis effundendam iudicassent, quo philosophos omnes totis cum gymnasiis et
libris et bibliothecis absumerent. Verum se pro suorum temporum conditione et
necessitate temperasse iracundiae, pro suscepti tamen negotii ratione non
potuisse non facere quin in id erumperet verborum, ut inter admonendum eos, qui
de diis ita obloquerentur, hortaretur iterum atque iterum prospicerent ne quid
de his, a quibus tantis tamque divinis prosecuti essent beneficiis, aut
perperam perverseque opinarentur, aut male mereri aggrederentur, caverentque ne
dum deos negent, demum sentiant praesentes esse eos atque piissimorum et
impiissimorum, proborum et improborum habere discrimen, postremo illis optasse
ut ea mens erga superos sit, quae suo sit sine detrimento et malo. Hic igitur
ambitiosos illos, qui omnia possent moderantius perpeti quam videri cuiusquam
prudentiae et consilio acquiescere, consensione facta insurrexisse, et quod
Momi praesertim admonitiones dedignarentur, a quo iam pridem multis victi
disputationibus capitali odio dissiderent, idcirco furore concitos irruisse
atque vim illam ab se persaepius alibi enarratam intulisse; sed petere se ab
Iove optimo et maximis diis ne huic mortalium insipientiae succenseant, sed
potius quae se digna sunt suam per indulgentiam atque beneficentiam cogitarent
et prodesse mortalibus perseverent, Momi incommodis atque iniuriis posthabitis.
Haec Momus submissa et
inflexa voce tristique fronte referens, animo erat alacri, cum ceteras ob res,
tum quod deos atque inprimis Iovem dictorum aculeis commoveri non obscure
perpendebat. Perspiciebat enim obmutuisse Iovem et digito hospitalem mensam
subincussisse, ergo intra se gaudio exultabat. Quam rem intuens Hercules
subridens "Te" inquit "ego item, o noster Mome, testor, ne quid
ipse succenseas si qua ex parte mortalium causam non esse apud Iovem omnino
desertam cupio", et ad Iovem versus "Indulgendum sane, o Iuppiter,
est" inquit "mortalibus errore praesertim consilii adversus ignotum
apud se Momum desipientibus, quandoquidem apud superos Momus ita se gerit ut
non facile nosci et alius videri possit plane quam sit. Sed cavendum item est
ne quis in aliorum incommodum atque detrimentum plus sapiat plusve teneat
artium fallendi quam ingenia bona et simplicia deceat. Quid illi mortales
possint eloquentia ex Momo perspicue licet intelligere, qui tam exquisita
excogitataque suadendi ratione instructus de mortalium gymnasiis ad superos
rediit. Sed de Momi dictis deque tota causa quid a Iove optimo et maximo
sentiri deceat in promptu est; quid vero statuisse debeat, alii viderint. At
tu, Mome, illud velim tecum deputes, an hic aut locus aut tempus idoneus
accommodatusve sit, ut in convivio de his rebus iniucundissimis disputes, ut
capitis causam agites. Quid tibi voluisti, Mome? Utrum philosophos atque
eruditos ad invidiam trahere, an deos lacessere dictis et ironia? Sed nos, o
superi, tam grandi accurataque Momi oratione commoti, quid faciemus? Illudne
praeteribimus, quod meminisse oportet, quamdiu fuerint mortales, tamdiu fuisse
et opinionum errores et studiorum varietates et disputationum ineptias? Sed tu,
deorum gravissime, agedum Mome: negabisne cum istis studiosorum familiis, in
quas tu tam atrocissime invehebare, aeternum fuisse quandam perennem
inquisitionem veri atque boni? Negabisne philosophorum ope effectum ut genus
mortalium seque suamque sortem non ignoret? Non enim erit ab re neque ab
officio, Mome, si abs te provocatus congrediar. Etenim quis unquam apud
mortales tam protervus inventus est, qui se maximorum deorum amplitudine et
maiestate dignum deputet? Quis est qui non se quidem tam multis quae a diis
susceperit bonis prope indignum deputet? An erit ullus amens adeo furoreque
adeo percitus quin mentem, rationem, intelligentiam rerumque memoriam et
eiusmodi, quae longum esset prosequi, cum praeclara praestantissimaque et summo
deorum beneficio esse concessa hominibus, tum et ipsis a diis, inprimisque
divina a mente atque ratione ducta asserat atque confirmet? Haec ut homines
dinoscerent et profiterentur viri docti et in gymnasiis bibliothecisque, non inter
errones et crapulas educati, effecere dicendo, monendo, suadendo, monstrando
quod aequum sit, quod deceat, quod oporteat, non popularium auribus
applaudendo, non afflictos irridendo, non moestos irritando; fecere, inquam,
docti ipsi, suis evigilatis et bene diductis rationibus, ut honos diis
redderetur, ut cerimoniarum religio observaretur, ut pietas, sanctimonia
virtusque coleretur. Atqui haec quidem eo fecere quo ceteros meliores
redderent, non quo sibi inanem ullam gloriam aucuparentur: qui tametsi gloriae
cupiditate commoti tantas vigilias, tantos labores, tam multa diligentia et
cura res arduas et difficiles suscepissent atque obivissent: quis erit deorum
omnium qui illis, praeter te unum, Mome, succenseat? Quis erit deorum omnium
praeter te unum, Mome, qui illos non de se bene meritos fateatur? Quis erit
quin illis, praeter te unum, Mome, habendas gratias, diligendos, iuvandos
servandosque non affirmet? Deorum autem cultores atque observatores, quales
illi cumque sint, nostro pro officio, o superi, ne vero non fovebimus, eorum
saluti non prospiciemus, eorum causae, commodis rationibusque non opitulabimur!
Eos demum per quos haec tam digna, tam grata, tam accepta constent, per quos
dii putemur et veneremur, Momus, deorum causae affectissimus, caelo annuente
atque impune oderit! Siccine studio et contentione rationibus deorum inservire
didicisti, Mome, ut qui illic apud mortales quo colamur, veneremur, supplicemur
providerit, effecerit, instituerit, eum hic tuo dicendi artificio et verborum
ambagibus inducas in odium superis? Quod si nescias, philosophi, Mome,
philosophi, inquam, hi sunt omnes inter mortales a quibus superi multa et
praestantissima ad maiestatis decus imperiique culmen cum acceperint, tum se
accepisse non inficientur, quibusve et superi omnia pietatis officia cum
debeant, tum et deberi fateantur. Et diligunt quidem eam studiosorum familiam,
Mome, superi magis quam ut dictis tuis commoti eos velint perdere, potius
cupiunt eos esse non infelicissimos, ac merito id quidem, nam hi ratione et via
assecuti sunt ut sit nemo quin deorum vim et numen esse non sentiat neque
profiteatur et se ad bonos mores rectamque vitae normam accommodet. Neque tamen
velim Momum nostrum, deorum festivissimum, tam esse erga mortalium genus iratum
deputes ut eos oderit, qui fortasse quempiam ex mortalibus asciverit inter
superos. De me adventitio novoque deo hoc testor, a me plurimum deberi Momo
quod filiae iusserit ut ad vos me sublatum afferret. Et te laudo, Mome, si tuam
erga mortales mentem et animum bene interpretor, qui Iovem admones ut malit
quae suae sint beneficentiae meminisse quam quae aliorum sint iniuriae, si ad
iniuriam pensandum est quod inconsulti homines admiserint. Ideo, ni fallor,
pertinet, o Iuppiter, ut sic dixisse velit Momus: tu quidem cum insipientibus
omnino succensueris, officii erit sapientibus et optime de diis meritis omnia
ad gratiam et beneficentiam referre. Quod cum fecisse volet Iuppiter, o superi
optimi, et quosnam diliget, quos ornabit, quos caelo dignos putabit? Eosne qui
omnia turbent, nihil pacati, nihil quieti possint aut meditari aut exequi, an
eos potius quos ratio quaedam non ab scurrarum improbitate ducta, sed a virtute
parata et constituta aditum sibi ad Iovis deorumque gratiam et benivolentiam
patefecerit? Qui suo studio, diligentia, opere, labore, periculo plurima
perquisierit, multa invenerit, nihil praetermiserit, omnia temptarit in
mediumque contulerit quae quidem ad hominum usum, ad vitae necessitatem, ad
bene beateque vivendum conferrent, quae ad otium et tranquillitatem facerent,
quae ad salutem, ad ornamentum, ad decus publicarum privatarumque rerum
conducerent, quae ad cognitionem superum, ad metum deorum, ad observationem
religionis accommodarentur!".
Hanc Herculis ad Momum
orationem et animos utrinque iam ad altercationem paratos occupavit atque
avertit repens exauditus ad caeli vestibulum strepitus; ad quem dinoscendum cum
relictis poculis advolassent, evenit ut in grandem inciderint admirationem,
conspecto e regione maximo atque omni colorum varietate ornatissimo arcu
triumphali, quem quidem Iuno coaedificarat auroque votorum conflato operuerat,
tanto et operis et ornamenti artificio insignem atque illustrem ut caelicolarum
optimi architecti fieri id negarint potuisse, et pictores fictoresque omnes sua
esse in eo expingendo atque expoliendo ingenia superata faterentur. Alia ex
parte successit ut maiorem in modum demirarentur quid sibi cumulus illic
maximorum deorum intra se tumultuantium et ad caeli regiam infesto gradu
properantium vellet. Ergo et illuc versis oculis et hic auribus arrecti et
animis in partes utrasque solliciti pendebant. Illud interea effecit ut acrius
etiam moverentur, quod vixdum eo appulerant, cum illico Iunonis illud vastum et
immane tantarum impensarum opus labans corruit, cuius fragore et sonitu
subincussa caeli (uti sunt aenea) convexa maximum dedere sonitum, quem ab
resonantis testudinis tinnitu exceptum musici notantes ad memoriae posteritatem
Iunonis illud caducum fragileque opus Tinim nuncuparunt, at postea corrupto
vocabulo Irim vulgo appellarunt. Iuppiter vero ceterique caelicolae cum
aliunde, tum hinc quam in omni re agenda sit ratio, mens institutumque muliebre
inconsultum et penitus ineptum annotarunt; subinde re ipsa admoniti manifeste
perspexere caepta mulierum eo semper tendere, ut aliquid discordiarum
discidiorumque exsuscitent. Nam etsi eos inter, qui tum adventarant deos,
aliquid fortasse aderat quominus unanimes et concordes essent, ad veteres tamen
simultates Iunonis novissimum factum magnas contentionum acrimonias excitarat.
Quas ubi ad Iovem detulissent, conversus ad Herculem Iuppiter, animo vehementer
commotus, "En" inquit "et quanti est nos esse principes? Quid
homines querantur nullam sibi advenire horam horae persimilem, nihil ad animi
sententiam secundare? Nos et dii et rerum principes integram unam sumere coenam
vacuam molestia non poterimus! Quosnam accusem? Istorumne studia importuna et
insanas cupiditates an meam potius desidiosam facilitatem, qua fiat ut cum
licere sibi per me omnia arbitrentur, tum et interdum plus satis iuvet
delirare? Quidvis malim fore me quam principem, dum quibus praesis, quorum
commodis advigiles, quorum quietem et tranquillitatem curis et laboribus tuis
praeferas neque beneficii, neque officii memores in te sint, dum assiduis
futilibusque expostulationibus obtundere atque variis agitare sollicitudinibus
non desinant. Semperne, o meum convitium, semperne causis expostulationum
innovatis me coram contendere ad simultatem perseverabitis? Quotiens vestra
sedavi iurgia, quotiens a contumelia cohercui, a rixa distraxi, ab insania
revocavi, quotiens hos nostros tumultus oppressi! Thetim accusabat olim
Vulcanus (tritaeque iam tum vestrae hae fuere fabulae) quod splendorem lucemque
omnis suae dignitatis pollueret atque extingueret. Vulcanum Diana Silvanique dii
accusabant quod umbratiles suas amoenasque sedes hostili impetu immanique
iniuria populare atque vastare aggrederetur. Hos accusabat Aeolus quod Zephyro
et Noto et Austris et Aquilonibus ceterisque suis commilitonibus alas
expilarent plumasque decerperent, quas monstris navigiorum adigerent. Aeolum
accusabat Neptunus quod misceret omnia, otiumque atque aequabilitatem suarum
regionum funditus perturbaret. Neptunum rursus et Thetis accusabat quod se
impio hospitio exciperet nitoremque atque illibatum virginitatis florem auderet
violare. Nunc et nova discidiorum discordiarumque materia oborta est: Iunonem
accusat Neptunus quod votorum purgamenta aedificationisque rudera in aram
neptuninam per contemptum et contumeliam eiecerit; Ceres ne suum in solum reiciantur
repugnat; ea item Vulcanus negat posse commode suis in officinis apud se
recipi, et harum querelarum ad me irrequieta immodestissimorum iurgia
referuntur. Ego delirantibus meas patientissimas aures praebeo, isti nostra
abuti patientia non cessant, nihil verentur. Quid hoc petulantiae est?
Nunquamne erit ut hac vestra garrulitate mutuo vos lacessere nosque obstinate
obtundere desinatis? Liceat per hanc nostram patientiam insanire, at pudeat
olim de nobis demum abiecte atque impudenter sentire! Annon illud est
impudentiae, quae quisque fastidiat esse apud se, ea in principis gremium velle
reicere? Vota mortalium deponi recusant apud se: quo alibi ponantur non patet
locus: ad me itur, expostulatur ut inde atque inde adimam. Quid hoc? An aliud
est quam efflagitare ut quae illis ingrata sint, quae obscena illis videantur,
quae desertis et incultissimis suis in vastitatibus excepisse nolint, ea in
regium triclinium reiiciantur? O nos miseros, si impudentissimis obtemperandum
sit, et infelicissimos, si his imperandum sit apud quos nulla est principis
reverentia, nulla aequi, nulla pudoris observatio! Putabam me aliquando magna
diligentia compositis rebus, et distributis pro dignitate imperiis, ab his
praesertim molestiis vacaturum. Nunc ne id Iovi maximo rerum principi deorumque
regi liceat non caelicolae modo sed, quod vix ferendum est, homunculi obstant.
Sed quid ego in hanc unam pestem animantium, ne dicam homines, irascar? Hoc
nimirum nostra effecit nimia facilitas: dum omnibus obsequi ultro cupimus,
omnium in nos temeritatem illeximus. Dederam mortalibus, ut duras et indomitas
eorum mentes nostrorum munerum admiratione mitigarem atque beneficiis ad bene
de nobis sentiendum flecterem, plura longe quam optare homines sit fas. Namque
principio dederam amoenissimum odoratissimumque perpetua florum copia ver.
Cupere se illi quidem dixere ut quam fructuum spem flores prae se ferrent
mature traderem: ea de re aestatem adieci, eique rei Vulcani fabros omniumque
ignium officinam exercui, quorum manu et opera intimis ab radicibus succus in
baccas educeretur atque in ramos fructumque concresceret. Quid tum? Demum
saturi, fructuum copia delectari se admodum atque cupere dixerunt ut pristinum
ver restituerem. Cessi quidem eorum libidini: collegi idcirco ab omni natura
gignendarum rerum igniculos atque baccis quasi thesauris inclusos fovi spiritu,
quo ad veris opus atque ornamentum servarentur. At improbi illi, tantorum a me
acceptorum commodorum immemores, ingrati, indigni mortales ac novarum semper
cupidi rerum temporumque, suique admodum impatientes, dum quae a me aut petant
aut optent non habent amplius, dum ultro eis commodo quae ne optare quidem
audeant, si modestiores sint, pro accepto beneficio nihil plus est quod
referant quam merum odium. Nunc aestum, nunc algores, nunc ventos exsecrantur,
et nos ea facere accusant quae suam in rem non sint, neque verentur dicere nos
ea facere quae vesani amentesque non facerent. Sed merito accusant, nam eos
prosequimur beneficiis, quos furialibus Erinnibus persequi est opus. Sed satis
superque furoribus exagitantur, quandoquidem se deorum superum haeredes
deputant regnique partem deposcunt. Aut quis maior inveniri potest furor quam
versari in errore, trahi libidine, impelli audacia, velle indigna, appetere
immoderata, suis bonis nunquam nosse perfrui, aliorum praemiis dolere, quae
quidem sua secordia atque ignavia recusent refugiantque consequi? Et breve sibi
datum vitae spatium condolent qui supini tam multis perdendis horis otio
abutantur, et inter senescendum nihil agendo marcescunt. Morbos et aerumnas a
diis importatas praedicant. De his quid est quod dicam, cum sit homo homini
aerumnarum ultima? Pestis est homo homini. Tu tibi, homo, tua voracitate, tua
ingluvie tuaque intemperatissimae libidinis incontinentia effecisti ut doloribus
excruciere, ut morbo langueas, ut ipsum te male ferendo perdas. Dolet mortalium
dementiae et mallem modestiori esse praeditos ingenio. Sed quid agam, quo me
vertam? Quis ab importunissimorum catervis obsessus oportunum sibi uspiam
consilium reperiat? Quis tam ferreus, tam ad omnes lacessentium impetus
expositus atque obfirmatus erit, qui haec diutius perferat? Hinc altercantium
inter se expostulationibus obtundimur, hinc votis, aut potius exsecrationibus
obruimur. Nec tantarum molestiarum vexationumque ullus adinvenietur modus? At
invenietur quidem. Quid tum? Quo fruantur mundus non placet. Hic status, haec
rerum conditio gravis intolerabilisque est. Novam vivendi rationem
adinveniemus: alius erit nobis adeo coaedificandus mundus. Aedificabitur,
parebitur!".
Obmutuerant irato Iove
ceteri omnes dii. At Momus, sentiens quid suis esset consecutus artibus in
pertubandis tantopere et deorum et hominum rebus, exultabat animo sibique
congratulans gloriabatur quod ex tam raro laedendi genere suas deprompsisset
vindicandi facultates, quas quidem ridendo prosequeretur. Verum, ut ad suas
dissimulandi artes rediret, composito ad mansuetudinem vultu, subridens
"Adsis, quaeso", inquit "o Iuppiter, et quae dixero, si per tuam
facilitatem licet, consideres sintne ex tua re an non. Hominum improbitate
inprimis quantum videre licet offenderis, ac merito id quidem. Quis enim
praeter te illorum ineptias diutius perferat? Et soleo saepe ipse mecum
quaerere unde sit quod nulla re sis magis quam facilitate et mansuetudine
ingratis atque immeritis homunculis parum acceptus. Sed vide par ne sit hos
labores suscipere alium coaedificandi orbem ut ingratissimorum querelas fugias,
vide ne id deceat tantis caeptis hominum insaniam velle habere castigatam. Tu
tamen de tota re pro tua prudentia cogitabis. Quod si tandem istos voles
homunculos pro sua temeritate atque procacitate multatos reddere, novi quid
facto opus sit, potius quam ut tantam aedificandi rem aggrediare. Illi quidem,
quod praeter cetera animantia erecto ad sidera spectanda vultu perstent,
idcirco ex deorum se ortos genere praedicant et sua interesse deputant nosse
quid quisque superum agat aut meditetur. Adde quod dictis factisque
caelicolarum redarguendis delectantur et deorum vitam et mores censoria quadam
lege praefinire atque praescribere non pudet. Quod si mihi credideris,
Iuppiter, iubebis eos pedibus sursum versus et ima cervice obambulare manibus,
quo et a ceteris quadrupedibus differant et manum a furtis, rapinis, incendiis,
veneficiis, caedibus peculatuque absque teterrimis reliquis, quibus assuevere,
flagitiis conferant ad perambulandi usum. Sed muto sententiam. Novi eorum
mentes atque ingenia: pedibus ipsis furari, pedibus involare et cuncta
perpetrare scelera triduo condiscent, ut nihil fieri posse commodius censeam
quam ut muliercularum illis numerum ingemines. O quantum dabunt poenarum,
quantos qualesque et quam assiduos cruciatus experientur! Animorum est carnifex
mulier curarumque flamma furorisque incendium atque omnis tranquillitatis et
otii pestis, calamitas atque pernicies. Sed hic iterum verto sententiam: deorum
me superum movet ratio, nam unam admodum si addideris hominum generi feminam,
tantum illa quidem ciebit malorum, tantas vexationes, tantos rerum turbines et
tempestates excitabit ut non dubitem futurum quin ea, profligatis atque
prostratis rebus hominum, caeli quoque fundamenta collabefactata ac penitus
convulsa reddantur".
Tum Iuppiter ad Momum
annuens "Siccine" inquit "Mome, etiam dum seria agantur te
exhibes ridiculum?". Tum Momus: "Enimvero" inquit "recte
admones: desino te ad risum et iocum verbis illicere et quod instat agam. Tu, o
rerum princeps, agedum, ac si fas per tuam facilitatem est, sic sciscitari
pervelim quidem intelligere tuane an deorum an hominum gratia et causa
instituas novum exaedificare mundum. Ego de me hoc fateor, non is sum qui
existimem habere te quippiam quod in tam pulchro absolutoque opere atque
perfecto amplius desideres, neque video cur in quo perficiendo omnem
diligentiam tuam, omnes ingenii vires exposueris, in eo innovando aliquid
immutari posse, nisi forte in deterius arbitreris. Sin aliorum te ratio in
tantis caeptis commovet et ita decresti velle illis morem gerere quorum causa
haec aggrederis, scrutandas tibi primum eorum sententias censeo quorum te causa
et commoditas moveat, ne forte his quibus gratificari studeas fias ingratus,
tuis frustra susceptis laboribus atque impensa. Et ea in re ediscendum
principio iudico cupiantne illi quidem orbem novari an corrigi, proxime
intelligendum quamnam statuant futuri operis optimam esse descriptionem.
