Saggi sul Petrarca

Ugo Foscolo

 

Saggio 1

Sopra l'amore del Petrarca

Saggio 2

Sopra la poesia del Petrarca

Saggio 3

Sopra il carattere del Petrarca

Saggio 4

Parallelo fra Dante e Petrarca

 

Edizione di riferimento

Opere di Ugo Foscolo, a cura di Mario Puppo, Ugo Mursia editore, III ediz. Milano 1966 - da pag. 827: Saggi sul Petrarca pubblicati in inglese da Ugo Foscolo e tradotti in italiano tradotti da Camillo Ugoni (Lugano 1824).

Viene riportato il testo riveduto da C. Foligno per il vol. X dell'E. N.: Saggi e discorsi critici, saggi sul Petrarca, Discorso sul testo del Decameron, Scritti minori su poeti italiani e stranieri (1821-1826), edizione critica a c. di C. Foligno, Firenze, Le Monnier 1953.

Irrequietus homo perque omnes anxius annos

Ad mortem festinat iter: mors optima rerum.

PETRARCA, Africa, lib. VI.

alla onorevole

BARBARINA LADY DACRE

South Bank, Regent’s Park,

Gennajo 1823.

Signora,

Così la gratitudine mia, o Signora, come l’opinione di que’ ragguardevoli letterati, il cui gentile ajuto, vinto solo da’ vostri, mi fece atto a presentare i miei Saggi all’inglese leggitore, m’incuorano a intitolarli al nome di vostra Signoria. A una voce e animata da nazionale orgoglio essi proclamano, che i vostri versi serbarono gli spiriti medesimi del Petrarca con tal fedeltà, da sperarsi appena, e certo non conseguita da verun’altra versione. Ciascuno poi di quanti contribuirono a questo volume, rassegnando la parte sua alla riconoscenza, spera che l’offerta ne potrà venire accettata da voi sola.

Ho l’onor d’essere,

Signora,

Vostro grato e devoto servitore

Ugo Foscolo.

SAGGIO

SOPRA L’AMORE DEL PETRARCA

Fu forse un tempo dolce cosa amore,

Non perch’io sappia il quando.

Petrarca, p. II, son. 72.

I. Benchè il Petrarca siasi studiato di ricoprire d’un bel velo la figura di Amore, che greci e romani poeti ebbero vaghezza di rappresentar nudo; questo velo è sì trasparente, che lascia tuttavia scernere le stesse forme. La distinzione ideale tra i due Amori derivò primamente dalle differenti cerimonie con cui gli antichi prestavano culto alla Venere Celeste, che presedeva a’ casti amori delle zittelle e delle maritate, ed alla Venere Terrestre, riconosciuta divinità tutelare delle galanterie delle donne più in voga a que’ tempi. Malgrado le mistiche e politiche allegorie che l’antica metafisica e la moderna erudizione fabbricarono sopra questi due nomi, la popolare distinzione è costantemente avvalorata da’ poeti, allorchè descrivono i costumi de’ loro tempi e il culto delle due dive [1]. Mentre virtuose donne vivevano in sì stretto ritiro da non comparir mai a’ banchetti, e occupavano stanze appartate da quelle degli uomini; artisti, poeti, filosofi, magistrati, sacerdoti e tutto il bel mondo teneva le sue adunanze nelle case di donne che facevano aperto traffico delle bellezze loro, e prestavano le loro persone a modello delle statue, delle quali i templi della Grecia venivano adornandosi. Ognuno sa come Aspasia, che governò Pericle ed educò Alcibiade, fosse sacerdotessa della Venere Terrestre. Queste donne seppero far tanto da porsi esse pure sotto il patrocinio della Venere Celeste, col propagare la credenza che fossero di un solo amante, e che i sentimenti da esse inspirati a tutti gli altri fossero virtuosi; e tornò in politico acconcio de’ loro stessi ammiratori il diffondere accortamente sì fatta opinione fra il popolo. Platone pose in bocca di Socrate ogni sottigliezza di raziocinii, a provare la possibilità di essere devoti a donna galante senza bramarne i favori [2].

II. Possiamo nondimeno con probabilità tenere per apocrifo quanto Platone fa dire al suo maestro, ovunque le cose stesse non sieno confermate da Senofonte. Ciascuno di questi due grandi scrittori, la cui rivalità giugne presso alla nimicizia, compose un trattato col titolo di Banchetto, in cui Socrate è fatto parlare d’Amore. Quindi gli è certo che la nuova applicazione alla distinzione antica fra le due dive ebbe origine da Socrate. Ma, nel Banchetto di Senofonte, lo scopo non è d’ingannare gli Ateniesi rispetto alla natura di quelle conversazioni che i loro grandi uomini tenevano colle Aspasie de’ loro tempi. Il discorso di Socrate mira a far ravvedere e vergognare coloro fra’ suoi concittadini, i quali furono ammiratori soverchio passionati della bellezza in entrambi i sessi. «La bellezza (egli dice) è rischiarata da una luce che mi guida ed invita a contemplare l’anima che abita una tal forma; e se l’anima è tanto bella quanto il corpo, è impossibile non amarla. Ma non si può dare bellezza d’anima senza purità, e la purità di chi più caramente amo fa me pure uomo buono. Però, siccome l’oggetto della tua tenerezza ti si fa più caro a misura che vai discoprendo in esso nuove doti, e siccome ti è grato vedere che anche da altri s’ammiri, così t’importa di conservarlo mondo d’ogni macchia. Col corrompere la morale tu deformi ed avvilisci l’anima, di cui vorresti sublimare la perfezione; e questa deformità traspira pur anche nell’aspetto. Non affermerò io già che vi sieno realmente due Veneri; ma, poichè veggo esservi templi sacri alla Celeste, ed altri alla Terrestre Venere, e sacrificarsi entro i primi con cerimonie più scrupolose e con vittime più pure, presumo che le due dive sussistano almeno negli effetti loro. La Venere volgare infiamma le passioni verso il corpo; la celeste Venere ispira amore verso l’anima, e trae ad onesti vincoli e ad opere virtuose[3]

III. Pare che l’immaginativa di Platone si giovasse di tali esortazioni per esaltare e sostenere un’ingegnosa teorica dell’Amore; e basterà qui riferirne quella parte che forma la macchina della poesia del Petrarca: — «Le anime nostre emanano da Dio, e a lui ritornano di bel nuovo. Preesistono a’ nostri corpi in altri mondi. Le più tenere e belle abitano Venere, lucentissimo e purissimo de’ pianeti, chiamato il terzo cielo. Sono più o meno perfette, e le più perfette amano quelle che sono parimente più perfette. Predestinata e immutabile simpatia le appaia: come che non partecipino delle sensuali perturbazioni del corpo, sono tuttavia costrette a seguirlo ciecamente, tratte da fatalità o da caso per la procreazione della specie. Arde ogni anima il desiderio della sua compagna; e se avvenga che peregrinando sopra la terra s’incontrino, l’amore in esse si fa tanto più ardente, quanto la materia in cui son chiuse ne impedisce la riunione. In casi tali, i piaceri, gli affanni e le estasi reciproche sono inesprimibili: ciascuna si sforza di farsi conoscere all’altra; celeste luce avvampa negli occhi, da tutta la persona balena immortale bellezza; il cuore si sente meno inclinato alla terra; e mutuamente si vanno incitando alla esaltazione e purificazione della loro virtù. E quanto si amano l’una l’altra, tanto si levano a Dio principio fontale di tutte; e quanto sentono le pene dell’esilio sopra la terra e la prigionia nella materia, tanto bramano di svincolarsene, affine di potersi congiugnere eternamente in cielo.» — Ora, dacchè l’intero sistema è fondato nella ipotesi: «che ogni anima ha predestinata simpatia con un’altra unicamente;» - e dacchè ogni persona immagina «che l’ente a cui ella è congiunta sia il perfettissimo,» ne segue «che ogni platonico amadore dovrebbe sforzarsi perpetuamente di raggiungere il più alto grado di perfezione morale.»

IV. Tali opinioni vennero in Italia per mezzo degli antichi Padri della Chiesa; ed alcuni teologi, fra cui Giovanni da Fabriano morto l’anno stesso che morì Laura, scrissero trattati onde conciliare la dottrina di Platone colla Bibbia [4]. I frati le rivolsero in loro pro, e, citando l’esempio di celebri poeti, predicarono che le anime delle donne trapassate si sarebbero più prontamente accolte in cielo, suffragate dalle limosine e preghiere de’ loro amanti. «Ma pur messer Francesco Petrarca, che è oggi vivo,» dice un predicatore domenicano, «hebe un’amante spirituale apelata Laura: poi che ella morì, gl’è stato più fedele che mai, et àli data tanta fama, che l’à sempre nominata, et non morirà mai. Et questo è quanto al corpo; po’ li ha facto tante limosine, et fatte dire tante messe et orationi con tanta divotione, che s’ella fosse stata la più cattiva femina del mondo, l’avrebbe tratta dalle mani del Diavolo, benchè se raxona che morì pure santa» [5]. Così la filosofia e la religione cospirano cogli usi cavallereschi di que’ tempi a lusingare e ad abbellire la più irresistibile di tutte le umane propensioni. La facilità nel cedere all’amore si aveva per l’indizio più aperto di mente benevola: la costanza, il disinteresse e la sommessione al sesso gentile furono i più sicuri pegni di valor militare e di eroismo: bella poesia provava, non già il genio del poeta, bensì la forza della passione che lo inspirava. Beltà, grado, virtù domestiche non avevano merito, se non celebrate dall’adorazione di un amante, e dalla passione di un poeta. A’ tempi del Petrarca, Agnese di Navarra, contessa di Foix, scrisse alcuni versi d’amore a Guglielmo di Machaut, poeta francese: egli divenne geloso, ed ella gli mandò il proprio confessore dolendosi degl’ingiusti sospetti, e giurando ch’eragli tuttora fedele. Richiese pure all’amante di scrivere e pubblicare in versi la storia dell’amor loro; e conservò nel tempo stesso agli occhi del marito e del mondo fama di virtuosa principessa [6]. La riputazione, e forse la virtù, del bel sesso venivano protette dalle Corti d’Amore, che per due secoli furono tenute in tutta Francia. Queste corti erano le scuole insieme e i tribunali ove si decretavano premii a’ migliori poeti e a’ più fedeli amanti, ove problemi di galanteria venivano sciolti, ove si formavano processi e si condannavano individui. Colà le donne facevano ufficio di giudici, nè davasi appello da esse. Ma per ridevoli che ci riescano somiglianti instituti, la vanità e la moda fecero cercare e temere questi tribunali preseduti talvolta da principesse; nè concedevasi a’ mariti di dare innanzi ad essi querela della indifferenza della propria moglie. La contessa di Champagne, figliuola di Luigi il giovane, sentenziò nel suo tribunale che: En amour tout est grace; et dans le mariage tout est nécessité; par conséquent l’amour ne peut pas exister entro gens mariés. La Regina, cui fu portato appello da tale sentenza, rispose: A Dieu ne plaise que nous soyons assez osée pour contredire les arréts de la comtesse de Champagne [7].

V. Nel cuore della Francia, nella città ove tali costumi e istituti erano popolari; in tempo che i Jeux Floraux cominciavano a celebrarsi in onore de’ poeti inspirati da amore; con mente tutta intesa alle speculazioni dall’antica filosofia diffuse largamente, dalla poesia d’Italia già adornate e dalla religione santificate; con disposizione virtuosa bensì, ma irrequieta e ansiosa di fama; con immaginazione che errava in traccia d’una felicità sicura dalla incostanza della fortuna, il Petrarca in età di 23 anni innamorò di Laura, che aveva allora appena compiuti i diciannove. Scontratosi negli occhi di lei la prima volta in una chiesa, la seguì per via pur pieno dell’inusata raggiante beltà che lo colpì, e contemplandone da lungi la grazia del portamento e i capegli cadenti in ampia profusione di ricci:

Erano i capei d’oro a l’aura sparsi,

Che’n mille dolci nodi gli avvolgea;

E ’l vago lume oltra misura ardea

Di que’ begli occhi. —

Non era l’andar suo cosa mortale,

Ma d’angelica forma.

Poeti, antiquarii, viaggiatori d’ogni nazione, e fra essi l’arcivescovo Beccadelli coi cardinali Sadoleto e Polo, questi legato allora della provincia, cercarono Il paese per ogni lato, ma non trovarono chi fosse Laura, o se mai fosse. Frattanto innumerevoli scrittori pubblicarono, ognuno a sua posta, relazioni intorno al Petrarca ed a Laura; e benchè spacciassero fole da romanzi sotto colore di storia, si trassero dietro la comune de’ leggitori. L’abate De Sade, verso l’anno 1760, nell’esaminare gli archivi di sua famiglia in Avignone, recò in luce alcuni vecchi testamenti e contratti, che, avvalorati da molte allusioni nelle diverse opere del Petrarca, condussero alla conclusione, ammessa innegabile pur da’ suoi  oppositori italiani, [8] «Che Laura figliuola fu di Audiberto di Noves, e maritata nel diciottesimo anno ad Ugo de Sade; e che, circa due anni dopo, il Petrarca la conobbe.» Coloro cui sta sempre a cuore di salvare il poeta dalla nota di aver sospirato per la moglie altrui, ricusano l’autorità di documenti; anzi un critico scozzese [9] contende che un’abbreviazione trovata in un manuscritto latino, in cui il Petrarca dice di Laura, corpus ejus crebris PTBS exhaustum, dovrebbe essere interpretata perturbationibus; e, se fosse così, potremmo presupporre, che la salute di Laura fosse scaduta per frequenti afflizioni. Ma la più diretta interpretazione di PTBS è partubus; e le parole crebris, corpus, exhaustum quadrano con essa più grammaticalmente e più logicamente ad esprimere che il temperamento di lei fu estenuato da frequenti portati. Le voci mulier e femina (di cui, scrivendo latino, il Petrarca fa uso continuo per nominarla, invece di virgo e puella), e quelle di donna e madonna in italiano, significano più propriamente donna maritata. Donna è pur vocabolo generale; e, derivato da domina, sta in poesia per appellazione di rispetto; ma, opposto a giovine o a vergine o a donzella, significa rigorosamente donna maritata, e il poeta dice di Laura:

La bella giovinetta, ch’ora è donna.

VI. Sembra che nel conversare coll’amante ella ricordasse in candido e dilicato modo le bellezze di sua gioventù, e la curiosità ed invidia che destavano:

E quand’io fui nel mio più bello stato,

Nell’età mia più verde, a te più cara,

Ch’a dir ed a pensar a molti ha dato.

Chi la dipinse, nondimeno pare che non fosse troppo inspirato dalla beltà di lei; il che dobbiam forse recare alla infanzia dell’arte. A giudicare da’ primi ritratti di Laura, una pulita fronte con occhi neri, che davan risalto a candida carnagione e ad aurea chioma, ecco gli unici ornamenti rari ch’ella sortisse da natura. Oltre il difetto di armonia nelle proporzioni, le fattezze ne rivelano l’affettazione e la malizia di un’aria francese, non animata nè dall’attrattivo calore delle italiane, nè dalla ridente serenità delle inglesi bellezze. L’amante suo, non avendo mai così per minuto ritratto Laura, lasciò agli ammiratori della sua poesia il piacere di raffigurarsela a loro grado, e di fare stima delle sue doti personali più dagli effetti che da idea distinta della natura di esse. Da qualche tocco qua e là ne’ diversi scritti del Petrarca pare che la figura di lei fosse meno abbellita dalla regolarità e dignità, che da aggraziata eleganza: e le più potenti lusinghe le venivano da’ sospiri e sorrisi, dalla voce melodiosa, dalla dolce eloquenza degli occhi:

Chi gli occhi di costei giammai non vide,

Come soavemente ella gli gira!

e sopra tutto dalla naturale mobilità del volto, sul quale il mistero di un’abituale pensosità crescevasi dal subitaneo animarsi ed impallidire:

E ’l viso di pietosi color farsi,

Non so se vero o falso, mi parea.

La persona del Petrarca, se diam fede a’ biografi, colpiva di tali bellezze, che si attraevano la universale ammirazione.» Essi lo rappresentano «con larghe e maschie fattezze, occhi pieni di fuoco, florida carnagione e d’aspetto presago di tutto il genio e della immaginazione che appare nelle opere.» [10] Forse il Petrarca non invanì soverchiamente de’ pregi esteriori, quantunque non sembri che la modestia avesse gran parte nel giudizio che faceva di sè. «Benchè non abbia singolare avvenenza,» dic’egli nella Lettera alla Posterità, «la mia persona ebbe alcun che di piacevole in gioventù. [11] La carnagione era d’ un bruno chiaro e vivace, gli occhi animati; i capegli m’incanutirono prima de’ venticinque anni, e me ne consolava pensando che il difetto erami, comune con molti grandi uomini dell’antichità, perchè Cesare e Virgilio furono grigi in gioventù. Ove poi me ne fosse venuto aspetto venerabile, di questo certo non avrei menato gran vanto.» [12] Inconsolabile allora se gli si sviava una ciocca di capegli, era studioso di ornarsi la persona con le vesti più leggiadre, e di dare graziosa forma a’ suoi piedi, costringendoli in iscarpe che ne ponevano articoli e nervi a tortura. [13]

VII. La sua giovenile inclinazione all’amore venne allettata da soverchiamente prematura credenza, che fortuna, fama e mondo sieno indegni amici, e che solo avrebbe trovato felicità nella corrispondenza di caldi e generosi sensi con pochissime persone:

Nè del vulgo mi cal nè di fortuna,

Nè di me molto nè di cosa vile,

Nè dentro sento nè di fuor gran caldo;

Sol due persone cheggio.

Nacque l’anno 1304 in Arezzo, mentre di Firenze erane sbandita la famiglia, e le sostanze confiscate dalla violenza di vittoriosa fazione, spalleggiata dal tenebroso processo di un tribunale inquisitorio. I suoi parenti cercarono rifugio ad Avignone, sperando di provvedere a’ figliuoli nella corte del papa. Il Petrarca in età di ventidue anni li perdette entrambi, e, non essendo più a lungo forzato allo studio per sostentarli, abbandonò ogni arringo legale e il traffico

Di vender parolette, anzi menzogne.

L’animo suo rifuggì dall’idea di far acquisto d’una scienza, che lo avrebbe ridotto al dilemma «o di divenire un ricco furfante, o di essere deriso dal mondo quale onesto pazzo che avesse concepito il vano disegno di conciliare insieme legge, beni di fortuna e coscienza.»[14] Il giovanetto ebbe quindi ricorso all’abito da prete, non perciò perdonando al libertinaggio de’ ministri di Dio; disprezzando le promozioni in una chiesa così contaminata, e lamentando e gemendo di non avere altra patria che la terra dell’esilio:

Dal dì ch’io nacqui in su la riva d’Arno,

Cercando or questa ed or quell’altra parte,

Non è stata mia vita altro che affanno. [15]

Essendo egli e poverissimo e di mente elevata, la desolante convinzione de’ subiti rivolgimenti di fortuna, delle umilianti e spesso inutili cure e della finale vanità dell’umana vita lo trasse a fantasticare per mondi ideali, sclamando «che questo pure era vanità ed afflizione di spirito.» Ruminare i suoi affetti e pascersi delle sue illusioni, fu prima ed ultima e perpetua sua cura. «I vicini lo miravano attoniti e sospiravano, pur benedicendo il giovanetto, taluni stimandolo maravigliosamente savio, e tali altri pazzo;» però che in gioventù il Petrarca sconfidò delle proprie forze; e sentissi così fuggir l’animo per l’immensità, incertezza ed insufficienza di tutto l’umano sapere, che fu in procinto di abbandonare le lettere per sempre, ed implorò consiglio da un amico più provetto: «Debbo io lasciare lo studio? Debbo io entrare in altra via? Pietà di me, padre mio!» Pochi mesi dopo la data di questa lettera, ebbe principio la sua conoscenza con Laura:

Io che l’esca amorosa al petto avea,

Qual maraviglia se di subit’arsi?

La raccolta de’ suoi versi comparata alla sua corrispondenza e a tali altri scritti che non intendeva dovessero pubblicarsi, porta seco il progressivo calore di una narrativa, nella quale identifichiamo sempre il poeta con l’uomo, perchè fu accurato nel collocare le sue composizioni secondo l’ordine del tempo; e spesso allude all’occasione che le fe’ nascere. Per verità, assai di tali circostanze sono sì frivole in sè, e i poetici ornamenti sì destramente usati a coprire domestici casi, che difficilmente fermano l’attenzione di lettori scaldati all’ardore degli affetti, abbagliati allo splendore delle imagini, attoniti alla elevazione de’ concetti e rapiti dalla varietà e melodia della versificazione.

VIII. Da prima il Petrarca vide in Laura soltanto la bellissima delle donne; quella ch’era suo fato l’amare, e che ispirava e nobilitava il suo ingegno: ambiva la gloria solo per potersene assicurare la stima e l’affetto, e sperava di aver trovato la felicità in terra [16]. Poi scoprì che le forme e le virtù di lei erano angeliche, — che l’amor suo ardeva unicamente per rischiarare e purificare il suo cuore, — per acquetare la sua mente, — per mettere in armonia quelle facoltà che altrimenti sarebbono state preda di perpetua agitazione, — per levare al cielo i desiderii e i pensieri suoi; e, per poterla alzare sopra ogni terrestre idea, non accenna mai esplicitamente come fosse obbligata a partecipare del letto con un altro. Alla fine però sentì e confessò, «lei essere donna; lui esser preso delle sue forme; lei esser la sola che fosse mai parsa donna agli occhi suoi:»

Chiare, fresche e dolci acque,

Ove le belle membra

Pose colei che sola a me par donna;

e ardeva «d’ invidia, di gelosia e d’amore:»

D’amor, di gelosia, d’invidia ardendo.

Invidiava Pigmalione, «che potè avvivare d’anima e d’amore la statua, fattura delle proprie mani.» Ma pare insieme non essergli sfuggito, che la più bella parte di sua vita fu consunta nel culto superstizioso di una deità, che forse merita di essere ricalata giù sulla terra, donde la fatale fantasia del poeta l’aveva sollevata. Ei chiama l’alterezza di Laura «orgoglio,» e la sua avversione a ogni specie di bassezza, «affettazione e ritrosia:»

Ed in donna amorosa ancor m’aggrada,

Che ’n vista vada altera e disdegnosa;

Non superba e ritrosa.

Amor regge suo imperio senza spada.

Alle illusioni di una passione pura seguitano i desiderii di un amore impaziente, che esce in parole ed in versi troppo chiari ond’essere citati, e che non sono comunemente osservati, perchè la tradizione ci reca a leggere il Petrarca con prevenzione che l’amore ne fosse platonico, Non venne ammesso in casa di Laura se non raramente, e solo parecchi anni dopo il primo loro incontro. «Io invecchio,» dic’egli, «ed ella invecchia. Comincio a perdere speranza, e pure il tempo sembrami passar lento, fino a che non ci verrà conceduto di stare insieme senza il timore di perderci:» —

Ma sia che può, già solo io non invecchio.

IX. Qua e colà ci fa intendere come avesse cagione di nodrire aspettative spesso lusingate e sempre deluse:

E mi conforta, e dice che non fue

Mai, com’or, presso a quel ch’i’ bramo e spero.

Io, che talor menzogna, e talor vero

Ho ritrovato le parole sue,

Non so s’il creda, e vivomi intra due.

Pure nemmeno da tali passi è lieve appurare quali fossero i veri sensi di Laura; e parrebbe che l’ardore delle brame inducesse il Petrarca ad inferire da qualche scaltra o tenera occhiata una promessa, che però non isfuggì mai dal labbro di lei.

Fissino i marinai le stelle e la splendente luna; e quanti smarriscon la via abbian per guida da quella luce; io non conosco il sorriso della mia donna, non è richiesto altro strologare. L'affetto vede nell'oscurità, e amore ha occhi la notte

Vecchia rima inglese

Uno de’ suoi sonetti sarebbe egregio tema a un artista, onde rappresentare il Petrarca in atto di pigliar licenza da Laura per lungo tempo. Il costei volto cuopre l’usato velo: modestia, elevazione di mente, tenerezza, melanconia, mistero e civetteria sono così frammiste da non lasciare scorgere distintamente lo stato reale del suo cuore; — laddove nel viso dell’amante suo predomina l’estasi della passione e la intensità dell’illusione, come se leggesse chiaramente negli occhi di Laura sentimenti invisibili a tutti i circostanti:

Quel vago impallidir che ’l dolce riso

D’un’amorosa nebbia ricoperse,

Con tanta maestade al cor s’offerse,

Che gli si fece incontro a mezzo ’l viso.

Conobbi allor sì come in paradiso

Vede l’un l’altro; in tal guisa s’aperse

Quel pietoso pensier, ch’altri non scerse;

Ma vidil’io, ch’ altrove non m’affiso.

Ogni angelica vista, ogni atto umile

Che giammai in donna, ov’amor fosse, apparve,

Fôra uno sdegno a lato a quel ch’i’ dico.

Chinava a terra il bel guardo gentile,

E tacendo dicea (com’ a me parve):

Chi m’allontana il mio fedele amico?

La impazienza di riveder Laura esagerò alla sua fantasia le angustie in cui egli l’aveva lasciata; ma non appena ei fu di ritorno, che di nuovo incontrò la stessa fredda accoglienza, che lo costrinse a gemere, a crucciarsi, a temere il disprezzo del mondo, [17] — per discostarsene poi un’altra volta, e nascondere la umiliazione e le agonie del suo mal corrisposto amore nell’eremo di Valchiusa:

Solo e pensoso i più deserti campi

Vo misurando a passi tardi e lenti.

Altro schermo non trovo che mi scampi

Dal manifesto accorger delle genti.

X. Che sia possibile dar libero corso alla immaginazione, e non adescare la mente in un laberinto dì errori e d’affanni, è sentenza assai volte sostenuta coll’esempio del Petrarca e di Laura da chi non per anco ne ha fatto prova in sè stesso, e da chi ha vaghezza di trarre altrui fuori dell’asilo della tranquillità o dell’innocenza, — volendo forse insegnare che la virtù si acquista a prezzo delle più care nostre inclinazioni, — ovvero, come più spesso accade, con tardo ed eterno pentimento.

La voce nondimeno che Laura non sempre fosse inesorabile, è ugualmente popolare, in ispecial modo appo coloro che sono a un tempo meno favoriti dal bel sesso, e più in apprensione delle sue lusinghe. Tal voce fondasi pur anco in quelle tradizioni romanzesche che poeti e viaggiatori sono corrivi ad accogliere. Gli abitanti di Valchiusa additano l’altura ove sorgeva il castello di Laura, ond’ella poteva conversare con l’amante per segnali. L’abate Delille scopre la grotta stessa cui riparava in segreto la felice coppia, e l’albero ch’erale cortese d’ombra ospitale:

Une grotte écartée avait frappé mes yeux;

Grotte sombre, dis-moi si tu les vis heureux?

M’écriai-je. Un vieux trono bordait-il le rivage:

Laure avait reposé sous son antique ombrage. —

Una donna va anche più oltre che l’abate:

Dans cet antre profond, où, sans autres témoins

Que la naïade et le zéphyre,

Laure sut par de tendres soins

De l’ amoureux Pétrarque adoucir le martyre;

Dans cet antre où l’amour tant de fois fut vainqueur,

Il exprima si bien sa peîne, son ardeur,

Que Laure, malgré sa rigueur,

L’écouta, plaignit sa langueur,

Et fit peut-être plus encore. [18]

Non si potrà certo, per veruna confessione sfuggita al Petrarca, riuscire a tor di mezzo la vecchia quistione. Ma, quanto è all’incontrare Laura a Valchiusa, egli ritirossi colà, «sperando, com’ei dice, di spegnere nella solitudine e collo studio la fiamma che mi andava consumando. Povero sfortunato! il rimedio ad altro non valse che ad innasprire la piaga. Le meditazioni mie si raccolsero tutte in colei sola che io m’affannava di sfuggire.» [19] — In altra lettera da Valchiusa egli scrive: «Qui gli occhi miei, che troppo si affissarono nella beltà ad Avignone, non possono veder altro che cieli, rupi ed acque. Qui sono in lotta con tutti i miei sensi. Melodiose parole non più dilettano le mie orecchie. — Altro non odo più che il muggito delle mandre. Dall’un canto gorgheggiano gli uccelli, — dall’altro strosciano le acque, o mormoreggiano. Non si dà amenità maggiore nè più rara di quella de’ miei due giardini. Ho fin dispetto che tanto possa incontrarsi fuori d’Italia. Ma la vicinanza d’Avignone avvelena tutto! [20] Quando penso a lei — e quand’è mai che io non pensi a lei? — mi guardo intorno alla mia solitudine, e trovomi gli occhi bagnati di lagrime. Sento che sono uno di que’ miseri, la cui passione d’altro non si pasce che di memoria, nè trova conforto se non nel pianto; ma che tuttavia desidera di pianger solo:»

Amor col rimembrar sol mi mantiene.

Ed io son un di quei che il pianger giova

Ed io desio,

Che le lagrime mie si spargan sole.

