Dal morto padre a l'agitato Oreste,
Che del sangue materno el terren tinse,
L'exterrefacta madre aprì la veste
Che le sue membra infortunate cinse,
E disse al figlio con parole meste
Quando per dargli morte el ferro strinse:
«Qual prima, o 'l pecto o 'l ventre, ferirai?
L'un ti nutrì, ne l'altro ti portai».
Fugite l'amorose cure acerbe
E sia vostra salute el mio dolore;
Beltà, stato, tesori, incanti et erbe
In me non spenson l'inquieto ardore;
Regina fui, e le stelle superbe
Vinsi col verso, ma non vinsi Amore:
Perch'io ucisi, da Amore oppressa,
Padre, sposo, fratel, figli e me stessa.
Niobe son: legga mia sorte dura
Chi misero è, non chi mai non si dolse.
Septe e septe figlioli mi de'
natura,E septe e septe un sol giorno mi tolse.
Poi fu el marmo al marmo sepultura,
Perché 'l cel me regina in preta volse;
E se no 'l credi, apri el sepulcro basso:
Cener non troverai, ma sasso in sasso.
S'Alexandro, terror d'omini e dei,
Cerchi, o Morte, occultare in poco vaso,
O sorda, invida e ceca, in error sei,
Ché virtù non subiace a mortal caso.
Sien suo sepulcro Persi, Indi e Caldei,
La terra vinta da l'orto a l'occaso,
Perché serrare in sé né può né deve
El vincitor del mondo un tumul breve.
Quando l'amato toro ch'è sua phenice
Scorse Pasiphe tra gli armenti inpasti,
Alzando al celo la regina infelice
Le palme iuncte e gli ochi ormai non casti,
Disse piangendo: «Amor, poi ch'a te lice
Avermi accesa, e poi che m'insegnasti
Amar candido toro più che ' miei regni,
Perché mugir come lui non m'insegni?»
Gridando Collatin con pena e doglia
«Lascia, casta Lucretia, ogni dolore,
Ché non è colpa ove non è la voglia,
E se 'l corpo hai corrupto, hai casto el core»,
Rispose lei: «Morte el suspecto toglia,
Sangue mio renda la fama e l'onore.
Non pensar più a me, pensa al tuo danno,
Perché se tu m'absolvi, io mi condanno».
Prima che ' duri ferri insanguiniate,
E veda d'un di voi morte e ruina,
O queste membra mie spartite, o fate
Ch'io sia di quello a cui la sorte inclina,
O di sei lune in sei lune alternate
El posseder me, progenie divina.
E se pur in battaglia el cel vi chiama,
Sia sanza sangue, e vinca chi più m'ama.
Orrido re de le transite genti,
Io vengo a te per mia dolce consorte,
Né passar temo tra tue fiamme ardenti,
Ché la fiamma d'amore arde più forte.
Benché qui sieno più spetie di tormenti
Che arene in mare o lacrime in la morte,
D'ogni pena che qui possa trovare
È supplitio magiore el troppo amare.
Veder perire tuo parto e tua semenza,
Regale aquila diva, assai mi duole.
Che ti vale aver facto experïentia
De l'interrita vista emula al sole,
Da poi ch'hai posto con mala sententia
Sotto a' pie' di Medea tuo nido e prole?
Ché mal perdonerà a' figliol tuoi
Quella che perdonar non seppe a' suoi.
Dido misera son, non diva o dea,
Che Cartagine già di mura cinsi.
Dïana in pudicitia e Citerea
In bellezza, candore e gratia vinsi;
Sicheo amai, non el pietoso Enea:
Per servar fede la mia vita extinsi.
Dunque ogni musa con gran crudeltate
Virgilio armò contro a mia castitate.
Da umil verme tra l'erbe remote
Ne la sinistra man fu puncto Amore,
E sentendo il dolor che lo perquote
Pallido, exangue e perso ogni calore,
Gridava: «Cyterea, or come puote
Ferir breve animal con tal dolore?».
Disse Vener ridendo: «Taci ormai:
E tu che picciol sei, che piaghe fai?».
Improbo Amor, che te nimico armato
Mostra con tanta forza a gli ochi mei!
Più che l'arme m'offende el volto amato,
Perché amo quel ch'odiare doverei.
