Leon Battista Alberti
DE AMORE
A
PAOLO CODAGNELLO
Benché da te me senta incitato a non tacere in
queste quello che io in altre mie, quali da Firenze a te scrissi, lettere, solo
per non dare occasione a chi forse così volessi me esser qui riputato mordace e
maldicente, però volentieri tacea, pure a me, a cui
tuoi detti e fatti sempre piacquono, le tue ultime brevissime lettere furono
non ingioconde. Nell'altre mie, quanto estimava,
assai copioso recitai quanto a ogni nobile e prestantissimo
ingegno, quale affermo essere il tuo, questa cura amatoria sia pestifera al
tutto e perniciosa. Riconoscesti in quanti modi questo lascivo ardore
dell'amore disturbi e perverta qualunque pubblica e privata impresa e onorata
faccenda. Né credo indi fusse da dubitare che
l'animo, occupato e oppresso da quella molestia assidua certo e grandissima
dell'amore, mai potea vivendo così vendicarsi in
degna alcuna fama, o salire in qual si sia onesto e laudato
grado d'onore e autorità.
Così me parse avere provato a te quanto chi era
servo dell'amore, costui niente potea cosa alcuna
degna o atta a uno ingegno libero e virile. Ora, se in quelle mie lettere te,
quanto per le tue veggo, poco aiutai, se tu non però
bene resti essere non tuo e inimico a te stesso, posso io non dolermi del
nostro infortunio? Paulo mio, chi incolperemo noi? Me forse, che già te, da te
stessi e dalla tua singulare prudenza caduto e abandonato, ove bisognava, con molto studio, cura e
diligenza mia non bene eccitai e ripresi. Che poi diremo noi, te meritare nulla
di biasimo, se tanto non ti spiace averti vinto e colligato
con Cupidine, che né possi sanza stomaco udire me, ove te revochi da tanta e sì iniqua
servitù, né a te ben volendo truovi luogo da tradurti
e mantenerti in libertà e signoria di te stesso? Chi adunque
me non incolpassi, ove io vegga con mio dire potere
prestarti qualche benché minimo utile, ivi non pronto e presto mi dia a satisfare alla tua necessità, ove ben teco bisognasse non
se non turbato contendere? E voglio me, quale tu in tutte mie altre lettere e
in ogni vita sempre trovasti e riputasti modesto e verecondo non meno che
amicissimo a te e cupido d'ogni tuo bene e onore, qui ora così giudichi me,
mosso da offizio e vera benivolenza,
non da cupidità di biasimare alcuno, in queste
lettere solo avere seguito quanto m'è occorso accomodato per levarti da questa
tua miseria, da quale non potrei dire quanto mi doglia non averti già più mesi
distratto, e confirmato libero de'
tuoi usati e magnifici studi.
E se io pensassi pur qui bisognasse a te, uomo intendentissimo e dottissimo, più diffuso e aperto mostrare
l'amore venereo, come teco in mie lettere disputai, così essere inutile e
dannoso a ogni studioso e a te simile ottimo ingegno, inimico dell'ozio e pace,
inimico della fama, dignità e autorità e d'ogni onesto pensiero, replicherei in
queste que' tutti nell'altre mie compresi argumenti. Ma in quelle non fui oscuro a farmi intendere,
né breve a non adducere ed esplicare ciascuna argumentazione ed essemplo,
quanto a quella materia mi parve acconvenirsi. E in
queste credo non bisognerà estendermi a convincer quello quale tu né sai né
puoi negarmi: che inamorato mai alcuno tanto si truova povero o sì tegnente e
misero, al quale molto oro non paressi poco per in tempo ricomperare la sua libertate, dolendosi subietto al
duro imperio, quale in sé pruova iniquo tiene
l'amore. Dannoso adunque amore, se per satisfare a una piccola espettazione
fa ciascuno massaio e assegnato animo sanza lode
esser prodigo gittatore. E più, quanto a qualunque
onesto e laudato essercizio
sia l'amore nocivo e grave, tu meco non raro piangendo, sai, lo confessasti, e dolestiti. Pertanto solo qui, se io non erro, te in questa
calamità forse contiene che tu pur giudichi a te in premio stiano qualche
diletti e grata voluttà; o forse a te stesso persuadi così doversi verso chi tu
credi te pur ami, per lei soffrire miserie e tormenti all'animo tuo infiniti e
molestissimi.
