Leon Battista Alberti

 

Il cane

 

I nostri antenati avevano l'abitudine di tessere le lodi degli uomini che spiccavano per la conoscenza delle buone arti e soprattutto per intransigenza morale e fervore religioso, considerandoli cittadini benemeriti; e raccomandavano con attenzione e cura particolari i nomi degli uomini illustri alle opere letterarie e, per quanto possibile, all'immortalità. In questo modo possiamo interpretare la loro usanza: da una parte per rispettare nell'attribuzione dei premi il criterio dell'equità e della giustizia, virtù alle quali erano particolarmente dediti; dall'altra per attrarre e consolidare nell'esercizio della virtù i giovani valenti, in modo che essi diventassero utili alla patria e celebri presso i posteri; dall'altra ancora, per occupare il tempo libero, di cui forse avevano grande disponibilità in questa pratica dell'elogio, gradita e accetta a tutti.

Ed ebbe presso di loro tanto successo la tendenza a celebrare, in pubblico e in privato, le lodi degli uomini più eminenti, che, non solo durante i funerali (come attualmente avviene prendendone da qui l'uso), si tenevano elogi e si consegnavano alla memoria della scrittura; ma il fenomeno degenerò anche fino al punto che taluni nei loro scritti, non contenti delle lodi e delle gesta umane, rappresentarono come divinità coloro che si erano segnalati per il loro valore; ed altri ancora, a fini edificanti, fabbricarono dei racconti fantasiosi, assolutamente inverosimili. In conseguenza di questa pratica ad Atene furono pronunciate dai retori molte orazioni funebri. E da qui anche presso di noi si propagò un'analoga usanza e invalse l'abuso che venissero onorati nei discorsi ufficiali non solo i cittadini segnalatisi per pubblici meriti; ma che dei privati lodassero nelle pubbliche assemblee i loro congiunti. E infatti (tralasciando gli altri) tramandano che Marco Antonio con una garbata orazione lodò la madre durante il funerale e che Fabio Massimo tenne un discorso funebre sulle virtù del figlio. In forza di questa consuetudine, infine, Ercole fu proclamato Dio e gli si accompagnò l'Idra, la belva di Lerna; e prodigiose figure della stessa specie spuntarono fuori, che sarebbe lungo e non pertinente elencare. Ma mentre riposavo durante questa arroventata estate mi si è offerta l'opportunità, per quanto sgradevole, di poter soddisfare, nel migliore dei modi e quasi di necessità, alla mia innata inclinazione a svolgere qualche attività e a produrre qualche scritto. Cosa potrei più facilmente fare che cimentarmi in un esercizio, a cui mi accosto per dovere e, se non erro, per una mia non riprovevole inclinazione? E infatti, consapevole che è un prodotto della stessa buona natura, il provare particolare tenerezza verso le persone virtuose e soprattutto verso coloro ai quali siamo stati particolarmente diletti, mi è sembrata una mancanza di rispetto negare questo doveroso omaggio d'amore al mio Cane, il migliore di tutti i cani e l'essere a me più devoto. Infatti, se, come tutti ammettono, rivolgiamo ai buoni una doverosa e devota lode, rendendo omaggio e testimonianza alle loro virtù, con quanta maggiore opportunità ed eleganza dovrei farlo io che ho intenzione di lodare una creatura che, cresciuta in casa mia ed educata con i più alti insegnamenti, conoscevo alla perfezione? Nell'assolvere a questo compito vorrei possedere tanta eloquenza da poter tessere in questa orazione le lodi più grandi e straordinarie di lui, così come si aspettano i lettori. Se infatti fallissi nell'impresa che mi sono proposto di realizzare, cadrei nel ridicolo. Per questo mi accingo a scrivere con più risolutezza. La virtù di lui, che è in gran parte conosciuta da tutti i popoli della terra, è di per sé così grande che non ha bisogno degli ornamenti dell'eloquenza; e non esito a credere inoltre che essa ci fornirà lo spunto per un'orazione ampia e, per la dignità e varietà degli argomenti, elegante e leggiadra.

