Leon Battista Alberti
DE PICTURA (Volgare)
PROLOGUS
[A FILIPPO BRUNELLESCHI]
Io solea maravigliarmi insieme e dolermi
che tante ottime e divine arti e scienze, quali per loro opere e per le istorie
veggiamo copiose erano in que' vertuosissimi passati antiqui, ora così siano
mancate e quasi in tutto perdute: pittori, scultori, architetti, musici,
ieometri, retorici, auguri e simili nobilissimi e maravigliosi intelletti oggi
si truovano rarissimi e poco da lodarli. Onde stimai fusse, quanto da molti questo
così essere udiva, che già la natura, maestra delle cose, fatta antica e
stracca, più non producea come né giuganti così né ingegni, quali in que' suoi
quasi giovinili e più gloriosi tempi produsse, amplissimi e maravigliosi. Ma
poi che io dal lungo essilio in quale siamo noi Alberti invecchiati, qui fui in
questa nostra sopra l'altre ornatissima patria ridutto, compresi in molti ma
prima in te, Filippo, e in quel nostro amicissimo Donato scultore e in quegli
altri Nencio e Luca e Masaccio, essere a ogni lodata cosa ingegno da non
posporli a qual si sia stato antiquo e famoso in queste arti. Pertanto m'avidi
in nostra industria e diligenza non meno che in benificio della natura e de'
tempi stare il potere acquistarsi ogni laude di qual si sia virtù. Confessoti
sì a quegli antiqui, avendo quale aveano copia da chi imparare e imitarli, meno
era difficile salire in cognizione di quelle supreme arti quali oggi a noi sono
faticosissime; ma quinci tanto più el nostro nome più debba essere maggiore, se
noi sanza precettori, senza essemplo alcuno, troviamo arti e scienze non udite
e mai vedute. Chi mai sì duro o sì invido non lodasse Pippo architetto vedendo
qui struttura sì grande, erta sopra e' cieli, ampla da coprire con sua ombra
tutti e' popoli toscani, fatta sanza alcuno aiuto di travamenti o di copia di
legname, quale artificio certo, se io ben iudico, come a questi tempi era
incredibile potersi, così forse appresso gli antichi fu non saputo né
conosciuto? Ma delle tue lodi e della virtù del nostro Donato, insieme e degli
altri quali a me sono per loro costumi gratissimi, altro luogo sarà da
recitarne. Tu tanto persevera in trovare, quanto fai di dì in dì, cose per
quali il tuo ingegno maraviglioso s'acquista perpetua fama e nome, e se in
tempo t'accade ozio, mi piacerà rivegga questa mia operetta de pictura quale a tuo nome feci in
lingua toscana. Vederai tre libri: el primo, tutto matematico, dalle radici
entro dalla natura fa sorgere questa leggiadra e nobilissima arte. El secondo
libro pone l'arte in mano allo artefice, distinguendo sue parti e tutto
dimostrando. El terzo instituisce l'artefice quale e come possa e debba
acquistare perfetta arte e notizia di tutta la pittura. Piacciati adunque
leggermi con diligenza, e se cosa vi ti par da emendarla, correggimi. Niuno
scrittore mai fu sì dotto al quale non fussero utilissimi gli amici eruditi; e
io in prima da te desidero essere emendato per non essere morso da' detrattori.
LIBRO PRIMO
1. Scrivendo de pictura in questi brevissimi comentari, acciò che 'l nostro dire
sia ben chiaro, piglieremo dai matematici quelle cose in prima quale alla
nostra matera apartengano; e conosciutole, quanto l'ingegno ci porgerà,
esporremo la pittura dai primi principi della natura. Ma in ogni nostro
favellare molto priego si consideri me non come matematico ma come pittore
scrivere di queste cose. Quelli col solo ingegno, separata ogni matera,
mesurano le forme delle cose. Noi, perché vogliamo le cose essere poste da
vedere, per questo useremo quanto dicono più grassa Minerva, e bene stimeremo
assai se in qualunque modo in questa certo difficile e da niuno altro che io
sappi descritta matera, chi noi leggerà intenderà. Adunque priego i nostri
detti sieno come da solo pittore interpretati.
2. Dico in principio dobbiamo sapere il
punto essere segno quale non si possa dividere in parte. Segno qui appello
qualunque cosa stia alla superficie per modo che l'occhio possa vederla. Delle
cose quali non possiamo vedere, neuno nega nulla apartenersene al pittore. Solo
studia il pittore fingere quello si vede. E i punti, se in ordine costati l'uno
all'altro s'agiungono, crescono una linea. E apresso di noi sarà linea segno la
cui longitudine si può dividere, ma di larghezza tanto sarà sottile che non si
potrà fendere. Delle linee alcuna si chiama dritta, alcuna flessa. La linea
ritta sarà da uno punto ad un altro dritto tratto in lungo segno. La flessa
linea sarà da uno punto ad un altro non dritto, ma come uno arco fatto segno.
Più linee, quasi come nella tela più fili accostati, fanno superficie. Ed è
superficie certa parte estrema del corpo, quale si conosce non per la sua
alcuna profondità, ma solo per sua longitudine e latitudine e per sue ancora
qualità. Delle qualità alcune così stanno perpetue alla superficie che, se non
alteri la superficie, nulla indi possano muoversi. Altre sono qualità tali, che
rimanendo il medesimo essere della superficie, pur così giaciono a vederle che
paiono a chi le guarda mutate. Le qualità perpetue sono due. L'una si conosce
per quello ultimo orlo quale chiuda la superficie, e sarà questo orlo chiuso
d'una o di più linee. Sarà una la circulare; saranno più come una flessa e una
retta, o insieme più dritte linee. Sarà circulare quella quale inchiude uno
circolo. Sarà circolo forma di superficie quale una intera linea quasi come una
ghirlanda l'avvolge; e se qui in mezzo sarà uno punto, qualunque linea da
questo punto sino alla ghirlanda sarà d'una mensura all'altre equale, e questo
punto in mezzo si chiama centrico. Quella linea dritta, la quale coprirà il punto
e taglierà in due luoghi il circolo, si dice appresso de' matematici diamitro.
Noi giovi chiamarla centrica. E qui sia da' matematici persuaso quanto essi
dicono, che niuna linea segna alla ghirlanda del circolo angoli equali se non
quella una quale dritta cuopra il centro.
3. Ma torniamo alla superficie. Qui vedi
che mutato l'andare dell'orlo la superficie muta e faccia e nome, e quello si
dicea triangolo ora si dirà quadrangolo o di più canti. Dicesi mutato l'orlo se
le linee o vero gli angoli saranno più o meno, più lunghi, più corti, più acuti
o più ottusi. Questo luogo ammonisce si dica degli angoli. Dico angolo essere
certa estremità di superficie, fatto da due linee quali l'una l'altra seghi.
Sono tre generi d'angoli: retto, ottuso, acuto. L'angolo retto sarà uno de'
quattro fatti da due rette linee ove l'una sega l'altra in modo che di loro
ciascuno sia equale all'altro. Di qui si dice che tutti gli angoli retti sono a
sé equali. L'angolo ottuso è quello che sia maggiore che il retto, e quello che
sia minore che il retto si chiama acuto.
4. Ancora ritorniamo alle superficie. Sia
persuaso, quanto all'orlo sue linee e angoli non si mutano, tanto sarà medesima
superficie. Abbiamo adunque mostro una qualità che mai si parte datorno dalla
superficie. Abbiamo a dire dell'altra qualità quale sta quasi come buccia sopra
tutto il dosso della superficie. Questa si divide in tre. Sono alcune
superficie piane, alcune cavate in dentro, alcune gonfiate fuori e sperice; e a
questa agiugni la quarta quale sia composta da due di queste. La superficie
piana sarà quella quale, sopra trattoli uno regolo diritto, ad ogni parte se
l'acosterà; a questa molto sta simile la superficie dell'acqua. Sperica
superficia s'assomiglia al dosso della spera. Dicono la spera essere uno corpo
ritondo, volubile in ogni parte, in cui mezzo siede uno punto, dal quale punto
qual si sia parte estrema di quel corpo all'altre simile sia distante. La
superficie cavata sarà dentro, sotto l'ultimo estremo della superficie,
sperica, quasi come drento il guscio dell'uovo. La superficie composta sarà
quella che per uno verso sia piana, per un altro verso sia cavata o sperica,
qual sono drento i cannoni e di fuori le colonne.
5. Adunque l'orlo e dorso danno suoi nomi
alle superficie. Ma le qualità per le quali, non alterata la superficie né
mutatoli suo nome, pure possono parere alterate, sono due, quali pigliano
variazione per mutazione del luogo o de' lumi. Diciamo prima del luogo, poi de'
lumi, e investighiamo in che modo per questo le qualità alla superficie paiano
mutate. Questo s'apartiene alla forza del vedere, imperò che mutato il sito le
cose parranno o maggiori o d'altro orlo o d'altro colore, quali tutte cose
misuriamo col vedere. Cerchiamo a queste sue ragioni cominciando dalla sentenza
de' filosafi, i quali affermano misurarsi le superficie con alcuni razzi quasi
ministri al vedere, chiamati per questo visivi, quali portino la forma delle
cose vedute al senso. E noi qui imaginiamo i razzi quasi essere fili
sottilissimi da uno capo quasi come una mappa molto strettissimi legati dentro
all'occhio ove siede il senso che vede, e quivi quasi come tronco di tutti i
razzi quel nodo estenda drittissimi e sottilissimi suoi virgulti per insino
alla opposita superficie. Ma fra questi razzi si truova differenza necessaria a
conoscere. Sono loro differenze quanto alla forza e quanto all'officio. Alcuni
di questi razzi giugnendo all'orlo delle superficie misurano sue tutte
quantità. Adunque perché così cozzano l'ultime ed estreme parti della superficie,
nominiàlli estremi o vuoi estrinsici. Altri razzi da tutto il dorso della
superficie escono sino all'occhio, e questi hanno suoi offici, però che da que'
colori e que' lumi accesi dai quali la superficie splende, empiono la pirramide
della quale più giù diremo al suo luogo: e questi così si chiamino razzi
mediani. Ecci fra i razzi visivi uno detto centrico. Questo, quando giugne alla
superficie, fa di qua e di qua torno a sé angoli retti ed equali. Dicesi
centrico a similitudine di quella sopradetta centrica linea. Adunque abbiamo
trovato tre differenze di razzi: estremi, mediani e centrici.
6. Ora investighiamo quanto ciascuno
razzo s'adoperi al vedere. Prima diremo degli estremi, poi de' mezzani, e ivi
apresso del centrico. Coi razzi estremi si misurano le quantità. Quantità si
chiama ogni spazio super la
superficie qual sia da uno punto dell'orlo all'altro. E misura l'occhio queste
quantità con i razzi visivi quasi come con un paio di seste. E sono in ogni
superficie tante quantità quanti sono spazi tra punto e punto, però che
l'altezza dal basso in su, la larghezza da man destra a sinistra, la grossezza
tra presso e lunge e qualunque altra dimensione vel misurazione si faccia guatando, a quella s'adopera questi razzi
estremi. Onde si suole dire che al vedere si fa triangolo, la base del quale
sia la veduta quantità e i lati sono questi razzi, i quali dai punti della
quantità si estendono sino all'occhio. Ed è certissimo niuna quantità potersi
sanza triangolo vedere. Gli angoli in questo triangolo visivo sono prima i due
punti della quantità; il terzo, quale sia opposto alla base, sta drento
all'occhio. Sono qui regole: quanto all'occhio l'angolo sarà acuto, tanto la
veduta quantità parrà minore. Di qui si conosce qual cagione facci una quantità
molto distante quasi parere non maggiore che uno punto. E benché così sia, pure
si truova alcuna quantità e superficia di quale, quanto più li sia presso, meno
ne vedi, e da lunge ne vegga molto più parte. Vedesi di questo pruova nel corpo
sperico. Adunque le quantità per la distanza paiono maggiori e minori. E chi
ben gusta quello che detto è, credo intenda come mutato l'intervallo i razzi
estrinsici divenghino mediani, e così i mediani estrinsici; e intenderà, dove i
mediani razzi sieno fatti estrinsici, subito quella quantità parere minore, e
contrario, quando i razzi estremi saranno dentro all'orlo adiritti, quanto più
distanti dall'orlo, tanto parrà la veduta quantità maggiore.
7. Qui soglio io appresso ad i miei amici
dare simile regola: quanto a vedere più razzi occupi, tanto ti pare quel che si
vede maggiore, e quanto meno razzi, tanto minore. E questi razzi estrinsici
così circuendo la superficie che l'uno tocchi l'altro, chiuggono tutta la
superficie quasi come vetrici ad una gabbia, e fanno quanto si dice quella
pirramide visiva. Adunque mi pare da dire che cosa sia pirramide, e a che modo
sia da questi razzi construtta. Noi la discriveremo a nostro modo. La pirramide
sarà figura d'uno corpo dalla cui base tutte le linee diritte tirate su
terminano ad uno solo punto. La basa di questa pirramide sarà una superficie
che si vede. I lati della pirramide sono quelli razzi i quali io chiamai
estrinsici. La cuspide, cioè la punta della pirramide, sta drento all'occhio
quivi dov'è l'angulo delle quantità. Sino a qui dicemmo dei razzi estrinsici
dai quali sia conceputa la pirramide, e parmi provato quanto differenzi una più
che un'altra distanza tra l'occhio e quello che si vegga. Seguita a dire dei
razzi mediani quali sono quella moltitudine nella pirramide dentro ai razzi
estrinsici; e questi fanno quanto si dice il cameleone, animale che piglia
d'ogni a sé prossima cosa colore, imperò che da dove toccano le superficie
perfino all'occhio, così pigliano colori e lume qual sia alla superficie, che
dovunque li rompesse, per tutto li troveresti per uno modo luminati e colorati.