Cerchiamo adunque
quali in amore si truovino diletti, e poi
investigheremo se chi tu ami da te meriti tanta servitù. Potrebbesi
qui disputare se alcuni sono piaceri propri all'animo, e alcuni si sentano
ricevuti dal corpo nostro; e se que' dell'animo sono oppositi contro a' dispiaceri,
come uscire di cura e di dolore, finire paura, sperare ed espettare
sanza sollecitudine cose felici, e poi così con modo
e ragione godere onesto, ove l'abbi ottenute; e se quelli del corpo parte
nascono ivi subito che 'l dispiacere scema, come sedare la sete, freddo, fame,
doglie e simile cose moleste al corpo, parte surgano
da' nostri sensi, odorando, gustando cose a noi soave e dolci. Forse ancora
sarebbe chi dicessi alcuni altri piaceri essere insieme e all'animo e al corpo gratissimi, come udire da ottimi musici e poeti cantare in
presenza le laude tue e di chi tu ami, vedere onorar te insieme e i tuoi
pregiati e lieti. E in questi simili spazi di filosofia assai potrei lungo
disputando stendermi, ma cognosco te non meno di me
tutti questi cognoscere; tale che volendo essere,
quanto mi sforzerò, non prolisso teco né inetto, bisogna preterirli.
Solo qui te, Paulo, appello: tu stessi essamina fra
te e riconosci quale sia il corso di ciascuno tuo dì così amando, e annovera se
di tutte le perturbazioni quali si dice possono all'animo avvenire, alcuna mai
a te qualche ora dia luogo o riposo. Credo per certo, se tu arai l'animo
diligente a ricognoscere la tua calamità, troverai le
perturbazioni quasi tutte insieme combattere ciascuna in te per essere quella
che più te amando affligga e consumi. Troverai in te non mai essere vero alcuno
o ben fermo piacere, se già non riputassi piacere la notte uscire al sereno, a' venti, a' freddi, e così poco
consigliato irne te stesso consumando, e poi quelle
ore, in quali tu più riposato nel tuo letto dovevi dolce giacere e senza
molestia libero dormire, ivi fuora allora sederti in su' marmi, e indi fuggire or questo lume, or questi, or
quegli altri, da' quali ti duole essere ivi sopragiunto o conosciuto; ora
combattere con sassi contro a' cani quali a te pur
corrano abbaiando. Non dico degli altri pericoli, mille sospetti, infinite
paure, innumerabili avolgimenti di pensieri per
l'animo tuo: ora tendere l'orecchie e gli occhi in qua a questa finestra, in là
a quello uscio, su e giù a que' razzi di que' lumi. E poi che tu pur bene spesso arai veduto te assai
essere stato ad aspettare, e il sonno e stracchezza
ti ricacci a casa, tu così bizzarro t'avii
sdrucciolando in questa pozza di fango, percuoti in quel sasso. Alla fine pur
ti truovi in casa sanza
lume, sanza fuoco, molto più tardo che mezza notte.
Ciascuno si riposa: tu solo ne vai a letto maladicendo
e fabricando vendette, e bene che tu arda di cruccio,
non però ivi resti di tremare per freddo, né puoi finire il lungo tuo
rammarichio. Così passa intera la notte sanza punto
chiudere l'occhio; e se pur lasso in sul dì qualche poco t'addormenti, ancora vegghia il tuo animo molestato e tormentato da quelle
commosse furie, e così ti desti sognando cose terribili, e male riposato e con
nuova ragione di dolerti, leviti palido, estenuato e debile, torni a circuire il tuo assedio, onde a casa ti
riduci tardi e con nuova trama di sospetto; e per questo perdi non poca parte
di quanto dovevi prendere cibo e ristoro. Ancora, indi subito dai tuoi quasi
fuggi come se avessi in odio la casa tua, e fuori cerchi ogni luogo per trovare
e gratificare a chi te in tanta miseria in pruova e
volentieri tiene. Non ardisci domandarne per non palesarti, credo come che pur
ti vergogni tanto essere a una vile femmina subietto;
e giunto ov'ella siede poco stimandoti e meno
mostrando averti accetto, misero te, vedi ivi nuove torme di vari teco
concorrenti amanti; cresce sospetto di questo, credi di quello altro, parti più
essere certo di quello già udisti o teco non poco dubitavi, né puoi non
persuadere a te stesso quello guardo e quello riso così con arte e a tempo sia sanza vizio: pàrtiti solo
piangendo e te premendo tutto in dolore e acerbissimi lamenti. O maravigliosi piaceri! Quale inimico tanto a te serà in odio, a cui solo così dieci molestissimi dì paresseno a te picciola vendetta?
E miseri amanti, chi di voi non soffera tanto e
maggiore ancora tormento mesi, mesi e anni? Concederotti
sì, ché cognosco la tua modestia, non essere te così
punto e concitato da questi venenati stimoli d'amore,
tanto che tu in buona parte tua volontà e appetiti amatori non raffreni e con
ragione e modo ritenga. Quale cosa se così fusse in
te, molto mi piacerebbe, ché sarebbe a me certo segno ancora in te avere
l'amore non in tutto suo intero imperio e signoria; e però ti conforto, quanto
puoi presto, in tempo ti stolga da tanta quanta te
opprimerà ruina, se pur seguiti non repugnare e lungi fuggire ogni trama amatoria, però che
tardi poi forse vorrai, non potendo, ritrarti.