Descriverò perciò brevemente la vita e il comportamento del mio Cane in modo che i lettori non siano infastiditi dalla prolissità dell'orazione, né giudichino la mia lode troppo dettagliata e pedante. Sono certo che alla fine essi converranno che il mio cane è degno di lode e che nel lodarlo ho assolto al mio dovere. Allora non potranno negare di aver trovato nelle nostre parole numerose sollecitazioni alle gioie dello spirito e ai buoni costumi, da seguire con onore e da imitare degnamente. Infatti il nostro Cane è nato da genitori nobilissimi; il padre era Megastomo; e nella sua antichissima famiglia ci furono un'infinità di famosi principi, tanto che tra essi alcuni per la loro virtù sono annoverati tra gli dei dalle antiche e sapienti genti d'Egitto, come quel cane di questa dinastia che tutti i conoscitori dei movimenti e delle orbite delle stelle sostengono che si aggiri tra gli astri più splendenti. Sua madre, celebre per la sua rettitudine, appartenne alla stessa famiglia illustre ed altolocata, la quale sia per superiore nobiltà e forza d'animo, sia per lealtà, benevolenza e rispetto verso coloro dai cui liberali benefici si accorgeva di ricevere soccorso, superò di gran lunga gli uomini.

Sarebbe troppo lungo, in verità, passare in rassegna le azioni e i detti memorabili di tutti i suoi antenati. Potrà quindi servire l'esame di alcune sue imprese, per capire che il nostro Cane non ha per niente tralignato dall'antica onestà e virtù della stirpe. Così è stato tramandato che tra gli antenati della famiglia dei cani taluni ebbero tanta forza d'animo che non si peritarono di assalire in duello un leone, per quanto aggressivo e feroce, né un elefante, la più grande e forte delle fiere. Fra tutta la schiera di cani coraggiosi, oltre a molti altri, ce ne sono soprattutto due assai famosi che, nati sulle sponde del Giaroti in India, militarono prima sotto il re degli Albani, poi sotto Alessandro il Macedone; tramandano che questi, quando avevano addentato un elefante o un'altra fiera, solo dopo aver condotto a termine la loro opera se ne staccavano e né il ferro, né il fuoco li distoglievano dalla contesa iniziata e dalla vittoria che si profilava. Che simili cani coraggiosi siano stati in gran numero si può soprattutto dedurre da quelli che con i loro auspici e le loro armi riportarono dall'esilio al potere il re dei Garamanti e liberarono dalle terribili devastazioni e dall'incombente servitù i Colofonii e i Castabalensi, guidando le prime linee e annientando i nemici senza aver ricevuto una ricompensa e senza nessun altra speranza di guadagno, mossi solo dalla benevolenza. Furono inoltre fortissimi sia nei duelli che nelle battaglie campali; e ‑ circostanza assai rara che al valore militare corrisponda la giustizia e la bontà ‑ questa nobile famiglia dei cani si è ininterrottamente segnalata per la sua umanità, la sua fedeltà, lo scrupolo nell'esprimere la sua gratitudine, non meno che per la sua energia. Non si può dire come essi siano rispettosi nel mantenere la parola data. Arato di Sicione, uomo famosissimo in guerra e in pace, quando fu espugnata Acrocorinto, piazzaforte d'accesso alla provincia, da cui dipendeva quasi del tutto la salvezza della patria, affidò la difesa dei punti strategici non ad amici fidati, ma a cinquanta cani ed essi li custodirono con scrupolosi turni di guardia notte e giorno. Ed ottennero sempre con il loro retto agire tanta benevolenza e simpatia da parte di tutte le genti in qualunque luogo si recassero, che moltissimi altri e soprattutto Santippo il vecchio pensò che i cani defunti, i quali avevano pubbliche benemerenze dovevano essere inumati con pubblici onori e pubbliche spese ed eresse sull'Acropoli di Atene un sepolcro molto bello a un cane, di cui aveva sperimentato la lealtà e l'amorosa costanza a Salamina e in ogni sua spedizione e battezzò dal suo nome quel luogo, ora chiamato