Sia preda tua el mio felice stato,
Ché 'l mondo sarà mio, se tu mio sei.
Per possederti adunche è cosa onesta
Dar me, mio regno e la paterna testa.
Poi che 'l caro consorte mio fu victo,
A le mamille mie posi e serpenti,
Perché non mai la regina d'Egypto
Serva vedessin le romane genti.
Piglia exemplo, lector, da quel ch'è scripto,
Che regno è nulla, se non ti contenti:
Vissi Antonio vivo, e mori' morto lui,
Per esser morta sua qual viva fui.
Quella ch'a Babylonia fe' le mura
Al figliol disse con pietoso aspecto:
«Nel ventre mio ti pose la natura,
Amor ti ponga in mie braccia e mio lecto.
Un ventre, un lecto e una sepultura
Mostri come l'amor nostro è perfecto;
E non aver de le leggi timore,
Poi ch'a le leggi non subiace Amore».
In tacer morte, in aver palesata
La fiamma ira, furore, impeto veggio.
O Amor ceco, o voglia scelerata!
Io laudo e vedo el meglio, e seguo el peggio.
Ahi, quanto eleggerei non esser nata
Per non scoprir quel che scoprir ti deggio,
Padre! (e de padre al nome impalidisco).
Io t'amo: più scoprirti non ardisco.
Iunger vorre'mi a te, non dirti el nome,
L'onor salvando e contentando el core;
Ma poi non posso, o fratel, sappi come
T'amo, et è più che fraternale amore.
Prendi d'amante e non d'impio el cognome,
Che non fia colpa el non saputo errore.
A star mi sforza l'amorosa cura
Nuda in tue braccia, o nuda in sepultura.
Gridò sentendo in la dextra mamilla
La virgin tusca l'impia asta fatale:
«A mille armati è bastata Camilla,
Invido celo d'ogni gloria mortale!
Poi che del troian sangue ogni erba stilla,
Non andrò sola nel regno infernale,
E nel mio fine acerbo mi delecta
Gloria, victoria, e veduta vendecta».
L'orride, inculte e famellice fiere
Perdonan, duro padre, a' figliol loro,
Et io da le paterne mani altere,
Regal progenie, sanza colpa moro.
Poi ch'io deggio qual victima cadere,
Né mi soccorre età, stato o tesoro,
Volta in me, non in Troia, el ferro orrendo.
Questo spirto creasti, io te lo rendo.
Tu che con fraude a me fusti congiunto,
Ancor con fraude da me ti dividi.
Or è sì presto tanto amor consumpto
Che, per Troia disfar, me prima ucidi?
Satia la voglia, amor manca in un punto.
Donna non mai in acto alcun si fidi,
Ch'io rendo al mondo experïentia vera
Che'l matrimonio ancor nodo è di cera.
O famoso e formoso re d'Atene,
Fa ritenere a' tuoi ogni lor telo,
Ché, come vòle Amore, a noi conviene
Cinger le fronti non d'elmo, ma velo.
Sien vostre braccia le nostre catene,
Ché ben può forzar noi chi forza el Celo.
Sia d'Ypolita el regno da te tolto,
Quale hai vinto con l'armi, e più col volto.
Quando el Sol vide con la chioma sciolta
Venere lacrimare, Adon seguendo,
Disse: «In te pure hai tua saetta volta,
E ministra del pianto vai piangendo».
Rispose lei: «Provar volsi una volta
Come arde el fuoco col quale gli altri acendo.
Ma poi ch'io trovo amor sì mortal cosa,
Sarò da qui inanzi più pietosa».
Gridava Amor: «Io son stimato poco:
Anch'io un templo tra ' mortal vorei».
Onde a lui Cyterea: «Tuo templo è in loco
Che sforza ad adorarti omini e dei».
Alor l'iddio de l'amoroso fuoco
Disse: «Madre, contenta e pensier miei:
Dimmi qual loco hai per mio templo tolto».
Rispose Vener: «Di Lucretia el volto».
Chi t'ha facto, Fortuna, infortunata?
Chi tolto ha 'l regno a te, che ' regni dai?
Tu ruini altri: chi t'ha ruinata?