Ma né dubito, a distorti da questa tua amatoria
impresa, gioverà insieme rimirando trascorrere quale testé sia l'animo tuo,
benché poco d'amore acceso. Quale medesimo se tu cognoscerai
non poco essere d'ogni passion carico, tanto potrai
di te stimare quanto di dì in dì ti senta più sommesso e men
forte a reggere tanta ruina di te stesso; e così
subito prudente provederai, Paulo mio, a vendicarti
in dolce libertà. E negherai tu forse entro al petto tuo vivere una continua
cura e sollecitudine, quale dì e notte ardendo te spesso muova a pietà di te
stessi, desiderando, espettando varie e molte cose
quali, se non amassi, certo averesti in odio altri
dicessi in quelle punto te essere sospeso. Unde
escono que' tuoi talora gravi e tanto incesi sospiri? Unde rompono dal
tuo petto que' gemiti tuoi? Unde
si muovono que' tuoi tanti, quando solo siedi o
giaci, avolgimenti ora in su questa, ora in su
quell'altra gota? Mentre che tu ami, fue mai che tu
non aspettassi quella festa posdomani e poi quell'altra, e poi in quel dì
quell'ora e quella ancora? E questi tempi tanto da te espettati,
vennero essi mai non in tutto altri e contrari a quanto avevi a te persuaso! E
se pur così a tuo desiderio tempi lieti e festivi rari accaggiono,
tu con grandissimo desiderio aspettasti quella da te amata venissi in mezzo
allo spettaculo, ed ella per altro caso o per sua
bizzarria non uscì in pubblico. Ahimè! puossi egli
esprimere con parole quale in quel dì fussi il tuo
animo al tutto misero e troppo tormentato? Che aparecchi,
suoni o giuochi, cose ivi maravigliose e agli altri giocondissime, te mossono il dì
se non a dolerti desiderando quella, in cui era ogni tuo pensiero e mente
altrove alienata? E se ella forse ivi con l'altre venne, ehi quanti sospetti
torno te aveano in mille modi sollicito,
e tanto più perturbato quanto davi opera coperto potere dolce cambiare con
quella tuoi guardi, cenni e parole! Quale occasione e licenza se a te forse era
pòrta, perché raro così avviene sanza
qualche mezzo di vera amicizia, però tu non in tutto temerario ritemevi trascorrere in cosa meritassi biasimo, se poco da
te fosse servata integrità e fede verso tuoi amici,
quali a te sono, e a ogni liberale ingegno troppo sempre furono, carissimi. Né
meno, se io bene te cognosco prudente e molto
discreto, a te dolea così la fama di chi tu ami fusse per cadere in voce di molti ivi maledici rimiratori; e così più e più cose per suo più che per tuo
rispetto non volesti, quale tu troppo desideravi. E se pure qualche assai
coperta e ben sicura occasione ti si prestava, fu mai alcuno tuo gaudio
amatorio non brevissimo e pieno d'infinita paura e certissimo
pericolo, tale che poi te stessi di troppa audacia tua e temerità accusi e
penti? E così in te mai non mancheranno queste e più altre assai molestie,
quale sarebbe lungo perseguire: dure espettazioni,
molesti desideri, poco, raro e brevissimo gaudio, triste recordazioni,
continuo sospetto e grave dolore.
Tu qui forse teco dirai degli uomini alcuni più
essere che gli altri d'animo forte e robusto a più leggiere portare queste
gravezze amatorie. E forse come altre volte, così testé a me risponderesti te
con le parole quale usava dire io, solo e con guardi amare dilettarti e 'l
vedere, ragionando costumato e con gentile onestà appresso di chi a te si
mostra grata e dolce affezionata. Niuna cosa può a me parere meno dubbia che te
essere d'animo rettissimo, fermissimo e valentissimo, di ingegno nobile e quasi
divino, ornato d'ogni civiltà e costume. Ma non però qui lasserò
te, dalle grandi fiamme e ardori d'amore abagliato e occecato, essere cauto meno che a te bisogni. Paulo mio,
stima questo essere da me in vera e buona parte ditto.