Cinotafio. Che cosa avrebbe fatto Santippo a quel famosissimo cane che, mosso da pietà, protesse con grandissima cura e inestimabile affetto, accantonando tutti i suoi affari il piccolo Sparago, poi chiamato Ciro, che egli aveva trovato crudelmente esposto? Chi avrebbe affrontato (cosa veramente incredibile) tante e così accanite battaglie, procurandosi e ricevendo ferite per difendere il bambino contro i lupi voraci e consimili belve rese furiose dalla fame? Egli non fu meno misericordioso di quel cane che resistette al fianco del cadavere esposto dell'amico e che, dopo aver tenuto a bada uccelli e fiere, venne meno per la sete, la fame, la fatica. Si può citare ancora quel cane che a Roma, durante il consolato di Appio Giunio e Publio Silio, solo per il sacro vincolo dell'amicizia (si era infatti abituato all'intimità della convivenza e a recargli spesso le prede catturate nei boschi) seguì con grande devozione l'uomo che gli era amico e non lo abbandonò né quando venne travolto dall'avversa fortuna e nemmeno quando morì. Infatti, sebbene fosse privo di mezzi e non potesse restare inoperoso per la necessità di procurarsi cibo, il cane tuttavia restò compagno assiduo del suo padrone relegato nel carcere pubblico e portò ogni giorno a quest'uomo infelice il cibo che si era procurato dagli altri amici; e quando lo sventurato fu giustiziato da Germanico da cui era tenuto in galera, nuotò sorreggendo con suo grande pericolo il cadavere che era stato gettato nel Tevere. In verità chi volesse passare in rassegna la pietà e la lealtà di tutti i cani, troverebbe una quantità tale di esempi delle loro virtù nelle testimonianze dei più illustri autori che, secondo me, qualunque operazione gli risulterebbe più facile che raccoglierli e raggrupparli tutti.

Tralasceremo, quindi, per brevità le lodi degli antenati di questa famiglia; e lo faremo, sia perché occorrerebbe un'eloquenza copiosa ed elegante per cantare le lodi del nostro Cane, sia perché non mi sento dotato di tanto ingegno da esaminare, come si conviene, le gesta gloriose dei suoi antenati, sia perché forse quelli che si aspettano grandi elogi del nostro Cane, possono considerare fuori tema questa commemorazione dei suoi ascendenti. Pertanto, oltre ai due che mi vengono in mente, singolari per il loro senso dell'amicizia, e che per l'eccezionalità del loro operato non ritengo giusto trascurare, sorvolerò sugli altri. Tra questi non menziono quel cane che in Epiro, senza timore delle armi e delle minacce dell'omicida, in mezzo ad una folla di persone denunciò con il suo fiero coraggio, i suoi feroci latrati, i suoi morsi l'assassino del suo amico. O l'altro che, con la stessa intraprendenza, indicò nei figli di Ganittore gli assassini di Esiodo. Né quello che di ritorno dal tempio di Esculapio a gesti e a cenni mostrò ai pellegrini che incrociava il sacrilego che stava per inseguire. E tralascio pure quel cane che restò accanto ad un cittadino romano caduto nella guerra civile e battagliò contro i nemici del caduto con tanta animosità che questi, per quanto armati, poterono recidere il capo del caduto solo dopo aver ucciso il cane. Di essi pertanto non faccio menzione; e degli altri ammireremo quel cane assai amico del re Lisimaco il quale, quando si accorse che questi era morto e che il corpo veniva posto sul rogo, per amore verso l'amico, per seguire con una morte celebre chi nella vita non avrebbe più visto, si gettò tra le fiamme della pira. Un altro fu tanto addolorato per l'uccisione del suo amico, di nome Giasone Licio, che per il dispiacere, rifiutò il cibo e si lasciò morire di inedia. Gli antenati e i proavi degli avi furono in questa famiglia nobilissima forti, giusti e misericordiosi. Ed essi certamente imitò per pietà e modestia questo nostro Cane di cui ci occupiamo; e, per quanto gli consentivano le sue risorse, non fu secondo a nessuno nelle dimostrazioni di coraggio.