E di questo si pruova che per molta distanza indebiliscono. Credo ne sia
ragione che, carichi di lume e di colore, trapassano l'aere quale, umido di
certa grassezza, stracca i carichi razzi. Onde traemmo regola: quanto maggiore
sarà la distanza, tanto la veduta superficie parrà più fusca.
8. Restaci a dire del razzo centrico.
Sarà centrico razzo quello uno solo, quale sì cozza la quantità che di qua e di
qua ciascuno angolo sia all'altro equale. Questo uno razzo, fra tutti gli altri
gagliardissimo e vivacissimo, fa che niuna quantità mai pare maggiore che
quando la ferisce. Potrebbesi di questo razzo dire più cose, ma basti che
questo uno, stivato dagli altri razzi, ultimo abandona la cosa veduta; onde merito si può dire prencipe de' razzi.
Parmi avere dimostrato assai che, mutato la distanza e mutato il porre del
razzo centrico, subito la superficie parrà alterata. Adunque la distanza e la
posizione del centrico razzo molto vale alla certezza del vedere. Ecci ancora
una terza qual facci parere la superficie variata. Questo viene dal ricevere il
lume. Vedesi nelle superficie speriche e concave, sendo ad uno lume, hanno
questa parte oscura e quella chiara; e bene che sia quella medesima distanza e
posizione di centrica linea, ponendo il lume altrove vedrai quelle parti, quali
prima erano chiare, ora essere oscure, e quelle chiare quali erano oscure; e
dove attorno fussino più lumi, secondo loro numero e forza vedresti più macole
di chiarore e di oscuro.
9. Questo luogo m'amonisce a dire de'
colori insieme e de' lumi. Parmi manifesto che i colori pigliano variazione dai
lumi, poi che ogni colore posto in ombra pare non quello che è nel chiarore. Fa
l'ombra il colore fusco, e il lume fa chiaro ove percuote. Dicono i filosafi
nulla potersi vedere quale non sia luminato e colorato. Adunque tengono gran
parentado i colori coi lumi a farsi vedere, e quanto sia grande vedilo, che
mancando il lume mancano i colori, e ritornando il lume tornano i colori.
Adunque parmi da dire prima de' colori, poi investigheremo come sotto il lume
si varino. Parliamo come pittore. Dico per la permistione de' colori nascere
infiniti altri colori, ma veri colori solo essere quanto gli elementi, quattro,
dai quali più e più altre spezie d colori nascono. Fia colore di fuoco il
rosso, dell'aere celestrino, dell'acqua il verde, e la terra bigia e
cenericcia. Gli altri colori, come diaspri e porfidi, sono permistione di
questi. Adunque quattro sono generi di colori, e fanno spezie sue secondo se
gli agiunga oscuro o chiarore, nero o bianco, e sono quasi innumerabili.
Veggiamo le fronde verzose di grado in grado perdere la verdura per insino che
divengono scialbe; simile in aere circa all'orizzonte non raro essere vapore
bianchiccio, e a poco a poco seguirsi perdendo. E nelle rose veggiamo ad alcune
molta porpora, alcune simigliarsi alle gote delle fanciulle, alcune allo
avorio. E così la terra secondo il bianco e 'l nero fa suo spezie di colore.
10. Adunque la permistione del bianco non
muta e' generi de' colori, ma ben fa spezie. Così il nero colore tiene simile
forza con sua permistione fare quasi infinite spezie di colori. Vedesi
dall'ombra i colori alterati: crescendo l'ombra s'empiono i colori, e crescendo
il lume diventano i colori più aperti e chiari. Per questo assai si può
persuadere al pittore che 'l bianco e 'l nero non sono veri colori, ma sono
alterazione degli altri colori, però che il pittore truova cosa niuna con la
quale egli ripresenti l'ultimo lustro de' lumi, altro che il bianco, e così
solo il nero a dimostrare le tenebre. Aggiugni che mai troverai bianco o nero,
il quale non sia sotto qualcuno di quelli quattro colori.
11. Seguita de' lumi. Dico de' lumi
alcuno essere dalle stelle, come dal sole, dalla luna e da quell'altra bella
stella Venere. Altri lumi sono dai fuochi. Ma tra questi si vede molta
differenza. Il lume delle stelle fa l'ombra pari al corpo, ma il fuoco le fa
maggiori. Rimane ombra dove i razzi de' lumi sono interrotti. I razzi
interrotti o ritornano onde vennono, o s'adirizzano altrove. Vedilo' adiritti
altrove quando, aggiunti alla superficie dell'acqua, feriscono i travi della
casa. Circa a queste reflessioni si potre' dire più cose, quali apartengono a
quelli miracoli della pittura, quali più miei compagni videro da me fatti altra
volta in Roma. Ma basti qui che questi razzi flessi seco portano quel colore
quale essi truovano alla superficie. Vedilo che chi passeggia su pe' prati al
sole pare nel viso verzoso.
12. Dicemmo sino a qui delle superficie;
dicemmo de' razzi; dicemmo in che modo vedendo si facci pirramide; provammo
quanto facci la distanza e posizione del razzo centrico, insieme e ricevere de'
lumi. Ora, poi che ad uno solo guardare non solo una superficie si vede ma più,
investigheremo in che modo molte insieme giunte si veggano. Vedesti che
ciascuna superficie in sé tiene sua pirramide, colori e lumi. Ma poi che i
corpi sono coperti dalle superficie, tutte le vedute insieme superficie d'uno
corpo faranno una pirramide di tante minori pirramide gravida quanto in quello
guardare si vedranno superficie. Ma dirà qui alcuno: «Che giova al pittore
cotanto investigare?» Estimi ogni pittore ivi sé essere ottimo maestro, ove
bene intende le proporzioni e agiugnimenti delle superficie; qual cosa pochissimi
conoscono, e domandando in su quella quale e' tingono superficie che cosa essi
cercano di fare, diranti ogni altra cosa più a proposito di quello di che tu
domandi. Adunque priego gli studiosi pittori non si vergognino d'udirci. Mai fu
sozzo imparare da chi si sia cosa quale giovi sapere. E sappiano che
<quando> con sue linee circuiscono la superficie, e quando empiono di
colori e' luoghi descritti, niun'altra cosa cercarsi se non che in questa
superficia si representino le forme delle cose vedute, non altrimenti che se
essa fusse di vetro tralucente tale che la pirramide visiva indi trapassasse,
posto una certa distanza, con certi lumi e certa posizione di centro in aere e
ne' suoi luoghi altrove. Qual cosa così essere, dimostra ciascuno pittore
quando sé stessi da quello dipigne sé pone a lunge, dutto dalla natura, quasi
come ivi cerchi la punta e angolo della pirramide, onde intende le cose dipinte
meglio remirarsi. Ma ove questa sola veggiamo essere una sola superficie, o di
muro o di tavola, nella quale il pittore studia figurare più superficie
comprese nella pirramide visiva, converralli in qualche luogo segare a traverso
questa pirramide, a ciò che simili orli e colori con sue linee il pittore possa
dipignendo espriemere. Qual cosa se così è quanto dissi, adunque chi mira una
pittura vede certa intersegazione d'una pirramide. Sarà adunque pittura non
altro che intersegazione della pirramide visiva, sicondo data distanza, posto
il centro e constituiti i lumi, in una certa superficie con linee e colori artificiose representata.
13. Ora poi che dicemmo la pittura essere
intercisione della pirramide, convienci investigare qualunque cosa a noi faccia
questa intersegazione conosciuta. Convienci avere nuovo principio a ragionare
delle superficie, dalle quali dicemmo che la pirramide usciva. Dico delle
superficie alcuna essere in terra riversa e giacere, come i pavimenti e i
solari degli edifici e ciascuna superficia quale equalmente da questa sia
distante. Altre stanno apoggiate in lato, come i pareti e l'altre superficie
collineari ad i pareti. Le superficie equalmente fra sé distanti saranno,
quando la distanza fra l'una e l'altra in ciascuna sua parte sarà equale.
Collineari superficie saranno quelle, quali una diritta linea in ogni parte
equalmente toccherà, come sono le faccie de' pilastri quadri posti ad ordine in
uno portico. E sono queste cose da essere aggiunte a quelle quali di sopra
dicemmo alle superficie. E a quelle cose quali dicemmo de' razzi intrinsici,
estrinsici e centrici, e a quelle dicemmo della pirammide, aggiugni la sentenza
de' matematici, onde si pruova che, se una dritta linea taglia due lati d'uno
triangolo, e sia questa linea, qualora fa triangolo, equidistante alla linea
del primo e maggiore triangolo, certo sarà questo minore triangolo a quel
maggiore proporzionale. Tanto dicono i matematici.
14. Ma noi, per fare più chiaro il nostro
dire, parleremo in questo più largo. Conviensi intendere qui che cosa sia
proporzionale. Diconsi proporzionali quelli triangoli quali con suo lati e angoli
abbiano fra sé una ragione che, se uno lato di questo triangolo sarà in
lunghezza due volte più che la base e l'altro tre, ogni triangolo simile, o sia
maggiore o sia minore, avendo una medesima convenienza alla sua base, sarà a
quello proporzionale: imperò che quale ragione sta da parte a parte nel minore
triangolo, quella ancora sta medesima nel maggiore. Adunque tutti i triangoli
così fatti saranno fra sé proporzionali. E per meglio intendere questo, useremo
una similitudine. Vedi uno picciolo uomo certo proporzionale ad uno grande;
imperò che medesima proporzione, dal palmo al passo e dal piè all'altre sue
parti del corpo, fu in Evandro qual fu in Ercole, quale Aulo Gelio conietturava
essere stato grande sopra agli altri uomini. Né simile fu nel corpo di Ercole
proporzione altra che nei membri d'Anteo gigante, ove all'uno e all'altro si
congiugneva con pari ragioni e ordini dalla mano al cubito e dal cubito al
capo, e così poi ogni suo membro. Simile truovi ne' triangoli misura, per la
quale il minore al maggiore sia, eccetto che nella grandezza, equale. E se qui
bene sono inteso, istatuirò coi matematici quanto a noi s'apertenga, che ogni
intercesione di qual sia triangolo, pure che sia equidistante dalla base, fa
nuovo triangolo proporzionale a quello maggiore. E quelle cose quali fra sé
sieno proporzionali, in queste ciascune parti corrispondono; ma dove siene
diverse e poco corrispondano le parti, questi sono certo non proporzionali.
15. E sono parte del triangolo visivo,
quanto ti dissi, i razzi, i quali certo saranno nelle quantità proporzionali,
quanto al numero, pari, e in le non proporzionali, non pari; imperò che una di
queste non proporzionali quantità occuperà razzi o più o meno. Vedesti adunque
come uno minore triangolo sia proporzionale ad uno maggiore, e imparasti dai
triangoli farsi la pirramide visiva. Pertanto traduchiamo il nostro ragionare a
questa pirramide. Ma sia persuaso che niuna quantità equidistante dalla
intercesione potere nella pittura fare alcuna alterazione: imperò che esse sono
in ogni equedistante intersegazione pari alle sue proporzionali. Quali cose
sendo così, ne seguita che, non alterate le quantità onde se ne fa l'orlo, sarà
del medesimo orlo in pittura niuna alterazione. E così resta manifesto che ogni
intersegazione della pirramide visiva, qual sia alla veduta superficie
equedistante, sarà a quella guardata superficie proporzionale.
16. Dicemmo delle superficie
proporzionali alla intercesione, cioè equedistante dalla dipinta superficie. Ma
poi che molte superficie si truovano non equedistanti, conviensi di queste
avere diligente investigazione, acciò che tutta la ragione della intersegazione
sia manifesta. Sarebbe cosa lunga, difficile e oscura in queste intersegazione
di triangoli e di pirramide seguire ogni cosa con la regola de' matematici.
Seguiremo dicendo pure come pittore.
17. Recitiamo delle quantità non
equedistanti brevissime, quali conosciute, facile conosceremo le superficie non
equedistante. Delle quantità non equedistante alcune sono ad i razzi visivi
collineari, altre sono ad alcuni razzi visivi equedistanti. Le quantità ad i
razzi visivi collineari, perché non fanno triangolo né occupano numero di
razzi, adunque niuno luogo hanno alla intersegazione. Ma le quantità ad i razzi
visivi equedistanti, quanto l'angolo quale è maggiore nel triangolo alla base
sarà più ottuso, tanto quella quantità meno occuperà dei razzi e per questo
alla intersegazione meno spazio. Dicemmo a torno coprirsi la superficie dalle
quantità; ma ove non raro avviene che in una superficie sarà qualche quantità
equedistante dalla intersegazione, quella così fatta quantità certo nella
pittura farà niuna alterazione. Quelle vero quantità non equedistante, quanto
aranno l'angolo alla base maggiore, tanto più faranno alterazione.