Interea ad deliberandum erit aliquid dandum spatii, quo aliud sit cogitandi,
aliud agendi tempus. Ceterum redarguendi ineptias, seu sint illi quidem dii seu
sint illi quidem homines, semper erit tibi, ni fallor, integrum semperque
patebit idem ipsum, ut possis ex sententia quicquid ad istorum poenam statuas
oportere. Verum id egisse intempestive, quod mature possis facere, haudquaquam
sapientis est, et omnis quidem maxima ex parte opera quae immatura est cum
perditur, tum etiam laedit. Vota demum, si videbitur, poteris interea eo loci
ad litoris margines exponere, quo mare ab tellure et ab his aer discriminetur.
Id si feceris, erit istorum nullus qui sibi fieri iniuriam possit merito
affirmare, et e medio quod amplius litigent tolletur. Adde quod eo erunt loci
vota exclusa, ut ea nullibi esse possis dicere".
In hanc Momi sententiam
Iuppiter facile adduci passus est, eamque dii omnes comprobavere. Itaque
extremis inde litoribus ad mare vota distenta exstant, esseque vota minutas
illas ampullulas praedicant quae quidem illic luculentae et quasi vitreae
splendescunt. Quae cum ita essent, laeti dii ab Iove discessere. At Fraus dea,
Momi dicta pensitans, quam ea quidem in se haberent vim ad animos in quamvis
partem concitandos facile perspexit: miro illum callere doli artificio atque ad
fingendi fallendique usum nimium posse Momum intellexit. Ea de re omnem
simultatem sibi adversus Momum longe evitandam posthac indixit, atque, ut sibi
adversarii gratiam conciliaret, quanta licuit arte frontem, vultum, gestum ad
venustatem, affabilitatem comitatemque confingit atque conformat. Momus,
veteris acceptae ab dea Fraude contumeliae memor, pro novissimo ab se suscepto
vitae instituto graviter docteque scaenam agere perseverat. Longum esset
referre quam se quidem quisque eorum compararit atque gesserit optimum
simulandi artificem, dum arte ars utrimque illuderetur. Tandem eo ventum est ut
inter congratulandum dea Fraus de Momo quaereret quisnam sibi Hercules sua
lautitie et mensarum apparatu videretur, qui quidem unus deorum omnium maximum
optimumque caelicolarum principem hospitio atque convivio suscipere ausus sit.
Cui Momus: "En" inquit "et quid putes? Annon dignus erit
Hercules quem tu Momo praeferas, quem tibi ad gratiam et benivolentiam spreto
me adiungas?". Tum dea: "Siccine agis mecum, Mome? Egone tibi, quicum
vetus et dulcissima est consuetudo et familiaritas, alium quempiam praeferam?
Sed de his alias. Illud, quaeso, dicito: tune Herculem ipsum apud mortales
noras?". Tum Momus: "Tu" inquit "demum, uti caepisti
sequere, novos in dies amores secta, at Fraudi id liceat deae. Quid tum adeo?
Semperne oportebit his curis et suspicionibus excruciari eos qui te plus se
ament? Verum Herculem ames, Herculem agites, Herculem loquaris, Momum
despexeris; num etiam ludum facies? ". Tum dea meretricias inire
blanditias, et cum cetera tum illud: "Me miseram" inquit "atque
infelicissimam, si quid de me venire tibi in mentem potest, ut putes me
istiusmodi amantium genus cupere! Hos ego Hercules non penitus abhorrendos
ducam atque fugiendos, qui quidem ingenio elati, animis tumidi, successibus
gloriosi, imperiosi, importuni, omnia sibi quae eorum postulet libido deberi
deputent? Vel qualem ego illum erga me futurum interpreter, qui deorum
principem alienis convitare in aedibus integra condivorum cautione ausus sit?
Et huic tam insolenti quid erit quod negasse tuto possim, si forte me illi
dedicem? Servire id quidem esset, non amare. Sed hac in re Martis prudentiam
requiro, qui adventitium caelicolam levissimumque hospitem apud se tantisper
insanire possit perpeti". Tum Momus, despecta scintillula unde in Herculem
posset aliquam ignominiae notam inurere, illico eam arripuit inquiens:
"Non est is quidem Hercules qui non didicerit et imperare et parere, ut temporum
suorum exigat ratio. Sed ne adeo quidem imperiosus est ut te eum odisse
censeam". Tum dea: "Ain vero" inquit "parere didicisse
Herculem? Audieram quidem istuc, sed invidia dictum rebar". Tum Momus
subridens: "Et quidnam" inquit "illud est quod audieras?".
Tum Fraus: "Vis me dicacem reddere, tam belle interrogando: sed non invita
amanti parebo amans. Audieram Herculem hunc ipsum servisse apud mortales. An
vero, mi Mome, id est uti ferunt? Quid taces?". Tum Momus gestu concitato
et aspectu indignanti "En," inquit "credin me posse tuum esse
ludum diutius? Convivarit Hercules, quid ad te? Lautus sit Hercules, quid ad
te? Amas Herculem, ergo id ad te! Non tamen efficies ut tibi succenseam: amabo
immeritam et amabo invitam", hisque dictis fronte ad simulationem iracundiae
vehementius obducta sese inde subripuit. Ab se discedentem dea intuens, secum
ipsa inmurmurans inquit: "Vale, Mome! Tu quidem constirpata atque abstersa
barba tersior adopertiorque a mortalibus redisti quam abieras. Vale,
vale!".
Liber tertius
Superiores, credo, libri
rerum varietate et iocis delectarunt: fuit etiam quippiam in illis, ut videre
licuit, quod quidem ad vivendi rationem et modum conferat. Qui sequentur libri
nulla erunt ex parte aut iocorum copia aut insperatarum rerum eventu et novitate
superioribus postponendi et, ni fallor, eo erunt fortasse hi anteponendi
superioribus, quo maiora atque digniora recensebuntur. Videbis enim quo pacto
salus hominum deorumque maiestas et orbis imperium fuerint ultimum pene in
discrimen adducta, et hac in re tam seria tamque gravi admiraberis tantum
adesse ioci atque risus.
Sed ad rem proficiscamur.
Itaque indicarat Iuppiter venisse in animum sibi ut deorum hominumve causa
alium vellet orbem condere. Quod quidem institutum cum maiores, tum et minores
dii mirum in modum comprobabant. Nam, uti fit, ad suos usus et commoditates eam
rem interpretantes, quisque sibi prospiciebat: et qui fortassis erant inter
caelicolas ignobiles atque alioquin privati, facile in eam spem adducebantur,
ut sibi persuaderent a rerum novarum casibus aliquid adminiculi atque
occasionis ad se honestandum appariturum, et contra qui auctoritate dignitateve
praestabant non posse Iovem arbitrabantur tantis in rerum motibus primorum
procerum carere consilio, quo fiebat ut sibi praescriberent hanc ipsam rem ad
sui status robur et firmitatem fore accessuram. Hinc minores quidem dii quibus
poterant artibus suadendi apud Iovem instabant ut pro suscepto instituto rem
exequeretur; tum et primates optimatesque deorum causae huiusmodi satis admodum
suffragabantur tacendo et interdum annuendo: sed qua esse opus arte apud
principem intelligebant, ea tum docte utebantur. Suas quidem in agendis rebus
cupiditates atque affectus dissimulando obtegebant, et quae inprimis
affectabant, ea levibus quibusdam verborum inditiis sibi haudquaquam satis
placere ostentabant, quo eorum consilium, cum rogarentur, utilitati principis
ac reipublicae magis quam privatis emolumentis et studiis accommodatum
videretur. Neque praeterea deerant ex deorum optimatibus qui quidem, seu quod
animi quadam integritate atque maturitate in rebus Iovis versarentur, seu quod
prudentis et bene consulti ducerent plus semper in omni re putare incommodi
subesse quam appareat, Iovem idcirco admonerent ut tanto in opere incohando
iterum atque iterum cogitaret, ne quid in perficiundo offenderet quo tanti
caeptus interpellarentur: et praecavendum quidem, cum alias ob res, tum ne
facti pigeat, ne quid in experiundo invisum atque impraemeditatum irrumpat,
quominus res ex sententia succedat; accedebant et ii, qui propriis
commoditatibus consulentes nullam rem aliam curabant praeter id, ut Iovem a
suscepto innovandarum rerum instituto amoverent. Namque Iuno, votorum
affluentia facta aedificatrix, quidvis poterat perpeti magis quam hominum
populos perire, huicque causae praeter Herculem, qui quidem in servandis
hominibus officio fungebatur, Bacchus et Venus et Stultitia dea et huiusmodi
plerique alii, quod ab mortalium numero egregie colerentur, maximopere
favebant. Tum et Mars, quod Aerugine architecto struendo porticu aeneo
uteretur, cui centum columnas ferreas levissime rasas et perpolitas
adamantinasque tecto tegulas destinarat, Iunoni ad res hominum servandas ultro
sua et studia et operas accommodabat: namque ab hominibus quidem non modo
materia et huiusmodi in dies suppeditabatur, verum et quo tersissimas redderet
columnas callos atque sudorem excipiebat. Ergo hi quidem dii summopere
elaborabant dissuadendo, hortando, poscendo ne quid temere aggrederetur.
At Momus ipse secum,
rerum tantarum perturbatione motus, "Profecto" aiebat "est quod
fertur, nullam inveniri tam amplam voluptatem quae non pusilla sit, ubi tu
aliis nequeas impertiri. Quanta mea haec esset voluptas, si haberem quicum
possem explicare sine periculo! O me beatum, qui potui verbis adducere
principem ut tantas res aggrederetur! Verum commovi hactenus, nunc impellendus
est. Sed quid ago? Multorum invidiam in me comparabo. Et quid tum? Oderint illi
quidem ut lubet, modo sim huic uni cordi. Is me Iuppiter dum non respuet, dum
excipiet, ut facit, benigne, plus satis habebo fautorum. Vel quis est qui
deliro cum principe non insaniat? At vincat, uti aiunt, malum. Ergo tu, Mome,
una cum grege id suadebis fieri, quod si forte iam factum sit vituperes?
Equidem et quidni? Id agam, ut quaeque placere principi sentiam, eadem quoque
probare me ultro ostentem. Et quid ago? O me iterum felicissimum, qui meis
artibus ita mihi rem hanc paraverim, ut regem me admodum esse caelicolarum
sentiam! Quid erit posthac quod nequeat Momus, quando inieci inter proceres quo
maximis inter se studiis contendant, atque ita contendant ut sic me inde
habituri forte sint arbitrum? Hic igitur opus est insistam. Atqui dissentiant
quidem inter se conferet, quorum erga te impetum metuas. Nam si qui horum in te
insultaverint, tu ad hos alteros confugias, ubi tot conspiratores adiunges tibi
quot erunt ii ad quos concesseris. Sed de his videro quae tempus feret: interea
iuvat de Iovis in me gratia et benignitate melius mereri. Commitiganda quidem
et commoderanda eius mihi est animi concitata ratio. Quid, si ei tradam optimas
illas commonefactiones de regno quas olim apud philosophos collectas redegi
brevissimos in commentariolos? Profecto, si legerit, sibi rebusque suis
commodius consulet".
Haec Momus. At Iuppiter,
uti est vetus quidem et usitatus mos atque natura nonnullorum, ferme omnium
principum, dum sese graves atque constantes haberi magis quam esse velint,
illic illi quidem non quae ad virtutis cultum pertineant, sed quae ad vitii
labem faciant usurpant; quo fit ut cum quid prodesse forsan cuipiam polliciti
sunt, in ea re apud eos minimi pensi est fallere, et fallendo perfidiam et
perfidia levitatem atque inconstantiam suam explicare cognitamque reddere; cum
vero molestos nocuosque se cuivis futuros indixerint, omni studio et perseverantia
libidini obtemperasse, id demum ad sceptri dignitatem regnique maiestatem
deputant; itaque in suscepta iracundia plus dandum pertinaciae quam in debita
gratia retribuendum fidei statuunt. Sic hac in re Iuppiter neque odia dediscere
suo cum animo neque non meminisse iniuriarum apud alios videri cupiebat, sed
cum nullam inveniret novi condendi mundi faciem atque formam quam huic veteri
non postponeret atque despiceret, cumque intelligeret se initam provinciam
satis nequire commode per suas ingenii vires obire, instituit aliorum sibi fore
opus consilio. Sed ita peritorum sensus et mentes captare affectabat, ut si
quid forte dignum laude a quoquam in medium exponeretur, nullos inventori
honores aut gratias deberet, sibi vero invidiam hanc novandarum rerum inventi
gloria pensaret. Idcirco unum olim atque alterum deorum quos esse acutiores
opinabatur atque inprimis Momum, quem unum multo praestare ceteris omni laude
ingenii existimabat, detinebat verborum ambagibus atque cum his flectebat
sermones longa insinuatione, quoad illecti quid de tota re sentirent
expromebant. Nullos inveniebat quorum industriam probaret, ingenio perquam
paucissimi excellebant, rari qui cogitandi labores et investigandarum rerum
studia non refugerent: omnes tamen ita se gerebant ut eos facile intelligeres
videri velle apud Iovem plus sapere longe quam saperent. Sed cunctorum una
ferme erat sententia, ut quos apud mortales omnia nosse praedicant,
philosophos, consulendos assererent: illos quidem complura de his rebus maximis
et gravissimis solitos cum mandare litteris, tum in dies accuratissime
pervestigare, et nihil esse rerum omnium de quo non audeant propalam
disceptare; valere quidem ingenio et suarum artium cultu ut, si curam et
diligentiam adhibeant, facile omnem difficultatem absolvant.
Cum audiret Iuppiter
philosophos tantopere universo a caelo comprobari, non facile dici potest quam
eos desideraret coram congredi et colloqui. Quod ni superiorem invidiam nova
invidia coacervare esset veritus, fortassis adducebatur ut omnes illas
philosophantium catervas cuperet inter deos caelicolas asciscere, quo deorum
senatum tam illustrium patritiorum splendore ornatissimum redderet, sibique
prudentissimorum consilio imperii sui rationes communiret. Vicit tamen quod in
mentem venit non esse ex usu ut eos haberet apud se quibus non imperandum, sed
ob insignem gravitatem atque dignitatem esset obtemperandum, habendos quidem
apud se eos praesertim a quibus observari se metuique sentiat, non quos vereri
oporteat. Accedere et illud, quod eos recusaret qui se recte facere edocerent,
et eos sibi dari cuperet qui quaeque ipse ediceret facere non recusarent. Quae
cum ita essent, diu multumque deliberabat quemnam ex suis ad philosophos
consulendos mitteret: qua in disquisitione facile sensit quam non bene secum
ageretur, dum nulli tam multos inter suos familiares adinvenirentur quorum
posset opera praeclaris in rebus uti. At doluit quidem suos omnes tam esse
omnino rudes atque imperitos ut nihil bonarum artium tenerent, nihil homine
dignum nossent praeter id quod longo servitutis usu didicissent: id erat ad
regiam lauto apparatu esse, ad principem assistere, appellentes arte quadam
plaudendo excipere, confabellari, assentari, detinere, ut iam eos omnes cuperet
ab se mittere atque amovere. Sed novos deligere quorum sibi essent mores ignoti
minime conducere suis inceptis arbitrabatur. Idcirco, ne hac praesertim in re
quam esse penitus occultissimam cuperet sese aliorum fidei atque taciturnitati
committeret, instituit posito regio fastu solus atque ignobilis mortales adire
philosophos tum consulendi, tum multo etiam visendi gratia. Sed prius, quo
praestantissimorum philosophorum nomina, notas, effigies sedesque condisceret,
habuit apud se Momum et quantum potuit quae ad rem facerent longis sermonibus
expiscatus est. At hos inter sermones incidit ut de sinu Momus parvas tabellas
Iovi porrigeret his dictis: "Fides amorque quo in te affectus sum,
Iuppiter, efficit ut meas ipse partes duxerim aliquid studii et operae in tuis
servandis atque augendis rebus exponerem, quoad id possem: idcirco ea sum
aggressus cogitatione et meditatione quae ad imperii tui decus et dignitatem
spectare arbitrabat. Tu ea, cum tibi erit otium, ex istis tabellis quibus
mandata sunt cognosces, hac lege, ut quaeque tibi in his prudentiae partes
minus satisfecerint, eas tu fidei acceptas referas".
Susceptis Iuppiter
tabellis et ab se misso Momo, tabellas ne aperuit quidem sed neglectas reiecit
in penetrali, seque ad iter accinxit animo admodum alacri et prompto. Sed
istiusmodi obivisse peregrinationem postremo tulit ingrate: namque ut primum ad
mortales appulit, in Academiam forte ingressus, complures illic variosque
mortalium repperit huc et illuc et omnes per angulos vagando quaeritantes ac si
abditum aliquem noctu comperisse furem elaborarent. Quos adeo sollicitos
intuens Iuppiter obstupuit ipsoque in gymnasii vestibulo haesitavit. Mox ubi
eos vidit lucilucas musculas blacteas inter digitos gestantes atque his quasi
in umbra positis pro igniculis utentes risit, quoad ex quaeritantibus quidam
"O" inquit "insolens, ne tu et nostrum Iovem philosophorum
percontatum accessisti!". Tum Iuppiter "Et quemnam" inquit
"perconter?". Tum illi "Platonem" inquiunt "naturae
monstrum, quem quidem hoc esse in gymnasio certo scimus, sed quo eum comperisse
loco detur non habemus. At eius interdum audire visi vocem sumus interdumque
eius ob oculos facies obversari credita est: verum ille nusquam minus. Sed quid
agimus? Heus, et tua ubinam luciluca est?". His verbis Iuppiter in
suspicionem incidit atque pertimuit ne ii, quos omnia etiam occultissima nosse
sibi persuaserat, ludicra istac veluti scaena exprobrarent sacrum ab se deorum
insigne fore ita contectum ut cum adesse coram deus intelligeretur, tamen
nusquam satis dinosceretur. Idcirco illinc secedens iam tum accusare initam
profectionem suam incipiebat. Interea sensit seducto quodam in viculi spatio
intra putridum reiectumque dolium multo hiatu oscitantem quempiam seque
versantem; quo cum appulisset propius et in dolio coactum hominem in globum
demiraretur, accidit ut solis radios qui adinfluebant interciperet. Ergo
inclusus ille torvis oculis tetraque voce increpans "Appage te"
inquit "hinc, o insolens spectator! Si dare potis non es, ne adimito
solem". Tum Iuppiter, tanta abiectissimi hominis acrimonia concitus et
rerum quae ageret prae indignatione oblitus, "Tibi" inquit
"aeternum si velim solem dabo atque rursus adimam". Haec ille cum
audisset, caput e dolio quasi testudo proferens multa caepit conclamitare voce:
"Accurrite, adeste populares" quoad multitudo artificum advolavit.
"Hunc" inquit "Iovem comprehendite, atque cogite ut puteos atque
cuniculos vestros sole oppletos reddat". Hic Iuppiter, superiores Momi
deaeque Virtutis casus repetens, nihil erat malorum quod non ab insolenti quae
circum irruerat multitudine exspectaret, beneque secum actum deputabat si nihil
plus quam dimidia multatus barba tam inepti consilii sui poenas lueret. Hunc
ita perterritum et titubantem intuens ex his qui congruerant unus
paterfamilias, homo sane frugi, "O" inquit "hospes, sine hunc
cynicum philosophum dignam se vitam degere, quandoquidem nihil sibi esse rerum
omnium relictum velit, praeterquam ut possit omnibus maledicere et
mordere". At Iuppiter, ubi hunc esse philosophum intellexit, nimirum ad
conceptum metum addidit novam suspicionem, istic se quoque agnitum existimans.
Ergo nihil sibi antiquius ducit quam ut consertissima ex plebe se illico
proripiat atque abducat.
Itaque secedens, procul
respectat quempiam mediam in convallem sub pomeriis urbis obscena inter
animantium cadavera considere atque cultro hos atque hos, seu canes seu mures,
concidere atque praesecare. Id sibi cum visum esset opus partim mirabile,
partim ridiculum, procedebat ut rem cognosceret. Eo cum propius accessisset
constitit. At homo Iovis adventu nihil commovebatur, sed a finitimis laribus
interim subaudito mulieris cuiusdam eiulatu, quae filii mortem deploraret, ab
secandorum animantium opere paululum destitit, atque Iovem despectans et
subridens "Num tanti est" inquit "velle quod nequeas?". Id
dictum Iuppiter non, ut erat, in eam dictum, quae filium forte immortalem fore
optasset, sed in se dictum pensitavit. Et discedens "Quid hoc mali
est" inquit "apud mortales? Ne vero et stulti etiam
philosophantur!". Iamque decreverat ad superos redire, ne quid gravioris
incommodi subiret.
Ex urbe igitur excedenti
evenit ut cum prope vallum atque sepem horti cuiusdam pervaderet sensisse visus
sit nonnullos intus disceptantes de diis et maiorem in modum altercantes.
Adstitit. Hic altercantium unus elata voce forte sic dicere aggressus est:
"Ut intelligatis quid sentiam, hoc affirmo, rerum orbem non factum manu,
neque tanti operis ullos inveniri posse architectos: immortalem quidem ipsum
esse mundum atque aeternum; et cum tam multa in eo divina quasi membra conspiciantur,
statuo totam hanc machinam deum esse. Si ullus in rerum natura deus aut
mortalis aut immortalis est, qui vero contra periturum mundum opinetur? Num is
insanire quidem deum posse putabit, an ipse potius insaniet, ubi non
conservatorem tantorum tamque absolutorum operum deum, sed peremptorem futurum
possit arbitrari?". Alius contra "At ego" inquit "sic
censeo, infinitos in horas concrescere atque consenescere capacissimum per
inane mundos minutissimis corpusculis concurrentibus atque congruentibus".
"Num tu" inquit alius "deos tollis? Cave te esse ita impium
sentiant: sunt enim omnia plena deorum".
