PREFAZIONE
Molti hanno scritto
intorno alle doti che distinguono la lingua italiana da tutte le antiche e
moderne. Pochi, per quanto sappiamo, ne hanno trattato con critica, in guisa da
far discernere come e quanto essa lingua sia stata fin ad oggi applicata all'eloquenza,
alla poesia ed alla letteratura in generale degl'Italiani. Finalmente nessuno
ha considerato filosoficamente le origini, le epoche e la formazione di essa,
affine di conoscere per via d'analogia i principj, i progressi oscurissimi
delle formazioni e trasformazioni di tante altre lingue. Infatti, chi potesse
rintracciare siffatte trasformazioni saprebbe quando la terra fu gradualmente
popolata, e come il genere umano fu diviso e suddiviso in differenti nazioni. I
patti reciprochi delle società umane si creano e mantengono unicamente per
mezzo della parola; e gli uomini, che a cagione della diversità delle loro
lingue non si possono intendere fra di loro, si dividono naturalmente sotto
leggi diverse. Alcune nazioni che, abitando opposti climi ed emisferi con leggi
e governi tutti proprj e differenti, parlano ad ogni modo la stessa lingua,
sono colonie recentissime di altri popoli; ma tardi o tosto la lingua della
Madre Patria dovrà necessariamente alterarsi in guisa che divenga, se non
un'altra lingua, certamente un altro dialetto. Il che appare evidentemente
nell'immenso tratto d'Europa dove si parla la lingua illirica e dove i Russi, i
Boemi e i Dalmati, originarj dello stesso suolo, e serbando pur tuttavia le
radici di uno stesso idioma, non possono intendersi senza interprete. Così
verrà tempo in cui le vicissitudini della terra e le continue alterazioni delle
lingue faranno che i Dizionari dell'Inghilterra e dell'America settentrionale
offriranno la differenza stessa di suoni e di significati che oggi si trova
nella lingua italiana e nella francese, che pur sono evidentissimi dialetti del
latino, già inteso e parlato in tutti i paesi ove i Romani stabilirono e
mantennero per più secoli le loro conquiste. Le alterazioni nondimeno e la
metamorfosi di una in un'altra lingua succedono per così minimi gradi, e
insieme con tanta velocità, che riescì sempre oltremodo difficile di tracciare
il processo del cambiamento; e finchè le lingue sono più popolari che
letterarie e più parlate che scritte, le loro mutazioni trascorrono
impercettibili dalla bocca dell'avo e del padre a quella del nipote e del
figlio; quindi il poco che noi sappiamo dell'origine della lingua greca è sì
destituto di fatti positivi, che la questione, dopo anni infiniti e volumi di
dispute, rimanesi tuttavia fra' termini delle speculazioni metafisiche, per la
ragione che la lingua o le lingue da cui derivò la greca ci sono del tutto
ignote. Bensì sull'origine della lingua latina abbiamo maggiori nozioni non
solo dalla quantità immensa di radici e vocaboli greci, ma ben anche dalle
terminazioni; così dalle lettere e suoni dell'alfabeto, dal sistema metrico e
dalla prosodia comune a' Greci ed a' Latini. Pure, mentre sappiamo come il
latino si perfezionò continuamente imitando il greco, ignoriamo tuttavia in
quali guise il greco cominciò a trasformarsi in latino.
Le lettere, le arti e le
scienze trapiantate dalla Grecia in Italia, le conquiste e la legislazione del
popolo romano ampliate e diffuse resero la lingua latina universale in Europa;
e le invasioni de' popoli settentrionali la trasformarono in alcune delle nuove
lingue che oggi si parlano e scrivono. Bensì la lingua latina, innanzi che
divenisse italiana, francese e spagnuola, trapassò per cambiamenti graduali e
infinite vicissitudini, durante l'era del medio evo; tanto più difficili a
conoscersi, quanto che fu l'epoca della barbarie e della ignoranza e della
servitù del genere umano europeo. Molte tracce restano pur nondimeno visibili anche
fra le tenebre di quei secoli; e se i fatti somministrati dalla storia e
accertati dalla critica saranno applicati ai principj generali che
INTRODUZIONE
Nel dare principio alla
serie de' discorsi intorno alla storia letteraria ed a' poeti d'Italia, giudico
cosa necessaria, quantunque forse non dilettevole, di premettere l'opinione mia
su l'origine della poesia fra gli uomini.
Tutti i ragionamenti su
la poesia in generale, e quindi tutti i giudizj intorno alle qualità ed ai
gradi di merito di ogni poeta di tutte le età, e gl'infiniti canoni e teorie
degli antichi retori e de' moderni metafisici si sono sempre fondate su
l'osservazione, «che l'uomo è animale essenzialmente imitatore, e l'origine
della poesia manifestamente ed unicamente ritrovasi nella naturale tendenza che
l'uomo ha di riprodurre ogni cosa per mezzo d'imitazioni.» Da questa
osservazione, che realmente trovasi in Aristotile, sgorgò la conseguenza che
gli fu attribuita, e commentata in mille volumi, «che la poesia non è che
imitazione della natura, e che i poeti eccellenti sono soltanto quelli da'
quali la natura è fedelmente imitata.» Or noi esamineremo in che consista
questa imitazione della natura.
In quanto
all'osservazione, «che l'uomo è animale essenzialmente imitatore», noi la
crediamo vera in sè stessa, ma non in tutto applicabile alla poesia; e quanto
alla conseguenza, «che la poesia non è che imitazione della natura», noi la
crediamo più falsa che vera. Ad ogni modo, da che tanto il principio quanto la
conseguenza sono, per così dire, santificati dalla tradizione di molti secoli,
e dal consenso universale degli uomini dotti; io, se non mi vedessi stretto
dall'obbligo, non mi attenterei neppure d'accennare i miei dubbj intorno a
questa teoria, e la lascerei nel possedimento dell'autorità che gode da tanto
tempo. Perchè io temo che l'indagare l'origine delle facoltà umane e dell'arti
intellettuali non sia le più volte uno de' mille tentativi più ambiziosi che
utili, ne' quali i mortali sperdano l'ore e l'ingegno: e credo fermamente che
l'uomo sia creato per tentare di conoscere non le fonti della sua esistenza,
non la natura delle sue facoltà, non i principj delle arti; bensì per trovare e
seguire il modo migliore a giovarsi delle facoltà, delle arti e della vita,
onde ricavarne il maggior piacere possibile per sè stesso, e la maggiore
possibile utilità per la comunità de' mortali. E però, non solamente in quasi
tutto ciò che spetta la politica e la morale, ma ben anche in tutto ciò che
riguarda le dottrine letterarie, i prudenti dirigono le loro azioni e l'ingegno
piuttosto a norma della esperienza de' fatti, che secondo la specolazione di
teorie, quantunque forse innegabili. In fatti anche nelle scienze astratte una
verità sola utilmente applicata giova più di mille altre dimostrate
evidentemente, ma non applicabili. Ma appunto la nozione che l'uomo è animale
essenzialmente imitatore, e che per conseguenza la poesia dev'essere fedele
imitazione della natura; nozione la quale da principio era una metafisica
speculazione, fu considerata coll'andar del tempo un assioma; e fu quindi e
segue ad essere anche al dì d'oggi applicata con una specie d'implicita fede
tradizionale. Ma se il principio, come pare a me, non è vero, l'applicazione
non può riuscire se non dannosa; ed io avendo adottato principio diverso, i
miei particolari pareri su' poeti devono necessariamente discordare da' giudizj
oggimai pronunciati di molti critici. Per evitare dunque la taccia d'ambiziosa
novità e d'affettata stranezza di opinioni, a me corre l'obbligo di manifestare
innanzi tratto per quali ragioni io dubito della verità della comune teoria
intorno a' principj primitivi della poesia, e con quali nuove norme io desumerò
i miei giudizj su i poeti.
L'universale dottrina,
«che la poesia non è che imitazione della natura», originò primamente da una
delle tante opinioni che vennero poi venerate con religione, interpretate ed
applicate in mille maniere, perchè s'è creduto che Aristotile le avesse
pronunciate in via d'oracolo; quando infatti egli non le avea che enunziate
vagamente e quanto bastava all'oggetto particolare ch'egli aveva scrivendo.
Il nominare Aristotile
in altri luoghi fuorchè nelle scuole è oggimai considerato pedanteria; e nondimeno
molte delle sue opinioni, in parte giuste ed in parte false, continuano a
vivere ed a regnare, e sono spesso l'unico fondamento di molti critici che nel
tempo medesimo arrossirebbero di citare la sua autorità.
Le vicissitudini della
fama di questo filosofo dovrebbero somministrare utili lezioni a que' tanti, i
quali colla loro fantasia si odono ricevere dalla posterità fra gli applausi, e
che, pur sapendo com'ei son destinati a una vita limitatissima, aspirano a una
gloria infinita. Aristotile fu uno di que' potenti intelletti che la natura non
mostra alla terra se non a lunghi intervalli; ed i suoi scritti esercitarono
sovra tutti gl'intelletti d'Europa per molti secoli una preponderanza che non
fu mai agguagliata dagli scritti di molti filosofi riuniti.
Ma era uomo, e non
poteva non errare; scrisse molto, e avendo trattato quasi di tutte le parti
dell'umano sapere, i suoi errori non potevano non moltiplicarsi. Per una delle
tante inesplicabili disposizioni della fortuna i suoi libri furono negletti,
sepolti, corrosi in un sotterraneo d'Egitto e distrutti quasi per sempre,
nondimeno furono quasi i soli libri che, dopo la decadenza di Grecia e di Roma,
rimasero come unico testo e lume infallibile nel corso de' secoli della
barbarie che invase l'Europa. Nel medio evo gli errori d'Aristotile furono
accolti come verità, ed ei venerato come infallibile. A questa popolarità nelle
scuole contribuì l'oscurità de' suoi scritti, e la severità del suo metodo. In
fatti, per mezzo della sua oscurità i maestri potevano insegnare quello ch'ei
stessi non intendevano, e spesso inculcare sotto l'autorità d'Aristotile le
loro proprie arbitrarie interpretazioni e dottrine: e nel tempo stesso l'applicazione
del suo metodo dava ad essi il mezzo e l'opportunità di assoggettare ad una
superstiziosa servitù gl'intelletti de' loro discepoli. Poscia, crescendo i
lumi col rinascere delle lettere, la venerazione verso Aristotile andò
dileguandosi, ed egli allora cominciò a partecipare della pena meritata non già
da lui, ma da quelli che avevano abusato del suo nome e delle sue dottrine.
Molte delle sue dottrine
nondimeno, essendo fondate sul vero, non potevan distruggersi. Ma non sono più
conosciute per sue; furono travestite sotto altre forme, ed occupate come loro
proprie da varj scrittori d'ogni nazione moderna: e lo stesso avvenne anche di
alcune altre sue dottrine, le quali, benchè non siano in tutto vere, sono
espresse con una maravigliosa apparenza di verità, e furono conservate,
illustrate e ampliate, e spesso anche usurpate da molti, i quali, senza più
oggimai darne merito e attribuirle ad Aristotile, continuano a farne la pietra
angolare de' loro sistemi. Di quest'ultimo genere sono quasi tutte le opinioni
espresse da Aristotile nel suo trattato della poesia; e particolarmente le
celebri parole «che l'uomo è animale essenzialmente imitatore», e «che la
poesia è imitazione della natura per opera dell'uomo, onde l'uomo, per essere
poeta, deve assolutamente imitare la natura.»
La perpetua
preponderanza delle dottrine poetiche d'Aristotile sembra un forte argomento in
favore della loro intrinseca verità. Ma considerando il cuore umano, e sopra
tutto le passioni di quella specie di mortali distinti del titolo di Critici,
la lunga venerazione per le teorie aristoteliche può essere attribuita ad altre
e più giuste cagioni. I critici, quantunque dotati della facoltà di giudicare
le creazioni del genio, sono per lo più poverissimi d'immaginazione, e
destituti della facoltà di creare. Quindi originò naturalmente la loro secreta invidia
verso gli uomini destinati dall'autorità della natura ad essere creatori e
poeti; invidia che, incalzata dal desiderio che tutti i mortali possiedono più
o meno di esercitare autorità sovra gli altri, indusse i critici ad attribuirsi
il diritto che nessuno loro disputò di stabilire leggi, e di citare gli
scrittori al loro tribunale. Giovandosi dell'autorità d'Aristotile in tempo che
il solo nome di questo filosofo era onnipotente anche nelle scuole di teologia,
i professori di critica riescirono a divenire legislatori e giudici a un tempo.
Il breve trattato che quel filosofo lasciò, non saprei dire se compito o
abbozzato, sulla poesia, essendo stato da lui scritto con oscurissima brevità,
ed essendo inoltre arrivato a' nostri avi orribilmente sfigurato dagli anni, fu
opportunissimo all'intento de' critici di fondare un codice di leggi per
incatenare il genio, e per giudicare i poeti.
Nè le leggi, a dir vero,
nè le sentenze potevano essere sempre evidentemente giustificate con la poetica
di Aristotile; ma non potevano neppure essere rivocate in dubbio. In fatti, con
qualunque pagina di quel libro ogni uomo può e tutto credere e dubitare di
tutto; e ogni interprete può tutto asserire e tutto negare; e, come avviene
negli oracoli, vi si può trovare ogni cosa, o nulla ad un tempo. Ma appunto il
libro quant'era più oscuro, tanto più bisognava d'illustrazioni, e tanto più i
commentatori moltiplicaronsi; e quanto più Aristotile era venerato come
profondissimo scrittore, tanto più i suoi interpreti venivano ammirati come
acutissimi ingegni.
Così a' critici riescì
fatto d'instituire in tutta l'Europa una tal quale aristocrazia letteraria, che
professava di assistere gl'ingegni creatori con profondi consigli ricavati dal
corano poetico d'Aristotile: ma i consigli s'erano convertiti in precetti; nè
tardarono a divenire inesorabili leggi. Così i critici consigliando volevano
governare; e governando tiranneggiarono, sì che alle volte l'aristocrazia de'
critici si constituì in gerarchia sacerdotale che, inspirata dalla divinità
d'Aristotile, scomunicava i colpevoli d'eresia letteraria.
Non s'hanno dunque da
apporre a questo filosofo tutti i precetti che s'inculcano come desunti dalle
sue dottrine. La preponderanza esercitata sotto il suo nome fu estorta per
mezzo d'interpretazioni spesso arbitrarie delle sue parole, e talvolta al tutto
contrarie al suo intendimento. Da poco più d'un anno fu qui pubblicato un
volume sopra una questione risguardante un poeta antico; e l'autore fabbrica un
sistema tutto suo, fondandolo sopra un passo, ch'ei cita, della poetica
d'Aristotile: ei lo cita, ma il passo non si trova nella poetica. L'autore nondimeno
lo cita di buona fede, come lo trova citato da Pope nella sua prefazione alla
traduzione d'Omero; e Pope lo cita anch'egli di buona fede, come lo trova nella
traduzione della poetica d'Aristotile di Dacier. Ma Dacier parteggiando a que'
dì nella controversia intorno la preminenza fra' poeti antichi e i moderni, e
ingegnandosi di abbattere i suoi avversari con l'autorità dell'oracolo comune,
parafrasava quel passo in guisa, che chi lo cerca nel testo greco non lo
ritrova. Quindi Dacier indusse Pope in errore, e Pope indusse in errore il
critico moderno, al quale sottraendo l'autorità del passo a cui egli
s'appoggia, si rovescia da' fondamenti tutto l'edificio del suo dottissimo
libro.
I poeti, che soli aveano
diritto e forze d'opporsi più ch'altri alla autorità legislatrice usurpata da'
critici, contribuirono invece a legittimare le usurpazioni. I grandi poeti
creatori, certi della gloria che si sarebbero acquistata, e dotati d'una mente
sdegnosa insieme e impaziente d'affaccendarsi in disquisizioni di metafisica e
sottigliezze di critica, non rigettarono nè approvarono il codice prevalente
nelle scuole; e il loro silenzio fu ascritto a un tacito assenso. Al contrario
i poeti mediocri, presso de' quali risiede la pluralità de' suffragi, votavano
apertamente in favore del codice; beatissimi di potere appoggiarsi a
legislatori, e farsi benevoli i giudici aristotelici ch'erano gli arbitri assoluti
della loro fama. Inoltre i critici ebbero per confederati que' poeti più
fortunati che grandi, i quali non sono sì soggetti al ridicolo quanto i poeti
mediocri, e sono più accessibili alle menti del popolo assai più de' poeti
creatori. Sì fatta specie fra i mediocri ed i grandi somiglia a quelle piante
di rose che il giardiniere, per produrle ad altezza d'arboscelli, suole
innestare su' tronchi, sì che spesso paiono grandi, quando la natura non le
aveva create se non per essere vaghissime piante; e per quanto tentino
d'innalzarsi, non potranno mai sorgere ad essere nobili alberi, mai. Questa
specie di poeti godono quasi sempre di procacciarsi ad un tempo la gloria del
lauro, e l'autorità della critica dittatura; e, sia che non avessero mente
tanto profonda che potesse investigare nuovi principj dell'arte che volevano
insegnare, o che credessero i principj correnti più agevoli a essere intesi, se
fossero ridotti in apparente poesia, scrissero regole poetiche in versi
eleganti insieme e nojosi perchè sono più dettati dall'arte che dalla natura,
ma tanto più ammirati quanto più la materia pare ritrosa agli ornamenti dello
stile; e Pope e Boileau allettarono molti lettori, perchè i loro ingegni erano
amaramente disposti contro gli autori loro contemporanei, e si servivano di un
metro per cui la necessità delle rime vicine contribuisce mirabilmente alla
spiritosa malignità dell'epigramma. Così i poeti di questa classe riuscirono,
se non a stabilire inconcusse le teorie chiamate aristoteliche, che già
cominciavano a essere meno implicitamente credute, – pervennero ad ogni modo a
non far dimenticare i precetti derivati da quell'imperfettissimo libro.
Nuove specolazioni
intorno alla poesia ed alle belle arti (colle quali la poesia è strettamente
connessa) si sono ideate da mezzo secolo in qua; e i medesimi metafisici che
vittoriosamente distrussero in gran parte le teorie attribuite ad Aristotile
vissero, ed alcuni vivono tuttavia, per vedere i loro proprj sistemi
validamente prostrati da nuovi che si succedono, edificandosi e rovesciandosi
vicendevolmente gli uni su gli altri. E nondimeno, anche fra questi nuovi
legislatori la opinione «che la poesia non è che imitazione della natura»
mantenne il suo grado d'assioma, ed è predicata come una delle pochissime
verità che non bisognano di prove.
Fors'io mi sono
dilungato più che non avrei dovuto a tracciare storicamente le guise, per le
quali prevalse e prevale la opinione, che è tuttavia l'unico cardine su cui
s'aggira la critica su l'arti d'immaginazione. Ma questa specie di digressione
gioverà a dimostrare ancor più ampiamente, che la popolarità della teoria è
dovuta non tanto alla sua intrinseca verità, quanto alle circostanze che hanno
contribuito a diffonderla e consolidarla in tutte le scuole d'Europa. Questa
osservazione gioverà a scemare la necessità di combattere la generale opinione
punto per punto, e lascerà maggiore adito ad esporre l'opinione ch'io professo
su l'origine della poesia.
L'animale umano è
imitatore; ma la sua propensione all'imitazione non deriva, come forse in tutti
gli altri animali, dal solo istinto di imparare i modi ond'evitare i dolori
imminenti, accrescere i piaceri presenti, e provvedere a' bisogni della sua
esistenza. L'imitazione nell'uomo è perpetuamente accompagnata da quella
ingenita ed inesplicabile, ma costantissima sempre e spesso sciagurata
incontentabilità, che è la sorgente di tutte le sue miserie maggiori e de' suoi
più vivi piaceri. Però quando ha bisogni desidera, e desiderando immagina, e
immagina cose le quali, se esistessero realmente, contribuirebbero forse alla
sua felicità: ma non esistono; e finchè la natura delle cose e dell'uomo rimane
com'è, non possono esistere; e quanto è così immaginato da noi si riduce
inevitabilmente a sogno che si dilegua. E nondimeno, dov'è mai quel mortale il
quale vorrebbe o potrebbe rassegnarsi ad esistere senza sì fatti sogni che
perpetuamente gli abbelliscono la trista realtà delle cose, e gli rendono varia
agli occhi la monotonia della vita? Tutte le arti d'immaginazione, e sopratutto
la poesia, che è la più antica e l'origine di tutte le altre, nacquero dal
bisogno di abbellire e variare e aggrandire tutti gli oggetti ed i sentimenti
che attraggono irresistibilmente i sensi, il cuore e la fantasia de' mortali.
Il poeta, il pittore e lo scultore non imitano copiando, – ma scelgono,
combinano e immaginano perfette e riunite in una sola molte belle varietà che
forse realmente esistono sparse e commiste a cose volgari e s spiacevoli, ma
che non esistono, o almeno non si veggono nè perfette nè riunite in natura.
La natura imita sempre
in tutti i suoi lavori sè stessa; e li distingue ad uno ad uno, e li fa nuovi e
mirabili per mezzo di pochissime, minime e spesso impercettibili varietà. Dove
la natura imita invariabilmente se stessa, le arti sue imitatrici non possono
togliere, aggiungere, variare mai nulla. Bensì maggior pittore e poeta è colui
che sortì tale anima da sentire vivamente gli effetti delle varietà sparse
sopra gli oggetti della natura; e tale ingegno da osservarle prontissimo; e tal
fantasia da immaginarle riunite, e creare di varie parti esistenti un nuovo
tutto ideale; – e finalmente, tale giudizio da sapere applicare le varietà dove
e come consuonano in armoniche proporzioni fra loro. Queste quattro facoltà di sentire
fortemente, di osservare rapidamente, d'immaginare nuovamente,
e di applicare esattamente, quando sono riunite, equilibrate,
vigorosissime in uno stesso individuo e operanti simultaneamente, non già per
industria o per forza di regole, bensì con la spontaneità con che opera la
stessa natura, par che costituiscano il Genio. L'Arte, imitando la creazione
invariabile, coglie il Vero; ma il Genio crea l'Ideale, indovinando, radunando
e distribuendo sopra un solo oggetto, con le stesse leggi e con la stessa
spontaneità della natura, le varietà ch'ella ha sparse sopra diversi oggetti, o
che ella avrebbe potuto creare e spargere onde rendere più belle le opere sue.
L'Ideale scompagnato dal Vero non è che o stranamente fantastico, o
metafisicamente raffinato; ma senza l'ideale, ogni imitazione del vero riescirà
sempre volgare; non avrà nè la grazia delle figure del Correggio, nè la divina
beltà della Venere de' Medici e della Madonna della Seggiola, nè il sublime
dell'Apollo di Belvedere. L'Apollo e
Ma anche presupponendo
che individui come l'Apollo e
E da' gioghi d'Olimpo,
acerbo in core
Precipitò agitando arco
e faretra
Tutta chiusa, e fremea
pregna di dardi
Strepitanti per gli
omeri. Ei calava
Simile a notte; e
sovrastando al campo
Disfrenò la saetta:
uscia dal grande
Arco raggiante un suono
orrido all'aere.
S'adira, precipita dal cielo, vola, minaccia,
dinanzi a noi: vediamo agitarsi l'arco alle sue spalle; udiamo il doppio suono
del cupo fremito ripetuto de' dardi dentro una faretra chiusa, e il suono della
corda che divide l'aria con lo stridore di una vibrazione lunghissima; – e
l'immagine del Dio standoci d'innanzi occupa l'anima nostra con l'oscurità di
una notte improvvisa, e col terrore d'una imminente celeste vendetta.
Ma questa è la
descrizione d'un essere soprannaturale; nè io insisterò dicendo che Omero, per
sublimare la sua e la nostra fantasia, ha dovuto elevarsi oltre natura; bensì
dirò che quando descrive individui viventi che sentono e soffrono e parlano da
uomini, egli nell'imitare la natura la esalta sempre con la sua immaginazione.
Quando Achille dice al giovine che lo prega di non ucciderlo: «Muori, amico; non
vedi tu? – Son giovine anch'io e bello e gagliardo, nato da un eroe e di madre
immortale, e morte m'aspetta; a sera, all'alba o a mezzodì, m'aspetta. – Muori
tu dunque», questa è infatti natura; – ma si consideri che queste parole ci
colpiscono appunto molto più, perchè le fa pronunciare da un uomo dotato di
tante qualità preeminenti, che non pareva destinato a morire. Sente egli stesso
il terror della morte, ancorchè, nel presentarsi a combattere, il terrore
ch'egli ispirava lo facesse parere a' nemici come s'ei venisse lampeggiando di
fiamma:
Ignea su
l'elmo
E dal volto e le membra
e per lo scudo
Gli balenava una
continua luce;
Sì dalla Dea sospinto
ove più dense
Eran l'armi, apparia
fiero di lampi:
Ardea, come se puro esce
da' fonti
Dell'Oceàno, e racquistando
i cieli
L'astro d'Autunno
infiamma aureo la notte.[1]
Quando Dante fa raccontare
al conte Ugolino com'ei, destandosi e udendo i suoi figliuoli dimandar del
pane, si morse per dolore le mani, non fece che rappresentare la natura reale;
ma quando i suoi figliuoli, credendo ch'egli volesse mangiare le sue proprie
mani per fame, si alzano tutti e quattro ad un tempo, e gli fanno ad una voce
l'offerta:
Padre,
assai ci fia men doglia
Se tu mangi di noi; tu
ne vestisti
Queste misere carni, e
tu le spoglia,
questa non è natura reale; è natura esaltata,
spinta quanto può andare, e che riesce terribile appunto perchè nessuno potea
prevedere la disperata offerta di quegl'innocenti. Quando gli amici di Job
siedono muti e non gli dicono parola perchè vedevano che il suo dolore non
ammetteva consolazioni, la natura è fedelmente imitata; ma l'imitazione, benchè
fedelissima, non avrebbe prodotto la metà dell'effetto, se non vi fosse
aggiunta la circostanza ideale, facilissima ad immaginarsi, ma improbabilissima
e quasi impossibile a succedere realmente, che gli amici di Job stavano seduti
su la terra per sette giorni e sette notti, e senza mai dirgli parola. È vero
che queste illustrazioni sono ricavate dai più sublimi libri di poesia che
forse esistono, e che forse siano per esistere mai fra' mortali; ma se si
consideri la poesia fin anche nelle commedie, v'è egli carattere comico che
colpisca veracemente, se non è caricato? Inoltre l'immaginazione del poeta
comico non solo deve aggiungere, ma sottrarre assai cose alla natura reale. È
certo che i Greci, i quali innanzi l'età d'Aristotile ciarlavano men di noi in
fatto di critica, scrivevano le lor commedie in versi non per forza di teorie,
ma per un senso naturale del vero scopo della poesia; che è, di abbellire ed
aggrandire la natura reale per mezzo della facoltà immaginativa del genio, appunto
perchè il genere umano ha bisogno di vestire de' sogni della immaginazione la
nojosa realtà della vita.
Innanzi di concludere,
gioverà di dar cenno d'un'altra dottrina attribuita ad Aristotile, la quale
pure tuttavia ha molti e dotti fautori, segnatamente in Inghilterra. Da alcune
poche parole, equivoche per l'usata oscurità di quel filosofo, e pel guasto che
gli anni hanno fatto negli antichi manoscritti, i suoi interpreti più illustri
intendono che i poeti, senza eccettuare neppure l'autore dell'Iliade e
dell'Odissea, scrivono o devono scrivere non per altro che per far
passare il tempo a' lettori, e non tendono mai a istruire, nè devono
prefiggersi mai nessuno scopo morale. L'oscurità del testo assolve Aristotile
dall'avere pronunciata siffatta sentenza; ma non posso se non maravigliarmi di
quegli uomini dotati di dottrina e d'ingegno, i quali si giovano dell'autorità
d'un passo oscurissimo per sostenere una dottrina repugnante alla naturale e
invariabile propensione umana. Perchè ognuno che legga un poeta o uno scritto
qualunque, che ascolti tragedie, o commedie, o discorsi pubblici o privati, non
se ne diletta, se non se per le ragioni che gli producono sensazioni ed idee
nel tempo medesimo; e quando non gli producessero che sensazioni, ogni
sensazione presto o tardi è la causa imminente di nuove idee, e l'esempio solo
di quanto ognuno di noi ode e vede gli serve insensibilmente, ed anche malgrado
suo, di paragone, quindi di nuova occasione e di mezzi di ragionare, e per
conseguenza d'istruzione. Il fatto sta che la poesia istruisce molto più,
perchè diletta ad un tempo; e perchè col piacere di moltiplicare sensazioni ed
idee non esige unita la fatica che accompagna più o meno gli altri studj.
Vive perpetuamente
nell'uomo il bisogno di rendere con le parole facile all'intelletto ed amabile
al cuore la verità? Qual taciturna contemplazione può apprendere ed insegnare
questo nostro sapere, che ci fa sempre più superbi e più molli? Le nostre
passioni hanno forse cessato d'agire, o le nostre potenze vitali hanno cangiata
natura? E le scienze morali e politiche, che prime ed uniche forse influiscono
nella vita civile, perchè sole possono prudentemente giovarsi delle scienze
speculative e delle arti, a che pro tornerebbero, se ci ammaestrassero sempre
co' sillogismi e coi calcoli? L'uomo non sa di vivere, non pensa, non ragiona,
non calcola se non perchè sente: non sente continuamente se non perchè
immagina; e non può nè sentire nè immaginare senza passioni, illusioni ed
errori. La filosofia non cambia che l'oggetto delle passioni; e il piacere e il
dolore sono i minimi termini d'ogni ragionamento. Quindi la verità, quantunque
d'un aspetto solo ed eterno, appare moltiforme e indistinta al nostro
intelletto, perchè noi, dovendo incominciare a concepirla coi sensi, e a
giudicarla con l'interesse della sola nostra ragione, la vestiamo di tante e sì
diverse sembianze; e le sembianze constano di tanti accidenti quante sono le
disparità de' climi, de' governi, dell'educazioni e de' nostri individuali
caratteri: onde anche le cose men dubbie sono assai volte mirate dai saggi con
mente perplessa, e dagli altri tutti con occhio incredulo ed abbagliato. Or per
me stimo non potersi mai volgere l'intelletto degli uomini verso le cose meno
incerte, e per continuo esperimento giovevoli alla loro vita, prima di
correggere le cose dannose del loro cuore, e di distruggere le false opinioni;
il che non può farsi se non eccitando col sentimento del piacere e del dolore
nuove passioni, e, con la speranza dell'utilità, secondando di più utili sogni
la lor fantasia. Come mai dunque lo scopo morale starà disgiunto dalla poesia?