18. E conviensi a queste dette cose
agiugnere quella oppinione de' filosafi, e' quali affermano, se il cielo, le
stelle, il mare e i monti, e tutti gli animali e tutti i corpi divenissono,
così volendo Iddio, la metà minori, sarebbe che a noi nulla parrebbe da parte
alcuna diminuta. Imperò che grande, picciolo, lungo, brieve, alto, basso,
largo, stretto, chiaro, oscuro, luminoso, tenebroso, e ogni simile cosa, quale
perché può essere e non essere agiunta alle cose, però quelle sogliono i
filosafi appellarle accidenti, sono sì fatte che ogni loro cognizione si fa per
comperazione. Disse Virgilio Enea vedersi sopra gli uomini tutte le spalle,
quale posto presso a Polifemo parrebbe uno piccinacolo. Niso e Eurialo furono
bellissimi, quali comparati a Ganimede ratto dagli iddii, forse parrebbono
sozzi. Appresso degl'Ispani molte fanciulle paiono biancose, che appresso a'
Germani sarebbono fusche e brune. L'avorio e l'argento sono bianchi, quali
posti presso al cigno o alla neve parrebbono palidi. Per questa ragione nella
pittura paiono cose splendidissime ove sia quivi buona proporzione di bianco a
nero, simile a quella sia nelle cose dal luminoso all'ombroso. Così queste cose
tutte si conoscono per comperazione. In sé tiene questa forza la comperazione,
che subito dimostra in le cose qual sia più, qual meno o equale. Onde si dice
grande quello che sia maggiore che questo picciolo, e grandissimo quello che
sia maggiore che questo grande; lucido qual sia più chiaro che questo oscuro,
lucidissimo quale sia più chiaro che questo chiaro. E fassi comperazione in
prima alle cose molto notissime. E dove a noi sia l'uomo fra tutte le cose
notissimo, forse Protagora, dicendo che l'uomo era modo e misura di tutte le
cose, intendea che tutti gli accidenti delle cose, comparati fra gli accidenti
dell'uomo si conoscessero. Questo che io dico appartiene a dare ad intendere
che, quanto bene i piccioli corpi sieno dipinti nella pittura, questi parranno
grandi e piccioli a comparazione di quale ivi sia dipinto uomo. E parmi che
Timantes pittore fra gli altri antiqui gustasse questa forza di comparazione,
il quale in una picciola tavoletta dipingendo uno Ciclope gigante adormentato,
fece ivi alcuni satiri iddii quali a lui misuravano il dito grosso, tale che
comparando colui che giacea a questi satiri parea grandissimo.
19. Persino a qui dicemmo tutto quanto
apartenga alla forza del vedere, e quanto s'apartenga alla intersegazione. Ma
poi che non solo giova sapere che cosa sia intersegazione, ma conviene al
pittore sapere intersegare, di ciò diremo. Qui solo, lassato l'altre cose, dirò
quello fo io quando dipingo. Principio,
dove io debbo dipingere scrivo uno quadrangolo di retti angoli quanto grande io
voglio, el quale reputo essere una finestra aperta per donde io miri quello che
quivi sarà dipinto; e quivi ditermino quanto mi piaccino nella mia pittura
uomini grandi; e divido la lunghezza di questo uomo in tre parti, quali a me
ciascuna sia proporzionale a quella misura si chiama braccio, però che
commisurando uno comune uomo si vede essere quasi braccia tre; e con queste
braccia segno la linea di sotto qual giace nel quadrangolo in tante parti
quanto ne riceva; ed èmmi questa linea medesima proporzionale a quella ultima
quantità quale prima mi si traversò inanzi. Poi dentro a questo quadrangolo,
dove a me paia, fermo uno punto il quale occupi quello luogo dove il razzo
centrico ferisce, e per questo il chiamo punto centrico. Sarà bene posto questo
punto alto dalla linea che sotto giace nel quadrangolo non più che sia
l'altezza dell'uomo quale ivi io abbia a dipignere, però che così e chi vede e
le dipinte cose vedute paiono medesimo in suo uno piano. Adunque posto il punto
centrico, come dissi, segno diritte linee da esso a ciascuna divisione posta
nella linea del quadrangolo che giace, quali segnate linee a me dimostrino in
che modo, quasi persino in infinito, ciascuna traversa quantità segua
alterandosi. Qui sarebbono alcuni i quali segnerebbono una linea a traverso
equedistante dalla linea che giace nel quadrangolo, e quella distanza, quale ora
fusse tra queste due linee, dividerebbono in tre parti; e presone le due, a
tanta distanza sopracignerebbono un'altra linea, e così a questa agiugnerebbono
un'altra e poi un'altra, sempre così misurando che quello spazio diviso in tre,
qual fusse tra la prima e la seconda, sempre una parte avanzi lo spazio che sia
fra la seconda e la terza; e così seguendo farebbe che sempre sarebbono li
spazi superbipartienti, come dicono i matematici, ad i suoi seguenti. Questi
forse così farebbono, quali bene che seguissero a loro ditto buona via da dipignere, pure dico errerebbono;
però che ponendo la prima linea a caso, benché l'altre seguano a ragione, non
però sanno ove sia certo luogo alla cuspide della pirramide visiva, onde loro
succedono errori alla pittura non piccioli. Aggiugni a questo quanto la loro
ragione sia viziosa, ove il punto centrico sia più alto o più basso che la
lunghezza del dipinto uomo. E sappi che cosa niuna dipinta mai parrà pari alle
vere, dove non sia certa distanza a vederle. Ma di questo diremone sue ragioni,
se mai scriveremo di quelle dimostrazioni quali, fatte da noi, gli amici,
veggendole e maravigliandosi, chiamavano miracoli. Ivi ciò che sino a qui dissi
molto s'apartiene. Adunque torniamo al nostro proposito.
20. Trovai adunque io questo modo ottimo
così in tutte le cose seguendo quanto dissi, ponendo il punto centrico, traendo
indi linee alle divisioni della giacente linea del quadrangolo. Ma nelle
quantità trasverse, come l'una seguiti l'altra così conosco. Prendo uno
picciolo spazio nel quale scrivo una diritta linea, e questa divido in simile
parte in quale divisi la linea che giace nel quadrangolo. Poi pongo di sopra
uno punto alto da questa linea quanto nel quadrangolo posi el punto centrico
alto dalla linea che giace nel quadrangolo, e da questo punto tiro linee a
ciascuna divisione segnata in quella prima linea. Poi constituisco quanto io
voglia distanza dall'occhio alla pittura, e ivi segno, quanto dicono i
matematici, una perpendiculare linea tagliando qualunque truovi linea. Dicesi
linea perpendiculare quella linea dritta, quale tagliando un'altra linea
diritta fa appresso di sé di qua e di qua angoli retti. Questa così
perpendiculare linea dove dall'altra sarà tagliata, così mi darà la successione
di tutte le trasverse quantità. E a questo modo mi truovo descritto tutti e'
paraleli, cioè le braccia quadrate del pavimento nella dipintura, quali quanto
sieno dirittamente descritti a me ne sarà indizio se una medesima ritta linea
continoverà diamitro di più quadrangoli descritti alla pittura. Dicono i
matematici diamitro d'uno quadrangolo quella retta linea da uno angolo ad un
altro angolo, quale divida in due parti il quadrangolo per modo che d'uno
quadrangolo solo sia due triangoli. Fatto questo, io descrivo nel quadrangolo della
pittura attraverso una dritta linea dalle inferiori equedistante, quale
dall'uno lato all'altro passando super 'l
centrico punto divida il quadrangolo. Questa linea a me tiene uno termine quale
niuna veduta quantità, non più alta che l'occhio che vede, può sopragiudicare.
E questa, perché passa per 'l punto centrico, dicasi linea centrica. Di qui
interviene che gli uomini dipinti posti nell'ultimo braccio quadro della
dipintura sono minori che gli altri. Qual cosa così essere, la natura medesima
a noi dimostra. Veggiamo ne' tempî i capi degli uomini quasi tutti ad una
quantità, ma i piedi de' più lontani quasi corrispondere ad i ginocchi de' più
presso.
21. Ma questa ragione di dividere il
pavimento s'apartiene a quella parte quale al suo luogo chiameremo
composizione. E sono tali che io dubito sì per la novità della matera, sì etiam per questa brevità del nostro
comentare, sarà non molto forse intesa da chi leggerà. E quanto sia difficile
veggasi nell'opere degli antiqui scultori e pittori. Forse perché era oscura,
loro fu ascosa e incognita. Appena vedrai alcuna storia antiqua attamente
composta.
22. Da me sino a qui sono dette cose
utili ma brieve e, come estimo, non in tutto oscure. Ma bene intendo quali
sieno che, dove in esse io posso acquistare laude niuna di eloquenza, ivi
ancora chi non le comprende al primo aspetto, costui appena mai con quanta sia
fatica le apprenderà. Ma ad i sottili ingegni e atti alla pittura queste nostre
cose in qualunque modo dette saranno facili e bellissime; e a chi altri sia
rozzo e da natura poco dato a queste arti nobilissime, saranno queste cose,
benché da eloquentissimi scritte, ingrate. Da noi forse perché sono sanza
eloquenza scritte, si leggeranno con fastidio. Ma priego mi perdonino, se dove
io in prima volli essere inteso, ebbi riguardo a fare il nostro dire chiaro
molto più che ornato. Quello che seguirà, credo, sarà meno tedioso a chi
leggerà.
23. Dicemmo de' triangoli, della
pirramide, della intercesione quanto parea da dire; quale cose, mia usanza,
soglio appresso de' miei amici prolisso con certe dimostrazioni ieometrice
esplicare, quali in questi comentari per brevità mi parve da lassare. Qui solo
raccontai i primi dirozzamenti dell'arte, e per questo così li chiamo
dirozzamenti, quali ad i pittori non eruditi dieno i primi fondamenti a ben
dipignere. Ma sono sì fatti che chi bene li conoscerà, costui come allo
ingegno, così a conoscere la difinizione della pittura intenderà quanto li
giovi. Né sia chi dubiti quanto mai sarà buono alcuno pittore colui, il quale
non molto intenda qualunque cosa si sforzi di fare. Indarno si tira l'arco ove
non hai da dirizzare la saetta. E voglio sia persuaso apresso di noi che solo
colui sarà ottimo artefice, el quale arà imparato conoscere gli orli delle
superficie e ogni sua qualità. Così contrario mai sarà buon artefice chi non
sarà diligentissimo a conoscere quanto abbiamo sino a qui detto.
24. Furono adunque cose necessarie queste
intersegazioni e superficie. Seguita ad istituire il pittore in che modo possa
seguire colla mano quanto arà coll'ingegno compreso.
LIBRO SECONDO
25. Ma perché forse questo imparare ad i
giovani può parere cosa faticosa, parmi qui da dimostrare quanto la pittura sia
non indegna da consumarvi ogni nostra opera e studio. Tiene in sé la pittura
forza divina non solo quanto si dice dell'amicizia, quale fa gli uomini assenti
essere presenti, ma più i morti dopo molti secoli essere quasi vivi, tale che
con molta ammirazione dell'artefice e con molta voluttà si riconoscono. Dice
Plutarco, Cassandro uno de' capitani di Allessandro, perché vide l'immagine
d'Allessandro re tremò con tutto il corpo; Agesilao Lacedemonio mai permise
alcuno il dipignesse o isculpisse: non li piacea la propia sua forma, che
fuggiva essere conosciuto da chi dopo lui venisse. E così certo il viso di chi
già sia morto, per la pittura vive lunga vita. E che la pittura tenga espressi
gli iddii quali siano adorati dalle genti, questo certo fu sempre grandissimo
dono ai mortali, però che la pittura molto così giova a quella pietà per quale
siamo congiunti agli iddii, insieme e a tenere gli animi nostri pieni di
religione. Dicono che Fidia fece in Elide uno iddio Giove, la bellezza del
quale non poco confermò la ora presa religione. E quanto alle delizie
dell'animo onestissime e alla bellezza delle cose s'agiugna dalla pittura,
puossi d'altronde e in prima di qui vedere, che a me darai cosa niuna tanto
preziosa, quale non sia per la pittura molto più cara e molto più graziosa
fatta. L'avorio, le gemme e simili care cose per mano del pittore diventano più
preziose; e anche l'oro lavorato con arte di pittura si contrapesa con molto
più oro. Anzi ancora il piombo medesimo, metallo in fra gli altri vilissimo,
fattone figura per mano di Fidia o Prassiteles, si stimerà più prezioso che l'argento.
Zeusis pittore cominciava a donare le sue cose, quali, come dicea, non si
poteano comperare; né estimava costui potersi invenire atto pregio quale
satisfacesse a chi fingendo, dipignendo animali, sé porgesse quasi uno iddio.
