Edizione di riferimento
Ugo Foscolo, Prose a cura di Vittorio Cian, vol. III, Bari, Gius. Laterza & Figli Tipografi-Editori-Librai, 1920, Febbraio.
Si è consecrata l’epopea agli eroi celebri per la fama di molti secoli ed alle imprese magnificate dalla antichità; perché il mirabile, elemento principale della poesia, ove non sia aiutato dalle idee soprannaturali e dalle religioni de’ popoli, perde gran parte di effetto; e quanto più le tenebre del tempo seppelliscono le storie de’ mortali, tanto più appare sacro e venerando quel lume che le tradizioni e le reliquie de’ monumenti diffondono sulla lunga notte de’ secoli. La storia, per guidare la ragione, s’impadronisce d’uomini reali e di fatti o sperimentati o non discordi dalla esperienza; la poesia, per incantare l’immaginazione ed il cuore, si prevale di tutte le fantasie e passioni dei popoli e delle età a cui riferisce i suoi fatti; però quanto sono più antichi, tanto meno la credenza rifugge. Questi principi applicati al poema del Bardo sarebbero acerrime opposizioni contro l’autore, se egli, pubblicandolo, non dichiarasse, col titolo, che non intende di seguire rigorosamente, l’epopea, e se non avesse già dato a divedere con la Basvilliana e co’ canti in morte del Mascheroni ch’egli voleva sciogliere questo problema: — Può egli darsi poema narrativo delle cose avvenute ai tempi dell’autore? — Lucano scrisse la Pharsalia quando Cesare e Pompeo non vivevano più se non nella memoria degli uomini, e l’eroe dell’Henriade dista di un secolo dal suo poeta. Nondimeno questi due poemi, prescindendo dalle virtù o dai difetti dello stile, caddero sotto gravissime opposizioni, perché il latino è troppo storico, ed il francese si giova di macchine fondate sulla superstizione di una religione poco eroica; inciampo sfuggito da Milton, perché riportò questa religione alla creazione dell’universo, quand’era sgombra di superstizioni, e sfuggito da Torquato Tasso, che cantò l’impresa della religione allora armata contro tutto l’Oriente, e riferita ad una età eroica, quando le idee delle cose sono per i governi e per le nazioni assai meno metafisiche. Unico poeta che narrasse ex professo cose avvenute a’ suoi giorni fu Dante; poiché i greci e i latini, lasciando a’ massimi ed antichi fatti il diritto dell’epopea, cantarono i solenni avvenimenti contemporanei con gl’inni della poesia lirica, tnagnificando i fatti più con le acclamazioni e con lo splendore del verso che col racconto.
Sentì l’autore del Bardo queste ragioni, e, dopo avere ne’ due citati poemetti calcate nobilmente le orme di Dante e rischiarato (ci si conceda di dirlo) con l’imitazione il genio di quel sommo poeta, Vincenzo Monti s’apre nuovo sentiero, e tutto suo, per isciogliere il suo problema, collegando l’epopea alla lirica; e sviluppa i principi della sua ragione poetica nella splendida dedicatoria all’imperatore. Trovando ampia sorgente di mirabile nella storia recentissima del suo eroe, immagina il temperamento dell’epica e della lirica, confessando che « verrà tempo in cui una nuova mitologia, divinizzando le sue imprese, come già quelle di Èrcole e di Bacco e di Teseo, porgerà alle postere fantasie abbondante materia di pura ed alta epopea: la quale, non potendo sussistere senza la poetica meraviglia (intende senza la favola), ha bisogno che la meraviglia storica non opprima troppo, siccome ora fa, la poetica ».
Che se è conceduto di narrare cose contemporanee o con episodi, come la morte di Cesare nelle Georgiche, o in poemi lirici, come l’irruzione de’ galli in Oriente nell’Inno a Delo di Callimaco, e le vittorie aziache in Orazio e Properzio; perché non potrà un poeta mandare alla posterità le somme imprese dell’età sua con un poema ch’esca, se non dall’istituto della lirica, almeno dalla brevità sino ad oggi seguita? Tutti i poemi d’Isaia e de’ profeti d’Israele sono appunto epicolirici, e l’Iliade e l’Odissea devono essere tratte da poesie o scritte o cantate per tradizione, ma certamente nate contemporanee ai fatti, quando i poeti erano teologi, giurisprudenti e storici delle genti.