XI. La casa del Petrarca è scomparsa; nè le frequenti descrizioni ch’egli ne fa possono aiutare gli antiquari a scoprire il sito de’ suoi giardini: ma la Valle Chiusa è una di quelle opere di natura, cui cinque secoli non valsero a recare oltraggio. Lasciato Avignone, l’occhio di chi fa quel cammino riposa sopra l’ampiezza di una fresca prateria, che va a finire in un piano per copia di vigneti assai vago. Poc’oltre cominciano ad ascendere i colli coperti d’alberi che si specchiano nelle acque del Sorga, le quali sono sì limpide, sì rapidamente corrono e n’è il suono sì dolce, che il poeta le descrive con verità ove dice, «che sono liquido cristallo, il cui mormorio mescendosi a’ canti degli augelli riempie l’aere d’armonia.» Le sponde ricuopronsi di piante aquatiche, e in que’ luoghi ove la caduta o la rapidità delle correnti toglie il distinguerle, il fiume sembra movere sopra un letto di vivo smeraldo. Più presso alla sorgente, il suolo è sterile; e siccome il canale viene restringendosi, le onde rompono contro le balze, rotolandosi giù in torrente di schiuma e di sprazzi che brillano per la reflessione de’ prismatici colori. Inoltrandosi più e più a ritroso del fiume, chi va per quella via riesce in un semicircolare recesso, chiuso da rocce inaccessibili a diritta, scoscese e dirupate a sinistra, sorgenti in obelischi, in piramidi e in ogni fantastica forma, e di mezzo ad esse migliaia di rivoletti discendono. La vallea è terminata da una montagna tagliata a picco da cima a fondo, e, per un porticale di archi concentrici, opera della natura, entra il viandante in vasta caverna. Il silenzio e l’oscurità che quivi regna vengono interrotti soltanto dal mormorio e dal chiarore delle acque d’un bacino, che forma la principale scaturigine del Sorga. Questo bacino, di cui non anco fu scandagliato il fondo, rigonfia in primavera per modo da sforzare l’uscita delle acque per una fessura in cima alla caverna, ad un’altezza di circa cento piedi, d’onde esse di balzo in balzo precipitandosi in cascate, ora svelano or coprono di schiuma gli smisurati massi, lungo i quali trascorrono. Il mugghio de’ torrenti non cessa mai duranti le lunghe piogge, tanto che ne diresti le rupi stesse disciolte, e il tuono rimbomba di caverna in caverna. La terribile sublimità di tale spettacolo è svariata da’ raggi del sole, che verso il tramonto segnatamente rifrangono e riflettono le varie lor tinte sopra le cascate. Dopo la canicola, le rupi divengono aride e negre, il bacino ripiglia il suo livello, e la valle ritorna a un profondo silenzio.

XII. La solitudine, che trae le menti passionale a’ fantasticare intorno tutti gli estremi della tristezza e della gioia, non valse ad altro che a vie più agitare i già turbati pensieri del Petrarca. La pittoresca bellezza delle scene e la tranquillità di una vita eremitica ne affascinò gli occhi, elevandone la mente verso il cielo:

qui non palazzi, non teatro o loggia,

ma ’n lor vece un abete, un faggio, un pino,

tra l’erba verde e ’l bel monte vicino —

levan di terra al ciel nostr’intelletto.

Ma poi soggiugne:

e ’l rosignol, che dolcemente all’ombra

tutte le notti si lamenta e piagne,

d’amorosi pensieri il cor m’ingombra.

Uccelli, fiori, fonti, ogni cosa in somma che pareagli fatta da natura ad esser felice, «conversava con lui d’amore:»

L’acque parlan d’amore, e l’ôra, e i rami,

e gli augelletti, e i pesci, e i fiori, e l’erba;

tutti insieme pregando ch’io sempr’ami.

Sempre ch’egli studiavasi di volgere la intensità de’ suoi pensieri a contemplare la reale condizione della propria vita, il dolore diveniva in lui più intenso:

I’ vo pensando, e nel pensier m’assale

una pietà sì forte di me stesso.

Di pensier in pensier, di monte in monte

mi guida amor.

Per alti monti e per selve aspre trovo

qualche riposo; ogni abitato loco

è nemico mortal degli occhi miei.

a ciascun passo nasce un pensier novo

della mia donna, che sovente in gioco

gira il tormento.

Or potrebb’esser vero? or come? or quando?

«A me forse non si darà fede, pure quanto riferisco m’è avvenuto più volte. Sovente in luoghi riposti, ov’io mi pensava di essere solo, la ho veduta apparire dal tronco di un albero, dalla bocca di una caverna, da una nube, da non so dove. Il timore faceami immobile. Io non sapeva più che fosse di me, nè dove andare.» [21]

Altre volte la stessa illusione lo dilettava fino all’estasi; ed egli credevasi in mezzo alle gioie eterne del paradiso, quando s’immaginava che i suoi occhi si scontrassero negli occhi di Laura, e li vedeva sfavillare di un sorriso d’amore; gaudio da lui descritto in tre versi che nessuna versione può rendere, e nessuna critica è bastevole ad apprezzare

Pace tranquilla, senza alcuno affanno,

simile a quella ch’è nel cielo eterna,

move dal loro innamorato riso.

In uno di quegl’istanti d’estasi beatifica, il Petrarca vede Laura uscire dalle chiare acque del Sorga, adagiarsi sopra le sue sponde o passeggiare sull’erba:

Or in forma di ninfa o d’altra diva,

che del più chiaro fondo di sorga esca

e pongasi a seder in su la riva;

or l’ho veduta su per l’erba fresca

calcar i fior com’una donna viva.

in tante parti, e sì bella la veggio,

che, se l’error durasse, altro non chieggio

Ma la notte dissipò queste visioni:

Nella stagion che ’l ciel rapido inchina

verso occidente, e che ’l dì nostro vola

a gente che di là forse l’aspetta;

veggendosi in lontan paese sola,

la stanca vecchierella pellegrina

raddoppia i passi, e più e più s’affretta;

e poi così soletta,

al fin di sua giornata

talora è consolata

d’alcun breve riposo, ov’ella obblia

la noja e ’l mal della passata via.

Ma, lasso! ogni dolor che ’l dì m’adduce,

cresce qualor s’invia

per partirsi da noi l’eterna luce.

Al venir del silenzio e delle tenebre, la fantasia del poeta vestiva di terrore quell’aggetto medesimo ch’erasi dilettata d’abbellire e di ornare il giorno. Sovente il Petrarca vide Laura di notte, e per le membra gli corse il gelo della paura. «Tremante balzai di letto al primo albeggiare, onde spiccarmi da una casa ove tutto mi metteva terrore. Mi arrampicai su per alture, attraversai selve, guardandomi intorno per vedere se l’imagine, che m’aveva turbato il riposo, seguiva i miei passi, nè mi teneva sicuro in verun luogo.» [22] Quando ebbe a spiegare in italiano ciò che si racchiude in questo passo d’una delle sue opere latine, un sol verso bastò a farlo sentire ad ogni lettore che abbia sperimentato violente passioni nella solitudine:

Tal paura ho di ritrovarmi solo.

XIII. Bisogno di consolazione lo forzò a cercar rifugio fra coloro stessi ch’egli sprezzava:

il vulgo a me nemico ed odïoso

(chi ’l pensò mai?) per mio rifugio chero;

e amore nol trasse ad Avignone, se non perchè il misero tornasse di nuovo e di subito a Valchiusa. Lasciò la Francia, e vi tornò di lì a pochi mesi. Imprese lontani viaggi, e fece ogni sforzo per dimenticar Laura con prolungate assenze; e in tali accessi di sdegno e di vergogna pensò che una meno platonica affezione avrebbe posto fine alla servitù in che la sua mente stavasi allacciata. «Non era più da sperarsi che ne venissi liberato per mero caso.» [23] Ebbe allora un figliuolo, e, dopo alcuni anni, una figliuola; ma protestò che, non ostante queste licenze, non amò mai altra che Laura. «Io sempre sentii,» dic’egli, «la indegnità delle mie inclinazioni, e, al mio quadragesimo anno, me ne liberai come se non avessi mai veduto altra donna; sano e robusto; nel caldo e vigore dell’età soggiogai necessità così vergognosa.» [24] Anche verso questo periodo, che fu intorno a quello della morte di Laura, nè l’esempio della virtù di lei, nè i suoi forti dubbi ch’ella non fosse una ritrosa senza cuore, bastarono a saldarne la piaga, ed egli aprì il suo petto, che scoppiava di dolore, a’ suoi più intimi amici. «Il dì non è forse lontano ch’io sarò tranquillo abbastanza da contemplare tutta la miseria della mia anima, e da esaminare la mia passione, non però per continuare ad amarla, bensì per amare te solo, o mio Dio! Ma per ora quanti pericoli mi rimangono da superare, quanti sforzi da fare! Non amo più come amai, ma amo ancora. Amo mal mio grado, ma amo in lamentazioni ed in lagrime: la odierò: no; bisogna amarla ancora.» [25] Sette anni dopo la data di questa lettera, il conflitto non era per anche cessato. «Il mio amore,» dic’egli, «è veemente, estremo, ma esclusivo e virtuoso. — No, questa irrequietudine, questi sospetti, questi trasporti, queste vigilie, questo delirio, questa stanchezza d’ogni cosa, non sono già i sensi di un amore virtuoso.» [26]

XIV. Il Petrarca era in Italia allorchè la peste, che nel 1348 desolò l’Europa, rapì alcuni de’ suoi più cari, e lo spaventò col presagio di calamità vie più grande. «Da prima,» egli dice, «quando abbandonai Laura, la vidi spesso ne’ miei sogni. Era una celeste visione che mi consolava; ora invece mi mette paura. Parmi di udirla dire: ti ricordi tu la sera che, forzata a lasciarti, ti lasciai bagnato di lagrime? Previdi allora — ma non potei — non volli dirti... — ti dico ora, e tu puoi credermi:

non sperar di vedermi in terra mai.»

Due mesi dopo, Laura morì nel suo quadragesimo anno, e il Petrarca scrisse in una copia di Virgilio questa memoria: «Ne’ primi giorni di mia gioventù, il 6 d’aprile sul mattino, e nell’anno 1327, Laura ragguardevole per proprie virtù e celebrata ne’ miei versi, per la prima volta ferì i miei occhi nella chiesa di Santa Chiara ad Avignone; e nella stessa città, il 6 dello stesso mese d’aprile, alla stessissima ora del mattino, l’anno 1348, questo splendido lume fu tolto dalla nostra vista, mentre io era in Verona, ahi! ignaro della mia sciagura. Il suo casto e bel corpo fu deposto nella chiesa de’ Francescani sulla sera dello stesso giorno. Per conservare l’acerba rimembranza, ho preso l’amaro piacere di farne speciale ricordo in questo libro che sta più spesso innanzi a’ miei occhi affinchè nulla in questo mondo possa aver più alcuna attrattiva per me; affinchè, chi mi rendeva la vita sì cara sendosene andata, io possa da assidue meditazioni e da adeguata stima della transitoria nostra esistenza essere ammonito, che egli è ben tempo per me di pensare ornai a lasciare questa terrestre Babilonia, il che voglio sperare, mercè forte e maschio coraggio, non mi sarà difficile di compiere.»

XV. Laura al potere che amore le dava sopra il Petrarca, aggiunse il vantaggio che ogni persona operante con invariabile tranquillità si acquista sopra indoli passionate. I religiosi sensi di lei furono contrassegnati da più serenità e sicurezza che non quelli del suo amatore. In tutti gli atti suoi la padronanza di sè stessa mostrasi anzi naturale che forzata. Il suo conversare è pieno di quella dolcezza, di quella discrezione e di quel buon senso che forma un trionfante contrasto coll’entusiasmo del poeta. Pare ch’ella sempre credesse come la modestia e la stima di sè fossero i più begli ornamenti di una donna. Il Petrarca parla sovente della nobile nascita di lei; e dalla sontuosa eleganza delle vesti sembra ch’ella possedesse beni pari al grado. Non per questo bramava di vivere troppo conta al mondo:

In nobil sangue vita umile e queta.

Altera, come n’andava, dell’affetto da lei meritato e della celebrità che a lei ne venne,

quel dolce nodo

mi piacque assai ch’intorno al core avei,

e piacemi il bel nome;

ella intendeva però più alle cure di famiglia, che alla letteratura e alla poesia,

E non curò giammai rime nè versi.

Nondimeno la sua domestica condizione non ebbe ad esser felice, se il marito, da lei chiamato ad erede, lasciandogli in cura tre figliuoli e sei figliuole, si riammogliò entro sette mesi, vestendone tuttavia la gramaglia. [27] Che Laura riamasse in effetto il Petrarca, sebbene questi si desse talora a crederlo sì fermamente da persuaderlo pur anche a’ lettori delle sue poesie, egli è tuttavia assai più esplicito allorchè ci dice, questo essere sempre stato l’unico impenetrabile segreto del petto di lei; e davvero ch’ella il seppellì con sè stessa. Il soave e pensoso carattere del suo volto esprimeva una mente capace di patire senza querele:

in aspetto pensoso anima lieta.

La iperbole si fa sentire allorchè Petrarca descrive Laura «mandata sopra la terra

a far del Ciel fede fra noi;

tuttavia, se, com’ egli spesso presumeva, il cuor di lei si alimentava di verace passione, e se ella andava facendo un cotidiano sacrificio di sè e dell’amante a’ propri doveri, il perseverante silenzio di Laura e le alternate dimostrazioni di severità e di tenerezza verso il Petrarca dovrebbero ascriversi meno ad artifizio, che alla costanza de’ suoi sforzi onde occultare affetti, che avrebbe potuto temere pericolosi a svelarsi, e che d’altra parte non era in poter suo di reprimere.

Pur mi consola che languir per lei

meglio è che gioir d’altra.

XVI. Ma questo è il presupposto di un amante; perchè passione e ragione, quantunque da prima s’incontrino nella nostra mente siccome due amiche, di rado però vi regnano insieme con pari potere; e in breve l’una dèe inevitabilmente cedere alla dittatura dell’altra. Che l’amore non dovesse essere stato, in venti anni di tempo, soggiogato da risoluta virtù, nè vinta la virtù dall’amore, è fenomeno che può concepirsi soltanto fra le ideali possibilità delle cose. Pare non di meno del tutto consentaneo alle frequenti contraddizioni della natura umana il presupporre che Laura, non amando l’uomo, amasse la passione da esso lei ispirata. Avvi una compiacenza acuta nella coscienza di possedere bellezze fatali a chi le ammira; e questa è tentazione cui soggiacciono anco gli animi di più eletta natura, venendo essa addolcita da gentile sentimento di compassione verso chi patisce. Somiglianti ad Eva che guarda nel lago del Paradiso:

m’arretro; ella s’arretra

ma compiaciuta io vi ritorno in breve;

e compiaciuta, in breve ella pur torna

di simpatia e d’amor co’ mutui sguardi;

le sue figliuole sovente si godono di non cercare nel cuore degli amanti nulla più che lo specchio della propria imagine. Entusiasmo per uomo illustre; bisogno di divagarsi dalla monotonia di solitaria vita; imperiosa necessità di essere amate, unico piacere forse onde uomini e donne assiduamente vanno in traccia, indispensabile poi al sesso che per natura ha duopo del sostegno del più forte; e all’ultimo il sentimento di religione e di modestia, che da esse non si scompagna, rafforzato da timore della pubblica opinione, ed esaltato da sollecitudine ardente di perfezionare gli abiti morali de’ loro amanti, e di convertirne la passione in durevole amicizia; tutte queste sensazioni, e forse altre simultanee non poche, operando, incitandosi e lusingandosi l’una l’altra, sono così commiste da contenere le donne in tale stato di mente, che scambiasi assai volte da esse, per pura e seria affezione. Così l’amore di Laura altro non era, se non se

fiamma che lambe e scherza intorno al petto;

però che, mostrando ognora generosa cortesia, al Petrarca, non pose mai in pericolo la virtù propria, mentre con isforzo diplomatico di civetteria seppe chiudersi inviolato il suo secreto, e tener sempre viva e deludere la speranza del suo amante; — e si giustificava poi dandosi a credere che coll’esempio della sua castità lo guidava sopra la via del cielo. E in effetto, contenendone la calda propensione a’ diletti del senso, e sublimandone i religiosi principii, un tal provvedere gli tornò utile. [28] Ma egli era pure proclive a morbosa sensibilità; malattia peculiare agli uomini di genio, e che, dove sia amareggiata da lunghe sciagure e pertinaci passioni, non fallisce mai di degenerare in disperata consunzione di mente.

XVII. Tollerò per anni ventuno la sciagura di adorare a un tempo e d’avere in sospetto l’umana creatura ch’egli stimava sola valevole a renderlo felice; perplessità che riduce ad angosce mortali, ed umilia a’ propri occhi ogni uomo il quale sia

D’alta, amorosa indole costante. — Otello.

Perchè tali appunto sono le umane tempre che natura condannò a passioni violenti; dove rarissimi, anche fra cotestoro, ne ricevettero in compenso la fortitudine di farsi tanto severi alle proprie più profonde affezioni, da sradicare a qualsiasi costo quell’ulcera che gli uomini in generale altro non fanno che nodrire ed allevare co’ temporeggianti rimedi che vi adoperano. Sembra che il Petrarca si compiacesse negli sforzi di coraggio, e nel reggere a lunga guerra con le speranze e co’ timori propri, e che mai non gustasse il piacere di una mente che, sprezzati gli adescamenti della speranza e sdegnata la commiserazione degli uomini, misura tutta l’ampiezza del suo dolore, e lo sostiene, non si lasciando svolgere dalla fluttuazione de’ dubbi e delle illusioni. Egli sentì anzi ognora una sorta di necessità di conciliarsi per ogni maniera la simpatia dell’universo; e il meschino che trova conforto in sì fatta vanità è intieramente inetto a consolare sè stesso. Una mente raffinata, commossa da naturale vivacità di sensazioni non use a freno, lo recò a temere ed a bramare a vicenda il possesso di Laura. La sua passione fu prolungata da quella non virile irresolutezza, vera fonte della infelicità e delle querele di lui, e che porse a Laura opportuno spediente di serbarsi a un tempo e l’amante e la virtù sua. Come che fosse conscio «della follia ed umiliazione di amare non essendo riamato,» [29] tuttavia persistè nel credere, che

non è sì duro cor, che lagrimando,

pregando, amando, talor non si smova.

Con tali versi finiscono quelli fatti in vita di Laura. La sua bellezza avea da gran tempo ceduto più alle infermità, che agli anni. Ella ne contava appena trentacinque, allorchè il Petrarca in una delle più gravi sue opere scrisse: «Se avessi amato in lei soltanto la persona, avrei mutato pensiero già da gran tempo.» [30] Gli amici suoi stupivano, come beltà sì appassita durasse a tener saldo in lui così ardente affetto. «Che monta ciò?» rispose il Petrarca,

piaga per allentar d’arco non sana.

Quando ella sparve per sempre dagli occhi suoi, i melanconici sentimenti erano in lui da lunga mano divenuti abito, e il vigile presentimento della sciagura che gli sovrastava avevagli destato le più mordaci sollecitudini. Nel corso de’ dieci anni che venner dopo, dettò la seconda parte de’ suoi versi amorosi: a volte descrive Laura che gli appare di mezzo alla notte; a volte «rapito in estasi, il terzo cielo apresi agli occhi suoi,» ond’ ei ne contempli le celestiali bellezze. Assai volte si duole del fato, che lo condannò a nodrire tuttavia i suoi desiderii della polvere di un sepolcro, e di un’ombra.

— tale è terra, e posto ha in doglia

lo mio cor, che vivendo in pianto il tenne.

che ’l desir vive e la speranza è morta.

E di nuovo:

Che fai? che pensi? che pur dietro guardi,

nel tempo che tornar non puote omai,

anima sconsolata? che pur vai

giugnendo legne al foco ove tu ardi?

Cerchiamo ’l ciel, se qui nulla ne piace;

Che mal per noi quella beltà si vide,

se viva e morta ne dovea tor pace.

E il dubbio di non essere stato riamato mai, o di essere stato sempre da Laura deluso, pur seguitava a rodergli il cuore. Venti lunghi anni almeno dopo averla perduta, standosi egli stesso sull’orlo del sepolcro, mentre poteva più placido volgerle il pensiero, cavò da la memoria pittura più distinta, benchè forse non al tutto verace, del cuore e delle massime e de’ costumi della donna, fonte d’ogni felicità e d’ogni travaglio di sua vita.

XVIII. Egli ne dipinge Laura, che dal cielo discende sopra la rugiada, la notte dopo ch’ella ebbe lasciato per sempre le miserie del mondo. Apparve dinnanzi all’amante, porsegli la mano, e sospirando disse:

 

Riconosci colei che prima torse

i passi tuoi dal pubblico viaggio,

come ’l cor giovenil di lei s’accorse?

Mentre al vulgo dietro vai,

ed all’opinïon sua cieca e dura,

esser felice non puo’ tu giammai.

La morte è fin d’una prigione oscura

agli animi gentili; agli altri è noia,

c’hanno posto nel fango ogni lor cura.

Ed ora il morir mio, che sì t’annoia,

ti farebbe allegrar, se tu sentissi

la millesima parte di mia gioia.

Così parlava; e gli occhi ave’ al ciel fissi

devotamente: poi mise in silenzio

quelle labbra rosate, insin ch’io dissi:

Silla, Mario, Neron, Caio e Mezenzio,

fianchi, stomachi, febbri ardenti fanno

parer la morte amara più ch’assenzio.

Negar, disse, non posso che l’affanno

che va innanzi al morir, non doglia forte,

ma più la tema dell’eterno danno:

ma pur che l’alma in dio si riconforte,

.   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .

che altro eh’ un sospir breve è la morte?

E quand’io fui nel mio più bello stato,

nell’età mia più verde, a te più cara,

ch’a dir ed a pensar a molti ha dato;

mi fu la vita poco men che amara

a rispetto di quella mansueta

e dolce morte, ch’a’ mortali è rara:

che ’n tutto quel mio passo er’io più lieta,

che qual d’esilio al dolce albergo riede;

se non che mi stringea sol di te pieta.

Deh, Madonna, diss’io, per quella fede

che vi fu, credo, al tempo manifesta,

or più nel volto di chi tutto vede,

creovvi amor pensier mai nella testa

d’aver pietà del mio lungo martire,

non lasciando vostr’alta impresa onesta?

.   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .

Appena ebb’io queste parole ditte,

ch’i’ vidi lampeggiar quel dolce riso

ch’un sol fu già di mie virtuti afflitte.

Poi disse sospirando: mai diviso

da te non fu ’l mio cor, nè giammai fia;

ma temprai la tua fiamma col mio viso.

Perchè a salvar te e me null’altra via

era alla nostra giovenetta fama:

nè per ferza è però madre men pia.

Quante volte diss’io meco: Questi ama,

anzi arde: or si convien ch’a ciò provveggia;

e mal può provveder chi teme, o brama.

.   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .

Più di mille fiate ira dipinse

il volto mio, ch’amor ardeva il core,

ma voglia, in me, ragion giammai non vinse.

Poi se vinto te vidi dal dolore,

drizzai ’n te gli occhi allor soavemente,

salvando la tua vita e ’l nostro onore.

E se fu passïon troppo possente,

e la fronte e la voce a salutarti

mossi, or timorosa ed or dolente.

Questi fur, teco mie’ ingegni e mie arti:

or benigne accoglienze ed ora sdegni:

tu ’l sai, che n’hai cantato in molte parti.

Ch’i’ vidi gli occhi tuoi talor sì pregni

di lagrime, ch’io dissi: questi è corso

a morte, non l’aitando; i’ veggio i segni.

Allor provvidi d’onesto soccorso.

Talor ti vidi tali sproni al fianco,

ch’i’ dissi: qui convien più duro morso.

Così caldo, vermiglio, freddo e bianco,

or tristo or lieto infin qui t’ho condutto

salvo (ond’io mi rallegro), benchè stanco.

Ed io: Madonna, assai fora gran frutto

questo d’ogni mia fè, pur ch’io ’l credessi;

dissi tremando e non col viso asciutto.

Di poca fede! or io, se nol sapessi,

se non fosse ben ver, perchè ’l direi?

rispose, e ’n vista parve s’accendessi.

S’al mondo tu piacesti agli occhi miei,

questo mi taccio; pur quel dolce nodo

mi piacque assai ch’intorno al cor avei;

e piacemi ’l bel nome (se ’l ver odo)

che lunge e presso col tuo dir m’acquisti:

nè mai ’n tuo amor richiesi altro che modo

quel mancò solo; e mentre in atti tristi

volei mostrarmi quel ch’io vedea sempre,

il tuo cor chiuso a tutto ’l mondo apristi.

Quinci ’l mio gelo, ond’ancor ti distempre

chè concordia era tal dell’altre cose,

qual giunge amor, pur ch’onestate il tempre.

Fur quasi eguali in noi fiamme amorose,

almen poi ch’io m’avvidi del tuo foco;

ma l’un l’appalesò, l’altro l’ascose.

.   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .

Non è minor il duol perch’altri ’l prema,

nè maggior per andarsi lamentando;

per finzion non cresce il ver nè scema.

Continuano essi questa conversazione, e il Petrarca si diffonde con alquanta compiacenza intorno al merito de’ suoi versi, mentre Laura mal nasconde quella gelosia, la quale, sebbene muova direttamente dall’amor proprio e dall’invidia, viene sempre scambiata per l’effetto inseparabile del più profondo amore:

Duolmi ancor veramente ch’io non nacqui

almen più presso al tuo fiorito nido:

ma assai fu bel paese ond’io ti piacqui;

che potea ’l cor, dei qual sol io mi fido,

volgersi altrove, a te essendo ignota;

ond’io fôra men chiara e di men grido.

Questo no, rispos’io, perchè la rota

terza del ciel m’alzava a tanto amore,

ovunque fosse, stabile ed immota.

Or che si sia, diss’ella, i’ n’ebbi onore,

ch’ancor mi segue: ma per tuo diletto

tu non t’accorgi del fuggir dell’ore.

Allora il suo amante le chiese, se andrebbe molto, prima ch’ei potesse raggiugnerla.

Ella, già mossa, disse: al creder mio,

tu stara’ in terra senza me gran tempo.

Il Petrarca sopravvisse a Laura ventisei anni.

 

Note

__________________________________

 

[1] Theocriti Epigr., Callimachus et Catullus, De coma Berenices, sub fine. Proclus, in Ven. Hymn., I. V, 7, 19.

[2] Plato, Σιμπόσιον, passim.

[3] Εἰκάσαις δ’ἄν καὶ τους ἔρωτας τὴν Пάνδημον τῶν σωμάτον ἐπιπέμπειν τὲν δ’Оὐρανίαν τῆς ψυχῆς τε καὶ τῆς φιλίας καί τῶν καλῶν ἔργων. — Xenophon, Συμπόσιον, sub fine.

[4] Fabricius, Med. et Inf. Lat., tomo IV, pag. 74.

[5] Due copie manuscritte di questi sermoni, con data ed ortografia del 1372, sono citate dal Tiraboschi, Storia della Letteratura Italiana, vol. V, lib. 3.

[6] Mémoires de l’Académie des Inscriptions, vol. XX, p. 413.

[7] L’Accademia della Crusca cita un manuscritto colla data del 1408, che reca il titolo di Libro d’Amore, dove gran copia di tali decisioni sono registrate.

[8] Tiraboschi, Storia della Letteratura Italiana, vol. V.

[9] Critical and Historical Essay on the Life and Character of Petrarch, Edimburg, 1812.

[10] De Sade, Mémoires, vol. I. — M.rs Dobson’s, Live of Petrarch.

[11] Forma non glorior excellenti, sed quæ placere viridioribus annis posset. - Ad Post.

[12] Senil., lib. V, ep. 3. Claris comitibus me solabar.

[13] Variarum, ep. 28.

[14] Epist. ad Post.

[15] Ed in una delle sue prime poesie latine:

Exul ab Italia furiis civilibus actus,

Huc subii, partimque volens, partimque coactus,

Hic nemus, hic amnes, hic otia ruris amæni:

Sed fidi comites absunt vultusque sereni.

Hoc juvat, hoc cruciat.

Carm., lib. I, epist. 6.

[16] Ne’ Dialoghi con Sant’Agostino, libro in cui versò tutti i suoi sentimenti, e che intitolo: De secreto conflictu curarum suarum, confessa che il desiderio della corona di Lauro si fece in lui più ardente per la sua affinità col nome di Laura. - Petrarchæ Operum, vol. I, pag. 403, edit. Basil. 1581.

[17]  Jam duo lustra gravem, fessa cervice, catenam

Pertuleram indignans.

Petrar., Carm., lib. 1, ep. 12.

[18] Madame Deshouliéres: Epître sur Vaucluse.

[19] Epist. Famil., lib. VIII, ep. 3.

[20] Epist. Famil., lib. XXII, ep. 8.

[21] Carminum, lib. VII, ep. 7.

[22] Carminum, lib. II, epist. 7.

[23] Durum opus evento dominam pepulisse decenni. Carm., lib. I, ep. 12.

[24] Epist. ad Post.

[25] Famil., lib. IV, ep. 1.

[26] Liber de secreto conflictu curarum suarum. An. 1343.

[27] De Sade. Pièces justificat., V, 2.

[28] Senil., lib. VIII, epist. 1; lib. IX, epist. 2; lib. XI, epist. 3. Famil., epist. 98.

[29] Ah demens! ita ne flammas animi in sextum et decimum annum aluisti? — De secreto conflictu.

[30] Si post corpus abiissem jampridem mutandi propositi tempus erat. L.C.

 

SAGGIO

SOPRA LA POESIA DEL PETRARCA

Non ho se non quest’una

Via da celare il mio angoscioso pianto.