Bensì questa distinzione
d'illuminare e di dilettare fu a principio pretesto di dotti che non sapeano
rendere amabile la parola, e di poeti che non sapeano pensare. La filosofia
morale e politica ha rinunziato la sua preponderanza su la prosperità degli
Stati da che, abbandonando l'assistenza delle arti d'immaginazione, si smarrì
nella metafisica e ne' calcoli; e la poesia ha perduta la sua virtù e la sua
dignità da che fu manomessa dai critici di professione. Sciagurati! Si
professarono architetti di un'arte senza posseder la materia; fantasticarono
limiti alle forze intellettuali dell'uomo; s'eressero dittatori de' grandi
ingegni; adularono i mediocri che consentirono a commercio di lodi per ingannare
il mondo a loro favore: l'ozio, la vanità, la venalità accrebbero la
moltitudine de' poeti ignoranti senza immaginazione, e de' critici senza
filosofia. Invano la natura esclamava: io non ti elessi al ministero di ammaestrare
i tuoi concittadini. L'arte lusingava, insegnando a non errare, perchè
giudicava gli scritti derivati dalle passioni degli altri; ma l'arte non parlò
più alle passioni perchè non le sentiva. La fantasia, destituta delle fiamme
del cuore, si ritirò fredda nella memoria: destituta del criterio, inventò
mostri e chimere; e la poesia, anzi la letteratura, si ridusse a declamazione e
musica senza ragione.
Questa sinistra
decadenza avvenne ad ogni nazione; e i discorsi seguenti manifesteranno per
quali cagioni e con quali vicissitudini cadde spesso, e risorse, e tornò a
cadere la poesia e la letteratura in Italia.
DISCORSO PRIMO
EPOCA PRIMA
Nel precedente discorso
ho giudicato opportuno di manifestare de' principj generali, che guideranno i
miei giudizj nel corso delle letture sulla Poesia Italiana; e così spero di
aver dato a chi mi ascolta la ragione delle opinioni ch'io andrò manifestando.
Il soggetto del discorso d'oggi ha lo stesso intento di somministrare una serie
d'idee generali insieme e distinte, non già de' miei proprj principj, come ho
dovuto fare jer l'altro; ma della origine, del progresso, delle vicende e dello
stato presente della lingua italiana. La poesia, e ogni parte di qualunque
letteratura d'ogni popolo, è incorporata colla lingua; dipende in tutto
assolutamente dalla lingua; nè senza lingua esisterebbe letteratura; cosicchè i
caratteri distintivi e le forme e le vicissitudini della letteratura d'ogni
nazione nascono, crescono, si alterano in mille modi e decadono, secondo la
origine e le alterazioni della lingua. Oggi dunque mi proverò di tracciare una
storia, per quanto mi sarà possibile, breve insieme e distinta della lingua
italiana dalla prima sua introduzione in Europa come lingua letteraria fino a'
giorni nostri. E perchè è storia che abbraccia seicento e più anni, e lo spazio
del tempo non mi consentirebbe d'illustrare con moltitudine di riflessioni la
lunghissima serie de' fatti, sopprimerò le riflessioni per lasciar luogo ai
fatti, tanto più che le riflessioni essendomi proprie, possono essere vere, e
false, e dubbie; – ma i fatti appartengono alla verità, ed hanno in sè stessi
tale ingenito vigore da eccitare da sè soli le altrui menti a fare
considerazioni migliori di quelle che io non potrei suggerire. Tuttavia, per
render meno necessario l'accompagnamento di riflessioni co' fatti ch'io vado
esponendo, mi gioverà di far precedere sulla critica letteraria risguardante le
lingue una osservazione generale, che poscia, senza essere ripetuta, si andrà
applicando da sè medesima in tutto il processo della mia narrazione.
La distinzione che si è
fatta sempre, e che si continua pur sempre in letteratura, di lingua e di idee
è soggetta ad oscurità ed incertezza, e ad errori, come pure sono tutte quante
le distinzioni di cose, le quali non si trovano mai disunite fra loro. Tale è
nelle scienze fisiche la distinzione di forma e materia; – ma senza materia non
vi sarebbe mai forma, e siccome la materia non può apparir mai a' nostri sensi
che sotto una forma qualunque, così ne viene di conseguenza che ogni
ragionamento fatto da noi, ogni sistema coltivato mediante la distinzione di
materia e forma crolla inevitabilmente da sè, perchè si fonda sopra nozioni
astratte di cose che realmente non esistono se non sì strettamente connesse,
che non si può separarle senza distruggerle; – e quindi ne devono risultare
delle teorie ed applicazioni fallaci. Così pure nelle scienze politiche si
distingue l'uomo in natura e in diritti naturali, e l'uomo in società e in
diritti sociali. E dove cercheremo mai la nostra natura, e come potremo, almeno
in parte, conoscerla, se non la guardiamo nello stato di società, in cui solo
possiamo vivere, e da cui non potremmo dividerci senza rinunziare a tutti i
piaceri, senza sopire tutti i bisogni, senza cangiar gli organi del nostro
individuo, e perdere e dimenticare la facoltà del pensiero e della parola che
unisce gli uomini più di tutte le altre specie d'animali che ci sieno note;
senza riformare insomma la nostra essenza intrinseca ed immutabile, quella
essenza che non è opera nostra, quell'ordine, quella necessità che sentiamo, ma
che non sappiamo definire noi stessi? Come dunque distingueremo i liberi
diritti dell'uomo in natura da' legami dell'uomo in società? E quanto più s'è
tentato di restituire all'uomo sociale i sognati suoi diritti naturali, tanto
più gli scrittori ed i popoli, pascendosi di visioni, si trovarono avvolti nei
mali che accompagnano i sogni di chiunque renunzia alla esperienza dei fatti.
Così da questa distinzione di natura e di società, immaginata in tutti i tempi
e paesi, ma celebrata in Francia più che altrove, e illustrata nel Contratto
sociale di Rousseau, nacquero le teorie e le illusioni politiche, i sistemi
e gli errori, i delitti e le sciagure che infamarono nel nostro secolo
Una lingua comune
comincia a essere letteraria quando incomincia ad essere scritta, e scritta in
modo che sia intesa da tutta una nazione; e allora gli scritti si diffondono
necessariamente sopra tutta la superficie di quel paese, e si conservano da'
contemporanei e da' posteri. Però la lingua propriamente, chiamata Italiana non
può considerarsi letteraria, se non se dal secolo XII, cento anni circa prima che
Dante scrivesse. Infatti, quanto fu scritto un secolo innanzi Dante s'intendeva
allora, e si intenderebbe anche oggi più o meno da tutti gli Italiani; – ma
poichè la nazione, o per parlare più generalmente, le popolazioni delle
differenti provincie d'Italia esistevano anche per le tenebre più fitte del
medio evo, certo è che parlavano e s'intendevano fra di loro; e benchè non
possedessero lingua letteraria, avevano ad ogni modo una lingua. Certo dunque
dev'essere che da questa lingua parlata, fra il VI e il XII secolo in Italia,
sia di necessità derivata la lingua che poi fu scritta e diventò letteraria.
Ma quale fosse quella
siffatta lingua parlata fra' sei secoli della barbarie fu ed è una quistione
che occupò per i sei secoli seguenti tutti gli eruditi e gli antiquarj
italiani, e che gli occuperà forse per altri sei secoli, e rimarrà pur sempre
quistione. Rimane quistione, perchè gli eruditi vogliono fondare sistemi, e da
un principio, forse giustissimo in sè, vogliono applicare le lor conclusioni a
fatti che non possono conoscere, perchè quella barbarie ed il tempo gli han
seppelliti per sempre; e gli antiquarj dall'altra parte, sdegnando non
solamente i principj metafisici, ma anche gli assiomi generali
incontrovertibili, perchè sono nella natura e nella storia del genere umano,
vogliono decidere sì oscure quistioni su la testimonianza di monumenti ed
autorità di documenti. Ma rari letterarj monumenti esistono del medio evo,
mutilati in gran parte e spesso falsificati; onde la loro autorità è
debolissima. E nondimeno sopra sì incerta testimonianza gli antiquarj si sono
fondati in Italia su la quistione della prima formazione della lingua italiana,
– come antiquarj d'altri paesi si fondano sopra poche medaglie, o alquante
corrose iscrizioni, o vecchie pergamene per decidere materie che sono forse più
rilevanti.
Quattro partiti
letterarj, che se fossero armati sarebbero degenerati in fazioni, assordarono
l'Italia con la disputa su l'origine della lingua. – I primi e più dotti
volevano che la lingua italiana non fosse che il dialetto plateale che la plebe
romana parlava fino nell'epoca più antica e più splendida di Roma; – e
stabilirono le loro ragioni così.
È certo che i grandi
oratori romani parlavano non romano ma latino, e gli autori scrivevano non
romano ma latino; perchè il dialetto del popolo romano era volgare, pronunciato
tronco, senza leggi esatte di grammatica, e come infatti ogni dialetto è
parlato dal popolo in tutti i paesi. – Ma il popolo, soprattutto gli abitanti
della campagna, conservarono sempre i loro usi antichi, le loro foggie di
vestire ed il loro dialetto, di padre in figlio e di generazione in generazione:
dunque la lingua del popolo italiano nel tempo della barbarie era la stessa che
parlavasi a' tempi di Augusto, e la stessa che discese a' tempi di Dante.
Il fatto che la lingua
latina fosse distinta da quella degli abitanti di Roma, e fosse una specie di
lingua più letteraria che parlata, è attestato e illustrato assai volte da
Cicerone, e soprattutto nella breve ed ammirabile storia critica che ei scrisse
degli Oratori illustri di Roma. Ma l'altro fatto, che il popolo conservò per
più di dodici secoli la sua lingua, è appoggiato più a congetture che alla
storia. La storia al contrario e l'osservazione giornaliera ne accertano, che
nulla cangia quanto il dialetto. In Italia dovea cangiare per il concorso
d'infiniti diversi popoli settentrionali che la invasero, la spopolarono e la
ripopolarono; ma dovea anche cangiare per la naturale tendenza che tutte le
cose dell'universo hanno di alterarsi, e le lingue molto più, perchè la loro
pronunzia si altera leggermente di secolo in secolo, di generazione in generazione,
e forse anche di anno in anno, nella pronunzia; e l'alterazione della pronunzia
fa mutamenti di suoni, e i mutamenti di suoni nelle parole vanno coll'andar del
tempo ad accrescersi in guisa, che la lingua, se non si muta del tutto, si
altera sì fattamente da parere diversa da quella che era pochi secoli addietro.
– Il cangiamento di pronunzia essendo impercettibile a' contemporanei, accade
senza lasciarsi osservare; ma se si nota che in quasi tutte le lingue si
scrivono più lettere che non si pronunziano in fatti, e che quelle lettere che
ora si scrivono e non si pronunziano dovevano essere pronunziate, altrimenti
non si sarebbero scritte, si ricaverà la conclusione che la pronunzia si altera
insensibilmente in tutte le lingue. – E non vediamo che gli stessi caratteri
della scrittura si alterano di secolo in secolo sì fattamente, che una mediocre
esperienza basta a far distinguere i codici manoscritti di un secolo da quelli
di un altro? Quanto più dunque non deve esser soggetta ad alterazione la pronunzia
e la lingua, che è cosa vaga ed incerta di per sè, facile ad adottare
espressioni straniere, parole nuove, per invenzione di arti forse, ed idee
nuove? Anzi io credo che quante lingue si parlano sulla superficie della terra
non siano originate che da un solo tronco, e che la loro diversità non sia
prodotta che dalle diverse pronunzie, cagionate dalla diversità de' climi,
dalla mistura de' popoli diversi fra loro, da nuovi costumi e dagli anni. Non
ignoro che questa proposizione, che tutte le lingue derivino da una sola, può
sembrare assai strana; ma o bisogna ammetterla, o adottare la congettura
seguente: che il genere umano non sia a principio nato in una sola contrada,
donde moltiplicandosi e diffondendosi sopra la terra, l'abbia popolata gradatamente;
ma che sia nato in tutte le parti del mondo, e che abbia inventato lingue
diverse. È congettura, al mio parere, più strana che il genere umano abbia
pullulato tutto ad un tempo in diverse parti del globo; che le nazioni si sieno
formate non da una origine unica e primitiva, ma da differenti origini, e che
ciascuna nazione, così nata, per così dire, da sè, si sia formata una lingua
tutta sua propria. Ma se invece si ammette che il genere umano originò a
principio in una sola parte del globo; che moltiplicandosi e diffondendosi
sulla terra gradatamente l'abbia popolata, come d'una sola famiglia si
formarono prima tribù vaganti, e quindi città, e si distinsero nazioni, così di
un solo scarsissimo dialetto primitivo si formarono lingue ed idiomi distinti. –
Non venne dunque distrutta l'opinione, benchè acremente e lungamente sostenuta
da uomini dotti, che la lingua italiana sia, con pochissima differenza, la
lingua parlata della plebe romana.
Un secondo parere che la
lingua italiana derivasse dagli Aramei popoli della Caldea era sostenuto
specialmente da alcuni antiquarj fiorentini, i quali ammettevano che una gran
parte di parole era di origine latina, ed un'altra era teutonica, per
l'anteriore dominio de' Romani, e poi de' popoli settentrionali in Toscana; ma
contendevano ad un tempo che il fondo primitivo della lingua era arameo. Essi
si fondavano, parte sopra etimologie di un gran numero di parole siriache, che
que' dotti dicevano di trovare tuttavia viventi nella lingua toscana; e parte
sopra erudizioni di autori, come Beroso e Sanconiatone, dei quali non sono mai
esistiti che i nomi; i quali avevano lasciato scritto che una colonia di Caldei
avea navigato il Mediterraneo, e s'era stabilita antichissimamente in Etruria,
donde non era mai ritornata, e che vi fondò una nazione, e vi portò riti
religiosi e l'arte degli augurj e delle divinazioni; riti ed arti che infatti i
Toscani portarono poscia a Roma, e l'origine de' quali era da' Romani stessi
assegnata a' Caldei. Ed io credo
Ma anche supponendo i
Fiorentini discendenti dagli Arabi, non ho mai creduto che la loro lingua fosse
altro che una modificazione di quella che parlavano sotto a' Romani; – senza
però arrendermi ad alcuna delle altre due opinioni che, difese da due opposti
eserciti di dotti di gran fama per i lor capitani, sostenevano, gli uni che la
lingua italiana fosse derivata dal dialetto siciliano, e gli altri che fosse
derivata dal dialetto provenzale. – La prima opinione era stata pronunziata da
Dante, e la seconda dal Petrarca; e l'autorità di testimonj sì competenti, e di
sì grandi nomi accresceva l'accanimento de' due partiti.
Dante peraltro e
Petrarca potevano errare anch'essi; nondimeno l'uno e l'altro avevano proposta
la congettura la più ragionevole; e quando i letterati, specialmente italiani,
non si compiacessero di tutte le occasioni per prolungare le loro battaglie e i
loro trionfi di penna e di grida accademiche, e soprattutto di funeste e
vilissime animosità provinciali, le due opinioni di Dante e Petrarca, benchè
diverse, potevano, col ravvicinarle, condurre alla verità.
Il dialetto Siciliano e
Provenzale, e il Catalano, e quel di Linguadoca, e quel di Toscana, e degli
altri popoli d'Italia, e di molte parti dell'Europa meridionale, non derivarono
l'uno dall'altro, nè prevalsero l'un dopo l'altro; ma erano tutti
contemporanei, ed erano tutti nati quasi ad un tempo, e si modificarono l'uno
per mezzo dell'altro al tempo del lungo dominio de' Romani in Europa. Allora
ogni popolo si chiamava romano, ed ogni dialetto d'ogni provincia si chiamava
romanzo, o lingua romanza. – I Greci stessi che, per la traslazione dell'impero
in Costantinopoli e per i primi padri della Chiesa scismatica, scrissero in
greco, conservando fra bene e male la loro lingua e la loro letteratura,
adottarono nondimeno tante parole da' Romani, che la loro lingua fu allora, ed
anch'oggi è nominata romeiki, e dagli Inglesi romaica. E chi
analizzasse questa lingua romaica, vi troverebbe infinite parole della barbara
latinità del medio evo; – come pure avviene nella lingua inglese, la quale, al
dire d'autori che ne scrissero ex professo, e d'uomini dotti co' quali
ne ho tenuto discorso, quantunque composta di molte lingue diverse, il maggior
numero delle sue parole l'ha dal latino. – Vero è che molte sono state
introdotte dalla Francia, ma per qualunque via sianvi approdate, non sono meno
latinismi; e per quanto altri sia di parere diverso, io fermamente credo che la
più parte, e segnatamente i verbi, sieno state introdotte in Inghilterra nel
medio evo dalle colonie militari romane. Così i nomi grace, elegance,
che non hanno cambiato quasi ortografia e appena si sono alterati nella
pronunzia, gratia, elegantia in latino; grazia, eleganza
in italiano; grace, élégance in francese; grace, elegance
in inglese, sono d'introduzione più tarda e appartengono al secolo di cui
parliamo: – i verbi extraho, extractum, – strech'd, exert,
to screw, ecc., sono di antichissima introduzione, e divenuti di suono
sassone e settentrionale.
Questa lingua barbara
derivata dalla romana e chiamata allora ed anch'oggi romanza, ed esistente
vivissima in alcuni paesi, aveva sotto il lungo dominio de' Romani, e le
perpetue colonie militari, abolite, se non estinte, le diverse lingue nazionali
de' popoli, – come la lingua inglese d'oggi ha fatto e farà sempre più
dimenticare i dialetti parlati dagli antenati nella Scozia, nell'Irlanda e nel
paese di Galles: – e come avviene nell'inglese parlato oggi dagli Scozzesi e
Irlandesi. Ma la lingua romana, adattandosi agli organi de' popoli di
differenti climi e d'abitudini e lingue diverse, la lingua romanza,
quantunque in sostanza la stessa lingua, divenne modificazione apparentemente
diversa in ogni provincia d'Europa.
Di questi dialetti
rimangono documenti scarsissimi, perchè la lingua letteraria continuava ad
essere pur sempre la latina, barbaramente scritta, e nella quale si
pubblicavano le leggi, i decreti, gl'istrumenti legali; e quel poco che i
maestri potevano insegnare lo dettavano in latino, – primamente perchè,
fintanto che i Romani dominarono, vollero che nelle faccende pubbliche la loro
lingua fosse anche intesa da tutti i loro sudditi; – in seguito perchè
nell'invasione de' barbari il clero rimase erede degli avanzi della
giurisprudenza, della legislazione, e della lingua latina, e nessuno sapea
scrivere fuorchè il clero; e finalmente perchè i popoli settentrionali
generalmente doveano servirsi d'una lingua nella quale le leggi erano scritte,
e che se non intesa dal popolo, era pure interpretata da' legali e da' maestri
delle scuole, da' preti, da' monaci e da' vescovi, che in quasi tutta l'Europa
d'allora ottenevano una grande preponderanza.
Pur la quistione sarebbe
rivolta in congettura, se in questi ultimi anni un letterato italiano, che da
pochi mesi non vive più, non avesse con somma industria e con eguale
imparzialità raccolti ed esaminati quanti avanzi scritti rimanevano della
lingua romanza anteriori al secolo di Dante. Egli, paragonandoli l'uno
all'altro, riescì a convincere sè medesimo ed i suoi lettori che quegli
scritti, benchè di diversi paesi d'Italia, e talvolta anche di diversi popoli
d'Europa, quantunque differissero nella terminazione delle parole, e in alcune
varietà di sintassi, erano nondimeno composti degli stessi vocaboli, e con la
stessa legge grammaticale; cosicchè tutti possono con pochissime alterazioni
essere letteralmente tradotti nella lingua italiana d'oggi.
Gli Italiani, e
soprattutto i Fiorentini, conservarono più gran numero di voci latine, sì
perchè continuavano ad abitare il paese dove la lingua latina era stata la
lingua nazionale, e dove era la sede de' pontefici e della gerarchia
ecclesiastica che continuavano a servirsi del latino, e a pronunziare i
vocaboli della lingua romanza men corrotti che dagli altri Italiani; sì perchè
Molte parole nondimeno
delle lingue teutoniche restarono alla lingua letteraria italiana; e v'è un
criterio sicuro per distinguerle. Rare, se pur ve n'ha alcuna, riguardano la
vita domestica e gli usi comuni della vita, che non sieno latine; ma le parole
appartenenti a cose di guerra o titoli militari sono teutoniche, e
sottentrarono a quelle de' Romani. Così brando, elmo, invece di ensis
o gladium, e galea; marciare, marescalco, invece di
proficisci o procedere, e Dux; e, per lasciare altri esempj,
invece del latino bellum dissero guerra da war, donde
venne il nome de' Germani di Warman. Lo stesso avvenne, benchè più
tardi, per altri oggetti in Inghilterra, e fu al tempo delle conquiste
normanne; perchè le voci esprimenti bue, vitello, porco, agnello,
montone, ed altre necessità della vita somministrate dall'agricoltura,
restarono sassoni nella campagna; ma i soldati andando a comprare queste cose
al mercato, o forse anche il conquistatore avendo imposta una tariffa
prevalendosi della propria nomenclatura, restavano alla cucina i nomi
franco-romanzi di veal, beef, mutton.
Come la lingua italiana
abbia troncate e modificate le terminazioni della latina, e sia ricorsa agli
articoli, non è difficile a intendersi. Sino al secolo XII tutte le provincie
italiane parlavano la lingua romanza più o meno modificata nella pronunzia,
secondo il genere di organi loro naturali, e più o meno arricchita di parole
forestiere, secondo che era stata generata da diverse nazioni forestiere, e il
contatto e il commercio che aveva tenuto con esse. Così i Napoletani e
Siciliani non hanno quasi parole di origine teutonica, e ne hanno di arabiche e
di normanne; – i Genovesi, e più ancora i Veneziani, che navigavano in Grecia e
sulle coste dell'Affrica, hanno molte voci di origine greca, ed alcune di
origine arabica, che sono poi passate nella lingua Toscana, e in tutte le
lingue d'Europa; come fra le altre: ammiraglio, in inglese admiral
– arzanà, come Dante lo scrive, e darzena come lo pronunziano i
Genovesi, ed arsenal, come oggi è proferito da' Veneziani; e in italiano
scrivesi arsenale, e arsenal in inglese. Onde il dottore Johnson
a torto lo chiamò vocabolo d'origine italiana, quando è pretto affricano; se
non che pare che il dottore Johnson non abbia giudicato le etimologie e
derivazioni delle voci esser degne del suo studio: ma, se di tanto uomo è
permesso di dire meno che lodi, egli avrebbe fatto da savio disprezzandole e
tralasciandole affatto; pure avendole ammesse nel suo dizionario senza degnarle
di esame, pare che egli disprezzasse anche i suoi lettori.
Nel duodecimo secolo,
quando si cominciò più o meno a scrivere la lingua romanza, gli Italiani
cominciarono a chiamarla volgare per distinguerla dalla latina, e il
nome di romanza restò alla provenzale, che fu chiamata anche linguotta.
Ma
Ma la poesia che precede
la prosa in tutti i paesi, e più in climi ed età dove regnano le immaginazioni
e le passioni, era stata coltivata in lingua romanza, chiamata siciliana,
cinquanta anni innanzi di Dante, secondo il suo proprio computo; e i poeti
siciliani incominciarono a ridurre la lingua italiana al grado di letteraria.
Quindi le due asserzioni di Dante e di Petrarca, asserzioni che divisero e
divideranno per lungo tempo i grammatici antiquarj, si accordano mirabilmente;
perchè molte lingue romanze italiane, senza essere formate dalla provenzale o
dalla siciliana, esistevano contemporaneamente; e quando di queste differenti
gli scrittori cominciarono a farne una sola generale ed intelligibile a tutta l'Italia,
spogliandola de latinismi, de' francesismi e de' plebeismi, ritennero tutte le
parole utili e le frasi eleganti che appartenevano tanto alle lingue romanze di
Francia, quanto a quelle d'Italia e di Sicilia.
Nè Dante e Petrarca
allegarono un'opinione differente su questo proposito con l'intenzione di
decidere della origine della lingua: – questi due Poeti non alludevano che ai Trovatori,
come allora si chiamavano gli scrittori di rime, che oggi si onorano col titolo
di Poeti. Senza intendere di decidere un punto d'antichità, Dante affermava
agli Italiani che dovevano coltivare la loro lingua materna, scriverla invece
della latina, e non arricchire di opere
Ma la lingua italiana
non rimase in questo stato di prosperità più d'un secolo; poichè poco più di
trenta anni dopo la morte del Boccaccio, non vi fu, per così dire, più nè
scrittore, nè lingua. Tutti gli uomini si vergognavano di scrivere in altra
lingua fuorchè in latino; e fra l'anno 1400 e l'anno
DISCORSO SECONDO
EPOCA SECONDA
DALL'ANNO 1230 AL 1280
I poeti siciliani furono
contemporanei, o non molto posteriori, e più celebri dei trovatori lombardi; e
la lingua letteraria, benchè presentita ne' differenti romanzi provenzali usati
dagli antichissimi rimatori in Italia, non cominciò a risuonare se non nel
dialetto romanzo de' Siciliani; nè fu nobilitata da grandi scrittori, se non
dopo che il dialetto Siciliano fu innestato nel dialetto romanzo de' Toscani. I
trovatori in Italia furono sempre pochissimi, e taluno d'essi era nato a
Genova, tal altro in Torino, altri in Milano, in Mantova e in Ferrara e in
Venezia; ma nessuno era siciliano nè fiorentino. L'unica allusione a un Toscano
che sapesse di provenzale s'incontra in una raccolta di novelle antichissime,
dove un cavaliere andò a chiedere una grazia al re Carlo: non perciò appare
dalla novella che il Fiorentino fosse poeta o scrittore, e non più che
parlatore eloquente nel dialetto del Principe francese.[2] Bensì, fino dal primo
sorgere de' poeti siciliani e toscani, tutta l'Italia dimenticò i suoi trovatori
in guisa che la loro fama non rimase viva, se non in Provenza, dove il dialetto
romanzo, che essi avevano usato, continuava ad esser popolare. Il più antico
fra loro, e che dagli storici ed antiquarj è sempre chiamato Folchetto
Marsigliese, era nato, per testimonianza di Dante, fra' confini di Genova e
della Toscana.[3]
– Il Petrarca aggiunge che l'onore che il suo genio aveva procacciato al suo
paese nativo era stato ereditato da Marsiglia; – e che egli, invecchiando, mutò
studj e costumi, e aspirò a patria migliore[4]. Infatti, dopo aver menato
in gioventù la vita godente de' trovatori, Folchetto fu convertito a pentimento
dalla morte di una donna che egli amava e celebrava in tutti i suoi versi;
ond'egli indusse sua moglie a far voto di castità in un monastero, ed ei co'
suoi figli si vestì da monaco, e morì vescovo e santo. Ma rari, se pur alcuni,
fra i trovatori ottennero la celebrità di Sordello; – e quand'essi erano da
principio cavalieri poeti, vivevano men noti all'Italia che ne' paesi
forestieri, dov'essi dimoravano qua e là nelle corti; finchè, divenuti poi
rimatori e cantanti per arte, non passavano quasi mai di là dalle Alpi o
dall'Appennino[5];
e non approdavano molto in tempi, ne' quali ogni città italiana tendeva alla
democrazia; – e dopo la metà del secolo decimoterzo e la morte di Azzo VII
d'Este, il più magnifico e l'ultimo de' loro protettori, rare menzioni
s'incontrano de' loro nomi.
Con Sordello, il più
antico di molti, cominciano e finiscono i nomi di quelli che in quel secolo
ferreo contribuirono a fare incivilire con la letteratura
Venimmo a lei: O anima
Lombarda,
Come ti stavi altera e disdegnosa,
E nel mover degli occhi onesta e tarda!
Ella non ci diceva
alcuna cosa:
Ma lasciavane gir, solo guardando
A guisa di leon quando si posa.
Ma quantunque l'Italia
cominciasse a possedere una lingua letteraria e nazionale, le sue varie
provincie e città non però cessavano – nè mai cesseranno – dal parlare dialetti
stranamente diversi fra loro. Dante, che per arricchire la lingua andava
scegliendo parole e frasi da tutti que' dialetti, e gli esaminava con orecchio
attentissimo, le trovò divise in quattordici provinciali, e suddivise in
altrettante municipali, sì ch'ei disperò di potere accertarne il numero[6]. Dai saggi che egli ne
reca, pare che gl'Italiani nativi di differenti provincie non potessero bene
intendersi fra loro. Nè la diversità e il numero de' dialetti italiani è minore
a' dì nostri. Sappiamo per prova che nè un Napoletano illetterato intende un
Milanese, nè un Torinese un Bolognese; nè quattro uomini educati, ognuno de'
quali fosse nativo in una di quelle quattro diverse provincie, potrebbero
conversare senza frantendersi, se non usassero fra di loro un certo italiano
ibrido, che, partecipando pur sempre del dialetto provinciale di chi lo parla,
assume ad ogni modo le desinenze e la grammatica della lingua letteraria della
nazione; e questa lingua nazionale, benchè non sia parlata nè bene nè male dal
volgo, è nondimeno più o meno intesa anche dall'infima plebe. Abbiamo già
accennato che una siffatta lingua comune dovea esservi anche allora, e fra poco
ne daremo le prove: ma non era ancor letteraria. Primi i Siciliani ridussero il
loro dialetto nativo a lingua scritta e popolare ad un tempo: ma benchè non
l'usassero come lo udivano uscire dalle labbra del popolo, tuttavia non lo
alteravano in guisa che non si vedesse che apparteneva propriamente ai nativi
di quell'Isola: ad ogni modo era molto diverso dal provenzale, e più grato e
più intelligibile a tutta l'Italia. – Infatti, mentre la poesia de' trovatori
lombardi cadeva in perpetua dimenticanza, quella di Sicilia fioriva in guisa,
che siciliano e italiano si trovano negli autori di quel paese adoperati come
sinonimi[7]. Che se poscia Firenze,
più che
In quanto a' Siciliani,
anch'essi nel corso de' secoli del medio evo parlavano la lingua romanza; ma
avevano assai prima d'allora innestato il latino sul greco che era la loro
lingua patria, e che con l'affluenza e soave modulazione delle sue vocali
comunicò al dialetto de' Siciliani una tradizionale melodia di pronunzia.
Quindi il dialetto che parlano anco a' dì nostri è fluidissimo di vocali. La
strofetta seguente di un Siciliano morto prima del 1200[8] lascia sentire, per la
moltitudine delle vocali e la scarsezza delle consonanti, una grande affinità
alla lingua italiana d'oggi, e molta più melodia che in certa canzonetta
provenzale di Federigo I suo contemporaneo.[9]
Rosa fresca aulentissima
C'appari inver l'estate,
Le donne te desiano
Pulcelle e maritate.
Chi togliesse il
latinismo oggi fuor d'uso, e che il poeta siciliano, per amore delle vocali,
invece di olentissima pronunziava aulentissima, e se invece di c'appari
si scrivesse che appari, nessuno mai crederebbe che questi quattro
versetti non fossero di un qualche poema moderno. Questa ed altre poesie
posteriori furono imitate dai primi poeti toscani; e forse l'affluenza delle
vocali nel dialetto siciliano operò sì che tutte le parole, le quali nella
lingua latina e in tutti i dialetti e le lingue da lei derivate terminavano in
consonanti, terminassero, nella lingua letteraria italiana, in vocali. Il
latino panis – in spagnuolo pan – in francese pain – odesi
in quasi tutte le provincie settentrionali d'Italia pronunziato tronco, ma non
vedesi mai scritto in tutta l'Italia (fuorchè talvolta in poesia) se non pane;
nè v'è parola italiana che non ammetta la medesima osservazione.