La questione dunque si riduce: se nelle imprese contemporanee al Monti v’ha meraviglia bastante, sebbene scevra di mitologia; e, dove questa meraviglia esistesse, se il poeta ne trasse uso bello e magnifico. L’Europa scioglie con la sua meraviglia la prima parte della questione; ed osiamo dire che lo storico, il quale imprendesse gli annali presenti, quand’anche fosse dotato della imparzialità del Padre degli uomini, che guarda d’un occhio stesso la grandezza e l’infermità de’ mortali, percoterebbe nondimeno di stupore l’universo, solo con lo schietto e freddo racconto delle cose operate in questi ultimi diciotto anni. Se poi l’autore n’abbia degnamente profittato, apparirà dall’architettura e dallo stile del poema, che noi andremo esaminando negli articoli seguenti.
Ullino, nipote degli antichi bardi celebrati sino dall’età di Lucano e di Tacito, e di cui parlano le storie antiche e moderne de’ popoli settentrionali, è l’attore principale del poema.
Nell’epopea l’eroe, che n’è argomento, è sempre attore e per lo più narratore, come nell’Odissea e nell’Eneide. Nella lirica invece l’eroe è sovente in un episodio che forma il corpo ed il nerbo dell’ode: testimonio le lunghe odi di Pindaro, e segnatamente la quarta Pitica, consecrata alla navigazione di Giasone nell’Asia ed alla fondazione del regno di Cirene. Il poema dunque è lirico per se stesso, perché l’eroe non interviene se non è narrato dagli attori, o veduto e cantato dal bardo, il quale, per lo spinto di vaticinio di cui è dotato, aiuta sommamente il meraviglioso. Ma, perché un profeta vivente e dissonante dalle nostre idee ed un bardo illuminato de’ costumi e delle scienze del suo secolo contrasta con l’opinione fondata sull’agreste ingegno de’ bardi, il poeta guida il verosimile nel suo poema con una invisibile, ma sentita genealogia de’ bardi, richiamandoci egli nel proemio «i bardi, che accompagnarono un dì le armi di Carlomagno, allorché dalle rive aquitaniche o dagli ultimi Pirenei volava a punire il Sassone ribellato o la perfidia di Tassiglione»; e discende quindi a rammemorare nel primo canto il bardo che visse sotto Edoardo primo d’Inghilterra e vaticinò le sciagure della casa di Lancastro; e nel secondo canto, descrivendo l’istituto de’ bardi caledòni e degli antenati del nostro, persuade il lettore degli studi più miti del bardo moderno.
Quest’unico personaggio bastava all’autore, ove egli si fosse proposto di fare un poema perfettamente lirico. Ma tanti sono gli avvenimenti da cantarsi, che il suono di questa corda riescirebbe troppo vibrato e monotono, ove non fosse temperato dalla maestà dell’epopea, che canta con più pacatezza; e tutto il poema mancherebbe di delicatezza e di dramma senza l’amore e le altre soavi passioni, delle quali il poeta non doveva né poteva addebitare né l’eroe né il cantore. Però al bardo protagonista associa la vergine Malvina, figliuola di lui, e Terigi, guerriero francese. Questi due personaggi, che la critica vede secondari, ma che il cuore e la fantasia di chi legge non distingue con questo carattere (tanti sono gli affetti di cui scaldano tutto il poema), servono mirabilmente ad un chiaroscuro di sentimenti, di scene e di passioni, donde risulta una bella e delicata armonia. L’altezza dello spirito vaticinatore è raddolcita nel vecchio dalla pietà paterna e dalla carità per la patria. Malvina è tenerissima figlia e caldissima amante. Terigi è incalzato da un prepotente ardore di gloria e dalla devozione al suo capitano: sentimenti generosi, in cui s’insinua la riconoscenza e l’amore. Così i tre attori del poema servono tutti alla lirica, alla drammatica ed all’epopea. Aggiungasi l’episodio della madre italiana di Terigi, della morte di lei, del sepolcro della moglie del bardo, e si vedrà che l’autore ha sviscerato il sublime, il maraviglioso, il bello, il tenue ed il patetico, e li ha tutti ingegnosamente impastati nella sua tavolozza.