PETRARCA, p. I, Son. 81.

I. La visione dello spirito di Laura fu scritta, come raccogliesi dalla chiusa, allorchè il Petrarca era molto innanzi cogli anni. Rivedutala quattro mesi prima di morire, la inserì quale episodio in un poema morale, che intitolò Trionfi, — serie di allegoriche visioni sopra la forza dell’Amore, della Castità, della Morte, dell’Ingegno, della Fama, del Tempo e della Eternità. Parecchi poemi provenzali anteriori al Petrarca, e il Sogno, il Fiore e la Foglia, e la Casa della Fama del suo contemporaneo Chaucer, sono dello stesso genere. [1] Forse i modelli di queste poesie si possono rintracciare nelle visioni che i monaci predicavano, ad imitazione di quelle di Ezechiello e dell’Apocalisse di San Giovanni. L’ultimo canto de’ Trionfi è intitolato: Della Divinità, e comincia

Da poi che sotto ’l ciel cosa non vidi

stabile e ferma, tutto sbigottito

mi volsi, e dissi: guarda; in che ti fidi?

Risposi: Nel Signor.

E conchiude. dicendo di Laura

se fu beato chi la vide in terra,

or che fia dunque a rivederla in cielo?

Egli stimava quest’opera una grande impresa, e la tralasciò temendo non gli bastasse la vita a finirla.[2] Nondimeno vi si applicò di nuovo: si accorse di aver fallito; ma pure perseverò, e lasciolla sì sfigurata dalle varie lezioni, che, per farne compiuta una copia dopo la sua morte, fu mestieri di supplir molto per congettura. In questo poema il genio del Petrarca, illanguidito più per la incresciosa vita che per la gravezza degli anni, non apparisce avvivato dal fuoco del suo cuore, se non dov’egli parla di Laura. Il poeta nota i suoi melanconici sentimenti su pe’ margini del manoscritto: «Più considero ciò che sono, e più sento vergogna di quest’opera: non sono più io, è un altro che scrive.» [3] — Il Petrarca era nato per creare con ansietà, e per disperdere ne’ momenti di sconforto le illusioni necessarie al suo riposo: così fu spesso in procinto di annientare per fino le poesie liriche da lui indirizzate a Laura. [4] Neppure ne fa menzione nella sua Lettera alla Posterità, quantunque, se non era per queste medesime poesie, gli altri meriti letterari del grand’uomo non sarebbersi ricordati con tanta gratitudine. Cogl’intimi amici si mostra vergognoso di avere adoperato l’ingegno a sollazzo di canterini di frottole e di amanti, lagnandosi che i suoi versi fossero stati troppo largamente sparsi ond’essere ritirati; e dolendosi che talvolta gli fossero stati travisati in parte, e tal altra attribuitigliene di quelli che non erano suoi, e che i cantanti di mestiero faceansi pure gran merito di aver raccolti. [5] Presenta egli a’ leggitori la scusa medesima nel primo sonetto della raccolta, [6] che si risolvette di preparare in vecchiaia, rifiutando le composizioni apocrife, e quelle da lui giudicate indegne di sè. [7]

II. Il piacere di rivivere nella sua gioventù, d’incontrar Laura ad ogni verso, di riandare la storia del proprio cuore, e forse la coscienza, che alla fin fine di rado svia gli autori rispetto alle migliori opere loro, indusse il poeta ornai vecchio a dare tal perfezione a’ suoi versi d’amore, che non fu mai raggiunta da verun altro scrittore italiano, e ch’ei credeva «non potersi recare più oltre neppure da lui stesso.» [8] Se non si conservassero tuttora i manoscritti, sarebbe impossibile immaginare o credere le indefesse fatiche da lui sostenute nella emendazione de’ suoi versi. Tali manoscritti sono monumenti curiosi, sebbene rechino poco aiuto ad esplorare per quale occulto lavoro la lunga e laboriosa meditazione del Petrarca avesse sparso ne’ suoi versi tutto il nativo incanto di subita ed irresistibile inspirazione.

Ciò che seguita è traduzione letterale di una sequela di memorie in latino, poste in principio di uno de’ suoi sonetti.

«Cominciai questo per impulso del Signore (Domino jubente), il 10 settembre, all’alba del giorno, dopo le mie preci mattutine.»

«Converrà ch’io rifaccia da capo questi due versi, cantandoli (cantando), e ch’io ne inverta l’ordine: 3 ore a. m. 19 ottobre.»

«Questo mi piace (hoc placet): 30 ottobre, 10 ore del mattino.»

«No; questo non mi piace: 20 dicembre a sera.»

E di mezzo alle correzioni scrive, deponendo la penna: «tornerò sopra questo; sono chiamato a cena.»

«18 febbraio, verso nona: ora questo va bene; nondimeno tornavi su un’altra volta (vide tamen adhuc).»

Talvolta nota la città dove s’imbatte. — «1364, Veneris mane, 19 Jan. dum invitus Patavii ferior.» — Potrebbe sembrare osservazione più curiosa che rilevante, l’essere stato generalmente in venerdì ch’ei davasi alla tediosa briga della correzione, se non sapessimo ancora ch’era per lui giorno di digiuno e di penitenza.

Quando alcun pensiero gli occorreva alla mente, ei lo notava in mezzo a’ suoi versi così: «Bada a ciò. — Io aveva qualche intenzione di trasporre questi versi, e di fare che il primo divenisse l’ultimo; ma nol feci in grazia dell’armonia: — il primo allora sarebbe stato più sonoro, e l’ultimo meno, che è contro regola; perchè la fine dovrebbe essere più armoniosa che il principio.» Talora ei dice: «Il cominciamento è buono, ma non è patetico abbastanza.» In alcuni luoghi si suggerisce di ripetere le stesse parole, piuttosto che gli stessi concetti. In altri giudica meglio di non moltiplicare i concetti, ma di amplificarli con altre parole. Ciascun verso è rivoltato in più modi; sopra ogni frase e ogni parola colloca spesso modi equivalenti, per poi esaminarli di nuovo; e vuolsi conoscenza profonda dell’italiano, per accorgersi che, dopo tale perplessità scrupolosa, elegge sempre quelle parole che hanno insieme più armonia, eleganza e forza.

III. Questi laboriosi concieri fecero pensare, fin da quando il Petrarca viveva, che i suoi versi fossero opera più da poeta che da amante. [9] È fuor di dubbio, non essere violentissima quella passione che possiamo descrivere a nostro bell’agio. — Ma un grande ingegno sente più intensamente, e soffre più fortemente che altri; e per ciò appunto, quando la forza della passione allenta, egli ne serba più a lungo la rimembranza, e più agevolmente può ridestarsela nell’immaginazione e risentirne gli effetti, e, come parmi, ciò che diciamo potenza d’immaginare sta più ch’altro nel concorso del forte sentire e delle rimembranze. Così al genio è peculiarmente largita la facoltà di osservare il lavorio segreto della natura umana in quanto può nel cuor di lui e d’ogni altro; e per essa è fatto capace di descrivere que’ sentimenti, e recarli addentro nell’animo d’ogni lettore. L’alto segreto dell’arte del poeta sta nel farci sentire l’esistenza per forza di simpatia, ma, mentre esso geme sotto le angosce proprie, cercherebbe indarno di esaminare ciò che svolgesi nel suo o nel cuore altrui; — e i lirici versi che il Petrarca durò trentadue anni a scrivere, possono leggersi in pochi dì. Molte composizioni, non è dubbio, furono concepite ne’ momenti che la passione più poteva sopra di lui, ma furono scritte assai giorni, forse assai mesi, e certamente perfezionate assai anni dopo. Il sonetto 48° della prima parte della sua raccolta fu dettato undici anni dopo fatta conoscenza con Laura:

Or volge, Signor mio, l’undecim’anno,

ch’ i’ fui sommesso al dispietato giogo.

Quattr’anni dopo quest’ultima epoca dettò netto 85°.

Fuggir vorrei; ma gli amorosi rai,

che dì e notte nella mente stanno,

risplendon sì, ch’al quintodecim’anno

m’abbaglian più che ’l primo giorno assai.

Pel corso di questo e di tutto il prossimo anno compose soltanto undici sonetti; perchè il 96° comincia:

Rimansi addietro il sestodecim’anno;

e il 97°:

Dicesett’anni ha già rivolto il cielo.

Così in questi dodici mesi scrisse soli quattordici versi a Laura. E di vero, se la mente di lui non avesse avuto intervalli di riposo, egli sarebbe stato inetto a vestire que’ concepimenti, e vie più ad emendarli. Che anzi non sarebbe vissuto sì a lungo, o, se vissuto, avrebbe tratto i suoi dì nella irrequietezza e nella oziosità, inseparabili dai turbati sentimenti. L’armonia, eleganza e perfezione della sua poesia sono frutto di lunga fatica, ma i concetti primitivi e l’affetto scaturì sempre dalla subita inspirazione di profonda e potente passione. Mercè l’attenta lettura di tutti gli scritti del Petrarca, può quasi ridursi a certezza: — che col dimorare di continuo nelle stesse idee, e col lasciare la mente pascersi senza posa di sè stessa, l’intero corso de’ suoi sentimenti e delle sue riflessioni ne contraesse un forte carattere e tono; e che, se riusciva mai a rintuzzarli per alcun tempo, essi tornassero con accresciuta violenza; — che, per sedare lo stato irrequieto della mente, egli nel primo caso, corrispondendo co’ più intimi amici, comunicasse loro in libero e abbandonato modo tutto ciò che pensava e sentiva; — che quindi riducesse queste narrative con ordine e descrizione migliore in versi latini; — e che all’ultimo le perfezionasse con maggior copia d’imagini e con più arte nella sua poesia italiana, la cui composizione da prima serviva unicamente, come dice più volte, «a divertire e a mitigare tutte le sue afflizioni.»

IV. Per tal modo ne si fa chiaro il perfetto accordo che regna nella poesia del Petrarca tra natura ed arte; tra l’accuratezza di fatto e la magia d’invenzione, tra profondità e perspicuità, tra passione divorante e pacata meditazione. In tre o quattro versi italiani egli spesso condensa la descrizione, e concentra il fuoco che riempie una pagina delle sue elegie e lettere latine. Nonostante i profusi ornamenti dello stile o la spirituale elevatezza de’ pensieri, la poesia del Petrarca non par mai fattizia o fredda, appunto perchè sgorgò dal cuore. Nel muovere degli occhi di Laura scorge egli un lume che accenna alla via del cielo:

Gentil mia Donna, i’ veggio

nel mover de’ vostr’occhi un dolce lume,

che mi mostra la via ch’al Ciel conduce.

Egli esclama; «che l’atmosfera si fa sorridente, luminosa e serena all’appressarsi di lei:»

      il ciel di vaghe e lucide faville

s’accende intorno, e ’n vista si rallegra

d’esser fatto seren da sì begli occhi.

«che l’ aere respirato intorno ad essa è si purificato dal celeste raggiare del suo aspetto, che, mentre gli occhi suoi si affisano in lei, ogni brama sensuale è spenta:»

L’aere percosso da’ lor dolci rai

s’infiamma d’onestate;

basso desir non è ch’ivi si senta,

ma d’onor, di virtute. Or quando mai

fu per somma beltà vil voglia spenta?

Eppure è sempre naturale. Pochi amanti per verità avrebbero potuto concepire tali idee; e non pertanto il fuoco e la facilità onde vengono espresse, le rendono immediatamente familiari alla immaginazione di quasi ogni lettore. Nell’arte di formare, mediante metafore, nuove ed evidenti imagini, vuoi delle più semplici, vuoi delle più astratte idee, il Petrarca è non men felice che originale. Ad esprimere il pensiero comune, che le sue poesie e la beltà di Laura sarebbero state ricordate dopo la morte loro, ci dice:

ch’io veggio nel pensier, dolce mio foco,

fredda una lingua, e due begli occhi chiusi

rimaner dopo noi pien di faville.

E fu imitato in questo luogo da un poeta inglese, il quale accoppia in sommo grado severità di gusto con ardire di espressione:

[Ev’ n in our ashes live their wonted fires.]

Gray.

Pur nelle usate ceneri arde l'usata fiamma

V. Se il Petrarca non avesse abusato senza modo delle antitesi, troppo di frequente ripetute le iperboli, troppo spesso paragonata Laura al Sole; i numerosi plagiarii di lui, che però non seppero mai imitarne le bellezze, non sarebbero stati cotanto insigni pe’ loro vizi; e a Salvator Rosa sarebbe mancata cagione di dolersi nelle Satire, che

Le metafore il Sole han consumato.

Il gioco sopra le parole Lauro e Laura, e i concetti somministrati dalla trasformazione di Dafne amata da Apollo nel lauro immortale, ammiransi tuttora da alcuni forestieri, [10] per l’autorità di uno de’ più celebri critici d’Italia, [11] il quale peraltro compiacevasi dell’Italia Liberata del Trissino, nè volle mai concedere la Gerusalemme del Tasso essere opera da poeta. Io per me non senza qualche pietà guardo a un grande ingegno, che di mente al sommo dilicata e ardente, di giudizio tanto difficile e di gusto sì raffinato, di calda imaginativa e di cuore passionato, potè condiscendere, a trastullo di Laura e de’ suoi lettori, a sì fredde affettazioni. Se non che anche il Petrarca fu tenuto a scontare il misero debito di quasi tutti gli scrittori col piegare il proprio sentire a quello de’ contemporanei. Innestò ne’ suoi versi le agudezas, ternuras y conceptos de’ poeti spagnuoli, e fu a ragione tassato di plagio. — «Avemmo anticamente,» dice uno storico di Valenza, «un famoso poeta chiamato Mossen Jordi e il Petrarca, nato cent’anni dopo, gli rubò i versi, e li vendè in italiano al mondo come propri, di che potrei convincerlo in molti luoghi; nondimeno starò contento al citarne pochi:» [12]

MOSSEN JORDI.

E non he pau, e no tin quim guerreig;

Vol sobre ’l ciel, et nom’ movi de terra;

E no estrench res, e tot lo mon abras;

Oy he de mi, e vull a altri gran be:

Si no es amor, donchs azò que sera?

Petrarca

Pace non trovo, e non ho da far guerra;

E volo sopra ’l cielo, e giaccio in terra;

E nulla stringe; e tutto ’l mondo abbraccio;

Ed ho in odio me stesso, ed amo altrui;

S’amor non è, che dunque è quel ch’i’ sento?

Se il Petrarca si giovasse o no d’altre opere spagnuole, non mi è dato decidere. Qua e là insertò vari concetti tolti manifestamente dai Provenzali; e, quantunque spesso li migliorasse, spiacciono appunto perchè non armonizzano col tenore solenne, profondo e passionato del suo stile. Il seguente sonetto, in cui il Petrarca, se non tolse i pensieri, imitò gli amorosi lamenti de’ francesi Trovatori, può dare non imperfetta idea della loro poesia amatoria. È un mosaico d’antitesi: i canti e gli affetti loro, agghiacciati da epigrammatico raffinamento, mostrano com’essi non fossero nè poeti inspirati, nè caldi amatori:

S’una fede amorosa, un cor non finto,

un languir dolce, un desiar cortese;

s’oneste voglie in gentil foco accese;

s’un lungo error in cieco laberinto;

se nella fronte ogni penser dipinto,

od in voci interrotte appena intese,

or da paura, or da vergogna offese;

s’un pallor di viola e d’amor tinto;

s’aver altrui più caro che sè stesso;

se lagrimar e sospirar mai sempre,

pascendosi di duol, d’ira e d’affanno;

s’arder da lunge ed agghiaccia da presso,

son le cagion ch’amando i’ mi distempre;

vostro, donna, il peccato, e mio fia ’l danno.

VI. In questa imitazione de’ Trovatori il Petrarca inserì un verso tolto da’ classici:

Et tinctus viola pallor amantium.

Horat.

Pure con quanta dilicatezza e verità lo ha egli migliorato col modo felice — Pallore tinto di viola e d’amore! — Maria Stuarda, destinata dalla prima gioventù all’amore e alle afflizioni, tradusse lo stesso verso d’Orazio nella sua Monodia (conservata da Brantôme) in morte del suo giovane marito, Francesco Secondo:

Mon pâle visage de violet teint,

qui est l’amoureux teint.

Sebbene il Petrarca ravvisasse ne’ poeti latini i maestri suoi, per gran ventura giudicò nondimeno che non sarebbero potuti degnamente imitarsi nella lingua italiana: quindi tolse da essi parcamente; nè so ravvisare più di due o tre versi di Virgilio, di Ovidio e di Orazio, di cui, tentato piuttosto da inevitabile reminiscenza che da propostasi imitazione, accidentalmente e’ si giovasse:

Agnovit longe gemitum prœsaga mali mens. Virg.

Mente mia, che presaga de’ tuoi danni.

Elige cui dicas: tu mihi sola places. Ovid.

A cu’ io dissi: tu sola mi piaci.

Orazio, col trasporre di poche parole, tramutò la reale passione di Saffo in mera gaiezza e galanteria:

Dulce ridentem Lalagen amabo,

Dulce loquentem.

Il Petrarca, tuttochè appena leggesse greco, e i frammenti di Saffo non fossero conosciuti per ancora, raccese il fuoco e il calore che Orazio aveva spento, e coll’aggiungere il sospiro al sorriso e alla voce dell’amata, mostrò come anche la greca poetessa avesse lasciato la pittura imperfetta:

Per divina bellezza indarno mira

chi gli occhi di costei giammai non vide...

chi non sa come dolce ella sospira,

e come dolce parla e dolce ride.

Nè l’amore sensuale de’ Romani e de’ Greci poteva conciliarsi colla dilicatezza della poesia del Petrarca. Le sue più belle imitazioni sono tratte dalle sacre carte; nè tali imitazioni credo essere state per anche avvertite da verun critico, sebbene deggia essere ovvio ad ognuno quanto profondamente tutti i suoi pensieri fossero inspirati dalla religione:

E femmisi all’incontra

A mezza via, come nemico armato. [P. II, Son. 47.]

Et veniet tibi, quasi cursor, egestas; et mendicitas, quasi vir armatus. [Prov., c. XXIV, v. 34.]

E la cetera mia rivolta in pianto. [P. II, Son. 24.]

Versa est in luctum cithara mea. [Job, c. XXX, v. 31.]

Qual grazia, qual amore, o qual destino

mi darà penne in guisa di colomba,

ch’i’ mi riposi, e levimi da terra? [P. I, Son. 52.]

Et dixi: Quis dabit mihi pennas sicut columbæ, et volabo, et requiescam? [Psalm. LIV, v. 7.]

Vergine bella, che di Sol vestita,

coronata di stelle.   [P. II, Canz. ult.]

Mulier amicta Sole, et Luna sub pedibus ejus, et in capite ejus corona stellarum duodecim. Apoc., cap. XII, v. 1.

L’alta aura di pietà e d’amore, che spira nelle opere di lui, a volte sa di profano:

Baciale ’l piede, o la man bella e bianca:

Dille: il baciar sia ’n vece di parole:

Lo spirto è pronto, ma la carne è stanca.

Spiritus quidem promptus est, caro autem infirma. [Math., cap. XXVI, v. 41.]

A dissipare la gelosia di Laura, rassomiglia l’ardore con che rintracciava le sembianze di lei nel volto di belle donne, alla divozione di un pellegrino che si affisa nell’imagine del Salvatore:

Movesi ’l vecchierel canuto e bianco

del dolce loco ov’ ha sua età fornita,

e dalla famigliuola sbigottita,

che vede 'l caro padre venir manco:

indi traendo poi l’antico fianco

per l’estreme giornate di sua vita,

quanto più può col buon voler s’aita,

rotto dagli anni e dal cammino stanco;

e viene a Roma, seguendo ’l desio,

per mirar la sembianza di colui

ch’ancor lassù nel ciel vedere spera.

Così, lasso, talor vo cercand’io,

Donna, quant’è possibile, in altrui

la desiata vostra forma vera.

Amore, alludendo alla creazione del primo uomo nella Genesi, dirige il Poeta a scrivere che:

Forma par non fu mai dal dì ch’Adamo

Aperse gli occhi in prima: e basti or questo.

Piangendo il dico; e tu piangendo scrivi.

VII. Le grandiose e solenni forme sotto cui Amore viene rappresentato da’ poeti italiani, sono piuttosto di ragione della mistica filosofia, che della mitologia popolare degli antichi. Il Tasso, che nelle liriche cede al solo Petrarca, e che più di lui era dotato della facoltà di ridurre le idee all’universale, ritrasse con poche ardite pennellate la imagine del Platonico, o più veramente del Pitagorico Amore:

Amore alma è del mondo, amore è mente

Che volge in ciel per corso obbliquo il Sole,

E degli erranti Dei l’alte carole

Rende al celeste suon veloci o lente.

L’aria, l’acqua, la terra, e ’l foco ardente

Misto a’ gran membri dell’immensa mole

Nutre il suo spirto; e s’uom s’allegra, o duole,

Ei n’è cagione, o speri anco, o pavente.

Ma, benchè tutto crei, tutto governi,

E per tutto risplenda, e in tutto spiri,

Più spiega in noi di sua possanza Amore. [13]

In questa descrizione Amore è l’anima dell’universo: da lui tutto il creato vien mosso: agita gli elementi, onde, mescendoli insieme, accozzarli in nuove forme: mette i corpi tutti in movimento, e li sospende equilibrati per forza di attrazione e repulsione: la sua ala distendesi dall’uno all’altro pianeta: co’ suoni della sua lira regge i lor moti, e fa le stelle obbedienti alle leggi dell’universale armonia. Il suo freno governa gli abitanti della terra; nè altro è la vita che un rapido alternare di speranze e di timori, di piaceri e d’affanni, perchè gli è desso che ci trae a forza verso quegli oggetti, per mezzo de’ quali sentiamo il piacere e la coscienza dell’esistenza nostra, e ci fa cansare quelli che o amareggiano la vita, o portano in noi l’indifferenza di morte. Il cieco fanciullo, degli scherzi del quale Anacreonte e Orazio si dilettano di muover lamento, diviene nel Petrarca:

Quell’antiquo mio dolce empio signore —

Cieco non già, ma faretrato il veggo;

garzon con l’ali non pinto, ma vivo.

Severo, inesorabile comanda la rassegnazione

dura legge d’amor! ma benchè obliqua,

servar conviensi; però ch’ella aggiunge

di cielo in terra, universale, antiqua.

Mentre Amore sveglia la spirituale, non può non eccitare la material parte di nostra natura; e, se tanto bramiamo il corpo quanto l’anima dell’oggetto che amiamo, dobbiamo apporlo alla grossezza dei sensi, non al vizio della passione. Così Amore non è tiranno del Petrarca, ma «signore e maestro,» — «direttore della condotta, e depositario de’ secreti di lui;» — nè disdegna di dar ragione dell’uso di siffatto potere:

Amor mi manda quel dolce pensiero

che secretario antico è fra noi due,

e mi conforta.

io mi pasco di lagrime, e tu ’l sai.

da mill’atti inonesti l’ho ritratto. [14]

lei, ch’ alto vestigio

l’ impresse al core, e fecel suo simile.

da volar sopra ’l ciel gli avea dat’ali.

Queste conversazioni seguono spesso tra Amore e il Poeta in riva al Sorga, ove errano di conserto per la Valle Chiusa, dopo la morte di Laura, confortandosi a vicenda di averla perduta.

Amor, che meco al buon tempo ti stavi

fra queste rive a’ pensier nostri amiche,

e per saldar le ragion nostre antiche,

meco e col fiume ragionando andavi.

Sì aspre vie nè sì selvagge

cercar non so, ch’amor non venga sempre

ragionando con meco, ed io con lui.

VIII. Le poesie amorose del Petrarca si possono avere in conto d’anello intermedio tra quelle de’ classici e le moderne. La dipintura lasciataci da Saffo della sua passione è ciò che ognuno di pari ardore di mente non potrebbe non provare in pari condizioni, e ciò che ogni osservatore può scernere e creder forse di poter descrivere. Il genio nondimeno di afferrare d’un tratto e di ordinare armoniosamente, e di ritrarre a tocchi rapidi e vibrati tutti quanti gli esteriori accidenti di una passione, in guisa da recarla ben dentro nell’anima d’ogni lettore, è dato a pochi eletti; richiedendo perspicace conoscimento di tutti i moti dell’uman cuore. Solo il profondo studio anatomico potè insegnare a Michelangelo a dar correzione ed energia alle forme ed agli atteggiamenti delle sue figure: ma se un artista, a sfoggio di sapere anatomico, avesse a rappresentare l’interna, anzichè l’esterna struttura del corpo umano, la natura nelle sue mani potrebb’ella assumere quell’aspetto, onde piace ad ogni occhio e muove ogni cuore? Una moderna Saffo, più scaltrita a svolgere la notomia interna de’ suoi sentimenti, li fa piuttosto comprendere, che vedere e sentire a’ suoi lettori: [15] ma chi può freddamente notomizzare le proprie passioni, non può destare in altri simpatia. Il Petrarca e sente come gli antichi e filosofeggia come i moderni poeti. Ov’ei dipinge ritraendo da’ classici, li pareggia, se pur non li vince. Lo spirito di Laura poggia al cielo; angeli ed anime beate scendono ad incontrarla: ella si volge addietro per vedere se il Petrarca la segue, e sembra soffermarsi nell’aereo suo cammino:

ad or ad or si volge a tergo

mirando s’io la seguo, e par ch’aspetti.

In queste poche parole è una sublime e passionata pittura, cui manca solo il colorito di un Tiziano. Il poeta non potea darci prova maggiore della forza e purità della passione di Laura, che quella d’indugiarne il volo al cielo per aspettare l’amante. Ben è vero queste essere illazioni che per noi stessi si hanno a trarre ma i cuori inetti a coglierle di lancio non meritano che sieno loro suggerite. Allorchè il Petrarca compiace al gusto del secolo, amore e religione danno talvolta calore e un non so che di solenne anche alle antitesi per sè più fredde. Lo spirito di Laura così conforta il suo amante:

Di me non pianger tu; ch’e’ miei dì fersi,

morendo, eterni; e nell’eterno lume,

quando mostrai di chiuder, gli occhi apersi.

Ma dovunque gli avvenga di spiegare astratte idee, o di ravvolgersi per entro a’ recessi del cuore, il Petrarca non si trattiene a definire ed amplificare: ma adopera ogni industria dell’arte, acciocchè le sue imagini trapassino, qual fulgido e rapido lampo, per la mente di chi legge. — «So,» egli dice, «con quale ansietà inseguiamo colei che ci sfugge; e pure quanta temenza abbiamo di raggiugnerla!» Siccome chiunque abbia amato provò somigliante contrasto in sè stesso, così è di tanto più presto a consentire nell’osservazione che segue, ugualmente giusta, benchè non ovvia ugualmente: «So che un amante può essere tutto assorto ne’ pensieri della sua donna, a segno da credersi quasi immedesimato con essa:»

So della mia nemica cercar l’orme,

e temer di trovarla; e so in qual guisa

l’amante nell’amato si trasforme.

IX. A uno scrittore moderno, costretto a tessere poesia più secondo il gusto analitico de’ propri tempi, che secondo le poetiche dottrine del Petrarca, non venne fatto di tradurre questo passo, se non con doppio numero di versi.

[I know what hope and fear assail the mind

When I pursue my love, yet dread to find;

I know thee strange and sympathetic tie,

When, soul in soul transfused, a fond ally

For ever seems another and the same,

Or change with mutual love their mortal frame.

BOYD’S Transl.]

So quale speranza e qual paura m'assalgono la mente quando inseguo e tremo di trovare la mia amata; so lo strano nodo d'affetti quando un'anima si trasfonde nell'altra, una diletta alleata che sempre par diversa e la stessa, o cambia il proprio aspetto mortale per mutuo amore.

Dalla traduzione del Boyd

Ma, lasciata anche stare sì fatta amplificazione, i versi del Petrarca nulla hanno che fare col mutuo amore, poich’egli pensatamente chiama in essi Laura sua nemica: e diresti che il traduttore mirasse più ch’altro a un passo della Epistola di Eloisa:

[Oh! happy state! when souls each other draw,

When love is liberty, and nature law:

All then is full, possessing and possest,

No craving void left aching in the breast;

Ev’n thought meets thought, ere from the lips it part;

And each warm wish springs mutual from the heart;

This sure is bliss (if bliss on earth there be),

And once the lot of Abelard and me.]

Oh! felice stato! quando le anime si attraggono l'una l'altra, quando amore è libertà e la natura legge; allora tutto è pieno possedendo ed essendo posseduto e nessun vuoto di desiderio rimàn dolorante nel petto; anche il pensiero muove incontro al pensiero prima di scoccar dalle labbra, e ogni caldo desiderio erompe scambievolmente dai cuori; questa è vera beatitudine (se beatitudine esiste in terra) e fu un tempo sortita ad Abelardo e a me.

Questa scuola di poetica analisi, che il gusto mirabile di Pope recò a tanta perfezione, è, se oso arrischiare una opinione, tutta propria degl’Inglesi, e già antica. La nozione espressa dal Petrarca nel solo verso:

L’amante nell’amato si trasforme,

fu stemperata da Ben Jonson in metafisiche particolarità:

[It is a flame and ardour of the mind,

Dead in the proper corpse, quick in another’s:

Transfers the lover into the loved:

That he or she, that loves, engraves or stamps

The idea of what they love, first in themselves,

Or, like the glasses, so their minds take in

The forms of their beloved, and them reflect.]