La lingua de'
conquistatori romani, che, come nel precedente Discorso abbiamo accennato,
predominava a principio scritta insieme e parlata in tutte le regioni
soggette al loro Impero, cominciò fin da' primi tempi del medio evo a dividersi
in latino scritto, chiamato curiale ed ecclesiastico, ed
in latino parlato, chiamato romano rustico e poscia romanzo.
Questa divisione continuò per oltre cento anni anche dopo l'epoca che ora
andiamo osservando. Bensì nel corso di que' dodici secoli il latino si alterava
di meglio in peggio e di peggio in meglio sotto la penna degli scrittori, senza
mai perdere le sue primitive sembianze. Ma il romanzo alterandosi con la
pronunzia che gli anni cangiano gradualmente in tutte le lingue parlate, ed
innestandosi ne' linguaggi di tante differenti nazioni alle quali era comune,
andò continuamente assumendo forme, suoni, significati e sintassi sempre più
dissimili dalla lingua latina; si divise in dialetti infiniti, sinchè i
dialetti provinciali e municipali si ricongiunsero a creare in ogni nazione una
lingua letteraria, distinta dalle altre nate e cresciute dalla stessa origine e
nel medesimo modo.
Sì fatte metamorfosi non
appariranno fenomeni a chiunque non perderà mai d'occhio il principio generale
da noi stabilito, perchè deriva dalla storia di tutte le lingue, e che non
cesseremo d'applicare, perchè è principalmente efficace a farci conoscere i primordj,
i progressi, le vicissitudini e lo stato attuale della italiana letteratura; –
ed è: che le lingue si trasformano e si moltiplicano unicamente per mezzo
della pronunzia. Il romano rustico essendo più parlato che scritto, il
suono di ogni sua parola si cangiò in varie guise a norma degli organi e de'
linguaggi anteriori di ciascun popolo: onde il latino presbyter divenne prevete–
prêtre– prete – priest; e la sua origine, benchè non possa
più omai rintracciarsi oltre al ΠΡΕΣΒΥΣ de'
Greci, deve essere certamente molto più antica. – Al contrario, se una lingua è
più scritta che parlata, s'imbarbarisce per neologismi, per durezza di
costruzioni, per ineleganza d'idiotismi e per assoluta povertà di native grazie
spontanee. Tuttavia, non soggiacendo al potere arbitrario impercettibile e
invisibile delle pronunzie popolari, serba perpetuamente le sue prime forme. Il
latino curiale ed ecclesiastico scritto e letto sempre, ma pronunziato di rado
nel medio evo, si guastava, ma non però trasformavasi; perchè ogni sua parola
era fedelmente seguita con obbedienza passiva dall'occhio de' lettori, e gli
scrittori per riconoscerla preservavano scrupolosi la medesima ortografia. La
parola presbyter infatti era un barbaro neologismo ignoto agli autori
classici, e cominciò ad essere usato nel terzo secolo da' Padri della chiesa,
quando la religione cristiana introducevasi quasi contemporaneamente in tutti i
dominj romani: pur nondimeno d'indi in qua continuò ad essere scritto ad un
modo, e inteso da chiunque sa di latino. Ma le pronunzie dissimili de' varj
popoli le quali si divisero il romano rustico in dialetti infiniti, e che poi
dagli scrittori furono ridotti in più lingue letterarie, fecero sì che ogni
parola, benchè derivante dalla medesima origine, non potesse allora essere
intesa, fuorchè nel luogo dove ogni dialetto diverso era parlato dal popolo. Quindi
le parole medesime che nei libri scritti in latino ecclesiastico e curiale
giunsero fino a noi perpetuamente immutabili, erano nel latino rustico e ne' suoi
mille dialetti romanzi modificate e moltiplicate nelle varie pronunzie popolari
di generazione in generazione; e furono tramandate a noi così travisate che,
quand'anche serbano il loro preciso antico significato, non possono
raffigurarsi come modificazione di una sola parola, se non da chi sa molte
lingue viventi. Infatti un uomo letterato tedesco, che sapesse tutte le lingue
antiche e nessuna moderna, potrebbe egli intendere che il prevete de'
Grigioni, il prete degl'Italiani, il prêtre de' Francesi, e il priest
degl'Inglesi sono pure tutte derivazioni direttissime, e serbano l'esatto
significato del vocabolo presbyter? Ed oggi pur fra l'Italia e
Vero è che in tutti i
tempi in ogni parte della terra le città e le provincie riunite sotto le
medesime leggi, o costituite da naturali confini e dal clima in una sola
regione, benchè parlino dialetti differentissimi, si formano sempre una lingua
comune, composta di quelle parole che, appartenendo a tutti i dialetti di
quella contrada, riescono più o meno intelligibili a tutti i suoi abitatori. Ma
siffatta lingua rimansi poverissima, incerta e soggetta a rapidissime
trasformazioni sino a tanto che non sia ripulita, arricchita e preservata dagli
scrittori.
Strane, come pur
certamente devono parere a' dì nostri siffatte denominazioni di queste tre
lingue, giovano ad ogni modo ad accertare in che guisa derivarono tutte dalla
latina, e come spesso le lingue derivate trovano nelle varie parole della madre
lingua i significati necessarj che essa non poteva somministrare. I Romani,
quegli imperiosi conquistatori del mondo, arbitrarj ed inesorabili nelle loro
decisioni, assoluti e positivi nelle loro risposte, mancavano (chi il
crederebbe?) della particella affermativa. Avevano il no; ma non avevano
vocabolo esclusivamente appropriato a dir sì. I loro storici, oratori e
poeti, per più eleganza e più forza, esprimevano l'affermazione positiva con
due negative. Ma da' loro comici e scrittori di dialoghi appare che nel
discorso famigliare avevano ricorso ora al pronome hoc, ora ai verbi ajo
ed est, or agli avverbj maxime, utique, ita, sic,
imo, e siffatti; donde anco nel Vangelo di S. Matteo, a significare men
vagamente il precetto «le vostre parole sieno schiette; dite sì o no»,
l'autore, o il traduttore fu costretto a scrivere: «Sit sermo vester: Est
Est, Non Non.» Diciamo l'autore, perchè noi crediamo che il nuovo
Testamento sia stato originalmente scritto in latino, e uno scrittore ci ha
recentemente confermati in questa credenza con dottrine e argomenti, che, al
nostro parere, non possono esser confutati. Nondimeno la questione di sua
natura non ammette termini di conciliazione fra' disputanti; e noi non
l'abbiamo toccata se non perchè giova a illustrare il nostro soggetto, e
aggiungere prove al fatto singolarissimo della varietà della particella
affermativa fra popoli, fra quali le religioni, le colonie e le leggi romane e
parecchi secoli di dominio avevano introdotta e stabilita la stessa lingua.
L'hoc (questo)
prevalse nel mezzodì della Francia, e fu pronunziato e scritto oc; e
nella Francia settentrionale l'utique (di certo) forse dapprima
accorciossi in uti, come in tutte le lingue avviene ad ogni parola che è
perpetuamente usata nel discorso; – poscia per la stessa ragione in ui; –
e perchè i Romani pronunziavano, com'oggi pur fanno gl'Italiani, la u
come l'ou de Francesi, la parola finì ad essere scritta oui.
Finalmente il sic, (così), perdendo anch'esso una lettera, diventò sì,
e si perpetuò come voce esclusiva di affermazione de' Siciliani e degl'Italiani:
quindi venne il nome alla provincia della Linguadoca; e il verso di Dante:
Del bel paese là dove 'l
sì suona
allude all'Italia.
La più celebre delle tre
nuove lingue, e che fino dal secolo X era stata la prima a rallegrare di poesia
e d'armonia le triste città dell'Europa, e a rammollire i duri costumi e le
truci passioni di quella età, celebrando
Le Donne, i
Cavalier, gli affanni e gli agi
Che ne
invogliava Amore e cortesia,
è lingua oggi affatto perduta; e non che essere
intesa, non è quasi più ricordata da' popoli, fra' quali i monarchi e i
condottieri d'eserciti de' loro antenati la studiavano e la scrivevano come
necessaria a' loro piaceri e alla loro gloria. Invece, la lingua d'oui e
quella del sì, che le cedevano allora la preminenza, illustrarono
I Francesi allegavano
ch'essi furono i primi a tradurre in lingua d'oui le storie de' Troiani
e de' Romani e
Or comunque sia, la
nascente lingua del sì, nell'acquistar melodia dalla poesia siciliana,
traeva vigore e precisione grammaticale dal latino ecclesiastico e curiale, che
in Italia fu sempre men barbaro, e segnatamente nelle corti de' papi, dove
stranieri concorrevano ad impararlo
Me transtulit Anglia Romam
Tanquam de terris ad cœlum; transtulit ad vos
De tenebris velut ad lucem.[10]
Questo buon Inglese
peraltro chiamava
Sim licet agrestis, tenuique propagine natus,
Non vacat omnimodâ nobilitate genus.
Non præsigne genus, nec
clarum nomen avorum,
Sed probitas vera nobilitate viget.
E
altrove:
Dum Zephirus flabat, multis sociabar amicis;
Nunc omnes Aquilo, turbine flante, fugat.
Non è latinità classica
questa, – ma non è gotica; ed è da considerare che il poeta era nato contadino,
e che essendosi educato da sè, doveva aver trovato fuori delle scuole alcuni
uomini, da' quali egli potesse raccogliere gusto ed istruzione. E da questi
appunto la lingua italiana cominciò ad essere scritta, e gradualmente animata
dall'energia, e abbellita della eleganza e della rotondità della latinità
classica, di cui non tutti i libri rimasero sotterrati; anzi, alcuni che allora
esistevano, oggi si sono smarriti. Ma finanche la barbarie del latino, con che
Ora a dimostrare quanto
abbiamo di sopra indicato, che anche la lingua francese contribuì in
quell'epoca ad arricchire l'italiana, bisognerebbe la esposizione di fatti che
per la loro oscurità esigerebbero di essere circostanziati più che non è
conceduto ai limiti d'un'opera periodica. Infatti, oltre alla comune origine
del latino rustico, le due lingue avevano contratto strettissima affinità sino
dal secolo ottavo, dopo che per le conquiste di Carlo Magno l'Italia fu
lungamente dominata da principi ed eserciti francesi; e se la dinastia de'
Longobardi avesse continuato a regnare d'allora in qua, forse che gl'Italiani
oggi avrebbero una lingua d'indole alquanto diversa. Certo è ad ogni modo che,
mentre gli scrittori siciliani e toscani cominciavano a dar carattere proprio e
nazionale alla lingua, e la sua sintassi si ordinava naturalmente sulle leggi
certissime del latino, molta nuova ricchezza di parole, d'idee e di stile le
veniva dalla Francia. I più antichi libri italiani sono traduzioni delle storie
del re Artù, e delle imprese dei cavalieri erranti. I primi crociati che
ritornarono in Europa furono francesi, e portarono nozioni di oggetti, di arti
e di mille cose ignote a' Cristiani, e per cui bisognavano nuove parole create
primamente in Francia, e trapassate rapidamente in Italia. La poesia de'
trovatori, la vita cavalleresca, il lusso delle corti de' principi e le corti
d'amore in Francia avevano diffuso una qualche eleganza di sentire, di pensare
e di scrivere fra gl'Italiani. Finalmente pare anche che le scienze diverse
dalla Teologia, dalla Giurisprudenza e dalla Medicina potessero allora meglio
spiegarsi in francese; e Brunetto Latini, fiorentino, come abbiamo già notato,
scrisse la maggiore delle sue opere intitolata il Tesoro in lingua
francese, perchè, dic'egli nella prefazione, «è la più dilettevole e più
universale che tutti gli altri linguaggi.» Nondimeno l'originale di quest'opera
rimase inedito sempre; ma due traduzioni italiane, eseguite da' contemporanei
dell'autore, accrebbero le idee, i vocaboli, i modi di dire della lingua; e
pare che una di esse fosse tenuta in gran pregio per più di due secoli, poichè
al primo introdursi dell'arte tipografica fu pubblicata in Italia.[12]
Tuttavia le cagioni
enumerate sin qui, che cospirarono simultanee e potenti a creare la lingua, non
avrebbero operato sì prospere, nè con tanta celerità, se l'imperatore Federigo
II non avesse regnato in Italia. Nel corso di 400 anni che s'interpongono fra
questo principe e Carlo Magno,
Federigo II aspirava a
riunire l'Italia sotto un solo principe, una sola forma di governo e una sola
lingua; e tramandarla a' suoi successori potentissima fra le monarchie d'Europa[13]; nè dopo l'emigrazione di
Costantino e della sede imperiale sull'Ellesponto i tempi erano sembrati mai sì
opportuni, se Federigo non avesse dovuto perpetuamente combattere contro i
papi, allora più onnipotenti che mai, quando la loro scomunica bastava a giustificare
la ribellione, il regicidio e il parricidio, ed imponeva ad ogni uomo di
avventarsi contro i monarchi profughi ed esuli ne' loro stessi dominj. Gli
ecclesiastici allora che, quasi gli unici arbitri delle reliquie della
letteratura e delle credulità del genere umano, continuavano ad esaltare Carlo
Magno e le bolle de' papi, appunto al tempo di Federigo dichiaravano che le
favole di Turpino, donde il Bojardo e l'Ariosto trassero poscia i loro
racconti, erano storie autentiche e vere.[14]
E intanto papi,
cardinali, vescovi e preti e monaci e frati incominciavano, nè fino ad oggi
hanno cessato, ad esporre alla esecrazione de' popoli il nome di Federigo II
colla taccia, che era – ed oggi è pur tuttavia – facile ed efficacissima,
d'ateismo. Quindi non v'è storico italiano che d'allora in poi, o per sincera
aderenza alla Chiesa, o per terrore del Santo Ufficio, non abbia più o meno o
dissimulato i meriti, o malignato il carattere, o insultato alle calamità di
quel monarca e de' suoi figli e de' suoi nipoti: ad uno di essi fu mozzato il
capo dal carnefice, e il cadavere dell'altro fu disotterrato, e le sue ossa
disperse.
Ma finchè Federigo e i
suoi figli vissero, nè le guerre perpetue, nè le domestiche sciagure li
distolsero mai dal favorire e coltivare le lettere; e se non avessero lungamente
risieduto in Sicilia, la lingua italiana o non avrebbe ricavato ajuto veruno
dal coltissimo dialetto di quell'isola, o più scarsamente e più tardi. Il
palazzo di Federigo e di Manfredi era l'ospizio de' poeti; e i cortigiani, che
gareggiavano co' loro principi a compor versi, erano a un tempo oratori, uomini
di stato e guerrieri, generosissimi d'animo ed eleganti ne' loro costumi. La
galanteria cavalleresca esaltava il cuore delle donne, destava le loro grazie e
raffinava la loro educazione. Talune emulavano d'ingegno i loro amanti, ed una
di esse li superò. Nina siciliana era
Fra le opere scritte dal
ministro e dal principe, quelle di Pietro sono ancor lette per la luce che
spargono sulla storia e la diplomazia di quel secolo; – e fra quelle di
Federigo, spetta al risorgimento ed a' progressi delle scienze un trattato
ch'ei lasciò non finito, e che fu supplito da Manfredi suo figlio: fu il primo
libro che dopo la rovina dell'antica letteratura fu scritto sulle varie specie
e nature degli uccelli. Egli fu il solo sovrano che sia mai stato il più dotto
di tutti i suoi sudditi. Scriveva il romanzo siciliano, i dialetti di Francia,
il latino e il tedesco; e sapea l'arabo e il greco. Fece tradurre l'opere
scientifiche degli antichi, fondò scuole e accademie, e ristorò università che
decadevano, e ne creò delle nuove che emulavano le antiche. Ma tutte le sue
istituzioni a promuovere la letteratura erano abbominate, come derivanti da un
principe eretico.
Il famoso libro De
tribus Impostoribus fu attribuito a Federigo sin anche dal buon Matteo
Paris, che era il men credulo fra gli storici, e il più imparziale fra i monaci
di quell'età. Or chi crederebbe che quel libro tante volte citato, attribuito a
tanti individui in paesi ed epoche differenti, fu dagli scrittori più versati
negli annali bibliografici riconosciuto per una chimera?[16] Ma o non si avvidero, o
come è più probabile, non osavano dire, che esso era come
Nè davvero era mostro
diverso il libro De tribus Impostoribus, ogni qual volta i preti
cattolici volevano dare un uomo letterato in preda a' carnefici di S. Domenico,
che ancora oggi presiedono al Santo Uffizio della Santa Inquisizione. Tommaso
Campanella, benchè non troppo forse convinto de' dogmi della Chiesa Romana,
nondimeno difese
Or non si creda che noi
ricorriamo ad escursioni storiche per l'unico fine di divertir noi e i nostri
lettori dalle aride disquisizioni grammaticali, indispensabili nelle indagini
delle lingue; – perchè nè la storia de' popoli può conoscersi se non per mezzo
della loro lingua, nè lingua veruna si lascia mai rintracciare se non per mezzo
della storia. Se nel notomizzare la proprietà, la derivazione e i varj
significati antichi e nuovi, de' quali coll'andar del tempo s'impregnano le
parole di tutte le lingue, i grammatici, gli etimologisti e gli antiquarj
avessero adottato il nostro metodo di applicare gli avvenimenti politici agli
annali della letteratura, forse che essi avrebbero disputato meno, e si
sarebbero intesi più facilmente; seppure è da credere che siffatte specie di
dotti bramino piuttosto d'intendersi che di disputare.
Finchè il regno ed il
secolo dell'imperatore Federigo non avranno uno storico letterato insieme e
filosofo, lo scoppio quasi subitaneo de' lumi, e la loro rapidissima diffusione
in Italia e nel rimanente d'Europa si rimarranno fenomeni[18]. Ma al proposito nostro
basterà lo spiegare come avvenisse che la letteratura e la lingua fossero sì
felicemente promosse da un principe perpetuamente impedito da quelli, che per
mezzo della superstizione e della ignoranza governavano le opinioni e i cuori
della universalità delle nazioni. I creduli e i ciechi erano allora
innumerabili; e quei che sotto il nome di Guelfi parteggiavano in favore de'
papi erano per lo più uomini, a' quali il traffico aveva procurato ricchezze,
con le quali s'erano fatti demagoghi potenti nelle loro respettive città. Ma
pochissimi tra siffatti uomini attendevano alle lettere; mentre i Ghibellini,
che sosteneano i diritti degl'imperatori, erano nobili per nascita,
aristocratici per sentimento e per sistema, avvezzi sin dall'infanzia a una
educazione liberale; – e siffatti individui, quando attendono alle lettere, le
propagano prestamente fra' loro concittadini.
Anzi il favore che la
poesia godeva alla corte di Federigo era in quei tempi nell'opinione di molti
scrittori guelfi una prova evidente della dissolutezza de' costumi e
dell'empietà di Federigo e del suo cancelliere; chè Pietro, come il suo
signore, componeva canzoni. E Federigo doveva essere un principe veramente
magnanimo, perchè, essendo poeta egli stesso, si compiaceva di confessare che i
versi del suo ministro erano migliori de' suoi. Federigo, nondimeno, e suo
figlio Enzo, considerata l'infanzia della lingua, destano qui e là ne' loro
versi grandissima ammirazione.
Nel seguente squarcio,
tratto dalle reliquie delle poesie di Federigo scritte nella lingua romanza
siciliana, noi troviamo il fondo dell'italiano che si scrive a' dì nostri.
Basterebbe alterare leggermente la ortografia siciliana, e invece di aggio
e partiraggio scrivere ho e partirò, e togliere le traccie
di barbara latinità, eo invece di ego e meo invece di meus,
e farne io e mio; queste ed altre poche alterazioni varrebbero a
far credere ad ogni lettore non profondamente versato nella lingua, che la
stanza ch'io recito appartenga ad autore moderno:
Poichè ti
piace, Amore,
Ch'eo
deggia trovare,
Farò omne
mia possanza
Ch'eo venga
a compimento.
Dato aggio
lo meo core
In voi,
Madonna, amare,
E tutta mia
speranza
In vostro
piacimento.
E non mi
partiraggio
Da voi,
Donna valente,
Ch'eo v'amo
dolcemente;
E piace a
voi ch'eo aggia intendimento.
Valimento
mi date, Donna fina,
Chè lo meo
core ad esso a voi s'inchina.
Di suo figlio Enzo
riportiamo semplicemente i seguenti versi di merito pari, se non superiori a
quelli del padre:
Ecco pena
dogliosa
Che nello
cor m'abbonda
E spande
per li membri,
Sì che a ciascun
ne vien soverchia parte.
Giorno non
ho di posa
Come nel
mare l'onda:
Core, che
non ti smembri?
Esci di
pene, e dal corpo ti parte:
Ch'assai
val meglio un'ora
Morir, che
ognor penare!
L'impresa, che noi
riguardiamo quasi più che umana, di creare una nuova lingua letteraria fu
avanzata e consumata da Dante; ma riescirà meno maravigliosa per chi considera
che non fu incominciata da lui, ma che egli fu incoraggiato in sì difficile via
da' poeti che lo precedettero. Pietro delle Vigne fu certamente il primo, se
non il maggiore, cent'anni innanzi Dante, e in un'epoca in cui gl'Italiani
parlavano un gergo latino mutilato nelle sue terminazioni, e imbarbarito da
parole e frasi e pronunzie introdotte da' popoli del Nord. Il gusto corretto,
l'orecchio musicale di Pietro lo ajutarono a trascegliere le più schiette
parole, a legarle con frasi eleganti e a collegarle nella misura de' versi in
maniera che fossero proferite con rotondità e melodia. Così ne' versi seguenti
non v'è un unico sgrammaticamento di sintassi, nè un modo di esprimersi
inelegante, nè un solo vocabolo che possa parere troppo antico:
Non dico
che alla vostra gran bellezza
Orgoglio
non convenga e stiale bene;
Chè a bella
donna orgoglio si convene,
Che la
mantene – in pregio ed in grandezza:
Troppa alterezza
– è quella che sconvene.
Di grande
orgoglio mai ben non avvene.
E la seguente strofa
d'un'altra delle sue Canzoni, a nostro avviso, vuolsi reputare una delle più
vaghe gemme della poesia anteriore a Dante:
Oh, potess'io
venire a vo', amorosa,
Come 'l
ladrone ascoso, e non paresse!
Ben mi
terria in gioia avventurosa,
Se Amor di
tanto bene mi facesse.
I' ben
parlante, Donna, con voi fora,
E direi
come v'ami dolcemente
Più che
Piramo Tisbe; e lungamente
I'
v'ameraggio, in sin ch'io viva, ancora.
Pietro delle Vigne ha
inoltre il merito di avere inventati molti nuovi metri di canzoni e stanze
diverse da quelle usate da' Provenzali, e particolarmente la breve composizione
conosciuta in tutta l'Europa con la denominazione di Sonetto. – Ogni lettore di
Dante sa che Pietro morì di suicidio; ma non v'è storico, o dotto uomo italiano
o straniero, che abbia mai potuto rintracciare la cagione della tragica morte
di quest'uomo straordinario: – e quel più che sappiamo, oltre quello che ne disse
Dante, è brevemente accennato da Matteo Paris, storico inglese che morì uno o
due anni dopo Pietro delle Vigne; e che, contemporaneo, meriterebbe fede, se il
suo amore per la verità non fosse stato vinto da' pregiudizj monastici
sull'ateismo di Pietro. Però dalle romanzesche circostanze, e dalle
soprannaturali cagioni assegnate alla morte di Pietro delle Vigne dagli antichi
scrittori, l'unica verità che si può accertare, è che, avendo egli perduto il
favore di Federigo, fu condannato a perdere gli occhi, e ad una perpetua prigione,
ove egli si uccise da sè. Dante nel suo viaggio all'Inferno entra in una
foresta dove le anime de' suicidi erano condannate a star rinchiuse in alberi
di trista apparenza:
Non era ancor di là
Nesso arrivato,
Quando noi ci mettemmo per un bosco,
Che da nessun sentiero era segnato.
Non frondi verdi, ma di
color fosco;
Non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti;
Non pomi v'eran, ma stecchi con tosco.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . .
Io sentia d'ogni parte
tragger guai,
E non vedea persona che 'l facesse
Perch'io tutto smarrito m'arrestai.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . .
Allor porsi la mano un
poco avante,
E colsi un ramoscel da un gran pruno:
E 'l tronco suo gridò: perchè mi schiante?
Dacchè fatto fu poi di
sangue bruno,
Rincominciò a gridar: perchè mi scerpi?
Non hai tu spirto di pietade alcuno?
Uomini fummo, ed or sem
fatti sterpi
Ben dovrebb'esser la tua man più pia,
Se state fossimo anime di serpi.
Come d'un stizzo verde,
ch'arso sia
Dall'un de' capi, che dall'altro geme,
E cigola per vento che va via;
Così di quella scheggia
usciva insieme
Parole e sangue; ond'io lasciai la cima
Cadere, e stetti come l'uom che teme.
E
lo Spirito ripiglia a parlare:
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Io son colui che tenni
ambo le chiavi
Del cor di Federigo, e che le volsi,
Serrando e disserrando, sì soavi,
Che dal segreto suo
quasi ogni uom tolsi:
Fede portai al glorïoso ufizio,
Tanto ch'io ne perdei le vene e' polsi.
La meretrice, che mai
dall'ospizio
Di Cesare non torse gli occhi putti,
Morte comune e delle corti vizio,
Infiammò contra me gli
animi tutti;
E gl'infiammati infiammar sì Augusto,
Che i lieti onor tornaro in tristi lutti.
L'animo mio per
disdegnoso gusto,
Credendo col morir fuggir disdegno,
Ingiusto fece me contra me giusto.
Per le nuove radici
d'esto legno
Vi giuro, che giammai non ruppi fede
Al mio Signor, che fu d'onor sì degno.
E se di voi alcun nel
mondo riede,
Conforti la memoria mia, che giace
Ancor del colpo che invidia le diede.
Dante, oltre a' poeti
della corte di Federigo, ne nomina parecchi di Lombardia, di Romagna e di
Toscana, fra' quali i più celebri furono tre che ebbero nome Guido.
Il primo di essi nacque
a Bologna della casa patrizia de' Guinicelli; ed è di lui che Dante dice:
. . . . . . . udii nomar sè stesso, il padre
Mio, e degli altri miei maggior, che
Rime
E, senza udire e dir, pensoso
andai
Lunga fïata rimirando lui,
Nè per lo foco in là più m'appressai.
Poichè di riguardar
pasciuto fui,
Tutto m'offersi pronto al suo servigio
Con l'affermar che fa credere altrui.
E adducendogli la
cagione per cui lo riguarda con tanto affetto, dice che ne sono motivo:
. . . . . . . . . . . i dolci detti vostri,
Che quanto durerà l'uso moderno,
Faranno cari ancora i loro inchiostri.
Tal lode non è
giustificata da' frammenti che gli antiquarj attribuiscono a questo Guido; e o
non sono veramente suoi, o sono i peggiori di quanto scrisse; e la miglior
parte del suo ingegno perì con tanti altri scritti, de' quali più non vive che
la memoria.
Il secondo Guido era d'Arezzo[19]. Molti lo confondono con
un altro Guido inventore del contrappunto, il quale era pur d'Arezzo, ma visse
assai tempo prima. Di Guido poeta i versi che restano sarebbero meravigliosi
per quella età; – non tanto per le idee, quanto per lo stile, che spesso
pareggia quello del Petrarca: ma confesso che io credo le poesie di Guido
d'Arezzo spiritose invenzioni di qualche bell'ingegno dell'epoca di Leone X,
dacchè i manoscritti in cui si trovano mancano egualmente di ogni prova di
autenticità e d'antichità. Vero è che io così m'oppongo al consenso universale
di tutta Italia; ma gl'Italiani, quanto più sentono la loro presente miseria,
tanto più si studiano di aggrandire le loro glorie passate. E non credono poca
lode nazionale il poter dimostrare, nelle poesie attribuite a Guido d'Arezzo,
un modello di lingua letteraria perfetta sei secoli fa, quando le altre nazioni
d'Europa non sapevano scrivere. E i letterati stranieri spesse volte, per
vanità d'erudizione di cose che destano maraviglia, si fanno complici di
siffatte pie imposture, e citano manoscritti simili a quelli di Guido, senza o
potere, o voler dubitare della loro autenticità.
Il terzo Guido fu uno
degli antenati della famiglia Ghisilieri, la quale ha posteri viventi oggi in
Bologna; e benchè il poco che ne resta di lui non sia di un merito
straordinario, egli era da' suoi contemporanei citato come superiore a quanti
poeti lo avevano preceduto.
Ma l'uomo che dalla
natura fu creato superiore a' suoi contemporanei, e che in tutti i secoli e in
tutte le età sarebbe stato uomo preminente, fu un quarto Guido, il Cavalcanti.
Siccome però egli fiorì alquanto posteriormente, così ci riserbiamo a parlarne
nel seguente Discorso.
DISCORSO TERZO
EPOCA TERZA
DALL'ANNO 1280 AL 1330
Qui cessa del tutto ogni
predominio di dialetto provenzale, lombardo e siciliano, e vi prevale bella di
originalità e di vigore la letteratura e la lingua, che, diffondendosi a un
tratto da tutta l'Italia, rinnovellò la civiltà del genere umano europeo. Questa
età andrebbe propriamente chiamata de' Poeti Toscani, quantunque pur molti
fossero d'altre provincie; nè forse un giusto volume basterebbe a parlare
debitamente di tutti. Se non che, oltre alla ragione de' nostri limiti, il
nostro proposito dichiarato sin dal primo di questi Discorsi impone a noi di
non nominare, se non que' pochissimi che come luminosi pianeti sono stati
preceduti da minori satelliti. Pure, comecchè avessero meriti letterarj assai
disuguali tra loro, si somigliano quasi tutti nel loro comune carattere,
d'anime non per anche domate dalla servitù dell'Italia. Sentivano fortemente,
scrivevano per le loro innamorate e combattevano per la loro fazione;
amministravano le leggi e i governi delle loro città; e offrirono lo spettacolo
di cittadini, guerrieri ed autori, qualità che, pur troppo! gli Italiani poscia
non videro unite ne' lor letterati se non assai raramente. Pur nondimeno nella
storia letteraria d'Italia quest'epoca fu confusa con la seguente,
differentissima in tutto, perchè nuove vicissitudini cangiarono le condizioni
politiche ed i costumi e i caratteri della seguente generazione. Il Tiraboschi
cadendo, parte volontariamente e parte per necessità, in questo errore,
contribuì più ch'altri a perpetuarlo. L'opera sua è oggimai fatta più popolare
delle altre, e può meritamente chiamarsi l'archivio ordinato de' fatti, delle
date e dei nomi de' libri e de' documenti letterarj di molti secoli. Bensì con
quali e quante precauzioni meriti ad un tempo d'esser consultata quell'opera e
le altre su lo stesso soggetto, è noto a chiunque sa che la verità non può
essere non che scritta, ma neppure pensata dove la stampa è in ceppi. Tutti i
critici appartenevano a un'accademia, a una città rivale delle altre; e per lo
più a una congregazione di frati. Il Tiraboschi era Gesuita, e non poteva
guardare molto addentro in una età nella quale predomina il genio di Dante,
poeta di nome terribile e di mente implacabile contro
Nel 1280, col quale
principia questa terza delle nostre epoche, Dante aveva quindici anni; e la sua
fama crebbe in guisa ch'oggi non v'è forse angolo di terra civilizzata dove non
sia conosciuto. Il suo poema viene esaltato anche dagl'infiniti che non lo
leggono, e da moltissimi che non possono intenderlo. Ei fu quindi tenuto più
che uomo mortale; e una specie di religione per lui fa vedere meriti, i quali,
esagerando la verità, impediscono il frutto che
Certo il suo primo
sonetto fu scritto quand'aveva diciotto anni; e considerando non tanto l'età
sua, ma lo stato della lingua e della poesia nel suo secolo, pare saggio
bellissimo per sè stesso. Se non che non fu mai nè ammirata quanto pur merita,
nè studiata attentamente l'operetta della Vita Nuova; e non pertanto
palesa l'anima dell'autore, e la prima concezione del suo grande poema[23], e l'impulso e il
progresso dato in un subito non solo alla poesia, ma, quel che è più difficile
in tutte le lingue, alla prosa italiana. Dante cominciò a fondare non solo gli
esempj, ma anche le grandi teorie dalle quali vennero poi tutte le regole, e
sono le vere, suggerite dalla pratica di tutti gli scrittori in ogni specie di
composizione sino a' dì nostri. E malgrado le dispute d'accademie grammaticali
e di scuole, e i precetti infiniti di neologisti e cruscanti, la lingua
italiana, finchè non cesserà d'essere scritta, si governerà perpetuamente co'
principj luminosi e sicuri che Dante ricavò dalla natura d'ogni lingua, e dal
carattere di quella ch'egli perfezionava.