Guarda, per Dio, a te non intervenga come intervenne al nostro Pallimacro, quale non sanza
necessaria e utile cagione mostrando sé esser non freddo, a chi poi, dove ello così fingendo e con arte simulando sé misero accese e
arse, la sua Deifira avea,
iniqua e ingrata verso di lui imparato essere di marmo. Tristo Pallimacro, che tanto piange il suo non meritato infortunio
e male, che tanto si duole della sua grandissima ricevuta iattura, in quale
ruppe il prospero e felice allora corso de' suoi
studi a meritare migliore fortuna e gloria, e perdette sé stesso a servire
quello superbo, ostinato, crudele e sempre in peggio volubile animo e mente
perversa di quella importuna e iniquissima femmina Deifira. Ricordami che leggendo la sua troppa miseria tu
per piatà lacrimasti. Saranno adunque
i suoi scritti, ivi mali, a te maestri, e aiuto molto a ridurti e fermarti a
miglior mente. E se tu ora poco oppresso dal grave imperio del villano e
crudele amore, non raro meco ti dolesti, sarà tuo officio provedere
non avere più lungi a dolerti sanza fine, ove tu più
sia vinto e mal distretto. Né a omo paia sì essere cauto e prudente, che per
avere piacere di vedere e ragionarsi con chi si sia nobile e leggiadra donna,
non seco tema fingere e simularsi amante, però che così seguendo poco se avvederà della ruina sua, se non
quando a lui ella starà sì grave in capo, che molto pesandoli troppo lo premerà
e dorragli, onde poi vorrebbe lungi fuggire in
qualunque altra secura e onesta solitudine per mai
vedere in fronte femmina alcuna.
E che piacere degno d'animo studioso e perito,
quale ciascuno dice essere il tuo, mai a te potrà porgere una femmina indotta,
quale tutte sono, inetta e da ogni parte sciocca e insulsa. Vedera'la
presentarsi a te, se ella meno sarà familiare, leziosa, intera, con la fronte altiera, con la bocca e occhi socchiusi, quale se così ella
venisse per mezzo al fummo e fra la polvere, col capo ora su questa ora su
quest'altra parte abandonato, quasi come a lei fusse il collo di vischio e i nervi di pasta; né ti guarda
se non con lo estremo d'uno occhio, né ti risponde se non prima salutata e apellata tre volte. Pur poi sogghigna, e prima è fatto sera
che ella a proposito ti renda uno sì solo o uno no. E
pure, se forse vuole non parere in tutto muta, ella prima si fiuta le sommità
delle dita e volgeti la guancia, e per vezzi
profferisce le parole sibilando e scilinguata, e
vuole con suoi gesti impudicissimi, levissimi e inonestissimi, parere
un'altra Lucrezia gravissima, santissima e religiosissima. E se forse a te già
ella era familiare, eccola venire dondoloni e avventata, con la voce quale chi
gridando seguita i levrieri, e ridendo simile a chi dell'orto fughi gli
stornelli; salùtati con gli occhi e con la bocca
aperta, e vienti persino con le mani e col ceffo in suso el viso, e comincia mille istorie; né sa ristare di biasimarti quella e quell'altra,
e mai finisce quella predica sua, che così disse e così fece, ed eravi il tale, sopragiunse, partissi, tornò, ed io a lei, e
poi lui...; e in una novella ti racconta la vita e gesti di tutti i suoi
passati, né da lei t'è licito partire se non quando l'arai bene stracca di
domandare commiato. E se da te pure ella convinta forse ragiona a' tuoi propositi, maligna femmina, subito o ti richiede di
mille cose, o comincia a dolersi di te, non dico sanza
ragione solo, ma certo sanza misura.
Così posso non fare ch'io non ti nieghi che in femmina alcuna a te siano piaceri non puerili
e poco degni. E sopra gli altri mi spiace chi lascia le sue altre maggiori
faccende per starsi in ciancie contemplando le
bellezze d'una femmina linguacciuta e male avvenente. Mira che in donna
troverai parte alcuna, se non forse el viso, non
bruttissima e laidissima. E la più in quello
vagheggiata parte, gli occhi pur sono al continuo frolli e maccaticci,
e 'l fronte e le guance lentigginose; i denti, miracolo che in femmina si veggano se non di colore di pettine d'avorio molto vecchio
e ben sucido. E sempre gli vedrai l'unghie mal nette,
né so quale cagione troppo brutte acolorate. Vergognomi seguire l'altre parti più ascose e più inoneste e oscene; a quali considerando troppo mi maraviglio, quando tu, Paulo mio, uomo civilissimo e
pulitissimo, incontri uno altro amante penoso e mesto, tu non subito rida delle
sue inezie, o piuttosto prorumpa in lacrime, mosso a
compassione di lui e di te stesso, che sì viviate subietti
a una vilissima e sporcissima
femmina, e lei seguiate con sì pronta fede, e servendo a lei abbiate dedicato
ogni vostro pensiero, opera e ingegno. Esco in pruova
di questa materia, in quale te lascio ripensare, e pensando te stessi
infastidire. Io netto dilibero uscirne, per non mi
stendere in quello, per quale io, volendo al tutto nulla trattarne, in tutte
mie di sopra a te scritte lettere questa intera materia volentieri e in pruova tacea. Ora, quanto m'è suto tedio averne fatto parola, tanto mi sarà sollazzo e
gaudio queste lettere a te giovino, quanto stimo non poco gioveranno, ché già
debbi apertissimo scorgere quanto in te amando sieno copie di acerbissime cure e gravissime molestie;
piaceri veri niuno, non in tutto a te e a ciascuno studioso indegni e non
convenienti.