È fuoco ed ardore dell'animo; morto nel proprio cuore, vivo in quello dell'altro; trasporta chi ama in chi è amato, così che colui o colei che ama incide o imprime l'idea di quel che ama in sé primamente, oppure, come specchi, le loro menti ricevono le forme amate e le riflettono.

Alcuni passi stanno, non v’ha dubbio, troppo a disagio nel Petrarca, e fannosi oscuri per brevità; nondimeno tanto il lettore sentesi rapito dal calore della passione dell’amante, che gli par di capire a tutta prima ciò che in effetto a snodarsi richiede qualche ponderazione. Sembrerebbe ch’ove non comprendiamo distintissimamente i pensieri di un poeta, i suoi versi dovessero perdere non poca della forza loro; pure quanto è con profondità sentito, presumiamo che sia distintamente compreso; e giusto allorchè stiamo in forse di poterci levare con lui a spaziare sopra i limiti della, terra, il Petrarca trova modo d’insinuarsi nelle più riposte pieghe de’ nostri cuori; e nel punto che entriamo negli stessi suoi sentimenti, siamo anche pronti ad ammetterne per vere le visioni. Egli esclama:

Chi vuol veder quantunque può Natura

e ’l Ciel tra noi, venga a mirar costei.

E di nuovo

Le stelle e ’l cielo e gli elementi a prova

tutte lor arti ed ogni estrema cura

poser nel vivo lume in cui natura

si specchia.

«Che Laura venne vestita di tutte le sue virtù dal pianeta ch’ella abitava prima di scendere sopra la terra:»

In tale stella duo begli occhi vidi,

tutti pien d’onestate e di dolcezza.

«Che la bellezza di Laura preesisteva nel concetto della Divinità alla creazione dell’universo:»

In qual parte del cielo, in quale idea

era l’esempio?

Pure in questo medesimo sonetto, ove si dispiega la teorica di Platone — «che tutti gli oggetti i quali cadono sotto i sensi sono soltanto copie di modelli più o meno perfetti che esistevano ab eterno nella mente di Dio,» — il poeta esclama improvvisamente:

Benchè la somma è di mia morte rea.

Così il fulgore della descrizione viene maestrevolmente temperato con un solo verso, il quale ne ricorda che, se Laura è un angelo, l’amante suo almeno è un mortale che patisce al pari di noi.

X. Uno di que’ poeti in cui va unita la inspirazione a sobria e profonda conoscenza de’ misteri dell’arte loro, ha notato «che troviamo diletto nelle rappresentazioni della vita che il poeta ci fa, per l’amore appunto che portiamo alla vita stessa, e tutte le imitazioni di oggetti hanno un certo valore per la mente, come sembianze e ricordi di una vita peritura.» [16] Il vero di tale osservazione e l’applicarla ad opere d’immaginazione si può intendere appieno da chiunque consideri, che l’amore alla vita muove dalla coscienza che abbiamo di esistere: — che sì fatta coscienza risulta dall’esercizio delle nostre facoltà: — che tal esercizio ci affatica e consuma: — che ad esso quindi opponiamo costante desiderio di riposo. Per tal modo possiamo spiegare il conflitto tra le nostre propensioni, vôlte ora alla irrequietezza e ora all’inerzia, dal quale avviene che tutti gli uomini più o manco sieno talora travagliati. Opino io che il moto e l’equilibrio delle facoltà mentali mantengansi in noi, come i battiti del cuore, da continua oscillazione dall’una all’opposta parte, e che, come prima questa cessa, cessi la vita. Sempre in traccia di riposo, per ciò stesso ci fugge sempre. Ove ci avvenga di trovarlo in un ozio assoluto, l’esistenza ci si rende noiosa, e gli è allora che tremiamo e al pensiero che la vita ci sfugge e all’appressarsi dell’unica tranquillità reale, la morte. Pur come il riposo perfetto delle facoltà ci fa stupidi, così la turbolenza violenta delle passioni ci affoga: — quindi la rappresentazione delle passioni altrui ne aggrada, facendoci consapevoli dell’esistenza con eccitamenti e non con tribolazioni, e ne apporta insieme i piaceri dell’agitazione e del riposo. La rappresentazione dell’amore più vivamente ci riscuote di quella dell’altre passioni, i cui semi, come che nel petto d’ogni uomo stieno racchiusi, pur non si svolgono ove ad esso manchi l’aiuto di circostanze, che a molti non occorrono mai, dove l’amore e la morte sono, come Dante dice del Sole,

li ministri maggior della Natura;

la quale coll’amore soltanto può riprodurre le sue creazioni, che la morte va perpetuamente struggendo. Ma tutti quasi gli scrittori veggono l’amore vestito di quelle esteriori apparenze, che può accidentalmente pigliare da costumi speciali ad ogni nazione ed età. Così i romanzi raro piacciono alla generazione che succede, perchè rappresentano più le eventuali e passeggere forme, che l’intima natura d’amore. Ma quando un grande poeta traduce il proprio cuore nella pittura ch’ei fa dell’amore, caverà lagrime dagli occhi d’ognuno in ogni tempo. Sebbene il Petrarca sollevi questa passione all’altezza della propria mente, e l’adorni secondo le metafisiche speculazioni e i costumi del suo tempo, tuttavia ci pone dinanzi agli occhi molte sembianze e memorie de’ nostri propri sentimenti. Gli è forse il più felice tra que’ poeti «che destano a stupore con guizzi di natura sfuggiti alla osservazione o svaniti ornai dalla memoria nostra, e come se ci restituissero davanti un amico perduto o lontano, ci commuovono con tenerissima illusione, sgombra però da quell’indistinto che è ne’ sogni.» Nella poesia del Petrarca ci occorre ogni menoma circostanza della nostra passione; pene, piaceri, speranze, timori sperimentati; e a volte con solo un verso egli ci fa retrocedere a rivivere di nuovo colla persona che un tempo ne fu più cara, e che forse da gran pezza ci è scomparsa dagli occhi, per non dir anche dalla memoria. L’altezza dello stile e l’ornamento delle immagini, lungi dal farne ritrosi, a lui anzi ne trae, perchè pare ch’egli adoperi ogni accorgimento dell’arte a farci spettatori e compagni della felicità, o della miseria sua:

Qui cantò dolcemente, e qui s’assise;

qui si rivolse, e qui rattenne il passo;

qui co’ begli occhi mi trafisse il core;

qui disse una parola, e qui sorrise;

qui cangiò ’l viso. in questi pensier, lasso,

notte e dì tiemmi il signor nostro amore.

XI. Principalmente nella espressione del dolore il Petrarca entra in ogni cuore, ed ogni cuore entra nel suo. Nettezza di dizione, dilicatezza di sentimento, estasi platonica, tutto cede alla violenza del suo dolore; e noi rimiriamo lo spaventoso conflitto tra la ragione e la disperazione, tra la passione e la religione. La ricordanza dell’amor suo, e i rimorsi delle voglie ree gli penetrano il cuore; e mentre pare ch’egli stia in procinto di por fine alla vita da sè, viene frenato soltanto dal timore di varcare d’una in altra peggiore miseria:

S’io credessi per morte essere scarco

del pensier amoroso che m’atterra,

con le mie mani avrei già posto in terra

queste membra noiose, c quello incarco.

ma perch’io temo che sarebbe un varco

di pianto in pianto e d’una in altra guerra ec.

Allorchè si volge per conforto al cielo, agli uomini e a quanto gli sta d’intorno, la nostra simpatia per l’uomo ci fa quasi dimenticare l’ammirazione verso il poeta; perchè veggiamo che, come ogni creatura che sentasi estremamente misera, egli s’immagina di avere inspirato a tutta la natura la propria afflizione:

Vago augelletto che cantando vai,

ovver piangendo il tuo tempo passato,

vedendoti la notte e ’l verno a lato,

e ’l dì dopo le spalle e i mesi gai;

se come i tuoi gravosi affanni sai,

così sapessi il mio simile stato,

verresti in grembo a questo sconsolato

a patir seco i dolorosi guai.

i’ non so se le parti sarian pari;

chè quella cui tu piangi è forse in vita,

di ch’a me morte e ’l ciel son tanto avari;

ma la stagione e l’ora men gradita,

col membrar de’ dolci anni e degli amari,

a parlar teco con pietà m’invita.

Le poesie che il Petrarca dettò intorno a Laura finiscono con una delle più belle canzoni. Rivolto alla beata Vergine, in lei, che aveva sentito gli umani affetti e congiunto in sè i tre più gentili e cari nomi sopra la terra — di madre, figliuola e sposa, — s’affida il poeta, che gli userà misericordia:

tre dolci e cari nomi ha’ in te raccolti,

Madre, figliuola e sposa.

Poi, con sublimità e affetto che nessun poeta mai superò, implora l’aiuto di lei a poter cessare nella sua vecchia età di struggersi in lamenti sopra le ceneri di tale, che aveva riempiuto la sua vita di pericoli e di lagrime.

XII. Quantunque sì fatta maniera di poesia fosse in uso presso i Siciliani e i Provenzali per più di due secoli, rado fu inspirata dal genio o dalla passione. Amanti di professione intitolarono rime alle donne loro, che cantanti ed erranti trovatori ripetevano a’ banchetti de’ mecenati. A parere di Dante e dell’amico suo Guido Cavalcanti, essi furono piuttosto dicitori per rima, che degni del none di poeti. [17] Non sì tosto fu la poesia italiana nobilitata dalle platoniche speculazioni intorno all’amore, che i predecessori del Petrarca pronunciarono, le anime volgari non essere capaci nè degne di venir iniziate a una tale passione. Guido Cavalcanti, instantemente richiesto da una gentildonna di scrivere intorno agli affetti ch’ella inspirava, protestò: «ch’egli non avrebbe potuto confidarsi d’essere compreso, fuori che da menti elevate:»

Donna mi priega, perch’io voglia dire

d’un accidente che sovente è fero

ed è sì altero, che è chiamato amore;

sì chi lo niega possa il ver sentire!

Ed io non spero ch’uom di basso core

a tal ragione porti conoscenza.

Di questa canzone fu data contezza da alcuni celebri commentatori, e fra gli altri da Pico della Mirandola; ma non perciò si è fatta più intelligibile. Dante fece egli stesso il commento a’ suoi versi d’amore; esempio seguito, due secoli dopo, da Lorenzo de’ Medici, la cui Teorica d’Amore è uno de’ pochissimi trattati che o sfuggirono alle indagini indefesse, o non furono riputati degni di essere fatti conti dallo storico, le illustrazioni del quale intorno al secolo de’ Medici fecero caro il nome suo agl’Italiani riconoscenti. [18] Dalla comparazione di alcuni versi, dove Guido, Dante, Petrarca e Giusto de’ Conti pigliano a descrivere la sovrumana bellezza delle donne loro, è agevole a seguire i progressi di siffatta poesia, e accorgersi che Dante fu più che mai vicino a toccarne la perfezione. Il Petrarca in appresso lo trattò per modo, che nessun altro poeta fu mai capace di accostarglisi: ma non a lui si spetta il vanto dell’invenzione; poichè le leggi metriche e musicali di questa specie di lirica poesia erano già fermate. [19] Per quanto a’ nostri moderni compositori di Opere possano apparir brevi i Sonetti e le Canzoni, ond’essere suscettivi di musica, non è per tal rispetto men vero, che quelle voci sono derivate da Suono e da Canto, e che da’ poeti furono spesso poste note musicali alle stanze loro. Tra’ manuscritti di Franco Sacchetti e d’altri contemporanei del Petrarca, che ancora si conservano in Firenze, la seguente nota trovasi in capo di alcuno de’ loro sonetti: Intonatum per Francum, — Scriptor dedit sonum. Il sistema della musica italiana per contrappunto era stato creato tre secoli innanzi da Guido d’Arezzo; e solo a’ nostri dì fu raffinato e complicato da’ seguaci della scuola tedesca. La poesia non era a que’ tempi in Italia il mero caput mortuum della musica; e l’umana voce, in luogo di venir sottomessa quale accessorio all’orchestra, teneva la parte principale, ed era accompagnata da inanimati strumenti tanto solo, quanto fosse necessario a sostenerla, e a regolarne le modulazioni. Le parole potevano allora colpire l’orecchio di minor maraviglia che i toni; ma più vibrate penetravano il cuore, e con più utilità parlavano alla mente. Il Petrarca compose i suoi versi al suono del suo liuto, che legò nel testamento ad un amico; [20] ed ebbe voce dolce, flessibile e di grande estensione. [21] Tutta la poesia d’amore de’ predecessori, da quella di Cino in fuori, manca di dolcezza di numeri; ma la dolcezza del Petrarca è animata da varietà e ardore tale, che nessun lirico italiano ha mai conseguito l’uguale. La facoltà di serbare e variare a un tempo il ritmo è tutta sua: — la melodia ne’ suoi versi è perpetua, e pur non istanca l’orecchio mai. Le sue canzoni (sorta di composizione che partecipa dell’ode e dell’elegia, l’indole e la forma della quale è d’esclusiva ragione dell’Italia) comprendono stanze, talvolta di venti versi. Egli nondimeno collocò le cadenze in guisa da lasciare che la voce si fermi alla fine d’ogni tre o quattro versi, e fissò la ricorrenza della stessa rima, e le stesse pause musicali ad intervalli bastantemente lunghi per evitare la monotonia, e bastantemente brevi per conservare l’armonia. Però non par duro a credersi quanto Filippo Villani ne assicura: «che la musicale modulazione de’ versi del Petrarca indirizzati a Laura scorreva con tanta melodia, che nemmeno i più gravi potevano frenarsi dal ripeterli.» [22]

XIII. Metastasio, per gradire alla corte di Vienna, a’ musici ed al pubblico de’ suoi dì, e per compiacere alla dilicatezza del suo gusto femminile, ridusse la sua lingua e versificazione a tanta penuria di parole, frasi e cadenze, che paiono sempre le stesse, e nella fine non fa più effetto di un flauto, il quale apporta anzi dilettosa melodia, che vive e distinte sensazioni. Il Petrarca all’opposto, non pure vigorosamente afferrò, e bellamente usò tutta la ricchezza delle parole, tutta la varietà del numero, tutte le grazie e l’energia e gl’idiomi della propria lingua, ma vi saturò quelli de’ provenzali e spagnuoli poeti. Nessun vocabolo adoperato da lui è divenuto obsoleto; ed ogni sua frase può essere, ed è tuttavia, scritta senza affettazione. Nel tempo stesso ch’egli accresce i materiali onde l’italiana lingua di già abbondava, pare che la impronti di fresca e novella creazione, perchè in fatto questa lingua eragli insieme e naturale e forestiera. Non aveva più di nove anni quand’ei fu condotto in Francia, dove passò la giovinezza e la maggior parte di sua vita. I genitori, da cui avrebbe potuto apprendere l’idioma toscano, morirono mentr’era egli ancor giovinetto. Ne’ frequenti viaggi ch’ei fece in Italia dimorò a lungo da per tutto, tranne in Firenze, dove solo passò tre o quattro settimane. A formarsi uno stile che fosse affatto suo proprio, egli ne afferma che non tenne mai copia del gran poema di Dante, la cui dizione affetta di sprezzare. [23] Sol quando fu per chiudere i giorni suoi cominciò il Petrarca a pentirsi di non essersi valuto «della lingua volgare; campo novellamente scoperto, ma squallido, perchè molti gli diedero il guasto, niuno saggiamente lo coltivò.» [24] Devo alla libreria e alla liberalità di lord Holland l’unico saggio ch’io m’abbia mai veduto della prosa italiana del Petrarca. Gli è un manuscritto, di propria mano del Petrarca, di due lettere che, lontane dalla eleganza e grammaticale correzione di Dante e del Boccaccio, o da quella pure de’ loro minori contemporanei, sono solo notevoli per calore di sentimento e per la perspicuità di pensiero, peculiare al suo stile. Se, invece di dedicare la vita ad una lingua antica, nella quale erano già tanti inimitabili autori, egli avesse scritto le numerose opere sue in italiano, ne avrebbe potuto lasciare modelli d’ogni fatta di composizioni. La grande maestria nella poesia di tale lingua che aveva coltivata sì poco, è di quelle arcane maraviglie che il genio opera, non se ne avvedendo egli stesso, a modo che veggiamo talora sementi sparse dal caso in qualche benigno terreno spontaneamente far prova migliore e più lussureggiare, che non avrebbe ottenuto l’arte più industre in suolo meno propizio.

XIV. Lo scopo rilevante dello studio e dell’ambizione dei Petrarca fu di dissipare le tenebre, per entro alle quali i secoli di mezzo avevano avvolto la letteratura degli antichi. Ma qual genio e quale ardore potevano esser pari all’ampiezza di tanto assunto? Pur nondimeno riuscì egli per modo nello sgomberare le vie allo studio dell’antichità, che s’acquistò titolo, cui tuttora a buona ragione conserva, di ristoratore delle classiche lettere. «Non avete vergogna,» scriveva egli a’ Romani, «che le reliquie dell’antica vostra grandezza, risparmiate dalla inondazione dei Barbari, sieno cotidianamente vendute dalla vostra sconsigliata avarizia a’ forestieri? e che Roma in nessun altro luogo sia meno conosciuta e meno amata che in Roma?» [25] Nè l’entusiasmo del Petrarca per gli antichi monumenti gl’impedì di descriverli col sentir fino di un critico. [26] Da lui venne il primo esempio di raccogliere medaglie, come scorte più fidate pel laberinto cronologico e genealogico di dinastie scomparse dal mondo. Noi raccogliamo tuttavia il benefizio di que’ manuscritti ch’egli andò cercando senza posa per ogni angolo d’Europa; [27] e de’ quali moltiplicò le copie, non perdonando a denaro, povero, nè a fatica, vecchio ed infermo; e tanta fu la sua ansietà affinchè riuscissero corrette, che sovente si sottopose egli stesso allo stento servile del copista. Trovò la lingua latina,

Non fronde verdi, ma di color fosco,

non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti;

non pomi v'eran, ma stecchi con tosco.

Pure, per le fatiche da lui durate, questa lingua rivisse di tal freschezza, che lo fece riguardare come colui che rivocò a novello corso il secolo d’Augusto; merito non pertanto che gli uniti e assidui sforzi di sei generazioni di dotti, da’ suoi tempi fino a quelli di Leone X, hanno appena ottenuto. Tuttavia chi non reca al nome di perfetto letterato altro titolo che eleganze penosamente spigolate ne’ classici, non ha diritto di sogghignare alla latinità del Petrarca. Sembra che, modellando lo stile sovra i Romani, non intendesse nemmeno di porre al tutto in non cale i Padri della Chiesa, il fraseggiare de’ quali era più accomodato a’ suoi temi; e i pubblici negozi venendo a que’ dì trattati in latino, non gli fu sempre concesso di rifiutare parecchi di que’ modi, i quali, tuttochè derivati da barbari secoli, erano stati sanciti dall’uso di tutte le università, e venivan trovati più acconci alla intelligenza de’ lettori. Perdendo di purezza, si avvantaggiava di libertà, di scorrevolezza e di calore; e la sua prosa, quantunque non sia modello da imitarsi, si rimane oltre il tiro degl’imitatori, perchè originale e ben sua.

XV. Dalla poesia latina non poteva il Petrarca uscire ad onore, da che le natie bellezze di quella erano sì poco sentite, che in gioventù trascorse egli medesimo a scrivere esametri in rima. [28] La pronunzia, dalla quale tutti i metrici sistemi degli antichi derivano, si era già tanto alterata, ch’ei fu sovente astretto a congetturare, nè sempre apponendosi, la quantità delle sillabe. Ov’anche fosse stato fornito delle più alte poetiche facoltà che natura impartisse mai a verun mortale, non sarebbe potuto riuscire in lingua morta più che ordinario poeta. Il magico accozzamento di armonia, splendore, freschezza, forza, spirito, affetto e grazia nel descrivere ogni oggetto del creato, per minuto che sia, ogni oscura e sfuggevole idea, e tutti i più comuni sentimenti del cuore, non si ottiene se non con parole, nè si potrà ottener mai, ove il poeta non maneggi la sua dizione con tanta padronanza da rifonderla in lingua di propria creazione; ed ecco forse il grande vantaggio che diede a’ poeti primitivi il potersi di tanto lasciare addietro tutti i lor successori. Ma più son fatte irremovibili le leggi di una lingua, e più stretto sentesi il genio tra duri ceppi; e dov’altri vi si metta volontario, merita poca indulgenza: il Petrarca non pertanto si pose sotto a un tal giogo, qual unico mezzo di far forza all’ammirazione d’Europa; e la conseguì. Il primo libro dell’Affrica sua gli procacciò la corona in Campidoglio. Intantochè i cantatori di ballate campavano la vita canterellando i suoi sonetti per le pubbliche strade, i dotti li tenevano poco meno che indegni dell’ingegno suo; e intanto recavansi a vanto di arricchire le loro librerie d’alcun frammento di quell’epico poema delle gesta di Scipione. «Io nego» — scriveva egli al Boccaccio — «ma nego indarno: chi da me riceve un rifiuto manda prima un intercessore, poi un altro. L’importunità è cotanto ingenua e modesta! Non mi bastò l’animo di persistere a lungo nella mia disdetta, chè mi pareva di venir meno a’ debiti uffizi dell’amicizia; sicchè alla fine ebbi a cedere. Se ben mi ricorda, gli diedi un trentaquattro versi dell’Affrica; e siccome aveano mestieri di tempo e correzioni maggiori, posi fermo patto che altri non avesse mai a vederli; il che egli con grande sicurtà mi promise, ma poi dimenticò di osservare, se non erro, lo stesso giorno.» [29] Tali versi trovansi fra quelle Miscellanee, le quali, prima che si diffondesse il sapere, venivano apposte ora al vero, or ad apocrifo autore; e riferendosi essi alla morte di Magone, fratello di Annibale, un copista del decimoquinto secolo gli attribuì a Silio Italico, il cui poema della Guerra Purica era stato di recente scoperto dal Poggio. Circa trecentocinquant’anni dopo, un critico francese nel ristampare questo poema accusò il Petrarca di averlo trovato e soppresso, e di averne adulterato la purità de’ versi originali affine di più effettualmente occultarne il plagio. [30] Emendato l’episodio della morte di Magone, il critico lo innestò nel decimosesto libro di Silio, senza pensare che nel sesto libro dell’Affrica Magone parla e muore più da canuto filosofo che da giovine eroe, e non conoscendo che, qualsiasi tocco di natura individuale palesi, spetta al Petrarca, cui era appena possibile di scrivere una sentenza che nol tradisse.

XVI. Più andava il Petrarca scoprendo opere di antichi, e più diveniva competente a giudicarne la eccellenza; e sì addentro sentì quanto quelli gli andassero innanzi, che que’ latini poemi, ne’ quali per tanti anni avea riposto ogni speranza di gloria, nella fine gli cagionarono mortificazione interna, che i plausi del pubblico valsero solo a far palese. [31] All’udire in Verona ripetersi alcuni versi dell’Affrica, il Petrarca scoppiò in lagrime di vergogna. [32] Le copie, che circolarono dopo la sua morte, non poterono essere tratte dal manuscritto che aveva preparato, ma che non ebbe animo di dare al pubblico, e che subito dopo gettò alle fiamme. — «Di rado un padre nel porre il corpo morto dell’unico figliuolo sul rogo sentì agonia maggiore di quella ch’io provai nel distruggere il frutto di tante fatiche: pensate a ciò, e appena potrete frenare le lagrime.» [33] Parecchie sue egloghe ed elegie, e i suoi trattati — Della propria ignoranza e di quella di molti altri — De’ fatti memorabili, specialmente del proprio tempo — De’ rimedi della buona e cattiva fortuna — Del reggimento di una repubblica — Dei doveri di un comandante d’esercito — Itinerario per la Siria — una serie non compiuta di Vite d’illustri Romani da Romolo a Tito — Apologie ed Invettive contro i suoi avversari, — tutti questi con alcuni altri, che si rimangono tuttavia inediti, sono probabilmente la minor parte de’ suoi latini volumi. Mentre stava componendo, stimavasi l’Achille, e mentre rivedeva, il Tersite degli autori; e sovente, allorchè la morte degli amici suoi gli recava più addentro la persuasione della vanità della vita, ardeva i sudi scritti. [34] L’unico che continuò a tenersi caro sopra ogni altro, fu il libro della Solitudine, ch’ei chiamava: Liber maximus rerum mearum. Ne aggiunse un altro: Della vita pacifica de’ monaci, che indirizzò a Gerardo suo fratello minore, il quale, sperimentate tutte le gioie e le traversie della gioventù, alla morte di una diletta amica riparò, per chiudervi i giorni suoi, ad un monastero di certosini. «Mio fratello ed io,» sclamava il Petrarca dopo la morte di Laura, «stavamo in ceppi ugualmente. La tua mano, o mio Dio! ha rotto le nostre catene: ma siamo noi sciolti entrambi? Egli sì che si liberò davvero.» [35] Allora si fu ch’ei distrusse molte lettere, nelle quali interteneva gl’intimi suoi amici intorno a Laura: ma, avvertendo poi ch’altre si erano conservate e copiate, ei ne raccolse un gran numero, prevedendo forse ch’esse avrebbero all’ultimo salvato i suoi scritti latini dal venir trascurati.

XVII. Prima che al tutto ei si recasse a noia il mondo, aveva viaggiato, «esaminando ogni cosa con instancabile attenzione, osservando costumi ed indoli delle nazioni, e tutti gli altri paesi europei raffrontando con l’Italia.» [36] I tempestivi passi verso la civiltà, e la presente decrepitezza della patria del Petrarca fanno ragione del pari e dell’esagerato patriottismo di lui, [37] e delle severe censure di moderni statisti, i quali, benchè giusti a volte, rado sono equi. Quelle menti che possono sopravvedere la umana razza in tutte le vicissitudini ed epoche, ben sanno che stagioni di gloria e di calamità son prefisse ad ogni nazione, e ne giudicano con candore. [38] Pure, se il Petrarca esalta i suoi concittadini a detrimento degli estranei, prova piuttosto la sicurezza di osservatore pratico, che non il capriccioso sentenziare di un autore di viaggi per professione; e risguardando all’istruzione che possiamo tuttavia attingere al suo epistolario, ove ragiona de’ fatti, costumi e caratteri di quell’età, egli merita d’aver posto fra’ primi e più dotti viaggiatori d’Europa. Queste lettere sono tuttora inedite; e alcune altre stanno in tutte le edizioni confusamente disposte; molte se ne incontrano citate a lunghi brani da vecchi storici. Ei non fu solo testimonio oculare, ma le sue osservazioni, che paiono spesso effetto di súbite ed efficaci impressioni, portano un’impronta di sincerità. Séguita la traduzione di una delle sue lettere al cardinale Colonna, che Angelo di Costanzo inserì nelle sue Storie del Regno di Napoli.

«Orazio, volendo descrivere una gran tempestade, disse che era tempesta poetica; e mi pare che non potea più brevemente esprimere la grandezza di essa; perchè nè il cielo irato nè il mare tempestoso può fare cosa che non l’agguagli e vinca lo stile dei poeti descrivendola... che s’io avrò mai tempo, questa di Napoli sarà materia de’ versi miei; benchè non si può dire di Napoli, ma universale per tutto il mare Tirreno e per l’Adriatico: a me pare chiamarla napolitana, perchè contra mia voglia mi ha ritrovato in Napoli; però se io per l’angustia del tempo (volendo partirsi il messo) non posso scriverla a pieno, persuadetevi questo, che la più orribil cosa non fu vista mai. Questo flagello di Dio era stato predetto molti giorni avanti dal vescovo di un’isoletta qui vicina per ragione di astrologia: ma come suol essere che mai gli astrologi non penetrano in tutto il vero, avea predetto solo un terremoto grandissimo ai venticinque di novembre, per il quale avea da cader tutta Napoli, ed avea acquistato tanta fede, che la maggior parte del popolo, lasciato ogni altro pensiero, attendea solo a cercare a Dio misericordia de’ peccati commessi, come certo d’avere da morire di prossimo; dall’altra parte molti si ridevano di questo vaticinio, dicendo la poca fede che si dèe avere agli astrologi, e massime essendo stati alcuni dì avanti certi terremoti. Io, mezzo tra paura e speranza, ma un poco più vicino alla paura, la sera del ventiquattro del mese mi ridussi, avanti che si colcasse il sole, nell’alloggiamento; avendo veduto quasi la più parte delle donne della città, ricordevoli più del pericolo che della vergogna, a piedi nudi, coi capelli sparsi, coi bambini in braccio andare visitando le chiese, e piangendo chiedere a Dio misericordia.