La natura lo aveva generato piccolo e non abbastanza solido per sopportare l'assalto di un nemico di soverchiante potenza; ma egli, come poté, mostrò un'indole così fiera e bellicosa nelle attività militari che, quando fu provocato ed offeso, assalì spesso bestie più grosse. In questa attività preferì sempre segnalarsi per la fama di comandante piuttosto che per le qualità di soldato; perciò, poiché era desideroso dello scontro ma bramoso soprattutto di grande gloria, si ritirò a vita privata, ben comprendendo che questo viene considerato un vanto degli ottimi comandanti. Mi sembra che egli abbia preso da Fabio Massimo la tattica accorta e prudente di temporeggiare e di difendersi e la previsione delle insidie; da Marcello e dagli Scipioni la forza e l'impeto di osare e di attaccare; da Giulio Cesare e da Alessandro la fermezza e la perseveranza nel combattere; da Annibale l'astuzia e l'accorta disposizione ad ingannare il nemico; e infine, per non dilungarmi ulteriormente, da tutti i più valenti generali le qualità, in cui ciascuno si era segnalato, con tanto equilibrio che non riservò plauso a chi aveva sopravanzato un potentissimo e crudele nemico nella violenza armata, né i traditori e i fedifraghi nella perfidia e nelle astuzie. Ma riteneva suo dovere aver superato nel coraggio e nelle vittoriose strategie i forti e gli animosi e pensava che fosse doveroso non dare l'impressione di commettere qualche azione disonorevole per schivare una fatica, un ostacolo, un rischio. E fu così corretto negli altri suoi comportamenti verso il prossimo che solo per un senso di equità e di onestà ritenne opportuno combattere. Non rifiutò nessun pericolo per salvaguardare la giustizia e la libertà; per tutelare i nostri beni non ebbe mai paura di aggredire anche dei ladri armati e di schiamazzare e di avventarsi valorosamente contro i più pericolosi. Il nostro Cane aveva l'abitudine - approvata dagli esperti di arte militare, ma biasimata dagli ignoranti - di non inimicarsi coloro che, aiutati dalla fortuna, gli apparivano superiori. Se certuni insolenti e prepotenti, cercavano, offendendolo, di inimicarselo, con la dolcezza e la pacatezza li rendeva miti e mansueti, ma non in modo che gli si potesse rimproverare la spregevole piaggeria o l'unzione e il servilismo di chi lusinga. Infine cercò sempre in ogni contesa di realizzare i suoi progetti, servendosi della ragione invece che della forza, dell'amicizia invece che delle armi; e mai con nessun mezzo lo si poté indurre ad inseguire un nemico se questi non fuggiva. Per questo, grazie ai suoi tempestivi calcoli, restò sempre al sicuro e spesso, dopo oculati assalti, trionfante e vittorioso, ritornò da me pieno di compiacimento. Dopo aver messo in fuga - secondo l'insegnamento di Catone - tutti i cavalli e i buoi e tutti gli uomini fuggiaschi, con i latrati e gli schiamazzi anziché con le percosse e le armi, inseguiva con tanta abilità che mai nel respingere un nemico dovette rammaricarsi di avere intrapreso un'iniziativa svantaggiosa. Perciò non tralasciava mai l'occasione di segnalarsi e di affermarsi fornitagli dall'ambiente, dalle circostanze ed infine dalla stessa fortuna. Si teneva poi discosto dalle aspre risse per prudenza e non per pusillanimità e vigliaccheria; e sempre mostrava, come, a mio giudizio, deve fare il sapiente, la prudenza anziché la violenza, la modestia anziché l'ostinazione. Del resto, chi dovrebbe anteporre la forza alla pietà, alla fede, alla religione? Tutte queste virtù vengono ricordate come componenti della giustizia. Non mi inoltrerò in quel tipo di polemica suscitata da coloro i quali ritengono che possiede tutte le virtù chi riesce a possederne almeno una. Non è forse un segno di equità che per i nostri meriti i nemici ci amino come gli amici o che almeno non ci odino? Gli uomini intrepidi e bellicosi, cui si dà l'appellativo di forti, negli accampamenti in mezzo al