Tu sempre giri: or come ferma stai?
Impara, o sorda, ceca, iniqua e 'ngrata,
Provar in te el mal che 'n altri fai,
Da poi ch'al voltar tuo d'invidia pieno
El tempo e la prudentia han posto el freno.
Giove, io non so s'a custodire el celo
Saran tuoi dei o tuoi fulgor bastanti,
Ché ti bisogna altra forza, altro telo
Di quel ch'extinse gli antiqui giganti.
Cesar, ch'a l'altrui glorie ha posto el velo,
Non è ben satio di triumphi tanti:
Vinto ha mar, terra, or la celeste via
A l'armi sue anche accessibil fia.
Se pugnar cerchi per disio d'onore,
Eccomi armata: adopra or forza e 'ngegno;
E se da me ti sospingessi Amore,
Ogni prole viril more nel mio regno.
Ma se tu, d'ogni monstro subactore,
Pensi ch'io monstro sia, pien d'ira e sdegno,
El dolce volto che 'l forte elmo serra
Ti scopro: or mira con che monstro hai guerra.
Se per fama acquistar sprezi la morte,
Béi, vïator, di Termophila al fonte:
Qui Leonida col suo popul forte
Fe' prandio, per far cena in Acheronte.
Che tucti morti siano con equal sorte
Agli Spartan puoi dir con lieta fronte,
E che la strage et ostil sangue mostra
Ch'impunita non fu la morte nostra.
La regina di Lydia casta e forte,
Commemorata in tante antique carte,
Disse al chiuso amator dentro a sue porte:
«O mori, o regna con animo et arte.
Poi de me nuda el mio stolto consorte
Veder t'ha facto ogni secreta parte,
Te prendo in sposo, a lui dà morte cruda,
Perch'a più d'un non mi dimostro ignuda».
«Perch'ucidete voi stesse con vitio?»
«Per virgini morire a noi siàn crude».
«Di morir dunque el cominciato offitio
Qual nova occasïone da voi exclude?»
«Perché decreto ha el publico iuditio
Che morte al popul siàn mostrate ignude,
Et esser viste nude a noi par forte
Non solo in vita, ma dreto a la morte».
«S'impudicitia è facta violentia
Dal victore inimico, io non son casta;
Ma se 'l corpo ha polluto altrui potentia,
La voluntà incorrupta è remasta.
E se hai dubio di mia innocentia,
A farne fede questo acto ti basta».
E del vïolator con faccia infesta
Gli gittò in grembo la tagliata testa.
Certificata de l'insidie amare
E de le preparate armi secrete,
Disse a' figlioli non possendo acordare
Julia Augusta con lacryme inquiete:
«Voi avete spartito e terra e mare
Et or me, madre, come spartirete?
Voltate e ferri in me discordi e tristi,
Fate duo parte del ventre onde uscisti».
Raro sculptor con artificio immenso
Me morta in sasso ha retornata viva,
Ma renduto non m'ha la voce e 'l senso,
Ch'una m'ucise, e de l'altro fui priva.
E quando corsi ne l'Erebo accenso
Di Caron impio a la tremenda riva,
Non aspectò più ombre in la sua barca,
Che di me e mia prole assai fu carca.
Chi tu te sia, o di quale emisperio
Venuto se', ch'io so che venir dèi,
Cyro son io, che de' Medi l'imperio
Tradussi a' Persi ne' verdi anni miei.
Se regni, o di regnare hai desiderio,
Pensa a me, che già fui quel ch'or tu sei,
E non mi avere invidia in facti o opre
Di questa poca terra che mi copre.
Nel cel, nel mondo, ne l'infernal corte,
Non essendo dio, omo et ombra alcuna
Bastante a dare a me già mai la morte,
Disse con Fati l'irata Fortuna:
«Facciam che costui sia contro a sé forte,
E sia nostre arme sua ira importuna».
Così mia dextra sempre invicta vinse
Ancor me, perch'Ayace Ayace extinse.
Io che fren posi a l'indomito mare
E d'aer, terra e crudel mostri extinsi,
Ne l'inferno del centro el re tremare
Feci, Caron forzai, Cerber revinsi,
Ahimè, da donna con insidie amare
Tanto fui vinto quanto ogn'altro vinsi,
E del cel, qual sostenni un giorno tucto,
Trovai più grave amor senza alcun fructo.