«Venne la sera, e il cielo era più sereno del solito, e i servidori miei dopo cena andaro presto a dormire; a me parve bene d’aspettare per vedere come si ponea la luna, la quale credo che fosse settima, ed aperta la finestra che guarda verso occidente, la vidi avanti mezzanotte ascondersi dietro il monte di San Martino con la faccia piena di tenebre e di nubi; e serrata la finestra, mi posi sopra il letto, e dopo d’avere un buon pezzo vegliato, cominciando a dormire, mi risvegliò un rumore ed un terremoto, il quale non solo aperse le finestre e spense il lume che io soglio tenere la notte, ma commosse dai fondamenti la camera dove io stava. Essendo adunque in cambio del sonno assalito dal timore della morte vicina, uscii nel chiostro del monasterio, ove io abito; e mentre tra le tenebre l’uno cercava l’altro, e non si potea vedere se non per beneficio di qualche lampo, cominciammo a confortare l’un l’altro. I frati e il priore, persona santissima, che erano andati alla chiesa per cantare mattutino, sbigottiti da sì atroce tempesta, con le croci e reliquie di santi, e con devote orazioni, piangendo, vennero ove io era con molte torce allumate: io, pigliato un poco di spirito, andai con loro alla chiesa, e gittati tutti in terra non facevamo altro che con altissime voci invocare la misericordia di Dio, ed aspettare ad ora ad ora che ne cadesse la chiesa sopra. Sarebbe troppo lunga istoria, s’io volessi contare l’orrore di quella notte infernale; e benchè la verità sia molto maggiore di quello che si potesse dire, io dubito che le parole mie pareranno vane.

«Che scrosci d’acqua! che venti! che tuoni! che orribile bombire del cielo! che orrendo terremoto! che strepito spaventevole di mare! e che voci di tutto un sì gran popolo! Parea che per arte maga fosse raddoppiato lo spazio della notte; ma alfine pur venne l’aurora; la quale per l’oscurità del cielo si conoscea, più che per indizio alcuno, per conghiettura. Allora i sacerdoti si vestiro per celebrare la messa; e noi che non avevamo ardire ancor di alzare la faccia al cielo, buttati in terra, perseveravamo nel pianto e nelle orazioni; ma poichè venne il dì, benchè fosse tanto oscuro che pareva simile alla notte, cominciò a cessare il fremito delle genti dalle parti più alte della città, e crescere un rumore maggiore verso la marina, e già si sentivano cavalli per la strada, nè si potea sapere che cosa si fosse. Alfine, voltando la disperazione in audacia, montai a cavallo ancor io per vedere quel che era, o morire. Dio grande, quando fu mai udita tal cosa? I marinari decrepiti dicono che mai fu nè udita nè vista. In mezzo del porto si vedeano per lo mare infiniti poveri, che mentre si sforzavano di arrivare in terra, la violenza del mare gli avea con tanta furia battuti nel porto, che pareano tante uova che tutte si rompessero; era pieno tutto quello spazio di persone affogate, o che stavano per affogarsi; chi con la testa, chi con le braccia rotte, ed altri che loro uscivano le viscere. Nè il grido degli uomini e delle donne che abitano nelle case vicino al mare, era meno spaventoso del fremito del mare; si vedea dove il dì avante s’era andato passeggiando sulla polvere, diventato mare più pericoloso del Faro di Messina.

«Mille cavalieri napolitani, anzi più di mille erano venuti a cavallo là, come per trovarsi alle esequie della patria; ed io messo in frotta con essi, cominciai a stare di meglio animo, avendo da morire in compagnia loro; ma subito si levò un rumore grandissimo, che il terreno che ne stava sotto i piedi cominciava ad inabissarsi, essendogli penetrato sotto il mare. Noi fuggendo, ne ritirammo più all’alto; e certo era cosa oltremodo orrenda ad occhio mortale, vedere il cielo in quel modo irato, e il mare così fieramente implacabile: mille monti di onde non nere nè azzurre, come soglion essere nell’altre tempestadi, ma bianchissime, si vedeano venire dall’isola di Capri a Napoli. La regina giovane, scalza, con infinito numero di donne appresso, andava visitando le chiese dedicate alla Vergine madre di Dio.

«Nel porto non fu nave che potesse resistere, e tre galee che erano venute da Cipri, ed aveano passati tanti mari, e voleano partire la mattina si videro con grandissima pietà annegare, senza che si salvasse pur un uomo. Similmente l’altre navi grandi che aveano buttate l’ancore al porto, percotendosi fra loro, si fracassarono con morte di tutti i marinari: sol una di tutte, dove erano quattrocento malfattori per sentenzia condannati alle galee che si lavoravano per la guerra di Sicilia, si salvò, avendo sopportato sino al tardi l’impeto del mare per lo grande sforzo de’ ladroni che v’erano dentro, i quali prolungaro tanto la morte, che avvicinandosi la notte, contro la speranza loro e l’opinione di tutti venne a serenarsi il cielo ed a placarsi l’ira del mare, a tempo che già erano stanchi: e così d’un tanto numero si salvaro i più cattivi; o che sia vero quel che dice Lucano, che la fortuna aita i ribaldi; o che così piacque a Dio; o che quelli siano più sicuri nei pericoli che tengono più la vita a vile. Quest’è l’istoria della giornata d’ieri. — Il 27 novembre, 1343.»

XVIII. Colle numerose lettere scritte dal Petrarca sullo scorcio della vita, e da lui raccolte col titolo di Epistolæ Seniles, il vecchio solitario conversando co’ più intimi amici intendeva di essere udito dal mondo. Son esse piene di sentimento e di saviezza, di pedanteria e d’eloquenza, di cristiana annegazione e di puerile compiacimento di sè: e in esse è continuo l’azzuffarsi insieme della sua naturale franchezza e della cautela senile. Comunque sia, i suoi corrispondenti gli andarono tenuti di profuse citazioni, le quali, nella scarsezza di libri in quel secolo, fecero loro conoscere molti passi di classici scrittori. Fors’anco si compiaceva quella età poco men della nostra ne’ cicalecci intorno a tutti i negozi grandi e piccoli, pubblici e privati, storici e favolosi de’ suoi celeri contemporanei; ma a que’ giorni editori di mensili e trimestrali pubblicazioni, di cotidiane gazzette, di biografici dizionari de’ morti e de’ vivi, non aveano per anche o motivi di professione, o mezzi da penetrare nel segreto di domestico ritiro. Il Petrarca, adescato dal concetto che la sua celebrità avrebbe magnificato l’importare di tutte le consuete faccende della sua vita appaga la curiosità d’amici e nimici col raccontare seriamente ad essi com’ei pure

e mangia e bee, e dorme, e veste panni.

Di che ad ogni modo venne almeno questo vantaggio, che l’informazione che ne abbiamo non è apocrifa, e che non ci son lasciati desiderare i materiali per la pìù attraente fra le storie — la storia della mente di un uomo di genio: — ma egli sta aspettando tuttavia quello che la buona fortuna non gli ha ancora mandato, un uomo di genio a suo storico. Nelle lettere, come ne’ poemi e trattati del Petrarca, siamo sempre portati a far sola una cosa dell’autore e dell’uomo, che si sente irresistibilmente sospinto a svolgere il proprio intenso sentire. Dotato di tutte quasi le nobili, e soggetto ad alcuna delle povere passioni di nostra natura, nè mai provatosi di celarle, ci sveglia a far riflessione sopra noi stessi, mentre contempliamo in lui uno della nostra specie, diverso però da ogni altro, e la cui singolarità eccita anche più simpatia che ammirazione.

 

Note

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[1] Osservazione del Pope sulla Casa delle Fama.

[2] Magnum opus inceperam in eo genere, sed ætatem respiciens, substiti. — Ad Johan. Boccac. Sen., lib. V, ep. 2.

[3] Dum quid sum cogito, pudet hæc scribere; — scribo enim non tanquam ego, sed quasi alius. — L’arcivescovo Beccadelli copiò questa nota dall’autografo, posseduto allora dal cardinale Bembo.

[4] Famil., lib. VIII, ep. 1. — Senil., lib. V, ep. 3.

[5] Senil., lib. XIII, ep. 4.

[6] Quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono.

Ma ben veggi’or sì come al popol tutto

            Favola fui gran tempo.

E del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto,

           E ’l pentirsi.

[7] Queste poesie trovansi in quasi tutte le edizioni alla fine dell’opera, col titolo di Giunta, o Rime rifiutate.

[8] Pietro Paolo Vergerio intese da Coluccio Salutati amico del Petrarca che questi aveva detto, «come le sue composizioni tutte poteva migliorare assai, fuorchè le Rime; nelle quali s’era tanto alzato, che più non «gli dava l’animo d’arrivarle». Beccadelli, Vita del Petrarca.

[9] Epist. famil., lib. II, ep. 7.

[10] Il romanzo di Madama di Genlis, Pétrarque et Laure.

[11] Gravina, Ragione Poetica, lib. II, cap. 27 e 28.

[12] Gasparo Scuolano, Istor. Valenz.

[13] Torquato Tasso. Poesie liriche.

[14] Parla Amore contro il Poeta davanti al tribunale della Ragione. Canzone VII, Parte 23. [Edd.]

[15] Corinne, ou l’Italie.

[16] Campbell’s, Lectures on poetry.

[17] «Acciò che non ne pigli alcuna baldanza persona grossa, dico: Che nè i poeti parlano così senza ragione, nè quelli che rimano deono parlare così, non avendo alcuno ragionamento in loro di quello che dicono; però che gran vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto veste di figura, o di colore rettorico, e domandato, non sapesse dinudare le sue parole da cotal vesta, in guisa che avessero verace intendimento. E questo mio primo amico ed io ne sapemo ben di quelli che così rimano stoltamente ». Dante, Vita Nuova, § XXV.

[18] Io devo attestare qui la speciale mia gratitudine al signor Roscoe, per averne ricevuto in dono, nel momento appunto ch’io stavami inteso alla correzione di questo foglio, le sue Illustrations historical and critical of the Life of Lorenzo de’ Medici, recentemente pubblicate; nel qual libro, fra gli altri originali e curiosi documenti, egli inserì pure il suddetto trattato.

[19] La Summa Artis rithmicæ di Antonio da Tempo è del 1332.

[20] Magistro Thomæ Bombasio de Ferraria lego leutum meum bonum, ut eum sonet, non pro vanitate sæculi fugacis, sed ad laudem Dei æterni. Petrar. Testam.

[21] Doctus insuper Lyra mire cecinit. Fuit vocis sonoræ atque redundantis, suavitatis tantœ atque dulcedinis. Ph. Villani. Vit. Petrar.

[22] Tanta siquidem dulcedine rithmi fluunt, ut ab eorum pronunciatione et sonis, gravissimi nesciebant abstinere. Phil. Villani, Vit. Petrar.

[23] Vedi l’epistola del Boccaccio al Petrarca: Italiæ jam certus honor.

[24] Hic vulgaris stylus modo inventus, vastatoribus crebris, et nullo squallidus colono. Senil., V, ep. 2, 3.

[25] Hortatio ad Nicol. Laurent. Petr.. Op., vol. I, pag. 596.

[26] Famil., lib. Vi, ep. 2.

[27] De remed. utriusque fortunæ, lib. I.

[28] Vedi il Saggio sopra l’Amore del Petrarca, capo VII, pag. 17, nota 2.

[29] Senil., lib. II, ep. 1.

[30] Habe ... Silium cultiorem... egregio auctum fragmento, quod sibi minus verecunde, nonnullis mutatis, vindicaverat, suoque poemati Africæ VI adsuere non est veritus Fr. Petrarcha. Lefebvre de Villebrune, Epist. ad Villoison præfix. ad Silii edit.; Lutetiæ 1781.

[31] Quotiescumque Africæ mentio incidisset, toties conturbabatur, molestiamque mente conceptam foris facies indicabat. Vergerius Senior, Vita Petr.

[32] Trovandosi il Petrarca in Verona, e sentendo cantare i versi dell’Affrica, pianse, dolendosi non poterla nascondere affatto. Beccadelli, Vita del Petrarca.

[33] Raro unquam pater aliquis tam mœstus filium unicum in rogum misit: quanto id fecerim dolore, et omnes labores meos eo in opere perditos, acriter tecum volvas, vix ipse lachrymas contineas. Queste parole sono ripetute dal Vergerio, il quale viveva in Padova nello stesso tempo che il Petrarca vi si trovava.

[34] Incredibilem rem audies, veram tamen, mille vel amplius seu omnis generis sparsa poemata seu familiares epistolas Vulcano corrigenda tradidi non sine suspiriis. Petr. apud Tomasinum, f. 28.

[35] Cum ego et frater meus gemino laqueo teneremur, utrumque contrivit manus tua; sed non ambo pariter liberati sumus: ille quidem evolavit. Epist. var., 28.

[36]Cuncta circumspiciens, videndi cupidus explorandique, contemplatus sollecite mores hominum, singula cum nostris conferens. Famil., lib. I, ep. 3, 4: lib. V, ep. 4.

[37] Senil,, lib. IX, ep. I.

[38] Hœc ter a te, Didyme, recitata sint super terram patrum nostrorum, ut misereantur sui omnes; nam sicut autumnus et hyems in singulos annos, sic gloria et calamitas visitant, certis tempestatibus sæculorum, singulos populus terræ. Didymi Clerici, Hypercalypseos, cap. 18, v. 46.

 

SAGGIO

SOPRA IL CARATTERE DEL PETRARCA

E le cose presenti e le passate

Mi danno guerra e le future.

Petrarca, Canz. CCLXXII.

I.  Circa un anno prima di far conoscenza con Laura, il Petrarca entrò in casa di Jacopo Colonna vescovo di Lombes, che lo introdusse presso il fratello Giovanni cardinale, e vi fu eletto aio d’uno de’ nipoti loro. Ma non andò guari a venire con essi a sì dimestica amicizia, che Stefano Colonna capo della famiglia, il quale avea gran potere in Roma, e non mancavano in Avignone, lo teneva in conto di figliuolo, e affatto indipendente. [1] A quel tempo nomini d’alto affare e ingegno da tutte le nazioni traevano ad Avignone; fra i quali Riccardo di Bury, poi vescovo di Durham, vi si trovava ambasciatore di Edoardo III. Laonde il Petrarca ebbe di buon’ora opportunità di procacciarsi, coll’amicizia de’ più eminenti personaggi vissuti a que’ dì in Europa, notizia non comune della letteraria e politica condizione del mondo. Nel suo trentesimo quarto anno ottenne da Benedetto XII un beneficio ecclesiastico per mediazione del cardinale, [2] e si ritirò a Valchiusa, come in porto di tutta pace, ove potesse menar vita non molestata da amore o da ambizione, e non tentata dalle depravazioni di quella corte.

«Rev. et amplissime Præsul Jacobe Domine perhonorande — dice il Petrarca in una lettera al Vescovo di Lombez che qui si pubblica per la prima volta: — Me invitate en Avignone a tratenerme a la Corte Romana con gonfiarme di speciosissime speranze. E se lo affecto amorevolissimo di Voi el non me fosse a mille altre dimostranze cognosciuto, potrei affermare esserme voi el più rio nemico che el misero Francesco potesse havere al mondo. El sa per lo tanto che haviamo più fiate favellato onsieme, le grandi promissioni fattemi dal pontefice Giovanne, a modo io me lusingava essere ben tosto en qualche stato sublime; et poi me cognosco essere el tapino Petrarca che sempre fui, et sarò. Ben el sapete voi con la longa experientia quanto le sono fallaci et fraudolente le lusinghe de la Corte, anzi che en quella li huomini ben veduti sono li ribaldi, o li idioti, o somigliante schiuma de gente, che o per simonia, favori, o adulatione, el montano a li gradi et le dignitade. O tempora, O mores! El mi torrei a vituperio per queste non licite vie conseguire cosa di buono. Hor puote esser dunque che voi Misser Jacomo, che el siete ingenuo et virtuoso signore, el me proponiate che io faccia ritorno en la Corte, dove non che uno che el se professa homo dabbene, ma lo sia punto iudicioso, si torrebbe a gran vergogna dimorare, ove no el costrengesse el bisogno? Præterea quando ben ancora el fosse certo haver a conseguire cosa di buono da la munificentia del Papa, li vitii scelerati de la Corte el me sono così a noja, che al sol pensarli el me fa stomaco. Sappia che en partirme da la Corte del Papa cantai il Psalmo: In exitu Israel de Ægipto. Godo en queste amene solitudini de Valclusa una dolce et imperturbata tranquillità, el virtuoso et placidissimo otio de’ miei studj: el tempo che mi vaca de le volte passo a Cabrieres per diportarme. Ah! se vi fosse licito, Misser Jacomo, el dimorare en la dicta Valle, di certo vi rincrescereste di tutto el  mondo, non che de la Corte del Papa. Son fermo en la deliberatione di non più rivederla. Me commendi en buona gratia de lo excellente signor Misser Stephano Colonna, vostro padre, et di Misser el Cardinale vostro virtuoso fratello, et conservatemi el vostro cordiale affecto. Vale. En Val-clusa. X kal. junij MCCCXXXVIII.

«Tui studiosissimus, Franc. Petrarca.»

II. Tre anni dopo la data di questa lettera, al Petrarca coronato in Roma crebbero colla fama i redditi. Re Roberto di Napoli lo condusse allora a suo cappellano, dispensandolo dalla residenza in corte. Tornò a Valchiusa; e la Santa Sede questa volta impose a forza il suo patrocinio ad uno scrittore, cui la celebrità e la indipendenza di carattere facevano davvero formidabile. Non volle mai prendere gli ordini sacri per non porsi in condizione da accettare un vescovado, e rifiutò l’ufficio di segretario apostolico sotto tre papi. [3] In una Bolla, colla quale Clemente VI gli conferì un beneficio addizionale, espressamente si attesta «che nè il Petrarca, nè alcuno degli amici suoi lo aveva sollecitato.» [4] Quindi il poeta giudicò che queste liberalità non gl’imponessero obbligo alcuno di frenare la veemenza della sua penna. Nelle sue ecloghe latine introduce le ombre de’ pastori della Chiesa, che mutuamente si rinfacciano le nequizie loro, e si confortano predicendo quelle de’ regnanti lor successori. La Santa Sede era dal Petrarca stimata

scuola d’errori, e tempio d’eresia.

o fucina d’inganni, o prigion dira...

di vivi inferno! —

putta sfacciata; e dov’hai posto spene?

Negli adulteri tuoi, nelle mal nate

ricchezze tante? —

nido di tradimenti, in cui si cova

quanto mal per lo mondo oggi si spande;

di vin serva, di letti e di vivande,

in cui lussuria fa l’ultima prova. —

or vivi sì, ch’ a dio ne venga il lezzo.

Cecilia di Commenge, viscontessa di Turenna, trafficava segretamente di sue bellezze con Clemente VI, per la facoltà di vendere al pubblico non pure i favori temporali, ma le spirituali indulgenze. Altri pontefici menarono vita probabilmente anco più profana della sua, ma nessuno mai tenne amanza sì avara e sì svergognata; nè mai la licenza e la lussuria si levarono sì altamente sfrontate nel palazzo pontificio. Il Petrarca inorridiva a tali scene, e le descrive in guisa da farne fremere i lettori: «Tutto quanto raccontasi delle due Babilonie — di Siria e d’Egitto, — tutto quanto si sparge de’ quattro laberinti — dell’Averno e del Tartaro — è un nulla a petto di questo inferno d’Avignone. [5] Preti, già curvi sotto il peso degli anni, danzando colle loro adultere ignude intorno all’altare; e Belzebub nel mezzo stuzzicantene le concupiscenze con ispecchi, che ripetevano l’imagine de’ dissoluti loro dimenari, e delle lascive loro figure.» [6] — Nè pagò di sì fatta dipintura mandata in lettera latina ad un amico, la pubblicò in versi italiani:

Per le camere tue fanciulle e vecchi

vanno trescando, e belzebub in mezzo,

co’ mantici e col foco e con gli specchi.

Il Petrarca fu nondimeno trattenuto ad Avignone fino alla virilità dalle sventure della sua famiglia; e Laura di poi lo trasse sovente a una città, della quale non parla mai se non con orrore.

III. Avvenuta indi la riforma, i cattolici francesi diedero mala voce al Petrarca per le sue invettive contro la corte d’Avignone: [7] se non che in un secolo semi-civile un sommo poeta è raggiante divinità; [8] e nel decimoquarto secolo il carnefice non avrebbe portato la mano sopra un capo fatto sacro dall’alloro. [9] Innocenzio VI teneva il Petrarca per negromante, ma non ardì mandarlo al palo; e non pertanto il Poeta lo chiamò: «un orso sospettoso e indolente, per la cui salvatichezza, il fasto e la rilassatezza del predecessore ottennero remissione». [10] Pure Innocenzio fece ogni sforzo per ammansarlo con onori e cortesie, e frattanto a’ cardinali che maggioreggiavano, non venne fatto d’indurlo a baciargli il piede. [11] Per cedere al suo impulso di dire quanto pensava e sentiva, il Petrarca si giovò di quella fama, all’altezza della quale non fu autore che mai si levasse in sua vita. Se non che fu infelice anche da questo lato. «Questo lauro» dic’egli, «nulla aggiugnendo pure al mio sapere, accrebbe le mie angosce e l’invidia altrui.» [12] Gli uomini più ragguardevoli lo fecero scorto: «nulla essere di maggior momento e insieme più arduo, che conservare un’alta fama;» ed egli rispose: «Questo tormento mi si è, a così dire, appiccato intorno, come un fato, fino da’ miei primi giorni. Di me molti giudicano, che io nè conobbi, nè desidero di conoscere, nè stimo degni di essere conosciuti.» [13] Se non che, per conservare la sua celebrità, si abbassò alle più veementi declamazioni contra molti nemici suscitati del pari e dal suo trascendente ingegno e dalla sua irritabilità, che non poteva patire la menoma riprensione intorno agli scritti o a’ costumi suoi. Perfino nel testamento, a coloro che giudicavanlo più ricco che in fatto non era, diè nome di «matta plebaglia.» [14] Alla intolleranza delle opinioni aggiunse talvolta pedantesca gravità e simulata modestia, che appanna il natio candore dell’indole sua. Mentr’egli chiamasi «un omiciattolo di questo mondo,» indirettamente poi si paragona co’ più illustri uomini della storia, nè può informare i posteri dell’origine di sua famiglia, che non tolga a prestanza le parole di Augusto. [15]

Il Petrarca singolarmente fu quegli che i personaggi dell’antica Italia fece famigliari a’ suoi concittadini, disposti già naturalmente a tenerlo del bel numer uno. Il popolo ne proferiva il nome con adorazione; quando in suo cammino passava pel paese, gli artigiani preparavano le case loro onde riceverlo, ed ei le anteponeva a’ palagi de’ grandi. Principi e magistrati, seguiti da cortigiani e da cittadini, uscivano in folla ad incontrarlo alle porte delle città. Curiosi viaggiatori d’ogni nazione, con la poco delicata importunità propria della razza, ansiosi di appianarsi la via alla sua conoscenza, gli mandavano doni magnifici, de’ quali egli muove orgoglioso lamento. [16] Un cieco vecchio sostenne un lungo viaggio a piedi per la speranza di poter toccare il suo capo. [17] Il lungo studio, che il Petrarca pose ne’ Padri, gli acquistò appresso i monaci nome di profondo teologo. [18] Re ed imperadori si affrettavano a conferirgli diplomi e titoli, e lo invitavano alle corti loro: il Papa altresì lo richiese dell’opinion sua in politici negozi. [19] Frattanto i governi facevano a gara a chi potesse adoperarlo in ambascerie; — e, benchè sovente professi di tenere a vile quella eloquenza che tende a persuadere altrui quanto noi stessi non crediamo, sentiva bene che tal arte non gli mancava, e all’uopo seppe usarla sostenendo le parti di ambasciadore.

IV. «Che il Petrarca nell’arringo politico proseguisse pur sempre a farla da trovatore — che quanti tiranni avea l’Italia, con lusingarne la vanità, ne ottenessero in ricambio una bassa adulazione — ch’ ei commettesse a volte cose contrarie a’ principii e a’ doveri suoi qual cittadino di Firenze e qual guelfo;» [20] — ecco i giudizii di un moderno storico, il cui zelo per la libertà invade talora la sua riverenza pel vero. Il Petrarca era nato esule; il padre di lui fu seppellito in terra straniera, proscritto da’ Guelfi; i figliuoli de’ quali nol ristorarono nelle sue ragioni di cittadino, se non quando fu presso a’ cinquant’anni; nè ricuperò il confiscato patrimonio, [21] se non dopo che la peste ebbe devastato Firenze. Allora, per attirare maggior copia di forestieri, i cittadini proposero di fondarvi una università sotto la sua direzione. [22] Ma il Petrarca li colmò di ringraziamenti e di lodi in una lunga lettera ch’ei scrisse da Padova, e tornò prestamente a Valchiusa. L’attaccamento ereditario alla parte ghibellina gl’inspirò più rispetto pe’ militari dittatori della città di Lombardia. La venerazione, che, ad udirli, essi nodrivano inverso il Petrarca, e fors’anche il terrore di loro cruente vendette, lo tentarono a dare adulazione per adulazione. Eglino spontaneamente gli procacciarono ecclesiastici beneficii ne’ loro dominii, e lo ricercavano di parere in politici negozi: ed egli si riputava capace di poterlo porgere. Ma l’animo suo non era valido a reggersi saldo nel suo centro, e sospinto per subitanei impulsi dall’uno all’altro estremo, strappavasi, come da abissi di vitupero e di pericoli, da quegli stessi palagi, ove pur dianzi era entrato con la speranza di ricondurvi giustizia. Sempre che spuntasse il più leggero barlume o il menomo destro di rimettere in Roma la sede dell’impero d’occidente, gl’interessi di tutti i principi cedevano tosto a questo illusorio disegno, ch’egli accarezzò fino all’ultimo fiato. Scrivendo agli amici, a’ papi e cardinali, agl’imperatori e alle genti d’Italia sopra tale argomento, l’anima generosa del Petrarca dilatasi in magnanimi sensi e dà i più be’ saggi di un genio, che, sebbene piegato da amore alla poesia, diresti più specialmente creato da natura alla grandiloquenza di sommo oratore.

V. Le sue tre politiche canzoni, squisite come sono in fatto di versificazione e di stile, non spirano quell’entusiasmo che attuò Pindaro a versare tutta quella piena d’immagini, tutti que’ tesori di storico ammaestramento e di verità morali, che illustrano ed esaltano i suoi concenti. Pure il vigore, la collocazione, e la perspicuità delle idee in queste canzoni del Petrarca; — il tono di convinzione e di melanconia onde il cittadino sgrida la patria e piange sovr’essa, colpiscono il cuore con tal forza, che supplisce al difetto di grandi ed esuberanti immagini, e a quell’impeto irresistibile che è più proprio dell’ode. Da lunghe e tuttavia incessanti discordie civili esausta, declinava già l’Italia a rovinare in quello stato d’inerzia e di servaggio, dal quale non si rialzò mai più.

Che s’aspetti non so nè che s’agogni

Italia, che suoi guai non par che senta;

vecchia, ozïosa, e lenta

dormirà sempre e non fia chi la svegli?

Le man l’avess’ io avvolte entro i capegli!

«Non veggo scampo che nella unione di que’ pochi alti spiriti, che amano la patria.»

fra magnanimi pochi a chi ’l ben piace

i’ vo gridando: pace, pace, pace. —

Ma indarno. I rancori di una divisa nazione non possono spegnersi che da un conquistatore, e nondimeno la conquista può solo serbarsi col tenerli vivi. Se i consigli del Petrarca non riuscirono a buon fine, non però cadde l’animo al generoso, e gli andò ripetendo in ogni guisa, giovandosi perfino dell’adulazione a temperare l’asprezza de’ suoi veri. Tuttavia, se non fosse stato protetto da grande popolarità, il Petrarca di certo sarebbe incorso nel pericolo che sovrasta a’ profeti inermi. Lapidato non fu mai, ma talvolta fu deriso. Il doge Andrea Dandolo, antichissimo storico e ambiziosissimo guerriero di Venezia, e uno ad un tempo de’ più devoti ammiratori del Petrarca, gli scrisse — «Amico mio, spiegaci come va, che un uomo, cui Dio ha fatto dono dell’eloquenza e della saviezza ad additare altrui le vie del bene, vada ad ognora tramutandosi di luogo a luogo? Questi tramutamenti di dimora hanno a tornare in danno degli studi tuoi. Noi ti ringraziamo delle tue esortazioni a fermar pace co’ Genovesi; ma ci è forza combattere. Se la nostra risposta alla tua elaborata lettera ti paresse corta, ascrivilo a’ termini in che ci troviamo, i quali vogliono da noi fatti, non parole». [23]

VI. L’odio del Petrarca contra i Francesi, da lui chiamati «pazzi snervati,» e contra i Tedeschi, da lui riputati «schiavi brutali,» [24] ebbe ad esasperarsi allorchè le truppe che sotto Eduardo III d’Inghilterra avevano menato tanto guasto per Francia, trassero al soldo degli Stati italiani. Da indi non cessò di predicare la crociata contra tutti gli strani.

Virtù contra furore

prenderà l’arme; e fia ’l combatter corto:

chè l’antico valore

negl’ italici cor non è ancor morto.

La speranza di svolgere i principi d’Italia dal persistere nelle lor mutue stragi e rovine, inspirò al Petrarca la canzone:

Italia mia, benchè  ’l parlar sia indarno

alle piaghe mortali

che nel bel corpo tuo sì spesse veggio.

Ben provvide Natura al nostro stato

quando dell’Alpi schermo

pose fra noi e la tedesca rabbia.

Tutti i susseguenti poeti italiani si recarono a debito uffizio di opporre lamenti ed imprecazioni al marciare di eserciti stranieri. Ma quando il Petrarca scaltriva l’Italia della sua rovina, non era troppo tardi per allontanarla. I suoi principi avevano appena cominciato a tirarsi in seno quali alleate quelle genti strane che vi rimasero da padroni.