I due compagni ch'ebbe
in quella impresa furono Brunetto Latini suo precettore, e Guido Cavalcanti suo
primo amico, com'ei sempre lo nomina; e l'antepone nel merito a tutti i
suoi contemporanei. Da Brunetto Latini Dante e gli altri Fiorentini desunsero
la prima educazione letteraria. Vero è che Brunetto, per le ragioni già da noi
assegnate, scrisse le opere sue maggiori in Francese; e a ciò fors'anche
contribuì l'aver egli vissuto in Francia molta parte dell'età sua, bandito da
una delle fazioni politiche di Firenze. Parimente anche quel poco ch'ei scrisse
di poesia italiana merita appena d'essere ricordato. Ma l'arte e l'abitudine di
esprimere chiaramente le idee, ed ordinarle logicamente e con la proporzione
richiesta dalla composizione; e il secreto ancora più difficile di connettere
le parole con armonia ed eleganza, e supplire alla povertà della lingua
nobilitando i vocaboli e le frasi del popolo, furono insegnati alla gioventù
fiorentina da Brunetto Latini. Fu anche secretario della Repubblica, appunto
per l'abilità sua di scrivere, e gli storici lo chiamano comunemente il buon dettatore. Morì verso il 1295,
quando Dante aveva già compiuto
Messer Brunetto, questa
pulzelletta
Con esso voi si vien la pasqua a fare;
Non intendete pasqua da mangiare,
Ch'ella non mangia, anzi vuol esser letta.
La sua sentenza non
richiede fretta,
Nè luogo di romor, nè da giullare;
Anzi si vuol più volte lusingare,
Prima che in intelletto altrui si metta.
Se voi non la intendete
in questa guisa,
In vostra gente ha molti frati Alberti,
D'intender ciò ch'è porto loro in mano.
Con lor vi restringete
senza risa;
E se gli altri de' dubbj non son certi,
Ricorrete alla fine a messer Giano.
Di Guido Cavalcanti non
resta fuorchè una breve raccolta di versi quasi tutti amatorj, e un gran nome,
appena secondo a quello di Dante. L'amore delle sue poesie è spesso più
platonico di quello del Petrarca, e non è dir poco; ma talvolta anche sentono
la giovialità non molto vereconda d'Anacreonte; e quest'ultimo carattere è del
tutto invisibile negli altri poeti di quell'età. Il suo stile è men amabile in
sì fatto genere di composizione che quello di Dante: l'uno e l'altro cedono di
molto nella soavità a Cino da Pistoja loro coetaneo. Ma le concezioni di Guido
sono profonde; la lingua è ricca: ei distinguesi sovra gli altri tutti
nell'andamento del suo fraseggiare, e nei numeri della sua verseggiatura,
perchè il suo stile spira una fierezza originale, derivante tutta dalla tempra
straordinaria dell'anima sua. Era uno di que' pochi individui che costringono
gli altri uomini ad ammirarli, e tramandare la loro memoria alla posterità
senza alcun'opera che giustifichi l'ammirazione. Bayle nel suo Dizionario ne ha
parlato più esattamente degl'Italiani; e fra le cose sfuggite anche a quel
sommo critico, noi non suppliremo se non a quelle poche che sono connesse al
nostro soggetto, e degne d'esser ricordate a togliere una o due importanti
lacune.
L'anno in cui Guido
Cavalcanti morì fu sorgente di molte liti, e deluse le indagini anche d'un suo
discendente, il quale pubblicò non è molto le poesie e una nuova biografia del
suo illustre antenato[24]. Ma niuno s'accorse d'un
passo d'antico storico ed uomo di Stato, il quale inoltre scriveva negli Archivj
della Repubblica Fiorentina. Ei narra che Guido morì nell'anno
Perch'io non spero di
tornar giammai,
Ballatetta, in Toscana,
Va tu leggiera e piana,
Dritta alla donna mia.
Tu senti, Ballatetta,
che la morte
Mi stringe sì, che vita m'abbandona;
E senti come 'l cor si sbatte forte
Per quel che ciascun spirito ragiona:
Tant'è distrutta già la mia persona,
Ch'io non posso soffrire:
Se tu mi vuoi servire,
Mena l'anima teco,
Molto di ciò ti preco,
Quando uscirà del core.
Non poca parte della
gran fama che sopravvisse sulla tomba di Guido derivò senza dubbio dalla sua
amicizia con Dante, e dalla menzione che questo poeta ne fa con amore insieme e
riverenza. Pur vi cospirarono alcune altre di quelle cagioni, che assegnano talvolta
agli uomini una celebrità non corrispondente alla loro vita. La famiglia di
Guido, vero o falso che fosse, traeva l'origine da guerrieri venuti in Italia
quando Carlo Magno ne cacciò i re longobardi. Era capo di fazione, fiero
d'animo e imperterrito ad affrontare i suoi nemici con l'armi[26]. Era eloquentissimo nelle
assemblee popolari. Suo padre, per le sue speculazioni metafisiche sopra i
principj d'Aristotile, com'erano commentati dagli Arabi e tradotti in latino,
aveva negato arditamente l'immortalità dell'anima[27]; e fu creduto che Guido,
sospingendo la filosofia più oltre che il padre suo, avesse studiato a provare
che Dio non esisteva[28]. In ogni tempo e paese,
ma più assai in un secolo superstizioso e in una repubblica popolare, tutte
queste cagioni riunite bastano ad attirare l'attenzione degli uomini, a farli
parlare in bene o in male intorno ad un individuo, a scrivere d'esso il vero e
non vero, a ridurre ogni cosa alla meraviglia e tramandare alla posterità un
carattere più straordinario che forse realmente non era. Così, anche due secoli
dopo la sua morte, Guido fu descritto ornato d'ogni grande qualità di cuore e
di mente, e fin anche dell'esterno della bellezza, da molti suoi concittadini,
ma più eloquentemente da Lorenzo de' Medici[29]; il quale trovò anch'esso
storici insieme e panegiristi, superati tutti dal celebre Roscoe.
Se non si fosse smarrito
il trattato che Guido Cavalcanti compose su la lingua italiana, avremmo oggi un
documento attissimo a lasciarci stimare le sue facoltà intellettuali. Le sue
teorie, qualunque si fossero, sarebbero ad ogni modo meno inutili alla
letteratura che non furono e saranno mai le speculazioni teologiche, e peggio
quelle che a lui sono attribuite. Tuttavia, l'accingersi a dar leggi e metodo e
norme future a una lingua nascente, e in secolo di ignoranza universale, e
prima che Dante scrivesse (perchè Guido nacque molti anni innanzi); certo l'accingersi
e il solo pensare a siffatta impresa, basta a darci un'idea della facoltà della
mente di Guido. Dante in seguito adempì ciò che l'amico suo non aveva forse che
adombrato; ma dopo un intervallo di venti a venticinque anni, e allorchè la
civiltà aveva fatti progressi rapidissimi. La nazione usciva dallo stato di
barbarie, e gl'individui erano fieri di passioni, ardenti d'immaginazione,
ambiziosi di gloria e non ancora ammolliti dal lusso a temere i pericoli, nè
ammaestrati dall'esperienza a godere della realtà e a non andare dietro a
illusioni. Quando Dante scrivea
Così, e quando Dante
cominciò a meditare su l'indole e i caratteri della lingua italiana, e mentre
si accinse a trovarne le teorie più efficaci a stabilirla ne' suoi primordj e
regolarla ne' suoi progressi, egli aveva dinanzi a sè molti saggi sì in poesia
che in prosa, da' quali egli poteva desumere molte osservazioni e ridurle a
principj sicuri. Infatti il suo primo libro su la lingua chiamato Convito,
e nel quale tratta di molte altre questioni d'ogni maniera, cominciò a comporlo
dopo ch'ebbe passato l'anno quarantacinque dell'età sua[30]; e l'altro intitolato
dell'Eloquio Volgare, e nel quale tratta il soggetto di pieno proposito,
lo intraprese poco innanzi di morire. Non ne lasciò scritta che una piccola
parte, ma, per quanto la crescente civiltà dell'età sua l'abilitasse a trovare alcune
delle regole necessarie alla lingua, pur nondimeno i fondamenti inconcussi su'
quali la stabilì non poterono uscire che da una mente straordinaria come la
sua.
Il maggiore e miglior
numero delle osservazioni gli furono senza dubbio somministrate dalla lingua
poetica, e dall'intentissimo studio a comporre il suo grande poema. Tuttavia,
ad eccezione d'Omero, niuno stile poetico, e molto meno l'italiano, e quello
del poema di Dante meno d'ogni altro, può servire di guida ragionata e fedele a
ridurre gl'innumerabili accidenti e bizzarrie di una lingua sotto regole
evidenti, ordinate e perpetue. I Greci, per quanto sappiamo, non ebbero libro
di prosa se non tre secoli e più dopo l'Iliade. I poemi d'Omero furono i
primi, e, per lunghissimo tempo, i soli fonti della lingua letteraria de'
Greci; e da que' due modelli poscia i poeti e gli storici e gli oratori, di
generazione in generazione e di città in città, desumevano ricchezze, dignità
ed eleganza di stile a nobilitare i dialetti diversi della Grecia. Tutti que'
dialetti sono oggi classificati quasi col metodo di Linneo, e distribuiti con
tutti i loro caratteristici da' professori delle Università; ma non li
conoscono che ne' libri, e non gli udirono mai parlare. Or se, invece di
leggerli, gli avessero uditi, non gli avrebbero classificati, nè ammirati, e i
nostri profondi ellenisti si sarebbero accorti che anche i greci erano dialetti
nè più nè meno come tutti gli altri; e che nella bocca del popolo erano rozzi,
incostanti, ritrosi ad ogni guida e ad ogni regola, e alterati sensibilmente e
capricciosamente quasi d'anno in anno, e trasformati di provincia in provincia
dal tempo, e innestati uno nell'altro dalle conquiste, dal commercio e da'
nuovi usi, come gli altri dialetti d'ogni terra ed età. Bensì, per essere
scritti, dovevano conformarsi alla lingua generale e letteraria della nazione;
e benchè serbassero alcune forme provinciali e suoni peculiari alla provincia,
pur nondimeno nel resto erano tutti più o meno somiglianti alla lingua Omerica.
Questa lingua, tuttochè applicata da principio alla poesia dell'Iliade e
dell'Odissea, riesciva in seguito attissima a lasciarsi imitare da tutti
in ogni altro genere di composizione; e quindi a contribuire materiali infiniti
alle osservazioni pratiche, e a' precetti e a' principj perpetui dello stile
de' poeti, degli storici e degli oratori di tutta
La lingua poetica di
Dante, al contrario, è talvolta sublime, talvolta strana, e spesso ineguale; ma
non mai facile ad essere nè imitata dagli scrittori, nè osservata con frutto
da' legislatori di lingua. Quindi non ha potuto, nè potrà mai servire di modello
a composizioni in prosa. Nel tempo stesso fu lingua soggetta anch'essa a leggi
rigorosissime; ma furono inventate da chi la creò, e per non essere applicate
fuorchè da lui solo, e in quel suo genere di poesia. Molte forse delle sue
frasi e modi di dire si potrebbero usare, e si sono usati dagli scrittori; ma
risaltano ad un tratto agli occhi quasi ornamenti tolti ad imprestito, ed
eccezioni felici a liberare d'ora in ora lo stile dalla monotonia
dell'ordinaria andatura grammaticale. I dialoghi nel poema di Dante sono
convenientissimi a ciascuno de' tanti interlocutori d'ogni età, d'ogni costume
e d'ogni carattere. Ad ogni modo parlano tutti con tanta profondità di pensiero,
e forza di concezione e ardore di passione, e soprattutto con tanta brevità, da
costringere la lingua a forme ed espedienti e metafore maravigliose in que'
luoghi, ma incapaci ad accomodarsi al processo più logico della prosa. I
romanzi della Tavola Rotonda raccontano che il re Arturo uccise di un
colpo di lancia il suo figliuolo Mordrec, perchè lo colse in adulterio con la
sua matrigna. Dante o lesse o immaginò che il fatto avvenisse a giorno chiaro,
e in luogo dove splendevano i raggi del sole; e che il colpo di Arturo fece in
un subito una ferita larga e profonda in guisa da dare adito al sole di
trapassare per mezzo della piaga dal petto alle spalle, cosicchè, mentre il
corpo di Mordrec era diviso dal colpo, l'ombra sua sul piano era divisa dal
raggio solare. Certo qualunque altro scrittore antico o moderno, e in qualunque
lingua, esporrebbe lo stesso fatto più o men brevemente per via di narrazione o
di descrizione o d'immagini; ma nessuno, fuorchè Dante, e niuna lingua, fuorchè
la sua, avrebbero ristretto il fatto in quei due soli versi:
E a quello cui fu rotto
il petto e l'ombra
Con esso un colpo per la
man d'Artù.[31]
E questo è detto in un dialogo da uno Spirito
nell'Inferno in via di narrazione. L'energia delle parole, la rapidità
delle espressioni e il suono di que' due versi sono congegnati con tal arte da
far sentire in un subito tutta la ferocia e l'istantaneità dell'azione. Quel
modo idiomatico con esso un colpo invece di con un colpo, e che
in Inglese forse non si potrebbe tradurre che con la parafrasi, at one and
the very same blow, conferisce nell'originale efficacemente all'intenzione
del poeta. L'immagine è nuova insieme e terribile, e posta dinanzi agli occhi;
ma non a tutti gli occhi riescirà di vederla senza attentissimo esame. Noi non
possiamo concepire in un subito come fosse l'ombra unita al petto, nè come
fosse rotta anch'essa ad un tratto da un medesimo colpo, nè come mai l'ombra
potesse dividersi a un colpo di lancia. La riflessione del lettore, o
l'allusione degli antichi romanzieri riescono finalmente a offrire
all'immaginazione una pittura evidente dell'azione rappresentata; e la
meraviglia si riconcilia alla realtà naturale. Se questo modo di descrivere sia
piuttosto bizzarro che originale, è un'altra questione con la quale qui non
abbiamo che fare. Ma questo solo esempio basta a provare l'uso che Dante faceva
della lingua nel suo poema. Ben può supplire abbondantissimo numero
d'osservazioni particolari; ma nella pratica ognuno s'accorgerà che ciascuna
osservazione si rimarrà isolata, e non potranno mai ridursi a metodo
grammaticale, ne a principj applicabili mai dalla generalità degli scrittori.
Ben è vero che la
dizione del poema di Dante trasfuse sempre nelle opere degli uomini di genio un
certo spirito di originalità, d'energia e di calore che può adattarsi ad ogni
specie di composizione. Ma non è che lo stile, o per parlare più esattamente,
non è che l'essenza secreta dello stile di Dante, dalla quale que' pochi che
sanno cercarla e la trovano possono ricavarne gran frutto.
Tuttavia conviene
ch'essi spoglino la lingua di quel poema delle forme inventate da Dante, le
quali non possono essere maneggiate costantemente che da lui solo. Due moderni
scrittori d'ingegno, d'anima e di educazione differentissima, e ciascuno d'essi
meritamente celebre per un modo diverso e proprio a ciascuno di essi, di
scrivere in poesia, indagarono per tutto il corso della loro vita letteraria le
più potenti qualità della lingua italiana, e i secreti dello stile sulla Divina
Commedia. L'uno e l'altro gli hanno trovati, e se ne sono giovati
felicemente; e professano d'essere debitori in gran parte della loro fama alla
loro perseveranza nello studio di Dante. L'uno è l'Alfieri, e l'altro è il
Monti; e nondimeno i loro metodi di scrivere sono, non solo diversi, ma
assolutamente opposti fra loro, sì che pajono poeti distanti più secoli l'uno
dall'altro. E la ragione si è che, indipendentemente dalla tempra diversa delle
loro facoltà intellettuali, l'uno e l'altro non si sono imbevuti che dell'essenza
dello stile dell'antico creatore della poesia italiana. Così l'Alfieri n'animò
i dialoghi delle sue tragedie, e il Monti le terzine delle sue cantiche. Ma
quanto alle forme della lingua, l'Alfieri le pigliò principalmente dalle prose
del Machiavelli, e il Monti dal poema dell'Ariosto.
L'altro genere di poesia
trattato da Dante fu la lirica amorosa, ed era comune a tutti i suoi coetanei;
e dopo mezzo secolo essendo stata ridotta dal Petrarca ad invariabile
perfezione, fu poscia per quattrocento anni stoltamente imitata anche dagli
uomini savi; e analizzata da' critici e dalle accademie: ma niuno s'avvide mai
che sì fatta lingua non si presta a imitazione di poeti, nè ad analisi di
precettori di grammatica. Quanto agli elementi di cui il Petrarca si valse a
comporre quella sua lingua, ne faremo parola osservando l'epoca seguente, alla
quale egli spetta. Ma quanto al genere della sua poesia, ei lo trovò già
introdotto da scrittori anche più antichi di Guido Cavalcanti, di Cino da
Pistoia e di Dante. Questi tre, fra' quali Dante primeggia, superarono i loro
antecessori, e spianarono il sentiero al Petrarca a condurre Laura al terzo
cielo. È poesia lirica platonica, d'amore platonico, in lingua platonica.
Riescono versi mirabili, perchè sembrano concepiti da anime più che umane; ma
parlano raramente alla fantasia nostra per via d'immagini, bensì la rapiscono
in estasi; commovono il cuore a sentimenti indistinti, gratissimi, ma fuggitivi
perchè la passione è rigorosamente disgiunta da' nostri sensi, che sono i
ministri naturali e perpetui d'ogni passione reale; finalmente le idee sono
sottilmente derivate da teorie metafisiche inconcepibili; spesso oscure a'
poeti che si studiano d'illustrarle. Talvolta fin anche nelle poesie del
Petrarca una idea astratta è dedotta dall'altra, concatenata in ragionamenti e
sillogismi e conclusioni, di modo che se fossero esposte senza metro, nè rime,
nè metafore e tradotte in piane parole, ne uscirebbe una tesi sostenuta col
metodo regolarissimo delle scuole. Bensì i versi, le rime e l'armonia delle
parole combinate con arte musicale, le illusioni aeree e meravigliose di quella
specie d'amore che illude per un momento, e le frasi adattate a quel genere di
composizione hanno fatto spesso ammirare quella lirica, specialmente in que'
tempi. Non già che la intendessero meglio di noi; ma perchè era accompagnata da
note di musica e cantata alle feste e a' banchetti; ond'era astrusa come
poesia, ed insieme popolarissima come musica. Così in Londra di mille persone
che concorrono all'opera italiana appena cento ne intendono le parole.
Ma mentre Dante nelle
sue poesie liriche e nella sua Divina Commedia dava esempj che potevano
essere piuttosto ammirati che imitati da presso, e trattava due diversi stili
poetici, indipendenti da' metodi ordinarj e regolari di tutte le lingue, egli
pur nondimeno adempiva a quest'oggetto con le sue opere in prosa.
Abbiamo veduto come i
dialetti innumerabili chiamati romanzi, che si parlavano universalmente
nell'Impero Romano e derivati tutti dal latino, si consolidarono nella lingua
spagnuola, nella francese e nella italiana, le quali appena furono scritte da'
poeti e diventarono letterarie e nazionali, assunsero i nomi, de' quali abbiamo
già dato ragione, di lingua d'oc, lingua di oui, lingua di sì.
La prima pretendeva la preminenza per l'antichità de' suoi poeti; la seconda
per la moltitudine de' suoi traduttori dal latino d'opere in prosa; e la terza,
più tarda delle altre, per la sua prossima affinità con la madre lingua latina,
per la sua migliore regolarità di sintassi, e per la sua maggiore armonia ed
attitudine a scriversi. Della lingua d'oc, benchè siasi trasfusa tutta
nella spagnuola d'oggi, non restano vestigj se non nelle canzoni dei Trovatori,
illustrate non sono molti anni dal Raynouard. Abbiamo inoltre sott'occhi un
volume di poemi ridotti in francese dalla lingua Occitanica, come la
chiama il traduttore; ma il nome è posteriore alla cosa. Certo è che consisteva
or più or meno de' dialetti romanzi provenzali, guasconi e catalani. Nel tempo
stesso, a dir vero, noi non siamo molto disposti a credere all'autenticità di
que' poemi occitanici, e ci sembrano parafrasi moderne di pochi avanzi della
lingua d'oc nominata da Dante, e che oggi sarebbe in tutto perduta senza
lo studio degli antiquarj. Tuttavia i suoi elementi sono evidenti in quel
dialetto spagnuolo ch'è parlato da' Catalani. La lingua francese ebbe sorte
migliore; e poscia il numero e il merito de' suoi scrittori in prosa la fecero correre
a gloria che non le potrà esser rapita, se non dopo che una generale
rivoluzione della terra spegnerà nelle nuove nazioni che l'abiteranno ogni
memoria di quelle da cui saranno state precedute. Pur nondimeno la lingua
letteraria francese non arrivò a tanto splendore, se non per mezzo di
alterazioni progressive che la trasformarono quasi in tutto da quello che era
a' tempi di Dante. Bensì l'italiana nacque, crebbe e si ampliò lingua
letteraria con pochissime alterazioni, fuorchè quelle recatele dal maggiore o
minor genio degli scrittori. Per quante dottrine grammaticali l'abbiano
immiserita, pur nondimeno l'essenza intrinseca e le sue forme esteriori
rimangono sempre le stesse.
Il sommo merito di Dante
consiste nell'avere osservato il processo delle altre lingue derivanti dalla
latina, le loro passate, le loro attuali vicissitudini, e quelle della sua
propria; e quindi d'avere saputo prevedere che la lingua italiana non avrebbe
patito le fluttuazioni e le metamorfosi delle sue rivali. Vide che poteva migliorare
o peggiorare, e che questo dipendeva in parte dagli scrittori, in parte da'
principj su' quali si sarebbe stabilita; ma che, peggiorando o migliorando, pur
nondimeno le sue apparenze si rimarrebbero sempre le stesse. – A questa
conclusione egli giunse e l'adottò per certissima, perchè presentì che la
lingua italiana non sarebbe stata mai parlata, e quindi avrebbe evitato tutti i
mutamenti che accadono in ogni lingua soggetta alle pronunzie popolari, che
insensibilmente vanno d'anno in anno alterando i suoni delle parole, sì che il
dialetto d'un secolo è vario da quello dell'altro nella stessa città. Al
contrario, se la lingua, non essendo parlata mai, continua ad essere scritta,
tutte le sue forme esteriori agli occhi, e quindi alla pronunzia degli
scrittori e de' lettori, si rimangono più costanti ne' segni dell'alfabeto, e
tramandate di generazione in generazione, con pochissime alterazioni
accidentali, alla più tarda posterità.
A queste conclusioni
Dante arrivò or sono cinquecento e più anni; e chi considera che quanto ci
predisse si verificò puntualmente d'allora in qua, potrà facilmente inferirne
che l'anima di quell'individuo, quantunque ardente di passioni fortissime sino
al furore, e agitata da una immaginazione atta ad architettare e popolare tre
mondi ideali, possedeva ad un tempo il potere di lunga e perseverante
meditazione sugli argomenti più astrusi. Però da pochissimi fatti e da
osservazioni che sfuggono l'altrui attenzione seppe dirigere il progresso
futuro ed inevitabile d'una lingua; e prevedere senza ingannarsi, che quella
lingua o doveva perire, o mantenersi secondo le sue predizioni. Infatti che la
lingua italiana non sia parlata neppur oggi apparisce a chiunque abita, e a
chiunque traversa quella Penisola. Le persone educate negli altri paesi
d'Europa si giovano della lingua nazionale, e lasciano i dialetti alla plebe.
Or questo in Italia è privilegio solo di chi, viaggiando nelle provincie
circonvicine, si giova d'un linguaggio comune tal quale tanto da farsi
intendere, e che potrebbe chiamarsi mercantile ed itinerario. Bensì chiunque,
dimorando nella sua propria, si dipartisse appena dal dialetto del municipio,
affronterebbe il doppio rischio e di non lasciarsi intendere per niente dal
popolo, e di farsi deridere nel bel mondo per affettazione di letteratura. I
dialetti italiani d'oggi sono probabilmente mutati di molto da quello che Dante
udiva parlare. Egli ne contò quattordici principali, suddivisi all'infinito,
come notammo, – nè oggi il loro numero è forse minore; – e la loro disparità è
sì prominente, che un Bolognese e un Milanese non si intenderebbero fra di
loro, se non dopo parecchi giorni di mutuo insegnamento. Inoltre, che la lingua
italiana sia stata sempre scritta con le medesime forme apparirà dal solo
confronto con le due lingue più letterarie dell'Europa moderna, le quali per
essere state insieme parlate e scritte, mutarono la loro ortografia in guisa,
che pochi Inglesi, fuochè i dottissimi, possono leggere e intendere le lettere
di Chaucer, e pochi Francesi i libri di Rabelais. I Francesi di Luigi XIV, e
gl'Inglesi, al tempo ancor meno lontano della regina Anna e anche dopo,
esiliarono tanto numero di parole, che oltre ad impoverire i loro idiomi,
lasciarono gli antichi libri in dimenticanza. Trasfigurarono la loro ortografia
in modo che scrivono in un alfabeto e pronunziano in un altro; ma a' Francesi
basta d'abusare de' segni delle vocali e pronunziarli per via di dittonghi:
bensì gli Inglesi abusano di vocali e di consonanti; anzi, a dir giusto, non
hanno alfabeto. Tale è la sorte di tutte le lingue, che essendo insieme scritte
e parlate devono presto o tardi accomodarsi all'impero mutabile sempre della
pronunzia e dell'uso. – Al contrario la lingua italiana, per l'essenza sua di
essere scritta e non parlata, essa e la sua ortografia patirono meno
trasformazioni; ed ogni suo segno alfabetico scritto è pronunziato in un modo.
Pochissime mutazioni qua e là nelle pagine delle prose di Dante basterebbero a
far presumere ch'egli scriveva a' dì nostri. La lingua traversò tanti corsi di
secoli e di vicissitudini morali e politiche della nazione, preservando quasi
tutte le sue parole armoniose, evidenti ed energiche, ed i suoi modi eleganti,
acquistandone sempre de' nuovi, e senza perdere mai gli antichi, e scrivendoli
tutti con la medesima uniformità. Sì fatti vantaggi non potranno essere
controbilanciati che da danni ignoti alla storia delle altre lingue; fra' quali
il peggiore si è: che la lingua rimanendosi esclusivamente letteraria, la
nazione in generale non ne ricavò molto profitto, nè ha mai potuto decidere sul
merito degli scrittori o sulle loro dispute grammaticali. Gli autori sono per
lo più i soli lettori in simili argomenti, e certamente i soli giudici: onde
non è meraviglia se le dispute stesse non cessarono mai, e se tutti scrivendo
del come si dovrebbe scrivere, pochissimi scrivono di ciò che pur si dovrebbe.
Su ciò che Dante previde
con occhio sicuro egli fondava pochi principj generali intorno alla
legislazione grammaticale. Erano inerenti alla condizione e alla natura della
lingua, onde operarono sempre e quando vennero applicati da parecchi scrittori,
e quando vennero trascurati da altri, o negati ostinatamente da molti; ed
operarono fin anche negli scritti di chi li negava. Bensì ogni altro de'
sistemi posteriori apparve tanto più assurdo, quanto più si allontanava dal
suo; e tutti insieme non solo impedirono, ma fecero retrocedere la lingua ne'
suoi progressi. Non però le hanno potuto far mai rimutare indole nè apparenze;
ed oggimai l'esperienza ha convinto la più gran parte degl'Italiani, che la
loro lingua letteraria non può prosperare senza l'applicazione dei principj di
Dante. – E sono: – Che l'uso, il quale è l'arbitrio d'ogni lingua, deve
applicarsi anche alla lingua letteraria; ma che non essendo parlata, l'uso non
può risiedere negli abitatori d'alcuna città nè provincia d'Italia, bensì nel
popolo degli scrittori di tutta l'Italia: – Che i miglioramenti e i
deterioramenti della lingua dipenderanno sempre dal più o meno d'ingegno o di
studio, e soprattutto di liberale e nobile educazione di ciascuno scrittore: –
Che nelle università e nelle corti de' principi, dove la dottrina de' libri, la
generosità della vita e l'eleganza de' costumi e quindi delle idee prevalgono,
la lingua si arricchisce, si nobilita, e si raffina. Perciocchè molti nuovi
idiotismi de' varj dialetti portati nelle università e nelle corti dal concorso
d'uomini ben nati d'ogni provincia si vanno immedesimando in una sola lingua
chiamata da Dante nobile, o cortigiana: – Che questa lingua
essendo così composta del fiore di tutti i dialetti, e intelligibile a quanti
sono educati a formarla e scriverla, non può possibilmente parlarsi da tutta
una nazione divisa e suddivisa in popoli e municipi con dialetti diversi; bensì
può essere scritta ed intesa da tutti: – Che la tempra diversa delle facoltà
intellettuali degli uomini d'ingegno avrebbe naturalmente innestato nella
lingua nuovi modi, nuove frasi, nuovi spiriti, e sempre con arte diversa; e
quindi ne sarebbero risultati diversi stili tutti formati dalla materia
dipendente dalle medesime leggi: – Che la fama e l'esempio de' pochi grandi
scrittori, i quali avrebbero necessariamente predominato nel loro secolo,
avrebbero fatto come da moderatori a' capricci e alla licenza e agli usi
introdotti dal popolo degli autori. – Finalmente dichiara come regola generale,
che ogni dialetto d'ogni città d'Italia, fuori della Toscana, e nemmeno quello
di Firenze, quantunque paragonandoli fra di loro l'uno sembri men cattivo
dell'altro, sono tutti ad un modo assolutamente incapaci a lasciarsi mai
ridurre a lingua scritta, in guisa che possa divenire universale alla nazione;
ma che gli scrittori dovevano scegliere continuamente da' varj dialetti ciò che
poteva adattarsi alla lingua letteraria, e far sì che, essendo formata di
tutti, non mostrasse alcun indizio d'appartenere particolarmente a veruno.