L’economia di questa idea principale è semplice ad un tempo e poetica.
Canto primo. — Ullino, percosso dal fragore degli eserciti francesi, sale sopra un’altura d’Albecco in Baviera, seguitato da Malvina, sua figlia, che gli reca Tarpa. Sa egli le cagioni di quella guerra, e pressente i fati dei due eserciti contrari; onde va profetando con arcano carme la sconfitta delle armi confederate.
Canto secondo. — Nella notte che segui il combattimento d’Albecco, Ullino, impietosito da’ gemiti de’ moribondi, scende con Malvina sul campo di battaglia. Allo splendore della luna vedono un guerriero francese che perdeva tutto il sangue per molte ferite, ma non mortali. Il vecchio e la vergine lo soccorrono e lo guidano alla loro capanna, ove il bardo narra la sua origirie, i suoi studi ed il suo istituto. Terigi, ripigliando vita per la cura degli ospiti, racconta d’essere nato di madre italiana e di padre francese e di avere combattuto sempre con Bonaparte sino dalle prime guerre in Italia. Malvina ama il giovinetto per le generose fatiche ch’egli avea sostenute, e Terigi ama Malvina per la pietà che ne mostra.
Canto terzo. — La Paura e la Codardia, divinità congiurate contro l’armi settentrionali, la prima dall’Inghilterra, ove aveva atterrito il popolo, il re ed il ministro, l’altra già dimorante nel cuore di Mack, investono la mente del generale tedesco e gli persuadono di cedere Ulma senza combattere.
Canto quarto. — Terigi vede dalla capanna del bardo sventolare le insegne francesi vittoriose in Ulma, su cui tutta la Germania, presaga de’ suoi destini, ha rivolto gli occhi: ode il segno della battaglia; corre alle sue armi: ma le ferite lo fanno ricadere. Malvina per la pietà del giovinetto canta su Tarpa la canzone del Guerriero ferito, e fa dilicatamente trasparire il suo amore. Terigi si calma; rammenta la cagione prima della sua devozione a Bonaparte, per cui lo segui in tutte le sue spedizioni. Il bardo, pieno della fama dell’eroe ed avendo già udite narrare le conquiste d’Italia, domanda all’ospite il racconto delle altre imprese.
Canto quinto. — Terigi narra la spedizione d’Egitto, le investigazioni dell’Istituto nazionale, i disegni di commercio nell’India, i progressi dell’agricoltura nel Delta, le battaglie contro i turchi e gl’inglesi; ma, mentre stava per vendicare l’ingiuria di Aboukir,
... all’alto ardir le penne
precise il ciel, che, a più levarlo inteso,
due gran fati al suo brando avea sospeso.
D’Asia il fato e d’Europa era pendente
da quella spada, e trepidava il mondo.
Librò, credo, amendue l’Onnipossente,
e ponderoso in giù scese il secondo.
Sparve l’altro più lieve e nella mente
si rinchiuse di Dio, che nel profondo
del suo consiglio or forse il fa maturo,
né par che molto restar debba oscuro.
L’immagine della patria si presenta in sogno a Bonaparte, narrandogli le sciagure di Francia e d’Italia.
Canto sesto. — L’eroe, vinto dall’amore di patria, rinunzia alla gloria di conquistatore dell’Asia e naviga in Francia. Esultanza de’ francesi e degl’italiani al suo ritorno, stupore d’Europa. L’eroe è perplesso. La visione della patria torna a comparire. Necessità della monarchia, comandata dai tempi, dai costumi e dalle circostanze della Francia. L’eroe ondeggia ancora nella sua perplessità. La patria ritorna per la terza volta, e Bonaparte finalmente determina di liberarla dall’anarchia de’ Consigli e dalla tirannide de! Direttorio. Discorso di Bonaparte nel Consiglio; erezione del Consolato. Invasione de’ tedeschi a Nizza e sul Varo, ove Terigi, giungendo per abbracciare sua madre, la trova (guidato dal cane domestico) sepolta sotto le rovine della sua casa, distrutta dai nemici.