Ora seguita veggiamo
se questa, quale tu tanto ami, per altri suoi meriti così forse era da te non
indegna d'essere amata. Dicono a chi te ama debbi pari, quanto in te sia,
rendere fede e benevolenza. Se tu da costei te conosci essere amato, non ti storrò da questo dovuto officio di amare chi ami te. Ma
come farai tu me certo che ella te non molto abbia in odio e a vile? “Oh, ella
mi guardò”. Gran male fu, se tu non guardavi lei, ella guardassi te; né fu meno
da biasimarla, se ella, guardando gli altri, ancora guardò te. “Ella mi
sorrise”. Non dirò gli paresti ridiculo e da così
riderti, ché sempre fusti e a tutti paresti grave e maturissimo.
Ma ella così leggiere sorrise per parerti più bella, per più farsi richiedere;
ché dicono che ridendo più paiono vezzose. “Ella mi salutò e strinsemi la mano, e mi soppresse il piede con duoi suoi piedi”. Ehi, Paulo mio poco prudente, se tu non
conosci questi tutti essere segni più tosto di chi voglia infiammarti e molto
da te essere amata, che di chi vero te ami? E certo troverai le femmine usare
queste carezze e moine molto più quando temeranno non rimanere da' suoi amanti interlassate e meno che l'usato servite, che quando
vorranno gratificarti; ché già in quella età elle non hanno a imparare dove,
altrove che in questo così frascheggiare, sia il tuo
pieno e ardente desiderio. E pur ch'ella voglia, Paulo mio, quando una femmina
vuole, per guardia e paura che la ritardi, mai però li mancherà luogo e tempo a
satisfarti, e in quel modo mostrarti più che in cenni
e atti vero amarti. E quando pur ti piacessi così credere, questi guardi, risi
e gesti siano in altri veri indizi di benivolenza e
amore, voglio non però dubiti, se ella vero amassi, per non mostrarsi a te
amando suggetta, quale te ella reputa e scorge a sé
dato e suggetto, certo mai così darebbe palesi e tali
segni del suo amore. Ché già per pruova conosce
ciascuna femmina questo, che in una andata alla chiesa potrà a casa ritornare
con due dozzine di nuovi amanti. Così siamo noi uomini stolti o troppo liberali
a credere loro e ad amarle, che subito, guardati da una, speriamo insino a casa ci mandi le chiavi dell'uscio da via e quelle
da mezza scala. Poco prudenti, se non cognosciamo
quanto ciascuna femmina dal dì che ella nasce, così giura essere impudica,
vana, e mai più dire vero o bene osservare voto o giuramento che ella poi
faccia in vita, sempre ogni cosa dissimulare, e a tutti mostrare el contrario di quello che ella senta o voglia.
Non dubitare che sia impossibile, non dirò
vedere, ma né fingere, che femmina si truovi alcuna
continente o casta. Siati ottimo qui argumento, che mai femmina vive sì religiosa, né mai sì
sazia de' frutti d'amore, quale sia poco curiosissima
e non sempre infaccendata solo per parere tale
ch'ella meriti essere richiesta e desiderata. Né loro apresso
basta lo specchio, in quale mille volte il dì e più si rimirano, e sempre
qualche cosa a' suoi ornamenti racconciano. Ma più
ancora con tutte le matrone del paese d'ogni sua frasca molto si consigliano. E
così uno solo primo comune piacere di ciascuna femmina sempre fu essere
vagheggiata e da molti richiesta. E pare loro troppo infortunio, se elle in
casa non veggono continuo una coppia de' suoi amanti, in vicinanza qualche altro paio, altrove
poi tanti che, quando ella esce ornata in pubblico, non possa numerarli. Unde avviene che, se ella si truova
non in tutto formosa, pure le pare meritare non pochissimi amanti, e a gara di
quella bella e da tutti e' giovani vagheggiata, ella a molti si proferisce, né
così a lei manca qualunque dì giugnersi a nuovi
mariti. Quella vero bella, sollicitata da troppi, o
per inganni, o per lusinghe, o per premio, o per forza non può non assentire a
qual che sia. E per loro natura e costume mai pongono fine a uno solo amante: piacegli quell'altro e poi ancora quell'altro. Se il primo
amore li succedette felice, così si fida del secondo e di molti altri. Se forse
meno fu il primo amore fortunato, argomentansi più ne' seguenti essere astute e
dotte. Né mai loro manca la cara madre, insieme e qualche altra del parentado:
con costei si consiglia sempre, mostrando troppo temere quella non sappia
alcuna sua cosa. Così richieste, audace, ben consigliate, e da natura
impudiche, nulla amano; ché ben sai non potrebbono
tanti amare a quanti si mostrano amorose, ma fingono amare, ché troppo godono
vedersi molto e da molti richieste. Quale cosa quando loro succede, quando
intendono che tu molto l'ami, quando te conoscono a sé molto essere suggetto, tanto allora più dimostrano amare qualche altri,
tanto fingono teco nuovi corucci. Proverbio delle
astute mamme: “Corucciati, figliuola mia; i corucci racrescono l'amore”. E di
cosa niuna tanto godeno quanto dello strazio fanno di
chi loro ami. E fra le sue prime felicità annumerano
sospiri, lacrime, ultime fatiche e dolori di chi amando e servendo le segua.