A Daphne in lauro Phebo: «Io sarò almeno
Se non di te, di le tue fronde degno».
Ma baciando el troncon, di dolor pieno,
Sentì da' labbri suoi scostare el legno,
Così el suo fructo sapor di veneno
Render, onde gridò: «Ben m'hai a sdegno,
Poi ch'arbor facta, ancor con odio raro
Fuggi da me, e rendi el fructo amaro».
Perseo vedendo Andromada revinta
Disse: «Ritien le tue lacrime tante;
Presto vedrai da me la fiera extinta
E serai cibo d'un pietoso amante.
Ma se tu tucta di catene cinta
M'hai rapito lo spirto in un instante,
Disciolta che farai? Ben vedo expresso
Ch'io sciorrò te e legherò me stesso».
Argia al morto Polynice amato
Disse piangendo con pietoso ingegno:
«È questa la corona al ricco stato?
Questo cespite hai sol del patrio regno?
Da fiere e da ucegli t'è perdonato,
E non sa perdonarti umano sdegno,
Ché contro ad ogni legge di natura
Nel tuo regno ti nega sepultura».
Tu che di nocte me, giovane e sola,
Tra questi corpi sanguinosi hai scorto,
Se di ferro non se', tieni la parola
E a tanta pietà mia non far torto.
Io sono del re Adrasto la figliola:
Lasciami sepelir mio sposo morto,
Poi m'ucidi; e che damno a te resulta
Se in suo scambio io remango insepulta?
L'orrida madre ebrea, di pietà nuda,
Poi ch'ucise el figliol con pensier tristi,
A ciò ch'a sé l'ultima fame excluda
E col sangue innocente vita acquisti,
Disse gustando la vivanda cruda:
«Figliol, rientra nel ventre onde uscisti:
Meglio è cibo esser de tua genitrice
Che di vili vermi ne l'urna infelice».
Emula faccia a la solare stella,
Non perder tra le fiere e tuoi dolci anni!
Congiungi a me la tua persona bella,
Né ch'io sia sposa a tuo padre t'affanni;
Lui ingannò tua matre e mia sorella:
Iusta cosa è l'ingannator s'inganni;
Né come troppo ardita mi disdegna,
Ché timido pregar negare insegna.
Tu che del celso a le tinte radice
Siedi, recusa gli amorosi affanni,
E s'amor recusare a te non lice,
Almen fa cauto te con nostri damni.
Produsse noi Babylonia infelice;
Amor ci ucise ne' più floridi anni.
A questo arbor passoci un ferro exangue,
Però el suo fructo strecto versa sangue.
Io rispondo a chi chiama in piano e monte
Credendo sia quel ch'amo, e mai è desso,
E s'io vedo alcun fermo a qualche fonte,
Pur che 'l senta parlare, a lui son presso,
Né trovo ancor quel che la propria fronte
Vidde sì bella, che amò se stesso.
E perché e preghi miei ne porta el vento,
Di me s'intende sol l'ultimo acento.
Volto legiadro, che nel chiaro fonte
Fuggi s'io fuggo, apressi s'io m'apresso,
E quando io stringo te con le man pronte,
Ne le man mi vien meno ? e ven se desso ?
Io ricognosco in te la propria fronte
Ahi lasso!, e temo non amar me stesso.
Crudele Amore, a che m'hai tu reducto?
Di quel ch'amo ho la copia e non el fructo.
In me, che spensi con carboni ardenti
El foco casto insino a l'ultima ora,
Fece el nobil sculptor gesti prudenti,
Candidi membri e la fronte decora,
Con beltà, spirto, gratia, ochi clementi,
Venustà grata da timor in fuora,
Perché morte temer né può né vuole
Del severo Catone l'unica prole.
Certando al centro obscuro di presidentia
Alexandro Annibal con ira molta,
Poi che Minos di ciascuno l'excellentia
Da loro distinctamente ebbe racolta,
Volendo dare la sua iusta sententia,
Scipïon disse: «Or me per terzo ascolta.
Se Roma salvai vivo al Cel superno,
Morto ancor cerco salvarla in inferno».