26. Adunque in sé tiene queste lode la
pittura, che qual sia pittore maestro vedrà le sue opere essere adorate, e
sentirà sé quasi giudicato un altro iddio. E chi dubita qui apresso la pittura
essere maestra, o certo non picciolo ornamento a tutte le cose? Prese
l'architetto, se io non erro, pure dal pittore gli architravi, le base, i
capitelli, le colonne, frontispici e simili tutte altre cose; e con regola e
arte del pittore tutti i fabri, iscultori, ogni bottega e ogni arte si regge;
né forse troverai arte alcuna non vilissima la quale non raguardi la pittura,
tale che qualunque truovi bellezza nelle cose, quella puoi dire nata dalla
pittura. Però usai di dire tra i miei amici, secondo la sentenza de' poeti,
quel Narcisso convertito in fiore essere della pittura stato inventore; ché già
ove sia la pittura fiore d'ogni arte, ivi tutta la storia di Narcisso viene a
proposito. Che dirai tu essere dipignere altra cosa che simile abracciare con
arte quella ivi superficie del fonte? Diceva Quintiliano ch'e' pittori antichi
soleano circonscrivere l'ombre al sole, e così indi poi si trovò questa arte
cresciuta. Sono chi dicono un certo Filocle egitto, e non so quale altro
Cleante furono di questa arte tra i primi inventori. Gli Egizi affermano fra
loro bene anni se' milia essere la pittura stata in uso prima che fusse
traslata in Grecia. Di Grecia dicono i nostri traslata la pittura dopo le
vittorie di Marcello avute di Sicilia. Ma qui non molto si richiede sapere
quali prima fussero inventori dell'arte o pittori, poi che non come Plinio
recitiamo storie, ma di nuovo fabrichiamo un'arte di pittura, della quale in
questa età, quale io vegga, nulla si truova scritto, benché dicono Eufranore
istmio scrivesse non so che delle misure e de' colori, e dicono che Antigono e
Senocrate misono in lettere non so che pitture, e dicono che Appelle scrisse a
Perseo de pittura. Raconta Laerzio Diogenes che Demetrio fece commentari della
pittura. E così estimo, quando tutte l'altre buone arti furono dai nostri
maggiori acomandate alle lettere, con quelle insieme dai nostri latini
scrittori fu la pittura non negletta, già che i nostri Toscani antiquissimi
furon in Italia maestri in dipignere peritissimi.
27. Giudica Trimegisto, vecchissimo
scrittore, che insieme con la religione nacque la pittura e scoltura. Ma chi
può qui negare in tutte le cose publiche e private, profane e religiose la
pittura a sé avere prese tutte le parti onestissime, tale che mi pare cosa
niuna tanto sempre essere stata estimata dai mortali? Racontasi i pregi
incredibili di tavole dipinte. Aristide tebano vendè una sola pittura talenti
cento; e dicono che Rodi non fu arsa da Demetrio re, ove temea che una tavola
di Protogenes non perisse. Possiamo adunque qui affermare che la città di Rodi
fu ricomperata dai nemici con una sola dipintura. Simile molte cose raccolse
Plinio, per le quali tu conoscerai i buoni pittori sempre stati apresso di
tutti in molto onore, tanto che molti nobilissimi cittadini, filosafi, ancora e
non pochi re, non solo di cose dipinte, ma e di sua mano dipignerle assai si
dilettavano. Lucio Manilio cittadino romano e Fabio uomo nobilissimo furono
dipintori. Turpilio cavaliere romano dipinse a Verona. Sitedio, uomo stato
pretore e proconsolo, acquistò dipignendo nome. Pacuvio poeta tragico, nipote
ad Ennio poeta, dipinse Ercole in foro romano. Socrate, Platone, Metrodoro,
Pirro furono in pittura conosciuti. Nerone, Valentiniano e Alessandro Severo
imperadori furono studiosissimi in pittura. Ma sarebbe qui lungo racontare a
quanti principi e re sia piaciuto la pittura. E ancora non mi pare da racontare
tutta la turba degli antiqui pittori, quale quanto fusse grande vedilo quinci
che a Demetrio Falerio, figliuolo di Fanostrato, furono fra quattrocento di
trecentosessanta statue, parte a cavallo, parte sui carri, compiute. E in
questa terra in quale sia stato tanto numero di scultori, credi che manco
fussero pittori? Sono certo queste arti cognate e da uno medesimo ingegno
nutrite, la pittura insieme con la scoltura. Ma io sempre preposi l'ingegno del
pittore, perché s'aopera in cosa più difficile. Pure torniamo al fatto nostro.
28. Fu certo grande numero di scultori in
que' tempi e di pittori, quando i prencipi e i plebei e i dotti e gl'indotti si
dilettavano di pittura, e quando fra le prime prede delle province si estendeano
ne' teatri tavole dipinte e immagini. E processe in tanto che Paolo Emilio e
non pochi altri cittadini romani fra le buone arti a bene e beato vivere ad i
figliuoli insegnavano la pittura; quale ottimo costume molto apresso de' Greci
s'osservava. Voleano che i figliuoli bene allevati insieme con geometria e
musica imparassono dipignere. Anzi fu ancora alle femine onore sapere
dipignere. Marzia, figliuola di Varrone, si loda appresso degli scrittori che
seppe dipignere. E fu in tanta lode e onore apresso de' Greci la pittura, che
fecero editto e legge non essere ad i servi licito imparare pittura. Fecero
certo bene, però che l'arte del dipignere sempre fu ad i liberali ingegni e
agli animi nobili dignissima. E quant'io, certo così estimo ottimo indizio d'uno
perfettissimo ingegno essere in chi molto si diletti di pittura; benché
intervenga che questa una arte così sta grata ai dotti quanto agl'indotti, qual
cosa poco accade in quale altra si sia arte, che quello qual diletti ai periti
muova chi sia imperito. Né ispesso troverrai chi non molto desideri sé essere
in pittura ben dotto. Anzi la natura medesima pare si diletti di dipignere,
quale veggiamo quanto nelle fessure de' marmi spesso dipinga ipocentauri e più
facce di re barbate e crinite. Anzi più dicono che in una gemma di Pirro si
trovò dipinto dalla natura tutte e nove le Muse distinte con suo segno. Agiugni
a questo che niuna si truova arte in quale ogni età di periti e d'imperiti così
volentieri s'affatichi ad impararla e a essercitarla. Sia licito confessare di
me stesso. Io se mai per mio piacere mi do a dipignere, - qual cosa fo non raro
quando dall'altre mie maggiori faccende io truovo ozio -, ivi con tanta voluttà
sto fermo al lavoro, che spesso mi maraviglio così avere passate tre o quattro ore.
29. Così adunque dà voluttà questa arte a
chi bene la esserciti, e lode, ricchezze e perpetua fama a chi ne sia maestro.
Quale cose così sendo quanto dicemmo, se la pittura sia ottimo e antiquissimo
ornamento delle cose, digna ad i liberi uomini, grata ai dotti e agl'indotti,
molto conforto i giovani studiosi diano quanto sia licito opera alla pittura. E
poi amonisco chi sia studioso di dipignere imparino questa arte. Sia a chi in
prima cerca gloriarsi di pittura questa una cura grande ad acquistare fama e
nome, quale vedete gli antiqui avere agiunta. E gioveravvi ricordarvi che
l'avarizia fu sempre inimica della virtù. Raro potrà acquistare nome animo
alcuno che sia dato al guadagno. Vidi io molti quasi nel primo fiore
d'imparare, subito caduti al guadagno, indi acquistare né ricchezze né lode,
quali certo se avessero acresciuto suo ingegno con studio, facile sarebbono
saliti in molta lode e ivi arebbono acquistato ricchezze e piacere assai. Ma di
queste assai sino a qui sia detto. Torniamo a nostro proposito.
30. Dividesi la pittura in tre parti,
qual divisione abbiamo presta dalla natura. E dove la pittura studia
ripresentare cose vedute, notiamo in che modo le cose si veggano. Principio, vedendo qual cosa, diciamo
questo esser cosa quale occupa uno luogo. Qui il pittore, descrivendo questo
spazio, dirà questo suo guidare uno orlo con linea essere circonscrizione.
Apresso rimirandolo conosciamo come più superficie del veduto corpo insieme
convengano; e qui l'artefice, segnandole in suoi luoghi, dirà fare
composizione. Ultimo, più distinto discerniamo colori e qualità delle
superficie, quali ripresentandoli, ché ogni differenza nasce da' lumi, proprio
possiamo chiamarlo recezione di lumi.
31. Adunque la pittura si compie di
circonscrizione, composizione, e ricevere di lumi. Seguita adunque dirne
brevissimo. Prima diremo della circunscrizione. Sarà circunscrizione quella che
descriva l'attorniare dell'orlo nella pittura. In questa dicono Parrasio, quel
pittore el quale appresso Senofonte favella con Socrate, essere stato molto
perito e molto avere queste linee essaminate. Io così dico in questa
circonscrizione molto doversi osservare ch'ella sia di linee sottilissime
fatta, quasi tali che fuggano essere vedute, in quali solea sé Appelles pittore
essercitare e contendere con Protogene; però che la circonscrizione è non altro
che disegnamento dell'orlo, quale ove sia fatto con linea troppo apparente, non
dimostrerà ivi essere margine di superficie ma fessura, e io desiderrei nulla
proseguirsi circonscrivendo che solo l'andare dell'orlo; in qual cosa così
affermo debbano molto essercitarsi. Niuna composizione e niuno ricevere di lumi
si può lodare ove non sia buona circonscrizione aggiunta; e non raro pur si
vede solo una buona circonscrizione, cioè uno buono disegno per sé essere
gratissimo. Qui adunque si dia principale opera, a quale, se bene vorremo
tenerla, nulla si può trovare, quanto io estimo, più acommodata cosa altra che
quel velo, quale io tra i miei amici soglio appellare intersegazione. Quello sta
così. Egli è uno velo sottilissimo, tessuto raro, tinto di quale a te piace
colore, distinto con fili più grossi in quanti a te piace paraleli, qual velo
pongo tra l'occhio e la cosa veduta, tale che la pirramide visiva penetra per
la rarità del velo. Porgeti questo velo certo non picciola commodità: primo,
che sempre ti ripresenta medesima non mossa superficie, dove tu, posti certi
termini, subito ritruovi la vera cuspide della pirramide, qual cosa certo senza
intercisione sarebbe difficile; e sai quanto sia impossibile bene contraffare
cosa quale non continovo servi una medesima presenza. Di qui pertanto sono più
facili a ritrarre le cose dipinte che le scolpite. E conosci quanto, mutato la
distanza e mutato la posizione del centro, paia quello che tu vedi molto
alterato. Adunque il velo ti darà, quanto dissi, non poca utilità ove sempre a
vederla sarà una medesima cosa. L'altra sarà utilità che tu potrai facile
constituire i termini degli orli e delle superficie. Ove in questo paralelo
vedrai il fronte, in quello e il naso, in un altro le guance, in quel di sotto
il mento, e così ogni cosa distinto ne' suoi luoghi, così tu nella tavola o in
parete vedi divisa in simili paraleli, ogni cosa a punto porrai. Ultimo a te
darà il velo molto aiuto ad imparare dipignere, quando vedrai nel velo cose
ritonde e rilevate, per le quali cose assai potrai e con giudicio e con
esperienza provare quanto a te sia il nostro velo utilissimo.
32. Né io qui udirò quelli che dicano
poco convenirsi al pittore usarsi a queste cose, quali bene che portino molto
aiuto a bene dipignere, pure sono sì fatte che poi senza quelle potrai nulla.
Non credo io dal pittore si richiegga infinita fatica, ma bene s'aspetti
pittura quale molto paia rilevata e simigliata a chi ella si ritrae; qual cosa
non intendo io sanza aiuto del velo alcuno mai possa. Adunque usino questa
intercisione, cioè velo, qual dissi. E dove a loro piaccia provare l'ingegno
suo senza velo, pure in prima notino i termini delle cose drento da' paraleli
del velo, o vero così seguitino rimirandole che sempre immaginino una linea a
traverso ivi da un'altra perpendiculare essere segata, ove sia statuito quel
termine. Ma perché non raro ad i pittori inesperti sono gli orli delle
superficie non conosciuti, dubbi e incerti, come ne' visi degli uomini, ove non
discernono che mezzo sia tra 'l fronte e le tempie, pertanto conviensi loro
insegnare in che modo possano conoscere. Questo bene ci dimostra la natura.
Veggiamo nelle piane superficie che ciascuna ci si dimostra con sue linee, lumi
e ombre; così ancora le sperich'e concave superficie veggiamo quasi divise in
molte superficie quasi quadrate con diverse macchie di lumi e d'ombre. Pertanto
ciascuna parte, con sua chiarità divisa da quella che sia oscura, si vuole
avere per più superficie. Ma se una medesima superficie cominciando ombrosa a
poco a poco venendo in chiaro continua, allora quello che fra loro sia il mezzo
si noti con una sottilissima linea, acciò che ivi sia la ragione del colorire
men dubbia.
33. Resta da dire della circonscrizione
cosa quale non poco apartiene alla composizione. Per questo si conviene sapere
che sia in pittura composizione. Dico composizione essere quella ragione di
dipignere, per la quale le parti si compongono nella opera dipinta. Grandissima
opera del pittore sarà l'istoria: parte della istoria sono i corpi: parte de'
corpi sono i membri: parte de' membri sono le superficie. E dove la
circonscrizione non altro sia che certa ragione di segnare l'orlo delle
superficie, poi che delle superficie alcuna si truova picciola come quella
degli animali, alcuna si truova grande come quella degli edifici e de' colossi,
delle picciole superficie bastino i precetti sino a qui detti, quali dimostrano
quanto s'apprendano col velo. Alle superficie maggiori ci convien trovare nuove
ragioni. Ma dobbiamo ricordarci di quanto di sopra ne' dirozzamenti dicemmo
delle superficie, de' razzi, della pirramide e della intersegazione, ancora e
de' paraleli del pavimento, e del centrico punto e linea. Nel pavimento scritto
con sue linee e paraleli sono da edificare muri e simili superficie quali
appellammo giacenti. Qui adunque dirò brevissimo quello che io faccio. Principio, comincio dai fondamenti.