Haec audiens Iuppiter
obstupuit atque non satis, prout sua ferebat suspicio, demirari poterat unde in
hoc genus hominum tantum cognitionis incessisset ut se post sepem et vallum
abditum et delitescentem agnoscerent. "Non igitur est" inquit
"ut hic tuto diutius esse possim apud mortales", caelumque idcirco
petiit, tanta de philosophis imbutus opinione, ut incredibili arderet
cupiditate ediscendi quid demum docti illi pro suis institutis rebus
decernerent; neque dubitabat illos quidvis rerum obscurissimarum atque
difficillimarum nosse et posse, quorum tam praeclara in se dinoscendo exempla
spectasset, et hanc opinionem augebat quod in Academia vidisset ex quaeritantibus
illis aliquos nitenti barba et lauto apparatu, fluenti ab humeris purpura, leni
incessu, commoderatis oculis obambulare ut eos caelo dignos et deorum habendos
magistros existimaret. Sed pro instituto, cum operis gloriam sibi concupisceret
et id suo se ingenio assequi non posse animadverteret, commento ad eam rem usus
est eleganti. Namque accito Mercurio edicit uti ad se Virtutem deam ab inferis
deducat: dedecere quidem tam insignem et praestantissimam dearum in tantis
rebus agendis non accivisse. Neganti Mercurio deam male a superis diis atque
inferis acceptam et ea fortassis de causa latitantem facile posse comperiri,
"Apud philosophos illos tuos" inquit Iuppiter "ni fallor,
invenies, qui se totos illi dedicarunt". Tum Mercurius "Cave"
inquit "o Iuppiter, ullos inveniri posse putes tam vanos atque mendaces.
Ut rem teneas, de illis ipse nonnumquam, quod Virtuti afficior, quaesivi eamne
deam viderint: illi eam quidem apud se perquam familiarissime diversari
deierant, at demum dea nusquam minus". Tum Iuppiter "Tu tamen"
inquit "abi et percontare, sic facto opus est". Sed ita agebat
Iuppiter quod norat quam esset quidem Mercurius curiosus quamque novis in dies
iungendis hospitiis paciscendisque commerciis delectaretur, quo futurum prospiciebat
ut lingulax deus aliquid a peritissimis philosophis acciperet, cum de rebus
deorum quae sciret et quae nesciret omnia suo pro more conferret, et id quidem
peropportune ad suas institutas res fore ut referret.
Interea apud superos
studia partium tantas in simultates et factiones excreverant ut omne caelum non
minus quam tris esset in partes divisum. Namque hinc Iuno, quae aedificandi
libidine insanibat, quam poterat maximam suarum partium vim et manum et bonis
et malis artibus cogebat ad hominumque salutem tuendam instruebat; hinc contra
turma illa popularium et eorum quidem quibus non ex sententia cum statu rerum
suarum agebatur sponte congruebant, sed immoderatam rerum novandarum
cupiditatem qua flagrabant studio gratificandi deorum principi honestabant.
Medium quoddam tertium erat genus eorum qui cum ignobilis levissimique esse
vulgi caput grave et periculosum putarent, tum et cuiquam privatorum subesse
recusarent, contentionum eventum sibi etiam quiescentibus exspectandum
indixerant, ea mente, ut in quamcumque visum foret partem tuto attemperateque
prosilirent suisque motibus rem quoquo versus vellent ex arbitrio traherent. Hi
demum omnes apud Iovem unam eamdemque rem sed variis diversisque causis et
rationibus poscentes instabant: alii enim ut pro exspectatione succedentibus
rebus congratularentur, alii ut rebus non ex sententia succedentibus mature
providerent, alii ut occasionibus praestitis attemperate uterentur. Id autem
erat ut olim quid de orbe innovando Iuppiter statueret enunciaret.
Quae cum ita essent,
Iuppiter, ut molestam odiosamque ab se assiduitatem sollicitantium excluderet,
fretus inprimis legatione Mercurii, qua sibi persuaserat futurum ut apud rude
vulgus deorum multum gratiae et gloriae pulcherrimo aliquo philosophorum
invento assequeretur, edicit proximis caelicolarum kalendis se concionen
habiturum et quae decreverit explicaturum et omnibus deorum ordinibus
satisfacturum. Sed haec Iovem spes de Mercurio multo fefellit: nam cum
adivisset Mercurius terras et positis talaribus Academiam, philosophorum officinam,
peteret, evenit ut Socratem philosophum ipso in angiportu solitarium
offenderet: quem cum nudis vidisset pedibus et trita veste adstantem, ratus
plebeium quempiam, eo ad hominem se fronte qua erat liberali et indole nimirum
divina confert. "Atqui heus" inquit "homo, ubinam ii sunt, apud
quos viri et docti et boni fiunt?". Socrates, ut erat mirifica praeditus
affabilitate et comitate, peregrinum conspicatus adolescentem forma egregium
facieque insignem, pro innata sua consuetudine caepit callida illa qua
assueverat disserendi ratione alios ex aliis elicere sermones, quoad et qui
esset Mercurius et qua de re appulisset et quid superi pararent omnia exhausit.
Interea ex Socratis auditoribus unus et item alter accesserat, quos cum non
paucissimos pro re agenda Socrates adesse intellexisset, manum in Mercurium
primus iniecit, atqui "Adeste" inquit "familiares! Apprehendite
hunc, alioquin indole nobili et liberali praeditum, sed inaudita incredibilique
insania laborantem. O deterrimam hominum conditionem! Quam multos habet ad nos
perturbandos aditus insania! Quid ego nunc querar furere alios amoribus, odiis,
cupiditatibus, libidinibus, quid hoc? Hic se esse Mercurium praedicat et ab
Iove demissum Olympo ut Virtutem quae ab caelo exulet deam pervestiget ubinam
sit, ac parasse quidem caelicolas orbem rerum evertere et eum cupere innovare.
Quis hic furor est?". His auditis, qui Mercurium prehenderant in maximos
risus exciti cum negligentius Mercurium observarent, Mercurius, ut erat pedibus
celer, ipsum se eripuit fuga et casu devenit in viculum ubi intra dolium
Diogenes inhabitabat, quo in loco seducto et arbitris vacuo ab cursu fessus
constitit. Interea improbus quidam lenonis puer adiecto fuste quem manu ebrius
gestabat Diogenis dolium putre et vetustate penitus confectum multa vi illisit
atque confregit, at mox inde conspectu evolavit. Ea contumelia percitus
Diogenes, quasso ex dolio prosiliens, cum alium neminem praeter Mercurium
videret, rapto eodem quo esset lacessitus fuste, sedentem petiit. Mercurius atroci
et insperato insultu absterritus voce maxima caepit popularium opem atque
auxilium acclamitare, et in Diogenem versus, qui se inter acclamandum
percussisset, "Siccine" inquit "in liberum hominem atque
immeritum facis iniuriam?". At Diogenes contra "Siccine tu"
inquit "a servo tibi iusta atque emerita rependi doles? Tu impure, tu
sceleste, tu iniustus exstitisti, qui quidem quietum lacessere, qui domum
diruere, qui ex laribus sedibusque detrudere insontem non sis veritus. Tua est,
adeo tua haec intolerabilis iniuria: nam meo quidem in facto non iniuria sed
error est, nam cervicem quidem, non quam incussi genam petebam fuste". Ad
Mercurii voces pauci accursitarant; hi, re intellecta, hortati sunt ne in
philosophum istiusmodi esset iratior. Dehinc, ad Diogenem versi, redarguendo
his verbis usi sunt: dedecere quidem qui se philosophum profiteatur non
temperasse iracundiam, et quam rem in hominum vita tantopere improbent eam ab
se non habere alienam flagitium esse; postremo addebant nihil esse turpius quam
egenum et destitutum hominem per impatientiam delirare. At contra Diogenes
"En" inquit "admonitores audiendos, qui mea in causa eum velint
esse me qui ipsi in aliena non sint: meum tu me iubes dolorem ferre patienter,
cum alienum tu ne feras quidem moderate".
Ergo Mercurius decedens
sic secum stomachabatur: "Hisne credam qui asserant illud hominum genus
fore sapientissimum quod litteras tractent, qui re ipsa sint stultissimi?
Mirabar quidem si una cum sapientia tantum posset odium sui persistere. Nudi ambulant,
sordide vivunt, doliis habitant, algent, esuriunt. Quis eos ferat, qui sese non
ferant? Sibi omnia denegant quae ceteri concupiscunt. Ne vero is non furor est
nolle rebus perfrui quae ad cultum, ad victum faciant, quibus ceteri omnes
mortales utantur? Quod si plus ceteris in ea re sapere se arbitrantur, superbia
est, stultitia est, ut eos aeque errare aliis in rebus, quas nosse
profiteantur, deputem. Quod si se reliquis esse hominibus in urbanitatis
officio similes recusant, exsecrabilis quaedam eos incessit feritas atque
immanitas. Sed istos sordidissimos sinamus esse miseros, quoad invisa
istiusmodi philosophandi ratione vitam degant illepidissimam. Hisque dictis
rediit ad superos, Iovemque salutans subridens inquit: "Qui aliorum sensus
et mentem indagaturus accesseram, inveni qui mea secreta omnia exhausit".
Mercurium Iuppiter et tam cito et liventi cum gena redisse advertens remque
percontatus, non facile dici potest ex istius peregrinatione plusne voluptatis
an tristitiae exceperit: voluptati quidem fuit ridiculam totius peregrinationis
historiam intelligere, dolori vero fuit quod penitus nihil pro exspectatione
factum sentiebat. Sed cum satis Mercurium esset allocutus et non cessaret
Mercurius omni dictorum contumelia philosophos prosequi, "Vide"
inquit Iuppiter "ne tua verborum intemperantia tibi vitio sit atque
effecerit ut quos vituperas, hi meritas abs te poenas desumpserint. Novi quid
dicam: plus sapiunt illi quidem rerum occultarum quam opinare. Quid, si
praesenserint suis investigandi artibus te, Mercuri, esse eum qui se apud me
insimulare levitatis assueveris?". His dictis Mercurius animo factus
perturbatior e Iovis conspectu sese abdicavit. At Iuppiter, suarum rerum statum
repetens, in tanta consiliorum inopia qualecumque in mentem incidit consilium
arripuit. Apollinem, quem unum omnium deorum sapientissimum et sui cupidissimum
habebat, amotis arbitris apud se habet et admonet quaenam sibi rerum
difficultates instent: non multo abesse kalendas praestitutas; quid senatui
populoque deorum ex edicto referat deesse: demum cetera omnia, praeter suam
Mercuriique peregrinationem ad philosophos factam, explicat. Postremo rogat uti
quam possit opem atque auxilium suis iam prope afflictis rationibus afferat.
Omnem Apollo in tuenda servandaque principis bene de se meriti maiestate
pollicetur curam, operam atque industriam adhibiturum, modo tantis rebus
agendis valeat ingenio, fidem vero et diligentiam profecto non defuturam neque
ullum pro commodis et emolumentis Iovis recusaturum se laborem, pericula, difficultates.
Illud videat, ne quod se velit facere, id cum iis conveniat quae sibi in mentem
venerint. Nam versari quidem apud mortales genus quoddam hominum, qui
philosophi nuncupentur, quorum sint plerique ausi novas atque inauditas
commentari formas orbis: hos se aditurum et consulturum, neque futurum ut
vereatur in dubiis rebus eos consulere, qui bonis artibus et disciplinis
innitantur. Amplexatus Apollinem Iuppiter atque exosculatus, "Nunc"
inquit "resipiscere a maximis animi curis per te incipiam, o Apollo. Novi
solertiam, novi et vigilantiam tuam: omnia de te spero quae huic causae
opportunissima accommodissimaque sint. I, sequere, faciam quidem ut sentias te
adversus memorem accepti beneficii functum fuisse officio". Tum Apollo, se
accingens ad iter capessendum, "Agesis" inquit "aliudne me
velis?". Tum Iuppiter "Recte" inquit "nam est apud mortales
Democritus quidam minutis animantibus caedendis nobilis; sanusne an insanus
sit, varia est opinio: sunt qui philosophum, sunt qui delirantem praedicent.
Pervelim fieri certior quanti homo sit". Tum Apollo: "Tantumne hoc
est, quod cum maxima novandi orbis cura apud te conveniat? Sed rem expediam:
hicque tibi iam id inventum dabo". Ergo sua ex crumena, qua sortes
inerant, hos eduxit versiculos:
Quae tamen inde seges
terrae, quis fructus apertae?
Gloria quantalibet quid
erit, si gloria tantum?
Lectis versiculis,
"Omnium hic" inquit "stultissimus est mortalium". Subrisit
Iuppiter. "Atqui adsis" inquit "sortem iterato educito et
spectato sitne itidem quem dixero sapiens an insipiens". Eduxit Apollo hos
alteros versiculos:
Scire erat in voto
damnosa canicula quantum
Raderet augusto.
"Ergo" inquit
"omnium is quidem sapientissimus est". Hic vehementer arridens
Iuppiter "O te" inquit "ridiculum! Et quasnam sortes esse has tuas
dicam, quae ex stultissimo tam repente queant sapientissimum reddere
Democritum? Neque enim alium appellare succurrebat?". Tum Apollo
"At" inquit "in promptu est quo haereat res. Sic interpretor:
sciscitanti Apollini, cuius est diem illustrare, sortes diurnum qualem se
habeat Democritus hominem decantarunt. At subinde Iovi, cuius praeter id quod
aliis impertitus sit, sua sunt reliqua omnia, qualem aeque se Democritus
reliquo habeat tempore sortes liquido explicaverunt, ut sentire nos hic
oporteat hominem hunc noctu sapere perpulchre, eundemque interdiu
insanire". Risere atque abiit Apollo.
Iuppiter vero plenus spei
per alacritatem kalendas exspectabat. At cum ipsae advenissent kalendae et in
arcis atrium dii cum solemnium causa, tum et concionis ineundae gratia laeti
frequentes venissent, Apollo vero nusquam appareret, incredibili maestitia
Iuppiter affectus prope contabescebat. Iam Fata, quorum erat muneris sacros
curare ignes, facere pro more aggrediebantur. Alia ex parte confertissimi dii
poscebant ut ab Iove concio indiceretur, cuius ergo inprimis acciti
convenissent. Ille vero, quod esset nihil commentatus, ad tantam de se
exspectationem progredi refugiebat, sed praescriptam de concione habenda legem
suo facto rescindere neque ex gravi principis officio, neque ex sua re ducebat
esse, quod intelligebat quanti sua intersit minime volubilem minimeque
variabilem haberi Iovem quantumque conferat eos qui rem publicam moderentur ita
sua omnia quadrare, ut sic dixerim, instituta, ut in recto aequabilique consilio
facile acquiescant. Ergo ut aliquid rerum agendarum festinantibus interiiceret
atque intermisceret, quo interea deorum desideria ab causa hac sibi difficili
et gravi diverteret et distineret, imperat Fatis solemne incohent: mox se
adfuturum atque cetera expediturum. Itaque stant Fata lautissimo habitu manu
postes attinentes ac deorum dearumque ingredientium ordines recensent
igniculosque flamines, quos deitatis exstare ad verticem insigne dixeram,
caelicolis instaurant. At Iuppiter interea inter cunctandum secreta obclusus
aula sollicitudinibus curisque obruitur. Tandem egressus potius ut aliquid
ageret quam ut quid ageret intelligeret, se in templum infert. Illic solemne
rite ac pro vetere more sanctissime peracto, dum senatus deorum Iovem salutatum
aggrederetur, unus ferme maximorum principum, Apollo, desiderabatur: erant
idcirco qui Apollinis contumaciae succenserent. Iuppiter neque purgare absentem
neque moderate pati obtrectatores, et dici non potest quam perplexe sese
agitaret animo atque in omnis partis haesitaret. Tandem incidit in mentem ut
Momum regem institueret senatus comitiorumque principem faceret, non quo illum
tantis honoribus dignum censeret, verum ut ostenderet audacibus ambitiosisque
nonnullis deorum se ad illos augendos atque ornandos ultro omnia sponteque
velle conferre qui quidem non imperare, sed obsequi et gratificari didicissent.
Itaque iubet in comitium classes deorum immittat ordinibusque universos
considentes habeat, apudque populum verbis Iovis ita agat: cupere quidem Iovem
quae ageret quaeve meditaretur omnia omnibus vehementer placere et decresse
quidem singulis, quoad in se sit, morem velle gerere; quae res cum ita sit,
adductum se ut priusquam suam proferat sententiam optet fieri certior ex tota
mundi congerie sitne quippiam quod velint servari ad novum opus integrumque
transferri potius an funditus velint everti universa atque perfringi. Tum et de
tota re edicit ut quid quisque cum suis, tum communibus rationibus conducere
arbitretur licenter aperteque disputent: non affuturum se in concione utili
consilio, quod cavisse velit ne qui forte humiles dii et in publicis insueti
praesentiam regis vereantur ac perinde dicere quae sentiant retardentur. Haec
mandata maximarum insperatarumque fuere perturbationum causa. Quam rem futuram
Momus, ut erat acutus atque ingenio excitus, fortassis animo praesagibat, sed
Iovi, cui iam pridem suum dedisset consilium inscriptum tabellis, sollicitare
novissimis admonitionibus non audebat; tamen conferre arbitrabatur quoquo pacto
Iovem ab inconsiderata innovandarum rerum libidine interpellaret. Idcirco
"Si tuam per facilitatem" inquit "licet, Iuppiter, quaeso:
tabellasne, quas pridie a me accepisti, legistin?". "De his
alias" inquit Iuppiter "colloquemur: nunc quod instat agito".
Tabellas Iuppiter ne sibi quidem traditas meminerat.
Ardentem alacritate
concionem offendit Momus et studio rerum novarum obsequentissimam adeo ut vix
crederet tam volentes et lubentes obtemperare; sed illico ut caepit mandata
Iovis explicare et se regem senatus concionisque principem gerere, sensit
tantam in singulis animorum fieri commutationem ut ad vultus frontisque
tristitiam addi amplius nihil posset. Non est ut referam quantum invidiae ob id
adversus Momum, quantum querimoniarum adversus Iovem insurrexerit et apud proceres
et apud infimos plebeios: nullorum erat oculis aspectus Momi non gravis atque
invisus, Momi verba omnibus molesta, Momi facta singulis infensa, quin et
tantum flagrabat odii in Momum ut se in faciem sentiret exsecrari, et quoquo
versus vertebat oculos, illic spectabat explodentes et contumeliosum quippiam
ad sui fastidium gestientes. Qui tum omnes etsi ita essent animati ut vix a
Momo refractis subselliis impetendo manus continerent, tamen sese ab iracundia
Iovis maximi metu revocabant atque cohercebant.
Tandem rogatus primam
dixit sententiam Saturnus voce ita suppressa, verbis ita raris gestuque ita
defesso ut potius conatum loqui quam locutum diceres: pauci reliquum sonitum
vocis immurmurantis excepere, aliqui tamen ferebant Saturnum dixisse se quidem
petere ut suae senectuti veniam darent si quid minus orando posset, quando et
latera et pectus quassum et imbecille haberet attritis consumptisque viribus
senio. Proximo loco Cybele, deorum mater, rogata, diu nutans oreque admodum pro
vetularum more irruminans, cum satis diuque suos respectasset ungues,
"Enimvero" inquit "de his rebus gravissimis atque rarissimis
cogitasse oportuit". Tertia fuit Neptuni sententia: is quidem, acri voce
atque aspero tono tragicoque quodam dicendi more sententiis tritis et locis
communibus late diffuseque vagatus, quidvis aliud potuit videri velle dicere
quam quod ad rem qua de agebatur ulla ex parte pertineret. Successit Vulcanus,
et is quidem suam omnem orationem hac una in re consumpsit, ut affirmaret
vehementer admirari se quidem quod sint in deorum numero plurimi tanto praediti
ingenio ut de rebus his quorum gratia convenerint docte atque erudite norint
disseruisse. Mars vero, cum ad se ventum esset, nihil plus habere se quod pro
re diceret affirmavit quam ut polliceretur accinctum paratissimumque arbitrio
imperioque Iovis Martem affuturum et praestaturum quidem operas demoliendo
convellendoque mundo. Plutonis oratio avaritiam sapere visa est, quod se habere
attestatus sit modulos novissimi operis perquam pulcherrimos quos proferret,
modo quid prius paciscerentur: suos enim labores atque industriam nullis
propositis praemiis decresse non condonare. Hercules, praestita occasione ut
diu multumque praemeditatam orationem de suis laudibus tam celebri tamque in
confertissima concione recitaret, sibi haudquaquam defuit: sua gesta magnifice
extulit et grandia de se in posterum pollicitus est; demum de tota re se ad
Iovis sententiam referre dixit. Venerem risere dii quae excogitasse nova
quaedam miri artificii deierabat, ni paululum quippiam totam rem plurimum
impediret: sed optimum rerum magistrum, speculum, consulendum. Diana inventuram
se optimum quendam architectum pollicita est, sed negare id genus artificum
velle imperitis censoribus subesse, ne quod arte ab se elaboratum sit alii, ut
aliquid fecisse videantur, mutando vitient atque depravent. Iunonem callidiorem
putarunt, quae plures fieri mundos variis formis suadebat et hos atque alios
habendos ad satietatem. Cum autem ad Palladem ventum est, ea, uti ex ante
composita constitutaque scaena cum Iunone ceterisque illarum partium
conspiratoribus convenerant, se habere enuntiavit quae cum Iove ipso de his
rebus conferat, at, quibus mandatum negotium erat, unus et item alter deorum
prae constituta inter se arte et fraude magnis vocibus redarguere eiusque
superbiam increpare, quae tantos deos totamque concionem indignam putet cui pro
communi utilitate meditata communicet: illa altercari: hinc ex ordinibus plures
studiis partium excitati in convitia conveniunt, inglomerantur, constrepunt:
quem tumultum atque ordinum perturbationem spectans Momus, supra quam ceteri
omnes voce illa sua boanti hos atque hos increpans, ita conclamitabat ut solus
ipse tanto ex comitio audiretur. At cum sedare tumultuantem concionem iterum
atque iterum frustra temptasset, commotus facti obscenitate excanduit, quoad
plurima per iracundiam dixit immoderate, inter quae excidit ut diceret non
iniuria apud mortales veteri sanctissimoque more et lege observari ut publicis
abigerentur excluderenturque mulieres. Addidit his etiam Momus ut diceret:
"Etenim quaenam temulentissimorum lustra his convitiis
comparabimus?". Quae dicta ab tota concione audita cum animos cunctorum
iam tumidos atque indignatos offendissent, ut erant iam tum primum concepto
odio irritati, "Siccine" inquiunt "Momus hic sua cum demorsa
barbula ab exilio erit restitutus ut nostram ad ignominiam novus exsistat
censor?".