Le Chie consorti, sanza lancia o scudo
Vedendo ire a' victori lor sposi vinti,
Gridar: «Non exponete el corpo nudo
A l'ostil fede, ché sarete extincti:
Né vi spaventi el sacramento crudo
Di gire a loro sol d'umil panno cinti,
Perché in loco o di panno o di veste
Sempre son a l'om forte l'armi infeste».
Che di Griseida son la statua dura,
Viator, sappi, a ciò partir ti possa.
Sto giorno e nocte a questa sepultura
Tardi pentita, e tardi a pietà mossa,
Per noto fare ad ogni creatura
Che qui di Troyol stan l'infelice ossa.
Son di metallo, ché tanto amatore
Ucidendo, ebbi di metallo el core.
El gran duca di Grecia morto e nudo
Coprendo Serse con sua veste tosto,
Uscir sentì sermone irato e crudo
Dal corpo extinto in fredda terra exposto:
«A l'uom forte veste è suo proprio scudo.
Leva da me el perso abito posto,
Perché io voglio con titulo eterno
Qual Spartan, non qual Persa, ire a l'inferno».
Per degener timor di mortal pena
Fugendo el figlio el martïal furore,
La greca matre d'ira e dolor piena
Disse, con ferro a quel passando el core:
«Mentito hai Sparte, progenie aliena,
Mentito me, mentito el genitore.
Te ucidendo, ancor che prole mia,
Sono a me cruda e a la patria pia».
Transfixo già da l'ostil ferro crudo,
El teban duce Epaminunda invicto,
Poi ch'intese esser salvo el proprio scudo
E profligato ogni nimico aflicto,
Lieto disse: «Or sferrate el pecto nudo
E sia el corpo dall'alma derelicto.
Satisfacto ho in questa guerra dura
A la patria, a la gloria, a la natura».
Mentre exequir quel che la patria vuole
Paran l'armate laconice squadre,
Et a far opre glorïose e sole
E nati suoi instruisce ogni padre,
Itura in guerra a l'animosa prole
Dando lo scudo l'interrita madre
Disse, basciando la sua faccia adorna:
«Figliolo, con questo o in questo ritorna».
Di nodi immeritati circundato
El figliol, forte assai più che felice,
Vedendo el ferro iniusto preparato
Per resecare el suo collo infelice,
Disse a te Mallio: «Padre dispietato,
Tormi la vita e non la gloria lice.
Quel che tu non vincesti avendo io vinto,
Son per invidia e non per colpa extinto».
Non contenta de l'urna eterna e forte,
Poi che 'l suo sposo fato impio consumpse,
Disse Artemisia: «Non porrà la morte
Disgiunger ciò che 'n vita amor congiunse»;
E l'ossa in cener del suo pio consorte
In suave liquor bevve et assumpse
Dicendo: «Altri d'oro, saxo, o cener divo,
Ha sepulcro, e tu l'hai d'un pecto vivo».
Disse ad Ameto la regina fida:
«Non pianger, che da' fati or ti discioglio.
Poi che non trovi chi per te s'ucida,
Io, a ciò che tu viva, morir voglio».
E ne le fiamme, sanza pianto o strida,
Si gettò più constante ch'uno
Dicendo: «Solo a me dà pene molte
El non poter morir per te dua volte».
Poi che sentì del figliol suo la morte,
Tamari per dolor non si confuse,
Ma qual regina generosa e forte
Con equal arte el vincitor illuse,
E così morto con orribil sorte
In utre d'uman sangue pien l'incluse,
Con sermon sanza fine irati e tristi
Dicendo: «Sangue bèi, sangue sitisti».
In vita e morte el constante Romano
Che 'l ferro in sé per libertà converse,
Che 'l sautio petto curassino invano
E pietosi ministri non sofferse,
Ma d'ira pieno con l'una e l'altra mano
La ferita mortale si riaperse,
Gridando: «Perché serri, o turba exangue,
Piaga che versa più gloria che sangue?»
Perché di Bacco invise foglie immonde
Me circundate con inutil prove?
Or non sapete voi che le mie fronde
Non ardisce toccar l'ira di Giove,
Né come voi le prosterne e confonde
L'autunno, o dal color verde le move?