tumulto delle armi vivono tra le ruberie; invecchiano, se ben comprendiamo, tra le stragi combattendo; in questa sola attività si segnalano i forti di questa specie. I giusti presso i domestici lari al fianco dei parenti e dei cari cittadini attendono a pacifiche occupazioni. Il soldato va forse cercando la pace e la tranquillità, dispiegando la sua audacia e la sua forza; noi cittadini rispettabili cogliamo i benefici del riposo e della pace esercitando la giustizia e le leggi. Ma evitiamo di entrare nella polemica relativa a questa virtù; e del resto, ancor più che le mani, è il petto la principale dimora della forza; e neppure nel ferro risplende la gloria della forza quanto nella grandezza e nella stabilità dell'animo. Fu perciò prudente il nostro Cane che, fin dalla fanciullezza, disprezzò le armi, disprezzò queste pratiche (a molti forse care) della follia e della crudeltà e si dedicò tutto alle più alte e pacifiche pratiche e conoscenze delle ottime arti. Infatti, quando si accorse che io amavo sommamente gli studi letterari e che non venivo forse respinto da coloro che oggi vengono stimati passabilmente dotti, subito abbandonò le gioie della sua patria e della sua casa e si ritirò presso di me, preferendo le ricchezze dello spirito ai beni passeggeri e ricercando il difficile e il raro. Ed io, osservando la sua indole e la sua bellezza, cominciai di certo a provare amore verso di lui. Si tramanda che la stessa cosa accadde a Socrate, allorché vide il bellissimo giovinetto Alcibiade; e Socrate disse che si sarebbe con tutti i mezzi adoperato per evitare che mancassero alla divina bellezza del giovane adeguate qualità morali.

Il nostro Cane aveva un volto nobile e cordiale, dei lineamenti da cui facilmente Zeusi avrebbe ricavato il canone della bellezza pittorica, come lo aveva tratto dalle vergini di Crotone; lieto era il suo viso, molto simile a quello del padre Megastomo. Ma negli occhi metteva bene in evidenza la verecondia e la modestia della madre. Nella larghezza del petto e nella compostezza e nell'eleganza delle altre membra era l'esatta incarnazione delle statue dei suoi antenati. E tutte queste qualità, armonicamente e quasi divinamente congiunte alla straordinaria bellezza del giovane, rendevano manifesta l'eccezionale forza intellettuale e morale che egli possedeva in sommo grado. Ebbe un ingegno vivo e costante tanto che con incredibile velocità apprese presso di me le arti liberali degne dei nobili cani, superando in pochi giorni tutti i condiscepoli della sua età. Grandissima fu la sua memoria; e una volta che aveva affidato ad essa qualche particolare, questo non gli sfuggiva più e gli era sempre immediatamente ed opportunamente presente. Non ebbe solo memoria degli avvenimenti, dote che raccontano fu notevolissima in Lucullo, ma anche delle parole, dote che, dicono, ebbe eccezionale Ortensio. Per questo, a meno di tre anni, raggiunse lo straordinario risultato di conoscere il latino, il greco, il toscano. Apprendeva con estrema facilità in ogni campo del sapere; aveva attitudine e predisposizione per qualsiasi attività tanto che gli bastava un po' di applicazione per dare l'impressione di aver posto da tempo tutto il suo impegno nell'occupazione e nell'arte a cui si era dedicato. La sua volontà fu costante e nient'affatto volubile, tanto che talvolta nel suo comportamento potrei sospettare quello di cui parla Catone quando sostiene di non amare il fanciullo anzitempo saggio. Ma in quella precoce maturazione non aveva niente di pedantesco o di fastidiosamente saccente. Non ho mai avvertito nell'educarlo fatica o insofferenza. La sua vita e i suoi modi furono tali che tutti convenivano congratulandosi che egli poteva essere considerato un modello di vita virtuosa e dirittura morale. Era inoltre pacato nei gesti e nelle parole; e nelle altre manifestazioni di vita e più di ogni altro niente affatto avido di denaro