Hunc concionis animum
intuens dea Fraus, tempori inserviendum rata, ad Iunonem advolat, monet,
hortatur belluam hanc nimia licentia insanientem atque temere insultantem
coherceat. Itaque Iuno, sponte sua iam pridem satis in Momum commota, nunc deae
Fraudis impulsu concita, sese praecipitem ad facinus inauditum dedit. Reiecto
enim pallio "Adeste" inquit "matronae; tuque, Hercules, huc ocius
trahe Momum: sic soror et coniunx Iovis imperat". Paruit haud invitus
Hercules, Momumque in hunc atque in alterum manuque voceque sese agitantem per
capronosum illud quod fronti imminet sinciput prehensum, ut erat praepotens,
ita suum in dorsum reiecit ut resupinum contorto collo ad Iunonem quasi truncum
apportaret. E vestigio innumerae iniectae manus misero. Nihil plus dico: Momus
quidem mulierum manu ex masculo factus est non mas omnique funditus avulsa
virilitate praecipitem in oceanum deturbarunt. Inde Iunone duce ad Iovem
properant iniuriisque deploratis efflagitant ut aut publicum ipsum odium Momum
releget aut universum dearum populum in exilium abigat: non posse quidem deas
matronas tuto his in locis degere ubi funestum exitiosumque id monstrum versetur;
qua de re etiam additis lacrimis obtestantur ut malit unius consceleratissimi
poena tot suarum necessitudinum et optime de se meritarum precibus salutique
consulere quam perditissimi unius gratia omni de caelo duriter mereri.
Id Iuppiter, etsi facti
exemplum magis quam factum ipsum non probaret, tamen ne non concedendum quidem
multitudini statuit quod tantopere affectaret atque exposceret. Semper enim
multitudinis motum atque impetum fuisse reipublicae periculo ni comprimatur, et
alium non adesse comprimendi modum nisi ut obtemperetur. Tum aliqua item ex
parte eam rem ita cecidisse ferebat minime moleste, maxime quod gravi illa
esset hoc pacto sollicitudine factus liber qua non mediocriter angebatur, cum
non haberet quid concioni exspectanti se dignum referret. Ergo cum annuisset
garrientiumque muliercularum strepitus quievisset pauca de rixae istiusmodi
indignatione succinctis verbis perstrinxit, ac se eam quidem perdendi Momi
libidinem in tales tamque multas sibi coniunctissimas et carissimas incidisse
ait dolere magis quam ut audeat improbare: illud maluisse factum non impetu,
non praecipiti consilio cum multas alias ob res, tum ut liceret pacata et
quieta concione frui, quoad quid instituisset commonefaceret; sed quando per
Momi calamitatem, ne dicat per suorum immodestiam, id non liceat, ducere ait se
commodius non agere id nunc quod decreverat, et non invitum velle supersedere
quando videat commotos et perturbatos procerum animos; sed propediem ad senatum
de tota republica relaturum quae excogitasset utilia et admodum necessaria.
Et cum tandem ex aula
egrederetur indomitus ille feminarum vulgus, casu fit illis obviam Apollo a
mortalibus rediens; quem cum vidissent, quod et vatem et praeclarum futurorum
coniectorem putarent, non sine causa consulto abfuisse a tumultu interpretati
sunt. Ideo innutantes "Hui" aiebant "improbe, quam solus sapis,
quam belle scisti uti foro et vitare illepida!". Fiebat idcirco ad
Apollinem concursus iamque ad vestibulum adstabant pressi, quod multis exeuntibus
atque redeuntibus constiparentur. Quam inter frequentiam forte aderat et dea
Nox, quae una furtis faciundis mirifice delectatur et in ea re ita scite
perdocta est ut vel oculos Argo, si velit, furari possit. Ea ut pendentem ab
Apollinis latere crumenam sortibus turgidam animadvertit, ita abstulit ut id
facinus omnes penitus latuerit. At Apollo, salutatis his atque his,
intellectaque concionis historia, laetabatur cum ceteras ob res, tum quod in
rem Iovis cessisset. Eoque admodum exhilaratus ad Iovem ingressus, quod minime
rebatur, tristiori quam erat par exceptus est fronte ab Iove. Etenim Iuppiter
ceteris amotis: "Et quidnam tam sero tardusque redisti?". Tum Apollo
"Nihil habui rerum" inquit "aliud quod agerem, quam ut tua
sedulo matureque imperia exequerer. Sed me illi ad quos accessi philosophos,
dum ita instructi sunt ut nihil expromant rerum reconditarum nisi id sit
maximis verborum involucris implicitum, longis ambagibus detinuere invitum
quidem, tamen eos audiendos putabam, quando exspectationi tuae omni diligentia
studebam satisfacere. At sunt profecto ad unum omnes verbosi. Unum excipio
Socratem, nisi forte quibusdam minutis interrogatiunculis interdum quasi aliud
incohans vagetur: qui tamen, utcumque est, mihi semper visus est frugi illique
volens favi fudique in eum tantum mearum rerum quantum sat sit ad sinistros
gravesque casus evitandos. Semper eius abstinentia, continentia, humanitas,
gratia, gravitas, integritas unaque et veri investigandi cura et virtutis
cultus placebit. Is omnium unus opinione longe praestitit, dum ex eo elegantem
et dignissimam memoratu disceptationem accepi quam quidem, cum audies, credo
non gravate feres me in ea perdiscenda paululum supersedisse, et fortassis non
inficiaberis tuas ad rationes bene componendas adhiberi posse nihil accommodatius.
Quod si vacas animo ad has res audiendas, eam tibi succincte et breviter
enarrabo". Tum Iuppiter: "Cupio, narra: sapientum quidem sermonibus
et dictis delectari, etiam ubi nihil afferant praesentibus causis emolumenti,
conferet". Tum Apollo "Duo" inquit "fuere homines inter
philosophos apud quos aliquid grave et cum ratione constans audierim:
Democritus et Socrates. Dicam de Socrate si prius de ipso Democrito dixero quae
te ab tua ista insolita tristitia frontis ad risum hilaritatemque restituant.
Audies rem cum festivam, tum et plenam maturitatis. Democritum offendi
inspectantem proximo ex torrente raptum cancrum vultu ita attonito, oculis ita
stupentibus ut prae illius admiratione una obstupuerim. Cumque plusculum
adstitissem, caepi hominem compellare, at ille ab suo, si recte interpretor,
somno quo apertis oculis habebatur nequicquam excitabatur. Commodius ea de re
duxi democriteam illam, ut ita loquar, statuam relinquere quoad sponte sua
expergisceretur, quam illic frustra tempus perdere. Itaque alias alibi catervas
conveni philosophorum, quorum mores quis non improbet? Et vitam, quis non
oderit? Dicta vero et opiniones quis aut interpretetur aut probet? Adeo sunt
obscura, adeo ambigua, ut nihil supra". Tum Iuppiter arridens "An"
inquit "o Apollo, tu quidem, qui interpretandi mirus es artifex, istorum
dicta non interpretaberis?". "At" inquit Apollo "de me
profiteor omnia posse facilius: ita sunt illa quidem partim varia et incerta,
partim inter se pugnantia et contraria. Sed de his alias. Illud sit ad rem,
quod cum inter se hoc genus hominum nulla in ratione conveniat, omnibus
opinionibus et sententiis discrepent, una tantum in stultitia congruunt quod
eorum quivis ceteros omnes mortales delirare atque insanire deputat praeter eos
quibus fortassis eadem aeque atque sibi sunt vita, mores, studia, voluntates,
affectus viaque et huiusmodi. Adde, quod quisque probat alios non probare, quae
oderit alios non odisse, quibus moventur alios non moveri: id demum ad iniuriam
deputant. Hinc difficile dictu est quantae et quam multae manarint inter eos
lites et controversiae, dum et contumeliis et vi etiam, si possent, alios omnes
sui esse imitatores velint, ut vix feras tantam in sapientiae professoribus
versari insaniam". Tum Iuppiter: "Quid ego philosophos mirer velle
ceteros suo arbitratu degere, cum et plebeios video in horam, prout sua fert
libido, a superis poscere imbrem, soles, ventos atque etiam fulgura et
huiusmodi?". Tum Apollo: "Quid ceteri faciant non refero. De his hoc
statuo eiusmodi esse, ut dum quisque sua stultitia orbem universum agi optet
dumque nihil constantis certique habent, statuo, inquam, futurum ut si eorum
velis audire ineptias oporteat infinitos et momentis temporum varios mundos
profundere aut assiduis deprecantium quaerelis insanire. Sed de universo
philosophorum genere haec dicta sint, ad Democritum revertor. Ad hunc igitur
iterato rediens offendo hominem perscindentem cancrum quem spectare attonitum
dixeram, cancrumque ipsum obtenso vultu pronisque luminibus introrsum per
viscera scrutantem et dinumerantem quicquid nerviculorum ossiculorumque
inesset. Saluto hominem, at ille nusquam minus. Non possum facere quin ipsum me
rideam: audies, o Iuppiter, ridiculam rem. Incidit enim in mentem ut cepe
quoddam ex proximo agro desumerem atque medium inciderem meque homini adigerem,
quo facto caepi eius gestus et motus imitari: pressabat ille os, ego itidem
pressabam; cervice ille in hanc ruebat aurem, ego itidem in hanc; praegrandes
ille exporgebat oculos, ego itidem. Quid multa? Omnia enitebar ut me illi
praeberem similem, et habebam quidem me homini imitando prope parem ni illud
interturbasset, quod Democrito exstabant oculi siccitate insignes, nobis vero
ob molestam cepae acrimoniam oculi erant praegnantes lacrimis. Quid multa? Hoc
ludicro invento assecutus sum quod serio nequivissem, ut colloquendi daretur
locus. Me enim despectato subridens 'Heus' inquit 'tu, quid facis lacrimans?'.
Tum ego contra despectans: 'At enimvero tu quid facis? Quid rides?'. 'Te'
inquit ille 'prius rogitaveram'. 'Tibi' inquam 'ipse prius respondi'. Paratum
inde adeo litigium videns grandius arrisit. 'Atqui quando ita evincis' inquit
'referam de me quale nostrum foret opus. Ego enim multam dederam operam ut
brutis eviscerandis (hominem quidem ferro lacerare nefas ducebam) intelligerem
quasnam primum in animantibus malum, iracundia, sedes occuparet, unde tanti
motus effervescerent, quibus facibus mentem hominis exagitaret omnemque vitae
rationem perverteret: ea enim re inventa, multa me in hominum vita reperturum
putabam commoda et utilissima. Videbam in plerisque animantibus quaedam quae
mihi plane satisfacerent, sed ne in homine quidem intelligebam unde tam multa
surgerent quae ad stultitiam facerent. Quae compereram haec sunt: nam succum
quidem inveniebam ad inter praecordia inhaustum abspirantibus animi igniculis
concoqui in sanguinem ita ut variarum quibus constet partium variae fiant
segestiones quarum una quidem, quae ex levissima sanguinis exspumatione
annatet, colligitur et vasculo a natura coacto et coaptato commendatur. At
solere liquorem hunc figura ignibilem, sive commotis praecordiis sive admisso
visceribus intimis incendio, fervere atque candescere eiusque acutissimas
scintillulas segestione levigatas, aestu impulsas, volitare canalibus et ad
rationis usque sedes sese attollere atque pervadere suoque appulsu acri atque
temulento inflammari atque conflagrare intima naturae omnia, quoad mentem
lacessendo tumultuantem reddat. Haec ita esse in aliis quidem animantibus clare
perspexi. At nunc animal unum hoc quod inter manus est, cum natura mihi ad
omnem duelli audaciam et ferocitatem pulchre adornatum videretur, diligentius
recognoscendum arbitrabar. Huic thorax, huic manicae, huic nil non opertum
squamis adesse natura voluit, cumque arma scirem amoto irarum impetu esse
penitus mollia et inutilia non iniuria opinabar huic etiam dedisse naturam
multa ad incessendam iracundiam fomenta atque irritamenta. Ea vero ubinam
haereant nusquam invenio, et quod magis solliciter accedit, quod ne cerebrum
quidem hoc in animante comperio, et opinari non adesse uno hoc in animante
cerebrum vetat ratio, quod enim animal movetur loco, cerebrum habeat atque inde
vigeat necesse est, quandoquidem omnes nervorum fibrae e cerebro ipso fluant.
At hoc, cui tam multorum membrorum et robusti et varii motus suppeditent, qui
carere possit cerebro non intelligo'. Haec Democritus. At ego ut viderer quoque
philosophari contra sic orsus sum dicere, spectare quidem me in eo quod manibus
haberem cepe demoliturine sint superi dii mundum an perpetuo servaturi. Tum
ille 'O te' inquit 'aruspicem lepidissimum! Unde tibi novum ariolandi hoc genus
arcessivisti?'. Tum ego 'Atqui' inquam 'istuc recta et a vobis philosophantibus
diducta fit ratione, qui quidem maximum esse cepe mundum asseveratis'. Tum ille
'Facis tu' inquit 'adeo venuste, qui parvo in orbe maximi mundi casum quaeris!
Verum et quidnam? Hisce in extis cepariis quid ingrati invenisti quod plores?'.
Tum ego 'Viden' inquam 'istic diviso in cepe litteras c atque o? Num eas clare
aperteque admodum sentis quid proloquantur?' Tum ille: 'Quid, tune loqui cepe,
cum et caelos cantare aliqui dixerint existimabis?'. Tum ego: 'Minime, sed prae
se ferunt. Iunge o atque c: aut occidet, inquiunt, aut corruet. Disiunge: non
itidem enuntiant, corruiturum orbem?' Tum ille vehementer ridens; 'Tu' inquit
'igitur, o piissime, orbis excidium atque interitum ploras! Sed heus tu! Ubinam
huius qui nunc constat mundi rudera superi reicient, si demoliri
aggrediantur?'. Hoc dictum, quod sapiens et ad nostram rem accommodatissimum
videretur, effecit ut obmutescerem atque mecum ipse dicerem: 'Habes tu quidem
cerebrum quod te non habere fueram dicturus, quando illud in cancro quaereres'.
"Haec de Democrito
hactenus. Nunc ad Socratem illum redeo, virum omni virtutis laude insignem.
Hunc repperi quadam in taberna coriaria suo pro more de quodam multa
interrogantem: sed ea prorsus nihil ad nos". Hic Iuppiter: "Nempe et
perquam insignem praedicas virum, qui apud coriarios diversetur! Verum agedum,
quaeso, o Apollo: quidnam id erat quod interrogabat Socrates? Est enim ut
cupiam de eo audire quae vere sua quidem sint, non quae aliena fictione
Socratis dicantur". "Nempe tum, si recte memini, his verbis utebatur:
'Agesis, o artifex, si quid in mentem tibi veniat ut velis optimum calceum conficere,
non tibi corio esse opus statues optimo?'. 'Statuam' inquit ille. Tum Socrates:
'Qualecumque dabitur corium ad id opus accipiesne an putabis interesse ut ex
multis commodius eligas?'. 'Putabo' inquit. Tum vero Socrates: 'Quo id pacto'
inquit 'dinosces corium? An tibi aliquid quod experiundo videris corium
peropportunum et accommodatissimum propones tibi, cuius comparatione hoc tuum
pensites et quid cuique desit ampliusve sit apertius discernas?'. 'Proponam'
inquit ille. Tum Socrates: 'Qui vero optimum illud condidit corium casune an
ratione assecutus est ut illi nullae adessent mendae?'. 'Ratione potius' inquit
artifex. 'Et quaenam' inquit Socrates 'illa fuit ratio ad id munus obeundum?
Eane fortassis quam concidendi corii usu et experientia perceperat?' 'Ea'
inquit artifex. 'Fortassis' inquit Socrates 'aeque ac tu in seligendo ita ille
in parando corio similitudinibus utebatur, partes partibus integrumque integro
comparans, quoad futurum corium omnibus numeris responderet suo huic quod menti
memoriaeque ascriptum tenebat corium'. 'Est' inquit ille 'ut dicis'. 'Tum'
inquit Socrates 'quid, si ille nunquam fieri vidisset corium? Eam optimi corii
conficiendi descriptionem et similitudinem unde hausisset?'". Hic
Iuppiter, qui attentissime omnia haec Socratis quaesita adnotarat, rupit tunc
incredibilem quandam in admirationem Socratis atque inquit: "O virum
admirabilem! Nequeo me diutius continere quin clamem: o iterum virum
admirabilem! Sino illud, te, o Apollo, quamquam esses personatus, ab Socrate fuisse
cognitum. De illo enim sic est quod audeam affirmare, novisse et qui sis et
quid negotii ageres et quid tibi velles: denique omnia cognovisse. Nam est ea
quidem mentis perspicacia in occultis quibusque rebus pervestigandis apud
philosophos, quantum re periclitati sumus, cum communis et quasi peculiaris,
tum genere ipso tanta ut supra sit quam possis credere. Et novi quid dicam, et
expertus novi. Verum vide quam bellissime te cognito et causa intellecta
satisfecerit. Sentio quo tuae tendant verborum amphibologiae, Socrates: aut
enim ad huius similitudinem in quo fabricando omnes pulchritudinum formas
expressi restituendus erit mundus, aut plures tentandi quoad fortassis casus
absolutiorem aliquem afferat. Sed quid tum, quid postea?". Tum Apollo:
"Enimvero negavit artifex se id scire quod rogasset atque obmutuit: illico
ipse me ingessi, consalutavi, ille me perhospitalissime benignissimeque
accepit. Multa in medium contulimus quae longum esset referre, sed eorum quae
nostram ad rem conducerent illud placuit inprimis quod pluribus
interrogatiunculis conclusum dedit, et finis fuit huiusmodi: nam hunc quo omnia
contineantur mundum talem nimirum exstare ut alibi reliquerit nihil quod addi
adiungive sibi a quoquam possit. Cui si nihil addi, nec diminui, si non diminui,
nec corrumpi; nam cui addes, quod alibi esse non possit? Aut qui corrumpas,
quod diduci nequeat?". Hic Iuppiter: "Tritum istud et vulgatum quidem
est dictum, utcumque sit, quod minime cum illo superiori de coriario
compares". Tum Apollo: "Cave his rebus diiudicandis, o Iuppiter,
opinioni quam veritati assentiaris. Vide ne te nimia quae apud te viget istius
viri auctoritas in errorem trahat atque detineat: nihil enim tantas habet vires
ad suadendum quam gratia, nihil quod veritatem obnubilet aeque atque auctoritas.
Pythagoras auctoritate assecutus est ut quae diceret omnia vera an falsa essent
sui nihil curarent, omnia assentirentur, nihil auderent negare, nihil non
crederent, denique vel ineptissima etiam vellent haberi pro certis et testatis
apud ceteros, ut etiam cum se ab inferis esse reducem praedicaret iurarent vera
praedicare". Tum Iuppiter: "Attemperate quidem in haec incidimus:
eram enim percunctaturus quidnam istiusmodi celebres, Aristotelemne, Platonem
Pythagoramque ipsum et eiusmodi philosophos adivisses. Et quid igitur? Num ab
his quippiam rari et reconditi attulisti?". Tum Apollo
"Aristotelem" inquit "repperi, contuso pugnis Parmenide et
Melisso, nescio quo minuto philosopho, gestientem et cum quibusque obviis
rixantem ac intolerabili quadam superbia et incredibili arrogantia vetantem
quosque prae se quicquam proloqui. Theophrastum vidi maximam suorum scriptorum
pyram instruere ut eam incenderet. Platonem erant qui dicerent abesse longe
apud suam illam invisam quam coaedificasset politiam. Pythagoram audiebam
paucis superioribus diebus in gallo quodam fuisse cognitum eundemque fortassis
nunc inveniri posse in pica aut loquaci aliquo in psitaco: solere quidem illum
per varia diversari corpora. Hoc loco Iuppiter "O" inquit
"Apollo, quam cuperem quempiam istiusmodi in cavea domi habere
philosophum! Quam meas regni res inde praeclare constitutas ducerem! Quid
censes? Possetne ulla prehendi industria?". Tum Apollo: "Et quidni id
posset qui nosset venandi artes, modo illum norit?". Tum Iuppiter:
"Istuc difficile, vili in corpore philosophi mentem intelligere". Tum
Apollo: "Immo vero facile, ubi advertas". Tum Iuppiter:
"Obsecro, tuisne id fortasse artibus et sortibus?". Tum Apollo:
"Maxime, vel etiam inprimis propositis praemiis assequemur ut sese illi ultro
offerant". Tum Iuppiter: "Malo tuas in illis dinoscendis artes
experiri. Age, quaeso, specta ubi sint locorum". Tum Apollo cum istac pro
re suas vellet sortes consulere et ruptam ligulam abrepta crumena intueretur
maxima caepit voce indignissimum facinus in se admissum deplorare, et quod
familiarius apud Socratem fuerat versatus, sibi id fecisse furtum blanditorem
Socratem persuadebat et adiurabat. Longum esset referre quibus verborum
convitiis philosophum prosequeretur: scurram appellabat et fabrorum ludum. Tum
et illud addebat, non iniuria Momum praedixisse tales fore mortales ut etiam,
sin aliter nequeant, pedibus ipsis furari aggrediantur. Cumque satis
deferbuisset ac verborum iactantia acquievisset, eum intuens Iuppiter
"Num" inquit "o Apollo, cancrum te Democriti esse quam qui sis
tantis conceptis irarum motibus praestaret? Cancro quidem cum sit furoribus
vacuus omnis armorum nervorumque vis ad lacessendum suppeditat; tibi cum ira
flagres, cum tui vix compos sis, nihil ad prosequendam vindictam relictum est.