Pongo la larghezza e la lunghezza de' muri ne' suoi paraleli, in quale
descrizione seguo la natura, in qual veggo che di niuno quadrato corpo, quale
abbia retti angoli, ad uno tratto posso vedere d'intorno più che due facce
congiunte. Così io questo osservo descrivendo i fondamenti dei pareti; e sempre
in prima comincio dalle più prossimane superficie, massime da quelle quali
equalmente sieno distanti dalla intersegazione. Queste adunque metto inanzi
l'altre, descrivendo loro latitudine e longitudine in quelli paraleli del
pavimento, in modo che quante io voglia occupare braccia, tanto prendo
paraleli. E a ritrovare il mezzo di ciascuno paralelo truovo dove l'uno e
l'altro diamitro si sega insieme, e così quanto voglio i fondamenti descrivo.
Poi l'altezza seguo con ordine non difficilissimo. Conosco l'altezza del parete
in sé tenere questa proporzione, che quanto sia dal luogo onde essa nasce sul
pavimento per sino alla centrica linea, con quella medesima in su crescere.
Onde se vorrai questa quantità dal pavimento persino alla centrica linea essere
l'altezza d'uno uomo, saranno adunque queste braccia tre. Tu adunque volendo il
parete tuo essere braccia dodici, tre volte tanto andrai su in alto quanto sia
dalla centrica linea persino a quel luogo del pavimento. Con queste ragioni
così possiamo disegnare tutte le superficie quali abbiano angolo.
34. Restaci a dire in che modo si
disegnino le circulari. Tragonsi le circulari delle angulari; e questo fo io
così. Fo in sullo spazzo uno quadrangolo con angoli retti, e divido i lati di
questo quadrangolo in parte simili a quelle parti in quale divisi la linea
iacente nel primo quadrangolo della pittura; e qui da ciascuno punto al suo
oposito punto tiro linee, e così rimane lo spazzo diviso in molti piccioli
quadrangoli. Quivi io scrivo uno cerchio quanto il voglio grande, così che le
linee de' piccioli quadrati e la linea del circolo insieme l'una con l'altra si
tagli, e noto tutti i punti di questi tagliamenti, quali luoghi segno ne'
paraleli del pavimento nella mia pittura. Ma perché sarebbe fatica estrema e
quasi infinita con nuovi minori paraleli dividere il cerchio in molti luoghi, e
così con molto numero di punti seguire continovando il circolo, per questo,
quando io arò notato otto o più tagliamenti, segno con ingegno il mio circulo
nella pittura guidando la linea da termine a termine. Forse sarebbe più brieve
via corlo all'ombra? Certo sì, dove il corpo quale facesse ombra fusse in mezzo
posto con sua ragione in suo luogo. Dicemmo adunque in che modo coll'aiuto de'
paraleli le superficie grandi acantonate e tonde si disegnino. Finita adunque la
circunscrizione, cioè il modo del disegnare, restaci a dire della composizione.
Convienci repetere che sia composizione.
35. Composizione è quella ragione di
dipignere con la quale le parti delle cose vedute si pongono insieme in
pittura. Grandissima opera del pittore non uno collosso, ma istoria. Maggiore
loda d'ingegno rende l'istoria che qual sia collosso. Parte della istoria sono
i corpi, parte de' corpi i membri, parte de' membri la superficie. Le prime
adunque parti del dipignere sono le superficie. Nasce della composizione delle
superficie quella grazia ne' corpi quale dicono bellezza. Vedesi uno viso, il
quale abbia sue superficie chi grandi e chi piccole, quivi ben rilevate e qui
ben drento riposto, simile al viso delle vecchierelle, questo essere in aspetto
bruttissimo. Ma quelli visi s'aranno le superficie giunte in modo che piglino
ombre e lumi ameni e suavi, né abbino asperitate alcuna di rilevati canti,
certo diremo questi essere formosi e dilicati visi. Adunque in questa
composizione di superficie molto si cerca la grazia e bellezza delle cose
quale, a chi voglia seguirla, pare a me niuna più atta e più certa via che di
torla dalla natura, ponendo mente in che modo la natura, maravigliosa artefice
delle cose, bene abbia in be' corpi composte le superficie. A quale imitarla,
si conviene molto avervi continovo pensieri e cura, insieme e molto dilettarsi
del nostro, qual di sopra dicemmo, velo. E quando vogliamo mettere in opera
quanto aremo compreso dalla natura, prima sempre aremo notato i termini dove
tiriamo ad uno certo luogo nostre linee.
36. Sino a qui detto della composizione
delle superficie. Seguita de' membri. Conviensi in prima dare opera che tutti i
membri bene convengano. Converranno quando e di grandezza e d'offizio e di
spezie e di colore e d'altre simili cose corrisponderanno ad una bellezza: ché
se fusse in una dipintura il capo grandissimo e il petto piccolo, la mano ampia
e il piè enfiato, il corpo gonfiato, questa composizione certo sarebbe brutta a
vederla. Adunque conviensi tenere certa ragione circa alla grandezza de'
membri, in quale commensurazione gioverà prima allogare ciascuno osso
dell'animale, poi apresso agiungere i suoi muscoli, di poi tutto vestirlo di
sue carne. Ma qui sarà chi mi contraponga quanto di sopra dissi, che al pittore
nulla s'apartiene delle cose quali non vede. Ben ramentano costoro, ma come a
vestire l'uomo prima si disegna ignudo, poi il circondiamo di panni, così
dipignendo il nudo, prima pogniamo sue ossa e muscoli, quali poi così copriamo
con sue carni che non sia difficile intendere ove sotto sia ciascuno moscolo. E
poi che la natura ci ha porto in mezzo le misure, ove si truova non poca
utilità a riconoscerle dalla natura, ivi adunque piglino gli studiosi pittori
questa fatica, per tanto tenere a mente quello che piglino dalla natura, quanto
a riconoscerle aranno posto suo studio e opera. Una cosa ramento, che a bene
misurare uno animante si pigli uno quale che suo membro col quale gli altri si
misurino. Vitruvio architetto misurava la lunghezza dell'omo coi piedi. A me
pare cosa più degna l'altre membra si riferiscano al capo, benché ho posto
mente quasi comune in tutti gli uomini che il piede tanto è lungo quanto dal
mento al cocuzzolo del capo.
37. Così adunque, preso uno membro, si
accommodi ogni altro membro in modo che niuno di loro sia non conveniente agli
altri in lunghezza e in larghezza. Poi si provegga che ciascuno membro segua, a
quello che ivi si fa, al suo officio. Sta bene a chi corre non meno gittare le
mani che i piedi; ma voglio un filosafo, mentre che favella, dimostri molto più
modestia che arte di schermire. Lodasi una storia in Roma nella quale Meleagro
morto, portato, aggrava quelli che portano il peso, e in sé pare in ogni suo
membro ben morto ogni cosa pende, mani, dito e capo; ogni cosa cade languido;
ciò che ve si dà ad espriemere uno corpo morto, qual cosa certo è
difficilissima, però che in uno corpo chi saprà fingere ciascuno membro ozioso,
sarà ottimo artefice. Così adunque in ogni pittura si osservi che ciascuno membro
faccia il suo officio, che niuno per minimo articolo che sia, resti ozioso. E
sieno le membra de' morti sino all'unghie morte. Dei vivi sia ogni minima parte
viva. Dicesi vivere il corpo quando a sua posta abbia certo movimento: dicesi
morte dove i membri non più possono portare gli offici della vita, cioè
movimento e sentimento. Adunque il pittore, volendo espriemere nelle cose vita,
farà ogni sua parte in moto; ma in ciascuno moto terrà venustà e grazia. Sono
gratissimi i movimenti e ben vivaci quelli e' quali si muovano in alto verso
l'aere. Dicemmo ancora alla composizione de' membri doversi certa spezie: e
sarebbe cosa assurda se le mani di Elena o di Efigenia fussero vecchizze e
zotiche, o se in Nestor fusse il petto tenero e il collo dilicato, o se a
Ganimede fusse la fronte crespa o le coscie d'un facchino, o se a Milone, fra
gli altri gagliardissimo, fusseno i fianchi magrolini e sottiluzzi. E ancora in
quella figura, in quale fusse il viso fresco e lattoso, sarebbe sozzo
soggiungervi le braccia e le mani secche per magrezza. Così chi dipignesse
Acamenide, trovato da Enea in su quell'isola con quella faccia quale Virgilio
il descrive, non seguendo gli altri membri a tanta tisichezza, sarebbe pittore
da farsene beffe. Pertanto così conviene tutte le membra condicano ad una
spezie. E ancora voglio le membra corrispondano ad uno colore, però che a chi
avesse il viso rosato, candido e venusto, a costui poco s'affarebbe il petto e
l'altre membra brutte e sucide.
38. Adunque nella composizione de' membri
dobbiamo seguire quanto dissi della grandezza, officio, spezie e colori. Poi
apresso ogni cosa seguiti ad una dignità. Sarebbe cosa non conveniente vestire
Venere o Minerva con uno capperone da saccomanno: simile sarebbe vestire Marte
o Giove con una vesta di femmina. Curavano gli antiqui dipintori, dipignendo
Castor e Poluce, fare che paressero fratelli, ma nell'uno apparesse natura
pugnace, nell'altro agilità. Facevano ancora che a Vulcano sotto la vesta parea
il suo vizio di zopicare, tanto era in loro studio espriemere officio, spezie e
dignità a qualunque cosa dipignessero.
39. Seguita la composizione de' corpi,
nella quale ogni lode e ingegno del pittore consiste. Alla quale composizione
certe cose dette nella composizione de' membri qui s'apartengono. Conviensi che
i corpi insieme si confacciano in istoria con grandezza e con adoperarsi. Chi
dipignesse centauri far briga apresso la cena, sarebbe cosa innetta in tanto
tumulto che alcuno carico di vino stesse adormentato. E sarebbe vizio se in
pari distanza l'uno fusse più che l'altro maggiore, o se ivi fussero e' cani
equali ai cavalli, overo se, quello che spesse volte veggo, ivi fusse uomo
alcuno nello edificio quasi come in uno scrigno inchiuso, dove apena sedendo vi
si assetti. Adunque tutti i corpi per grandezza e suo officio s'aconfaranno a
quello che ivi nella storia si facci.
40. Sarà la storia, qual tu possa lodare
e maravigliare, tale che con sue piacevolezze si porgerà sì ornata e grata, che
ella terrà con diletto e movimento d'animo qualunque dotto o indotto la miri.
Quello che prima dà voluttà nella istoria viene dalla copia e varietà delle
cose. Come ne' cibi e nella musica sempre la novità e abondanza tanto piace
quanto sia differente dalle cose antique e consuete, così l'animo si diletta d'ogni
copia e varietà. Per questo in pittura la copia e varietà piace. Dirò io quella
istoria essere copiosissima in quale a' suo luoghi sieno permisti vecchi,
giovani, fanciulli, donne, fanciulle, fanciullini, polli, catellini, uccellini,
cavalli, pecore, edifici, province, e tutte simili cose: e loderò io qualunque
copia quale s'apartenga a quella istoria. E interviene, dove chi guarda
soprasta rimirando tutte le cose, ivi la copia del pittore acquisti molta
grazia. Ma vorrei io questa copia essere ornata di certa varietà, ancora
moderata e grave di dignità e verecundia. Biasimo io quelli pittori quali, dove
vogliono parere copiosi nulla lassando vacuo, ivi non composizione, ma
dissoluta confusione disseminano; pertanto non pare la storia facci qualche cosa
degna, ma sia in tumulto aviluppata. E forse chi molto cercherà dignità in sua
storia, a costui piacerà la solitudine. Suole ad i prencipi la carestia delle
parole tenere maestà, dove fanno intendere suoi precetti. Così in istoria uno
certo competente numero di corpi rende non poca dignità. Dispiacemi la
solitudine in istoria, pure né però laudo copia alcuna quale sia sanza dignità.
Ma in ogni storia la varietà sempre fu ioconda, e in prima sempre fu grata
quella pittura in quale sieno i corpi con suoi posari molto dissimili. Ivi
adunque stieno alcuni ritti e mostrino tutta la faccia, con le mani in alto e
con le dita liete, fermi in su un piè. Agli altri sia il viso contrario e le
braccia remisse, coi piedi agiunti. E così a ciascuno sia suo atto e flessione
di membra: altri segga, altri si posi su un ginocchio, altri giacciano. E se
così ivi sia licito, sievi alcuno ignudo, e alcuni parte nudi e parte vestiti,
ma sempre si serva alla vergogna e alla pudicizia. Le parti brutte a vedere del
corpo, e l'altre simili quali porgono poca grazia, si cuoprano col panno, con
qualche fronde o con la mano. Dipignevano gli antiqui l'immagine d'Antigono
solo da quella parte del viso ove non era mancamento dell'occhio. E dicono che
a Pericle era suo capo lungo e brutto, e per questo dai pittori e dagli
scultori, non come gli altri era col capo nudo, ma col capo armato ritratto. E
dice Plutarco gli antiqui pittori, dipignendo i re, se in loro era qualche
vizio, non volerlo però essere non notato, ma quanto potevano, servando la
similitudine, lo emendavano. Così adunque desidero in ogni storia servarsi
quanto dissi modestia e verecundia, e così sforzarsi che in niuno sia un
medesimo gesto o posamento che nell'altro.