Da questa parte di disegno riesce agevole d’indovinare che Terigi continuerà nel canto settimo il racconto della spedizione dell’armata di riserva, la battaglia di Marengo e tutti i fatti di Napoleone sino al giorno in cui gli eserciti francesi invasero l’Alemagna; e che quindi, cessando le narrazioni di Terigi, testimonio oculare, il bardo, infiammato dalla meraviglia per tanto eroe e dalla sollecitudine dei destini della sua patria, seguiterà Terigi risanato ne’ campi francesi ; che Malvina, tratta dalla cura del padre e dell’amante, sarà loro compagna in Austerlitz, e celebreranno quella vittoria solenne; che la vergine passionata otterrà la mano di Terigi; occasione per l’autore di ricondurre il bardo e la sua famiglia in Baviera, loro patria, ed alla corte del re alleato, ove i cantori saranno àuspici degli augusti sponsali, con cui il liberatore d’Italia ornerà di splendide e certe speranze il suo nuovo regno.
Parlerò ora dello stile. Questo poeta è celebrato nel nostro secolo per l’abbondanza dei modi, la purità della dizione, la novità dei traslati, la proprietà delle parole, la precisione dell’idea, l’armonia del verso, il colorito delle immagini, la vita ne’ sentimenti, per quell’aura celeste insomma di cui è capace la poesia e la lingua italiana. I critici, che pur gli rimproveravano molti difetti d’economia, lodarono sempre lo stile; anzi la fama del Monti ebbe principio dall’Aristodemo, fortunato più per lo splendore dello stile e delle sentenze con cui è scritto che per l’architettura ond’è disegnato. Questo pregio fa perdonare assai colpe e moltissimi plagi in Virgilio, ed innalzò al principato de’ poeti francesi Racine, che pur copiò quanto ha di bello da’ greci. Dello stile adunque del Bardo si tacerebbe, lasciando che il pubblico regolasse: giudizi su l’opinione stabilita dagli altri poemi del Monti, se questi non si fosse ora procacciate nuove forme e nuovo impasto. Il Caro, il Cesarotti, segnatamente nll’Ossian, ed il Parini ci sembrano i maestri del verso sciolto in Italia, quantunque l’ultimo, non avendo trattato argomenti narrativi, abbia avuto più campo alla ricchezza ed all’armonia, perché la narrazione rifugge per se stessa da stranieri ornamenti. Ove il Caro avesse potuto dare l’ultima mano alla sua traduzione, stampata postuma, avrebbe altamente giovato all’epopea, perché gl’ingegni si sono più disgustati delle sue colpe che incantati del ritmo, della schiettezza e dell’abbondanza del suo poetare; e la materia dell’Ossian dissente tanto da’ nostri costumi e dalle nostre idee poetiche, che l’imitarlo riescirebbe ridicola affettazione. Ma l’autore del Bardo temprò la magnifica semplicità omerica e le figure virgiliane con la disinvoltura del Caro e le nuove forme dell’Ossian, e si fece uno stile tutto proprio, ove il solo perito dell’arte può sentire di che elementi l’abbia composto, ma non saprebbe nondimeno discernerli e decomporli. Questo verso sciolto del Monti ha due doti meravigliose, non concedute certamente alla rima: primamente i pensieri riescono più disegnati in se stessi e più proporzionati tra di loro e stanno ne’ termini convenienti al soggetto; scorrono come fiume ricco delle proprie sue acque e non aiutato da straniere sorgenti. L’ottava invece empie il concetto principale d’intarsiature, come notò Galileo nella Gerusalemme liberata, e la terzina gli strozza; onde l’una sebbene splendida e maestosa, l’altra sublime ed acuta, non colgono sempre il bello, che sta solo nella esattezza delle proporzioni. Siaci di esempio lo stesso poema, ove la rima ed il suono inelegante di « disse » e « scrisse » gli sono sorgente di bellissimi versi.
Gli occhi alzando di Ceope al sublime
monumento, dell’arte immenso affanno,
contra cui le già stanche e mute lime
del tempo vorator dente non hanno,
— Venti secoli e venti dalle cime
di quella mole a contemplar ci stanno —
sclamò l’eroe. L’udì la Fama, e disse:
— Cadrà quel masso, non quel detto. — E scrisse.