Quid facies? Quos petes? Qua ratione aut ab sontibus poenas desumes aut
insontes afficies? Illis quidem quid auferes boni cum nihil habeant, quid
afferes mali cum paupertatem et dolorem et istiusmodi penitus nihil
timeant?". Tum Apollo: "En monitorem percommodum, qui minima offensus
molestia orbem velit ruisse, et me, qui tantas amiserim divitias, ut temperem
iubeat! Et possum quidem aestu sitique mortales perdere, Iuppiter, mortales,
inquam, perdere". Tum Iuppiter: "Vel possis quidem quidvis malorum;
tu tamen nihil feceris, quandoquidem nihil deinceps apud superos constituetur
quod ipsum non pateat mortalibus: namque philosophi quidem aut suis, quibus
callent, occulta pervestigandi artibus, aut tuis sortibus adiuti omnia
praevidebunt quae acturi simus et pro summa sua sapientia vitabunt. Quare malo
tuos istos animi aestus sedes. Desine casum hunc longius deplorare. Collige
ipsum te. De istis quidem improbissimis multandis alias erit ut mature
cogitemus, tametsi opinor alibi accidisse ut tantas divitias amiseris".
Tum Apollo: "Recte" inquit "admones; iam monenti pareo, et unum
est quod me recreet: habeant illi quidem sortes, interpretandi modum et
rationem nusquam habituri sunt. Sortes levi labore reintegrabimus, illis
curarum plus et sollicitudinis quam commoditatis et opportunitatis redundabit a
sortibus".
Dum haec apud superos
agebantur, Aestus, Fames, Febris et eiusmodi, quod audissent finem atque
interitum rebus parari, quo repentinum futurum laborem in tot mortalium milibus
mactandis minuerent iam tum primum caeperant vexare humanas res multaque
viventium capita absumpserant. Quibus calamitatibus acti, hominum genus, quod
deos votis aureis maiorem in modum moveri animadvertissent, ludos voverunt diis
maximos, et eos dictu incredibile quam grandi apparatu et theatri et scaenae
quantave impensa ornarint. Sino musicos, ludiones, poetas, quorum innumerabilis
populus omnibus ab provinciis exterisque usque ab orbis oris confluxerat.
Quicquid erat rerum dignarum ubivis gentium, id ad templi, ad sacrificiorum ad
ludorumque ornatum convexerant. Sino cetera: illud operis vastitate non
postponendum, quod theatrum circusque maximus aureis velis pictis acu, opus
vastum et incredibile, superne et quaque circumversus integebatur.
Honoratissimis in gradibus maximorum deorum simulacra exstabant, omnia circum
auro gemmisque nitebant, et quod aurum gemmasque vinceret specie quantum ab his
dignitate vincebantur, omnia floribus conspersa ad venustatem conveniebant,
omnia sertis fumorumque delitiis odorata et redimita. Tabulae insuper pictae
alabastricaeque mensae et varia speculorum miracula ad complendos non
admiratione, sed stupore homines accedebant; quin et, quo nihil esset non
refertissimum rebus admirandis, ipsa item extrema singula intercolumnia
singulis heroum statuis occupabantur. Tantis apparatibus superi ab caetu
hominum dignari tenerique se advertentes non poterant non facere quin
commoverentur. Quo effectum est ut etiam ii qui fortassis aut studiis partium
aut suorum commodorum spe causae hominum adversarentur sententiam verterent et
partim misericordia, partim muneris magnitudine commoti superiorem suam de
novandis rebus postulationem reiicerent; qui vero hominum res salvas cuperent,
quorum erat princeps Hercules, apud Iovem instabant ut mallet de se bene in
dies promerentes mortales beneficio obstringere quam poenis perdere: illud enim
valere cum ad gratiam, tum etiam ad laudem, hoc vero postremum nihil afferre
emolumenti et plurimum posse ad calumniae suspiciones augendas; et monebat ut
diligentius pensitaret votane haec facta religione haud minore quam impensa cum
Momi calumniis conveniant, sintne illorum qui deos nullos putent, an eorum qui
diis se acceptissimos et commendatissimos esse optent. Admonebat item ut Momi
naturam et mores animo repeteret: demum statueret an qui apud mortales, quibus
esset odio, deos invisos et infensos reddere aggressus sit, idem apud superos,
quibus se acceptum opinabatur, inimicos homines malo afficere neglexerit; et
quibus sit Momus odiis praeditus erga mortales satis patere quidem cum aliunde,
tum illinc, quod antea pene quam eos vidisset foeda obscenaque illa animantia,
quae vix nominare sine flagitio possumus, ad homines incessendos produxerit;
quare illud cogitent superi, an qui sui reprehensores superos fuerit tantis conatibus
prosecutus, idem barbae demorsae contumeliam non curarit. Postremo Umbram,
Noctis filiam, obtestans Hercules affirmabat (id enim maximum est deorum
iuramentum) quaeque insimulaverit in coena Momus adversus homines eadem ipsa
omnia sceleris et perfidiae esse refertissima, et Momi esse illa in deos
nefanda, non mortalium, dicta, quibus frequens apud philosophos abuteretur. His
addebat non intelligere prudentissimos deorum quid sibi vellet Iuppiter. Si
quid forte hoc pacto quaerat novandis rebus placere multitudini, aut si
tantarum impensarum praemium nihil praeter solum plebis plausum quaeritet,
semper quidem affuturos quibus non quaeque agas omni ex parte probentur, neque
defuturos inprimis honestissimos deorum qui consuetas res desiderent magis quam
ut novis delectentur. Tum et veteres illos optimos architectos qui tanta arte
hunc qui exstet mundum peregerint obsolevisse vetustate, et negare omnino omne
id fabrorum genus fieri quidquam posse elegantius, ornatius atque ad
perpetuitatem constantiamque aptius quam hoc quod factum tam omni ex parte
perplaceat. Quod si tandem novos iuvet architectos experiri, satis patere
quidem quid valeant cum aliunde, tum in Iunonis arcu exaedificando,
quandoquidem non iniuria vulgo dictitent non aliam ob rem structum fuisse ita
nisi ut inter struendum rueret. Haec Hercules non modo Iunone Bacchoque et
Venere et reliquis iunoniae factionis complicibus suffragantibus aperteque
iuvantibus edisserebat, verum et omni prope caelo probante et admodum
consentiente. At Iuppiter, cum horum admonitionibus motus et operis ineundi
difficultate diffisus, tum etiam votorum magnificentia illectus, facile de sua
pristina sententia abduci se passus est. Ergo praestitam occasionem reiciendae
ab se invidiae in Momum libenter usurpavit, tametsi cupiebat videri beneficii
gratia id facere quod esset ultro facturus. Idcirco "Homines quidem"
inquit "vestras, o caelicolae, delitias, quanti semper fecerim non est ut
referam, ni forte hac spe qua vota ineunt homines ipsi parum attestantur sibi
esse perspectum et cognitum animum erga se nostrum. Quis enim opem atque
auxilium suis adversis in rebus tanta spe atque exspectatione postulet nisi ab
eo cui se carum et commendatum meminerit? Neque velim existimetis me facili de
causa aut simulasse his non succensere qui praesentia fastidirent, aut
dissimulasse eorum nescire mentes atque sensus qui novas res cuperent. Quod si
quae in causa sint diligentius pensitabitis, non dubito factum meum ita
probabitis ut fieri commodius nihil potuisse affirmetis. Sino reliqua: quid
illud, quod patefactum quidem reddidi multorum disquisitione apud multos qui
nunquam huc mentem intenderant orbem hunc rerum ita demum omni ex parte
absolutum pleneque perfectum esse ut addi amplius nihil possit? Quo fit ut
congratuler hinc omnes in posterum abstrusas, ut ita dicam, futuras improborum
expostulationes hac in re. Sed quo ipse mihi vehementer placeam illud est, quod
aperte atque perspicue cognovi quali essent plerique ingenio praediti vario et
longe alio quam ostentarent. Atque inprimis noster Momus praeclare ipsum sese
indicavit quid fingendo atque dissimulando cuperet. Me fateor Momi versutiae et
commentitiae fallendi artes poterant adducere incautum ut vel Iunonem ipsam,
amantissimam scilicet, minus diligerem, id quidem maxime ubi eum fortassis
putabam malorum suorum taedio fractum atque effectum plane quem se fingebat.
Accedebat quod plura sapere variarum rerum usu et philosophorum commercio
videbatur, et bonis artibus excultum ingenium minime improbum et plurimum
diligendum arbitrabar. Quid mirum igitur si huic quem diligerem, praesertim
versuto et callido, inconsulte quippiam credebam? Non refero quantopere
elaborarit suadere, quanta sedulitate eniteretur impellere ut praeceps novis
rebus incohandis irrumperem. At mihi sapiens quidem illud dictum saepius in
mentem redibat, istos plus satis eruditos minus esse probos quam par est. Et
profecto sunt, ut videre licet, minime puri et minime simplices: nam alios
facto et re se habent quam fronte et gestu videantur, et insigni, quo plurimum
valent, acumine ingenii perverse ad malitiam abutuntur, et illic ubi se probos
et simplicissimos videri student, illic maxime fallunt dolo et improbitate.
Quam rem cum mature ita esse in Momo animadverterem, ferebam quidem iocosum
illum quem se videri affectabat quemve quasi personatus gestu verbisque agebat,
ut intimum vafrum et subdolum profundius scrutarer atque comprehenderem.
Interea cavebam omnia, credebam nihil. Nunc vero, utcumque res cecidit, commode
actum vobiscum interpretor, quando curarum et seditionum seminarium illud
deturbastis. Mallem, ut dixi, sine multitudinis motu, sine tumultu: sed
licuerit hoc Iunoni improbum atque detestandum e numero deorum quoquo pacto
extrudere atque exterminare. Nostrae prudentiae erit, qui Momi acerbitatem atque
furorem novimus, providere ne quid superiores pristinas ad perturbationes
addat, quo iterato et deorum quietem et res humanas vexet. Ea de re sic
institui: consceleratissimum rerum perturbatorem Momum, deorum hominumque
odium, quod nihil sinceri, nihil sani, nihil pacati, nihil tranquilli aut
cogitet aut studeat aut cupiat; quod felicium et beatorum beneque constitutorum
res atque rationes collabefactare, profligare atque funditus pervertere
elaboret assiduoque enitatur; quod miseros et immeritos aerumna calamitateque
obruere ac penitus obterere, quoad in se sit, nusquam desinat, nusquam
acquiescat; quod factiosis, audacibus, nefariis omnique scelere perditis utatur
et faveat; quod deterrimos instruat in facinus, incitet atque impellat; quod
dictis factisque pestem atque perniciem orbi rerum in horas commachinetur atque
importet, quodque in dies nefandae et detestabili improbitati suae multa
adaugere accumulareque minime intermittat; ne superos deos lacessere deorumque
delitias, homines, opprimere atque conficere pro sua libidine et desiderio
amplius possit, intra oceanum maximum fore relegandum et catenis ad cautem
commendandum, ita ut praeter summum os reliquo haereat corpore vadis immerso
aeternum".
Hic Iuno exhilarata
gaudio, Iovem exosculata, "Fecisti" inquit "ut decet, mi vir.
Sed unum est quod addi velim, ut qui tam petulanter, tam impudenter et praeter
id quod seque nosque deceat in feminarum genus invectus est, Momum, ex semiviro
reddas ut sit prorsus femina" Annuit Iuppiter. Relegatum ea de re commutilatumque
Momum posthac caelicolae commutilato etiam nomine "humum"
nuncuparunt.
Liber quartus
Vide quid possit
improbitas et nequitia, ut cum eius esse extinctam vim ad laedendum credas,
reviviscat: plus enim relegatus atque ad cautem obstrictus Momus dabit
perturbationum quam hactenus dederit solutus et concitatus. Nunc dignosces uti
Momo facinorum auctore deorum maiestas extremum in periculum sit adducta; tum
et tantum aderit iocorum et risus ut prae his superiora fuisse iocis vacua
deputes.
Iam vero omnis hominum,
ut ita loquar, torrentes in urbem confluxerant ludorum spectaculorumque gratia.
Canebant tubae, subaudiebantur tibiae ad modosque canebant crotala et sistra et
litui et omnis musica. Ipsae deorum superum testudines maximo istarum rerum concentu
resonabant. Addebantur his hominum murmur latum atque ingens multorumque
multiplices variaeque voces et huiusmodi, quo insolito atque immani sonitu
cuncti caelicolae ad rei admirationem exciti stetere. Interea Stupor deus,
omnium ineptissimus, quod sese Momum imitans in gratiam Iovis aliquo dicto
ridiculo cuperet insinuare, ut erat suapte natura subattonitus atque vastus, ad
Iovem properans agresti voce "Proh" inquit "o rex, tantum
hominum confremuit istic subtus, ut si omnes excories procul dubio totum caelum
contegas". Cui Iuppiter: "Censen tu hunc tantisper sapere? Et quid
tum, o Stupor? Et quid tibi venit in mentem? Sed tu perbelle quidem commentatus
es, namque ipse quidem semper frigens caelum cavisti ne nudum algeat".
Risere dii, hinc locis omnibus quibus terras contui possent late passimque, ut
cuiusque oculi atque aures ferebant, spectabundi haesitabant. Eccam patritiorum
pompam et civium ordines matronarumque deinceps nurumque greges cum sacris
lustrare urbem: aggreditur taeda et multa lampade noctem illustrem reddunt.
Virgines porticibus conspicuae urbem ornant atque carminibus cantuque ad saltum
et thiasos deos venerantur. Tantas res superi intuentes obmutuerant atque uti
quisque se receperat loco pendebat maxime intentus, maxime stupidus. Interea
pro vetere more, quod quidem in Promethei calamitate iam pridem factitarunt,
dii praesertim maritimi ad Momum consalutandum abque animi miseria levandum
plerique accesserant: Naiades, Napeae, Dryades, Phorceaeque atque huiusmodi. At
Momus flammulas summo aethere deorum cervicibus collucescentes, sublatis oculis
quos fletu et lacrimis prope consumpserat, despicatus, quid sibi tanta repente
oborta caelo lumina peterent rogavit, cumque rem intellexisset, tanti
spectaculi invidia commotus, perquam longissimum imo ab pectore suspirium inter
ingemiscendum emisit, quo ex spiritus anhelitu fusca et atra nebularum vis
totum per aethera sublime adstitit. Qua visa, Momus illico animum atque
ingenium ut aliquid pro sua consuetudine mali faceret contulit atque adeo institit
precari eos deos qui aderant, quoad impetravit ab iis quae ad se consalutandum
accesserant nymphis ut, quando aliud nequeant suam ad salutem conferre, hoc
unum ad levandas miserias gratissimum beneficium condonent: nebulam ipsam quam
valde possint late distentam protrahant et producant montiumque cacuminibus
annectant, quo tam inimicissimis et pessime de se meritis superis
voluptuosissimum suarum aerumnarum spectaculum intercipiatur. Calamitosi Momi
precibus obtemperarunt nymphae plurimumque in eo opere perficiundo laborantes
desudarunt, quo factum est ut cum delubra deum sacellaque atque aras adeuntes
mortales non perspici a superis nubium interventu sed solum audiri possent,
superi sese in periculum dederint. Nam quod suas quidem laudes ad tibiam concinentes
non audire modo, verum inprimis spectare quoque cuperent, quasi amentes e caelo
ad sua gaudia propius haurienda delabi instituerunt: mortalium ergo tecta
occupavere. Solus Hercules, quod fortassis invidorum aemulorumque insidias
reditusque difficultatem ad superas sedes vereretur, negavit aut deorum
maiestati convenire aut fieri id tuto posse, ut intra mortalium caetus superi
considerent et commiscerentur. Se enim monstra terrarum immanissima et
truculentissima prostravisse, subegisse, absumpsisse, hominum vero plurimorum
impetum et temeritatem consentientem ne ferre quidem uspiam potuisse: facile
moveri et esse quidem opinionibus fluidam, animis volubilem, libidinibus
concitatam multitudinem; facile impelli ad quodvis facinus, neque apud multitudinem
cogitari fasne sit an nefas id quod plurimorum consensus appetat; efferri
indomitam et ruere effrenatam neque revocari, neque retineri, neque satis
coerceri ullis prudentium monitis et rationibus aut bene consulentium imperio
posse; neque scire quidem vesanam multitudinem nolle quod ad arbitrium possit
esse; quae vero occeperit, flagitiosa et turpiane an non ea sint non curare,
modo perficiat, et atrocia non intermittere ni prius aliud quippiam atrocius
incoharit. Et quod magis miretur, in hominum numero sapere quidem per se ferme
singulos atque nosse quid rectum sit: cum tamen coiverint, omnes simul facile
insanire sponteque delirare.
Haec Hercules, sed dii
spreto Hercule in theatrum ingressi, atque inprimis Iuppiter pario ex marmore
ingentes innumerasque columnas maximorum montium frusta, gigantum opus,
admiratur, et tantas numero et tam vastas et in eam regionem locorum aut
tractas esse aut erectas obstupescebat intuens, easque tametsi coram intueretur
tamen fieri negabat posse tantum opus et prae admiratione et vidisse et
laudasse plus satis non intermittebat, atque secum ipse suas ineptias accusabat
consiliique tarditatem deplorabat, qui hos tales tam mirifici operis
architectos non adivisset potius quam philosophos, quibus uteretur ad operis
futuri descriptionem componendam. Evenisse quidem quod aiunt, ut quem semel
sapere aliqua in re tibi ipse persuaseris, hunc semper sapere et in omni re
doctum esse facile credas. Haec Iuppiter. Tandem lustrata urbe hominum turmae
sua per diversoria corpori se coenisque dederant. Quae cum ita essent, incidit
in mentem diis ut futuros postridie mane ludos scaenamque cuperent inspectare.
"Ergo, et quid agimus?" inquiunt inter se "Num ad nostras
redibimus sedes, an istic spectaculis visendis considebimus?". Spectaculorum
erant omnes cupientissimi, sed alii alibi, aut caelo, aut templis pernoctandum
statuebant. Postremo placuit sententia illius qui deorum quodam, ut opinor,
fato admonuit ut se quisque in suum quod in theatro esset simulacrum
converteret, quo abeundi redeundique viam et laborem vitarent quove cum
dignitate et sine ullius iniuria dignissimis locis conquiescerent. Unum erat
quod huic sententiae adversaretur: nam parum quidem occurrebat ubi locorum
illinc abreptas statuas apte deponerent. Dum haec animis deorum volvuntur,
Stupor deus, ut erat artubus torisque praepotens, rem se dignam aggreditur,
nullis id quod paret indicans, atque se in pedes coniicit ita vaste, ita
dissolute, ut subito furore efferri bacchantem diceres, facinusque ipsum
aggreditur alioquin ridiculum, sed pro re agenda eiusmodi ut factum subinde
omnes reliqui comprobantes imitati sint: ad statuam enim in theatro positam sui
similem applicans hos atque hos validiores deorum ut se adiuvent voce illa sua
agresti advocat, mox subiectis scapulis illa se onerat. Erat autem statua ampla
et ponderis immanis, tamen susceptam dorso solus asportavit et eam intra opacam
silvam reposito in antro, obscuro loco, collocat, inde in theatrum sudore
madidus rediens se vertit in statuam quam asportarat statuaeque vacuum locum
occupat. Id ipsum ceteri tametsi factum irriderent, sibi tamen faciundum
putarunt: itaque fecere, Stuporis exemplo, suam quisque quo visum est loco
statuam abdidere, neque defuere Cupido, Mercurius et huiusmodi talarium
alarumque adminiculis freti, qui extremo theatri fastigio prostratas
reliquerint.
Dum se sic dii in
theatrum dispositi ex animi libidine haberent, res omnium ridicula, sed
memoratu dignissima cum in silva ad Stuporis statuam, tum et in theatro
accidit. Nam <in> silva quidam Oenops philosophus idemque histrio, vetere
illa Momi contra deos disputandi flagitiosissima petulantia imbutus, dum ad
ludos concelebrandos properaret a praedonibus captus exstitit multisque
affectus plagis adducitur ad ipsam hanc specum in qua statua Stuporis dei erat
exposita. Quo cum appulissent praedones consilium ineunt praestetne captum
iugulare an vivum dimittere oculis effossis. At Oenops, tanto in periculo
constitutus, etsi in eam diem nullos deos, inane caelum esse crediderat et
praedicarat, nunc tamen ultimo in capitis periculo constitutus seque salutemque
suam caepit omnibus votis commendare maximis diis. Sed consilio inter se habito
praedonibus placuit habere quaestionem de homine et discere quanti se possit
redimere. Erat nox atra et intempesta: expediunt idcirco praedones quae ad
cruciatum faciant. Alii lorum comparant, alii virgas ulmo avellunt, alii ignem
cote excutiunt. Illis ita occupatis res evenit digna memoratu. Nam primis
igniculorum favillis collucescentibus videre visi sunt praedones in antrum
quippiam, et quidvis id quam statuam eiusmodi in loco adesse poterant opinari;
dehinc maioribus admotis luminibus manifesto adesse deos animadvertentes
obmutuerunt et ea re insperata perterrefacti e vestigio non sine clamore
relicto captivo abvolarunt. Vidisses hos amissis armis quasi temulentos
obiectam ornum fugiendo impetere, alios inter cursitandum offensa roboris
stirpe ruere atque alios offensis prostratis sociis istuc versus et illuc
versus praecipites ruere, eosdemque illiso ore inter surgendum interque
spuendum cum cruore defractos dentes iterato sequentium impetu quassatos ruere;
alios vero, viso deo, quasi alteram Stuporis statuam factos primum haerescere,
mox formidine debilitatos labescere. Quae rerum et temporum suorum facies cum
ita esset, non defuit sibi Oenops. Egressus enim antro et turbam concussorum
profligatorumque contuens sese confirmavit; inde, rapto de quodam telo, unum
egregie stupentem excordemque factum metu per capillum prehendit, prosternit
revincitque loro quo se praedones illi vincire caeperant. Mox hominem prae se
in urbem agit laetus et animo secum adiurans nihil minus credendum posthac quam
nullos esse deos quos tam praesentes extremo suo in periculo compererit. Itaque
haec in silvis Oenops; in theatrum vero ingressus, suos colludiones qui se
exspectabant offendit de se deque diis mereri non bene, nam supersedentis
tarditatem una et deos maximos quorum causa vigilarent exsecrabantur. Id sibi
primum visum est indignissimum, sed illud indignius, quod inter histriones servum
quendam vino madidum ad Iovis statuam pleraque nefanda exequentem offendit.