Questi principj
metafisici per sè stessi furono annunziati in tempi ne' quali la filosofia,
l'arte dialettica, e la teologia erano tutt'uno, e, credendo d'aiutarsi,
s'intricavano fra di loro. Quindi il metodo adottato da Dante induce alle volte
a credere che le sue idee fossero oscure anche alla sua mente. Locke che
facilitò lo studio dell'analisi delle idee, e quindi della natura delle lingue,
e Condillac che illustrò questa difficilissima parte della metafisica,
scrissero quattro secoli dopo. Dante asseriva il suo sistema com'uomo che ne
vedeva la verità, e n'era convinto; ma non lo esponeva in guisa da convincere
gli altri. Il nome e la definizione di lingua cortigiana sono idee
vaghissime per sè. Inoltre senza lunghissima serie di fatti, d'argomenti e di
dimostrazioni è cosa difficile a persuadere gli uomini di qualunque tempo, che
una lingua vivente possa esistere senz'essere mai parlata. Finalmente si è già
veduto ch'ei morì quasi mentre aveva finito appena una parte del suo trattato.
L'applicazione
universale, severissima e più che giusta delle sue dottrine contro a tutti i
dialetti inimicò al poeta anche la tarda posterità di que' Fiorentini che
l'avevano esiliato. Ben è vero che niun dialetto può mai convertirsi in lingua
scritta e permanente, se non perde tutte le sue qualità popolari, per
accoglierne moltissime letterarie, in guisa che, serbando la sostanza della sua
materia, trasformi a ogni modo tutte le sue sembianze. Ma è vero altresì che la
materia della lingua nazionale si trova più nel dialetto fiorentino che in
qualunque altro d'Italia, e che, quantunque tutti gli scrittori fiorentini, e
Dante più ch'altri, abbiano più o meno alterato il loro idioma materno ne'
libri, pur nondimeno la maggior quantità delle parole anche in Dante sono pur
fiorentine. Certamente non possiamo indovinare come si parlasse in Firenze e in
Bologna a que' tempi; solo vediamo che Dante giudicava il dialetto de' Bolognesi
più atto a giovare alla lingua letteraria che non era il fiorentino; e questa
sua decisione è inesplicabile, e nocque a' suoi principj appunto perchè parve
ad ogni uomo esagerata ed assurda. Taluni l'attribuirono all'ira ch'ei sentiva
contro a' suoi concittadini. Altri compose ultimamente un libro non solo a
difenderlo da questa taccia, ma a provare che i Fiorentini e gli altri Italiani
scrivevano a que' tempi una lingua al tutto letteraria, il che a noi non pare
bastantemente provato. Se l'ira contro Firenze ebbe qualche parte a fare
anteporre a Dante il dialetto bolognese, egli ad ogni modo non lo avrebbe
asserito con tanta certezza. Però crediamo che egli attendesse non tanto al
dialetto municipale, quanto a quello che allora s'era creato per l'immenso e
continuato concorso di uomini d'ingegno; professori e scolari d'ogni età,
d'ogni sapere e d'ogni città d'Italia e d'Europa, i quali necessariamente
usavano nell'università di Bologna d'una lingua prossima alla popolare, ma
alterata alla guisa di quella che per le stesse ragioni si parla, e s'è sempre
parlata nella corte de' papi in Roma. E questa appunto era la cortigiana
di Dante. Comunque si fosse, se noi dobbiamo giudicare dagli scritti de' suoi
contemporanei, que' de' Bolognesi sono pochi, e que' pochi sono infinitamente
inferiori nella lingua a' moltissimi fiorentini. Inoltre d'allora in qua il
fiorentino fu sempre il dialetto che s'approssimò più da vicino alla lingua
scritta dagli autori italiani.
Forse fra que' cent'anni
o pochi più da che Dante nacque, e il Petrarca e il Boccaccio morirono, gli
altri scrittori fiorentini si giovavano con pochissime alterazioni del dialetto
parlato dal popolo. Tuttavia la diversità nella giuntura delle parole in
ciascheduno di quegli scrittori fa manifesto, che alcuni d'essi nobilitavano,
altri l'ingentilivano, e tutti vi poneano più o meno studio; ed è studio
inculcato dalla natura a chiunque pur sa di dover soggiacere al giudizio del
mondo. E se questo non fosse, com'è che Giovanni Villani, tuttochè alla prima
ci si mostri scrittore semplicissimo, ridonda a chi attentamente lo legge di
parole ed eleganze e giunture di frasi tutte sue ed invisibili nelle altre
scritture di quell'età? Or quando è pure evidente che tutti scrivevano in modo
diverso dal suo, chi affermerà ch'ei scrivesse per l'appunto come parlava, e che
la lingua scritta da lui fosse il dialetto del popolo fiorentino, nè più nè
meno? Non che tutti i dialetti, e que' delle città di Toscana più ch'altri, non
porgano infiniti modi di dire attissimi a scriversi; ma perchè giornalmente
sono applicati a fatti e pensieri alieni spesso da quelli che sogliono
scriversi, sanno di plateale e di comico, e guastano lo stile desiderato da
materie più alte; onde chiunque gli adopera è costretto a nobilitarli. Poichè
dunque il Villani è dotato di eleganza e ricchezza di lingua ignote allo stile
de' suoi coetanei, è da dire ch'egli sapeva come ingentilire gl'idiotismi, e
discernere quali comportassero di scriversi e quali no; e, bench'ei più d'ogni
altro egregio scrittore di quella città siasi giovato del dialetto popolare,
ebbe l'ingegno di raffinarlo, e lasciò i primi esempj di lingua letteraria in
Italia.
Però il fiorentino
quanto più diveniva lingua italiana, tanto era più scritto e meno parlato;
tanto più era spogliato d'ogni sembianza popolare e municipale; e tanto più il
concorso degli scrittori lo arricchì variamente di forme o create di pianta, o
trovate per mezzo d'antiche e nuove frasi e parole ringiovenite, combinate con
arte. Intendi sanamente, non l'arte vanissima de' retori e de' grammatici; ma
sì quel tanto d'arte suggerita ad ogni uomo dall'ingegno suo proprio, e che,
per essere dono di natura spontaneo, ciascheduno l'usa com'ei lo possiede; e
chi più n'ha, più l'esercita, e trova, quasi per ispirazione, assai modi a
diffondere sembianze nuovissime e geniali pur sempre alla lingua. Pur altri
mille ornamenti sono meretricj, e mille altri sembrano barbari. Alcuni
scrittori per vanità di stile purissimo, non avendo calore da ravvivare le
grazie che disotterrano da vecchi libri, le lasciano cadaveriche, e pur se ne
giovano; altri, per necessità d'idee ignote agli antichi, si accattano parole e
frasi da' forestieri, e non le adoprano in guisa che si confacciano spontaneamente
alla lingua. Ma nè i puristi sarebbero accusati di pedanteria, nè gli
innovatori di barbarismo, se chiunque scrive potesse insignorirsi dell'arte
d'introdurre nel suo stile alcuni vocaboli e modi di dire antichissimi e
forestieri sì facilmente, che pajano piuttosto invitati che intrusi.
DISCORSO QUARTO
EPOCA QUARTA
DALL'ANNO 1350 AL 1400
Siamo oggimai all'epoca
del Boccaccio, o a dir più giusto, del Decamerone, sul quale per più
secoli i principj, gli esempi di tutte le regole, e le grammatiche, e il Grande
Dizionario della lingua Italiana si sono fondati. Anzi le Novelle del Boccaccio
furono considerate per quattrocento anni il deposito di ogni umana eloquenza; e
le lodi sono ripetute da un illustre critico Francese, al quale non si possono
apporre pregiudizj nazionali, nè superstizioni di accademie e di scuole. – Or
da che noi non siamo in tutto della stessa opinione, stimiamo prezzo dell'opera
e obbligo nostro di attendere con maggior cura all'esame di quest'opera, e del libro
che la rende sì illustre.
Era Giovanni Boccaccio
dotato dalla natura di facondia a descrivere minutamente e con maravigliosa
proprietà ed esattezza ogni cosa. Mancava al tutto di quella fantasia pittrice,
la quale condensando pensieri, affetti ed immagini li fa scoppiare
impetuosamente con modi di dire sdegnosi d'ogni ragione rettorica. Però in
tanti suoi libri di versi e rime pare spesso poeta nell'invenzione, e non mai
nello stile; di che i fondatori dell'Accademia della Crusca atterriti, come di
cosa fuor di natura, esclamavano che il Boccaccio, che sorpassò tutti gli
scrittori nelle sue Novelle, non ha mai potuto comporre una stanza in rime
degna del nome di poesia[32]. Del resto, quella sua
prodigalità di parole sceltissime, e i sinonimi accumulati, e i significati
purissimi, schietti per lo più di metafore, e vaghi di vezzi nella giuntura
delle frasi giovano a lasciar osservare tutti gli elementi della sua prosa, e
scemasi alquanto la somma difficoltà di scevrare le leggi certe grammaticali
dalle arbitrarie de' retori; e la materia perpetua della lingua dalle forme
mutabili dello stile. Fra quante opere abbiamo del Boccaccio, la più luminosa
di stile e di pensieri a noi pare
A critici suoi devoti
pur nondimeno pare che il Boccaccio sia narratore più nobile di qualunque degli
scrittori antichi; e più potente di Cicerone e di Demostene nelle dicerie de'
suoi personaggi; e più tragico d'Eschilo e d'ogni tragico nella
rappresentazione di forti anime lottanti contro a passioni e sciagure; e più
arguto di Luciano a deridere. – Ma lodi siffatte sentono di fanatismo. Il
Boccaccio, senza essere sommo in alcuna di tante guise di stile, seppe
trattarle felicemente pur tutte; il che non incontrò a verun altro, o a
rarissimi.
Nondimeno M. Ginguené,
uno de' critici più eleganti e più celebri dell'età nostra, giudica che il
Boccaccio, avendo avuto sotto gli occhi la storia di Tucidide e il poema di
Lucrezio, abbia emulato le loro doti diverse in guisa, che gli venne fatto di
superarli, e descrisse la peste da storico, da filosofo e da poeta[34]. Se il Boccaccio vedesse
l'uno e l'altro di quelli scrittori non sappiam dirlo; ad ogni modo bastava il
latino, il quale segue di passo in passo Tucidide. Molta parte dell'italiano
sembra parafrasi, non pure di avvenimenti originati per avventura e in Atene e
in Firenze dalla medesima epidemia, ma ben anche di riflessioni e minute
particolarità, nelle quali è improbabile che gli scrittori concorressero a
caso. Il merito della descrizione della pestilenza nel Decamerone non
risulta così dallo stile – che raffrontato a quello di Tucidide e di Lucrezio è
freddissimo, – come dal contrasto degli infermi e de' funerali e della
desolazione nella città, con la gioia tranquilla e le danze e le cene e le
canzonette e il novellar della villa. In questo il Boccaccio, quand'anche
avesse imitata la narrazione, l'adoperò da inventore. Bensì, guardando ciascuna
descrizione da sè, la pietà ed il terrore prorompono insistenti dalle parole
del Greco; e s'affollano, ma senza confondersi, da che ei procede con l'ordine
che la natura diede al principio, al progresso e agli effetti di tanta
calamità. Radunando circostanze due volte tante più che il Boccaccio, le
dipinge energicamente in pochissimi tratti, sì che tutte cospirino
simultaneamente a occupare tutte le facoltà dell'anima nostra. Il Boccaccio si
sofferma a bell'agio di cosa in cosa pur a sfoggiarle con quel suo
pennelleggiare che da' pittori si chiamerebbe piazzoso; e le amplifica in guisa
da far sospettare ch'egli esageri. – «Maravigliosa cosa è ad udire quello che
io debbo dire; il che, se dagli occhi di molti e da' miei non fosse stato
veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quantunque da
fede degno udito l'avessi». E non gli basta. – Di che gli occhi miei
(siccome poco davanti è detto) presero, tra l'altre volte, un dì così fatta
esperienza... nella via pubblica.[35] Vero è che Tucidide narra
con maggior efficacia, perchè n'ebbe esperienza più certa – «Ho patito di quel
morbo anch'io, e l'ho veduto patire dagli altri[36]»; – ma s'astiene da ogni
esclamazione rettorica, e da professioni di verità. La tempra diversa de' loro
ingegni e la diversità de' loro studj gli ammaestrava a disegnare e colorire i
medesimi fatti in due maniere affatto diverse. Le arti meretricie
dell'orazione, che il Boccaccio derivò con ammirazione dai retori romani, non
erano ancora fatturate da Isocrate e da que' parolai, nè celebrate in Atene
all'età di Tucidide; ond'è il men attico fra gli Ateniesi, perchè modellava il
suo dialetto materno sovra la lingua universale e schiettissima discesa da
Omero, la quale non fu congegnata a mosaico di dialetti diversi, com'è generale
opinione, ma fu studiata da poeti e da storici a infondere qualità letteraria a'
dialetti delle loro città, sì che scrivendoli riescissero più agevoli a tutta
Ma di ciò avremo da dire
allorchè osserveremo il secolo decimosesto, che fu la vera epoca grammaticale
in Italia. L'esame riescirà tanto più nuovo, in quanto che la grammatica era
intimamente connessa alle vicende politiche che sotto Carlo V trasformavano in
tutto l'Italia, e alle riforme di religione che tolsero alla Chiesa di Roma una
gran parte del popolo Cristiano. Allora dal concorso e dal concatenamento de'
fatti apparirà sempre più, che i falsi sistemi de' critici, de' grammatici e
delle scuole sarebbero stati evitati, e l'Italia non avrebbe ne' suoi scrittori
di prosa altrettanti parolaj pedanteschi e gelati (come pur sono, da pochissimi
in fuori), se il genio non fosse stato inceppato da troppe regole
inesorabilmente imposte, patrocinate dalle accademie e tutte impossibili ad
eseguirsi. Tanta miseria all'italiana Letteratura derivò dal non potere o non
volere conoscere mai: – Che l'italiana è lingua letteraria; fu scritta sempre,
non mai parlata. Ripetiamolo; perchè a questo centro concorrono tutti i fatti e
le osservazioni; e il principio è innegabile insieme e negato, solo perchè non
fu dimostrato mai. Quindi originarono, e infellonirono le questioni, e non
cessano. Tutte le regole e le grammatiche e i dizionari e i giudizj de' critici
hanno adottato per unica base l'ipotesi che il Decamerone fosse scritto
come si parlava a que' tempi; – e che però si dovesse scrivere sempre
indovinando finanche la pronunzia di quell'età, – e non si potesse usare senza
precauzioni infinite nissuna frase o parola che non fosse o nel Decamerone,
o ne' migliori scrittori contemporanei al Boccaccio. Or chi crederà che nel
tempo stesso e negli stessi libri dicevano, che il Boccaccio in tutte le altre
opere in prosa non solo non è scrittore perfetto, ma che anzi è così dissimile
da sè stesso in guisa, che pare un altro scrittore, e talvolta peggiore de'
suoi contemporanei? Così cadevano senza accorgersi nell'assurdità di asserire,
che la lingua non fu parlata bene se non in que' tre o quattro anni impiegati
dal Boccaccio a comporre le sue Novelle. Il fatto sta che l'unico scrittore il
quale scrivesse come si parlava fu Franco Sacchetti, autore di alcune poesie, e
di trecento novellette, le quali è quasi impossibile di credere che noi le
leggiamo, e pare d'udirle narrare buonamente. Franco pare sempre che discorra
per ozio, senz'altra cura che di far ridere. Ma gli accademici della Crusca lo
chiamano barbaro[38]:
e nondimeno era concittadino e contemporaneo del Boccaccio, ed uomo di molta
letteratura e di elegantissimo ingegno. Il fatto sta che Franco Sacchetti usava
l'idioma popolare, e a' critici parve barbaro; e il Boccaccio formava una
lingua letteraria, e nella quale alle volte si sente più l'arte che la natura,
ed a' critici parve assai più che umana; e riducesi nè più nè meno ad essere
lavoro raffinatissimo d'arte.
Il sommo, vero merito
del Boccaccio sta nell'aver fatto uso del dialetto fiorentino meglio di
qualunque altro scrittore, in guisa da convertirlo in lingua letteraria; e
diede agli scrittori in prosa un grande esempio che non seguitarono, ed è: –
Che tutte le lingue, e l'italiana più ch'altre, s'arrendono ad ogni
trasformazione a chiunque può e sa far obbedire la lingua al genio. Ma ogni
uomo ha genio diverso; e chiunque s'è fatto schiavo all'altrui, come molti a
quel del Boccaccio, ha rinunziato alle forze sue proprie, e non può far molto
uso delle accattate. Che se il Boccaccio avesse fatto prova men ambiziosa
d'ingegno, i retori non avrebbero poscia usurpato il suo libro a mortificare
alla lingua una facoltà nata seco, e di cui trecent'anni di inerzia, d'usi
forestieri e di servitù l'avrebbero al tutto spogliata, se non fosse facoltà
ingenita; ed è una ardente, diritta, evidente velocità, – vivissima nelle
novelle composte forse un secolo innanzi al Decamerone. Il modo di
scriverle fu agevolato dal mestiere di raccontarle, e dal costume d'udirle
nelle corti de' signori d'Italia; e ne trascriveremo una brevissima:
«
Scarno com'è questo
stile di narrazione, è pur vivo; qui la sintassi governasi da quella sola
grammatica, ed è la vera e perpetua, la quale in ogni lingua vien suggerita dalla
natura a tutti gli uomini, sì che s'intendano facilmente fra loro. Pochissime
delle parole sono antiquate, e l'evidenza di tutte le altre si serbò sino a'
giorni nostri. Scorre per entro il racconto una certa grazia d'ironia così che,
se la data non fosse avverata, darebbe da credere che lo scrittore mirasse con
la sua breve e non mai terminata novella a deridere i novellatori del Decamerone,
che non rifiniscono mai di prosare e ascoltarsi da sè. Alle volte anche quegli
antichissimi s'industriavano di aiutarsi di molte parole, e ingrandire le
descrizioni, e accrescere il calore degli affetti; ma o che la povertà de'
vocaboli della lingua ne gl'impedisse, o che non avessero ancora imparato come
intrecciarle, incominciavano alle volte con un po' di rettorica, e si tornavano
sempre alla lor semplice brevità. Infatti l'autore della novelletta par che si
fermi a mezzo per indigenza di locuzioni, e s'affretta a finire il racconto suo
come può.
Se fosse piaciuto al
Boccaccio di abbellire e allungare per via di molta varietà di circostanze, di
passioni e caratteri, e di ricchezze di stile questo racconto, com'ei pur fe'
di que' molti ch'ei derivò da' romanzi, ei di certo si sarebbe giovato
mirabilmente del nuovo modo di morire adottato dalla giovinetta, e le avrebbe
disposte e colorite in maniera da conferire più verosimiglianza alla bizzarra
invenzione. Se non che forse, volendo troppo descrivere la fanciulla morta
vestita a nozze, e il cadavere ramingo nel mare senza certezza di sepoltura, e
far parlare la giovinetta morente confortandosi della speranza di manifestare
al mondo che il cavaliere non riamandola la lasciava perire, la rettorica
avrebbe raffreddata la fantasia del lettore, e sparpagliate tutte quelle
immagini e affetti ch'escono a un tratto spontanei dalla schietta ripetizione
delle parole senz'arte. –
Quanto più le scritture
vengono verso l'età del Boccaccio, tanto più abbondano di vocaboli, e di
membretti annodati da particelle, e disposti a periodi men rotti e più
numerosi. Gli artifizj della sintassi si moltiplicavano per via di traduzioni e
imitazioni libere dal latino; e moltissime ne giacciono inedite. La quantità di
quelli scrittori, se si trovassero tutti, sarebbe innumerabile; e quasi tutti,
se se ne tolgano gl'idiotismi volgari e l'incostanza dell'ortografia,
possedevano quella proprietà di parole, e quella facile eleganza di metterle
insieme che non fu mai più ottenuta, se non per mezzo di studio. Ciò che
abbiamo affermato sulla fine del primo di questi Discorsi, «Che la lingua fu
rinvigorita quasi ad un tratto dalla costituzione democratica di Firenze», è
illustrato specialmente da moltissimi documenti dell'età del Boccaccio. Poi
quanta miseria la servitù politica portasse fin anche nell'eleganza della
lingua, le seguenti epoche ne daranno tristissime prove. I Fiorentini s'arricchirono
per le manifatture; passavano la lor gioventù in paesi forestieri per affari di
traffichi, e ripatriavano importando nuovi usi, nuove idee, e quindi nuove
parole, che in governo tutto popolare non potevano che divenir popolari in un
subito. Erano repubblicani divisi in parti, che talvolta s'azzuffavano armate,
e più spesso a parole nelle assemblee; e pochi vi avevano, fin anche fra gli
artigiani, che non credessero le loro famiglie meritevoli della memoria de'
posteri. Scrivevano cronichette della loro repubblica, innestandovi le loro
faccende domestiche, e ricordi de' loro maggiori. Un d'essi registra: Il mio
nonno faceva il badajuolo per campare[39]. – Un altro. Io ebbi un
avolo, e fu maliscalco, e fu tenuto il sommo della città sua: ebbe tre figliuoli;
Cristofano, appresso il padre, tenne il pregio della Mascalcìa, e avanzollo; mio
padre avanzò Cristofano dell'arte in sua vita; onde, volendo il padre che
appresso sè uno de' figliuoli rimanesse all'arte, convenne a me lasciare lo
studio della grammatica, come piacque a lui, e venir all'arte. Onde dinanzi a
me furono di mia gente l'un presso all'altro, ciascuno maliscalco, sei; ed io
fui il settimo.[40]
– Bensì la ortografia di questo e d'ogni altro documento di quell'età, se non è
ridotta all'uso moderno, palesa che il dialetto de' Fiorentini, benchè evidente
nella sintassi e nella proprietà de' significati, era perplesso ne' suoni, e
mutabile ne' segni delle idee consegnate alla scrittura. Scrivevano casa,
chasa, ricordo, richordo, figliuolo, fighiuolo,
figiolo, maniscalco, manescalco. La grammatica dalla quale
il buon maliscalco fu disviato era la latina; e gli atti pubblici continuarono
ad essere tutti scritti in quel gergo barbaro per due secoli e più.[41]
Il secreto del Boccaccio
fu d'immedesimare lo spirito e la materia del dialetto volgare con tanta
felicità da farne uscire una terza lingua. Il suo stile sarebbe stato
schiettissimo d'affettazione, se, per procacciargli più dignità, non avesse
usato un po' troppo della trasposizione ciceroniana, e se fosse stato più parco
di parole, le quali non servono che alla rotondità di periodi sonanti. Parecchi
versi tolti dal poema di Dante e innestati nel Decamerone furono
osservati da molti; ma chi guardasse più addentro s'avvedrebbe che il Boccaccio
armonizzava la sua prosa, ajutandosi della prosodia de' poeti latini. Li
traduceva talora letteralmente e, mentre la loro misura suonavagli tuttavia
intorno all'orecchio, inserivali nel suo libro. Di che giovi indicare uno
squarcio bastantemente lungo nel Proemio, e sarà guida a' dilettanti di sì
fatte scoperte a trovarne molte altre da sè. «Le donne sono molto men forti che
gli uomini, a sostenere. Il che degli innamorati uomini non avviene, sì come
noi possiamo apertamente vedere. Essi, se alcuna malinconia o gravezza di
pensieri gli affligge, hanno molti modi da alleggiare o da passar quella;
perciocchè a loro, volendo essi, non manca l'andare attorno, udire e vedere
molte cose, uccellare, cacciare, pescare, cavalcare, giucare o mercatare. De'
quali modi ciascuno ha forza di trarre o in tutto o in parte l'animo a sè, e
dal nojoso pensiero rimuoverlo, almeno per alcuno spazio di tempo; appresso il
quale, con un modo o con altro, o consolazion sopravviene, o diventa la noia
minore.»
Ut corpus, teneris ita
mens infirma puellis:
Fortius ingenium suspicor esse viris.
Vos, modo venando, modo
rus geniale colendo,
Ponitis in varia tempora longa mora.
Aut fora vos retinent, aut unctae dona palestrae:
Flectitis aut froeno colla sequacis equi.
Nunc volucrem laqueo,
nunc piscem ducitis hamo:
Diluitur posito serior hora mero.
His, mihi submotae, vel
si minus acriter urar,
Quod faciam, superest, praeter amare nihil.[42]
Del Petrarca, grande
contemporaneo ed amico del Boccaccio, che divise con lui fino a quasi tutto il
secolo decimottavo la gloria di predominare assolutamente su la lingua
italiana, non possiamo scriver nulla che non sia già noto, e pochissimo che
serva al proposito nostro. Abbiamo già veduto nel Discorso precedente che la
poesia italiana è poco atta a contribuire all'analisi e alla storia della
lingua: inoltre molti ne trattarono e ne trattano giornalmente; mentre la
critica degli scrittori in prosa rimane campo tuttavia poco esplorato.
Eccettuati i versi amorosi e poche altre composizioni in rima, il Petrarca
scrisse sempre in latino, fin anche le lettere a' suoi intimi amici. I soli
saggi della sua prosa italiana che forse esistono al mondo sono due lettere; e
il fac simile degli autografi è stato da poco in qua pubblicato in un
volumetto di saggi sul Petrarca. L'essersi poi smarriti que' manoscritti per
accidente fece dubitare se sì fatta preziosa curiosità di prosa italiana
scritta dal Petrarca fosse stata invenzione, che somiglierebbe ne più nè meno a
impostura. Fortunatamente le lettere originali furono ritrovate, e tornarono ad
ornare la libreria di Hollandhouse, alla quale appartengono. Sembra che il Petrarca
le scrivesse in fretta, e più intento a ciò ch'ei voleva significare a' suoi
corrispondenti, che al modo migliore d'esprimersi. Pur sono bastantemente
lunghe da lasciar conoscere ch'ei non pose mai studio veruno a ripulire il
dialetto in guisa da potersene giovare con facilità e correzione. A dir vero,
la dicitura di quelle lettere appena serba ombra di dialetto fiorentino, o di
veruno altro particolare ad una città qualunque d'Italia; ed è appunto quella
lingua itineraria di cui abbiamo fatto menzione nell'epoca precedente; e che
prevale tuttavia in Italia con le mutazioni portate dagli anni; ed è lingua che
tutti intendono a un modo, ogni uomo la parla diversamente, e niuno può
scriverla mai nè bene nè male.
Infatti il Petrarca non
udì mai parlare nè il dialetto fiorentino, nè alcun altro della Toscana. Ben ei
l'imparò da bambino da' suoi parenti ch'erano di Firenze. Ma egli nacque in
esilio. E mentre cominciava a pronunziar le parole, andò pellegrinando co' suoi
parenti che si domiciliarono in Francia; e però egli udiva e imparava tanti
altri dialetti sino da quell'età, in cui l'orecchio e gli organi della
pronunzia e la memoria raccolgono per forza di natura tutti i suoni e
significati e inflessioni di voce; e non li perdono più. Nè poi da fanciullo
fece suo studio che del latino; si rimase orfano giovinetto, e non udì più
idioma di padre o di madre; e per grandissimo spazio della lunga sua vita
dimorava or in città e in corte di papi francesi, or nella campagna d'Avignone
fra contadini, or in casa de' Colonnesi, i quali, se parlavano alcun dialetto
italiano, dovea essere il romanesco. Viaggiò stando a lunga dimora in più
luoghi, fuorchè in Firenze. Ne fra' suoi famigliari, amanuensi ed amici
domestici fu mai, che io sappia, un unico fiorentino; e co' letterati di
Firenze carteggiò sempre in lingua latina. Come egli dalle reminiscenze del
dialetto materno e da quanti n'udì, e da rimatori provenzali, siciliani e
italiani stillasse, per così dire, una quintessenza di lingua poetica, è uno di
que' misteri che si sogliono attribuire al genio, o in parole più chiare,
all'organica costituzione de' poteri intellettuali dell'individuo. Così Mozart
fu grande nella musica dalla sua fanciullezza, e così Pascal fu matematico
prima dell'adolescenza e senza maestro veruno. Al genio del Petrarca al
contrario bisognava lunghissimo tempo, cure infinite, pazienza incredibile a
perfezionare la lingua delle sue poesie amorose. Le date, accennate chiaramente
ne' suoi versi e registrate di sua mano ne' suoi autografi, palesano che la
raccolta di que' versi fu scritta nel corso di trent'anni. Ogni stanza, ogni
verso ed ogni parola furono ricorretti più volte, e riveduti in diversi intervalli
di tempo. Da prima il Petrarca voleva bruciare tutti que' versi; poi si
riconsigliò, e attese a perfezionargli. Ma la loro lingua è più dell'Autore che
della nazione, e si potrebbe propriamente chiamare col nome di petrarchesca.
Infiniti uomini di studio indefesso e d'ingegno si applicarono ad imitarla, e
tutti senz'eccezione riescirono o mediocri verseggiatori, o scrittori ridicoli:
e questa è la prova più convincente che la lingua di quelle poesie non può dare
esempj, nè regole, perchè è fuor d'ogni esempio, d'ogni sistema e teoria di
grammatiche. Non ebbero fortuna migliore gl'imitatori del Boccaccio, perchè,
quantunque scrivessero in un genere di composizione più soggetta a metodo
logico d'esprimere i pensieri, e più regolare a secondare le norme
grammaticali, e soprattutto più accomodata alla intelligenza di tutti i
lettori, pur nondimeno è lingua nella quale la materia assume forme tutte
proprie dell'arte e del genio dello scrittore. La fortuna del Decamerone
animò la gara di que' tanti novellatori a giornate, venuti a noia sin da' loro
tempi; e poscia, per la rarità delle edizioni, apprezzati dagli intendenti di
libri. Enrico Roscoe, figliuolo dello storico illustre, raccolse per serie
d'anni alcune di quelle novelle; e traducendole con eleganza di stile
schiettissimo, palesò che la ripuganza di leggerle in originale derivava per lo
più dall'affettazione comune a molti di andar prosando come il Boccaccio.
Certo, se il Petrarca
avesse dovuto spendere a scrivere in prosa italiana la decima parte delle
fatiche ch'ei diede a' suoi versi, egli non avrebbe potuto scrivere tanto.