Voi cui fortuna ha posto in mano il freno

delle belle contrade,

di che nulla pietà par che vi stringa,

che fan qui tante pellegrine spade?

perchè ’1 verde terreno

del barbarico sangue si dipinga?

Vano error vi lusinga;

poco vedete, e parvi veder molto;

che ’n cor venale amor cercate o fede.

qual più gente possede,

colui è più da’ suoi nemici avvolto.

o diluvio raccolto

di che deserti strani

per inondar i nostri dolci campi!

Se dalle proprie mani

questo n’avvien, or chi fia che ne scampi?

 VII. Il rammarico di non essere nato fra gli antichi fu cagione dell’incessante suo studio negli scrittori di que’ tempi, «fermo com’egli era di vivere con essi, se non altrimenti, col pensiero, per istaccarsi più effettualmente dalla generazione contemporanea.» [25] Parecchie delle sue lettere sono indiritte ad Omero, a Cicerone, a Varrone e ad altri uomini solennissimi dell’antichità, come se fossero ancor vivi; [26] ed ogni volta ch’egli scrive a Lodovico, a Francesco, o a Lello di Stefano, intrinseci suoi, o ne fa motto, non dimentica pur mai di chiamarli Socrate, Simonide, e Lelio. È probabile che per sè stesso avrebbe adottato il nome di qualche illustre antico, se alla cupidità dell’ammirazione del mondo non avesse congiunto il timore di venirne deriso. Però stette contento ad alterare il patronimico Pietro, pronunziato idiomaticamente Petracco e Petraccolo nel sonoro di Petrarcha. Quando Cola di Rienzo sollevò il popolo di Roma, e prese il titolo di Niccola il Severo e il Clemente, il Tribuno di Libertà Pace e Giustizia, l’illustre Liberatore della Santa Romana Repubblica, e citò re a dar conto della condotta loro innanzi a suo tribunale, il Petrarca gli porse le sue lodi e i suoi consigli. [27] Pochi mesi dopo gli toccò la mortificazione di udire che il suo eroe, spenti alcuni nobili ed affamata la plebe, erasi fuggito di Roma come un codardo e un traditore. Capitò la novella al Petrarca mentr’era in cammino verso l’Italia; e nella lettera che scrisse in tale incontro, spicca l’affetto suo verso la patria maggiormente che la saviezza: «La lettera del Tribuno mi giunse come un fulmine. Da qualunque banda mi volti, veggo ragioni da disperare. — Roma fatta in brani — Italia devastata — che sarà di me in questa pubblica calamità? Dieno altri le ricchezze, il potere, i consigli loro; io per me non posso dare che lagrime.» [28] Chi avvisa che i politici sentimenti dovrebbero rimanere soffocati dalla personale gratitudine, troverà più occasioni di condannare il Petrarca, nel quale, non appena poteva egli sperare di far Roma metropoli dell’universo, tutti gli affetti dell’anima erano assorti nell’entusiasmo di patria. Egli sostenne l’impresa di Cola di Rienzo e la difese a viso aperto, quantunque la parte di lui avesse morto un figliuolo ed un nipote di Stefano Colonna. «I Colonna » egli scrive, «mi sono più cari della vita; ma Roma mi è vie più cara.» [29]

VIII. Ciò che è più fuori dell’usato e più difficile a spiegarsi nel carattere del Petrarca è quell’ascendente ch’egli ebbe sopra i grandi. Cagion forse ne fu, che sebbene de’ beneficii ricevuti sentisse profonda la gratitudine e con effusione di cuore la manifestasse, non s’avvilì però mai ad adulare, qual uomo che miri a conseguirne de’ nuovi. Spesse fiate, e quando mancava ancora di agi o di fama, rivolse avvisi e rimproveri severi a’ suoi benefattori, persone per età e per grado venerande. [30] Durante il favore che i Visconti, potentissimi e crudelissimi despoti in Italia, impartirono al Petrarca, il contegno di lui fu di consigliere integro piuttosto che di cortigiano; e l’università di Pavia venne da Galeazzo fondata nel tempo appunto di questa sua pratica col Petrarca. Ma sebbene si possa scorgere ad ogni tratto com’egli molto si compiacesse d’avere ad amici personaggi illustri, pure tutta la vita di lui fa fede di quanto afferma egli stesso, «che se i grandi bramavano la sua compagnia, aveano ad acconciarsi all’umor suo.» [31] Nondimeno, se di rado consentì ne’ loro politici divisamenti, retribuì sempre le liberalità loro con durevole affetto. Infinite furono le cortesie ch’ei ricevette da’ Correggeschi; ma questi principi reggevano lo Stato con improvvidi consigli e perniciosi ai soggetti; laonde il Petrarca rimase colà alcun tempo perplesso fra l’incanto degli onori, e l’apprensione che non gli venissero impartiti al tutto gratuiti. Ritirossi pertanto, col proponimento di finire il suo poema dell’Affrica, ad una casetta in Parma di sito tranquillo, che in processo di tempo comperò. [32] Non andò guari che Azzo da Correggio, perduto lo Stato, e ridotto a vivere tra durissime calamità, videsi ora tapino in esilio, ora chiuso in carcere, e sempre minacciato da sovrastante pericolo; nè Francesco si rimosse punto dall’amistà sua per esso, che mantenne fino all’ultimo, anzi gli andò scrivendo con più rispetto, che non soleva con principi in miglior fortuna; e appunto a conforto di lui compose il trattato: De remedio utriusque fortunæ. Roberto re di Napoli lo avea richiesto che gli dedicasse l’Affrica, ma poco stante uscì di vita; e, benchè più altri principi ambissero un tal contrassegno d’onore, pure, seguita la morte del Petrarca, fu trovato il manuscritto col titolo ai mani di Roberto.

IX. Trascorsa buona pezza di tempo, la sola chiarezza di sua fama conciliò al Petrarca l’amicizia di Jacopo II da Carrara. «Davvero» dic’egli, «io non so chi fra’ principi del suo tempo gli fosse uguale: e piglierei a sostenere che non vi fu. Durò pel corso di tant’anni a sollecitare l’amistà mia, spacciandomi corrieri e oltr’Alpi e in Italia, e, in breve, dovunque potessi essere trovato; che, sebbene poco mi aspetti da’ grandi della terra, pure deliberai di fargli una visita. Io era curioso di scoprire l’intento di tali cortesie da un uomo del poter suo verso un privato, col quale non aveva personale conoscenza. Tale fu la cagione della mia andata a Padova. Quel grand’uomo, che lasciò tante splendide memorie di sè, m’accolse in guisa che meglio si addirebbe al modo onde ci raffiguriamo accogliersi i beati in Paradiso, che al ricevimento di un commortale. Com’ei riseppe ch’io m’era dalla giovinezza dedicato alla Chiesa, mi fece eleggere canonico di Padova, con la mira di conciliare il mio attaccamento alla sua persona e al paese. E in fatti, se morte non m’invidia tal patrocinio, io poteva nella tranquillità di quell’asilo aver trovato il termine d’ogni mia terrestre tribolazione. Ma oimè! nulla v’ha di certo quaggiù! E il momento in che ci crediamo più sicuri da’ colpi della fortuna, può essere appunto il più fecondo delle sue più aspre percosse. Due anni non erano trascorsi ch’io me ne viveva in Padova, allorchè l’Onnipotente, citando il mio protettore al suo cospetto, tolse a me, alla patria, e, posso aggiugnere, al mondo intero un benefattore, del quale nè io, nè la patria, nè per vero dire, il mondo intero eravamo degni. In questo solo giudizio io sento almeno che non posso errare. A lui succedette il figliuolo, principe di non comune prudenza, e assai caro a’ sudditi. Redate le egregie doti del padre, continuò ad onorarmi d’ugual favore e riguardo. Ma fra noi una condizione essenziale dell’amicizia mancava — dico la somiglianza d’età. Dopo l’acerba perdita da me sofferta, feci di nuovo ritorno alle Gallie, dubbioso dove avrei poscia fermato i passi.» [33]

X. Natura aveva imposta al Petrarca tanta necessità di scambievoli affetti, che non apparì felice se non quando amava ed era riamato. L’affetto, agli occhi suoi adeguava ogni disuguaglianza d’educazione e di fortuna: e, con tutto il suo struggersi per la solitudine, era solus sibi; totus omnibus; omnium locorum, omnium horarum, omnium fortunarum, omnium mortalium homo. Discorrendo del contadino e della moglie di lui, che gli stavano a’ servigi in Valchiusa, adopera le parole stesse usate a ricordar le buone doti de’ suoi potenti amici. «Egli era mio consigliere, e depositario di tutti i miei più segreti disegni; e più penosamente ne avrei deplorato la perdita, se la grave età di lui non m’ avesse ammonito, ch’ io non potea ripromettermi di godere a lungo d’un tale compagno. In lui mi è tolto non pure un servidore di tutta dimestichezza, ma un tenero padre, in seno al quale versai per questi quindici anni tutti gli affanni miei; e l’umile sua capanna erami come tempio. Mi lavorava poche zolle di terra non molto fertile. Non sapeva leggere; pure erami anche in luogo di bibliotecario. Con vigile e attento occhio custodivami le copie più rare ed antiche, le quali per lungo uso s’addestrò a distinguere dalle più moderne, e da quelle ch’io stesso aveva composte. Ogni volta ch’io gli consegnava un volume da riporre, appariva in lui un trasporto di gioja: se lo pigliava e lo premeva al petto, mettendo sospiri di contentezza; e con grande riverenza ripeteva il nome dell’autore, quasi ricevuto avesse una giunta di dottrina e di felicità dalla vista e dal tocco di un libro. [34] La faccia di sua moglie era abbronzata dal sole, e il corpo estenuato dalla fatica; ma l’animo era pieno di candore e di liberale natura. Sotto l’infocato raggio della canicola, e fra la neve e le piogge, da mane a sera stava ne’ campi, e il più della notte anco spendeva in lavori, poca assai concedendone al sonno. Ad essa letto, poca paglia; cibo, negro pane, sovente pieno di sabbia; e bevanda, acqua mista d’aceto; pure non parve mai stanca o afflitta, non mostrò mai desiderio di vita men dura nè mai fu udita querelarsi dell’acerbità del destino e degli uomini.» [35]

XI. Per tale ingenita benevolenza il Petrarca parve più che altri scevro da quel sentimento, che internamente umilia (se non sempre, almeno in qualche momento della loro vita) quasi tutti i letterati. La mistica tradizione di Apollo che scortica l’emulo suo è riferita da un greco antiquario con sì fatte lodi della musicale maestria di Marsia, e con tali imputazioni della mariuoleria e della crudeltà del dio della poesia, [36] da farla credere allegoria non tanto del gastigo meritato dall’ignoranza presuntuosa, quanto della vendicativa gelosia de’ dotti. Le proteste che il Petrarca mescola alle confessioni degli altri difetti suoi, e che ripete in vecchiezza; «come l’invidia non trovasse mai luogo nel suo cuore;» [37] muovono da una di quelle innumerevoli illusioni, che ci fanno gabbo precisamente quando ci diamo a credere che il cuore nulla possa celare in noi alla nostra penetrazione. L’invidia si rimase in lui dormigliosa, perchè nessuno di quanti stavangli intorno sovrastava di tanto da risvegliarla. Rado peraltro proferì il nome di Dante e affettò di non mai leggerne le opere; e s’ei non può sempre cansarsi dal parlare del suo predecessore, ne parla per ricordarne meno i pregi che i difetti. [38] Le opposte vie per cui natura, educazione, tempi e accidenti di fortuna guidarono questi due uomini ad immortalità, saranno rintracciate nel Saggio seguente. — Di fronte a’ contemporanei, il Petrarca si levò tant’alto sopra la gelosia stessa, che sovente s’interpose ad estinguerla fra di essi. Ma qualunque volta l’interporsi tornava indarno, se ne doleva come di calamità immeritata; alla quale pur si esponeva, per ambizione forse di far mostra dell’autorità sua. A tal parte del suo carattere par ch’egli alluda in versi suggeritigli senz’altro dalla sua sperienza.

La lunga vita e la sua larga vena

D’ingegno pose in accordar le parti

Che ’l furor litterato a guerra mena.

Nè ’l poteo far: chè come crebber l’arti,

Crebbe l’invidia; e col sapere insieme

Ne’ cuori enfiati i suoi veneni sparti.

Trionfo della Fama, cap. III.

Benchè la vanità si facesse paga a scapito della pace, entrava egli di mezzo alle quistioni letterarie, trattovi dal generoso principio: «che coloro i quali ardono di carità patria, sendo essenzialmente virtuosi, sono da natura conformati a stringersi d’indissolubile amicizia.» [39] Ma sublimi massime, bandite fra gente per cui sono impraticabili, provocano inevitabilmente le risa; e il Petrarca, col riprendere chi rideva de’ suoi avvisi, venne in qualche maniera a render giusta la baja che si voleva di lui. Una adunanza di giovani in Venezia gl’intentò un processo formale per essersi arrogato giurisdizione illegale sopra tutte le quistioni di dottrina. Elessero dal proprio seno avvocati, e, ascoltate le accuse e le difese, sentenziarono come il solo delitto del Petrarca consitesse nell’essere lui una buona pasta d’uomo. Di sì fatta commedia non fu chi, salvo il Petrarca, pigliasse seria contezza. A rispignere la insinuazione, compose egli un grosso libro, che effettivamente forzò i posteri a farsi compagni nel bell’umore de’ suoi accusatori. [40]

XII. Immaginando che gli uomini men contra lui, che contra saviezza e virtù cospirassero, l’indole sua ne contrasse un’ombra di misantropia a lui per nessun modo naturale. Quanti gli si avvicinavano più dappresso scorgevano in lui più timore e pietà dell’uomo, che odio e spregio. Infatti la propensione a farsi utile altrui, benchè tropp’alto professata, nacque seco, e, invece di allentare per vecchiaja, che suol essere tutta di sè, crebbe in fervore che solo cessò colla vita. Ad un amico perseguitato così scriveva: «A te sta lo scegliere; o riparerai all’asilo che il mio tetto ti apre, o mi forzerai ad accorrere in Francia per proteggerti.» [41] Le avversità che ne flagellano negli anni più verdi, sogliono incallire le anime tutte di sè; ma, quanto al Petrarca, ne educarono il generoso petto a patire de’ patimenti altrui; e trascurando — come quanti si pascono meramente de’ propri sentimenti e delle intellettuali facoltà — le cure richieste all’acquisto e alla conservazione delle ricchezze, [42] nella baldanza della gioventù fu tratto a dar fondo in altrui vantaggio a quasi tutta la scarsa eredità venutagli da’ parenti morti in esilio. Ne diè porzione in dote alla sorella, che si maritò a Firenze, [43] il restante partì tra due vecchi e benemeriti amici, che n’erano in gran bisogno. [44] Prestò pure alcuni classici manuscritti, ch’ei chiamava i suoi unici tesori, al suo vecchio maestro, affinch’egli potesse impegnarli: per tal modo ebbero a perdersi irreparabilmente i libri De Gloria di Cicerone. [45]

Se i regali suoi venivano scansati, con appiccarvi alcuni versi costringeva gli aulici ad accettarli; e le sue poesie italiane distribuiva tra rimatori e canterini di ballate, in guisa di limosina. [46] Come inoltrò negli anni, «il sovrano disprezzo delle ricchezze,» che continuò a professare, [47] divenne più apparente che reale, in ispecie verso il finire di sua carriera: [48] pure non dimenticò mai chi a lui si rivolgeva per ajuto, che prestò sempre con cortesia. Fra molti legati del suo testamento lasciò ad uno degli amici il suo liuto, affinchè potesse cantare le lodi dell’Onnipossente, — a un altro una somma di danaro, scongiurandolo di non la sprecare, al solito, nel giuoco, — al suo amanuense una tazza d’argento, raccomandandogli di colmarla piuttosto d’acqua che di vino, — e al Boccaccio una pelliccia d’inverno pe’ suoi studi notturni. Nè aspettò già che la morte lo forzasse a largheggiare. — «Davvero,» scrive al Boccaccio, «non so che cosa v’ intendiate, rispondendo che mi siete debitore di danaro. Oh! se mi fosse possibile d’arricchirvi! ma a due amici, qual siamo, in un’anima sola, una casa è bastante.» [49]

XIII. Tali offerte provennero altresì dalla vita solitaria, in che il Petrarca traeva i più de’ suoi giorni. Padre qual era di prole illegittima, fu astretto a por modo agli affetti domestici, che soli potevano consolare l’ardente suo cuore. Il figliuolo, o pel suo mal talento, o per l’eccessiva paterna ansietà della sua futura elevazione, gli fu sorgente di tribolazioni e di vergogna; [50] e ad accennarlo non usa mai altro nome che — il giovane; — così che, se non era la scoperta fatta non è gran tempo dal De Sade di una bolla di Clemente VI, che lo legittimò, nessuno, compreso il Tiraboschi, avrebbe indovinato, lui essere figliuolo del Petrarca. [51] Fatto canonico in Verona, allorchè morì, suo padre ricordò il caso nella stessa copia di Virgilio, dove aveva inserito la memoria della morte di Laura: «Colui che nacque al mio travaglio ed affanno, che vivendo mi fu cagione di gravi e infinite cure, e morendo mi aprì una ferita nel cuore, goduti pochi giorni lieti, si partì dal mondo nel vigesimo quinto anno d’età.» [52] Più il Petrarca invecchiava, e più si sentiva desolato, e più sospirava «quel giovane,» che vivo odiò a parole, ma dal quale morto non sapeva staccare i suoi pensieri che a lui sempre con tenerezza tornavano; lo accarezzava in suo cuore; la memoria di lui gli stava continuamente fitta nell’animo; e gli occhi suoi lo cercavano per ogni dove. [53] Andò men rattenuto nel parlare della figlia, cui avea posto più affetto, perchè gli rassomigliava nelle fattezze e nell’indole: pure v’ha ragione di credere, ch’ella non gli ponesse piede in casa finchè non fu maritata, — e nel testamento fa ad essa la seguente indiretta allusione, e non altro: — «Prego Francesco di Brossano (era questi marito della figliuola) non solo quale erede, ma qual carissimo figliuol mio, a dividere il danaro ch’ei potrà trovare alla mia morte in due parti; una serberà per sè, e darà l’altra a chi ben sa.» [54]

XIV. Mentr’ei sospirava di aver sempre alcuno presso di sè che lo potesse amare, gli toccò intanto di vivere assai spesso tutto solo, temendo non forse l’usar troppo colle persone a lui più care potesse dargli cagione di diffidarne. E appunto coll’aprire il suo cuore e la borsa più di frequente che la porta, si vanta, e a ragione, «che nessuno fu più devoto agli amici, e ch’ei non ebbe mai a perderne alcuno.» [55] Anche nella prima gioventù, quando il cuore è più confidente, e mentr’ei bramava in effetto di vivere con quelli, ebbe sempre paura di scoprirne i difetti. «Nulla,» dic’egli, «è sì tedioso, come il conversare con chi non abbia, la « tua stessa istruzione.» [56] Ma se un tratto si sentiva disposto a mettersi in compagnia, conversava affatto alla libera. «Se agli amici,» dic’egli, «sembro un «ciarliero dirotto, ciò avviene perchè, vedendoli raramente, ciancio allora tanto in un giorno da rifarmi del silenzio di un anno. Pare a molti di essi ch’io mi spieghi in modo chiaro e robusto; ma a me il parlar mio riesce debole e oscuro, perchè non seppi mai impormi il carico di spiegare eloquenza in conversazione. Mai non fui vago di pranzi, e sempre tenni per molesto al pari che inutile l’invitare o l’essere invitato; non havvi cosa però che più mi ricrei del vedermi alcuno cascare addosso nell’ora della mensa, nè mangio mai solo, se posso meco aver altri.» [57] Per tutta la vita si piacque di rigida temperanza, costume contratto fin dall’infanzia: raramente faceva più di un pasto al dì; il vino spiacevagli; cibava più ch’altro vegetabili, e spesso, in tempi di divozione e di digiuno, pane e acqua erano tutto il suo desinare. Come crebbe in agi, aumentò il numero de’ servi e dei copisti, co’ quali n’andava sempre di conserva ne’ viaggi, e nutricò più cavalli per trasportare i suoi libri. Dodici anni prima della sua morte donò la sua ricca raccolta di antichi manuscritti al senato veneto, e così divenne il fondatore della libreria di S. Marco. Chiese e ottenne, in via di rimunerazione, casa in Venezia. L’unica debolezza, contratta dall’acquisto di beni di fortuna, fu il vantarsi un po’ troppo del buon uso che di essi faceva.

XV. Possedendo casa in ogni paese quasi ove teneva benefizio ecclesiastico, il Petrarca visse come non avesse casa affatto, e sempre sospirando l’eremo di Valchiusa. Avea colà soggiornato, con poche interruzicni, dieci anni mentre Laura viveva, e spesso vi tornò dopo morta. «Io mi era proposto di non più ritornarvi, ma i desiderii soverchiarono in me la risoluzione, e nulla più in difesa dell’incostanza mia posso addurre, che il sentito bisogno della solitudine. In patria sono conosciuto e corteggiato troppo, e troppo altamente vantato. Son rifinito da queste adulazioni; e quel luogo mi si fa più caro, dove posso vivere a me solo, lungi dal volgo, nè intronato dalla tromba della fama. L’abito, nostra seconda natura, ha fatto di Valchiusa la vera mia patria.» [58] L’ultima volta egli vi stette due anni: — «Eccomi di nuovo in Francia, non per veder cose mille volte già viste, ma per riavermi dalla stanchezza e sgombrare dall’animo la inquietudine, come cercano gl’infermi mutando fianco. [59] — Così non ho luogo nè dove rimanermi, nè dove andare. Sono stracco di vivere, e, qualunque strada io prenda, la trovo sparsa di selci e di spine. Il porto ch’io cerco, sulla terra da vero non si dà. Oh! fosse arrivato il punto di andarmene in traccia di mondo ben diverso da questo, dove mi sento tanto infelice! — infelice forse per colpa mia; forse per colpa degli uomini; o fors’anche colpa solo del secolo nel quale fui sortito a vivere. E può darsi ancora non sia colpa d’alcuno; tuttavia sono infelice.» [60] Ad ogni sospetto di turbolenze, di guerra, o di morbo epidemico, si sforza di giustificare il mutar che faceva di stanza. — «Non già per fuggir morte vado io così errando sopra la terra, ma per cercarvi, se v’ha, angolo ove possa trovar requie.» [61] Dall’avversione alla medicina, ch’ei deride con meno apatia che non fa Montaigne, e con più scarsa vena di sali che non fa Molière, ma con animo più concitato e più pienamente convinto d’entrambi, [62] si fa chiaro non aver lui avuto pusillanime attaccamento alla vita. Ma quand’ei querelavasi di non poter morire in pace, perchè gli uomini correvangli dietro, avrebbe dovuto sapere, che il lasciare d’ora in ora un paese, e d’ora in ora tornarvi, non è miglior modo di frenare la curiosità, e che un autore può solo sperare di viver tranquillo allorchè nulla degli altri dice, e pochissimo di sè.

Cercato ho sempre solitaria vita

le rive il sanno e le campagne e i boschi:

per fuggir quest’ ingegni sordi e loschi,

che la strada del Ciel hanno smarrita.

Comparando lo stato effettivo dell’uman genere con la perfezione cui anelava, meglio ravviluppossi nella contemplazione di sè, ed ebbe gli uomini per indegni del suo studio, non però della sua censura: e, mentre aspirava al cielo, non era indifferente a questo mondo. È da credersi ch’ei facesse qualche conto della razza umana, perchè, se fosse stato capace di realmente tenerla a vile, non si sarebbe sentito incalzato da quella perpetua necessità di fuggirla, di serrarsi fra quattro mura, di lagnarsi della follia e ignoranza delle brigate, e de’ legami onde natura ha stretti noi tutti a vivere fra pazzi, savi, virtuosi, tristi, tiranni e schiavi, e tutti miseri ugualmente. Egli dice, che Laura sopra il suo letto di morte udì una voce, che le ricordava la vita sconsolata e raminga dell’amante suo:

O misero colui ch’e’ giorni conta,

e pargli l’un mill’anni, e ’ndarno vive,

e seco in terra mai non si raffronta,

E cerca ’l mar e tutte le sue rive!

Il Petrarca avea già mandato lo stesso lamento nel libro Del disprezzo del mondo, scritto vent’anni prima di questi versi. — «Andai cercando libertà per ogni dove; ad oriente, a mezzodì, a settentrione, a’ confini dell’oceano; ma non la trovai in verun luogo, — perchè viaggiai sempre con me stesso.» [63]

XVI. Ovunque n’andasse, ricoveravasi in una specie di eremo, e continuava a comporre volumi a iosa, pure sclamando ch’ei non faceva se non consumare il tempo, ma ch’eragli giuocoforza far qualche cosa per obliare sè stesso. — « O mi faccia radere, o tosare, o cavalchi, o sieda a mensa, leggo io stesso, o mi fo leggere. Sul mio desco e a canto al letto ho quant’occorre per iscrivere; e quando mi sveglio al buio, scrivo, benchè non sappia poi leggere il mattino appresso ciò che ho scritto.» [64] Negli ultimi anni di sua vita dormiva sempre con a lato una lucerna accesa, e si alzava a mezza notte per l’appunto. [65] Quale stanco viaggiatore, io affretto il passo a misura che mi avvicino alla fine del mio viaggio. Leggo e scrivo dì e notte; è questo l’unico mio rifugio. Gli occhi miei sono aggravati dalle veglie; la mia mano è stanca di scrivere, e il cuore è consunto dalle cure. Bramo di essere conosciuto da’ posteri; dove ciò non mi riesca, sarò conosciuto dal mio secolo, o almeno dagli amici. Sarei stato pago di poter conoscere me stesso, ma di ciò non verrò mai a capo.» [66] — A che pro una vita così spesa? A qual fine tante notti vigilate e tanti giorni sì laboriosi, — tanti saggi di un nobile genio e di un cuore benevolo? Nella lettera che il Petrarca indirizzò pochi mesi prima di morire alla posterità, qual ultimo legato e frutto finale de’ lunghi suoi studi, ci fa sapere; non aver lui trovato mai sistema filosofico che lo appagasse, e appena, un fatto storico nella cui verità potesse fidare; e così conchiude: «Che filosofare è amare saviezza; ed essere vera saviezza Gesù Cristo.»

XVII. Questo robusto senso di religione tenne tutte le passioni di lui in lotta costante, e acquistando forza dall’esercizio, non ad altro servì che ad irritarle e a turbare le facoltà della mente sua, le quali furono anzi veementi che vigorose. Le azioni più consuete, i casi più ovvii erano bastanti a trattenerlo in una serie di meditazioni sopra l’eternità. Essendosi, da giovane tuttavia, sentito esausto e senza lena prima di poter giugnere alla cima di una montagna su cui tentava d’inerpicarsi, scrisse a un amico: «Comparai lo stato della mia anima, che brama di guadagnarsi il paradiso, ma non cammina per la strada che vi conduce, a quello del mio corpo, ch’ebbe tante difficoltà per arrivare al vertice della montagna, con tutto che la curiosità mi aizzasse a tentarlo. Tal riflessione m’inspirò maggior forza e coraggio. Se, diss’io, non ricusai tanta e sì penosa fatica al fine di vie più avvicinarmi al cielo con la persona, che non dovrei fare e patire affinchè l’anima mia potesse giungervi essa pure?» [67] - La morte di Laura e di molti amici della sua gioventù, di tutti i Colonna, e specialmente del cardinale che uscì di vita per crepacuore, — la vergognosa fine di Cola di Rienzo, — le civili guerre d’Italia, — l’apice della consumata corruzione della Chiesa, — la pestilenza che desolò il mezzodì d’Europa, — e Napoli invasa dagli Ungheri, — tutto congiurò nel corso dello stesso anno ad opprimerlo di afflizioni nel vigore della virilità. [68] In una lettera scritta a quel tempo esclama: «Che! Potrebb’egli esser vero, come tanti filosofi congetturarono, che Iddio non s’ingerisca nelle faccende de’ mortali? Sì, eccelso Creatore! tu ti pigli pensiero dell’uomo; ma quanto sono imperscrutabili le tue vie! A qual fine ordinaronsi le umane calamità? Un intelletto limitato ne investigherebbe indarno le cagioni. Pure tali calamità sono estreme: le veggo, le soffro; e so che già vissi due anni più che non doveva.» [69]

XVIII. Quindi, la meditazione de’ tristi eventi che precederono e seguirono sì dappresso la perdita della donna da cui sola aveva lungamente aspettato ogni felicità, convertì a una vita futura tutte le sue speranze. Seguitando un disegno di saviezza, che mal si confaceva con l’agitata sua mente, credette, «Che a sanare tutte le miserie sue, gli fosse mestieri studiarle dì e notte, — che a porre ad effetto un tal disegno gli fosse forza di rinunziare ad ogni altro desiderio, — e che l’unico modo di pervenire a dimenticare onninamente la vita fosse di meditare perpetuamente la morte.» [70] La forza di eseguire tali risoluzioni non agguagliavasi in lui all’ardore nel divisarle, e le facoltà sue erano consunte da impulsi repugnanti. Dopo ch’egli si fu avvezzo a guardare alla morte senza terrore, essa gli si riaffacciò sotto forme spaventose. Veniva colto da subiti letarghi, che al tutto gli toglievano i sensi; e per lo spazio di trent’ore il corpo di lui somigliava un cadavere. [71] Al riaversi, affermava di non aver provato nè terrore nè pena. Ma, protraendo senza modo la meditazione sopra l’eternità sì da cristiano e sì da filosofo, provocava la natura a ritirargli la grazia ch’ella aveva decretata per lui, di morire in pace. « Mi sdrajo sul letto come nel mio lenzuolo mortuario, — improvvisamente balzo su esterrefatto, — parlo meco stesso, — mi sciolgo in lagrime, in guisa da forzare al pianto quanti contemplano il mio stato.» [72]

Checchè si vedesse o udisse in tali parosismi d’angosce, egli ne provava «tormenti d’inferno.» A poco a poco trovò diletto nel pascersi de’ suoi affanni, e si rassegnò pel resto de’ suoi dì a que’ vaneggiamenti che assediano le menti fervide e le traggono a perpetui rammarichi sul tempo andato, e a pentimenti perpetui; a stancarsi pur sempre del presente, e a sperare alternamente o a paventar troppo il futuro. Quattro anni prima di morire, il Petrarca fabbricò nuova casa in Arquà, vicino a Padova; e il diciottesimo giorno di luglio 1374, l’antivigilia del settantesimo anniversario di sua nascita, fu trovato morto nella sua libreria col capo reclinato sopra un libro.