Ma chi non sente nella stessa bellezza un non so che di ricercato e di ritroso? Paragoninsi i seguenti sciolti eh’io scelgo appositamente di materia meno alta e d’idee più comuni, e si confesserà che i loro membri sono più disegnati e che sono richiesti più dal pensiero principale che dagli accessorii:
Questi all’arpa fidava il bardo austero
vaticini sdegnosi, e confondea
l’arcano canto col fragor del fiume,
che lamentoso con vermigli flutti
nunzio corre di stragi alla superba
Vindobona, e di guerra infauste e dure
primizie apporta all’atterrito sire.
Pallido intanto sull’Abnobie rupi
il sol cadendo, raccogliea d’intorno
dalle cose i colori, e alla pietosa
notte del mondo concedea la cura;
ed ella, del regal suo velo eterno
spiegando il lembo, raccendea negli astri
la morta luce e la spegnea sul volto
degli stanchi mortali. Era il tuon queto
de’ fulmini guerrieri, e ne vagava
sol per la valle il fumo atro, confuso
colle nebbie de’ boschi e de’ torrenti.
Eran quete le selve, eran dell’aure
queti i sospiri; ma lugubri e cupi
s’udian gemiti e grida in lontananza
di languenti feriti, e un calpestio
di cavalli e di fanti, e sotto il grave
peso de’ bronzi un cigolio di rote,
che mestizia e terror mettea nel core.
L’altra dote di questo genere di sciolti si è che il Monti, evitando il fragore di troppe e magne parole, di cui si compiacea tanto il Frugoni, reputato come dio dello sciolto ed oggi ancora imitato, procaccia a se stesso ed a’ poeti che nasceranno in Italia, madre fecondissima d’ingegni, un verso veracemente narrativo, che dipinga alla mente ed al cuore più che non suoni all’orecchio, ed adempie cosi il desiderio del grande Chiabrera, il quale scrisse al Tasso che ei teneva alta mente repostum non potersi dare vera epopea in rima. Parve all’autore di scrivere in ottava tutta la narrazione di Terigi ; però il quinto ed il sesto canto sono in questo metro: quelle segnatamente che descrivono la spedizione in Egitto ed i provvedimenti di Bonaparte ci sembrano meravigliose. Vi troviamo il nerbo del Poliziano, l’abbondanza dell’Ariosto e la passione del Tasso, ed una precisione di frase tutta propria al genio del Monti. L’allusione del sole alla monarchia sarà un giorno citata fra gli squarci classici della nostra poesia.
Delle stelle monarca egli s’asside
sul trono della luce, e con eterna
unica legge il moto e i rai divide
ai seguaci pianeti, e li governa.
Per lui natura si feconda e ride,
per lui la danza armonica s’alterna
delle stagion, per lui nullo si spia
grano di polve che vital non sia.
E cagion sola del mirando effetto
è la costante, eguale, unica legge,
con che il raggiante imperador l’aspetto
delle create cose alto corregge.
Togli questa unità, togli il perfetto
tenor de’ vari moti, onde si regge
l’armonia de’ frenati orbi diversi,
e tutti li vedrai confusi e spersi.
Con tutto ciò, osiamo dire che ci sarebbe piaciuto tutto il poema in versi sciolti. Chi non sa quanti poemi in ottava rima vanta l’Italia? La Musogonia stessa del Monti, sebbene abbia parti meno rilevate di questi due canti, è, per altro, nel suo tutto, in ciò che riguarda la verseggiatura, più originale, più semplice e spira greca fragranza. Altri sono, per avventura, d’altro parere. Credono che lo sciolto spetti alle traduzioni, e, lodando altamente il Caro ed il Cesarotti, vorrebbero un poema originale tutto in ottave; con che panni che si voglia chiudere all’Italia un nuovo campo di gloria, mal tentato dal Trissino, ma felicemente sgombratole ora dal Monti. E non ci ha confessato amichevolmente egli stesso tanta essere la dignità e la difficoltà dello sciolto che, mentre gli riesce di scrivere fino a dieci ottave in un giorno, appena può fare con pari studio ed in pari tempo una trentina di sciolti?
Queste cose generali abbiamo notato intorno al poema. Per dirne degnamente e minutamente, converrebbe che fosse compiuto e che la critica avesse più spazio di quello che concede il momento: onde taceremo di molte bellezze particolari e di alcuni difetti, fra’ quali questo ci sembra inescusabile;
... si svegliano al tremendo
nome gli azzurri addormentati...