Pudet ea dicere: tamen institutum prosequemur. Immingentem ebrium intuens
Oenops, pro nova suscepta religione, caepit gravissimis dictis increpando
absterrere. At servus in eum versus "Eia" inquit "philosophe,
adesne? Siccine mecum agis? Unde in te nova isthaec repente religio incessit?
Qui deos aeternum negasti, frigentem hic statuam fictaque simulacra
veneraberis?", haecque referens non imminxisse modo erat contentus, verum
et alvi praeterea illic onus ponere parabat. Hic Oenops "O" inquit
"sceleste, non tu denique alium tibi locum ad tantam flagitii spurcitatem
desumes!". Tum barbarus et ebrius ille servus "Vos" inquit
"philosophi omnia esse deorum plena consuestis dicere". "At"
inquit Oenops "etiam praesentis deos irridens negligis!". Tum
barbarus "En" inquit "perdoctum philosophum! Deumne tu hoc
frigens et vacuum simulacrum aut opinaris aut nuncupas, quod quidem vix igne et
ferro adhibito fabri effecere ut vultus hominis potius quam monstri faciem
imitaretur? Dic heus tu, o aeneum caput, quanto malleo, quantis follibus durum
tuum istud os dolarunt fabri! Vel tu, Oenops, num simulacrum hoc vidisti ad
publicum aquaeductum pridie patera istac calonibus aquam fundere? Demum inutile
istud aes, cui nihil invenias quod probes praeter artificis manum, Iovis instar
venerabimur? Est nimirum illud perpulchre dictum quod in cavea saepius
decantari audio:
Qui fingit sacros aere
vel marmore vultus,
non facit ille deos: qui
rogat ille facit".
Tum Oenops et facti
indignitate et dictorum petulantia commotus "Malam" inquit "tuam
in rem! Non desines de istis tuis sceleribus cantando disputare! Appage te
hinc!". At barbarus, dum se Oenops iugulo apprehensum traheret, alvi afflatu
perobscene concrepuit atque "Appage tu" inquit "te, profane, dum
sacrum facio, o interturbator: num tu non perspicis quam hunc adolendi ritum
comprobent hi?". En iterum intonuit. Non potuit hoc amplius Oenops ferre,
sed ebrium pugnis calceque contusum suos intra foetores obvolvit atque gradibus
praecipitavit. At multatus ebrius ore illo suo liventi et male illibuto
impudicissime plorans "Ego tibi, quisquis es deorum" inquit
"cuius causa haec pertuli, ut eveniant aeque atque mihi evenere imprecor,
quandoquidem huc qui ullos esse deos semper negavit, quod se imitarer tua causa
tam impie in me grassatus exstitit".
Iuppiter haec intuens
intra se rem sic deputabat: "Credin me hoc noctis bene acceptum? Tametsi
hic suo utitur officio: quid aliud aut ebrius faciat, aut ab improbo audias?
Adde quod probe multatus poenas luit: plus enim cruoris effudit quam
ingurgitarit vini. Quod ne tanti quidem haec sunt ut ludorum voluptatem
respuas. Sint histriones obsceni ut lubet, modo nos in theatro esse nulli
noscant. Sed quid agimus? Quid si praesenserint? Neque enim illud factum
frustra opinor, quod praesentes esse deos philosophus ipse Oenops dixerit.
Verum et quid demum, quid tum? Utcumque ceciderit res, tamen praesente populo
venerabimur".
Haec cum effecisset
Oenops, rogantibus sociis quid ita religatum adduxisset hominem et quid se
praeter spem et exspectationem omnium ad religionis sanctimoniam dedisset qui
antea nullos credidisset esse deos, ordine quaeque sibi apud praedones
accidissent recitavit: sed ne satis quidem eum sibi notum esse deum
auxiliatorem dixit, quo propitio rem tam fauste atque feliciter executus sit,
et idcirco magis atque magis cupere sibi fieri cognitum cui habendae forent
gratiae tanti beneficii. Non illum quidem sibi visum Iovem, non Phoebum, non
Iunonem, non ex his celeberrimis et popularibus quibus templa constituta sunt,
sed rarum illum quidem atque insolitum. Hic histriones "At sunt
quidem" inquiunt "in theatro deorum omnium simulacra: eo dum revise
omnes, ut facilem et beneficum cum salutarimus, tum eundem patronum nostris in
malis auxilio advocemus: nam maiores illi dii iam tum fastidire humilium vota
assueverunt". Itaque fit: face igitur incensa circum statuas signaque
omnia recensendo, dum horum atque horum vultus contemplantur in Stuporem ipsum
incidunt, quo viso Oenops venerabundus procidit eiusque pacem precatus locumque
amplexatus adoravit. Viso Stuporis vultu et habitu, risere histriones tetram
illius deformitatem: nam stabat ille quidem ore late anhelanti, labio
propendulo, oculis concretis, temporibus lacunosis, auribus appensis et omni
denique facie ita affectus ut sui oblitus videretur. Cumque accuratius hunc
ipsum deum respectarent proscaenici socii, eo maiores etiam in cachinnos
efferebantur atque "En" dicebant "strenuum, en fugatorem latronum!".
Ergo Oenops "Enimvero istuc quidem est" inquit "quod in me
susceptam deorum opinionem multo confirmet, ubi unus multos, inermis armatos,
meticulosus audaces ad omnem crudelitatem accinctos sola praesentia exturbarit
atque profligarit".
Haec de se coram Stupor deus
audiens, etsi mente esset bardus et ingenio prorsus plumbeo, tamen neque
laudibus non movebatur neque vituperatoribus non irritabatur; tamen sic secum
rerum humanarum sortem atque conditionem versabat: "Et quidnam hoc esse
mali dicam apud mortales, ut praesentem deum irrideant, absentis simulacrum
vereantur atque pertimescant? Hic beneficii suspicione ductus inveteratam
contra deos opinionem opinionisque pervicaciam obliteravit; hi sole, luna et
istiusmodi manifestis deorum signis admoniti, quae se posse debereque credere
profitentur, inficiantur. Meum potuit aeneum simulacrum profano in loco immanes
et ferocissimos latrones a crudelitate absterrere, metu deorum flectere, ad
religionis cultum revocare; ipse deus et praesens qui sum studiosos artium quae
ad pietatem faciant et gratificandis diis deditos nequeo modestiores reddere.
Aut quo pacto istos ab impietate, si esse in nos impii prosequantur,
revocabimus?". Haec secum Stupor. Oenops vero, cum satis esset veneratus
fautorem deum, spectans non poterat pati tam neglectum esse hunc a quo
beneficium accepisset; idcirco rubiginem qua Stuporis facies admodum squalebat
ferro caepit abradere. Stupor vero deus abradentis molestiam libenter abegisset
ab se sed, ingenio tardus, quo id pacto posset non habebat. Alia ex parte
hominem quamvis inepte gratificantem ferendum ducebat, rictu tamen oris
interdum duriter abradentis ferrum subterfugiebat. Hunc dii, illius memores
dicti, qui ex hominum corio contegi posse caelum asseverarat, risissent cum ab
homunculo prope excoriari intuerentur, sed eadem sibi durioraque iam tum fieri
ab hominibus posse intelligentes, magis ut proprium periculum metuerent
propensi erant quam ut alienam insulsitatem riderent, et multa quidem ex parte
se omnes aeque gravi fore notatos rubigine non negabant.
Itaque haec in theatro,
quae scio videri posse iis qui nostris opusculis legendis delectentur si non
admodum, alioquin scurrilia, at nostris ab moribus et scribendi legibus aliena,
qui quidem semper et factis et dictis cavimus ne quid minus grave et sanctum
adoriremur quam litterarum religio et religionis cultus paterentur. Sed si
pensitaris quid conati simus cum totis libellis, tum hoc loco exprimere,
intelliges profecto principes voluptati deditos incidere in opprobria longe iis
graviora quam quae recensuimus: eaque de re nos velim magis secutos initam
institutionem iudices quam pristinam studiorum et vitae rationem. Sed plura
fortassis diximus quam volebamus, pauciora profecto diximus quam postulaverit
res. Verum de his hactenus: ad rem redeo.
Huiusmodi in theatro cum
agerentur, novae item apud inferos rerum iucundissimarum et inprimis
dignissimarum historiae initae sunt. Namque audierat Charon crebris defunctorum
rumoribus proximum fore ut omnis mundus vastaretur, iamque caepisse Parcas et Hispiades
populare hominum familias, omnia consenescere tristia et contabescere instantis
ruinae periculo et metu. Eo Charon adeo priusquam opus tantum tamque
ornatissimum deleretur instituerat hunc videre mundum, quem vidisset nunquam
visurusque postea esset nunquam; sed tantae peregrinationis viam, ut puta ab
inferis ad superos usque mortales, arduam esse audierat et paucissimis aut
cognitam aut concessam non ignorabat. Idcirco inire temere non audebat, et ex
omni defunctorum multitudine reperiebat neminem qui ullo abduci pacto posset ut
non recusaret eo redire unde solutus tetro corporis carcere lubens atque volens
profugisset: eamque ad rem dehortandam mortalium aerumnas multa ex parte
explicabant et viventium mala cum defunctorum libertate comparabant; postremo
affirmabant praestare quidvis malorum perpeti quam redire ad hominum vexationes
obeundas. Aderat fortassis inter defunctos Gelastus quidam philosophus alioquin
non vulgaris, quem tamen Charon diutius neglexerat non aliam ob rem, nisi quod
extrema egestate mortuus non attulerat quo portorium solveret. Cum eo igitur
paciscitur Charon, si se prius comitem apud mortales viaeque praemonstratorem
praestet, gratis transvecturum. Suscipit Gelastus id muneris tametsi invitus
viaeque inscius. Sed quid ageret miser, cum solvendo non esset? An eo in loco
aeternum consideret quo neque inter vivos neque inter mortuos censeretur?
Nimirum ergo omnia nota et ignota, dura acerbaque aggredi cogebatur, idque
maxime cum neque ex amicis neque ex ditissimis quidem quispiam appellebat, a
quo daretur ut stipem mutuo rogaret: defunctorum enim nemini plus nummo uno ad
portorii mercedem asportare a mortalibus unquam licuit.
Itaque Charon, dum ad
iter accingitur, subducta navi multum ac diu cogitavit conferatne hanc alicubi
apud inferos relinquere; tandem, quod ita praestare arbitrabatur, navim
reversam sustulit suoque imposuit capiti ut staret quasi pusillo mapalio
opertus, manuque remum collibrans graditur. Arduum et praeter aetatem
firmissimum senem proficiscentem turbae admirabantur. Verum illi inter
pergendum in sermones incidere istiusmodi, ut quaereret Gelastus de Charonte
quid ita navim portaret aut quidni praestitisset eam in litore subductam
sinere. Cui Charon "Et quid" inquit "tibi defunctorum ineptias referam?
Nemo est illorum quin me suis velit imperiis navigare. Quin et fuit pridie
polyphagus nescio quis, qui quidem rapto remo se pro argonauta gereret. Illi
ego 'Et quis tu?' inquam. 'Classiumne fuisti fortassis praefectus in vita?'
'At' inquit ille 'nostra in familia olim fuere plures remiges'. Ego illius
insolentiam non tam admiratus quam ineptias risi, com viderem tam impudenter et
temere id profiteri et aggredi cui esset rei minime aptus. At ex comitibus
defuncti unus 'Mentitur' inquit 'o Charon, ne pictum quidem uspiam aut hic aut
suorum aliquis vidit mare: alpibus enim aeternum lapidicinis ascripti
exercebantur'. Is cum ita fuerit insolens, quales tu putas futuros ceteros aut
tranandi studio, aut insolescendi voluptate, si fortassis detur relicta illic
navi occasio?". Hic Gelastus "Quid" inquit "illi quidem si
neque insolentia neque arrogantia, sed discendi libidine id ita
aggrederentur?". Tum Charon "Novasne" inquit "isthic, ut
apud inferos artes condiscant? Minime: sed temerarii sunt. Vel quis hoc ferat
ut Charontem remigare quisque instruat?". Tum Gelastus "Atqui hoc
est," inquit "o Charon, quo fit ut abs te accepisse me iniuriam
possim dicere: tu quidem insolentes plerosque omnes istiusmodi transportasti,
me vero, qui nulla ab re magis absum quam a petulantia et importunitate, longum
repudiasti". Tum Charon: "Negasne" inquit "te petulantem et
importunum exstitisse? Annon est petulantia nostros sibi deposcere labores dari
gratis? Nulla item importunitas est centies negatam rem dura et nusquam intermissa
assiduitate expostulare?". Tum Gelastus: "Deplorare meum incommodum
erat istud, o Charon, non tuos labores poscere, quando tam difficilem te atque
inexorabilem praestares erga me, qui nihil sibi relictum haberet rerum omnium
quod conferret, praeter preces". "At" inquit Charon
"suspendio opus fuit priusquam istud admitteres in te, uti tuae res omnes
solis in precibus niterentur". "Id" inquit Gelastus "fateor
factum inconsulte, at factum tamen ratione fortassis non improba. Namque id
quidem statuebam apprime fore philosophantis, ut quam curarum alumnam
praedicant, pecuniam, funditus a me abiiciendam ducerem ac me totum rerum
difficillimarum rarissimarumque cognitioni et studiis traderem animo soluto et
libero". Tum Charon "O" inquit "stultitiam irridendam, si
id credas, coercendam, si id tentes, in rebus difficillimis et rarissimis, ac
praesertim in paupertate, versari animo libero et soluto! Tu quidem, si forte
dabitur ut possis id sine molestia, erunt res ipsae non difficiles; sin erunt
difficiles, plus olei et operae exigent quam ut te animo esse curis vacuo
possis affirmare. Pecuniam demum curarum alumnam praedicant: quaeso, quinam id
praedicant? Qui sapiunt, inquies. Tanti ergo est sapere apud philosophos, ut
algendo et famescendo vitam precario et per mercedem trahere quam in rerum
affluentia opulentiaque malint? At tamen vivunt, inquies. Non est vivere, o
Gelaste, sed luctari adversus mala: dum ita te habes in vita ut esurias
algeasque, hoc est ut miser sis. Aut vos denique, et quid sapitis, in vobis
primis sapitis, philosophi?". "Num" inquit Gelastus
"quaeris quid sapimus? Etenim omnia novimus, siderum, imbrium, fulminum
causas et motum; novimus terras, caelum, maria. Nos artium optimarum
inventores; nos quae ad pietatem, ad vitae modum, ad hominum gratiam
conciliandam faciant nostris monitis quasi lege data praescribimus". Tum
Charon: "Egregios audio et venerandos homines, si se aeque re operaque
habent atque dictis. Sed vos, dicito, his vestris legibus ut sint homines
hominibus praesto, ut opera et obsequio faveant et opitulentur etiam num
ascribitis?". Tum Gelastus "Et istud" inquit "ad officium
inprimis ducimus". "Officii igitur erit" inquit Charon "eos
quibuscum degas levare aerumnis, levare incommodis, fovere iuvareque opera?".
"Erit quidem" inquit Gelastus "ut dicis". "Tu igitur
officio legique hoc dato" inquit Charon "hanc praegravem cymbam
adiutato ut feram". Tum Gelastus: "Atqui est quidem tuum quoque hac
in re pensandum officium: quare, Charon, videto ne praeter officium siet enecto
fame atque precario et per mercedem qui vitam traxit tantum onus nobis velle
imponere". Tum Charon: "At saltem remum". "Ne tu
negasti" inquit Gelastus "licere apud inferos aggredi artes novas!
Calamum didici per aetatem tractare in vita, non remum".
Itaque haec inter
proficiscendum confabulabantur quoad pervenerunt ad extremum orbis limbum quem
orizonta nuncupant, geminae in quo e regione maximo interiecto secessu portae
ab inferis patent, altera quae in oceanum, altera quae in continentem orbis
dirigitur, estque una harum ebore apta atque intercrustata, altera vero cornu
humilem ad cryptam adacta. Placuit Charonti, quod satis aquarum per aetatem
vidisset, per tellurem iter facere sed, quod rapido ascensu insuetoque
peregrinandi labore fessus desudaret, primo in pratulo recubuere. Est Charon
sensibus acutissimus, visu, auditu et huiusmodi supra quam possis credere. Cum
igitur ad eius nares florum, qui passim in prato aderant, applicuisset odor,
illico se ad flores ipsos colligendos et contemplandos dedit tanta voluptate et
admiratione ut ab his aegre ferret abstrahi. Admonebat enim Gelastus plus
itinerum superesse quam ut puerilibus florum delitiis legendis insisteret:
maiora enim esse quae aggrediebantur, flores quidem suppeditari mortalibus adeo
ut etiam ab invitis conculcentur. Ille etsi nihil invitus magis posset audire,
ductori tamen parendum ducebat. Dehinc inter proficiscendum Charon tantam in
natura rerum amoenitatem et varietatem spectans, colles, convalles, fontes,
fluenta, lacus et huiusmodi, de Gelasto caepit quaerere unde tanta vis
pretiosissimarum rerum manarit mundo. Cui Gelastus, quo se disertum philosophum
ostentaret, huiusmodi ordiri rationem aggressus est. "Principio nosse te
oportet, o Charon, universa in rerum natura nihil aut factum aut fieri posse
vacuum causa. Causas quidem eas interpretamur quae ad motum conferant atque ad
quietem. Quietem motus finem statuimus, motum vero intelligi volumus cum ex hoc
fiat quidvis aliud. Et nosse oporteat versari eum quidem motum aut in prima
aeternaque rerum firmitate formis imbuenda aut in formarum mutabilitate
varianda, quod naturae artificium alii opinati sunt in substantia accidentibus
iungenda versari. Sed, ne longe frustra disputem, haec tu hactenus, o Charon,
intellextin?". Negavit Charon grandioribus verbis pusilliora aut ordinatius
confusiora audisse uspiam dici. Tum Gelastus aliunde repetito dicendi exordio
rursus ordiebatur: eum quidem qui principio quippiam facturus esset, mente et
cogitatione sibi adscripsisse quae facta cuperet hancque animo conceptam et
consignatam speciem nuncupasse formam; proxime sibi comparasse, seu simplex
illud fuerit seu mixtum coactumve partibus, quippiam cui aut formam adigeret et
quasi obinvolveret aut quo formam ipsam compleret solidamque redderet: hoc vero
postremum nuncupasse materiam. Sed ne potuisse opus nisi arte viaque adhibita
perficere qua facile exque animi sententia materiae formam coniungeret et
couniret: idque artificium appellasse motum. Hoc item Gelastus cum dixisset,
interpellavit Charon "Atque" inquit "ego quidem audieram mutua
quadam concordique lite rerum omnia facta esse et in dies accessionibus
decessionibusque minutarum partium immutari. Sed visne quid sentiam referam de
te? Putaram vos philosophos omnia nosse sed, quantum ex te video, nihil nostis
nisi ita loqui ut de rebus notissimis verba facientes non intelligamini. Vel
quid ego tibi credam temere quando tu quidem, qui primus rerum conditor quid
animo habuerit te non ignorare affirmas, profecto, quod pueris evenit, domum
redeundi viam oblitus es? Quod si recte coniector, nos ad tartareas plagas te
duce praelongo habito itinere redivimus. En atram Stygis caliginem, et istinc
audisne fremitum et eiulatus excruciatorum sontium?". Dehinc lupum
ostentans "Anne tu" inquit "vides illic defuncti errantem animam?".
Hic Gelastus arridens "Ne mirere" inquit "o Charon, namque non
plus semel hac iter feci. Sed, quo rem intelligas, quae tibi eiulatus vox visa
est litui est sonus a mortalium inde castris delatus aura et, ni fallor,
secundas excubias canunt. Caliginem quoque ipse unde tanta sit miror, miror et
ipsum te, quod defunctorum hic animas videre alias praeter me praedicas".
At Charon: "Is profecto ipse est rex; eo dum o rex!…". Tum Gelastus:
"Lupumne tu regem vocas? Id quadrupedum genus apud mortales etsi noxium
est, mortale tamen est animans et longe ab hominum natura defunctorumque animis
alienum". Interea lupus ipse multo morsu raptis quodam ex cadavere
visceribus mandendo restitabat. "Ergo tibi" inquit Charon "iam
fit ut assentiar: non enim apud inferos manducant. Sed illud animans putavi
esse regem quendam quicum mea in navi Peniplusius praeco elegantem habuit
disceptationem, quam redeundo narrabo, ut voles". Tum Gelastus
"Volam," inquit "sed tu reges esse lupos qui vidisti aut audisti
unquam?". Tum Charon "O te philosophum" inquit "bonum, qui
siderum cursus teneas et quae hominum sint ignoras! Ex Charonte adeo portitore
disce ipsum te nosse. Referam quae non a philosopho (nam vestra omnis ratio
nisi in argutiis et verborum captiunculis versatur) sed a pictore quodam memini
audivisse. Is quidem lineamentis contemplandis plus vidit solus quam vos omnes
philosophi caelo commensurando et disquirendo. Adsis animo: audies rem
rarissimam. Sic enim aiebat pictor, tanti operis artificem selegisse et
deputasse id quo esset hominem conditurus; id vero fuisse aliqui limum melle
infusum, alii ceram tractando contepefactam, quicquid ipsum fuerit, aiunt
imposuisse sigillis aeneis binis quibus altero pectus, vultus et quae cum his
una visuntur, altero occiput, tergum, nates et postrema istiusmodi
impressarentur. Multas formasse hominum species et ex his selegisse mancas et
vitio insignes, praesertim leves et vacuas, ut essent feminae, feminasque a
maribus distinxisse dempto ab his paulo quantillo quod alteris adigeretur.