41. Poi moverà l'istoria l'animo quando
gli uomini ivi dipinti molto porgeranno suo propio movimento d'animo.
Interviene da natura, quale nulla più che lei si truova rapace di cose a sé
simile, che piagniamo con chi piange, e ridiamo con chi ride, e doglianci con
chi si duole. Ma questi movimenti d'animo si conoscono dai movimenti del corpo.
E veggiamo quanto uno atristito, perché la cura estrigne e il pensiero
l'assedia, stanno con sue forze e sentimenti quasi balordi, tenendo sé stessi
lenti e pigri in sue membra palide e malsostenute. Vedrai a chi sia malinconico
il fronte premuto, la cervice languida, al tutto ogni suo membro quasi stracco
e negletto cade. Vero, a chi sia irato, perché l'ira incita l'animo, però
gonfia di stizza negli occhi e nel viso, e incendesi di colore, e ogni suo
membro, quanto il furore, tanto ardito si getta. Agli uomini lieti e gioiosi
sono i movimenti liberi e con certe inflessioni grati. Dicono che Aristide
tebano equale ad Appelle molto conoscea questi movimenti, quali certo e noi
conosceremo quando a conoscerli porremo studio e diligenza.
42. Così adunque conviene sieno ai
pittori notissimi tutti i movimenti del corpo, quali bene impareranno dalla
natura, bene che sia cosa difficile imitare i molti movimenti dello animo. E
chi mai credesse, se non provando, tanto essere difficile, volendo dipignere
uno viso che rida, schifare di non lo fare piuttosto piangioso che lieto? E
ancora chi mai potesse senza grandissimo studio espriemere visi nei quale la
bocca, il mento, gli occhi, le guance, il fronte, i cigli, tutti ad uno ridere
o piangere convengono? Per questo molto conviensi impararli dalla natura, e
sempre seguire cose molto pronte e quali lassino da pensare a chi le guarda
molto più che egli non vede. Ma che noi racontiamo alcune cose di questi
movimenti, quali parte fabbricammo con nostro ingegno, parte imparammo dalla
natura. Parmi in prima tutti e' corpi a quello si debbano muovere a che sia
ordinata la storia. E piacemi sia nella storia chi ammonisca e insegni a noi
quello che ivi si facci, o chiami con la mano a vedere, o con viso cruccioso e
con gli occhi turbati minacci che niuno verso loro vada, o dimostri qualche
pericolo o cosa ivi maravigliosa, o te inviti a piagnere con loro insieme o a
ridere. E così qualunque cosa fra loro o teco facciano i dipinti, tutto
apartenga a ornare o a insegnarti la storia. Lodasi Timantes di Cipri in quella
tavola in quale egli vinse Colocentrio, che nella imolazione di Efigenia,
avendo finto Calcante mesto, Ulisse più mesto, e in Menelao poi avesse consunto
ogni suo arte a molto mostrarlo adolorato, non avendo in che modo mostrare la
tristezza del padre, a lui avolse uno panno al capo, e così lassò si pensasse
qual non si vedea suo acerbissimo merore. Lodasi la nave dipinta a Roma, in
quale el nostro toscano dipintore Giotto pose undici discepoli tutti commossi
da paura vedendo uno de' suoi compagni passeggiare sopra l'acqua, ché ivi
espresse ciascuno con suo viso e gesto porgere suo certo indizio d'animo
turbato, tale che in ciascuno erano suoi diversi movimenti e stati. Ma piacemi
brevissimo passare tutto questo luogo de' movimenti.
43. Sono alcuni movimenti d'animo detti
affezione, come ira, dolore, gaudio e timore, desiderio e simili. Altri sono
movimenti de' corpi. Muovonsi i corpi in più modi, crescendo, discrescendo,
infermandosi, guarendo e mutandosi da luogo a luogo. Ma noi dipintori, i quali
vogliamo coi movimenti delle membra mostrare i movimenti dell'animo, solo
riferiamo di quel movimento si fa mutando el luogo. Qualunque cosa si muove da
luogo può fare sette vie: in su, uno; in giù, l'altro; in destra, il terzo; in
sinistra, il quarto; colà lunge movendosi di qui, o di là venendo in qua; il
settimo, andando attorno. Questi adunque tutti movimenti desidero io essere in
pittura. Sianvi corpi alcuni quali si porgano verso noi, alcuni si porgano in
qua verso e in là, e d'uno medesimo alcune parti si dimostrino a chi guarda,
alcune si retriano, alcune stieno alte, e alcune basse. Ma perché talora in
questi movimenti si truova chi passa ogni ragione, mi piace qui de' posari e
de' movimenti raccontare alcune cose quali ho raccolte dalla natura, onde bene
intenderemo con che moderazione si debbano usare. Posi mente come l'uomo in
ogni suo posare sottostatuisca tutto il corpo a sostenere il capo, membro fra
gli altri gravissimo, e posandosi in uno piè sempre ferma il piè perpendiculare
sotto il capo quasi come base d'una colonna, e quasi sempre di chi stia diritto
il viso si porge dove si dirizzi il piè. I movimenti del capo veggo quasi
sempre essere tale che sotto a sé hanno qualche parte del corpo a sostenerlo,
tanto è grande peso quello del capo; overo certo in contraria parte quasi come
stile d'una bilancia distende uno membro quale corrisponda al peso del capo. E
veggiamo che chi sul braccio disteso sostiene uno peso fermando il piè quasi come
ago di bilancia, tutta l'altra parte del corpo si contraponga a contrapesare il
peso. Parmi ancora che, alzando il capo, niuno più porga la faccia in alto se
non quanto vegga in mezzo il cielo, né in lato alcuno più si volge il viso se
non quanto il mento tocchi la spalla; in quella parte del corpo ove ti cigni,
quasi mai tanto ti torci che la punta della spalla sia perpendiculare sopra il
bellico. I movimenti delle gambe e delle braccia sono molto liberi, ma non
vorrei io coprissero alcuna degna e onesta parte del corpo. E veggo dalla
natura quasi mai le mani levarsi sopra il capo, né le gomita sopra la spalla,
né sopra il ginocchio il piede, né tra uno piè ad un altro essere più spazio
che d'uno solo piede. E posi mente distendendo in alto una mano, che persino al
piede tutta quella parte del corpo la sussegua tale che il calcagno medesimo
del piè si leva dal pavimento.
44. Simile molte cose uno diligente
artefice da sé a sé noterà; e forse quali dissi cose tanto sono in pronto che
paiono superflue recitare. Ma perché veggio non pochi in quelle errare, parsemi
da non tacerle. Truovasi chi esprimendo movimenti troppo arditi, e in una
medesima figura facendo che ad un tratto si vede il petto e le reni, cosa
impossibile e non condicente, credono essere lodati, perché odono quelle
immagini molto parer vive quali molto gettino ogni suo membro, e per questo in
loro figure fanno parerle schermidori e istrioni senza alcuna degnità di
pittura, onde non solo sono senza grazia e dolcezza, ma più ancora mostrano l'ingegno
dell'artefice troppo fervente e furioso. E conviensi alla pittura avere
movimenti soavi e grati, convenienti a quello ivi si facci. Siano alle vergini
movimenti e posari ariosi, pieni di semplicità, in quali piuttosto sia dolcezza
di quiete che gagliardia, bene che ad Omero, quale seguitò Zeosis, piacque la
forma fatticcia persino in le femine. Siano i movimenti ai garzonetti leggieri,
iocondi, con una certa demostrazione di grande animo e buone forze. Sia
nell'uomo movimenti con più fermezza ornati con belli posari e artificiosi. Sia
ad i vecchi loro movimenti e posari stracchi: non solo in su due piè, ma ancora
si sostenghino sulle mani. E così a ciascuno con dignità siano i suoi movimenti
del corpo ad espriemere qual vuoi movimento d'animo; e delle grandissime
perturbazione dell'animo, simile sieno grandissimi movimenti delle membra. E
questa ragione dei movimenti comune si osservi in tutti gli animanti. Già non
si aconfà ad uno bue aratore darli que' movimenti quali daresti a Bucefalas,
gagliardissimo cavallo d'Alessandro. Forse facendo Io, quale fu conversa in
vacca, correre colla coda ritta, rintorcigliata, col collo erto, coi piè
levati, sarebbe atta pittura.
45. Basti così avere discorso il
movimento degli animanti. Ora, poi che ancora le cose non animate si muovono in
tutti quelli modi quali di sopra dicemmo, adunque e di queste diremo. Dilettano
nei capelli, nei crini, ne' rami, frondi e veste vedere qualche movimento.
Quanto certo a me piace ne' capelli vedere quale io dissi sette movimenti: volgansi
in uno giro quasi volendo anodarsi, e ondeggino in aria simile alle fiamme;
parte quasi come serpe si tessano fra gli altri, parte crescendo in qua e parte
in là; così i rami ora in alto si torcano, ora in giù, ora in fuori, ora in
dentro, parte si contorcano come funi. Medesimo ancora le pieghe facciano, e
nascano le pieghe come al tronco dell'albero i suo rami. In questo adunque si
seguano tutti i movimenti tale che parte niuna del panno sia senza vacuo
movimento. Ma siano, quanto spesso ricordo, i movimenti moderati e dolci, più
tosto quali porgano grazia a chi miri che maraviglia di fatica alcuna. Ma dove
così vogliamo ad i panni suoi movimenti, sendo i panni di natura gravi e
continuo cadendo a terra, per questo starà bene in la pittura porvi la faccia
del vento zeffiro o austro che soffi tra le nuvole, onde i panni ventoleggino;
e quinci verrà a quella grazia che i corpi da questa parte percossi dal vento,
sotto i panni in buona parte mostreranno il nudo, dall'altra parte i panni
gittati dal vento dolce voleranno per aria. E in questo ventoleggiare guardi il
pittore non ispiegare alcuno panno contro il vento; e così tutto osservi quanto
dicemmo de' movimenti degli animali e delle cose non animate. Ancora con
diligenza séguiti quanto racontammo della composizione delle superficie, de'
membri e de' corpi.
46. Resta a dire del ricevere de' lumi.
Ne' dirozzamenti di sopra assai dimostrammo quanto i lumi abbiano forza a
variare i colori, ché insegnammo come istando uno medesimo colore, secondo il
lume e l'ombra che riceve altera sua veduta: e dicemmo che 'l bianco e 'l nero
al pittore esprimea l'ombra e il chiarore, tutti gli altri colori essere al
pittore come materia a quale aggiugnesse più o meno ombra o lume. Adunque
lassando l'altre cose, qui solo resta a dire in che modo abbia il pittore usare
suo bianco e nero. Dicono che gli antiqui pittori Polignoto e Timante usavano
solo colori quattro, e Aglaofon si maravigliano si dilettasse dipignere in uno
solo semplice colore, quasi come fusse poco in quanto estimavano grandissimo
numero di colori, se quegli ottimi dipintori avessero eletti quelli pochi, e ad
uno copioso artefice credeano convenirsi tutta la moltitudine de' colori. Certo
affermo che alla grazia e lode della pittura la copia e varietà de' colori
molto giova. Ma voglio così estimino i dotti, che tutta la somma industria e
arte sta in sapere usare il bianco e 'l nero, e in ben sapere usare questi due
conviensi porre tutto lo studio e diligenza. Però che il lume e l'ombra fanno
parere le cose rilevate, così il bianco e 'l nero fa le cose dipinte parere
rilevate, e dà quella lode quale si dava a Nitia pittore ateniese. Dicono che
Zeusis, antiquissimo e famosissimo dipintore, fu quasi prencipe degli altri in
conoscere la forza de' lumi e dell'ombre: agli altri poco fu data simile loda.
Ma io quasi mai estimerò mezzano dipintore quello quale non bene intenda che
forza ogni lume e ombra tenga in ogni superficie. Io, coi dotti e non dotti,
loderò quelli visi quali come scolpiti parranno uscire fuori della tavola, e
biasimerò quelli visi in quali vegga arte niuna altra che solo forse nel
disegno. Vorrei io un buono disegno ad una buona composizione bene essere
colorato. Così adunque in prima studino circa i lumi e circa all'ombre, e
pongano mente come quella superficie più che l'altra sia chiara in quale
feriscano i razzi del lume, e come, dove manca la forza del lume, quel medesimo
colore diventa fusco. E notino che sempre contro al lume dall'altra parte
corrisponda l'ombra, tale che in corpo niuno sarà parte alcuna luminata, a cui
non sia altra parte diversa oscura. Ma quanto ad imitare il chiarore col bianco
e l'ombra col nero, ammonisco molto abbino studio a conoscere distinte
superficie, quanto ciascuna sia coperta di lume o d'ombra. Questo assai da te
comprenderai dalla natura; e quando bene le conoscerai, ivi con molta avarizia,
dove bisogni, comincerai a porvi il bianco, e subito contrario ove bisogni il
nero, però che con questo bilanciare il bianco col nero molto si scorge quanto
le cose si rilievino. E così pure con avarizia a poco a poco seguirai
acrescendo più bianco e più nero quanto basti. E saratti a ciò conoscere buono
giudice lo specchio, né so come le cose ben dipinte molto abbino nello specchio
grazia: cosa maravigliosa come ogni vizio della pittura si manifesti diforme
nello specchio. Adunque le cose prese dalla natura si emendino collo specchio.