 

Note

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[1] Hujus familiæ magnanimum genitorem... ita colui, atque ita sibi acceptus fui, ut inter me et quemlibet filiorum nil diceres interesse. Ep. ad Post.

[2] Literarum scientia, morum honestas, et alia multiplicia merita probitatis, — nec non consideratione dilecti filii nostri Johannis cardinalis pro te, Capellano continuo commensali suo, humiliter supplicanti. Benedicti XII, Bull. ad Petr. an. 1335.

[3] Senil., lib. I, ep. 2: lib. XII, ep. 8.

[4] Non ad ipsius Francisci, vel alterius pro eo, nobis oblatæ petitionis instantiam, sed de mera nostra apostolica liberalitate.

[5] Epist. sine tit. 5, 8, 10, 11.

[6] Spectat hæc Satan ridens, atque impari tripudio delectatus, interque decrepitos, et puellas nudas, arbiter sedens, stupet plus illos agere quam se hortari; ac ne quis rebus torpor obrepat, ipse interim et seniles lumbos stimulis incitat, et cœcum peregrinis follibus ignem ciet. Epist. sine titulo.

[7] Fleury, Hist. Eecles., vol. X, 1. 97. Racine, Abrégé de l’Hist. eccles., vol. VI, pag. 441. Cœffetau, Myst. d’iniquité, pag, 1965.

[8] Sanctum poetæ nomen, quod nunquam barbaries violavit. Cicero pro Archia, § 5.

[9] Eclog. 8; Famil., lib. XIII, ep. 6.

[10] .  .  .  .  .  .  .  . Tristis inersque

Mitia præduris excuset facta repulsis. Eclog. 6.

[11] Famil., lib. XVI, ep. 2. Senil., lib. II, ep. 6.

[12] Epist. ad Post.

[13] Famil., lib. VII, ep. 10. Senil., lib. II, ep. 3.

[14] Ego Franciscus Petrarcha scripsi, qui testamentum aliud fecissem, si essem dives, ut vulgus insanum putat. Testam. Petrar.

[15] Vestro de grege unus: fui autem mortalis homuncio, nec magnæ admodum, sed nec vilis originis: familia, ut de se ait Augustus, antiqua. Epist. ad Poster.

[16] Atque ad admirationis augmentum fuere aliqui, qui, præmissis magnis muneribus, sequerentur, quasi liberalitate iter sternerent et januas aperirent. Petr., Op. Bas. f. 1112.

[17] Senil., lib. XV, ep. 7.

[18] Epist. ad Post.

[19] Famil., lib. II, ep. 16, 17.

[20] Sismondi, Hist. des Rép. Ital., vol. V, pag. 300.

[21] Plura advenæ præstitit Aretium, quam Florentia civi suo. Senil., lib. XIII, ep. 2.

[22] Mehus, Vita Ambr. Camald., pag. 223. Matteo Villani, Stor. Fiorent., lib. X.

[23] Variarum, ep. 5.

[24] Epist. sine titulo, 15.

[25] Incubui unice ad notitiam vetustatis, quoniam mihi semper ætas ista displicuit, ut qualibet ætate natum esse semper optaverim; et hanc oblivisci nisus, animo me aliis semper inserere. Ad Post.

[26] Epistolæ ad Viros Illustres.

[27] Vedi, tra l’altre, una lunga lettera al Di Rienzo: fac. 535 dell’edizione di Basilea: — e fra’ suoi versi latini: Eglog. 5.

[28] Famil., lib. VII, ep. 5, ad Lelium.

[29] Nulla toto orbe familia carior: carior tamen Roma. Famil., lib. XI, ep. 16.

[30] Famil., lib. II, ep. 5, 6, 7, et 8.

[31] Senil., lib. II, ep. 2.

[32] Epist. ad Poster.

[33] Epist. ad Post.

[34] Famil., lib. VI, ep. 1.

[35] Famil., lib. III, ep. 28; lib. IX, ep. 2.

[36] Diodorus Siculus, lib. III. § 59.

[37] De secreto confl., coll. 2, an. 1343. Senil., lib. XIII, ep. 7, an. 1372.

[38] Rerum Memor., lib. III, cap. IV.

[39] Inter bonos amor communis patriæ potens valde est, sicut inter malos odium. Senil., lib. XV, ep. 6.

[40] De sua ips. et al. ignorantia.

[41] Famil., lib. XII, ep. 9.

[42] Non quod divitias non optarem, sed labores curasque oderam, opum comites inseparabiles. Ep. ad Post.

[43] Leonardo Aretino. Vit. Petr. Da un documento ultimamente scoperto in Firenze appare, che la dote della sorella del Petrarca consistesse in 35 fiorini d’oro.

[44] Hujus haereditatis duas partes — inter duos veteres et benemeritos amicos partitus sum. Famil., lib. XV, ep. 5.

[45] Senil., lib. XVI, ep. 1.

[46] Senil., lib. V, ep. 3.

[47] Divitiarum contemptor eximius. Epist. ad Post. Senil, lib. III, ep. 2.

[48] Variarum, ep. 43, an. 1371.

[49] Senil., lib. VII, ep. 5.

[50] Unicus vitae labor, unicus dolor, unicus pudor est. Famil., lib. XXIII, ep. 12.

[51] Regest. Clem. VI, vol. XLV, fac. 200.

[52] Homo natus ad laborem, ac dolorem meum, qui et vivens gravibus me curis exercuit, et acri dolore moriens vulneravit, cum paucos laetos dies vidisset in vita sua, obiit anno Domini 1361, aet. suae XXV.

[53] Quem viventem verbo oderam, defunctum mente diligo, corde teneo complectorque memoria, quaero oculis. Senil, lib. I, ep. 2.

[54] Et ipsum rogo non solum ut haeredem, sed ut filium carissimum, ut pecuniam dividat in duas partes; et unam sibi habeat, et alteram nurneret cui scit me velle. Testam. Petr.

[55] Epist. ad Post.

[56] Famil., lib. X, ep. 15 et 16.

[57] Epist. ad Post.

[58] Famil., lib. II, ep. 12.

[59] Stare nescius, non tam desiderio visa millies revisendi, quam studio, more aegrorum, loci mutatione, taedii consulendi. Epist. ad Post.

[60] Famil., lib. XV; ep. 8: lib. XVII, ep. 3.

[61] Non ut mortem fugiam, sed ut quaeram, si qua in terris est, requiem. Senil., lib. I, ep. 6.

[62] Invectivae in medicum, Senil., lib. XII, ep. 1 et 2.

[63] De contemptu mundi; ovvero De secr. confl., coll. 3.

[64] Questo passo è tolto dalla quartadecima lettera del Petrarca, di una serie tuttavia inedita. Il manuscritto sta nella libreria di San Marco, a Venezia.

[65] Famil., ep. 72.

[66] Famil., lib. X, ep. 15.

[67] Famil., lib. IV, ep. 1.

[68] Famil., lib. VIII, ep. 1, 2, 3, 4, 5.

[69] Famil., lib. VIII, ep. 7; an. 1349.

[70] De secr, confl., coll. 1.

[71] Senil., lib. III, ep. 7; lib. IX, ep. 2; lib. XIII, ep. 9; lib. XV, ep. 14; lib. XI, ep. ult.

[72] De secr. confl., coll. 2.

 

PARALLELO FRA DANTE E IL PETRARCA

L’un disposto a patire e l’altro a fare.

DANTE, Purg., XXV.

I. Nel secolo di Leone X una erudizione strabocchevole recò i raffinamenti della critica tant’oltre da preferire per sino la eleganza del gusto agli ardimenti del genio. Così le leggi della lingua italiana vennero desunte, e i modelli della poesia trascelti esclusivamente dall’opere del Petrarca; il quale proclamato allora da più di Dante, la sentenza durò fino a’ dì nostri indisputata. Lo stesso Petrarca non facendo divario da Dante ad altri dalla propria, fama ecclissati, così li mesce:

Ma ben ti prego che ’n la terza spera

Guitton saluti e messer Cino e Dante,

Franceschin nostro, e tutta quella schiera.

Canz. CCLXXXVII

Così or quinci or quindi rimirando,

vidi in una fiorita e verde piaggia

gente che d’amor givan ragionando.

ecco Dante e Beatrice; ecco Selvaggia;

ecco Cin da Pistoia; Guitton d’Arezzo;

.   .   .   .   .   .   .   .   .   .

Ecco i duo Guidi, che già furo ’in prezzo;

Onesto Bolognese, e i Siciliani.

Trionfo d’Amore, cap. IV.

Il Boccaccio, scoraggito dalla fama di questi due maestri solenni, erasi proposto di ardere le sue poesie. Il Petrarca ne lo distolse, scrivendogli in cotal aria di umiltà alquanto discorde dall’indole di un uomo che di sua natura non era ipocrita. «Voi siete filosofo e cristiano,» dic’egli, «e pure siete scontento di voi, perchè non siete illustre poeta! Dacchè altri occupò il primo seggio, siate pago del secondo, e io mi piglierò il terzo[1] - Il Boccaccio, accortosi dell’ironia e dell’allusione, mandò il poema di Dante al Petrarca, supplicandolo «a non volere sdegnare di leggere l’opera di un grand’uomo, dal cui capo l’esilio e la morte, che lo rapì nel vigore degli anni, avevano strappato l’alloro.» [2] — Leggetelo, ve ne scongiuro; il vostro genio arriva al cielo, e la gloria vostra si stende oltre i limiti della terra: ma considerate, essere Dante nostro concittadino; aver lui mostrato quanto può la lingua nostra; la vita sua essere stata sventurata; lui avere impreso e sostenuto ogni cosa per la gloria; ed essere tuttavia perseguito dalla calunnia e dall’invidia fin entro il sepolcro. Se voi lo loderete, farete onore a lui — farete onore a voi stesso — farete onore all’Italia, di cui siete la gloria maggiore e l’unica speranza.»

II. Il Petrarca nella sua risposta par che s’adiri «di poter esser creduto geloso della celebrità di un poeta, la cui lingua è ruvida, sebbene i concetti ne sieno sublimi.» — «Voi dovete portargli venerazione e gratitudine, qual a primo lume di vostra educazione; [3] laddove io lo vidi soltanto una volta da lontano, o a meglio dire mi fu additato mentr’io era pur anche fanciullo. Fu esiliato lo stesso dì in compagnia del padre mio, il quale, rassegnatosi alle sue sciagure, si dedicò interamente alla cura de’ suoi figliuoli. L’altro per lo contrario resistette, e famelico solo di gloria, tutto il resto posto in non cale, proseguì nello scelto sentiero. Se ancor vivesse e se il suo carattere fosse al mio così conforme, com’è il suo genio, non avrebbe migliore amico di me.»[4] — Questa lettera, fascio di contraddizioni, d’ambiguità e d’indirette difese di sè, accenna all’individuo per circonlocuzioni, come se il nome ne fosse soppresso per cautela o paura. Pretendono alcuni che a Dante non si riferisca;[5] ma la lista, che ancor si conserva autentica, [6] de’ Fiorentini mandati a confino il 27 gennaio 1302, contiene i nomi di Dante e del padre del Petrarca, e nessun altro individuo cui si possa applicare veruna delle circostanze menzionate nella lettera, mentre tutte e singolarmente quadrano a capello all’Alighieri.

III. Questi due fondatori dell’italiana letteratura furono dotati di genio disparatissimo, proseguirono differenti disegni, stabilirono due diverse lingue e scuole di poesia, ed esercitarono fino al tempo presente differentissima influenza. In vece di scegliere, come fa il Petrarca, le più eleganti e melodiose parole e frasi, Dante crea sovente una lingua nuova, e impone a quanti dialetti ha l’Italia il tributo di accozzamenti atti a rappresentare non pure le sublimi e belle, ma ben anche le più comuni scene di natura; tutti i grotteschi concepimenti della sua fantasia; le più astratte teoriche di filosofia, e i misteri più astrusi di religione. Una semplice idea, un idioma volgare piglia diverso colore e spirito diverso dalla loro penna. Il conflitto di propositi contrarii suona nel cuore del Petrarca, e tenzona nel cervello di Dante.

Nè sì nè no nel cor mi sona intero — Petrarca.

Che ’l no e ’l sì nel capo mi tenzona — Dante.

At war ’twixt will and will not — Shakespeare.

Il Tasso espresse il concetto medesimo con quella dignità, da cui mai non si diparte:

In gran tempesta di pensieri ondeggia.

Pure non solo palesa questo una imitazione del virgiliano magno curarum fluctuat æstu; ma, col paventare la forza dell’idioma e no, il Tasso perde, come spesso gli accade, il grazioso effetto prodotto dal nobilitar una frase volgare; — artifizio però che nella pastorale dell’Aminta usò felicissimamente. L’idea dell’epico stile fu in lui sì raffinata, che, mentr’egli teneva Dante «qual maggior poeta d’Italia,» sovente affermò, «che se non avesse trascurato dignità ed eleganza, sarebbe stato il primo del mondo.» — Dante, non v’ha dubbio, diè anche talora commiato al decoro e alla perspicuità; ma sempre per crescere fedeltà alle pitture, o profondità alle riflessioni. Dice a sè:

Parla, e sii breve e arguto.

Dice al lettore:

Or ti riman, lettor, sopra ’l tuo banco,

dietro pensando a ciò che si preliba,

s’esser vuoi lieto assai prima che stanco.

Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba.

IV. Quanto è al loro verseggiare, il Petrarca conseguì il fine essenziale dell’erotica poesia; che sta nel muovere un’onda costante d’armoniosi concenti inspirati dalla più dolce delle umane passioni. L’armonia di Dante, non sì melodiosa, è spesso frutto di arte più possente:

S’i’ avessi le rime e aspre e chiocce,

come si converrebbe al tristo buco

sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce,

i’ premerei di mio concetto il suco

più pienamente; ma perch’i’ non l’abbo,

non senza tema a dicer mi conduco:

chè non è ’mpresa da pigliare a gabbo

descriver fondo a tutto l’universo,

nè da lingua che chiami mamma o babbo.

Ma quelle donne ajutino ’l mio verso

ch’ajutaro Anfione a chiuder Tebe,

sì che dal fatto il dir non sia diverso.

Qui il poeta accenna ad evidenza, che il dar colore e forza a idee col suono di parole è uno de’ requisiti necessarii dell’arte. I sei primi versi sono fatti aspri dall’affoltarsi di consonanti. Ma allorchè descrive soggetto al tutto diverso, le vocali fanno più scorrevoli le parole:

O anime affannate,

venite a noi parlar, s’altri nol niega.

Quali colombe dal disio chiamate,

con l’ale aperte e ferme, al dolce nido

volan, per l’aer dal voler portate:

Il Cary, traduttore inglese di Dante, contravviene frequentemente — e ne rechiamo esempio in nota [7] — a una tesi del suo autore, il quale, affidato più ch’altro dall’effetto della propria versificazione, dice: «che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può della sua loquela in altra tramutare, che non si distrugga tutta la sua dolcezza ed armonia.» [8] - Il disegno del poema di Dante richiedeva ch’ei trapassasse di pittura in pittura, di passione in passione. Nelle differenti scene del suo viaggio ci varia l’intonazione così ratto, come la folla degli spettri involasi dinanzi agli occhi suoi; e adatta sillabe e cadenze d’ogni verso in sì artificiosa guisa da conferir forza alle immagini che intende rappresentare col solo cambiare il numero: però che ne’ versi più armoniosi non è poesia, sempre che falliscano ad eccitare quell’infocato rapimento, quello squisito titillamento di diletto che sorge dall’agevole e simultanea agitazione di tutte le nostre facoltà, — ciò che il poeta ottiene con l’uso potente delle immagini.

V. Il potere delle immagini sopra la mente procede in poesia secondo la progressione stessa della natura — guadagnano prima i sensi — poi il cuore — quindi colpiscono l’imaginazione — e all’ ultimo stampansi nella memoria, evocando l’opera della ragione, che consiste, più ch’altro, nell’esame e nel confronto delle nostre sensazioni. Questa progressione è per verità così rapida, che a pena viene avvertita; pure a chi abbia facoltà di ponderare il lavoro della propria mente tutti i gradi ne sono discernibili. Pensieri altro non sono per sè che materia grezza: pigliano l’una o l’altra forma; ricevono più o manco splendore e calore, più o manco novità e ricchezza, secondo il genio dello scrittore. Col condensarli in un composto di suoni melodiosi, di caldi sensi, di luminose metafore, e di profondo raziocinio, i poeti trasformano in vivide immagini eloquenti molte idee, che si rimangono oscure e mutole nella mente nostra; e con la magica presenza d’immagini poetiche c’insegnano a subitamente sentire, a immaginare, a ragionare e a meditare a un tratto con tutto il piacere e senza veruna di quelle pene, che comunemente si tira dietro ogni sforzo mentale. Il pensiero, «Che la memoria e l’arte di scrivere conservano tutto il sapere umano;» — il pensiero, «Che la speranza non abbandona l’uomo neppure sull’orlo del sepolcro, e che l’aspettativa di chi sta per morire è tuttavia tenuta viva dal prospetto di una vita avvenire;» — sono verità assai facili a comprendersi, perchè inculcate da cotidiana esperienza. Pure i termini astratti, in cui è forza racchiudere ogni massima generale, sono inetti a creare quel simultaneo eccitamento, mediante il quale le facoltà nostre mutuamente si aiutano tutte; siccome allorchè il poeta apostrofa la Memoria:

quanto al guardo rapito il Genio scopre,

e quanto l’Arte a sublimarne affina,

ogni etade, ogni clima a te comparte:

de la sacra sua cella a te custode

pensierosa il Saver fidò le chiavi;

e tu ognor vigilante il freddo astergi

vapor, ch’ invido Oblio spira furtivo

ad appannar la sua virginea lampa.

ROGERS, I Piaceri della Memoria.

Alle voci astratte Genio, Arte, Sapere, si frammischiano oggetti proprii a colpire i sensi, così che la massima posta innanzi al lettore ei la vede quasi in una pittura. — Non è dato a’ poeti di aspirare al merito di originalità, se non col mezzo d’imagini; però che col moltiplicato accozzamento di pochissimi concetti esse vengono a produrre novità, e formano gruppi che, sebbene differenti in disegno e carattere, tutti esibiscono lo stesso vero. Il seguente passo italiano sopra la Memoria non ha la più leggiera somiglianza a’ versi inglesi tradotti di sopra, e nondimeno il divario sta solo nel mutato accozzamento d’immagini

siedon le Muse su le tombe, e quando

il tempo con sue fredde ali vi spazza

i marmi e l’ossa, quelle Dee fan lieti

di lor canto i deserti, e l’armonia

vince di mille e mille anni il silenzio.

e che potrebbe dirsi del nostro aspettare l’immortalità, che tutto non sia compreso e spiegato in questa invocazione alla Speranza?

Assisa, o Dea, sorriderai secura

su le rovine, e allumerai tua face

a la funerea pira di Natura!

CAMPBELL, Piaceri della Speranza.

VI. Le immagini del Petrarca paiono squisitamente finite da pennello delicatissimo: allettano l’occhio più col colorito che con le forme. Quelle di Dante sono ardite e prominenti figure di un alto rilievo, che ti sembra di poter quasi toccare, a cui l’imaginazione supplisce prontamente quelle parti che si nascondono alla vista. Il pensiero comune della vanità dell’umana fama è così espresso dal Petrarca:

O ciechi, il tanto affaticar che giova?

Tutti tornate alla gran madre antica,

e ’l nome vostro appena si ritrova;

e da Dante

La vostra nominanza è color d’erba

che viene e va, e quei la discolora,

per cui ell’esce della terra acerba.

I tre versi del Petrarca hanno il gran merito di essere più animati, e di trasmettere più rapida l’immagine della terra che inghiotte i corpi e i nomi di tutti gli uomini; ma quelli di Dante, con tutta l’affliggente profondità loro, hanno il merito ancor più raro di guidarci a idee, cui non saremmo per noi stessi arrivati. Mentr’ei ci rammenta essere il tempo, che pure è necessario per recare al colmo ogni gloria umana, quello che finalmente la strugge, il cangiante colore dell’erba rappresenta i rivolgimenti de’ secoli come caso naturale di pochi momenti. — Ma, per aver fatto menzione «dei grandi periodi del tempo,» un vecchio poeta inglese menomò quello stesso concetto che intendeva di magnificare

I know that all beneath the moon decays;

And what by mortals in this world is brought,

In time’s great periods shall return to nought.

I know that all the muse’s heavenly lays,

With toil of sprite which are so dearly bought,

As idle sounds, of few or none are sought,

That there is nothing lighter than mere praise.

Drummond of Hawthornden.

Inoltre, invece del ministero del tempo, Dante si serve del ministero del sole, perchè, generandoci nella mente idea meno astratta, ed essendo oggetto più palpabile da’ sensi, abbonda d’immagini più splendide ed evidenti, e ne colma di maggior maraviglia e ammirazione. La sua applicazione è anche più logica, dacchè ogni concetto che abbiamo del tempo si riduce alla misura di esso, la quale ci è somministrata dalle periodiche rivoluzioni del sole.

VII. Rispetto al piacere diverso che questi due poeti arrecano, fu già osservato, che il Petrarca eccita, le più care simpatie, e sveglia le più profonde emozioni del cuore; e, sieno esse di mesta o di lieta tempra, ne siamo ansiosamente bramosi, perchè più ci scuotono e più forte avvivano la coscienza nostra di esistere. Ancora, dibattendoci noi senza posa a cacciare il dolore e a procacciarci il piacere, i nostri cuori oppressi sotto il fascio delle proprie agitazioni si sentirebbero mancare, abbandonati che fossero da’ sogni dell’immaginazione, onde fummo provvidamente dotati ad aumentare il nostro capitale di felicità, e a dorare di fulgide illusioni le triste realtà della vita. Soli i grandi scrittori possono tanto frenare la immaginazione, da rendere poi impossibile il distinguere nelle opere loro queste illusioni dalle realtà. Se in un poema l’ideale e il fantastico sieno predominanti, ben può la meraviglia coglierci per brev’ora, ma non potrà mai commoverci per oggetti, che o non abbiano persona, o troppo si dilunghino dalla nostra comune natura. E d’altra parte, se la poesia si fermi troppo sopra cose reali, subito ne assale stanchezza perchè le veggiamo da per tutto; rattristano ogni minuto della nostra esistenza; ci vengono sempre in uggia come note a sazietà: — aggiugni che se la realtà e la finzione non sieno fuse intrinsecamente in un sol tutto, vengono a mutuo conflitto e si distruggono a vicenda. Non molti esempii occorrono nel Petrarca di felice combinazione del vero col finto, pari a quello ov’ei descrive le fattezze di Laura immediatamente dopo ch’ella spirò:

Pallida no, ma più che neve bianca —

parea posar come persona stanca.

Quasi un dolce dormir ne’ suoi begli occhi,

sendo lo spirito già da lei diviso —

Morte bella parea nel suo bel viso.

No earthy hue her pallid check display’d,

but the pure snow —

like one recumbent from her toils she lay,

losing in sleep the labours of the day.

and from her parting soul an heavenly trace

seem’d yet to play upon her lifeless face,

where death enamour’d sate, and smiled with angel grace

BOYD’s Transl.

Se il traduttore si fosse nell’ultimo verso tenuto più stretto alle parole del suo testo:

Morte bella parea nel suo bel viso,

avrebbe data più alta e nondimeno più credibile idea della beltà di Laura, e destramente converso in sensazione più gradevole l’orrore con che si guarda un cadavere. Ma «Morte che siede innamorata sopra la faccia di Laura» non presenta immagine distinta, se pur quella non fosse dell’allegorica forma di Morte trasmutata in angelo assiso sopra la faccia di una donna; — il che valga a esempio che colpisca delle sconce assurdità, a cui trae un mal accorto accozzamento del vero colla finzione.

VIII. Il Petrarca affoga spesso la realtà in tanto lusso di decorazioni ideali, che mentre ci affisiamo nelle sue imagini, le ci scompaiono

D’aurea luce in un pelago nascose. [9]

E il poeta che ci sovviene di questo verso, osserva giustamente — «che il vero sentir fino è eccellente economo, e si piace in produrre effetti grandi con piccoli mezzi.» Dante trasceglie bellezze qua e là disperse per ogni lato della natura creata, e le incorpora in singolo soggetto. Gli artisti che nell’Apollo di Belvedere e nella Venere de’ Medici compendiarono le beltà varie notate in diversi individui, produssero forme umane a rigore, spiranti però cotal perfezione da non si scontrare in terra: tuttavia contemplandole, senza che ce ne avvediamo siam tratti a credere all’illusione, che la schiatta nostra possa andar lieta di sì celeste bellezza.

Stiamo, Amor, a veder la gloria nostra,

cose sopra natura, altere e nove:

vedi ben quanta in lei dolcezza piove;

vedi lume che ’l Cielo in terra mostra.

vedi quant’arte dora e ’mperla e ’nnostra

l’abito eletto e mai non visto altrove;

che dolcemente i piedi e gli occhi move

per questa di bei colli ombrosa chiostra.

L’erbetta verde e i fior di color mille,

sparsi sotto quell’elce antiquo e negra,

pregar pur che ’l bei piè li prema o tocchi

e ’l ciel di vaghe e lucide faville

s’accende intorno, e ’n vista si rallegra

d’esser fatto seren da sì begli occhi.

Questa descrizione ne invoglia d’incontrare al mondo donna somigliante; ma ammirando il beato poeta e invidiandogli i suoi trasporti amorosi, non si può non accorgerci, che i fiori «vaghi d’essere calcati dal bel piede,» il cielo «che si rabbella della sua presenza,» l’atmosfera «che nuovo splendore impronta dagli occhi suoi,» sono mere visioni che ne tentano d’avventurarci con lui dietro a non conseguibile chimera. Di qui siamo indotti a pensare, che fosse in Laura più che umana leggiadria, se valse ad accendere l’immaginazione dell’amante a un tal grado d’entusiasmo da farla capace d’illusioni sì fantastiche, che ben ci chiariscono l’eccesso della passione; ma ci è tolto il partir seco lui tali estasi amatorie per beltà che nè mai potemmo, nè mai potremo rimirare.

IX. Per lo contrario la bella vergine che Dante vide in lontananza in un paesaggio del paradiso terrestre, in vece di apparirti un ente immaginario, sembra accoppiare in sè tutti gli allettamenti che trovansi in quelle amabili creature nelle quali talvolta ci scontriamo, che ci accora di perdere di vista, a cui la fantasia rivela del continuo; — la pittura del poeta richiama più distinta alla memoria l’idea dell’originale, e la scolpisce nell’immaginazione:

Una donna soletta, che si gía

cantando ed iscegliendo fior da fiore,

ond’era pinta tutta la sua via.

deh, bella donna, ch’a’ raggi d’amore

ti scaldi, s’i’ vo’ credere a’ sembianti,

che soglion esser testimon del core,

vegnati voglia di trarreti avanti,

diss’io a lei, verso questa riviera,

tanto ch’io possa intender che tu canti. —

Come si volge con le piante strette

a terra, ed intra sè donna che balli,

e piede innanzi piede a pena mette;

volsesi ’n su’ vermigli, ed in su’ gialli

fioretti verso me, non altrimenti

che vergine che gli occhi onesti avvalli:

e fece i prieghi miei esser contenti,

sì appressando sè, che ’l dolce suono

veniva a me co’ suoi intendimenti.

Tal è lo stupendo magistero con cui Dante mischia le realtà di natura con accessorii ideali, che ti crea nell’animo una illusione da non si poter dissipare per tardi riflessi. Tutta quella grazia e beltà, quel caldo raggio d’amore, quella vivezza e lieta baldanza di gioventù, quella sacra modestia di una vergine, che osserviamo, benchè disgiunte e miste a difetti, in persone diverse, son qui concentrate in una sola; mentre il canto, la danza, il côrre fiori dan vita e incanto e grazia di movenza alla pittura. — A giudicare schiettamente tra questi due poeti, diresti, che il Petrarca sovrasti nel mettere in cuore un sentimento profondo della sua esistenza; e Dante nel guidare l’immaginazione ad accrescere di sconosciute attrattive la natura. Genio non fu mai forse che in sè accoppiasse a sì alto segno queste due facoltà.