Fecisse item alio ex luto variisque sigillis multiplices alias animantium
species. Quibus operibus confectis, cum vidisset homines aliquos sua non
usquequaque forma delectari, edixisse ut qui id praestare arbitrarentur quas
placuerit in alias reliquorum animantium facies se verterent. Dehinc suas quae
obiecto in monte paterent aedes monstravit atque hortatus est ut acclivi
directaque via quae pateret conscenderent: habituros illic omnem bonarum rerum
copiam, sed iterum atque iterum caverent ne alias praeter hanc inirent vias: videri
arduam initio hanc, sed continuo aequabilem successuram. His dictis abivisse;
homunculos caepisse conscendere, sed illico alios per stultitiam boves, asinos,
quadrupedes videri maluisse, alios cupiditatis errore adductos in transversos
viculos delirasse. Illic abruptis constreposisque praecipitiis sentibusque et
vepribus irretitos pro loci difficultate se in varia vertisse monstra et
iterato ad primariam viam rediisse, illic fuisse ab suis ob deformitatem
explosos. Ea de re, comperto consimili quo conpacti essent luto, fictas et
aliorum vultibus compares sibi superinduisse personas, et crevisse hoc
personandorum hominum artificium usu quoad pene a veris secernas fictos vultus
ni forte accuratius ipsa per foramina obductae personae introspexeris: illinc enim
contemplantibus varias solere occurrere monstri facies. Et appellatas personas
hasce fictiones easque ad Acherontis usque undas durare, nihilo plus, nam
fluvium ingressis humido vapore evenire ut dissolvantur: quo fit ut alteram
nemo ad ripam non nudatus amissa persona pervenerit". Tum Gelastus:
"O Charon, fingisne haec ludi gratia an vera praedicas?".
"Quin" inquit Charon "ex personarum barbis et superciliis
rudentem hunc intorsi ipsoque ex luto cymbam obstipavi".
Huiusmodi rettulerat
Charon iamque non longe ab theatro aberant. Ergo de Gelasto sciscitatus didicit
et quinam tantam molem coacervassent et quos ad usus haberetur, et cum theatrum
illud fabulis agendis factum intellexisset vehementer risit hominum ineptias,
qui tantos labores consumpserint demoliendis montibus ut immanem ipsi molem
construerent. Tum et stultitiam patrum detestatus est, qui tantas perdendi
temporis illecebras in urbe paterentur. At Oenops, ludio ille philosophus de
quo supra ridicula illa recensuimus, cum procul vidisset cymba opertum
adventantem, ratus novos adesse histriones secessit cum turma eorum qui
aderant, ut si quid scaenae Charon commentaretur ex insidiis annotarent. Medio
in theatro cum illi advenissent, "Etenim quid tibi haec, o Charon?"
inquit Gelastus. Negavit Charon videri sibi aut theatrum aut ornamenta
istiusmodi talia ut ulla ex parte cum floribus quos apud pratum excerpserat
essent comparanda. Et mirari quidem professus est quod pluris faciant homines
quae possint vilissimorum manu assequi quam ea quae ne cogitatione quidem satis
queant attingere. "Et flores" inquit "quidem negligitis: saxa
admirabimur? In flore ad venustatem, ad gratiam omnia conveniunt. In his
hominum operibus nihil invenies dignum admiratione praeter id, ut vituperes
tantorum laborum tam stultam profusionem. Dehinc tu, o" inquit
"philosophe, principio ex te fieri certior volo, quandoquidem, ut
praedicas, multa hoc loco quae ad vitam bene degendam faciant in medium
afferuntur, cuinam ea commodent. Maioribusne natu? Stultum si eos aggrediantur
commonefacere, qui didicerint usu quae conferant. An adolescentibus? Ineptum
eos velle dictis regere, qui non auscultent. Proxime item velim dicas ab
poetis, nequaquam a philosophis vitae degendae rationes expetant". Tum
Gelastus: "Sit quidvis, Charon: quae tamen ab poeta cum voluptate audias,
ea capias facilius, imbues plenius, servabis firmius. Quod si praeterea videris
hosce gradus consessu tantorum virorum oppletos, neque ineptum opus dicas neque
una interesse pigeat. Et profecto, uti aiunt, non sine deo tam multi coeunt,
quando usu invenias ut quos singulos flocci penderis, si coierint venereris et
prae reverentia obmutescas". Tum Charon, ad unas atque alteras deorum
statuas versus, "Dic, Gelaste," inquit "ne tu hos singulos
flocci pendis, aut si coirent venerarere?". Tum Gelastus subridens:
"Solus si essem fortassis riderem, plures si adessent alii
venerarer".
Interea, dum statuas
spectant, Charon seposita ab fornice audire visus est submissa voce
colloquentem ac dicentem: "Trita haec sunt quae Gelastus confabulatur,
deque tota istorum re nihil est quod probem quam personatum Gelastum hunc: nam
ei profecto nihil fieri potest similius". Audit et alios Charon dicentes
fuisse bene doctum Gelastum in vita et prudentem, alios contra fuisse quidem
stultum et procul dubio delirasse cum ceteras ob res, tum quod tantis
iniuriarum offensionibus lacessitus seque dignitatemque suam neglexerit per
animi pusillitatem. Neque probare illius vitae rationem, qui perseveravit
omnibus aeternum prodesse cum se multi in dies lacesserent et laederent. Non
illis quidem cum Oenope rem fuisse, qui se ad propulsandas vindicandasque
iniurias magis quam ad firmandam insolentium temeritatem fortem esse ostenderet
nimis ferendo. Quae Oenopis verba cum etiam Gelastus subaudisset vocemque loquentis
cognovisset, "Velim" inquit "videas, o Charon, quam is quidem
iactator sese perstrenuum praestet". His dictis in obloquentes proripuit.
Illi propius accedente mortuo et apertius perspecto et cognito obstupuere, et
Oenops nihil sibi antiquius duxit, quam ut relicto captivo obvolaret extemplo.
Ergo ad Charontem rediens Gelastus "Et qualis" inquit "tibi
visus est noster athleta, qui meo primo pedis motu verterit terga? Et hominem
demiror, cum mihi in vita apprime fuerit familiaris, aut ea de me oblocutum aut
me viso metu potius quam voluptate affectum. Sed nunc intelligo fictum hominis
ingenium et ex tuo illo personandorum artificio obductum; fronti fictam, non
veram benivolentiam exstitisse, qui profecto neque viventis patientiam totiens
lacessivisset neque defuncti nomen impeteret, si amasset". Inter haec
dicendum eccum saxum grave cymbam Charontis incutit sonitu maximo (illud enim
ebrius ille barbarus multa vi impulerat) quo ictu Charon absterritus inclamavit
ut pleno intonuerit theatro. Gelastus vero ira concitus in ebrium se
conferebat, at Charon "Desine," inquit "o, desine, Gelaste! Tu
illos umbra, illi nos saxis petunt. Sat peragrati sumus. Hic praeter ineptias
et improbitatem comperio nihil quod vidisse non pigeat, et ineptias odisse et
improbitatem evitasse conferet. Abeamus!". Charontem revocabat Gelastus,
ille saltitans una et tremens diffugiebat. Hoc spectaculo theatrales illi dii
multo risere, quo risu factum est ut maximam, inauditam insperatamque in
calamitatem inciderint omnes dii. Id qui evenerit proxime recitabimus, si prius
quae Charonti etiam obtigerint insperata et cognitu festivissima succincte
rettulerimus. Audito igitur statuarum risu, Charon "Ridete" inquit
"ut lubet: ego rideri quam caedi malo". Putabat enim proscaenicos
illos turbatores risisse, tametsi admiraretur retinnire omnia deorum risu. At
Gelastus, non insuetus theatri, sese confestim in pedes conicit atque:
"Papae, o Charon, papae, siste, adsum" vociferabat. In quem versus
Charon expavefactum admiratus "Quid tibi est?" inquit "Saxone
percusserunt?". Ille vero vix sui compos, titubans, haesitans
"Audistin" inquit "statuas?". "Quid tum?".
"Risere" inquit. "Quid igitur?" inquit Charon "Malles
plorasse an pro metu reris statuas risisse?". Non se poplitibus
substentabat Gelastus metu exsanguis factus, eaque de re Charontem sequens
primo dato in trivio ab urbe reversam cymbae puppim arripit atque: "Hic,
quaeso, siste, o Charon". Ille vero "Vestros" inquit
"mortalium personatos et fictos mores odi, quandoquidem tu qui saxa non
metuebas risu te absterritum simulas, et qui tantopere negabas velle te huc ad
mortalium sedes regredi, hinc invitus divelleris. Et habeo tibi nullas gratias
si me a colligendorum florum voluptate abstraxisti et ad iurgia rixasque
adduxisti. Quod si non saxa modo, sed etiam risus hic statuarum pertimescendus
est, quis hinc non aufugerit? Sed tu ut lubet, ego vero abeo". Tum
Gelastus duri decrepiti acerbitate motus "Ne tu" inquit "o
Charon, argutiis et verborum captiunculis quibus versari philosophos praedicabas
nunc apud nos uteris!". "Etenim tanti est" inquit Charon
"disertis congredi: namque apud doctos discimus". Tum Gelastus sibi
consulens non quo Charontem levaret onere, sed quo illum, si se dimisso
perseveraret citato gradu fugiens, abire interpellaret, "Ego vero"
inquit "ex te quoque, ut par est, aliquid ediscam oportet. Cedo: remum
tractare enim assuescam". Tum Charon: "Remumne in sicco?". At
ille rapto remo inter reptandum scapulis gestiebat, "Sic" inquiens
"clava se habebat Hercules, quod si mihi in theatro affuisset is remus,
sceleste Oenops, quem tantis officiis et beneficiis prosecutus sum, luisses.
Nam te quidem inter mortales monstrum petissem et cuius improbitatem atque
nequitiam patientia pertuli percussissem". Tum Charon "Gelaste"
inquit "huc velim animum adhibeas: annos ego multos atque item multos
portorio affui, cum innumeris sapientibus et usu doctis habui commercium de his
rebus. Hoc velim scias: stat omnium sententia prudentissimorum non semper
oportere uti patientia, statuuntque ceteris in rebus apud mortales id
observandum, ut nihil nimis, solam vero patientiam aut nullam penitus aut
omnino in vita nimiam habendam. Et fortassis non pauciores reperias qui doleant
quod patientes fuerint quam qui non fuerint". Tum Gelastus "O"
inquit "dictum prudens! Ex me id iudico: plus quidem molestiae ex
patientia subivisse me possum asseverare quam ex intolerantia offendisse".
His confabulationibus ad
mare iam devenerant, quo loci cum circumspectans haesitansque Gelastus
constitisset, subirritatus Charon "Istic" inquit "etiam
haeres?". Tum Gelastus: "Nolim succenseas" inquit "o
Charon, tuam enim rem aeque atque meam ago. Ego me tam vasto in aequore, nullo
se praebente calle nullisque recognitis semitis, ducem futurum commodum non
profiteor". Tum Charon "Pronam" inquit "audivi esse ad
inferos viam, modo petas id ubi non videas neque audias quippiam. Eo igitur
versus cursum dirigemus, ingressi navim". Tranquillo mari navigans, Charon
"Vides" inquit "minus credendo vobis philosophis ut mecum fiat
commodius. Tu, si te audissem, iam tum me suspicionibus obruisses; at non
credidi, ergo opportunissime navigamus. Sed mare hoc cur te simulasti metuere,
qui Acheronta videras? Non inficior videri hoc vastius, sed nego aut profundius
esse aut turbulentius. Verum et quidnam illinc monstri ad nos perscindens mare
illabitur? Ne non fortasse hoc illud est quod ad inferos tantas dedit
tragoedias et fluctibus versari ferunt? Proh et quam optato advenit, quod enim
et quale esset potui nunquam intelligere! Id nunc aderit coram atque
conspiciemus, et bene est. Nunc demum iuvat mortales adivisse. Atqui num vides?
Eccam rempublicam natantem!". Tum Gelastus "O" inquit
"Charon, et quid tibi in mentem venit ut tam apte rempublicam appellares
navim? Quod si eam cupiam verbis admodum expingere, nihil afferam illustrius.
Istic enim aeque atque in republica imperant pauciores, parent plurimi, et hi
parendo condocefiunt imperium gerere; tum et quae ad animi libidines student,
quae ad spem parant, ad salutem curant, omnibus temporibus accommodant atque
obsecundantur. Adde quod istic, uti in republica, aut unus aut aliqui aut
plures totam rem moderantur, qui quidem si observant praeterita, cogitant
futura, circumspectant praesentia et omnia ratione et modo aggrediuntur et
tractant, volentes sibi nihil rerum bonarum potius esse quam universis, reges
hi sunt et bene agitur; sin contra ad se omnia referunt et cuncta prae iis quae
collibuerint negligunt, tyranni sunt et pessime agitur. Tum si parent doctis,
si praesto sunt, si adsunt volentes atque agunt unanimes quae imperantur,
aequabilis tunc et firma est res; sin discrepant, si recusant et respuunt,
perturbatur illico respublica atque in discrimine est. Sed quid agimus
inconsultissimi? Imminenti ab calamitate non refugimus: incidimus in piratas!".
Piratarum audito nomine, Charon, quo nihil tetrius atque truculentius inveniri
posse persaepius intellexerat, expavit; verum etsi perterritus contremisceret
dissimulavit, quo Gelastum mordere dictis prosequeretur. "Et quantis"
inquit "Gelaste, subterfugiis incohatum ad inferos reditum interpellabis?
Nunc te incerta navigandi ratio detinet, nunc te praedonum cognita pericula
detorquent: quos quid est cur metuas, cui ne vitam quidem possint auferre? Sed
abigenda est haec molestia: te in sicco relinquam". His dictis navim ad
litus vertit et multa vi remo impulit. Sensit Gelastus Charontem expavisse,
idcirco arridens "Tibi quidem" inquit "o Charon, recte fuga
consulis. Nam si cepissent callosum navitam suos inter infelicissimos remiges
mancipassent; adde quod promissam istam tuam barbam et capillum, te imitati, ad
rudentum opus convulsissent". Itaque Charon cum ad litus appulisset
offendit incolas, qui propinquis balneis diversabantur, praevisis piratis fugam
capessentes atque admonentes ut crudelissimos et consceleratissimos vitarent
montesque conscenderent. Negavit Charon suam posse navim aut relinquere aut
longius asportare: erat enim fessus et defatigatus, obnixius dum litus peteret
navigando. Eam igitur subduxit in contiguam paludem lutoque immersit, se autem
inter proximos palustres calamos abdidit. Gelastus vero cryptam conscendit
atque illic intra cespitem delituit.
Eccum e vestigio piratas,
facta praeda, alacres e navi certatim proruentes: sese in balneum committunt
ibique ludi gratia crapulonum regem miro et inaudito instituto inter se creant.
In coronam enim circumsistunt, mediis vero aquis unus demittitur mus et ad quem
mus nando applicuerit, is habetur rex. Hoc sortis genere ex sociis navalibus
quidam bene honestus factus exstitit rex. Ergo, dum animi omnium risu et ioco
soluti lasciviunt, quaeque ad balneorum voluptates convenirent iucundissime
exequuntur. Interea lixa, unus ex libertinis navalibus abiectissimus, per
calonum et lixarum conspirationem sese quoque ludi gratia regem constituit.
Huic ille prior sorte creatus rex, quod a plurimis impeteretur, ultro cessit.
Tota perinde res agitur ludo et miris iocis ridetur, factumque probant omnes et
inprimis archipirata, atque favet. Hinc novus rex sese firmare iuramento
concrapulonum fidem ait cupere: idcirco in medium iubet afferri atram fuligine
patellam qua omnes, veluti in ara, etiam inviti iurent, quoad ipsum ad
archipiratam deventum est: is, quod negasset iurare, raptus ante regem, de
collegii sententia pro contumace damnatus est: atque erat in contumaces poena
ut immergerentur. Itaque is ut ceteri contumaces immergitur, verum enimvero ita
immergitur ut inter manus suffocaretur. Perterrefactis archipiratae
familiaribus et enecati casu et coniuratorum audacia vix sui erant compotes. At
manus regia, successu exultans, repente puppim clavumque occupant libertatemque
omnibus suo esse facinore partam proclamant et congratulantes, petito mari
alto, qua venerant abeunt.
Hunc archipiratae casum
Gelastus quasi ab specula confestim Charonti renuntiatum accurrit. Nihil unquam
avidius accepit Charon: ergo, ut erat a vertice ad vestigium usque obsitus et
foedissimus, in medium prae gaudio animi resultans, Gelastum amplexus est
eumque exosculando totum effecit lutulentum, "Nunc" inquiens
"resipisco. Potuitne commodius cuipiam cecidisse res? Et illud abrasum
ulcerosumque caput quis putarit tantos fovere animos? Nunc illi ultro suam erga
me omnem iniuriam remitto: qui si affuisses, Gelaste, risisses". "Tua
ego risissem" inquit Gelastus "iniuria?". "Quidni"
inquit Charon "cum et ipse, qui tunc periculi metu plorarim, nunc rideam?
Namque istic ad hunc salictae truncum unus et item alter conservi in
coniurationis consilium concesserant. Ego eorum adventu perculsus alter
immobilis eram prope factus truncus: prostratum enim me habebam luto et solo
sublato vultu auscultabam quid tractarent. Eorum verba vix subaudiebam, sed
audire visus sum dicentem: 'Sat est. Hoc probo: submersum suffocabimus'. Me
illico pavor occupat, oblitum mei. Compositis rebus, illi quae simulandi gratia
quasi exposituri attulerant mactatae pecudis intestina et ventres in eos
confertos, quibus delitescebam calamos ad me coniiciunt. Atque inprimis
egregius ille rex raso capie caprae caput ita iactat, ut ni declinassem
luissem: optavi quidem mihi tum cymbam aeque atque in theatro adesse pro
casside, atque: 'Hui' inquam 'etiam demortuae hic arietant pecudes?'."
Haec Charon, atque e vestigio rapta cymba sese undis committebat. Hortabatur
Gelastus ut balneis ablueretur ne tantis sordibus illibutus apud inferos irrideretur.
Negavit Charon id se facturum affirmavitque apud inferos malle sordidissimus
videri quam apud mortales lautissimus, modo teterrimas belluas, homines,
fugiat. Tum Gelastus "Novi" inquit "quid consilii captes: vis
enim tu quoque hinc ad inferos personatus redire".
Haec Charon atque
Gelastus. Demum petentes altum et quae de piratis et rege recensuimus
repetentes, incidit ut Charon Peniplusii illius cum rege habitam disceptationem
pulcherrimam et dignissimam recensere institueret, quam viso lupo se in reditu
recitaturum foret pollicitus Charon. Sed ab historiis recitandis novum ortum
periculum interturbavit. Namque verticibus turbinibusque obvolvi mare atque
atrocissime sese versans insurgere et scopulis illuctare incipiens omnem
salutis spem navigantibus ademerat, praeterquam ut ad proximam cautem
asperrimam et difficillimam applicarent. Eo igitur confugientes obstrictum
vinctumque Momum reperiunt, tantarum causam tempestatum quaerentem vel magis
quam suas aerumnas dolentem. Tempestatem quidem fecerant rixantes inter se
venti: namque atrocissimi apud theatrum facinoris ab se admissi culpam quisque
in alium quempiam reiiciendo altercabantur, inde in tantos irarum impetus
exarsere tantosque motus excivere ut mare caelo commiscuerint. Exciderat enim
ut Charonte ab theatro diffugiente tellus omnis risu deorum commota
supploderet: quo risu Aeolus excitus ex antro rem sciscitatum evolavit. Venti
antro inclusi, animis auribusque suspensi atque solliciti, vocem audire visi
sunt Famae deae quae quidem stridentibus alis aethera pervadebat, deorum
Charontisque factum decantando. Ventos idcirco tanta illico invasit
spectandorum deorum ludorumque cupiditas ut refractis claustris, repagulis
deiectis obicibusque convulsis temerario impetu una omnes in theatrum irruperint,
tam multa immodestia ut super intensum theatri velum vinclis abruptis cum parte
muri traherent in ruinam, sequentibus una statuis quas fastigiis murorum
nonnulli caelicolarum deposuerant. Is et veli et statuarum casus non sine
maximo fuit deorum malo: namque alii quassati, alii obruti ruina, nulli non
aliqua ex parte collisi exstiterunt. Atqui, ut ceteros omittam, Iovem ipsum
vinclis veli illaqueatum ita deturbarunt ut resupinis pedibus, naso retuso
rueret in caput. Cupidinis vero statua superne decidens deam Spem pene
oppressit, non tamen defuit quin absterso humero alam decusserit; Speique item
statua Cupidinis pectus, obliquo velo labans, vicissim perculit. Dii attoniti
quo se verterent non habebant. At Iuppiter, quod unum fuit principis prudentissimi,
suo secum ingenio praecurrit disquirens quidnam pro temporis necessitate sit
agendum caelicolis. Etenim occurrit animo ut metuat ne mortales iudicent
ingratos fuisse diis ludorum apparatus et bene de superis merendi studium
posthac intermittant, si forte vacuum statuis theatrum offenderint. Alia ex
parte ingrato ab tumultu suos revocare instituerat: ergo, quod facto esse opus
intelligit, imperat ut quisque deorum illico suam in theatrum referat statuam
atque mox abeat, ne apud mortales comperta re irrideantur: convenire quidem
deos quidvis incommodorum pati potius quam auctoritatem suique opinionem
amittant. Paruere Iovis dicto omnes praeter Stuporem deum, qui quidem exsanguis
factus obduruerat; sed cum caelo dii recenserentur non Stupor modo aut Spes, quae
mutilata apud mortales remanserat, verum etiam Pluto et Nox dea desiderabantur.