E soglio io fare di loro femmine questa
similitudine. Sai troppo a me piace addurre scrivendo qualche similitudine,
quale in questa familiare epistola in pruova lassai. Così mi pare delle femmine come se tu, vero amante,
sedessi in alto sopra a qualche discesa d'uno monte, e la tua amata fusse ivi presso giuso a basso, e
una fune non molto lunga te dall'uno capo e lei dall'altro tenesse legati. Ivi,
se tu corri per prenderla, quella fugge alla china; se tu vuoi rivenire ove
prima eri, ella gode lasciarsi con tua fatica e suo sconcio strascinare, e
talora s'attiene a uno qualche cespuglio per bene vedere tesa la fune e vinculo quale voi tiene legati. Se tu forse ostinato con
più empito e forza tiri, ella ti seconda, ché dubita in quello modo el vostro legame non si rompa; e se ti fermi, ella per
muoverti in più modi s'avolge; all'ultimo te a sé
tira adosso. E se forse li viene così fatto o detto
cosa quale a te non come l'usato dispiaccia, ella troppo se ne pente, e vedra' la il dì seguente, trista seco e mesta, subito
cercare ed entrare in nuovo coruccio. Né mai di loro
alcuno sdegno potrai assai farti certo che sia di quello stato cagione, tanto
in ogni cosa sono loro modi, parole, atti e fatti, con arte simulati e fitti.
E poni mente, sì nella tua amata, sì e in
qualunque altra femmina, quanto sia falsato ciò che in lei tu con tuoi occhi
vedi. La natura le diede e' capelli non argentei e chiari quale ella te li
mostra, e forse credi sieno suoi crini, quali furono
di quell'altra già più anni morta fanciulla. El viso
suo naturale, prima che ella el dipignesse,
era pallido, rugoso e vizzo e fusco, quale tu vedi
con arte fatto candido troppo e splendido. Le gote e i labbri erano non di
colore di corallo e rose, quanto ora tinti a te così già paiono. Ed ella,
benché piccola, non però ti si presenta se non grande. E forse la giudichi
piena e sugosa, ov'ella è vizza soppanno, e tiene in
cambio di sangue in sue vene fuligine stemperata con
acqua. Che più? Al tutto, mai vedrai in loro nulla non fitto a meraviglia e
simulato in modo che questa medesima, quale tu ieri in via scontrasti sì addornata e pulita, oggi in casa poco riconosceresti
vedendola, com'è loro usanza, chiuso l'uscio, sedersi oziosa, col capo male
pettinato, sbadigliare, grattarsi dove la chioma gli piove in qua e in là, e
anche ruspare altrove; poi con quelle unghie graziose stuzzicarsi bene a drento il naso, e cominciare uno gracchiamento,
che cieco gaglioffo non si truova che non perdessi
con loro a gargagliare, e con suoi stracci, stoppe e panerette avere imbrattata e ingombrata le tavole, banche,
deschetti e tutta la casa; e con rimbrotti gridando comandare cose nulla
necessarie a qualunque li venga inanti: “Tu che non
vai? Che non fai? Anzi non volesti? Non dicesti?”; e accanirsi contro chi non
li portò presto il catinuzzo, non meno che se avesser morto el marito; e così
con ciascuno sempre avere apparecchiata lunga materia di litigare, e garrendo
assordire tutta la vicinanza; poi levarsi da sedere, lasciare quivi e colà
parte delle sue masserizuole, e irne
in camera con quella cioppetta piena d'infinite nuote, e sì coperta dalla polvere che tu non scorgi qual
sia suo primo colore; e dal lato gli pende quella bella merceria, chiavi, borsi, aghieri, coltellini, e
insieme quel panicello tanto bianco e mondissimo.