e di piaceri; e cercava in tutti i modi di essere e di esserne stimato spregiatore, poiché mi aveva sentito dire che il denaro è molto ricercato dalla massa dei viziosi e degli ignoranti, per alimentare la passione di cui sono succubi, e che è incline alla virtù l'animo dell'uomo che fugge il piacere, non quello di chi è assetato di brama di ricchezza. Fu perciò austero e saggio spregiatore del denaro. Visse contento soltanto di una veste. Il suo piede fu nudo sia in estate che in inverno sulla neve. Prendeva sonno non sbadigliando con torpida voluttà, ma per necessità di riposo a cielo scoperto dove capitava e, allorché era indispensabile, in modo né scomposto né volgare: si astenne dal vino e dai bocconi prelibati. Perciò non fu lussurioso e nemmeno spendaccione; non si coprì di debiti; non eccedette nei banchetti. Accusava apertamente chi disapprovava; non fu maldicente verso gli assenti. Non divulgò mai i segreti degli amici. Contento del suo, non ricercò mai l'altrui. Mite verso tutti, affabile; disposto all'amicizia dei migliori; e le amicizie iniziava e rafforzava con il rispetto piuttosto che con le promesse, con i fatti piuttosto che con la simulazione. Desiderava conquistarsi l'amicizia per i suoi meriti anziché essere amato per interesse e vanità; e tuttavia procedeva nei suoi affetti dando anziché ricevendo. Non fu accigliato con nessuno, con nessuno scostante; desiderava soltanto evitare il contatto della gente volgare, corrotta e infingarda; per la sua interiore nobiltà non poteva assolutamente sopportare costoro; e, simile ad Ercole, attaccava con odio implacabile tutti coloro che con arroganza offendono gli altri. Fu con tutti i miei amici rispettoso, festoso, servizievole, amabile tanto che ottenne l'unanime simpatia e suscitò sul suo conto le più alte speranze. Crebbe perciò accompagnato da questa fama e da questa visione del mondo, superando gli anni e le attese in lui riposte. Non trascorse nessun giorno nell'ozio, ma agì e investigò tutto quello che è degno di essere conosciuto; tentò le imprese più difficili, impegnative e prestigiose; non risparmiò mai fatiche e veglie. Infine, per esaurire molto in breve tutto questo genere di lodi, ebbe tanta forza d'animo e valore che ritenne giusto rifiutare in primo luogo tutti i piaceri; all'ozio, alla pigrizia, agli svaghi, ai banchetti preferì i nobili esercizi del corpo e l'aspirazione dell'anima alla gloria; e non cercò in tutto il cammino della sua vita quei beni che allontanano dalla lode e dalla dignità. Riteneva di essere nato non per il sonno e il piacere, ma per ricercare la virtù, la dignità, per procurarsi simpatia e rinomanza, nonché la fama e la stima dei posteri. Queste furono le sue occupazioni e la sua condotta di vita ed io ho creduto di dover descrivere con brevità e concisione le linee, in un certo senso, essenziali del suo operato. Se infatti io volessi passare ordinatamente in rassegna tutte le sue azioni gloriose, dovrei intraprendere una fatica assai impegnativa, superiore alle mie possibilità. Egli, infatti, nel procacciarsi onori, non fu mai inferiore per sagacia, operosità e costanza agli uomini più nobili. Anzi, dopo aver dedicato con tutte le sue energie le intere sue giornate ad acquistare lode e gloria, talvolta, per non sembrare insensibile alla musica ed eccessivamente contegnoso, anche di notte rivolgeva alla luna le varie melodie che aveva attinto ascoltando l'armonia delle sfere celesti. E lo faceva con più cura, perché mi aveva sentito dire che una persona di elevato sentire deve dedicarsi alla conoscenza di tutte le attività non disonorevoli, purché non si accantonino le occupazioni più serie e più nobili. Chi può dire di aver ricevuto una raffinata educazione, se va sgraziatamente a cavallo o crolla vergognosamente durante gli esercizi ginnici o nel maneggiare le armi si rivela inesperto o del tutto incapace? Ma di questo dirò altrove.