X. Entrambi incarnarono disegni accomodati alle facoltà respettive, e ne uscirono due maniere di poesia producitrice di opposti effetti morali. Il Petrarca ne mostra ogni cosa pel mezzo di una predominante passione, ne abitua a cedere a quelle propensioni che, tenendo il cuore in perpetua inquietudine, fiaccano il vigore dell’intelletto, — ne seduce a morbida condiscendenza, alla sensibilità, e ne ritrae dalla vita attiva. Dante, come tutti i poeti primitivi, è lo storico de’ costumi del suo secolo, il profeta, della sua patria e il pittore dell’uman genere; ed, eccitando tutte le facoltà dell’anima, le chiama a riflettere sopra tutte le vicissitudini dell’universo. Descrive ogni fatta di passioni e di azioni, — l’incanto e l’orrore delle scene più disperate. Colloca uomini nella disperazione dell’inferno, nella speranza del purgatorio e nella beatitudine del paradiso. Gli osserva nella gioventù, nella virilità e nella vecchiezza. Trae in iscena insieme ambo i sessi, tutte le religioni, tutte le occupazioni di nazioni ed età diverse; pure non piglia mai gli uomini in massa, — ma sempre li rappresenta come individui; parla a ciascuno di essi, ne studia le parole, e osserva attentamente i loro contegni. — «Trovai », dic’egli nella lettera a Can della Scala, «l’esempio del mio Inferno nella terra che abitiamo.» Nel descrivere i regni della morte, cerca ogni opportunità per riportarci indietro alle faccende e affezioni del mondo vivente. Vedendo il sole che sta per abbandonare il nostro emisfero, esce in que’ versi:

Era già l’ora che volge ’l disio

a’ naviganti, e ’ntenerisce ’l core

lo dì, c’han detto a’ dolci amici, addio;

e che lo nuovo peregrin d’amore

punge, se ode squilla di lontano

che paja ’l giorno pianger, che si more.

Avvi un passo a questo somigliantissimo in Apollonio Rodio, le cui molte bellezze, sì ammirate nelle imitazioni di Virgilio, rado si cercano nell’originale:

Spiegando allora

il suo velo di tenebre sul muto

orbe la Notte, alzò il nocchier da poppa

fiso nell’Orse e in Orïone il guardo.

il peregrino, e chi veglia le porte

punse lusinga alta di sonno; e intanto

di madre, che pur or molle di pianto

i figli estinti sospirava, scorre

Grave un sopor le membra. [10]

Con digressioni simili a questa, introdotte senz’arte o sforzo apparente, Dante ci fa pigliar parte per tutto l’uman genere; là dove il Petrarca, occupandosi solo di sè stesso, allude ad uomini in mare sulla sera, onde soltanto eccitare maggior compassione per le proprie pene:

E i naviganti in qualche chiusa valle

gettan le membra, poi che ’l Sol s’asconde,

sul duro legno e sotto l’aspre gonne.

Ma io, perchè s’attuffi in mezzo l’ onde,

e lassi Spagna dietro alle sue spalle,

e Granata e Marocco e le Colonne:

e gli uomini e le donne

e ’l mondo e gli animali

acquetino i lor mali,

fine non pongo al mio ostinato affanno;

e duolmi ch’ogni giorno arroge al danno;

ch’i’ son già, pur crescendo in questa voglia,

ben presso al decim’anno;

nè posso indovinar chi me ne scioglia.

Quindi la poesia del Petrarca ci avviluppa in oziosa melanconia, nelle più molli e dolci visioni, nell’errore di abbandonarci in balìa delle affezioni altrui, e ci trae a correre vanamente dietro a perfetta felicità, finchè c’immergiamo a chius’occhi in quella disperazione che succede,

quando, percossa da terror, s’invola

dal tuo volto la speme, e la gigante

doglia ne ingombra il vôto orrendo sola.

Nondimeno pochissimi sono coloro cui tal sorte incolga, verso i molti più che da lettura sentimentale unicamente imparano come operare con più sicuro effetto nelle menti passionatc, o come stendere più fitto manto d’ipocrisia sopra il vizio. La turba de’ petrarchisti in Italia può imputarsi all’esempio di que’ prelati e dotti uomini, i quali, a giustificare il commercio loro con l’altro sesso, presero in prestito il linguaggio dell’amore platonico dal loro modello; che pure è mirabilmente accomodato a un collegio di gesuiti, poichè inspira divozione, misticismo e ritiro, e snerva le menti giovenili. Ma dacchè alle ultime rivoluzioni, suscitatrici d’altre passioni, altro sistema d’educazione rispondeva, la schiera de’ petrarchisti fu presto veduta assottigliarsi, mentre i seguaci di Dante pubblicavano poemi più atti a far sorgere lo spirito pubblico in Italia. Dante applicò la poesia alle vicende de’ tempi suoi, quando la libertà faceva l’estremo di sua possa contro la tirannide; e scese nel sepolcro con gli ultimi eroi del medio evo. Il Petrarca visse fra coloro che prepararono la ingloriosa eredità del servaggio alle prossime quindici generazioni.

XI. In sul declinare della vita di Dante gli statuti de’ dominii italiani subirono intera e quasi universale mutazione; e uomini, costumi, letteratura e religione subitamente ne assunsero nuovo carattere. Allora si fu che papi e imperadori, col risiedere fuori d’Italia, l’abbandonarono alle fazioni, le quali, avendo combattuto per l’indipendenza o pel potere, continuarono a lacerarsi a brani per animosità, finchè ridussero la patria in tali stremi da farla agevole preda a’ demagoghi, a’ despoti ed agli strani. I Guelfi ne’ loro conflitti per le franchigie popolari contro i feudatarii dell’Impero cessarono dal ricevere la sanzione della Chiesa. I Ghibellini non più si allearono con gl’imperadori per conservare i lor privilegi quali grandi proprietarii. Firenze e altre piccole repubbliche, sterminati i nobili, venivano governate da mercadanti, i quali, non avendo nè maggiori da imitare, nè sensi generosi, nè militare educazione, perpetuavano le risse intestine per via di calunnia e di confisca. Paurosi di domestica dittatura, a’ nemici esterni opposero estranei condottieri di truppe mercenarie, composte spesso di venturieri e vagabondi d’ogni paese, i quali saccheggiavano amici e nimici similmente, esasperavano le discordie e contaminavano la morale della nazione. Principi francesi regnarono in Napoli, e, per allargarsi la preponderanza sopra l’Italia meridionale, vi distrussero fin l’ombra dell’imperiale autorità coll’aizzare i Guelfi a tutti i delirii della democrazia. Frattanto i nobili, nervo della fazione ghibellina nel settentrione d’Italia, possedendo la ricchezza e la forza del paese, continuarono a movere incessanti guerre civili, fin tanto ch’essi con le città e i vassalli loro rimasero tutti soggiogati dal militare dominio de’ vittoriosi condottieri, i quali venivano assassinati spesso da’ lor proprii soldati, e più spesso dai presuntivi credi del poter loro. Unica Venezia, circondata dal mare e perciò libera dal pericolo d’invasione e dalla necessità d’affidare le sue armate a un singolo patrizio, andò lieta di stabile forma di governo. Nondimeno, per conservare ed ampliare le colonie e il commercio, sostenne nel Mediterraneo una lotta micidiale con altre città marittime. I Genovesi, perduta la loro flotta principale, mercarono l’aiuto de’ tiranni lombardi a prezzo della loro libertà. Ebbero così modo di sbramar gli odii e disfare i Veneti, i quali col ripetere gli assalti esaurirono le forze; ed ambedue gli Stati combattevano omai men per acquisti che per vendetta. Allora intravvenne che alle pacifiche esortazioni del Petrarca il doge Andrea Dandolo diede quell’altiera risposta.[11] Così gl’Italiani, sebbene a que’ dì arbitri de’ mari, vidersi ridotti in cotali termini di debolezza da ciechi rancori, che nel vegnente secolo Colombo fu costretto di mendicare l’aiuto di principi estranei, onde aprire quel passaggio di navigazione, che da quell’epoca diede l’ultimo crollo alla commerciale grandezza d’Italia.

XII. Frattanto papi e cardinali, vigilantemente osservati ad Avignone, divennero talora forzati e spesso volontarii complici della francese politica. I principi germanici, datisi a disprezzare le papali scomuniche, ricusarono di eleggere imperadori patrocinati dalla Santa Sede, e di condur fuori i sudditi al conquisto della Terra santa, impresa che dall’entrante duodecimo secolo per insino all’uscente decimoterzo, commise di fatto tutti gli eserciti d’Europa all’arbitrio de’ papi. Il selvaggio e intraprendente fanatismo religioso, venuto così a ristare colle crociate, declinò in tenebrosa e sospettosa superstizione: nuovi articoli di credenza recati dall’Oriente fecero pullulare nuove sètte cristiane: la circolazione de’ classici, il gusto diffuso per la metafisica greca e pel materialismo aristotelico, sparso per Europa dagli scritti d’Averroe trassero alcuni contemporanei di Dante e del Petrarca a dubitare persino della esistenza di Dio. [12] Fu allora giudicato espediente di soffolcere a un punto e l’autorità del vangelo e il potere temporale della chiesa con le arbitrarie e misteriose leggi della santa Inquisizione. Parecchi de’ papi, che sedettero nella cattedra di San Pietro vivendo Dante, erano stati prima frati dell’Ordine di San Domenico, fondatore di quel tribunale; e i lor successori a’ tempi del Petrarca furono prelati di Francia o corrotti dal lusso, o devoti agl’interessi della patria loro. Al terrore propagato dai domenicani seguitò il traffico delle indulgenze e la celebrazione de’ giubilei, instituiti in quel torno da Bonifazio VIII. Poichè non fu più a lungo in mano de’ sovrani pontefici lo sperdere in politiche imprese le ricchezze dalla religiosa potenza in lor derivate, l’ambizione diè luogo alla cupidigia; e in iscambio de’ declinanti diritti di conferire corone, ottennero sussidii per mantenere una corte lussuriosa, e per lasciare dopo sè una genealogia di ricchi eredi. I popoli, benchè inaspriti dall’oppressione e parati a ribellare, erano disuniti e non iscaltriti abbastanza per recare a capo una durevole rivoluzione. Si rivoltarono solo per rovesciare le antiche leggi, per mutare padroni e per soccombere a più tirannesca signoria. La resistenza di una contumace aristocrazia vietò a’ monarchi di levare eserciti bastevoli a raffermarsi il potere in casa e le conquiste al di fuori. Gli Stati venivano aggranditi più per frode che per valore; e coloro che li reggevano divenivano men violenti e più traditori. I forti delitti delle barbare età a poco a poco cedettero agl’insidiosi vizii dell’incivilimento. La coltura delle classiche lettere perfezionò il gusto generale, e aggiunse al fondo della erudizione; ma rintuzzò l’ardire e cancellò a un tempo le native forme dell’ingegno; e chi pur potea farsi inimitabile scrittore in lingua materna, fu pago di logorar le forze nell’unica imitazione de’ Latini. Gli autori si rimasero dal pigliar parte agli avvenimenti che correvano, e se ne stettero dalla lunga spettatori. Taluni, partitamente narrando a’ concittadini le andate glorie, li fecero scorti della ruina che sovrastava alla patria; altri ripagarono i mecenati di adulazioni; però che nel decimoquarto secolo per l’appunto tirannesche signorie tolsero a scaltrire i successori nell’arte di nutricare letterati stipendiati per gabbare il mondo. Tal è la concisa istoria d’Italia duranti i cinquantatrè anni dalla morte di Dante alla morte del Petrarca.

XIII. I conati loro per recare l’Italia sotto il reggimento di un solo sovrano, e per tôr via il poter temporale de’ papi, ecco l’unico punto in cui conversero questi due personaggi. Pare che fortuna e natura cospirassero a separarli nel resto per una irreconciliabile discrepanza. Dante percorse più regolare carriera di studii, e in tempi che Aristotele e Tommaso d’Aquino tenevano soli il campo nelle università. L’austero metodo e le massime loro lo ammaestrarono a scrivere solo dopo lunga meditazione, — a tenersi davanti « un gran pratico fine, cioè quello dell’umana vita» [13] — e a proseguirlo saldamente con un preconcetto disegno. Poetici ornamenti paiono usati da Dante solo a lumeggiare i suoi soggetti; nè egli consente mai alla fantasia di trasgredire leggi, che previe siasi imposte:

lo ’ngegno affreno

Perchè non corra, che virtù nol guidi. — Inferno.

Non mi lascia più ir lo fren dell’arte. — Purgatorio.

Lo studio de’ classici e il crescente entusiasmo per platoniche speculazioni, che il Petrarca propugnò contra gli aristotelici, [14] accordossi con la naturale inclinazione di lui, e ne informò la mente dalle opere di Cicerone, Seneca e Sant’Agostino. Ei ne colse la maniera saltuaria, la dizione ornata, allora pure che i temi meno poetici vennergli a mano; e sopra tutto imitò quei mischiar ch’essi fecero sentimenti individuali con universali principii di filosofia e di religione. La sua penna andò dietro alla perpetua irrequietudine dell’animo: ogni argomento attraeva i suoi pensieri, e di rado tutti i suoi pensieri furon devoti ad un solo argomento. Così, più ardente ad imprendere che perseverante a finire, il numero grande de’ suoi non terminati manuscritti gli fece alla fine pensare, che tra il frutto d’industria e quello d’ozio assoluto fosse per correr poco divario. [15] - Dante confessa che in sua gioventù soggiaceva a lungo e quasi insuperabile scoraggimento; e duolsi di quella mutezza di mente che ne inceppa le facoltà, nè però le distrugge. [16] Ma la mente sua, riavuta la elasticità, non più ristette finchè non ebbe conseguito lo scopo; e nessuna forza nè cura umana potè stornarlo dalle sue meditazioni. [17]

XIV. L’intelletto in entrambi tenne virtù dalle naturali e inalterabili emozioni del cuore. Il fuoco di Dante fu più profondamente concentrato; più di una passione non ardeva in quello a un tempo; e, se il Boccaccio non caricò la pittura, Dante per più e più mesi dopo morta Beatrice ebbe sentimento e aspetto di selvaggio. [18] Il Petrarca fu agitato insiememente da differenti passioni: sorgevano, ma si rintuzzavano anche l’una coll’altra; e il suo fuoco, più che bruciare, risplendeva — riboccando da anima inetta a tutto sopportarne il calore, e pure ansiosa di attirarsi per mezzo di quello l’attenzione di ogni sguardo. La vanità fece il Petrarca sollecito sempre e sempre apprensivo pur dell’opinione di coloro, cui ben sentiva di naturalmente sovrastare. — Nel carattere dell’Alighieri primeggiava l’orgoglio. Piacevasi de’ patimenti quai mezzi d’esercitare la sua fortitudine — de’ suoi difetti quai necessarii seguaci di qualità straordinarie — e della coscienza di quel che dentro valeva, perchè lo francheggiava a disprezzare uomini ed opinioni

che ti fa ciò che quivi si pispiglia?

lascia dir le genti,

sta come torre fermo, che non crolla

giammai la cima per soffiar de’ venti.

La forza di disprezzare, che molti vantano, che pochissimi posseggono realmente, e di cui Dante fu oltre misura dotato da natura, gli apportò il più alto diletto di cui una mente elevata sia suscettiva:

lo collo poi con le braccia mi cinse:

baciommi ’l volto, e disse: Alma sdegnosa,

benedetta colei che ’n te s’incinse.

L’altero contegno di Dante verso i principi, de’ quali sollecitava il patrocinio, fu da repubblicano per nascita, da aristocrata per parte, da statista e guerriero, il quale, vissuto nella copia e negli onori, fu proscritto nel suo trigesimosettimo anno, costretto a ramingare di città in città, «qual uomo che, ogni vergogna deposta, si pianta sulla pubblica via, e stendendo la mano,

Si conduce a tremar per ogni vena.

Più non dirò, e scuro so che parlo;

Ma poco tempo andrà, che i tuoi vicini

Faranno sì che tu potrai chiosarlo. [19]

Il Petrarca nato in esilio, e nodrito per propria confessione in povertà, [20] e qual uomo destinato a servire in corte, venne un anno dopo l’altro arricchito dai grandi; intanto che, posto in termini da poter evitare nuovi favori, a ciò alludeva con la compiacenza inevitabile a quanti o per caso, o per industria o per merito sfuggirono a penuria ed umiliazione.

XV. Conformato ad amare, il Petrarca si studiò di conciliarsi la benevolenza altrui; sospirava maggiore l’amicizia, che non soglia consentirla l’amor proprio dell’uomo; e così scadde negli occhi, e fors’anche nel cuore delle persone a lui più devote. I suoi disinganni rispetto a ciò, spesso amareggiandone l’animo, gli strapparono quella confessione, «ch’ei temeva coloro che amava.» [21] I nimici di lui, sapendolo pronto a sfogar l’ira, ma più anche a dimenticare le ingiurie, trovarono in tal temperamento passionato buon giuoco alle beffe, [22] e lo stuzzicarono a compromettersi pure in vecchiezza con discolpe. [23] — Dante al contrario uno fu di que’ rari spiriti, cui non arrivano gli strali del ridicolo, e in cui gli stessi colpi de’ maligni altro non fanno che vie più elevare la natia dignità. Agli amici, meglio che commiserazione, inspirava rispetto; e a’ nimiei timore e odio — disprezzo non mai. L’ira sua era inesorabile; e la vendetta fu non solo impeto di natura in lui, ma dovere: [24] e pregustò nella conscia mente quella tarda, ma certa e in eterno duratura vendetta che

fa dolce l’ira sua nel suo segreto.

Taci, e lascia volger gli anni

sì ch’io non posso dir se non che pianto

giusto verrà di retro a’ vostri danni.

Altri potrebbe agevolmente vederlo ritratto in que’ versi relativi all’anima di Sordello:

Ella non ci diceva alcuna cosa:

ma lasciavane gir, solo guardando

a guisa di leon quando si posa.

Come probabilmente il Petrarca senza l’amore non sarebbe mai divenuto un gran poeta, così, se non era la persecuzione ingiusta che ne accese l’indignazione, Dante forse non avrebbe mai perseverato a compiere

’l poema sacro,

al quale ha posto mano e Cielo e Terra,

sì che m’ha fatto per più anni macro.

XVI. Il piacere di conoscere e propugnare il vero, e di sentirsi atto a farlo suonare per fin dal sepolcro, è sì acuto da preponderare a tutte le amaritudini, onde per consueto la vita de’ sommi ingegni è saturata, non tanto per la freddezza e l’invidia dell’umana schiatta, quanto per le cocenti passioni de’ loro proprii cuori. Da sì fatto sentire scaturì una fonte più copiosa di conforto per Dante che pel Petrarca.

Mentre ch’io era a Virgilio congiunto

su per lo monte che l’anime cura,

e discendendo nel mondo defunto,

dette mi fur di mia vita futura

parole gravi; avvegna ch’io mi senta

ben tetragono ai colpi di ventura.

Ben veggio, padre mio, sì come sprona

lo tempo verso me per colpo darmi

tal ch’è più grave a chi più s’abbandona:

perchè di provedenza è buon ch’io m’armi.

O sacrosante vergini, se fami,

freddi o vigilie mai per voi soffersi,

cagion mi sprona ch’io mercè ne chiami.

Or convien ch’Elicona per me versi,

e Urania m’aiuti col suo coro

forti cose a pensar, mettere in versi.

E, s’io al vero son timido amico,

temo di perder vita tra coloro

che questo tempo chiameranno antico.

E da lettera di Dante novellamente scoperta appare, che circa l’anno 1316 gli amici di lui riuscissero a ottenere ch’ei fosse rimesso in patria e ne’ beni, sol che scendesse a patti co’ suoi calunniatori, si confessasse colpevole e chiedesse perdono alla Repubblica. Ecco la risposta che in tale occasione il poeta indirizzò a uno de’ suoi parenti ch’ ei chiama «Padre» forse perchè ecclesiastico, o, più probabilmente, perchè più vecchio di lui.

XVII. « Per lettere vostre, con debita riverenza e affezione accolte, ho compreso con grato animo e diligente considerazione quanto il mio ripatriare stiavi a cuore; però che tanto più strettamente mi obbligaste, quant’è più raro ch’esuli trovino amici. Al contenuto di esse poi rispondo, e (se non a quel modo che forse vorrebbe la pusillanimità d’alcuni) affettuosamente vi prego che, prima di giudicarne, vogliate pigliare con maturo consiglio a ventilare la risposta. Ecco dunque quanto per lettere del vostro e mio nipote e d’altri amici mi viene significato della parte pur dianzi presa in Firenze circa l’assoluzione de’ mandati a’ confini: che se volessi pagare certa multa e patire la nota dell’offerta, potrei venire assolto e ritornar di presente. Nel che, o padre, due cose sono pur degne di riso e male preconsigliate; dico male preconsigliate da chi tali condizioni ha espresse, giacchè le vostre lettere, con più discrezione e maturità conchiuse, nulla di ciò contenevano. È dessa gloriosa cotesta rivocazione alla patria fatta a Dante, dopo che patì esilio quasi trilustre? Tale forse la meritò un’innocenza manifesta a chiunque? Tale il sudore e la fatica continuata nello studio? Lungi dall’uomo famigliare della filosofia la temeraria umiltà di un cuore terreno, che, a modo di certo Ciolo e d’altri infami, comporti qual vinto l’oblazione di sè stesso. Lungi dall’uomo che predica giustizia e che ingiuria ha patito, il pagare del proprio danaro coloro che l’arrecarono, come fossero benefattori. Questa non è, padre mio, la strada di ritornare alla patria; ma se altra per voi, o in appresso per altri si troverà che alla fama di Dante e all’onore non deroghi, quella con passi non lenti accetterò. Che se per nessuna tale in Firenze si entra, non mai in Firenze entrerò. E perchè no? Non vedrò forse le spere del sole e degli astri da per tutto? Non potrò forse sotto qualunque plaga speculare dolcissime verità, se prima io non mi renda inglorioso, anzi ignominioso al popolo e al comune di Firenze? — Nè certamente mancherà pane.» [25] — Nondimeno seguitò a provare

come sa di sale

Lo pane altrui, e come è duro calle

Lo scendere e ’l salir per l’altrui scale.

I suoi concittadini ne perseguitarono fin la memoria; morto, fu scomunicato dal papa, e si minacciò di diseppellirne il cadavere, per abbruciarlo e disperderne le ceneri al vento. [26] Il Petrarca chiuse i suoi dì in concetto di santo, pel quale il Cielo operava miracoli; [27] e il senato di Venezia fece una legge contro chi ne trafugasse le ossa, vendendole come reliquie. [28]

XVIII. Altri potrebbe credere che il Petrarca, compiendo fedelmente e generosamente a tutti i doveri sociali con ciascuno che gli stava intorno, e facendo continuamente ogni sforzo per tenere a freno le sue passioni, ne dovesse venir riputato virtuoso e sentirsi felice. Virtuoso fu; ma fu più infelice di Dante, da cui mai non trasparve quella irrequietudine e perplessità d’animo che fece il Petrarca minore di sè agli occhi proprii, e lo trasse ad esclamare negli ultimi giorni suoi: «Giovane, spregiai tutto il mondo, da me in fuori; nella virilità, me stesso; or vecchio omai, disprezzo e il mondo e me.» [29] Se vissuti fossero in consueta comunicazione, Dante avrebbe avuto dall’emulo suo quel vantaggio, che quanti si fanno ad operare giusta prestabiliti e immutabili propositi hanno da chi cede a variabili e istantanei impulsi. — Il Petrarca avrebbe potuto dire con Dante

conscienza m’assicura,

la buona compagnia che l’uom francheggia

sotto l’usbergo del sentirsi pura.

Ma l’ardente anelare a morale perfezione e il disperarne, lo indusse a guardare «con trepida speranza» al giorno che doveva essere citato al cospetto di Giudice inesorabile. Dante credeva espiare gli errori dell’umanità co’ patimenti in terra

ma la bontà infinita ha sì gran braccia,

che prende ciò che si rivolve a lei;

e par ch’ei volgasi al cielo da uomo che adora, più presto che da supplice. Fermo nella mente il concetto «l’uomo allora essere felice davvero che libero esercita tutte le sue forze,» [30] Dante percorse con passo sicuro il cammin della vita, «vigilando»

Sì che notte nè sonno a lui non fura

Passo che faccia ’l secol per sue vie,

raccolse opinioni, follie, vicissitudini, miserie e passioni, onde gli uomini vengono agitati, e lasciò dopo sè monumento il quale, se ne umilia con la rappresentazione di nostre fralezze, dovrebbe farci insuperbire di far parte d’una stessa natura con un tant’uomo, e ci conforta al miglior uso di nostra vita transitoria. Il Petrarca da saviezza piuttosto contemplativa che attiva fu guidato a conoscere, come le travagliose nostre fatiche in pro degli uomini eccedano a gran pezza qual benefizio ne possa ad essi tornare, come ogni nostro passo non ad altro riesca all’ultimo che ad approssimarci al sepolcro; e come la morte sia tra i doni della Provvidenza il migliore, e il mondo avvenire l’unica dimora nostra sicura. Vacilla quindi nel mortal viaggio, convinto «che stanchezza e fastidio d’ogni cosa fossero naturali all’animo suo;» [31] — e così scontò il prezzo di que’ doni che natura, fortuna e il mondo gli avevano largamente profusi, senza neppur la vicenda de’ consueti rovesci.

 

Note

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[1] Senil., lib. V, ep. 2 et 3.

[2] Nec tibi sit durum versus vidisse poetae

Exsulis.

[3] Inseris nominatim hanc hujus officii tui excusationem, quod ille, te adolescentulo, primus studiorum dux, prima fax fuerit. — Petr., Epist. eden. Crisp., lib. XII, ep. 7.

[4] Petr., Epist. edit., Ginev. an. 1601, pag. 445.

[5] Tiraboschi, Storia della letter. ital., vol. IX, lib. III, cap. 2, § 10.

[6] Muratori, Script., Rer. Ital., vol. X, pag. 501.

[7] «O wearied spirits! come, and hold discourse

With us, if by none else restrain’d.» As doves

By fond desire invited, on wide wings

And firm, to their sweet nest returning home,

Cleave the air, wafted by their will along.

CARY’s Transl.

[8] Dante, Convito.

[9] «Obscured and lost in flood of golden light». Rogers.

[10] Apollonii Rhodii Argonauticorum, lib. III.

[11] Saggio sopra il carattere del Petrarca; alla fine del § 5, fac. 83-84.

[12] «Guido Cavalcanti, alcuna volta speculando, molto astratto dagli uomini diveniva: e perciò che egli alquanto teneva della opinione degli Epicurj, si diceva tra la gente volgare che queste sue speculazioni eran solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse», Boccaccio, giorn. VI, nov. 9. — Vedi altresì Dante, Inferno, canto X, e Petrarca, Senil., lib. V, ep. 3.

[13] Dante, Convito.

[14] È questa la mira principale del suo trattato: De sui ipsius et multorum ignorantia.

[15] Quicquid fere opusculorum mihi excidit, quae tam multa fuerunt, ut usque ad hanc aetatem me exerceant, ac fatigent: fuit enim mihi ut corpus, sic ingenium magis pollens dexteritate, quam viribus Itaque multa mihi facilia cogitatu, quae executione difficilia praetermisi. — Epist. ad Poster.

[16] Dante, Vita nuova.

[17] Poggio, — Dante, Purg., canto XVII.

[18] «Egli era già, sì per lo lagrimare e sì per l’afflizione che al cuore sentiva dentro, e sì per non avere di sè alcuna cura di fuori, divenuto e quasi una cosa salvatica a riguardare, magro, barbuto, e quasi tutto trasformato da quello che avanti esser soleva: in tanto che ’l suo aspetto, non che negli amici, ma eziandio in ciascun altro a forza di sè metteva compassione». - Boccaccio, Vita di Dante.

[19] Purg., alla fine del canto XI.

[20] Honestis parentibus, fortuna (ut verum fatear) ad inopiam vergente, natus sum. Epist. ad Post.

[21] Senil., lib. XIII, ep. 7.

[22] Indignantissinti animi, sed offensarum obliviosissimi — ira mihi persaepe nocuit, aliis nunquam. — Epist. ad Post.

[23] Agostini, Scritt. Venez., vol. I, fac. 5.

[24] «Chè bell’onor s’acquista in far vendetta». Dante, Convito. — Vedi altresì, Inferno, canto XXIX, v. 31-36.

[25] Lettera di Dante, che conservasi nella Laurenziana a Firenze: pluteo XXIX, cod. VIII, fol. 123.

[26] Bartolus, Lex de rejudicandis reis, ad cod. I.

[27] Ea res... miraculo ostendit divinum illum spiritum Deo familiarissimum. — Villani, Vita Petr., sul fine.

[28] Tomasini, Petrarcha redivivus, pag. 30.

[29] Senil., lib. XIII, ep. 7.

[30] Questa sentenza ricorre più volte ne’ libri De Monarchia: citiamone due soli luoghi che leggonsi nel libro primo. «Patet quod genus humanum in quiete sine tranquillitate Macis ad proprium suum opus, quod fere divinum est (juxta illud: minuisti eum paulo minus ab angelis) liberrime atque facillime se habet». Cap. 5. — «Et humanum genus, potissumum liberum, optime se habet». Cap. 14.

[31] Cum omnium rerum fastidium atque odium naturaliter in animo meo insitum ferre non possim — Epist. ad Post.