Questa ragione contribuì, fra le molte altre, ad indurlo a comporre ogni sua
cosa in latino; ma l'allettamento principale era la gloria allora ottenuta da'
poeti latini, e appena conceduta dagl'italiani, nelle università e nelle corti
de' principi. E nondimeno tutti sapevano poco o nulla intorno all'essenza e
alla qualità della lingua latina. Coluccio Salutati era dottissimo, e in gran
fama fra' letterati di quell'età; e pronunziò che il Boccaccio nelle sue poesie
pastorali scritte in latino non era inferiore che al solo Petrarca, ma che il
Petrarca era superiore – chi il crederebbe? – a Virgilio[43]. Erasmo per altro,
critico d'altri tempi e d'altra mente, osservando la letteratura del secolo
decimoquarto, scema alquanto le lodi date al Petrarca, e ne aggiunge al
Boccaccio giudicandolo scrittore di latinità meno barbara.[44]
Il danno che il
Petrarca, per la troppa ambizione di scrivere in latino, recò alla sua lingua
materna fu compensato da lui con l'infaticabile e generosa perseveranza a
ridonare all'Europa gli avanzi più nobili dell'ingegno umano. Nè i monumenti
dell'antichità, nè le serie delle medaglie, nè alcun manoscritto di romana
letteratura fu trascurato da lui, ogni qual volta ei potè sperare di toglierlo
alla dimenticanza e farlo trascrivere a moltiplicarne le copie. S'acquistò la
gratitudine di tutta l'Europa, ed è tuttavia meritamente chiamato primo
ristoratore della classica letteratura. Pur nondimeno al Boccaccio spetta non
solo una porzione, ma la metà, a dir poco, di questa lode. Non ignoriamo che la
nostra opinione sarà al primo tratto creduta paradosso avanzato per ambizione
di novità; ma le prove, che anche brevissimamente possiamo darne, faranno
invece meravigliare i nostri lettori della scarsa retribuzione che il Boccaccio
ottenne fino ad oggi, malgrado i suoi giganteschi e felici tentativi a
disperdere l'ignoranza del medio evo.
La mitologia allegorica,
e quindi la teologia e la filosofia metafisica degli antichi, – gli aneddoti
della storia di secoli più recenti, – e fino anche la geografia furono illustrate
dal Boccaccio ne' suoi voluminosi trattati in latino; oggi poco letti, ma
allora studiati da tutti come le prime e le migliori opere di solida
erudizione. Il Petrarca non sapeva di greco; e quanto in quel secolo
Tali erano gli ostacoli
che quest'uomo benemerito ha dovuto superare a promovere col Petrarca la
civilizzazione del suo secolo; ed era debito di tarda, ma religiosa giustizia
il manifestare, che in questa parte la porzione di ricordanza riconoscente ch'ei
s'aspettava da' posteri fu assegnata quasi tutta al suo più fortunato contemporaneo.
Non concluderemo la nostra osservazione senza pagare un altro debito alla
memoria del Boccaccio. La inverecondia delle Novelle, e la loro tendenza morale
non può nè giustificarsi, nè attenuarsi: ma tanti scrittori, che, segnatamente
in Inghilterra, ripetono quasi di anno in anno la censura meritata dal
Boccaccio, pare che non sappiamo come, quasi subito dopo che egli ebbe
pubblicate le sue Novelle, se ne pentì. Pur troppo lo studio della lingua e
dello stile fu pretesto a gratificare l'immaginazione de' lettori di fantasie,
alle quali tutti propendono, e sono costretti a dissimularle; nè le Novelle del
Boccaccio avrebbero predominato su la letteratura se fossero state più caste.
L'arte di additare cose bramate e vietarle adula insieme ed irrita le passioni,
e giova efficacemente a governare la coscienza e de' fanciulli e de' barbati e
dei prudentissimi vecchi. Onde i Gesuiti non sì tosto s'insignorirono delle
scuole d'Italia, adottarono quel libro, mutilato come avevano fatto de' poeti
licenziosi latini; ma i passi mutilati sono i più desiderati appunto perchè
mancano, e l'immaginazione della gioventù vi supplisce idee peggiori che non
avrebbero forse trovato ne' libri, se fossero interi.
I Gesuiti, per
adonestare l'uso ch'essi facevano del Decamerone ne' loro collegi,
indussero per avventura il Bellarmino a giustificare nelle sue controversie le
intenzioni dell'autore. Fors'anche interpolarono quegli argomenti, come altri
parecchi, nelle edizioni del Bellarmino, ogni qualvolta le sue dottrine non si
uniformavano agli interessi dell'Istituto[47]. Inoltre è probabile che
favorissero un libro famoso per le invettive contro alle regole claustrali, e
scritto assai prima ch'essi nascessero ad occupare la giurisdizione di tutte.
Anzi, il Bellarmino perdonò meno assai che il Boccaccio alla fama delle vecchie
congregazioni; e benchè altri, a difenderle, chiami quel suo Gemitus
Columbae aprocrifo, fu stampato a ogni modo mentr'ei vivea, fra l'opere
sue. Ma quanto al Boccaccio, egli innanzi di morire aveva fatto ammenda del suo
poco riguardo a' costumi. Sentì che gli uomini lo credeano reo, ed espiò le
Novelle con pena più grave forse che non era la colpa; e direste che le
scrivesse indotto dal predominio d'una donna, forse quella ch'ei poco prima
rinnegò, diffamandola nel Laberinto d'Amore. Comunque si fosse,
scongiurava i padri di famiglia a non permettere il Decamerone a chi non
aveva per anche perduto la verecondia. «Non lasciate leggere quel libro; e se
pur è vero che voi per amor mio piangete nelle mie afflizioni, abbiate pietà,
non foss'altro, dell'onor mio.»
Inoltre con rimorsi di
coscienza, che fanno più onore alla probità della sua vita che alla forza della
sua mente, fece ammenda anche a' frati e alle loro superstizioni ch'egli aveva
derise. Niuno forse, dopo Aristofane, ricavò tanto amaramente il ridicolo dalla
sfacciataggine dei predicatori ignoranti, e dalla credulità d'ignoranti
ascoltatori, quanto il Boccaccio con le Novelle, dove si mostra implacabile a'
frati. In una d'esse introduce uno di que' vagabondi a vantarsi dal pulpito
d'avere pellegrinato in tutti i paesi che sono e non sono nel globo terraqueo a
trovar reliquie di Santi, e farle adorare per danari al popolo nelle chiese. E
nondimeno il Boccaccio, morendo, diceva d'aver da gran tempo cercato per sante
reliquie in diverse parti del mondo, – e le lasciava alla devozione del popolo
in un convento di frati. Quella sua volontà trovasi scritta in un testamento in
italiano tutto di suo pugno, e in un altro in latino fatto molti anni dopo da
un notaio, e approvato e sottoscritto dal Boccaccio poco prima ch'egli morisse.
E in tutti e due i testamenti lasciò ogni suo libro e manoscritto al suo
confessore, e al convento di Santo Spirito, perchè i frati preghino Dio per
l'anima sua, e i suoi concittadini potessero leggerli e copiarli per loro
ammaestramento. È dunque più che probabile che fra que' libri non vi fosse
copia veruna del Decamerone; e dal seguente aneddoto, che rimase quasi
ignoto perchè è da desumersi da libri che pochissimi leggono, apparirà che
l'originale manoscritto delle Novelle fu distrutto lungo tempo innanzi
dall'Autore; e infatti non è stato mai possibile di trovarlo.
Verso la fine dell'età
sua, la povertà, che è più grave nella vecchiaia, e lo stato turbolento di
Firenze gli fecero rincrescere la vita sociale, e rifuggiva alla solitudine; ed
allora l'anima sua generosa ed amabile era invilita e intristita da' terrori
della religione. Vivevano a que' dì due Sanesi che poi furono venerati sopra
gli altari. L'un d'essi era letterato e monaco Certosino, e lo trovi citato dal
Fabricio Sanctus Petrus Petronus. L'altro era Giovanni Colombini che
fondò un altro ordine di frati, e scrisse la vita di San Pietro Petroni per
divina ispirazione. I Bollandisti allegano che il manoscritto del nuovo Santo,
smarritosi per due secoli e mezzo, capitò miracolosamente alle mani d'un
Certosino che lo tradusse dall'italiano in latino, e nel 1619 lo dedicò a un
Cardinale de' Medici. Forse il Colombini non ha mai scritto; e il biografo de'
Santi nel secolo XVII ricavò le notizie de' miracoli, registrati nelle cronache
e nelle altre memorie del XIV; e, per esagerare la conversione miracolosa del
Boccaccio, pervertì una lettera del Petrarca che nelle sue opere latine ha per
titolo: De vaticinio morientium. Il Beato Petroni morendo aveva infatti
commesso, verso l'anno
DISCORSO QUINTO
EPOCA QUINTA
DALL'ANNO 1400 AL 1500
La natura e lo scopo di
un'opera periodica, e specialmente della nostra, preclude l'adito ad adempiere
tutte le intenzioni che avevamo nel prendere a dettare questi Discorsi.
L'epoche delle vicissitudini della lingua italiana furono distribuite nella
nostra mente per mezzi secoli. Così dal 1100 fino al 1800 essi dovevano riescire
quattordici. Se non che poscia abbiamo ragionevolmente temuto, che, quantunque
tanto numero di scritti su lo stesso soggetto potrebbe forse non riuscire
ingrato ad alcuni, tuttavia i più de' lettori bramino che l'istruzione non sia
scompagnata dalla varietà. Perciò, a fine di compiacere ai pochi che
s'interessano di proposito deliberato in un soggetto particolare, e a' molti ai
quali importa solo d'averne un'idea generale, ci siamo studiati di limitare il
numero de' nostri articoli, ma di tal guisa da includervi tutta la lunga età
delle tre prime illustri generazioni della famiglia de' Medici, da Cosimo Padre
della Patria fino alla morte di Lorenzo il Magnifico. Inoltre proseguiremo sino
all'epoca di Torquato Tasso e Galileo e Fra Paolo Sarpi. Dopo il Tasso la
poesia italiana perdè il suo splendore, e non lo riebbe se non verso la fine
del secolo XVIII. Galileo fu il ristoratore della filosofia e il precursore di
Newton; e niuno più sorse in Italia che gli fosse maggiore, nè eguale. Fra
Paolo fu il più coraggioso e insieme il più fortunato campione della libertà
delle chiese cristiane, e della indipendenza de' principi contro le tiranniche
usurpazioni dell'autorità temporale de' papi. Tutti e tre furono nel loro
genere grandi scrittori, trattando soggetti al tutto diversi fra loro; onde
promossero a nuovi e grandi progressi la lingua italiana, le vicissitudini
della quale formano il principale soggetto delle nostre ricerche.
Nè la lingua nè la
letteratura italiana hanno molto da gloriarsi o da insegnare nell'età che
successe a questi tre grandi uomini. Lo stesso si potrebbe dire di gran parte
del secolo decimottavo, purchè si eccettuino le gigantesche imprese degli
antiquarj e degli autori di critica storica, tra' quali il Muratori tiene
degnamente il primo luogo. Ma i loro libri servirono piuttosto alla solida
erudizione che alla poesia, alla eloquenza e alla lingua. Lo stile più caldo e
la composizione meglio ordinata degli storici Inglesi, Francesi e Tedeschi
hanno oggimai fatto conoscere all'Europa la sostanza di que' volumi
laboriosissimi; e Sismondi, dopo Gibbon, se ne sono serviti in guisa da
comporne storie degne di rinomanza, e consacrarle all'istruzione d'ogni
lettore. Bensì negli ultimi venticinque anni del secolo decimottavo fiorirono
poeti in Italia che ristorarono la lingua alla sua naturale dignità, e la
poesia all'antica sua gloria. L'avevano perduta sotto le accademie e le scuole
fratesche, da che la tirannide spagnuola, che predominò fin anche con la sua
letteratura in Italia, e il contagio delle sottigliezze, de' concetti e degli
arzigogoli metafisici si diffuse fino al settentrione, e guastò le composizioni
de' poeti inglesi dall'epoca de' tre Stuardi. Ad ogni modo, i nomi, le opere e
i meriti, fin anche il personale carattere de' moderni scrittori più celebrati
in Italia e più vicini a' nostri giorni, sono sufficientemente conosciuti in
Inghilterra per le narrazioni di viaggiatori viventi, e per le osservazioni
giornaliere di moltissimi critici ne' giornali periodici. Onde a noi appena
resterebbe da spigolare alcuna notizia che non sia già stata scritta,
illustrata e ripetuta giornalmente fino a questo momento. Così, essendo omessi
da noi i due secoli men importanti per sè stessi, e già conosciuti in ciò che
meritano d'esserlo, le nostre epoche di quattordici si ridurrebbero a dieci. Ma
per diminuire quanto è in nostro potere anche questo numero, abbiamo condensato
la materia in guisa che i Discorsi non oltrepassino sei. Però questa quinta
epoca, invece de' cinquant'anni assegnati a ciascuna delle precedenti,
percorrerà tutto l'intervallo di tempo dalla morte del Petrarca e del
Boccaccio, e arriverà non molto lontana dall'era letteraria di Leone X. Quindi
nel Discorso che seguirà immediatamente, e sarà l'ultimo, saranno osservate, e
crediamo per la prima volta, le guise con le quali la politica servitù si
maturò, accompagnata dalla servitù della letteratura in Italia.
Subito dopo la morte del
Boccaccio, la lingua italiana disparve ad un tratto, non solo dalle altre
provincie e città, ma anche dal mezzo della città di Firenze; e non cominciò a
riapparire se non dopo il corso di cent'anni e più, a' giorni di Lorenzo de'
Medici. Non vi fu libro di prosa scritto nè con eloquenza, nè con eleganza, e
neppure con ordinaria correzione di stile, o con proprietà di parole. Non vi
furono versi nè rime che meritassero non che il nome di poesia, ma neppure
d'essere ricordati. Alcune eccezioni potrebbero addursi, ma consistono presso
che tutte non tanto nella positiva eccellenza, bensì nel povero merito di avere
scansati i difetti comuni ad ogni uomo in quel lungo periodo di tempo. Leonardo
Aretino, in quel pochissimo che scrisse in prosa italiana, e Giusto de' Conti
rimatore romano, nella sua raccolta di Sonetti e di Canzoni ch'ei chiamava
Quanto alla perdita
subitanea della lingua letteraria, questo singolarissimo avvenimento viene
attribuito primamente alla corruzione del dialetto fiorentino; – in secondo
luogo alla mancanza assoluta di principj e metodi preordinati dalla grammatica;
– finalmente al costume di scrivere tutte le opere dotte in latino. La prima
cagione è impossibile ad accertarsi; la seconda è falsa del tutto; la terza è
la vera: non però sola poteva operare cambiamento sì subitaneo; e non è quindi
sufficiente a spiegarlo.
Or quanto alla
corruzione del dialetto fiorentino. come mai sappiam noi, e come sapevano nel
secolo XV i figliuoli e nepoti de' Fiorentini in che modo particolare
parlassero i loro padri e i loro avi? Che il Villani, il più idiomatico fra gli
scrittori Fiorentini, e il Boccaccio, che gli fu posteriore ed è il più ornato
di tutti, scrivessero il lor dialetto alterandolo, l'abbiamo dianzi provato in
guisa da non potersi revocare in dubbio. Taluno de' loro contemporanei
l'alteravano forse assai meno; ma anche quelli che lo scrissero
semplicissimamente lasciano indizj che non lo scrivevano puntualmente come lo
parlavano. Le parole, e quindi tutte le lingue parlate dipendono dalla
pronunzia; e la rappresentazione de' suoni della pronunzia non può essere
conosciuta da' posteri che per l'aiuto de' segni dell'alfabeto, e quindi per
mezzo dell'ortografia. Or l'ortografia in tutti i manoscritti di quel secolo è
incostante in guisa, che la stessa parola, anche nelle copie più esatte del
Boccaccio, è scritta in due, e spesso in tre modi diversi. Adunque, non
potendosi avverare in quale di que' tre modi pronunziassero, la sola induzione
che possiam ricavarne si è, che i suoni delle parole, e quindi la pronunzia, e,
per necessaria conseguenza, il dialetto si mutassero più e più giornalmente.
Tale è invariabilmente
il corso di tutti i dialetti più parlati che scritti; così che, se i bisnipoti
conversassero con le ombre de' loro antenati in qualunque città della terra,
userebbero della stessa materia di lingua, ma con pronunzia così cambiata che
penerebbero a intendersi fra di loro. La differenza de' dialetti cagionata
dalla diversa pronunzia d'una stessa lingua in ragione della distanza delle
provincie, di uno stesso regno, succede quasi ad un modo nella stessa città, in
ragione della distanza del tempo. V'è nella natura d'ogni cosa dell'universo un
corso insensibile, uniforme e inevitabile; e ciò apparisce ogni qual volta gli
oggetti possono soggiacere all'esame de' nostri sensi. Alcune lingue hanno gli
stessi segni alfabetici in tutti i secoli; e nondimeno le forme dell'alfabeto
si mutano in ogni secolo in guisa, che le loro varietà bastano agli uomini
pratichi a distinguere senza data e senza indicazione veruna le carte scritte
in ogni secolo; e s'ingannano raramente. La peculiarità che si vede nella
scrittura d'ogni individuo, sì che riesce difficile ad imitarsi, appartiene
egualmente alla scrittura d'ogni secolo, anzi d'ogni generazione. E nondimeno
l'occhio e la mano d'ogni generazione seguono precisamente gli stessi segni
alfabetici tracciati da' padri e dagli avi. Or chi non sa che l'occhio è più
fedele imitatore, che non è l'orecchio? e che i segni tracciati su la carta
sono più permanenti de' suoni che volano per la bocca del popolo? e che la
pronunzia, e quindi la lingua parlata, si muta, si corrompe e migliora e si
trasforma in mille maniere più prestamente della lingua scritta?
Se non che ogni
illusione de' dotti intorno a questo punto deriva unicamente dal poco accorgersi,
che ogni uomo può vedere da sè stesso e distinguere l'alfabeto delle stesse
forme e delle stesse parole scritto con varietà distinte di tempo in tempo; ma
che niuna erudizione, niun metodo, niun principio metafisico (se pur non fosse
divina ispirazione) potrà mai dare la medesima certezza di fatto intorno alla
pronunzia. Chi può mai udire le modulazioni e le articolazioni della voce de'
morti, sepolti da cento, dugento, mille, duemila anni addietro? E nondimeno i
nostri professori delle università – e in grazia di essi principalmente abbiamo
creduto prezzo dell'opera di procedere in questo ragionamento – vanno
sillogizzando ad accertare come pronunziassero Omero e Saffo i loro versi.
Quindi si vanno celebrando regole d'università; quindi a' versi de' Greci sono
innestate, quasi puntelli, certe nuove lettere greche antiche, tanto che niun
autore greco se ne ricorda. Quindi parole, versi, stanze intere sono torturate,
rifatte. Può darsi che manifatturate riescano bellissima poesia; ma non è
greca, ma bensì d'Inglesi e Teutoni grecizzanti.
Vero è che allegano
l'autorità delle sillabe lunghe e brevi, e le leggi del metro. Certo sono leggi
notissime, assolute, e invariabili; ma dipendevano dalla pronunzia, la quale
faceva parere coerente alle regole nella bocca degli antichi ciò che nella
nostra pare eccezione, o adulterazione di critici e grammatici posteriori a'
poeti. E chi sa quanto guasto anche que' dottissimi professori avranno fatto!
Tuttavia erano più modesti de' nostri. Clarke, a riconciliare tutto ciò che a
noi pare eccezione ed incoerenza, e assoggettarlo a un'ipotesi generale,
combinò un sistema ingegnosissimo e men ambizioso degli altri. Ma l'ipotesi riesce
debole, perchè non s'accomoda a tutti i casi. Pur a Clarke bastò un sistema, e
non cangiò nè parole, nè lettere d'alfabeto. Ciò che altri ha poi fatto, non è
di questo luogo il parlarne. Ma, a ridurre tutte le loro ragioni sotto
un'osservazione generale, concluderemo: che il metro e le lunghe e le brevi
degli antichi, e tutte le loro leggi, erano dipendenti assolutamente dalla
pronunzia, la quale nè poeta veruno potrebbe insegnare a' popoli, nè potere
umano potrebbe costringerli ad adottarla. La ricevevano dalla natura co' loro
organi dell'orecchio e della voce, la stabilivano con perpetua abitudine; e
quindi si derivarono le leggi per forze secretissime, naturali ed inevitabili:
però le lunghe e le brevi erano conosciutissime per la misura inerente nella
pronunzia popolare. Ma il volere oggi trovare come pronunziassero gl'Ionii, gli
Attici e gli Eolii è pazzia; dotta, innocente e gaia, – ma è pazzia. Fors'anche
la nostra ostinazione a contradire gli uomini dotti non è impresa troppo savia.
Adunque, lasciando che ognuno si goda la sua Elena, a noi pare partito migliore
di adattare alla meglio la nostra pronunzia del greco alle leggi conosciute del
metro, in guisa da non alterare e traslocare e trasformare le parole e
l'alfabeto ne' testi. Ma nel tempo stesso sentiamo la tristissima convinzione
che, in qualunque modo leggeremo il greco, noi lo guasteremo a ogni modo co'
nostri organi nati ed educati a' suoni delle nostre lingue moderne, le quali
tutte, senza eccettuarne l'italiana, a chi le paragona all'armonia della lingua
greca, sembreranno chitarre che vogliono gareggiare con un gravicembalo.
Per altro, dall'esempio
d'alcune lingue moderne non è difficile il congetturare, e ciò senza troppa
erudizione, che anche la greca deve essere soggiaciuta a molte alterazioni di
pronunzia; e che molte delle sue lettere scritte da principio, perchè erano
pronunziate, continuarono poscia a scriversi e a non pronunziarsi. Tale fu
anche la condizione della francese, e dell'inglese; così che oggimai quest'ultima
non ha propriamente alfabeto, bensì segni ortografici incostantissimi che
producono or un suono or un altro. Nondimeno e la lingua greca e le due moderne
ebbero il vantaggio d'essere parlate ad un tempo e letterarie, con poca
diversità.
Pur il dialetto
fiorentino, anche al tempo di Dante, del Petrarca e del Boccaccio, e che da'
grammatici italiani è nominato il Buon Secolo, dipendeva dalla pronunzia. V'è
tutta l'apparenza che fosse allora parlato men male, e vi fu per avventura un
periodo che anche il volgo lo parlava correttamente; ma deve essere stato
periodo brevissimo: e chi volesse andare cercando la sua data, s'avvilupperebbe
in intricatissime congetture. Questo è certo, che la lingua degli scrittori
fiorentini e di tutti gli Italiani dipendeva allora e poi fino ad oggi, e
sempre in avvenire dipenderà, dal dialetto fiorentino in quanto si spetta alla
nativa proprietà ed energia di vocaboli popolari ed idiotismi di frasi, che
riescono di effetto mirabile, purchè siano prescelti da chi ha l'arte
d'ingentilirli in modo che non sentano punto il dialetto.
La seconda ragione, cioè
la mancanza di regole certe grammaticali, giova poco o nulla a spiegare il
fenomeno della corruzione improvvisa della lingua letteraria in Italia. La
storia – trista insieme e ridicola, ma a nostro credere curiosissima a
raccontarsi, da che rimanesi tuttavia mal conosciuta, – la storia
dell'Accademia della Crusca convincerà anche gl'increduli, che sarebbe stata
gran fortuna alla letteratura di quella nazione, se si fatte regole
d'accademie, di critici, e di grammatici non fossero state mai neppur nominate.
Del resto, nell'epoca passata abbiamo veduto che tutti scrivevano con
abbondanza, con eleganza e con correzione, e non avevano grammatiche, fuorchè
quella della lingua latina; e non era inutile, perchè insegnava il processo
logico della lingua italiana. Con la grammatica latina furono educati i
figliuoli di quelli che scrivevano correttamente; e i figliuoli avevano
conversato nello stesso dialetto co' loro padri. Or se i figliuoli con la
stessa educazione grammaticale e con lo stesso dialetto non potevano scrivere
senza barbarismi e spropositi, la mancanza di regole grammaticali non poteva di
certo esserne la cagione.
L'uso e l'ambizione
universale di scrivere ogni opera importante in latino fu senza alcun dubbio
un'origine antica e lunghissima della miseria della lingua nazionale d'Italia.
Nè questo sarebbe avvenuto sì subitamente, se la lingua italiana fosse stata
parlata; pure, benchè fosse intesa dal popolo più che la latina, la lingua
nuova era nè più nè meno letteraria come l'antica: ma con questa differenza:
che mentre la nuova era meno difficile all'intelligenza del popolo, l'antica
era più facile alla penna de' dotti. Quindi si trova, fra le altre
singolarissime cose, che fin anche i commenti a spiegare il poema di Dante
scritti da principio in italiano, erano poco dopo tradotti in latino; e che i
professori nelle cattedre dichiarando da critici un poema che non ha veruna
sembianza a' poeti romani, si servivano ad ogni modo della lingua latina. Anzi,
fra quanti vecchi codici si vanno scoprendo più sempre di quel poema, le
postille interlineari e marginali sono tutte latine.
Ma qui pure emergono a
un tratto contradizioni, per le quali i ragionamenti non possono mai venire a
conclusione sicura. Abbiamo veduto che il Petrarca e il Boccaccio, per tacere
di altri molti, studiarono per tutta la loro vita la lingua latina, nella quale
scrissero le loro opere più importanti e di maggior volume. E nondimeno chi più
del Petrarca trovò l'eleganza, il calore, la rapidità e l'armonia della lingua
ne' versi? Chi più del Boccaccio nella prosa? Molto certo dipendeva dalla
onnipotenza del genio; ma il genio nasce, come nascono gli uomini, in ogni
secolo; l'uso lo rinvigorisce e lo fa risplendere come acciajo di coltello
continuamente adoprato; il disuso lo irrugginisce e lo confonde con la brutta
materia del ferro. Bensì le circostanze de' tempi, derivanti dalle
vicissitudini politiche delle nazioni, o promovono, o impediscono, o dirigono i
lavori del genio; e talvolta l'occupano in cose, le quali per loro natura producono
sterile premio; e lo disviano da altre che gli preparavano gloria maggiore.
Sin da principio del
secolo che ora osserviamo, l'Italia cominciava a quietarsi. Le fazioni de'
Guelfi e de' Ghibellini erano o spente del tutto, o semivive. Le città
signoreggiate da piccoli e mutabili tirannetti indipendenti, o costituite in
repubbliche turbolente ed efimere, si erano già incorporate ne' dominj de' loro
vicini più forti. I papi, istigatori e stromenti della Francia, avevano
lasciato Avignone e ristabilita la loro sede in Italia. Gli imperadori
germanici, serbando il titolo di Re de' Romani e il diritto di sovrani feudali
di tutta l'Italia, non vi comparivano più. La dinastia francese non regnava più
a Napoli; e v'erano tornati i discendenti della Casa d'Aragona, che da quasi
due secoli continuavano a governare
Così nel secolo
decimoquinto l'Italia si rimase divisa in diversi Stati, nè troppo deboli da
essere facilmente conquistati, nè troppo forti da offendere gli altri
impunemente. I papi predominavano sovra tutti i governi italiani, ma più in
virtù del loro nome di Vicario di Cristo, che per le vittorie del Dio degli
eserciti; e le loro scomuniche, benchè temute per le minacce de' danni
dell'altro mondo, non avevano più forza in questo da sommovere i popoli contro
i loro principi naturali, nè riunire le armi di Europa a guerreggiare nelle
Crociate. Talvolta alcuni pontefici si procacciavano alleati e soldati da
ridurre di nuovo sotto il dominio temporale della Chiesa alcune città che vi
s'erano sottratte; ed Eugenio IV fu uomo di sangue. Ma non discendevano dalle
Alpi nè i Francesi, nè i Tedeschi; e quelle guerrucce civili non disturbavano
tutto il resto d'Italia. Frattanto alcuni altri papi, e Niccolò V e Pio II più
che gli altri, attendevano virilmente a propagare le lettere, e restituire a
Roma le opere degli antichi scrittori; a illustrare i monumenti innalzati dagli
imperadori padroni del mondo; a ristorare gli edifizj pubblici, e consolidare
la religione. Allora molta parte della vita e delle opere degli uomini dotti,
specialmente ecclesiastici, spendevansi ne' Concilj Ecumenici, frequenti e
prolungati in quell'epoca; ma che non riuscirono nè a persuadere con argomenti
Gli studj dunque essendo
tutti rivolti assiduamente all'antichità, all'erudizione e alla teologia, non è
meraviglia che i libri intorno a soggetti che si riferivano alla storia, a'
costumi, alle arti e alla letteratura degli antichi Romani, e alla dottrina de'
Santi Padri fossero tutti scritti in latino. S'aggiungeva la maggior diffusione
del commercio di tutti i prodotti della mente umana fra dotti di tutta
l'Europa. Niuna nazione aveva lingua letteraria, e tutte ne avevano una comune
nella latina. Il popolo d'ogni regno e paese continuava a vivere
nell'ignoranza; bensì v'era un popolo europeo composto di letterati che, per
quanto lontani vivessero, pure scrivevano gli uni per gli altri; e i libri
giravano in un circolo composto di lettori, che per lo più erano autori.
Non però la nazione
italiana mancava assolutamente d'una lingua comune, corrente e vivissima in
tutte le sue provincie, intesa da Torino sino a Napoli, scorretta, deforme; ed
era anche un po' letteraria, ma di quella letteratura plebea la quale non
sopravvive alla seconda generazione. Abbiamo nella prima epoca, parlando de'
dialetti romanzi, osservato che, per quanto i modi di parlare di un grandissimo
tratto di terra divisa in molte provincie sieno diversi ed innumerabili, esiste
sempre una lingua comune, con la quale gli abitatori d'una provincia intendono
quei delle altre. Sì fatta lingua comune è più o meno povera, secondo il meno o
più di commercio che le diverse provincie hanno fra loro; ed è più o meno
mutabile secondo la lunga o precaria stabilità de' governi. Sì fatta lingua ad
ogni modo non è mai ricca, nè permanente, perchè dipende assolutamente dalle
vicissitudini di tutte le lingue parlate, e dai cambiamenti de' costumi e delle
idee che sono operati dalle vicissitudini politiche. Gli scrittori non la
tramandano ne' loro libri alla memoria delle generazioni seguenti; onde non
serba mai traccie del suo stato anteriore. Questa specie di lingua comune,
diversa in tutto da' dialetti provinciali e municipali, e che serba alcune
qualità bastarde di tutte, fu indicata da noi sotto i nomi talora d'itineraria,
e talora di mercantile. È, come tutte le altre, una lingua suggerita
naturalmente dai bisogni dell'uomo, e perciò facilissimamente creata; e
potrebbe anche chiamarsi lingua d'espediente: ma è alterata e spesso distrutta
con la stessa facilità. Ne troviamo tuttavia una che sussiste da lungo tempo in
forme bizzarre, ma non dissimili fra di loro, in tutte le coste del
Mediterraneo sino a Costantinopoli, sotto il nome di lingua franca; e per essa
i mercanti d'ogni religione e nazione s'intendono nelle fiere, alle quali
concorrono a commerciare. Ogni viaggiatore in que' paesi la parla, perchè è
costretto a parlarla; la impara facilmente, perchè consiste di parole
necessarie a' bisogni giornalieri e comunissimi della vita; e appena cessa il
bisogno di spiegare le stesse idee con quelle parole, la lingua itineraria
viene dimenticata ad un tratto.