Pianta impudica, a' verdi rami a dosso
Non star, ch'io vergin ebria esser non posso.
De la sorella sua l'iniuria inmensa
Da poi che Progne vendicar propose,
El figliol morto da iusta ira acensa
In vivanda e in prandio al padre pose,
E poi che magnato ebbe, in su la mensa
Gittò la testa e le mani sanguinose
Dicendo: «Mira con faccia compunta
Di chi fiera hai la carne in cibo assumpta».
Iulia le luci paternale infeste
Tornando a render tranquille e serene,
Con abito remisso e chiome oneste,
Non d'assirii liquori e gemme piene,
«Ahi — disse Agusto — quanto questa veste
A te più che l'externa si conviene!»
Rispose lei con parole legiadre:
«Ier m'ornai al marito, et oggi al padre».
Morto a Troya, e rinato a Roma in sasso,
Per occultar le mie pene meschine
Son stato ascoso in loco umido e basso
Seculi assai tra l'antique ruine,
Et or riducto al sol dimostro, ahi lasso,
Che 'l cel non vuole che 'l mio duolo abbia fine.
Sol m'ha negato, lo sculptore acorto,
Coce, perch'io non gridi: «Io moro a torto».
Quello Artaserse che ' nimici armati
Spesso cacciò del Mar Caspio a le porte,
Negli extremi anni suoi mal fortunati
Per troppa prole, e troppo ardita e forte,
Da poi che tanti da lui generati
Vidde stringer el ferro in la sua morte,
Disse: «O mio fato orrendo, acerbo e solo:
Tra figliol tanti non trovo un figliolo».
Mesto del salvo re, non di sua sorte,
Mutio, tremendo assai più che tremente,
Disse: «Inimico a nimico dar morte
Volsi io, in mio come in tuo fato audente,
Fare e patire cosa inaudita e forte,
Poiché proprio è de la romana gente.
Tua fiamma, dando a me di me victoria,
Mandi in cener la mano, e non la gloria».
Iulia, noverca sua, amando forte
Del gran Septimio el figliolo infelice,
Gli disse: «Ad altri dar beata sorte
Posso, e non posso me render felice:
Esser non tuo figliolo, ma tuo consorte
Voria ». Rispose lei: «Se vòi, ti lice:
Perché, s'imperator del mondo sei,
Le leggi dare e non ricever dèi».
Impio Neron, tuo rinovarmi in sasso
È crudeltà, o amorosa cura?
S'è per farmi morir di novo, el passo
Ritien, ch'al piede tuo la pietra è dura;
E se fiamma d'amor ti stringe, ahi lasso!,
Mal ti soccorrerà fredda sculptura,
Perché di me l'artifice confuso
Ti rende el corpo, e non del corpo l'uso.
Perché tremando el ferro retraete,
Percussor destinati a sorte rara?
Me, già regina del mondo, or vedete
Esser regina de la morte amara.
Stringete el ferro, che me troverete
Di sangue liberal, di pianto avara,
Che 'l mirar vi saria troppo guadagno
Pianger la madre d'Alexandro Magno.
De l'invicta regina la fortezza
Avendo Pyrro assai temptata invano,
Disse: «Se come ardire hai gentilezza,
Mostrami el volto chiuso in l'elmo insano».
Rispose lei: «Non, no, che mia bellezza
El duro ferro ti torria di mano:
Et io non con beltà, ma dextra forte
Son resoluta darti oggi la morte».
«Alexandro, del mondo subactore,
Di Daryo hai la figliola in potestate,
A paragon di cui stella e sol mòre:
Non sdegnar rimirar tanta beltate».
Rispuose lui: «Se 'l suo gran genitore
Ho superato, e tante genti armate,
Fuggo el mirarla, a ciò non accadesse
Che la figlia del vinto non vincesse».
«Chi è costui che 'l natural vigore
E viva effigie nel metallo spira?»
«Alexandro è, del mondo subactore,
Di cui in statua ancor tremenda è l'ira».
«Chi 'l fece?» «Fu Lysippo lo sculptore».
«Perch'alza el volto e verso el cel rimira?»
«Ch'a Giove dice el victore d'ogni guerra:
– Tien' tu el cel, et io terrò la terra — ».