Ora ritorno a parlare del nostro Cane, che in ogni momento della sua vita fu occupato in opere onorevoli. Assieme a me (e mai si staccava dal mio fianco, ritenendo perduto anche presso di me tutto il tempo che passava senza apprendere qualcosa) accorreva al ginnasio e alle riunioni degli studiosi, dove, come spesso avveniva, andava lieto e quasi chiamato ad un piacere assai desiderato. Per avere, come si dice, una guida nella vita altrui e poter più agevolmente imitare i migliori e i più onorevoli, dopo aver escluso con sdegno i malvagi, osservava attentamente, dovunque si trovasse, se veniva compiuta qualche nobile impresa, se il cane che incontrava aveva qualche conoscenza di filosofia, se odorava di Accademico, di Stoico, di Peripatetico, di Epicureo. E mi riferiva nel frattempo del carattere della gente che aveva frequentato. Salutava affabilmente i buoni; era mordace con i pigri e gli arroganti. Infine, sempre, anche quando camminava, attendeva a qualche virtuosa occupazione. Quando si arrivava a scuola, allo scopo di imparare, si poneva in mezzo ad una cerchia di studiosi in disputa e con un atteggiamento sereno e comprensivo verso le posizioni di tutti restava silenzioso e attento, seguendo il suggerimento di Pitagora che imponeva il silenzio ai discenti. Se gli capitava di imbattersi in un tizio insolente, vanesio e petulante, e in un interlocutore arrogante e immodesto, subito lo zittiva rimproverandogli la sua insipienza. Non voleva infatti sprecare i suoi preziosi momenti per l'altrui avventatezza. In tutte le sue attività, come fu assiduo, diligente, perseverante! Perché a questo punto addurre infiniti altri esempi? Con quanta cura, con quante veglie attese alla scienza: ne sono testimoni le scuole dei letterati in cui assai spesso declamò ad alta voce con grande attenzione degli ascoltatori. I suoi nobili costumi, la sua cordialità, la sua umanità e mitezza sono testimoniati dalla gratitudine e dalla benevolenza che tutti provarono per lui durante la sua vita. Ne è anche prova il cordoglio durante il suo funerale, le lacrime dei giusti e il rimpianto con il quale da morto lo accompagnarono gli uomini di ogni età e di ogni condizione. Devo infine citare altri testimoni della sua perfetta virtù mostrata in mezzo agli uomini, oltre all'autorità, alla fama, al prestigio che, da vivo, si procurò con le sue splendide e innumerevoli imprese? A quale tipo di guerra non partecipò riportandone lode? In quelle di mare contro le anatre e le oche, predoni acquatici; in quelle di campagna contro le locuste devastatrici degli orti; in quelle murali contro le lucertole che gettano scompiglio nelle celle delle api e nei loro stati. In tutte queste imprese, se da un lato cercò di essere considerato degno della corona e del trionfo piuttosto che di ottenerli, la sua gloria e i suoi pregi furono superiori a quelli di coloro che ottennero lodi e prestigio nello studio delle lettere e negli affari pubblici. E mentre in ciascun altro si può scorgere la compresenza di singole virtù e di qualche marcato difetto, solo in lui si possono trovare tutte le virtù, senza nemmeno l'ombra di una piccolissima macchia. Non fu infatti avido, come Aristotele, che rappresentarono negli Inferi attaccato ad un amo d'oro come un pesce. Non sensuale come Platone, di cui vengono riportati i versi d'amore per il suo Stella. Non vanitoso come Cicerone, il quale, autoincensandosi, arrivò quasi a stancarsi; ed allora in una lettera supplicò altri perché gli scrivessero un libro di elogi. Non crudele come Silla, che fece sgozzare tante migliaia di cittadini. Non cercò di infrangere le leggi e la libertà né di crearsi un potere assoluto come Cesare. Non donnaiolo come Catone, che quasi negli ultimi giorni della sua vita, pazzo d'amore, chiese in moglie la figlia di uno scriba. Non avido come Crasso, che, pur essendo l'uomo più ricco del mondo, ricorreva ogni giorni a falsi testamenti.