Non mi stendo più oltre, ma certo affermo
questo, che cosa niuna tanto a un'altra sarà dissimile, quanto una femmina apparata a sé stessi non acconcia e pulita sarà dissimilissima, tanto sanno, e piacegli
contraffarsi. E come ella in questi portamenti di fuori si porge da ogni parte
armata di fizioni e decezioni,
così voglio ti sia persuaso ogni loro opera e pensiero mai essere vacuo di
simile arte e fraude; e ciò che in loro a te forse
pare da lodare, molto per loro pessima natura merita biasimo, e ciò che tu in
loro credi vertuoso, sempre fu a fine di vizio.
Adopera la femmina la fama e nome de' suoi maggiori
solo in essere troppo superba, altiera, insolente,
rissosa, bestiale, e da ogni parte incomportabile.
Adopera la femmina le sue laudate bellezze solo in
essere quanto più che l'altre formosa, tanto più incontinente e impudica.
Adopera la copia de' domestici amici e conoscenti in
dare a tutti legge, noglie, e molestia; adopera la
fortuna e le ricchezze non in altro che in gittarle e
dissiparle. Ancora non riebbero dal sarto quella nuova vesta, ch'elle trovorono altro disusato abito e mai prima veduta livrea. E
tanto loro pare di sue bellezze essere pregiate, quanto sono più che l'altre
strane e contraffatte. Non racconto quanti danari ella consumi in frangie, ricami e coprimenti di
capo, e simile leggerezze, a quali continuo vegghiano
curiose e operose. Agiugni qui che per le sue scale
continuo troverai salire e scendere, con sua sportula e fiasconi pieni, vilissime femminelle, o simile genterelle
abiette e infame, quale elle sotto spezie di religiosa piatà
adoperano in sue altre inoneste trame. E guarda,
Paulo, punto non dubitare che cosa qual più che l'altre facci una femmina con
assiduità e diligenza, certissimo lo fa mossa da
vizio, o per ritrarsi dalla incorsa infamia, o per sodisfare
a qualche suo lascivo desiderio; ché ben sai la loro in altre cose instabilità
non permetterebbe sì lungo perseverare in cosa alcuna, se qualche duro ivi e
continuo cappio non le traesse e in proposito contenesse. Che diremo noi dello
ingegno, intelletto e simile laude dello animo, quale sempre adoperano o in
commetter rissa e odio fra tutta la famiglia, o in secondare a' suoi levissimi e lascivi
pensieri e instituti? Quantunque in femmina seppi mai
scorgere alcuna vera virtù; e certo, se in loro fusse
spezie di vero intelletto, ragione o minima discrezione, elle in suoi fatti
sarebbono non quanto sono inconsulte e subite a principiarlo, né sì instabile e
precipitose correrebbono a rompere e mutare sue prese
oppinioni e propositi. Solo odo in femmina dal vulgo laudare la malizia e
l'animo fiero e immane in seguire le scellerate imprese. Quale cose reputo
l'una non maravigliosa, però che esse da ciascuno
altro pensiero vacue, in ozio mai pensano ad altro che in questo quale poi noi
riputiamo subito e testé nato consiglio: l'altra a me pare più meriti apresso de' buoni biasimo e odio
che laude. Chi può troppo avere in odio la stoltizia
di una ardita femmina, quale in pruova a sé e te
adduca estremi pericoli?
Parmi vederti maravigliare che io, quale sempre difesi onore e fama di
ciascuna femmina, ora mi sia steso in sì lungo e forse in parte non in tutto
atto raccontare a quanto in altre mie lettere fu' già
a scriverti. Ma se tu qui meco arai riconosciute le inezie di ciascuna femmina,
e arai a te stessi palese fatto quanto sieno piene di
fizioni e perversità le femmine, a me non tanto dolerà avere così scrivendo lasciato e perso della mia
consuetudine e buona grazia quale, come sai, sempre ebbi apresso
ciascuna femmina, quanto mi sarà voluttà e contentamento
ancora con mio danno averti giovato. E se tu più oltre teco statuirai la tua
amata non però più che l'altre essere divina e sanza
macula, e se fra te ripenserai quante acerbità e gravissime molestie in te già
più e più mesi per sua stranezza e impietà dentro al
petto e animo tuo si ravviluppino e ogni tuo onesto pensiero e impresa
perturbino, certo a te stessi facile persuaderai questo, che da lei a te poco
sia riferita degna benivolenza o merito, e verratti in tedio tanto esserli suggetto
amando. E se meco così affermerai tutte le operazioni delle femmine essere
piene d'infinita fizione, certo conoscerai te da lei
nulla essere amato. E a così persuaderti, non mi pare da non ricordarti a te
riduca a memoria quant'elle, tuttora aspettando in grembo quello che sopra
tutte l'altre cose loro si dà dolcissimo, gratissimo,
disideratissimo, pur non restano dirti: “Ora non più;
lieva su”, come se tu così satisfacendogli
troppo grandemente le 'ngiuriasse. Da questo puoi
lungo e diffuso pensare quale nell'altre meno grate cose si porgono da credere
loro o da non sempre riputarle fingarde e busarde. Non dubitare, adunque,
questa tua così teco finge d'amarti; però che subito poi che a te sia indutto nell'animo nulla da lei te essere amato, veggo te sciolto e libero da' legami d'amore. Amando, niuno
suole essere laccio più forte e più tenace che stimarsi amato. Fuggi adunque così credere, che chi quando amasse mostrerebbe non
amarti, mostrando amarti non finga per straziarti. E così subito potremo
insieme godere seguendo vacui da tanta molestia li nostri ottimi studi, e darci
seguendo ad acquistar fama e laude, qual cosa così amando tu pruovi quanto si possa poco e raro asseguire.