Doveva dunque una lingua
comune di questa specie esistere in Italia anche nel medio evo; e partecipò
altresì di apparenze di letteratura, dopo che fu diffusa perpetuamente da'
frati di San Domenico e di San Francesco, che vagavano di città in città
predicando in tutte le chiese e su per le piazze. E certo a' frati spetta una
parte del merito d'avere fino d'allora ampliati gli strettissimi confini della
lingua comune, d'averla applicata a soggetti non volgari, ed avvezzata la plebe
d'ogni città italiana ad intenderla ed a credere che, oltre i loro gerghi
municipali, esisteva una lingua nazionale. Aggiungevasi un'altra specie di
ciurmadori più modesti e più gaj, che involontariamente anch'essi andavano al
medesimo scopo. Erano i novellatori e narratori delle lunghe storie miracolose
di Carlo Magno, celebrate sino dal secolo undecimo in leggende d'ogni maniera,
e soprattutto dal romanzo attribuito all'arcivescovo Turpino, e che allora
passava per autentico. Tutte le meraviglie ch'oggi leggiamo ne romanzi e poemi
che hanno per soggetto i Paladini erano allora raccontate al popolo dai
novellatori; e quest'uso rimase in alcune città, e specialmente in Venezia e in
Napoli sino a questi ultimi anni. Chiunque non sapeva leggere si raccoglieva
quasi ogni sera d'estate intorno al novellatore su la riva del mare, ascoltando
con attenzione. Ora i novellatori essendo anch'essi per lo più itineranti nel
medio evo, propagavano la lingua comune arricchita delle parole necessarie a
descrivere dame, cavalieri erranti, guerre e imprese di giganti e di fiere,
palazzi reali e incantati; e aprendo alla immaginazione del popolo nuovi mondi,
lo accostumavano a una lingua meno volgare.
Poi nel secolo
decimoquinto, mentre la lingua corretta, nobile ed elegante si guastò
d'improvviso, i novellatori di Carlo Magno si divisero in due classi. Gli uni
continuavano a divertire le loro assemblee su le strade. Gli altri a scrivere
quelle meraviglie in rima, e farne poemi lunghissimi, interminabili, che non
tardarono ad essere cantati in versi, spiegati in prosa, e commentati al volgo
in lingua italiana itineraria, come i dotti commentavano in latino dalle lor
cattedre
Ma nè la grande
originalità d'invenzione, nè la popolarità del primo Orlando che servì
di modello giovarono a contrastare un unico grado dell'immensa preminenza che
il secondo Orlando ottenne per la divinità del suo stile. Quindi molti
si provarono a tradurre in bella lingua letteraria le stanze del Bojardo; e
niuno vi riuscì fuori che il Berni, il quale per quel suo rifacimento
meritò d'essere, per le qualità del suo stile, collocato prossimo, se non al
fianco, all'Ariosto. Nacque Fiorentino; non però s'innamorò del suo dialetto
nativo in guisa da affettarne tutte le peculiarità; ed ei le sfuggiva,
chiamandole vecchie lascivie. Le grazie di altri scrittori sono lodate a cielo,
perchè sono ammanierate e ornate dall'arte. Risaltano agli occhi, e forzano ad
osservarle; e però i professori di rettorica possono gloriarsi di discernerle,
e farsi merito di declamare una dissertazione sopra ogni vocabolo. Nell'Orlando
Innamorato le grazie, benchè più molte d'assai, scorrono spontanee e non
apparenti; ed appunto perchè si fanno sentire e non si lasciano scorgere, tanto
più sono grazie. Lo stesso si può dire dell'Orlando Furioso, con la sola
diversità che, mentre il Berni rinfrescava la lingua d'amabilità giovanile,
l'Ariosto arricchivala di originali eleganze. Niuno infatti più di questo
grande poeta applicò il principio di Dante, che la lingua si deve andar più
sempre propagando, innestandovi il fiore di tutti i dialetti della Penisola.
Non già che l'Ariosto avesse mai forse imparato quella teoria di Dante, che
allora giaceva sepolta negli archivj, e poi per alcun tempo fu disputata la sua
autenticità: ma l'Ariosto era uomo di genio; la teoria era suggerita dal
carattere inerente della lingua ch'egli scriveva, ed egli era dotato
dell'istinto di distinguere a un tratto le eleganze dalle affettazioni di tutti
gli scrittori, i vezzi semplici dagl'idiotismi plateali di tutti i dialetti, ed
ogni vocabolo e frase che ammettevano o rifiutavano d'essere nobilitati nella
composizione. Tutti i varj elementi ch'ei radunava quasi senza avvedersene, li
raffinava e immedesimava nella sua mente come in un crogiuolo pieno di diversi
metalli, che liquefacendosi e purificandosi al fuoco ne fanno uno solo tutto
nuovo ed inimitabile. Questi due poeti, benchè nati in questo secolo, morirono
intorno al 1530, e apparterrebbero piuttosto all'epoca seguente. Ma poichè la
materia poetica ch'essi rivestirono del loro stile fu somministrata ad essi
dagli scrittori rozzi de' tempi che ora andiamo considerando, ne abbiam
parlato, affine d'illustrare la verità sentita da' grandi scrittori, ma
trascurata dagli altri e non creduta da' lettori divoratori di tutto; ed è: che
i materiali poetici senza le forme pure della lingua sono altrettanti massi di
marmo bellissimo mal tagliati in figure umane da cattivi scultori; e sotto le
mani degli artisti eccellenti assumono tutte le proporzioni della bellezza
ideale, e la sublimità d'espressione della Venere de' Medici, dell'Apollo e del
gruppo di Laocoonte.
Il solo fra' poeti
romanzieri anteriori all'Ariosto ed al Berni che scrivesse meno scorrettamente
fu il Pulci, autore del Morgante Maggiore. Apparteneva all'Accademia
domestica, e la più benemerita dell'Italia, tenuta senza fasto, senza diplomi,
senza vanissimi titoli da Lorenzo de' Medici nel suo palazzo; e rappresentavano
il convito di Platone. Le poesie e gli scritti in prosa di Lorenzo
contribuirono molto a far ritornare ne' libri d'alcuni uomini di genio la lingua
letteraria, condannata fino allora a parlare da quasi un secolo alla nazione
per bocca di frati e di ciurmadori. Non però lo stile di quell'uomo
straordinario è perfettamente corretto; e le sue poesie sono state in questi
ultimi anni ammirate oltre il loro merito reale. L'unico poeta degno di meraviglia
in quella riunione d'uomini, nel resto grandissimi, fu il Poliziano. Tutto
quello che scrisse in italiano si ridurrebbe a un piccolo volumetto, e consiste
nel principio di un lungo poema di cui non giunse a finire il secondo canto.
Gli spiriti e i modi della lingua latina de' classici erano già stati trasfusi
nella prosa dal Boccaccio, e da altri. Ma il Poliziano fu il primo a
trasfonderli nella poesia; e vi trasfuse ad un tempo quanta eleganza potè
derivare dal greco. Infatti non v'è lingua che come l'italiana possa imbeversi
di quanto v'è di semplice, e d'amabile, e d'energico nelle forme e negli
accidenti della greca, segnatamente in poesia; e se potesse ottenere la stessa
prosodia e lo stesso genere di versi, e potesse ad un tempo liberarsi dalla necessità
degli articoli, forse non avrebbe da invidiare alla greca, fuorchè la pronunzia
d'alcune lettere differentemente aspirate, che la natura ha rifiutato agli
abitatori d'Italia, anche quando derivavano nella lor lingua latina la
prosodia, la verseggiatura e le parole de' Greci.
Ma Lorenzo de' Medici, e
tutti gli amici suoi, e il genio del Poliziano erano pur nondimeno costretti a
secondare gl'impulsi imperiosi del loro secolo; e l'introduzione della stampa,
anzichè giovare, nocque più ch'altri non crede a' progressi della lingua
italiana. L'avidità colla quale erano stati fino allora ricercati i codici de'
Greci e de' Romani, fu superata dalla impazienza di moltiplicarli ad un tratto.
Cominciò quindi il freddo, interminabile ed ambiziosissimo studio dell'emendazione
critica de' testi e de' commenti agli antichi scrittori, e continuano; nè
finiranno mai, finchè l'Europa avrà professori chiamati filologi, gente oziosa
insieme e inquietissima, e che sarebbe oggimai condannata dal genere umano alla
derisione ch'ella pur merita, se non avesse avuto la precauzione di scrivere
tutti que' suoi nienti in latino. La caduta dell'Impero d'Oriente ridusse
alcuni letterati greci in Italia; e vi portarono molte opere antiche, che
desideravano anch'esse l'ajuto della tipografia e della critica. L'Iliade
fu allora stampata per la prima volta in Firenze; e chi mai avrebbe in quegli
anni potuto pensare ad altro che ad Omero ed ai Greci?
La lingua italiana cadde
allora in tanto disprezzo, da rendere spregevole chi la scriveva; e gli autori
susseguenti, e che a' tempi di Lorenzo de' Medici erano ancora fanciulli,
ricordano, che il primo e più severo comandamento de' padri a' figliuoli e de'
maestri a' discepoli era, che nè per male nè per bene leggessero mai cosa
alcuna scritta in volgare, – così allora chiamavasi l'italiano. Ed abbiamo
riferito che il Varchi, storico piuttosto pettegolo, narra com'egli ed alcuni
altri suoi compagni di scuola furono severamente puniti dal loro pedagogo per
aver trasgredito sì solenne comandamento[48]. E nondimeno, anche da
pochissimi vestigj che or ne rimangono, appare che quando la lingua italiana
era adoperata da uomini di gran mente, di anima calda e di forte proponimento a
parlare al popolo di cose politiche, era potente e fierissima, e faceva sentire
quasi ad ogni sentenza ch'era originalmente nata colla libertà popolare. Frate
Girolamo Savonarola, di cui tanto s'è scritto con troppa superstizione dagli
uni, e con altrettanta parzialità per
Il popolo fiorentino fu
persuaso da fra Girolamo Savonarola a fare una piramide altissima con quante
pitture e statue antiche e moderne ed arpe e liuti e strumenti d'ogni maniera
potè raccogliere per le case, e codici e libri italiani e latini, specialmente
le opere del Boccaccio; e per celebrare divotamente l'ultimo giorno del
carnevale, arsero la piramide su quella piazza dove nella primavera seguente al
loro malfortunato predicatore toccò d'essere bruciato vivo, e le sue ceneri
gettate nell'Arno.
Ma quando questo
disprezzatore d'ogni eleganza di vita e d'ogni classica letteratura predicava
al popolo, esortandolo dal pulpito a liberarsi dal giogo effemminato della casa
de' Medici; quando dalla Toscana tuonava sì che Alessandro VI, e tutta la
gerarchia papale l'udivano a Roma, e dannava alla esecrazione le usurpazioni e
le prostituzioni e le abbominazioni della Chiesa Romana; quando da oratore e da
legislatore e da profeta insegnava alla moltitudine le costituzioni ch'egli
aveva meditato nella storia del genere umano, e gli pareano migliori ad
ordinare e perpetuare la libertà della Repubblica; allora quel frate
scorrettissimo nella lingua, senza studio di stile, senza nessun'arte
rettorica, doveva essere il più terribile degli uomini eloquenti che siano
stati mai prodotti nel mondo. Le sue prediche non erano scritte da lui; le sole
che abbiamo alla stampa in caratteri gotici furono messe insieme fra bene e
male da un Notaro che ascoltandole le copiava per mezzo d'una imperfettissima
abbreviatura; e non potè forse scriverne nè pur la metà, e non furono più
ristampate. Per quanto ne abbiam fatto ricerche, non c'è mai riuscito di
poterne trovare una copia che non sia mutilata; e talvolta s'incontrano lacune
di venti o trenta pagine a un tratto stracciate da tutte le copie fino da'
tempi di Alessandro VI. Abbiam udito che alcuni rarissimi esemplari interi
esistano tuttavia; quanto a noi, disperiamo di vederne uno solo. E davvero, se
ciò fosse in nostro potere, a noi, per una copia non mutilata delle prediche
del Savonarola, non rincrescerebbe di dare in cambio tutti quanti i libri rari
registrati nel Decamerone del Reverendo M. Dibdin.
Frattanto concluderemo
quest'epoca, a ricominciare nella seguente a parlare del regno del Decamerone
del Boccaccio. A chi guarda alla infinita letteratura diffusa verso la fine di
questo secolo e sul principio del seguente in Italia; quanti ingegni fiorivano
illustri in ogni Università; come pensando e scrivendo di filosofia metafisica
su le opere d'Aristotile e di Platone, faceano scoppiare mille nuove e
arditissime idee dalle antiche; come la storia de' fatti moltiplicavasi per le
scoperte recenti dell'America e della stampa, e la libertà della mente
s'esercitava per le controversie ne' nuovi scismi di religione; e quanto le
guerre perpetue di Carlo V, e le mutazioni improvvise ne' governi d'Europa e
nelle pubbliche e private fortune eccitavano le passioni degli Italiani, e raffinavano
le arti e gli studj della politica: – l'Italia era il campo delle battaglie, e
Roma era confederata, o nemica potente, o mediatrice interessata, e per lo più
instigatrice de' principi; e i loro consigli erano direttamente o
indirettamente agitati da uomini di chiesa; e pochi senza molto sapere si
meritavano le ecclesiastiche dignità i professori di letteratura sentivano ed
illustravano gli autori greci e romani, e rari uscivano allievi dalle scuole
che non intendessero il greco, e tutti scrivevano il latino, e insegnavanlo
fino alle giovinette: per la diffusione della letteratura prosperava la gloria
delle belle arti; e l'Italia pareva emporio di dottrina, di eleganze e di lusso
per tutta l'Europa: – e a chi guarda ad un tempo all'Italia tutta quanta in
quel secolo affaccendarsi in sottigliezze grammaticali; e gli uomini celebrati
contendere, e sempre senza intendersi e senza termine, per questioni peggio che
inutili; e consentire pur nondimeno a riconoscere come unico codice a
sciogliere tante liti, e quasi ispirato legislatore di stile il Decamerone
delle novelle del Boccaccio, mentre le liti a ogni modo sorgevano da quel
libro, e ogni uomo interpretandolo variamente, le liti rigermogliavano a mille
per una, e s'intricavano sì enigmatiche che, tutti insegnando grammatica, niuno
sapeva come s'avesse da scrivere: – certo, sì fatto stato simultaneo di vigore
nelle passioni, negl'ingegni e nelle lettere, e di miseria nella lingua d'una
nazione, pare al tutto fuor di natura e incredibile. Pur nondimeno l'epoca
seguente manifesterà che vi sono cose incredibili insieme e verissime; ma che
si rimangono o non osservate o dissimulate, a fine di scrivere in loro luogo
cose credibili, benchè false.
DISCORSO SESTO
EPOCA SESTA
DALL'ANNO 1500 AL 1600
Se gl'Italiani si
fossero giovati della tranquillità e dell'indipendenza ch'ebbero nel lungo
corso di anni del secolo precedente, quando vivevano meno atterriti da' papi e
non minacciati dalla presenza d'eserciti forestieri, e si fossero allora
costituiti in nazione, gli scrittori si sarebbero immedesimati di necessità
colla loro patria, ed avrebbero ampliato una lingua men artificiale e più
generosa, scritta insieme e parlata, e che non fu mai conosciuta, nè si
conoscerà mai forse in Italia. Se non che le città attendevano a contendere,
più per via d'ambasciadori che d'eserciti, tra di loro, e gli scrittori
contemplavano oziosamente l'antica Roma ed Atene più che l'Italia; e scrivendo
in latino, andavano riducendosi più sempre a comunità diversa al tutto dalla
nazione. Lorenzo de' Medici forse aspirò, e non potè afferrare l'opportunità
che alloramai cominciava a dileguarsi per sempre. La sua morte accompagnata da
invasioni straniere e commozioni in tutta l'Italia, e da un nuovo governo
popolare in Firenze, condusse una brevissima epoca propizia a' forti ingegni.
Il Machiavelli scriveva allora; e morì poco innanzi che i papi e i loro
bastardi, ammogliati a bastarde di monarchi forestieri, togliessero ogni voce e
ogni senso di libertà a' Fiorentini.
Niuno scrisse in Italia
mai nè con più forza, nè con più evidenza, nè con più brevità del Machiavelli.
Il significato d'ogni suo vocabolo par che partecipi della profondità della sua
mente, e le sue frasi hanno la connessione rapida, splendida, stringente della
sua logica. Inoltre aveva cuore caldo e di delicate e di generose passioni; e
per quanto lo neghino molti anche a' dì nostri, ci concederanno di dire che o
essi non hanno cuore che risponda a quelle passioni, o non lo leggono in
originale, o se pure lo leggono, non sanno tanto della lingua italiana da
sentirne tutte le proprietà; e quest'ultima opinione a noi pare la più
verosimile. Nè lo stile del Machiavelli nè di alcuno di quella età, nè alcuno
de' Romani e de' Greci hanno quella tinta sentimentale degli scrittori moderni;
– ma spesso è artefatta. Invece, chi sente naturalmente e sa scrivere, infonde
in modo impercettibile un calore perpetuo ne' suoi lettori. Ma bisognano
lettori che sappiano leggere, che siano nati a sentire, e che non sieno educati
ad affettare di sentir troppo. L'unico difetto della lingua e dello stile del
Machiavelli deriva dalla barbarie in cui trovò il suo dialetto materno. Ben ei
si studiò di dargli tutta la dignità che Sallustio, Cesare e Tacito avevano
dato al latino, ma si studiò ad un tempo, e con molta saviezza, di non
disnaturare la lingua italiana e il dialetto fiorentino; onde talvolta, per
preservarne alcune peculiarità, cadde qua e là in certi sgrammaticamenti, che
offendono appunto perchè potevano facilmente evitarsi.
Ognuno sa come Pietro
Bembo veneziano fu primo a ridurre la lingua a regole; ma più che le regole
giovarono d'allora in poi a ripulirla le opere di molti scrittori per tutta
Italia. Ma quantunque ei pronunziasse che l'essere nato fiorentino, a ben
volere fiorentino scrivere non fosse di molto vantaggio, nè alcuno
s'opponesse per anche a viso aperto alle sue parole tenute tuttavia per
oracoli, tutti ad ogni modo se ne giovavano come d'oracoli, e le contorcevano a
favorire le loro opinioni. Però i Fiorentini contesero, che, stando
letteralmente alla sentenza del cardinal Bembo, s'aveva da scriver
fiorentino; dal che veniva la direttissima conseguenza che l'Italia aveva
dialetti molti parlati, ed uno solo atto ad essere scritto; e non possedeva in
comune lingua veruna. Insorse d'allora in poi, crebbe ed inferocì la
tristissima lite – se la lingua letteraria s'avesse a chiamare italiana,
toscana, o fiorentina. Frattanto il Bembo, senza inframmettersi nella contesa
ch'egli inavvedutamente aveva attizzata, favoriva i Fiorentini; anzi escluse le
opere tutte di Dante dal privilegio di somministrare esempj a' grammatici.
Forse il Bembo, educato e promosso alle ecclesiastiche dignità, prese pretesto
dalla lingua, ch'ei chiamava rozza, di Dante, affine di condannarlo dell'avere
virilmente negata ai papi ogni potestà temporale. L'imitare l'effemminata
poesia e l'amore platonico del Petrarca era velo alle passioni sensuali; e,
purchè fossero adonestate, non pareva illecito. Nè, a dirne il vero, sappiamo
che il mondo siasi mai governato altrimenti.
Or ciò che il cardinal
Bembo e gli altri suoi collaboratori avrebbero dovuto insegnare, e che
nondimeno niuno può imparare se non per attitudine naturale e per lunga
consuetudine, consisteva nell'arte di scriver bene. Questo non riesce mai se
non a chi sa ciò che deve sottrarre dalla massa de' vocaboli e delle frasi
perchè nuoce allo stile e alle idee; e ciò che vi deve aggiungere perchè giova:
e le sottrazioni e le addizioni devono farsi in guisa, che ciò rechi nuove e
geniali sembianze alla lingua, ma senza mai nè snaturarla nell'indole sua, nè
travisare la sua nativa fisonomia. Sì fatta arte, necessaria agli scrittori di
qualunque lingua e difficile a tutti, fu sempre e sarà difficilissima agli
Italiani. Non hanno Corte, nè città capitale, nè parlamenti ove la lingua possa
arricchirsi secondando di grado in grado il corso e le mutazioni delle idee,
delle fogge, delle opinioni e del tempo; anzi quanto è letteraria, tanto
rimanesi artificiale più di quant'altre siano state mai scritte o si scrivano. Il
mantenerla purissima adattandola a nuove idee e all'uso corrente; il porvi
studio e far sì che non raffreddi lo stile, e l'usarla letteraria com'è,
ridurla tuttavia famigliare anche a non letterati, sono sempre state difficoltà
che in pratica apparvero tutte indomabili a molti. Quindi le tante teorie di
trattatisti, le controversie e la confusione di grammatiche, di cui fu sempre
romorosa l'Italia. E per non esservi lingua prevalente in un secolo, vediamo
fra gli scrittori italiani d'una medesima età più differenza che in quella
d'ogni altro popolo; il che produce il vantaggio della varietà degli stili, e
il danno della perplessità e pedanteria de' giudizj. Spesso accade che il libro
esaltato non per altro che per il merito della lingua dai dottissimi uomini
d'una città, viene esecrato dagli uomini dottissimi d'un'altra città, appunto
per i demeriti della lingua.
Frattanto que' primi
ordinatori della lingua nel discorso giornaliero facevano uso di dialetti
discordi, i quali repugnavano a scriversi. Il dialetto fiorentino s'era
immiserito, e diveniva sempre più ritroso alla penna; e quel che è peggio,
nelle scritture era oggimai intarsiato di crudissimi latinismi. Pare che non
potessero mandare una lettera a' loro domestici, che non fosse pedantesca.
Quando poi sul principio del secolo decimosesto vollero pur provvedere l'Italia
di una lingua sua propria, s'avvidero che innanzi tratto bisognava depurarla
dalla troppa latinità: ma in questo andarono all'altro estremo, appunto perchè
temevano di non si poter reggere equabilmente nel centro. Il Bembo e gli altri
avevano studiato fin dalla puerizia e scritto e pensato d'ogni cosa letteraria
in latino. E non pure l'ammirazione a' grandi esemplari, ma i precetti
rettorici degli autori romani, e la necessità di secondarli in una lingua
morta, gli aveano domati alla servitù dell'imitazione. Era radicato nella loro
anima il dogma, che a scrivere in qualunque lingua fosse necessario imitare
religiosamente alcuni modelli; e in italiano non avevano, dal poema di Dante in
fuori, alcuna opera nella quale la moltitudine, la novità e la profondità delle
idee, delle immagini e delle passioni avessero partorito gran numero e varietà
di locuzioni e parole, ed energia di ardita sintassi. Ma, oltre la ragione di
stato ecclesiastica, che rendeva quel poema un testo pericoloso a citarsi, la
quantità di formole scolastiche, di giunture strane, di voci latine, e tutto
insieme il tenore dello stile di Dante gli atterriva; e non vi fu modo che si
persuadessero mai di giovarsene.
Non è dunque difficile
l'indovinare fra quante strette e con quale perplessità i primi critici si
studiassero di trovare metodi a rimondare la lingua de' latinismi, idiotismi e
sgrammaticamenti che prevalevano a' loro giorni, e le impedivano di divenire
patrimonio letterario di tutta l'Italia. Il Bembo, imbevuto di purissima
latinità, doveva studiare fin anche le sue lettere famigliari a guardarle da'
latinismi; il che gli riescì quasi sempre: ma non potè fare che quanto ei dettò
in italiano non ridondasse d'idiotismi veneziani, i quali, se non fossero stati
protetti sino d'allora dall'autorità del suo nome, sarebbero stati poscia
infamati fra' solecismi. Gli scrittori fiorentini anch'essi scambiavano
riboboli per atticismi gentili. Aggiungi che mai non s'avvidero «Essere
impossibile di ridurre a scienza atta a potersi insegnare e imparare il
processo con che la natura converte in lingue letterarie i rozzi dialetti.»
Così nella penuria d'autori che somministrassero osservazioni ed esempj, e di
principj che insegnassero un giusto metodo, que' primi precettori della lingua
ricorsero di comune consentimento alle Novelle del Boccaccio. Vi trovarono
parole evidenti, native ed elegantissime, artifici di costruzione, periodi
musicali e diversi generi di stile; e forse per allora non avrebbero potuto
ideare espediente migliore a tante difficoltà. Il cardinal Bembo ad ogni modo
si limitò ad osservare ogni cosa in quel libro con ammirazione, ma non convertì
le sue opinioni in leggi assolute. E' non era il solo; bensì il più celebre di
quella scuola. Tuttavia la massima e la pratica de' letterati di quell'età
consistevano non tanto a ricavare un metodo dalle osservazioni, quanto a
imitare puntualmente, servilmente, puerilmente gli scrittori che parevano
eccellenti. In poesia italiana copiavano il Petrarca e cantavano santamente
d'amore. In latino imitavano Virgilio e Cicerone, e scrivevano profanamente di
cose sacre. Così la dottrina di ristringere tutta una lingua morta nelle opere
di pochi scrittori fu più assurdamente applicata alla lingua viva degli
Italiani; e i loro critici quasi tutti convennero, non doversi attingere alcun
esempio da veruna poesia, fuorchè dal canzoniere amoroso del Petrarca per
Laura; nè alcun esempio di prosa da scrittore o scritto veruno, fuorchè dalle
novelle del Decamerone. Con quanto frutto della religione, non
pretendiamo di dirlo; ma la letteratura purtroppo discese effemminatissima a
molte generazioni. Quindi i protestanti pigliarono argomento ad imputare a que'
letterati pochissimo riguardo a' costumi, e niun senso di religione. La prima
accusa è esagerata, e l'altra è assurdissima. Erasmo imputavali di sacrilegio,
e derideva a un'ora l'ignoranza fratesca e la latinità non cristiana in Italia,
a fine di spianare per tutti i modi la via alla riforma nelle Università di
Germania e d'Inghilterra; e giudicavali secondo la tradizione della miscredenza
de' prelati di Leone X. Pur, se non tutti, moltissimi sentivano la fede che
professavano, ed erano talor combattuti da superstizioni contrarie. Alcuni
votavansi di non leggere mai libri profani; ma non potendo lungamente reggere
al voto, ne impetravano l'assoluzione dal papa. Altri, per non contaminare le
cose cristiane con l'impura latinità de' frati e de' monaci, avrebbero voluto
poter tradurre
Trent'anni circa dopo il
principio, e pochissimi innanzi la fine del presente secolo, morirono l'Ariosto
e il Tasso. L'intervallo di tempo fra la morte dell'uno e dell'altro fu
fecondissimo di libri d'ogni maniera, e famoso per questioni grammaticali. I
nomi degli autori di quell'età hanno poscia occupato tutti gli storici di
letteratura, che ne hanno scritto volumi, biografie ed analisi critiche senza
fine. E nondimeno l'Ariosto e Torquato Tasso restano i soli degni del nome di
grandi. Che se parecchi altri passano oltre la mediocrità, e furono benemeriti
della lingua più con gli esempj che co' precetti, e fra questi primeggiano
Giovanni della Casa, e Annibale Caro, moltissimi non sono che mediocri, e non
li nomineremo. Molti altri sono anche di peggio, se peggio può essere, e de'
quali non importerebbe di far memoria neppure in massa, se non appartenessero
appunto al secolo decantato come il più illustre della italiana letteratura; se
i loro nomi, come abbiamo accennato, non fossero celebri in tutte le storie
letterarie; e finalmente se molte delle loro meschine opere non fossero state
stampate da poco in qua nella collezione di quattrocento e più volumi, sotto
nome di Classici, pubblicati in Milano.
Dell'epoca famosa de'
Medici abbiamo osservato nel Discorso precedente tutto quello che importa a
conoscere i primi tentativi degli uomini più illustri d'allora a dare leggi
certe e perpetue alla lingua italiana. Scrivevano ne' pontificati, l'uno
vicinissimo all'altro, de' due Medici Leone X, e Clemente VII; e alcuni
sopravvissero a que' due papi. Le lodi esagerate di quel tempo furono
attribuite al secolo decimosesto tutto intero; e quindi tutti gli autori che
gli appartengono, e che, con poche eccezioni, meriterebbero d'essere
disprezzati da lungo tempo, sono sfuggiti alla dimenticanza che sotterrò la
memoria d'uomini molto più degni di loro. Noi non ignoriamo che questa nostra
sentenza sommaria parrà strana a tutti que' nostri lettori, i quali conoscono
que' nomi non tanto per mezzo delle loro opere, quanto degli storici di
letteratura che ne hanno parlato. Ma a niuno può essere ignoto che sì fatti
storici pigliano non solo gli avvenimenti, ma ben anche i giudizj l'uno
dall'altro, e li ripetono con diverse parole; e ne abbiamo esempj
frequentissimi e giornalieri, e specialmente ne' raccoglitori di aneddoti
letterarj. Or sì fatti giudizj sono tutti originati e propagati e perpetuati
dalla vanità nazionale e municipale degli Italiani, dalle dottrine delle loro accademie
e delle loro scuole fratesche, dalla credulità popolare. Queste cagioni
cospirarono a formare una concatenazione lunga, debole ma perpetua di mal certe
testimonianze; e quindi a propagare e stabilire i diritti potenti della
tradizione, alla quale anche gli uomini illuminati sovente sogliono concedere
la venerazione ch'essa ottiene dal volgo. Non già che talor non s'avveggano
della sua assurdità, ma seguendola, si dispensano dalla fatica e da' pericoli
di combatterla; e nel tempo stesso si giovano delle sue favole maravigliose a
riempire volumi di narrazioni che, se non fossero romanzesche e
s'approssimassero alla realtà, riescirebbero non solamente ridicole, ma nojose.
Quelli che interessandosi in questo soggetto si sentissero preoccupati dalla
generale opinione, ma non in guisa che non bramino di appurare la verità, sono
tutti accettati volentieri per giudici. E speriamo di persuaderli che le leggi
peggiori di lingua e di critica che mai potessero idearsi da uomini, la più
misera e ambiziosa povertà ch'abbia mai intristita la letteratura d'un popolo,
e finalmente la colpa de' danni, della servitù letteraria e del vaniloquio
degli scrittori italiani in generale da quel tempo sino a' dì nostri,
appartengono tutti al famoso secolo decimosesto.