Ma perché proseguire con costoro e paragonare con il nostro Cane personaggi analoghi resi celebri dalle storie? In essi si troveranno grandissimi vizi mescolati alla virtù, né la loro ordinaria probità fu accompagnata da qualche singolare prova di valore. Chiunque può di sicuro confermare che in questo nostro Cane furono grandissime e straordinarie le virtù, pronto e quasi divino l'ingegno, privo di qualsiasi, anche piccolissima, menda ed imperfezione. Cosa si può desiderare in lui, o perché non si dovrebbe anteporre agli individui più importanti e reputati per il loro valore? Egli riuscì ad associare il più schietto senso della giustizia con la più grande energia, la singolare devozione con la straordinaria grandezza morale, la forza e la costanza nelle iniziative intraprese con il divino vigore di un ingegno duttile e multiforme, la semplicità e l'innocenza dei costumi con un temperamento accorto e avveduto, la mirabile umanità e misericordia, la cordialità e la dolcezza con l'austerità e la compostezza, una lucidità intellettuale e una fede mai appannate, sicure, schiette, con un'esperienza della realtà larga e complessa. Mosso dal mio giusto dolore, perciò, potrei accusare la fortuna che mi ha strappato con una dolorosa morte l'essere migliore e più caro. Certo è vissuto abbastanza, non lo nego, chi per la gloria a lungo e virtuosamente è vissuto.

Vorrei tuttavia che egli meno venisse rimpianto dagli amici e da coloro che con i suoi esempi sono diventati giorno dopo giorno migliori e più dotti. Infatti chi non può associarsi al dolore, ricordando che nel fiore degli anni è stato eliminato con il veleno da nemici invidiosi e subdoli? Chi non può rattristarsi, vedendo in lutto le adunanze degli studiosi? Chi può non partecipare al cordoglio, ricordando che anche in punto di morte mi mostrò il suo affetto? O nostro Cane, nostra gioia, onore della gioventù, splendore e ornamento della tua famiglia, con la tua bellezza, con i tuoi costumi, con la tua virtù hai nobilitato la tua illustrissima, antichissima, nobilissima famiglia e l'hai resa più celebre. Tu eri abituato ad essere il nostro diletto e la nostra gioia. Chi ti vedeva così allegro e scherzoso era preso da un senso di giocondità e di gaiezza. Tu, di cui gli studiosi ammiravano l'atteggiamento pieno di modestia, di gratitudine e di umanità; tu, di cui tutti osservavano e consideravano stupefatti l'indole la scienza e le virtù. Dopo che prendesti il veleno, mentre te ne andavi verso il cammino dell'altra vita, quasi staccandoti dall'abbraccio dell'amico, moribondo, consunto dal veleno che ti gonfiava, sei venuto a rivedermi e a baciarmi e appena mi hai visto ti sei messo a piangere. Addio, perciò, o mio Cane, e sii immortale, per quel che io posso e come merita la tua virtù.