Illi quidem, maxime
Pluto, qua de causa remanserint periucundissimum erit intellexisse. Dea quidem
Nox (ut de illa prius dicam) prout tulit casus iisdem sub theatri gradibus cum
Apolline iuxta suas obdiderant statuas in eamque, quod esset vacua, illam
sortibus plenam, quam supra recensuimus ab Apolline furto subreptam, crumenam
indiderat ne ex mortalium numero, apud quos maximos versari fures senserat,
quispiam conferta multitudine subriperet. Cum igitur Iovis imperio ardenti
opera pareretur, Apollo casu non suam sed Noctis statuam suum in pectus
sustulit, ita ut crumena inter ferendum intra pedes deflueret, sed crumenam,
quod operi esset intentus, neglexit. Nox vero dea aeque tumultuario illo in
opere sese agitans quam reliquam comperuit statuam comportavit. At errore
animadverso, rata Apollinem non temere alienam obversasse statuam, se in filiae
gremium furti sui conscia lugens commendavit. Noctis filia est Umbra, et eam quidem
Apollo ita amat perdite ut nusquam esse nisi Umbra comite didicerit. At
crumenam ipsam Ambago, dearum mendacissima, pede in eam offenso repperit. Hinc
tanta in deum Apollinem indignatio adversus Noctem exarsit, cognita re, ut ex
eo tempore nihil sibi antiquius deputarit quam ut exosam fugando persequeretur:
illa Umbrae gremio sese tutatur delitescendo. Plutonem vero immania velorum
involucra irretitum detinuere, quoad lenones, qui fornicibus cum suis scortorum
sordibus accumbebant, fragore exciti affuere. Hi quidem inventum Plutonem loro
ad gulam obducto traxere, post id alii saxo pedem contundere aggressi sunt ut
viderent aurone solidus esset, uti suspicabantur, alii vitreos oculos, quod
esse gemmas arbitrarentur, dum eruere innituntur ita contrectant ut altero
pupillam extruserint, altero confregerint. Non tulit eum dolorem atque iniuriam
Pluto animo forti, sed ingemuit atque plus uno ex maleficis lenonibus multavit.
Nam, ut erat pondere vastus, sese in latus vertens quos potuit suppressit, huic
pedem et huic manum conterens atque comminuens, exinde ab sordidissimis
relictus foro dicitur aberrare luminibus captus.
Itaque istiusmodi in
theatro gesta sunt. Ceterum venti, tantorum scelerum se fuisse auctores
conspicati, alter alterum spectans commutuerant, dehinc metu conscientiae intra
se animis vexari, proxime mutuo alter alterum arguere temeritatis atque
immodestiae caeperant; postremo convitiis excandescere et tumultuare
perseverabant. Demum ardescente rixa luctationum perduellionumque campum sibi
mare occupaverant, ex quo repens illa, quam supra commemoravimus, procella
oborta est. Hac igitur procella acti Charon et Gelastus ad eam cautem ubi
obstrictus haerebat Momus devenere, quo loci miserias Momi advertentes sese
recrearunt: namque qui laboribus periculisque acti pessime agi secum
arbitrabantur, ut Momi vultus vix ab aestuante oceano respirantes una ac
lacrimas undantes videre, alieni mali misericordia suos mitigarunt animi
dolores. Atqui et quis esset et quid illic tam graves perferret poenas sciscitati,
si quid opis possent admodum praestituros polliciti sunt. At Momus "O
nos" inquit "miseros, et quid est quod naufragus ad relegatum possit
afferre opis, praeterquam ut sua mala collugeat?". His dictis multo
illacrimavit, dehinc ut se fractum confectumque procellarum mole paululum ab
aquis levarent exoravit. Quo levato extemplo Momus atque Gelastus sese mutuo
agnovere: multas enim, cum apud mortales degeret, Momus cum Gelasto de rebus
maximis et gravissimis habuerat disputationes. Idcirco nonnullis commemoratis
utrimque cum factis, tum dictis "Ego vero" inquit Momus "tum cum
apud vos philosophabar, Fraudis deae ductu caelo proscriptus, aberrabam, sed
pro gravissima accepta iniuria in vindicanda mei dignitate malui semper me
inter mortales humillimum videri quam inter philosophos deum. Dedi tamen
aliquid gravissimo dolori et iustissimae indignationi meae; plura tamen dedi
deorum nomini, quando ea perpeti potui ab homunculis, ne ordini superum
officerem ipsum me propalando, quae ne inimici quidem ut diutius ferrem potuere
perpeti. Profuit autem ad misericordiam malorum nostrorum excitandam,
incredibilis illa aerumnarum mearum tolerantia. Caelo idcirco restitutus sum,
et quo videas Iovis optimi deorumque aequitatem, me quidem, quod nulla re
praeterquam bene agendo et recte consulendo offendissem, proscripserant: quod
vero et deam et virginem in templo oppresserim, omnes risere. Redii ad superos
vetus Momus ille qui semper fueram, sed novo animi instituto imbutus: et qui in
eam diem consueveram opinionem ad veritatem, studia ad officium, verba
frontemque ad pectoris intimas rectasque rationes referre, idem post reditum
didici superstitioni opinionem, libidini studia, dolis confingendis frontem,
verba pectusque accommodare. Non plus dico, nisi me perversis istiusmodi
artibus quamdiu apud beatorum illud collegium exercui, tamdiu et principi carus
et universis probatus et singulis commendatus et (audeo dicere) inimicis quoque
fui gratissimus. Illud ad rerum nostrarum exitium fecit, quod tantis honoribus
honestatus mea interesse arbitratus sum ut cederem iam malis artibus et ad
pristinam animi libertatem ipsum me restituerem, spretis servilibus
assentationum blanditiarumque delinimentis. Et sum ipse mihi conscius quid
egerim, quid studuerim prodesse diis. Sino ceteras res: tanta me habuit deorum
cura ut Iovi, cum de novandis rebus cogitaret, multis vigiliis veteres omnes
illas de deorum regumque officio rationes collegerim quas eram solitus
commentari tecum, mi Gelaste, tabellisque conscriptas dederam, sed ille quanti
eas fecerit hi casus edocent. Non id, quantum videre licet, honestum utileque
consilium placuit Iovi, at placuit me in has miserias relegare. Vos hic quid
magis vituperabitis, an desidiam in negligenda republica an iniustitiam in
administranda? Sed institutum hoc principis quam sit e republica ipse videat.
Iustum vero esse nemo bonus asseret, nequedum scimus quam futurum sit ut bene
vertat iis qui nostra laetentur calamitate, neque is quidem, qui recta
consulentes malo afficit, prava molientes bonis prosequitur, quamdiu sic se
gerens futurus sit felix satis habet constitutum. Sed haec curent alii, quibus
relictum est quod sperent: nos nostris miseriis ferendis vacemus". Cum
haec dixisset Momus, tum contra "Tui me" inquit Gelastus "miseret,
o noster Mome! Sed quid ego meas calamitates memorem? Quo te afflictum
consoler, ego, a patria exul, aetatis florem consumpsi continuis
peregrinationibus, assiduis laboribus; diuturnam per egestatem, perpetua cum
inimicorum tum et meorum iniuria vexatus, pertuli et amicorum perfidiam et
affinium praedam et aemulorum calumnias et inimicorum crudelitatem; fortunae
adversos impetus fugiens, paratas in ruinas rerum mearum incidi. Temporum
perturbationibus et tempestatibus exagitatus, aerumnis obrutus, necessitatibus
oppressus, omnia tuli moderate ac modice, meliora a piissimis diis meoque fato
sperans quam exceperim. Atqui o me beatum, modo mihi ab cultu et studiis
bonarum artium, quibus semper fui deditus, feliciora rependerentur! Sed in
litteris quid profecerim aliorum sit iudicii. Hoc de me profiteor, omni opera,
cura, studio, diligentia elaborasse ut me quantum in dies proficerem non
poeniteret. Praeter opinionem atque exspectationem successit. Nam unde gratia
debebatur inde invidia redundavit, unde subsidia ad vitam exspectabantur inde
iniuria, unde boni bona pollicebantur inde mali mala rettulerunt. Dices: ea
fuere quidem eiusmodi ut hominibus evenire consueverint, et te meminisse
hominem oportet. Tum vero, Mome, quid dices si audies quae Charonti huic deo
acciderint? Dum res hominum non ignorare digno certe et prudenti instituto
elaboravit, saxis fugatus palude conlituit, postremo terra marique extremis
periculis perfunctus aegre huc ad te casu appulit; qua abeat, quorsum tendat,
ubi consistat, nil certi habet, ut congratulandum in tantis malis putem mihi
vel quod deos malorum meorum comites habeam, vel quod deos meliores ad res
natos tristiori pene videam in sorte quam ipse fuerim constitutus. Vobis item
inter vos, o Mome tuque Charon, maeroris levandi argumenta sint quod alterum
quisque alter videat casibus non immunem.
His commiserationibus
superaccessit Neptunus deus, qui quidem, cognita ventorum protervia, nubibus
imperarat ut eos superne pressando coercerent, quoad ipse cursu obambiens
insolescentes commodius argueret. Eo pacto cum dictis tum tridente omnes toto
mari delirantium immodestias castigarat, ac deinceps ad Momum consalutandum
accesserat. Quo loci inventis Charonte atque Gelasto voluit fieri certior quid
ita applicuissent; cognita eorum peregrinationis historia vehementer insaniam
ventorum inculpavit, qui quidem una stultitia tam multorum flagitiorum causa
fuerint: ludos interturbarint, maria perverterint, deos affecerint. Dehinc
poscenti Momo et Charonte ordine cum ceterorum deorum, tum et Stuporis et Iovis
et Plutonis casus explicavit. Postremo "Estne" inquit Neptunus
"quod me amplius velitis? Pacatis enim oceani rebus me ad Iovem superosque
restituam". Tum Gelastus: "Si per te licet, o Neptune, pervelim
optimo maximoque Iovi et sua et hominum causa suadeas ut tabellis Momi in
moderanda republica utatur: illis enim plurimum adiumenti inveniet ad se
levandum suasque res mirifice firmandas". Negavit Neptunus futurum ut Iovi
quispiam rerum agendarum modum praescribat: ambitiosum enim principem quidvis
prius posse quam instrui, neque esse ut volentem admoneas aut nolentem excites;
utraque illum in re semper sui fuisse consilii, dum mavult suum ostentare quam
alterius favere ingenio. His dictis abiit. Abiit et Charon atque inter
navigandum "O" inquit "Gelaste, esse quid hoc dicam in principe,
praesertim Iove, quem sapientissimum praedicant? Mitto illa, voluptati plus
satis inservire, potentatu ad insontium calamitatem abuti, imperare quam
imperio dignum videri malle et imperio dignum videri cupere quam esse: haec
toleranda sint. Illud profecto grave est, principem ita institutum esse ut
neque bene consulentibus delectetur neque bonis consiliis moveatur". Tum
Gelastus "Et quid putas" inquit "o Charon, cum illo agi qui,
assentatorum circumventus corona, in dies dediscat se eum esse qui possit
errare et ex licentia libidinis modum, et ex libidine officii rationem
metiatur, ut nondum satis apud me constitutum sit praestetne principem esse
istiusmodi an servum?". Tum Charon "Facis" inquit "ut
redeat in mentem quod narrare inceperam ante tempestatem de Peniplusio: res
profecto digna, tametsi nequeo non ridere cum illius memini, qui se vilissimum
hominem maximo regi praeferendum asserebat". Tum Gelastus "Quid esse
hoc et ipse dicam, o Charon, in quibusque animis ut metu offenso omnes
voluptates animi abiiciamus, et periculo transacto e vestigio voluptas redeat?
Sed tu quid ita visa tempestate expavisti, ut non caeptam historiam modo
neglexeris, verum et tui pene oblitus sis?". Tum Charon: "An secus
potui, tantos aquarum montes circum intumescentes et irruentes intuens?".
Tum Gelastus: "Esto montes ut lubet: enimvero tu, qui me increpabas quod
piratas timerem, cum ne vitam quidem possent auferre, et mare invium
negligebas, quid metuisti? Marene ipsum, quando Acheronta non videris, sed
consenueris? Aut quid demum? Veteranus navita periculumne timuisti, Charon, cum
te immortalem habeas?". Tum Charon contra: "Navita et immortalis ut
lubet, hoc scio oportuerat si forte periclitassemus: aut totas illas perpotare
aquas aut enecari". Tum Gelastus: "Places, Charon; verum sequere,
narra disceptationem illam. Videre videor futuram non ignobilem". Tum
Charon: "Audies rem dignissimam, ac iuvat quidem eam recensere, posteaquam
huius fluvii fauces, si satis rem teneo, ingressi sumus. Novi aquarum suetum
odorem et, ni fallor, spelunca isthaec suppressa et humilis ea est qua ituri
sumus. Haec ego adivi loca nonnunquam otiosus. Ergo, posteaquam remum linquere
et prostratos secundis aquis dilabi opus est, iacentes his de rebus recensendis
delectabimur. Meam in navim Megalophos rex et Peniplusius praeco una ingressi,
de loco caeperant contendere dictis lepidissimis; nam se ille principem et
honore quovis dignum multa sua virtutis facinora referens asserebat, contra
Peniplusius sic disceptabat: "Te o Charon, arbitrum statuo: vide quid
inter nos intersit quidve conveniat. Homo fui ego, hic etiam homo, nam neque tu
natus caelo neque ego stipite, o Megalophe. Publicus fuit servus is, ego item
publicus. Hoc negato, aut quid sit regnum dicito, Megalophe. Num id non est
publicum quoddam negotium, in quo etiam invito id agere oporteat quod leges
imperant? Fuimus ergo pares, nam legibus ambo astricti eramus, quibus si
obtemperavimus tu atque ego fecimus ex officio: adeo ergo fuimus et servi ambo
et pares. Sumus etiam aliis in rebus pares, aut si impares ego superior in
quibus te praestitisse arbitraris. Etenim tu gradu te habitum feliciori putas:
id videamus an ita sit. Sino voluptates et studiorum atque institutorum
progressus, quae omnia et faciliora et commodiora et promptiora et habiliora
nobis fuere quam tibi. Tum et illa praetermittamus, quod te multi oderant, tu
multos timebas, mihi omnes favebant, ego nullis non fidebam. Tibi ad tete
ferendum, ad tuas libidines complendas multis erat opus, multa cavebas, plura dubitabas,
omnia erant in periculo; mihi adversabatur istorum nihil, plura in rebus meis
exequendis suppeditabant quam ut illis omnibus uterer. Tibi nunquam non deerant
quibus esset usus. Sed haec, ut dixi, praetermittamus. Divitias tu ex regno, si
tibi congregasti pessime fuisti functus magistratu et gessisti non regem te,
sed tyrannum; si reipublicae eas parasti fecisti quod decuit, sed ne illa
quidem tua est gloria, universorum ea est civium laus, non tua, qui quidem aut
partas bello aut auctas censu effecere. Dices: mea cura et diligentia urbem
resque imperii ornavi atque servavi meis legibus pacem et quietem, meo ductu et
auspiciis laudem et amplitudinem civibus meis peperi. Nos vero in his omnibus
quae soli fecimus, frustra fecimus, quae vero multitudinis suffragio et manu
fecimus, cur nobis ascribamus non reperio. Sed quae tua fuerit opera et quae
mea in istiusmodi rebus recenseamus: tu integram noctem aut dormiebas vino
madidus aut per luxum ducebas; ego in specula advigilabam, urbem ab incendio,
cives ab hostibus teque ipsum ab tuorum insidiis custodiens. Tu leges rogabas,
ego promulgabam; te concionem habente saepius populus reclamavit, me publicum
quid iubente omnes attentissime auscultabant. In expeditionibus militem
hortabaris, ego signum dabam; te miles observabat, me classicum canente aut
hostem invadebat aut revocabatur. Denique tibi universi assentabantur, nemo
nobis non parebat. Sed quid agimus? Tune otium civibus parasti, cuius causa
tanti tam frequentes armorum discordiarumque motus in urbe fuerint, cuius
artibus et studiis publica et privata, sacra et profana omnia sint referta
invidia, simultate omnique denique flagitiorum genere? Tum ceteras quidem
stultas rerum administrandarum ostentationes quid est quod referas? Quid est
quod te iactes quod templa et theatra non ad urbis ornamentum, sed ad gloriae
cupiditatem et ineptam nominis posteritatem comparaveris? Et istas elegantes
leges quanti putabimus, quibus improbi non pareant et probis indixisse non
oportuit? Ac poteram quidem, inquies, multare et esse malo maximo
refragantibus: in hoc maleficii genere quis me potentior, quis paratior? Tu
quidem unos aut alteros cives non sine discrimine, non sine tumultu et multorum
manu affecisses; ego totam urbem, si voluissem, perdidissem tacendo atque dormiendo.
Restant duo quibus te longe superabam. Tui te dominum bonorum fortunarumque
omnium praedicabant; ego re ipsa eram non id tantum, ut dixi, quod ea potuerim
perdere, sed quo omnium bona et fortunae agebantur ita atque dispensabantur ad
unguem uti volebam ipse. Namque fiebat ulla in provincia, ullo aut publico aut
privato in loco nihil me invito; tibine tuorum quidem bonorum et fortunarum ex
arbitrio quippiam succedebat? Plura volebas semper quam posses; ego rerum
omnium nil plus volebam quam quod esset, sic enim volebam omnia esse uti erant,
et nihil magis. Reliquum est quod si tua tu amisisses bona ipsum te
suspendisses, ego risissem".
Dum haec apud inferos
agerentur, Iuppiter aula reclusus in solitudine secum ipse temporum suorum
casus et institutorum successus repetens sese dictis huiusmodi castigabat:
"Quid tibi voluisti, hominum pater et deum rex? Quis te erat beatior?
Pusillarum ferendarumque rerum taedio quantos labores, quae pericula, qualia
incommoda subivisti! Tuis in capiendis consiliis quam tibi fueris satis
kalendarum dies docuit. Bene consulentes respuisse, inconsultorum libidini
obtemperasse quid conferat argumento erit aeterno imminutus nasus. Eorum vota
supplicantium fastiditi reiciebamus, quorum foeditatem irridentium postea
pertulimus. Nos esse nimirum beatos poenitebat, quando novis voluptatibus
captandis veterem dignitatem intermisimus. Novum quaerebamus exaedificare
mundum, quasi pigeret diutini otii; et otio abundantes otium quaerebamus, et
otium quaerentes otium demerebamur. Quid igitur assecuti sumus? Indignos caelo
inter deos accepimus, benemerentes aut exterminavimus aut amisimus. Sed quid
agimus? An parum poenarum pro admissa stultitia accepimus, ni etiam acerbis his
curis animi ingratisque durissimorum temporum recordationibus ultro
excruciabimur? Abite hinc tristes curae! Verum aliquo me exerceam opere necesse
est, ne nos vacuos et desides occupent tristes memoriae. Ac novi quid faciam:
hoc enim conclave dissolute habitum coaptabimus". Positis idcirco stragula
et vestibus omnem subselliorum ordinem commutare aggressus est librosque
complures abiecte expositos et pulveribus obsitos digno loco astruxit. Dum haec
componeret, venere in manus tabellae Momi, quas superius Iovi datas
recensuimus. Inventis non potuit facere Iuppiter quin iterum perturbaretur
moerore seque suosque casus repetens; tandem tabellas perlegit animi laetitia
adeo maxima et dolore adeo maximo ut utrisque addi amplius nihil posset, tanta
erant in his grata una atque ingrata. Gratum erat quod in eis inveniret ab philosophorum
disciplinis sumptas optimas et perquam necessarias admonitiones ad regem
mirifice comparandum atque habendum; ingratum erat quod tantis praeceptis
tamque ad gloriam et gratiam accommodatis per suam negligentiam diutius
potuerit carere.
In tabellis ista
continebantur: principem sic institutum esse oportere ut neque nihil agat neque
omnia, et quae agat neque solus agat neque cum omnibus, et curet ne quis unus
plurima neve qui plures nihil habeant rerum aut nihil possint. Bonis benefaciat
etiam invitis, malos non afficiat malis nisi invitus. Magis notabit quosque per
ea quae pauci videant quam per ea quae in promptu sunt. Rebus novandis
abstinebit, nisi multa necessitas ad servandam imperii dignitatem cogat aut
certissima spes praestetur ad augendam gloriam. In publicis prae se feret
magnificentiam, in privatis parsimoniam sequetur. Contra voluptates pugnabit
non minus quam contra hostes. Otium suis, sibi vero gloriam et gratiam artibus
pacis potius quam armorum studiis parabit. Dignari se votis patietur et
humiliorum indecentias ita feret moderate uti a minoribus suos pati fastus
volet.
Huiusmodi erant in
tabellis complurima, sed illud omnium fuit commodissimum inventum ad multas
imperii molestias tollendas: nam admonebat ut omnem rerum copiam tris in
cumulos partiretur, unum bonarum expetendarumque rerum, alterum malarum,
tertium vero poneret cumulum earum rerum quae per se neque bonae sint neque
malae. Has ita distribuebat ut iuberet ex bonorum cumulo Industriam,
Vigilantiam, Studium, Diligentiam, Assiduitatem reliquosque eius generis deos
desumere plenos sinus et per trivia, porticus, theatra, templa, fora, denique
publica omnia per loca aperto sinu ultro obviis porrigerent et volentibus grate
ac lubens traderent. Mala itidem sinu pleno et aperto Invidia, Ambitio,
Voluptas, Desidia, Ignavia ceteraeque his similes deae circum ferrent atque
sponte erogarent non invitis. Quae autem neque bona neque mala sint, uti ea
sunt quae bona bene utentibus et mala male utentibus sunt, quorum in numero
putantur divitiae, honores et talia ab mortalibus expetita, omnia Fortunae
arbitrio relinquerentur ut ex iis plenas manus desumeret, et quantum cuique
videretur atque in quos libido traheret conferret.