Da' fatti osservati fin
qui, da che Dante cominciò a scrivere e il Machiavelli morì, appare
manifestissimo che la lingua italiana nacque e crebbe dalla libertà popolare
delle repubbliche del medio evo. Ma nell'epoca che ora esaminiamo la servitù
dell'Italia cominciò ad aggravarsi senza speranza di redenzione sotto il doppio
giogo della chiesa de' papi, e della dominazione de' forestieri. La tirannide
religiosa e politica portò seco necessariamente i ceppi della letteratura; e
dopo la morte di Clemente VII, avvenuta nel 1534, la storia della lingua
trovavasi a questi termini: –
Che a bene scrivere la
lingua, bisognava imitare i soli scrittori del secolo del Boccaccio; – Che il Decamerone
del Boccaccio contenente le cento novelle era l'unico libro senza umano errore;
era il tesoro d'ogni ricchezza di lingua, d'ogni grazia d'idioma; era il
modello infallibile d'ogni eleganza e d'ogni eloquenza; – Che in questo libro
dovevano unicamente cercarsi tutti gli esempj; e sopra questi esempj dovevano
giustificarsi tutti i precetti, e risalire a' principj generali e certissimi
della grammatica italiana; – Che questo libro essendo stato scritto in Firenze
e da un fiorentino, ed essendo stati fiorentini anche gli altri scrittori
pregevoli del secolo decimoquarto, la lingua non si doveva chiamare italiana,
nè toscana, ma fiorentina; – Che, per conseguenza il giudizio, quanto a' meriti
della lingua d'ogni libro scritto o da scriversi in Italia, apparteneva a'
fiorentini; – Che i fiorentini erano rappresentati da' più dotti de' loro
concittadini; da una compagnia d'uomini chiamata Accademia della Crusca;
– Che questa Accademia era sotto la protezione de' Medici gran duchi di
Toscana; – Che Cosimo I gran duca allora regnante, essendo imparentato con
Quanto abbiamo detto sin
qui può provarsi con autentici documenti e con narrazione di fatti ordinati per
serie di anni; ma vi bisognerebbero limiti meno angusti. Tuttavia, procedendo
storicamente, porremo in evidenza alcuni fatti innegabili e sufficienti, a dare
ragioni del fenomeno letterario che noi, concludendo l'articolo precedente,
abbiamo fatto osservare, e promesso di spiegare a' nostri lettori. –
Alcuni giovani
fiorentini congiuravano contro Ippolito ed Alessandro bastardi de' Medici per
cacciarli dalla loro patria, a fine di costituirla di nuovo in Repubblica.
Palliarono la ragione delle loro adunanze, sotto colore di emendare, con
confronto di manoscritti e con critico studio, il testo delle Novelle del
Boccaccio. La perdita degli autografi sino dall'età dell'autore, e le
scorrezioni e alterazioni incorse nelle edizioni ch'erano uscite sino allora di
quel libro giustificavano la loro intrapresa letteraria, e celavano i loro
disegni politici. Da que' giovani derivò la celebrata edizione del Giunti del
1527, tenuta oggi fra le più rare curiosità de' bibliotecarj, e serbata sino
d'allora come ricordo della Repubblica Fiorentina, perchè quasi tutti que'
giovani i quali v'attesero combattevano contro alla Casa de' Medici, e morirono
nell'assedio di Firenze, o in esilio. Poscia il libro divenne più raro, perchè
stava a rischio di essere mutilato o inibito per amore de' frati. Il Bembo,
mentre era segretario di Leone X, si travagliava molto malvolentieri in cose di
frati, perchè vi trovava sotto molte volte tutte le umane scelleratezze coperte
da diabolica ipocrisia; – e Leone X faceva commedia dell'Abate di Gaeta,
coronandolo d'alloro e di cavoli sopra un elefante. Adriano VI che gli
succedeva era stato claustrale, e i cardinali della sua scuola proposero poco
dopo che i colloquj d'Erasmo, e ogni libro popolare ingiurioso al clero si
proibissero. A Paolo III parve che la minaccia bastasse, nè s'adempì per
allora; ma chi sapeva che il Decamerone, già tradotto in più lingue,
allegavasi dagli antipapisti, s'affrettò a provvedersi dell'edizione
fiorentina, la quale, anche da' dotti che non ne facevano gran caso per
l'emendazione critica, era creduta schietta d'inavvertenze di stampa. Ma neppur
questo era vero.
Ad ogni modo è
un'edizione divenuta tesoro di libreria, ed oggi pagata a prezzi enormi. Caduta
Tuttavia l'Accademia
della Crusca temeva che nelle edizioni fin allora uscite, ed erano quasi
sessanta, l'emendazioni di critici forestieri, così allora chiamavan gli
Italiani, la fama delle novelle del Boccaccio e la purità della lingua fosse
guastata. Patteggiarono dunque di potere, non foss'altro, stamparne una
mutilata in Firenze; e confidavano che l'utilità della loro emendazione grammaticale
sarebbe compenso equivalente allo strazio che il ferro e il fuoco del Santo
Uffizio farebbe de' tratti più comici nelle novelle. Cosimo I, per agevolare il
trattato, deputò a negoziare col maestro del sacro Palazzo in Vaticano alcuni
uomini dotti, uno de' quali era vescovo, e quasi tutti ecclesiastici in
dignità; e fra gli altri Vincenzo Borghini illustratore delle antichità
toscane, e scrittore non pedantesco: ma i nomi degli altri sono men noti alla
storia letteraria d'Italia, che a' fasti consolari, com'ei li chiamavano, delle
loro accademie. Le nuove alterazioni al Decamerone mandate a Roma erano
quasi sempre lodate; ma non bastavano. Il maestro del sacro Palazzo, frate
domenicano e spagnuolo, si aggregò di proprio diritto alla loro adunanza.
Scrivendo le sue opinioni in lingua bastarda, dava consiglio anche in virtù
della sua autorità di grammatico; non però venivano a conclusione. Finalmente
un domenicano italiano e di natura più facile (chiamavasi Eustachio Locatelli,
e morì vescovo in Reggio) vi s'interpose; e per essere stato confessore di Pio
V, impetrò da Gregorio XIII, che il Decamerone non fosse mutilato, se
non in quanto bisognava al buon nome degli ecclesiastici. Così le badesse e le
monache innamorate de' loro ortolani furono mutate in matrone e damigelle; e i
frati impostori di miracoli, in negromanti; e i preti adulteri delle comari, in
soldati; e in virtù di cent'altre trasformazioni e mutilazioni inevitabili,
riuscì agli accademici, dopo quattr'anni di pratiche, di pubblicare in Firenze
il Decamerone illustrato da' loro studj.
Ma Sisto V ordinò che
anche l'edizione approvata dal suo predecessore fosse infamata nell'Indice. Fu
dunque necessario aver ricorso a nuove storpiature ed interpolazioni; e quindi
sopra sì fatti testi gli accademici della Crusca minuzzarono ogni parola e ogni
sillaba delle novelle, magnificarono ogni minuzia, e la descrissero sotto nomi
di ricchezze, proprietà, grazie, eleganze, figure, leggi, e principj di lingua.
Non però poteva venire mai fatto a veruno di conciliare tanta infinità di
precetti con un metodo, che ne agevolasse la pratica. Le dottrine e le regole e
le applicazioni di esse cozzavano fra loro nelle pagine e nella mente di chi le
dettava. Tanto più dunque le dispute fra' diversi grammatici intricandosi le
une su le altre crescevano atroci, oziose, lunghissime, ed occuparono tutti i
cent'anni del secolo XVI.
E allora, – mentre
l'ozio della servitù intiepidiva le passioni, l'educazione commessa a' Gesuiti
sfibrava gl'ingegni; i letterati divenivano arredi di corti spesso straniere;
le università erano pasciute da' re, e l'Inquisizione le udiva – l'Accademia
della Crusca incominciò a insignorirsi della letteratura italiana, e adottare
le Novelle del Boccaccio per unico testo regolatore d'ogni dizionario e
grammatica, e d'ogni teoria filosofica intorno alla lingua. Era dunque il Decamerone,
anche per politica necessità, predicato da' letterati come unico regolatore
della lingua scritta in prosa. Per cancellare ogni memoria di libertà, Cosimo I
soppresse tutte le accademie istituite in Toscana quando le città si reggevano
a repubbliche, e venne a dilatare la giurisdizione della fiorentina, ch'ei
disprezzava. Compiacevasi di vederla sgrammaticare a bell'agio, e udirsi
paragonare a Cosimo padre della patria: nè da questo in fuori fece verun favore
alle lettere. Teneva a' suoi stipendj uno o due scrittori di storie della Casa
de' Medici; faceva raccogliere da per tutto le copie delle altre scritte con
meno adulazione, e le ardeva.
Pur nondimeno gli
scrittori, appunto in quel secolo, quanto più si dipartivano dallo stile del Decamerone,
tanto più rendevano i loro libri meno indegni della cura de' posteri. Il
Vasari, fra gli altri, scrivendo le vite degli architetti, pittori e scultori
d'Italia, lasciò un tesoro di critica sulle belle arti, e di aneddoti su'
caratteri de' grandi artisti suoi contemporanei, e insieme un inesauribile
deposito di maniere di belle dizioni. Nè la tirannide universale potè imporre
silenzio alla storia politica ed ecclesiastica. Il Guicciardini compose la
storia d'Europa[49]
da uomo di stato, in guisa da tracciare le origini ed il progresso del diritto
delle genti che prevalse subito dopo la fine della lunga barbarie del medio
evo. La sua lingua peraltro è pomposa, misteriosa e artificiale per voler
troppo magnificare ogni cosa, e arieggiare la maestà degli storici latini.
Benedetto Varchi suo concittadino e contemporaneo andò all'altro estremo, e
scrisse la storia fiorentina minutissimamente, così che, per narrare gli
avvenimenti di sette anni, occupò forse più pagine che non altri a narrare la
storia della Repubblica Romana da Romolo a Giulio Cesare. E il Varchi alla
minuzia de' fatti aggiunge una superfluità di parole che non può essere
concepita, se non da chi ha la pazienza di leggerlo; e non v'è vocabolo
signorile o triviale di cui egli non si studi di giovarsi alla rinfusa. Il buon
uomo era stipendiato a scrivere dal gran duca Cosimo; ma non si potè tenere di
dire male de' papi: e la sua storia non fu pubblicata se non assai tardi, e
tronca delle ultime pagine, che poi in altre edizioni fatte alla macchia furono
aggiunte. Non molto dopo il Guicciardini e prima del Varchi, Bernardo Segni
vivea storico ignoto, e più veritiero. Era nominato a' suoi tempi fra' tanti
altri traduttori e chiosatori d'Aristotile; ma nacque, crebbe, e fu educato
repubblicano di parte, e narrò la storia della servitù; e forse, per non porre
a pericolo i suoi figliuoli, ei morendo non disse dove aveva riposto il suo
manoscritto. Ritrovato poi a caso, guasto dal tempo, fu donato a uno de'
principi Medici, a' quali giovava di risotterrarlo; e non fu veduto dal mondo
che dopo quasi due secoli, e con fresche lacune; non così per amore degli
antichi signori di Firenze, de' quali la razza allora spegnevasi, come per
riverenza alla memoria de' papi. Tuttavia, mutilata com'è, e benchè letta da
pochi, la storia del Segni, dopo quella del Machiavelli. avanza in naturalezza
e sobrietà il Guicciardini. Ma e le storie e i poemi di quell'età, ch'oggi
s'hanno per depositarj di lingua, erano allora tenuti presso che barbari e
indegni di essere nominati con «le cento immortalate novelle.» Anche il Berni e
l'Ariosto erano allora più ricercati da' lettori, che stimati da' critici; e il
Poliziano, come scrittore italiano, non era citato che raramente, e piuttosto
con biasimo che con lode.
Vero è che non prima sì
fatte leggi cominciano a moltiplicarsi ed acquistare autorità potentissima,
bastano a darti indizio che un popolo dallo stato libero passa sotto il potere
assoluto.
La colpa apposta agli
Italiani che, scrivendo una lingua morta, ritardarono i progressi della nuova è
giustissima; ma non è giustamente applicata. Noi crediamo di avere nell'epoca
precedente applicata con sufficiente severità la censura a que' che veramente
la meritavano; ma abbiamo anche veduto che la dittatura de' grammatici italiani
s'arrogava di concedere celebrità a quegli uomini, che poscia il consenso di
molte generazioni ha destinati a perpetua dimenticanza, e di negarla a quegli
che hanno il merito di offrire a' posteri modelli permanenti di stile e di
lingua, e indipendenti dalle scuole e da' capricci dell'uso. Fra questi è il
Machiavelli, ma gli Accademici fiorentini deridevano chi lo lodava. Non è
dunque meraviglia se gli uomini più dotati di sapere e d'ingegno continuarono a
scrivere in latino, e si rimasero quasi a comporre una aristocrazia destinata ad
amministrare i tesori della mente umana a pochissimi. Alcuni professori delle
università, e specialmente quando Clemente VII coronò Carlo V a Bologna,
perorarono perchè alla lingua italiana fosse inibito di parlare ne' libri –
quasi che i decreti d'imperadori e di papi bastassero. L'avviso fu poi
suggerito contro la lingua francese al cardinale Mazzarino, o fatto suggerire
da esso, affinchè la dottrina della cieca obbedienza si perpetuasse sovra la
razza europea. I begl'ingegni, invece di ragioni opposero epigrammi, e fecero
da savj; perchè niuno si è più attentato di riparlarne. Ma Napoleone, mentre
affrettavasi a quella sublimità che al parer suo precipita gli uomini nel
ridicolo, impose che i professori leggessero nelle Università d'Italia in
latino. Se non che le lingue non cedono nè prevalgono, se non per leggi
invariabili della natura e del tempo, che le vanno procreando l'una dall'altra.
Sogliono bensì prosperare nella libertà, ed intristirsi nella servitù. Le loro
più dure catene sono procurate per via di leggi grammaticali. Invece gli autori
romani somministravano molto maggiore e nobilissimo numero d'esemplari allo
stile. La loro lingua governata da leggi assolute ed evidentissime aveva per
giudice tutta l'Europa, mentre la fama d'ogni scrittore italiano pendeva dalla
sentenza di gloriosi pedanti, i quali giudicavano raffrontano ogni nuovo libro.
Infatti le nobili opere
che sopravvissero alle altre mille di quell'età sono dettate in latino. Il
Sigonio nelle sue storie, percorrendo lo spazio di venti secoli dalla epoca de'
primi consoli di Roma sino alle repubbliche italiane, fu primo a traversare la
solitudine tenebrosa del medio evo. Diresti che un genio illumini tutto il suo
corso; e trasfonda abbondanza, splendore e vigore alla sua latinità. Nondimeno
le poche cose che gli vennero scritte in lingua italiana sono volgarissime e
barbare. Vedeva che ad impararla gli bisognava perdere molta parte della sua
mente ne' laberinti delle nuove grammatiche; ond'esortò i suoi concittadini,
che se avevano cura della posterità, le parlassero solamente in latino. Il che
non s'ha da imputare a freddezza di carità per la patria, quando, a volere
descrivere in italiano le trasformazioni universali del Romano Impero, quel
grand'uomo sarebbe stato ridotto ad andare accattando i vocaboli, e l'orditura
d'ogni sua frase nelle Novelle. Altri, a modellare i loro pensieri con dignità,
scrivevano da prima le storie recenti della lor patria in latino, e le
traducevano in italiano da sè; e concorrevano ad arricchire la lingua letteraria.
Così la lingua che sola
può dar progresso alla letteratura, impedivala. E nondimeno la letteratura era
allora da tutti i precedenti secoli e dalle nuove rivoluzioni del mondo versata
sovra l'Italia a torrenti. Tutta la poesia, l'eloquenza, la storia e la
filosofia de' Romani e de' Greci rivissero quasi di subito con la invenzione
della stampa. Gli annali della terra, e i nuovi costumi del genere umano
scoperti con l'America eccitavano la curiosità degli ingegni. I mari d'allora
in poi incominciarono ad arricchire altri popoli: l'opulenza che avevano
portato alle città italiane, non potendosi più ornai applicare al commercio,
compiacque al lusso e alle belle arti. I palazzi arredati di monumenti e di
biblioteche educarono antiquarj e scrittori d'erudizione, e crescevano la
supellettile letteraria. Accrescevala anche la servitù in che declinarono le
città libere, dacchè i nuovi signori, costringendo gli uomini generosi al
silenzio, stipendiavano lodatori; nè vi fu secolo nel quale l'adulazione sia
stata bramata con tanta libidine, o sì sfacciatamente professata ne' libri. Le
controversie inerenti agli oracoli della Bibbia erano allora fierissime,
universali. E quanto l'Europa in questa età sua decrepita ciarla di
speculazioni politiche, tanto allora farneticava di religione: se non che le
condizioni de' regni e gl'interessi de' principi, e più assai degl'Italiani,
non pendeano, come oggi, da pubblicani che di carta fanno danaro a nudrire
soldati, bensì da dottori che di teologia facevano ragioni a sommovere popoli;
e perchè quelli studj fruttavano ecclesiastiche dignità, produssero una
moltitudine di uomini letterati. Ma le turbe de' mediocri opprimevano i
pochissimi grandi. L'eloquenza era arte ambiziosa nelle Università; la troppa
dottrina snervava l'immaginazione; e la sentenza intorno alla quale s'aggira
tutta la poetica d'Aristotile – «Che l'uomo è animale imitatore» – quantunque
variamente chiosata da molti, era superstiziosamente inculcata e obbedita in
questo da tutti: – «Doversi imitare, non la natura, ma gli imitatori della
natura.» – Però le lettere, giovando alle arti, a' governi, alla Chiesa, e alle
scuole, non esaltavano le passioni, non illuminavano la verità nelle menti, non
ampliavano i confini dell'arte; mortificavano le originalità degli ingegni. E
per la nazione non v'era lingua, perchè lo scrivere e intendere la latina era
meritamente privilegio de' dotti; e l'italiana, comecchè men parlata che intesa
da tutti, rimanevasi patrimonio di grammatici, che disputavano fin anche
intorno al suo nome.
La predizione di Dante
pur si avverava, volere e non volere, a ogni modo. Il dialetto fiorentino
rifiutava di lasciarsi scrivere, se non era confuso dall'ingegno degli autori
nella materia generale della lingua letteraria, e rimodellato con forme
diverse. Bernardo Davanzati si provò di negarlo col fatto, e professò di avere
tradotto in volgare fiorentino gli Annali, e
Frattanto, i due primi
libri che Dante innanzi la sua morte potè finire del suo Trattato su questo
argomento furono disotterrati e pubblicati. Da prima la loro autenticità fu
negata, e l'originale che l'autore scrisse in latino, e tutta la traduzione che
ne fu pubblicata furono dichiarate imposture. Quando finalmente, dopo una serie
di prove innegabili e di dispute protratte per lunghissimi anni, niuno potè
contendere la genuina origine di quel libretto, alcuni negarono la verità della
dottrina, altri professarono che non potevano intendere come una lingua potesse
scriversi e non parlarsi; e intanto non potevano mai parlare come scrivevano.
Altri finalmente, e ne sono parecchi anche a' di nostri, si stanno in dubbio
come i buoni fedeli che non sanno come riconciliare i dogmi della Santa Chiesa
su la immobilità della terra con le matematiche dimostrazioni del suo giro
diurno ed annuo intorno al Sole: così, dovendo credere a un tempo a' teologi ed
a' filosofi, non sanno cosa si fare.
Or la costituzione
letteraria della lingua italiana somiglia per l'appunto alla Costituzione
dell'Inghilterra. Non è conosciuta, nè può farsi conoscere distintamente per legge
scritta, ma ognuno ne vede le deviazioni. Dipende da esempj precedenti
innumerabili, molti de' quali sono obliterati nell'uso, ma mantenuti ne'
ricordi, perchè servono alla storia e alle analogie della costituzione; molti
altri non sono richiamati in uso se non in certe urgenti occasioni, ma non mai
senza le forme prescritte; finalmente, molti sono vigenti perpetuamente. Pur
nondimeno, non solo i primi e i secondi, ma anche questi ultimi non sono ben
conosciuti da tutti, e pochissimi possono ben applicarli. Così un nuovo membro
del Parlamento, per quanto dotto ei siasi delle leggi e della storia della sua
patria, deve sempre soggiacere alla sentenza de' più pratici, a' quali il lungo
uso solo insegnò come interpretare ed applicare i principj costituzionali dello
Stato.
Or mentre disputavano
senza intendersi, e le liti inferocivano con rabbia municipale, gli Accademici
della Crusca s'allontanarono da' principj di Dante in guisa, che, mentre quel
grand'uomo voleva la lingua letteraria appartenesse alla nazione e non a
dialetto veruno, gli Accademici scrissero volumi a provare che tutta la lingua
consisteva nel dialetto fiorentino scritto nel secolo XIV. Niuna perseveranza
potrebbe mai giungere a snodare i gruppi di regole e regoluccie che intricarono
le une su le altre nelle loro grammatiche; l'umana ragione non potrebbe mai
intenderle, nè l'immaginazione mai concepirle. Così ogni frase, ogni parola,
ogni accento di quella loro lingua furono giustificate con la sottigliezza de'
legisti, e de' teologi casuisti, e si convertirono in altrettanti precetti di
lingua e di stile. Le eccezioni alle regole furono anch'esse ridotte a ragioni,
e sotto regole minutissime; e per insegnare a imitar cose che non vogliono
accomodarsi nè a ragioni, nè a leggi, nè ad imitazione. L'unico loro principio
invariabilmente enunziato, ma assurdo in sè stesso, e non applicabile mai,
consisteva – «Che quanto più uno scrittore si diparte dagli autori del secolo
XIV, tanto più scrive male.» – Quindi una lingua viva e crescente diventava morta,
e gli uomini viventi e futuri dovevano concepire ogni idea, nominare ogni cosa,
adoperare ogni vocabolo e frase, nè più nè meno, come gli uomini di generazioni
sepolte da lunghissimo tempo.
Questo principio e i
loro volumi di osservazioni sopra il Decamerone del Boccaccio furono
quasi preparazione evangelica al Vocabolario della Crusca, e fondarono tutti i
dogmi dell'Accademia. Vero è che poscia questa s'avvide talora degli errori che
ne risultarono, e s'è studiata di ripararli. Ma perseverò a mantenere
l'infallibilità, e l'applicazione delle dottrine; affettò la vigilanza del
Santo Uffizio; e s'aiutò fin anche di magistrati e predicatori contro un
letterato sanese che rinnegò le sue leggi[50]. Da prima, a declinare
l'invidia delle città toscane, gli Accademici tennero tre anni di consulte
intorno al titolo del Vocabolario, e decretarono che si chiamasse della lingua
toscana. Poscia, affinchè tutto l'onore si rimanesse ne' Fiorentini,
v'aggiunsero: cavato dagli scrittori e uso della città di Firenze. Finalmente
con politico temperamento lo nominarono: Vocabolario dell'Accademia della
Crusca, senz'altro. Così fu stampato; e la prima volta senz'altre voci, se non
se del Decamerone e di pochi scrittori contemporanei del Boccaccio; e
comecchè sia stato poscia allargato con esempj da' secoli seguenti, rimane pur
sempre Vocabolario di dialetto, ma non di lingua. Senzachè il nome d'italiana
ostinatamente negato da quella Accademia alla lingua perpetuò le guerre civili
di penna che mai non vennero a tregua; e bastasse: ma talvolta i nobili ingegni
hanno parteggiato contro a nobili ingegni. Il Machiavelli su' primi giorni
della contesa rideva dell'Ariosto, che non poteva sormontare la difficoltà di
mantenere il decoro di quella lingua ch'egli accattava. E il Galileo, quando
l'animosità de' grammatici inferocì, s'avventò contro al Tasso. E non pertanto
sono dessi i quattro scrittori, che non per la vanità nazionale degl'Italiani,
o per vanità di erudizione de' forestieri, ma per la divinità del loro genio,
si meritarono la gratitudine di noi tutti; e soli a nostro credere, certo i
soli indegni della compagnia di mille esaltati dalle tradizioni di quel secolo
millantatore. Or tutti sanno quanto il Salviati congiurò con alcuni grammatici
ad aggravare le lunghe sciagure del Tasso, e la sua tendenza alla manìa, con la
quale la natura fa scontare ad alcuni mortali i doni, non so quanto
desiderabili, dell'ingegno. Cinquant'anni e più dopo, le opere e il nome
dell'Autore della Gerusalemme fu citato nel Vocabolario della Crusca; ma
fu tarda espiazione e forzata. Nè i Fiorentini dovrebbero gloriarsene; da che
non fu per loro proprio rimorso o ravvedimento, bensì per comando del gran duca
Leopoldo, pregatone istantemente da un Cardinale[51]. Così anche un atto di
giustizia alla memoria di un uomo grande, generoso, infelice e iniquamente
perseguitato fu per l'Accademia della Crusca un atto di vilissima servitù. Non
però cessavano le vergognosissime liti intorno al nome della lingua. Durano
tuttavia con quelle animosità provinciali, che sino dalle età barbare hanno
conteso a quel popolo sciagurato di riunirsi in nazione; e le animosità sono
esacerbate insieme e santificate da quegli uomini letterati, i quali negano
all'Italia fin anche il diritto di possedere una lingua comune a tutte le sue
città.
Fine
[1] Qui il Foscolo ha preso un abbaglio, e sembra che se ne fosse accorto, giacchè nel margine della citata prova di stampa, di contro a questi versi scrisse di suo pugno: qui, chiamatemi. Difatti in Omero questo tratto non appella ad Achille, ma a Diomede (vedi il lib. V dell'Iliade, sul principio). È vero bensì che ancora Achille, quando si mostra presso la fossa degli accampamenti a rincorare i Greci fuggenti da' Trojani dopo la uccisione di Patroclo, manda fiamme e lampi forse più terribilmente del Tidide. (Iliade, libro XVIII) - (F. S. O.)
[2] Cento novelle antiche.
[3] Paradiso, canto IX.
[4] Trionfo d'Amore, cap. IV.
[5] Non si dimentichi che l'Autore scriveva ciò in Inghilterra. - (F. S. O.)
[6] Si primas, si secundarias, si subsecundarias vulgaris Italiae variationes calcolare velimus, in hoc minimo mundi angulo, non solum ad millenam loquelae variationem venire contigerit, sed etiam ad magis ultra. - De Vulg. Eloq. c. 8.
[7] Nam videtur sicilianum volgare sibi famam prae aliis asciscere, eo quod quidquid poetantur Itali sicilianum vocatur. - Dante, De Vulg. Eloq. cap. XII.
[8] Ciullo d'Alcamo. - (F. S. O.)
Plas my cavallier Francès
E la donna Catalana,
E l'onrar del Ginoès
E la court de Castellana;
Lou cantar Provensalès
E la dansa Trivisana,
E lou corps Aragonnès
E la perla Julliana;
La mans e kara d'Anglès
E lou donzel de Thuscana.
Così cantava in Torino il buon Barbarossa, dopo aver spianato Milano. Forse non avrebbe avuto estro sì gaio dopo il 29 maggio 1176. - (F. S. O.)
[10] Gaufridi (De vino salvo) Poetria nova apud Leiser. Pag. 856.
[11] Arrigo da Settimello nel poema intitolato: De diversitate Fortunae et Philosophiae consolatione. Vedi Tiraboschi, Storia della Letteratura Italiana, lib. III. - (F. S. O.)
[12] Apud Mehus, Vita Ambros. Camald., pag. 156, dov'è citata un'edizione del 1474.
[13] Gibbon, Storia della Decadenza dell'Impero Romano, pagina 59.
[14] Tiraboschi, Storia della Letteratura Italiana, vol. V.
[15] Petri de Vineis epist. 38; apud Martene, Veter. Scriptorum vol. 2.
[16] V. De Monnoye, Dissertation printed With the Menagiana.
[17] Muratori, Ann. 1229, 1245.
[18] Volesse Dio che queste parole, quasi uscenti dal sepolcro dell'illustre amico, potessero giungere alle orecchie di Giovan Battista Niccolini, e avessero tanta forza da indurlo finalmente a pubblicare la sua Storia della Casa di Svevia! Sarebbe un conforto alla misera Italia in tante sventure. - (F. S. O.)
[19] È più conosciuto sotto il nome di Fra Guidone o Guittone. Fu dell'Ordine de' Cavalieri di Santa Maria, detto de' Gaudenti; istituzione d'infame memoria, perchè diretta all'esterminio degli Albigesi. - (F. S. O.)
[20] A comment on the Divine Comedy; London, 1822, vol. I, pagine 97-100.
[21] Vita Nuova, fra le opere di Dante vol. V, pagine 6-9; edizione Zatta, Venezia, 1760.
[22] D'Israely, Curiosities of literature, vol. VI, pag. 291. - Ed ecco la traduzione italiana di questo tratto: «Il tenero Sonetto esente da ogni oscurità, il quale egli compose per Beatrice, ci è stato conservato. Circa al fatto di Beatrice non può cadere alcun dubbio, ma il Sonetto e la passione debbono essere classati nel novero de' curiosi fenomeni naturali.»
[23] Loco cit., pag. 64.
[24] Rime di Guido Cavalcanti, ecc., per opera di Antonio Cicciaporci; Firenze, 1813.
[25] Leonardo Bruni, Vita di Dante.
[26] Dino Compagni, Cronica, lib. I, pag. 19, ediz. 1728.
[27] Boccaccio, Decamerone, Giornata IV, Novella IX. - Dante, Inferno, canto X.
[28] Boccaccio, Prose e Commento a Dante, pag. 335, edizione 1723.
[29] Presso Apostolo Zeno, Note al Fontanini, vol. II, pag. 3; e il Cicciaporci, vedi il luogo estratto dell'elogio di Guido scritto da Lorenzo de' Medici.
[30] Dante, Opere, vol. V, pag. 67; edizione Zatta.
[31] Inferno, canto XXXII.
[32] Avvertimenti su la lingua, vol. I, pag. 244; edizione milanese.
[33] Ivi, vol. I, pag. 245.
[34] Ginguené, Hist, Litt. d'Italie, t. III, pag. 87 e sg.
[35] Introduzione.
[36] Tucidide, lib. II, 48 ult.
[37] Fiammetta, lib. IV.
[38] Salviati, Su la lingua del Decamerone, vol. I, pag. 249; edizione milanese.
[39] Badajuolo non è nel vocabolario; forse da bajulus, facchino.
[40] Presso il Manni, Illustrat., pag. 421.
[41] Varchi, Stor. Fior., lib. XV, an. 1536.
[42] Ovidio, Heroid., epist. 19.
[43] Colutius Salutatus, Epist. ad Bocc.
[44] Ciceronianus.
[45] Leonardo Aretino, Vita del Petrarca, in fine.
[46] Benvenutus Imolensis apud Muratorium, Script. Rer. Ital.
[47] Fuligattus, in Vita Bellarmini.
[48] Discorso primo, sulla fine (pag. 278).
[49] Così chiaramente leggono l'autografo e una copia dell'amanuense. Sembrerebbe a prima giunta che dovesse dire Italia, anzichè Europa. – (F. S. O.)
[50] Girolamo Gigli.
[51] Così legge chiaramente la
copia dell'amanuense corretta dal Foscolo, ma certo con errore manifesto. La
persecuzione letteraria contro il Tasso fu soltanto del Salviati e di
pochissimi altri Accademici. La maggior parte di essi se ne astenne affatto, ed
onorò il gran Poeta quando venne a Firenze; di che fa ampia fede il Serassi.
Inoltre le opere del Tasso, come