47. Qui vero raccontiamo cose quali
imparammo dalla natura. Posi mente che alla superficie piana in ogni suo luogo
sta il colore uniforme; nelle superficie cave e sperice piglia il colore
variazione, però ch'è qui chiaro, ivi oscuro, in altro luogo mezzo colore.
Questa alterazione de' colori inganna gli sciocchi pittori, quali se, come
dicemmo, bene avessono disegnato gli orli delle superficie, sentirebbono facile
il porvi i lumi. Così farebbono: prima quasi come leggerissima rugiada per
infino all'orlo coprirebbono la superficie di qual bisognasse bianco o nero; di
poi sopra a questa un'altra, e poi un'altra; e così a poco a poco farebbono che
dove fusse più lume, ivi più bianco da torno, mancando il lume, il bianco si
perderebbe quasi in fummo. E simile contrario farebbero del nero. Ma ramentisi
mai fare bianca alcuna superficie tanto che ancora non possa farla vie più
bianca. Se bene vestissi di panni candidissimi, convienti fermare molto più giù
che l'ultima bianchezza. Truova il pittore cosa niuna altro che 'l bianco con
quale dimostri l'ultimo lustro d'una forbitissima spada, e solo il nero a
dimostrare l'ultime tenebre della notte. E vedesi forza in ben comporre bianco
presso a nero, che vasi per questo paiano d'argento, d'oro e di vetro, e paiono
dipinti risplendere. Per questo molto si biasimi ciascuno pittore il quale
senza molto modo usi bianco o nero. Piacerebbemi apresso de' pittori il bianco
si vendesse più che le preziosissime gemme caro. Sarebbe certo utile il bianco
e nero si facesse di quelle grossissime perle quale Cleopatra distruggeva in
aceto, ché ne sarebbono quanto debbono avari e massai, e sarebbero loro opere
più al vero dolci e vezzose. Né si può dire quanto di questi si convenga
masserizia al dipintore. E se pure in distribuirli peccano, meno si riprenda
chi adoperi molto nero, che chi non bene distende il bianco. Di dì in dì fa la
natura che ti viene in odio le cose orride e oscure; e quanto più facendo
impari, tanto più la mano si fa dilicata a vezzosa grazia. Certo da natura
amiamo le cose aperte e chiare. Adunque più si chiuda la via quale più stia
facile a peccare.
48. Detto del bianco e nero, diremo degli
altri colori, non come Vitruvio architetto in che luogo nasca ciascuno ottimo e
ben provato colore; ma diremo in che modo i colori ben triti s'adoperino in
pittura. Dicono che Eufranor, antiquissimo dipintore, scrisse non so che de'
colori: non si truova oggi. Noi vero, i quali, se mai da altri fu scritta,
abbiamo cavata quest'arte di sotterra, o se non mai fu scritta, l'abbiamo
tratta di cielo, seguiamo quanto sino a qui facemmo con nostro ingegno. Vorrei
nella pittura si vedessero tutti i generi e ciascuna sua spezie con molto
diletto e grazia a rimirarla. Sarà ivi grazia quando l'uno colore apresso,
molto sarà dall'altro differente; che se dipignerai Diana guidi il coro, sia a
questa ninfa panni verdi, a quella bianchi, all'altra rosati, all'altra crocei,
e così a ciascuna diversi colori, tale che sempre i chiari sieno presso ad
altri diversi colori oscuri. Sarà per questa comparazione ivi la bellezza de'
colori più chiara e più leggiadra. E truovasi certa amicizia de' colori, che
l'uno giunto con l'altro li porge dignità e grazia. Il colore rosato presso al
verde e al cilestro si danno insieme onore e vista. Il colore bianco non solo
appresso il cenericcio e appresso il croceo, ma quasi presso a tutti posto,
porge letizia. I colori oscuri stanno fra i chiari non sanza alcuna dignità, e
così i chiari bene s'avolgano fra gli oscuri. Così adunque, quanto dissi, il
pittore disporrà suo colori.
49 Truovasi chi adopera molto in sue
storie oro, che stima porga maestà. Non lo lodo. E benché dipignesse quella
Didone di Virgilio, a cui era la faretra d'oro, i capelli aurei nodati in oro,
e la veste purpurea cinta pur d'oro, i freni al cavallo e ogni cosa d'oro, non
però ivi vorrei punto adoperassi oro, però che nei colori imitando i razzi
dell'oro sta più ammirazione e lode all'artefice. E ancora veggiamo in una
piana tavola alcune superficie ove sia l'oro, quando deono essere oscure
risplendere, e quando deono essere chiare parere nere. Dico bene che gli altri
fabrili ornamenti giunti alla pittura, qual sono colunne scolpite, base,
capitelli e frontispici, non li biasimerò se ben fussero d'oro purissimo e
massiccio. Anzi più una ben perfetta storia merita ornamenti di gemme
preziosissime.
50. Sino a qui dicemmo brevissime di tre
parti della pittura. Dicemmo della circonscrizione delle minori e maggiori
superficie. Dicemmo della composizione delle superficie, membri e corpi.
Dicemmo de' colori quanto all'uso del pittore estimammo s'apartenesse. Adunque
così esponemmo tutta la pittura, quale dicemmo stava in queste tre cose: circonscrizione,
composizione e ricevere di lumi.
LIBRO TERZO
51. Ma poi che ancora altre utili cose
restano a fare uno pittore tale che possa seguire intera lode, parmi in questi
commentari da non lassarlo. Direnne molto brevissimo.
52. Dico l'officio del pittore essere
così descrivere con linee e tignere con colori in qual sia datoli tavola o
parete simile vedute superficie di qualunque corpo, che quelle ad una certa
distanza e ad una certa posizione di centro paiano rilevate e molto simili
avere i corpi; la fine della pittura, rendere grazia e benivolenza e lode allo
artefice molto più che ricchezze. E seguiranno questo i pittori ove la loro
pittura terrà gli occhi e l'animo di chi la miri; qual cosa come possa farlo
dicemmo di sopra dove trattammo della composizione e del ricevere de lumi. Ma
piacerammi sia il pittore, per bene potere tenere tutte queste cose, uomo buono
e dotto in buone lettere. E sa ciascuno quanto la bontà dell'uomo molto più
vaglia che ogni industria o arte ad acquistarsi benivolenza da' cittadini, e
niuno dubita la benivolenza di molti molto all'artefice giovare a lode insieme
e al guadagno. E interviene spesso che i ricchi, mossi più da benivolenza che
da maravigliarsi d'altrui arte, prima danno guadagno a costui modesto e buono,
lassando adrieto quell'altro pittore forse migliore in arte ma non sì buono in
costumi. Adunque conviensi all'artefice molto porgersi costumato, massime da
umanità e facilità, e così arà benivolenza, fermo aiuto contro la povertà, e
guadagni, ottimo aiuto a bene imparare sua arte.
53. Piacemi il pittore sia dotto, in
quanto e' possa, in tutte l'arti liberali; ma in prima desidero sappi
geometria. Piacemi la sentenza di Panfilo, antiquo e nobilissimo pittore, dal
quale i giovani nobili cominciarono ad imparare dipignere. Stimava niuno
pittore potere bene dipignere se non sapea molta geometria. I nostri
dirozzamenti, dai quali si esprieme tutta la perfetta, assoluta arte di
dipignere, saranno intesi facile dal geometra. Ma chi sia ignorante in
geometria, né intenderà quelle né alcuna altra ragione di dipignere. Pertanto
affermo sia necessario al pittore imprendere geometria. E farassi per loro
dilettarsi de' poeti e degli oratori. Questi hanno molti ornamenti comuni col
pittore; e copiosi di notizia di molte cose, molto gioveranno a bello componere
l'istoria, di cui ogni laude consiste in la invenzione, quale suole avere
questa forza, quanto vediamo, che sola senza pittura per sé la bella invenzione
sta grata. Lodasi leggendo quella discrezione della Calunnia, quale Luciano
racconta dipinta da Appelle. Parmi cosa non aliena dal nostro proposito qui
narrarla, per ammonire i pittori in che cose circa alla invenzione loro
convenga essere vigilanti. Era quella pittura uno uomo con sue orecchie molte
grandissime, apresso del quale, una di qua e una di là, stavano due femmine:
l'una si chiamava Ignoranza, l'altra si chiamava Sospezione. Più in là veniva
la Calunnia. Questa era una femmina a vederla bellissima, ma parea nel viso
troppo astuta. Tenea nella sua destra mano una face incesa; con l'altra mano
trainava, preso pe' capelli, uno garzonetto, il quale stendea suo mani alte al
cielo. Ed eravi uno uomo palido, brutto, tutto lordo, con aspetto iniquo, quale
potresti assimigliare a chi ne' campi dell'armi con lunga fatica fusse magrito
e riarso: costui era guida della Calunnia, e chiamavasi Livore. Ed erano due
altre femmine compagne alla Calunnia, quali a lei aconciavano suoi ornamenti e
panni: chiamasi l'una Insidie e l'altra Fraude. Drieto a queste era la
Penitenza, femmina vestita di veste funerali, quale sé stessa tutta stracciava.
Dietro seguiva una fanciulletta vergognosa e pudica, chiamata Verità. Quale
istoria se mentre che si recita piace, pensa quanto essa avesse grazia e
amenità a vederla dipinta di mano d'Appelle.
54. Piacerebbe ancora vedere quelle tre
sorelle a quali Esiodo pose nome Egle, Eufronesis e Talia, quali si dipignevano
prese fra loro l'una l'altra per mano ridendo, con la vesta scinta e ben monda;
per quali volea s'intendesse la liberalità, ché una di queste sorelle dà,
l'altra riceve, la terza rende il benificio; quali gradi debbano in ogni
perfetta liberalità essere. Adunque si vede quanta lode porgano simile
invenzioni all'artefice. Pertanto consiglio ciascuno pittore molto si faccia
famigliare ad i poeti, retorici e agli altri simili dotti di lettere, già che
costoro doneranno nuove invenzioni, o certo aiuteranno a bello componere sua
storia, per quali certo acquisteranno in sua pittura molte lode e nome. Fidias,
più che gli altri pittori famoso, confessava avere imparato da Omero poeta
dipignere Iove con molta divina maestà. Così noi, studiosi d'imparare più che
di guadagno, dai nostri poeti impareremo più e più cose utili alla pittura.
55. Ma non raro avviene che gli studiosi
e cupidi d'imparare, non meno si straccano ove non sanno imparare, che dove
l'incresce la fatica. Per questo diremo in che modo si diventi in questa arte
dotto. Niuno dubiti capo e principio di questa arte, e così ogni suo grado a
diventare maestro, doversi prendere dalla natura. Il perficere l'arte si
troverà con diligenza, assiduitate e studio. Voglio che i giovani, quali ora
nuovi si danno a dipignere, così facciano quanto veggo di chi impara a
scrivere. Questi in prima separato insegnano tutte le forme delle lettere, quali
gli antiqui chiamano elementi; poi insegnano le silabe; poi apresso insegnano
componere tutte le dizioni. Con questa ragione ancora seguitino i nostri a
dipignere. In prima imparino ben disegnare gli orli delle superficie, e qui se
essercitino quasi come ne' primi elementi della pittura; poi imparino giugnere
insieme le superficie; poi imparino ciascuna forma distinta di ciascuno membro,
e mandino a mente qualunque possa essere differenza in ciascuno membro. E sono
le differenze de' membri non poche e molto chiare. Vedrai a chi sarà il naso
rilevato e gobbo; altri aranno le narici scimmie o arovesciate aperte; altri
porgerà i labri pendenti; alcuni altri aranno ornamento di labrolini magruzzi.
E così essamini il pittore qualunque cosa a ciascuno membro essendo più o meno,
il facci differente. E noti ancora quanto veggiamo, che i nostri membri
fanciulleschi sono ritondi, quasi fatti a tornio, e dilicati; nella età più
provetta sono aspri e canteruti. Così tutte queste cose lo studioso pittore
conoscerà dalla natura, e con sé stessi molto assiduo le essaminerà in che modo
ciascuna stia, e continuo starà in questa investigazione e opera desto con suo
occhi e mente. Porrà mente il grembo a chi siede; porrà mente quanto dolce le
gambe a chi segga sieno pendenti; noterà di chi stia dritto tutto il corpo, né
sarà ivi parte alcuna della quale non sappi suo officio e sua misura. E di
tutte le parti li piacerà non solo renderne similitudine, ma più aggiugnervi
bellezza, però che nella pittura la vaghezza non meno è grata che richiesta. A
Demetrio, antiquo pittore, mancò ad acquistare l'ultima lode che fu curioso di
fare cose assimigliate al naturale molto più che vaghe. Per questo gioverà
pigliare da tutti i belli corpi ciascuna lodata parte. E sempre ad imparare
molta vaghezza si contenda con istudio e con industria. Qual cosa bene che sia
difficile, perché nonne in uno corpo solo si truova compiute bellezze, ma sono
disperse e rare in più corpi, pure si debba ad investigarla e impararla porvi
ogni fatica. Interverrà come a chi s'ausi volgere e prendere cose maggiori, che
facile costui potrà le minori: né truovasi cosa alcuna tanto difficile quale lo
studio e assiduità non vinca.