Nel che il poeta mirava al «coerulea pubes» oraziano. Il sostantivo «pubes» lascia ardita ma intelligibile la frase, che suona «i giovani germani dagli occhi cerulei», ove l’«azzurri» seccamente scritto per dire «gl’inglesi dagli occhi azzurri», oltre che non ha esempi, è difficile a intendersi. Senonché queste colpe nascono da una fantasia ardimentosa, che, se talvolta vola oltre i limiti del bello, produce sempre ne’ grandi ingegni nuove ricchezze di stile.
Le profezie del bardo ed i canti d’amore che Malvina accompagna con Tarpa richiedevano un metro lirico. Nel canto primo e nel quarto le strofe rimate interrompono lo sciolto; partecipano delle virtù di stile di tutto il poema. Eminente ci sembra questa:
Lassù, dov’anco
il muto arriva
gemer del verme che calcato spira,
del Nume al fianco
siede una diva
che, chiusa in negro ammanto,
scrive i delittf coronati, e all’ira
di Dio presenta delle genti il pianto.
Assai cose pronunciate da Bonaparte e scritte ne’ commentari delle ultime guerre, sono con fede storica e con poetica novità innestate nel poema. Ognuno si ricorda il consiglio del vincitore sulle alture di Ulma : — Dite all’imperatore d’Alemagna che s’affretti alla pace, e si ricordi che tutti gl’imperi hanno un termine, e che deve atterrirlo l’idea che possa essere giunto quello della dinastia di Lorena. — Eccolo in bocca del bardo:
Ti ricorda, incauto sire,
ch’anco i regni han morte e tomba.
Odi il turbine ruggire,
mira il fulmin che già piomba.
Sire incauto, il Giglio spento
ti riempia di spavento.
Quei che nulla in alto vede,
egualmente il guardo volve
di Rodolfo all’unto erede
e all’insetto della polve.
Di Ridolfo augusto figlio,
ti spaventi il morto Giglio.
La prosa, che precede il poema, richiama l’antico uso d’innestare la prefazione nella dedicatoria. I greci e i latini dedicavano l’opera co’ primi versi, esempio lasciatoci da Virgilio nelle Georgiche, da Lucano, da Teognide ed Esiodo e da tanti altri, imitati dai nostri, e segnatamente dall’Ariosto. I libri scientifici avevano una dedica particolare, come si vede nelle epistole d’Archimede premesse a’ trattati matematici: il che si faceva per dire ciò che non poteva innestarsi al corpo dell’opera. Dovendo dunque l’autore svolgere la sua ragione poetica, coglie l’occasione di unirla alle lodi del suo eroe. Pochi esempi abbiamo noi nelle nostre dedicatorie, ove l’elogio sia trattato cosi dilicatamente, ed ove in mezzo all’elogio l’arte presenti i canoni che si è prefissi. Unico esempio, noteremo questo squarcio degno dell’eroe e del poeta, e che promette nuove sembianze all’Europa e più vasto poema all’Italia.
Così il bardo, presago di avvenimenti ancora più strepitosi e collocato su l’orlo dell’ immenso avvenire, che Voi andate creando, si sta già pronto ad accompagnarvi sott’altro cielo a nuovi trionfi, più solenni anche de’ primi. Ed egli spera di recitarvi presto il beli’ inno che il suo antenato Cadwallo cantò a Carlomagno, allorché Leone terzo gli pose sul capo la corona dell’Occidente: inno ignorato dagli eruditi, ma pervenuto di padre in figlio al vostro bardo per tradizione, e pieno de’ vaticini, de’ quali penso, o Sire, che Voi solo abbiate la chiave.
Le quattro edizioni di questo libro, l’una in foglio, magnifica e veramente regale, la seconda in quarto, nitida e ricca, la terza in ottavo, elegantissima, la quarta in dodicesimo, graziosa ancor essa, ci chiedono un tributo di giusta lode al tipografo parmense, che fu il primo a ridurre l’arte a principi certi di proporzione, i quali, diffusi con le sue edizioni per tutta Europa, hanno fatto salire la tipografia a tanta perfezione.