E debbi certo assentire quanto abbiamo insieme
veduto, che in trama con femmine alcuno mai si truova
piacere degno o certo diletto; disagi sì molti e troppo grandissimi, tormento
sì assiduo e inestimabile, dispetti sì, e onte all'animo tuo sanza fine e sanza numero. Che
certo ben quando le nostre di sopra verissime trascorse ragioni non confirmassono così essere gli animi femminili ingiusti,
iniqui, ingrati, pieni di falsità e fellonie, pure non doveresti
tu, Paulo mio, qualche volta conoscerti uomo, e avederti
di tanto errore, che tu, uomo d'animo altrove erto e prestantissimo,
nobile, litterato, virtuoso, quale recuseresti in te qualunque fussi
altro più degno imperio e signoria, ora così perseveri in non fuggire d'essere suggetto a una femmina, quale te poco pregi e goda
straziarti? E quand'ella bene te sanza misura amassi,
quand'ella te con ogni sua opera, industria e arte volesse essere amplissimo,
che potrebbe ella agiugnere alla fortuna, alla fama,
alla autorità, alla dignità, alla virtù tua? Nulla, certo, nulla se non biasimo
e singulare infamia e capitale inimicizia con tutti
e' suoi, come nell'altre mie lettere disputammo. E che potrebbe ella mai darti
piacere, quale a una minima parte de' tuoi per lei
sofferti danni e affanni satisfacesse? Che diletto,
che sollazzo, non pieno di molta inezia e levità, non carico di sospetto,
assediato di paure, rotto da mille infortuni, al tutto e brevissimo? Eh sì,
potrebbe questo sì darti: copia di suoi leziosi guardi e lascivi sorrisi e scilinguate risposte. Hui! cose
utilissime a bene e beato vivere; cose preziosissime certo e da tenerle care!
Parti poco, dopo tanta da te sofferta miseria, irtene
a letto con un guardo più che ieri, quale a te porse una vana e falsa femmina?
E potrebbe ancora, non ti niego, farti più beato,
rinchiuderti in qualche luogo mal netto e peggio odorato, e ivi lasciarti
assetato tanto pure che ella deliberassi ridendo e beffandoti solo dirti: “Abbi
pazienza”.
Aimè, Paulo mio, stima
quello che certo puoi e debbi stimare, noi in questa materia amatoria avere preterite e interlassate più e
più cose per non essere teco men che l'usato verecundo e in ogni mio parlare nitidissimo.
E fa sì che tu non paia ostinato in dedignare la tua
libertà e dolce ozio, né io paia sì di pochissima autorità presso di te e sì in
tutto nudo d'eloquenza in questa causa a ogni dotto ingegno copiosa
d'argomentazioni e facilissima a convincerla, che queste mie lettere poco te abbino
commosso ad assentirmi con opera, come estimo pure credi col tuo animo ciò che
da me sia scritto di sopra, tutto uscire da buona fede e vera amicizia, di
quale a te mi piace reputi me molto affezionato. Così te aviso
alla nostra amicizia da te nulla più potere essere grato ed espettato
che vederti uscito e libero di questi duri e molesti pensieri tuoi amatori,
ridurti a' nostri usati studi e ozi delle lettere,
quali te meco insieme aiuteranno a molto lungi fuggire in dolce libertà e
tranquillità d'animo. E se così ti pare, quando sentirai queste lettere a te aranno giovato, stracciale, ché temo vengano in altre mani
di chi creda me aver voluto essere teco quello che sempre fuggi'
parere, maledico e detrattore. E anche non vorrei a chi male te disidera, le nostre lettere prestassono
utilità a uscire dello infortunio, in quale giace sepulto
chi ama; ché a tormento e strazio niuno più crudele saprei dedicare chi fusse a me capitale inimico quanto solo di vederlo molto
innamorato. Che le mie lettere sieno state troppo
lunghe, biasimane te che così m'incitasti a scriverti. Aspetto mi risponda
queste lettere teco avere asseguito buon frutto. Fra
pochi dì mi piacerà, quando sarò costì, vederti libero e lieto.
Ex Venetiis die decima Ianuarii.
- FINE -