56. Ma per non perdere studio e fatica si
vuole fuggire quella consuetudine d'alcuni sciocchi, i quali presuntuosi di suo
ingegno, senza avere essemplo alcuno dalla natura quale con occhi o mente
seguano, studiano da sé a sé acquistare lode di dipignere. Questi non imparano
dipignere bene, ma assuefanno sé a' suoi errori. Fugge gl'ingegni non periti
quella idea delle bellezze, quale i bene essercitatissimi appena discernono.
Zeusis, prestantissimo e fra gli altri essercitatissimo pittore, per fare una
tavola qual pubblico pose nel tempio di Lucina appresso de' Crotoniati, non
fidandosi pazzamente, quanto oggi ciascuno pittore, del suo ingegno, ma perché
pensava non potere in uno solo corpo trovare quante bellezze egli ricercava,
perché dalla natura non erano ad uno solo date, pertanto di tutta la gioventù
di quella terra elesse cinque fanciulle le più belle, per torre da queste
qualunque bellezza lodata in una femmina. Savio pittore, se conobbe che ad i
pittori, ove loro sia niuno essemplo della natura quale elli seguitino, ma pure
vogliono con suoi ingegni giugnere le lode della bellezza, ivi facile loro
avverrà che non quale cercano bellezza con tanta fatica troveranno, ma certo
piglieranno sue pratiche non buone, quali poi ben volendo mai potranno lassare.
Ma chi da essa natura s'auserà prendere qualunque facci cosa, costui renderà
sua mano sì essercitata che sempre qualunque cosa farà parrà tratta dal
naturale. Qual cosa quanto sia dal pittore a ricercarla si può intendere, ove
poi che in una storia sarà uno viso di qualche conosciuto e degno uomo, bene
che ivi sieno altre figure di arte molto più che questa perfette e grate, pure
quel viso conosciuto a sé imprima trarrà tutti gli occhi di chi la storia
raguardi: tanto si vede in sé tiene forza ciò che sia ritratto dalla natura.
Per questo sempre ciò che vorremo dipignere piglieremo dalla natura, e sempre
torremo le cose più belle.
57. Ma guarda non fare come molti, quali
imparano disegnare in picciole tavolelle. Voglio te esserciti disegnando cose
grandi, quasi pari al ripresentare la grandezza di quello che tu disegni, però
che nei piccioli disegni facile s'asconde ogni gran vizio, nei grandi molto i
bene minimi vizi si veggono. Scrive Galieno medico avere ne' suo tempi veduto
scolpito in uno anello Fetonte portato da quattro cavalli, dei quali suo freni,
petto e tutti i piedi distinti si vedeano. Ma i nostri pittori lassino queste
lode agli scultori delle gemme; loro vero si spassino in campi maggiori di
lode. Chi saprà ben dipignere una gran figura, molto facile in uno solo colpo
potrà quest'altre cose minute ben formare. Ma chi in questi piccioli vezzi e
monili arà usato suo mano e ingegno, costui facile errerà in cose maggiori.
58. Alcuni ritranno figure d'altri
pittori, e ivi cercano lode quale fu data a Calamide scultore, quanto
referiscono che scolpì due tazze in quali così retratte cose prima simili fatte
da Zenodoro, che niuna differenza vi si conosceva. Ma certo i nostri pittori
saranno in grandi errori se non intenderanno che chi dipinse si sforzò
ripresentarti cosa, quale puoi vedere nel nostro quale di sopra dicemmo velo,
dolce e bene da essa natura dipinto. E se pure ti piace ritrarre opere
d'altrui, perché elle più teco hanno pazienza che le cose vive, più mi piace a
ritrarre una mediocre scultura che una ottima dipintura, però che dalle cose
dipinte nulla più acquisti che solo sapere asimigliarteli, ma dalle cose
scolpite impari asimigliarti, e impari conoscere e ritrarre i lumi. E molto
giova a gustare i lumi socchiudere l'occhio e strignere il vedere coi peli
delle palpebre, acciò che ivi i lumi si veggano abacinati e quasi come in intersegazione
dipinti. E forse più sarà utile essercitarsi al rilievo che al disegno. E s'io
non erro, la scultura più sta certa che la pittura; e raro sarà chi possa bene
dipignere quella cosa della quale elli non conosca ogni suo rilievo; e più
facile si truova il rilievo scolpendo che dipignendo. Sia questo argomento atto
quanto veggiamo che quasi in ogni età sono stati alcuni mediocri scultori, ma
truovi quasi niuno pittore non in tutto da riderlo e disadatto.
59. Ma in quale ti esserciti, sempre abbi
inanzi qualche elegante e singulare essempio, quale tu rimirando ritria; e in
ritrarlo, giudico bisogni avere una diligenza congiunta con prestezza, che mai
ponga lo stile o suo pennello se prima non bene con la mente arà constituito
quello che egli abbi a fare, e in che modo abbia a condurlo; ché certo più sarà
sicuro emendare gli errori colla mente che raderli dalla pittura. E ancora
quando saremo usati a fare nulla senza prima avere ordinato, interverracci che
molto più che Asclipiodoro saremo pittori velocissimi, quale uno antiquo
pittore dicono fra gli altri fu dipignendo velocissimo. E l'ingegno mosso e
riscaldato per essercitazione molto si rende pronto ed espedito al lavoro; e
quella mano seguita velocissimo, quale sia da certa ragione d'ingegno ben
guidata. E se alcuno si troverà pigro artefice, costui per questo così sarà
pigro, perché lento e temoroso tenterà quelle cose quale non arà prima fatte
alla sua mente conosciute e chiare; e mentre che s'avolgerà fra quelle tenebre
d'errori e quasi come il cieco con sua bacchetta, così lui con suo pennello
tasterà questa e quest'altra via. Pertanto mai se non con ingegno scorgidore,
bene erudito, mai porrà mano a suo lavoro.
60. Ma poi che la istoria è summa opera
del pittore, in quale dee essere ogni copia ed eleganza di tutte le cose,
conviensi curare sappiamo dipignere non solo uno uomo, ma ancora cavalli, cani
e tutti altri animali, e tutte altre cose degne d'essere vedute. Questo così
conviensi per bene fare copiosa la nostra istoria; cosa qual ti confesso
grandissima, e a chi si fusse dagli antiqui non molto concessa, che uno in ogni
cosa, non dico eccellente fusse, ma mediocre dotto. Pure affermo dobbiamo
sforzarci che per nostra negligenza quelle cose non manchino quale acquistate
rendono lode, e neglette lassano biasimo. Nitias, ateniese pittore, diligente
dipinse femmine. Eraclides fu lodato in dipignere navi. Serapion non potea
dipignere uomini; altra qual vuoi cosa molto dipignea bene. Dionisio nulla
potea dipignere altri che uomini. Allessandro, quello il quale dipinse il
portico di Pompeo, sopra gli altri bene dipignea animali, massime cani. Aurelio
che sempre amava, solo dipignendo dee ritraeva i loro visi quali esso amava.
Fidias in dimostrare la maestà degli iddii più dava opera che in seguire la
bellezza degli uomini. Eufranore si dilettava espriemere la degnità de'
signori, e in questo avanzò tutti gli altri. Così a ciascuno fu non equali
facultà; e diede la natura a ciascuno ingegno sue proprie dote, delle quali non
però in tanto dobbiamo essere contenti che per negligenza lassiamo di tentare
quanto ancora più oltre con nostro studio possiamo. E conviensi cultivare i
beni della natura con studio ed essercizio, e così di dì in dì farle maggiori;
e conviensi per nostra negligenza nulla pretermettere quale a noi possa
retribuere lode.
61. E quando aremo a dipignere storia,
prima fra noi molto penseremo qual modo e quale ordine in quella sia
bellissima, e faremo nostri concetti e modelli di tutta la storia e di ciascuna
sua parte prima, e chiameremo tutti gli amici a consigliarci sopra a ciò. E
così ci sforzeremo avere ogni parte in noi prima ben pensata, tale che nella
opera abbi a essere cosa alcuna, quale non intendiamo ove e come debba essere
fatta e collocata. E per meglio di tutto aver certezza, segneremo i modelli
nostri con paraleli, onde nel publico lavoro torremo dai nostri congetti, quasi
come da privati commentari, ogni stanza e sito delle cose. In lavorare la
istoria aremo quella prestezza di fare, congiunta con diligenza, quale a noi
non dia fastidio o tedio lavorando, e fuggiremo quella cupidità di finire le
cose quale ci facci abboracciare il lavoro. E qualche volta si conviene
interlassare la fatica del lavorare ricreando l'animo. Né giova fare come
alcuni, intraprendere più opere cominciando oggi questa e domani quest'altra, e
così lassarle non perfette, ma qual pigli opera, questa renderla da ogni parte
compiuta. Fu uno a cui Appelles rispose, quando li mostrava una sua dipintura,
dicendo: «oggi feci questo»; disseli: «non me ne maraviglio se bene avessi più
altre simili fatte». Vidi io alcuni pittori, scultori, ancora rettorici e
poeti, - se in questa età si truovano rettorici o poeti, - con ardentissimo
studio darsi a qualche opera, poi freddato quello ardore d'ingegno, lassano l'opera
cominciata e rozza e con nuova cupidità si danno a nuove cose. Io certo
vitupero così fatti uomini, però che qualunque vuole le sue cose essere, a chi
dopo viene, grate e acette, conviene prima bene pensi quello che egli ha a
fare, e poi con molta diligenza il renda bene perfetto. Né in poche cose più si
pregia la diligenza che l'ingegno; ma conviensi fuggire quella decimaggine di
coloro, i quali volendo ad ogni cosa manchi ogni vizio e tutto essere troppo
pulito, prima in loro mani diventa l'opera vecchia e sucida che finita.
Biasimavano gli antiqui Protogene pittore che non sapesse levare la mano d'in
sulla tavola. Meritamente questo, però che, benché si convenga sforzare, quanto
in noi sia ingegno, che le cose con nostra diligenza sieno ben fatte, pure
volere in tutte le cose più che a te non sia possibile, mi pare atto di
pertinace e bizzarro, non d'uomo diligente.
62. Adunque alle cose si dia diligenza
moderata, e abbisi consiglio degli amici, e dipignendo s'apra a chiunque viene
e odasi ciascuno. L'opera del pittore cerca essere grata a tutta la
moltitudine. Adunque non si spregi il giudicio e sentenza della moltitudine,
quando ancora sia licito satisfare a loro oppenione. Dicono che Appelles,
nascoso drieto alla tavola, acciò che ciascuno potesse più libero biasimarlo e
lui più onesto udirlo, udiva quanto ciascuno biasimava o lodava. Così io voglio
i nostri pittori apertamente domandino o odano ciascuno quello che giudichi, e
gioveralli questo ad acquistar grazia. Niuno si truova il quale non estimi
onore porre sua sentenza nella fatica altrui. E ancora poco mi pare da dubitare
che gli invidi e detrattori nuocano alle lode del pittore. Sempre fu al pittore
ogni sua lode palese, e sono alle sue lode testimoni cose quale bene arà
dipinte. Adunque oda ciascuno, e imprima tutto bene pensi e bene seco gastighi;
e quando arà udito ciascuno, creda ai più periti.
63. Ebbi da dire queste cose della
pittura, quali se sono commode e utili a' pittori, solo questo domando in
premio delle mie fatiche, che nelle sue istorie dipingano il viso mio, acciò
dimostrino sé essere grati e me essere stato studioso dell'arte. E se meno
satisfeci alle loro aspettazioni, non però vituperino me se ebbi animo
traprendere matera sì grande. E se il nostro ingegno non ha potuto finire
quello che fu laude tentare, pure solo il volere ne' grandi e difficili fatti
suole essere lode. Forse dopo me sarà chi emenderà e' nostri scritti errori, e
in questa dignissima e prestantissima arte saranno più che noi in aiuto e utile
ad i pittori, quale io, - se mai alcuno sarà, - priego e molto ripriego piglino
questa fatica con animo lieto e pronto in quale essercitino suo ingegno e
rendano questa arte nobilissima ben governata. Noi però ci reputeremo a voluttà
primi aver presa questa palma d'avere ardito commendare alle lettere questa
arte sottilissima e nobilissima. In quale impresa difficilissima se poco
abbiamo potuto satisfare alla espettazione di chi ci ha letto, incolpino la
natura non meno che noi, quale impose questa legge alle cose, che niuna si
truovi arte quale non abbia avuto suoi inizi da cose mendose: nulla si truova
insieme nato e perfetto. Chi noi seguirà, se forse sarà alcuno di studio e
d'ingegno più prestante che noi, costui, quanto mi stimo, farà la pittura
assoluta e perfetta.