NOTIZIA INTORNO A DIDIMO CHIERICO

Ugo Foscolo

 

Edizione di riferimento

Opere di Ugo Foscolo, a cura di Mario Puppo, Ugo Mursia Editore, Milano 1962 (III ed. 1966)

I. Un nostro concittadino mi raccomandò, mentr’io militava fuori d’Italia, tre suoi manoscritti, affinché, se agli uomini dotti parevano meritevoli della stampa, io ripatriando li pubblicassi. Esso andava pellegrinando per trovare un’università, dove, diceva egli, s’imparasse a comporre libri utili per chi non è dotto, ed innocenti per chi non è per anche corrotto; da che tutte le scuole d’Italia gli parevano piene o di matematici, i quali standosi muti s’intendevano fra di loro; o di grammatici che ad alte grida insegnavano il bel parlare e non si lasciavano intendere ad anima nata; o di poeti che impazzavano a stordire chi non li udiva, e a dire il benvenuto a ogni nuovo padrone de’ popoli, senza far né piangere, né ridere il mondo; e però come fatui nojosi, furono piú giustamente d’ogni altro esiliati da Socrate, il quale, secondo Didimo, era dotato di spirito profetico, specialmente per le cose che accadono all’età nostra.

II. L’uno dei manoscritti è forse di trenta fogli, col titolo: Didimi clerici prophetae minimi Hypercalipseos, liber singularis; e sa di satirico. I pochi a’ quali lo lasciai leggere, alle volte ne risero; ma non s’assumevano d’interpretarmelo. E mi dispongo a lasciarlo inedito, per non essere liberale di noia a molti lettori che forse non penetrerebbero nessuna delle trecento trentatre allusioni racchiuse in altrettanti versetti scritturali, di cui l’opuscoletto è composto. Taluni fors’anche presumendo troppo del loro acume, starebbero a rischio di parere comentatori maligni. Però s’altri n’avesse copia, la serbi. Il farsi ministri degli altrui risentimenti, benché giusti, è poca onestà; massime quando pajono misti al disprezzo che la coscienza degli scrittori teme più dell’odio.

III. Bensí gli uomini letterati, che Didimo, scrivendo, nomina Maestri miei, lodarono lo spirito di veracità e d’indulgenza d’un altro suo manoscritto da me sottomesso al loro giudizio. E nondimeno quasi tutti mi vanno dissuadendo dal pubblicarlo; e a taluno piacerebbe ch’io lo abolissi. È un giusto volume dettato in greco nello stile degli Atti degli Apostoli; ed ha per titolo: Διδίμου χληριχου Υπομνημάτων βιβλία πεντε: e suona Didymi clerici libri memoriales quinque. L’autore descrive schiettamente i casi per lui memorabili dell’età sua giovenile; parla di tre donne delle quali fu innamorato; e accusando se solo delle loro colpe, ne piange: parla de’ molti paesi da lui veduti, e si pente d’averli veduti: ma piú che d’altro si pente della sua vita perduta fra gli uomini letterati; e mentre par ch’ei gli esalti, fa pur sentire ch’ei li disprezza. Malgrado la sua naturale avversione contro chi scrive per pochi, ei dettò questi Ricordi in lingua nota a rarissimi, affinché, com’ei dice, i soli colpevoli vi leggessero i propri peccati, senza scandalo delle persone dabbene; le quali non sapendo leggere che nella propria lingua, son men soggette all’invidia, alla boria, ed alla VENALITÀ: ho contrassegnato quest’ultima voce, perché è mezzo cassata nel manoscritto. L’autore inoltre mi diede arbitrio di tradurre quest’operetta, purché trovassi scrittore italiano che avesse piú merito che celebrità di grecista. E siccome, dicevami Didimo, uno scrittore di tal peso lavora prudentemente a bell’agio e con gravità, i maestri miei avranno frattanto tempo o di andarsene in pace, e non saranno più nominati né in bene né in male o di ravvedersi di quegli errori, attraverso dei quali noi mortali giumgiamo talvolta alla saviezza. Farò dunque che sia tradotto; e quanto alla stampa, mi governerò secondo i tempi, i consigli e portamenti degli uomini dotti.

IV. Tuttavia, affinché i lettori abbiano saggio della operetta greca, ne feci tradurre parecchi passi, e li ho, quanto piú opportunamente potevasi aggiunti alle postille notate da Didimo nel suo terzo manoscritto, dove si contiene la versione dell’Itinerario sentimentale di Yorick: libro più celebrato che inteso; perché fu da noi letto in francese, o tradotto in italiano da chi non intendeva l’inglese: della versione uscita di poco in Milano, non so. Innanzi di dar alle stampe questa di Didimo, ricorsi novamente a’ letterati pel loro parere. Chi la lodò, chi la biasimò di troppa fedeltà; altri la lesse volentieri come liberissima: e taluno s’adirò de’ troppi arbìtri del traduttore. Molti, e fu in Bologna, avrebbero desiderato lo stile condito di sapore piú antico: moltissimi, e fu in Pisa, mi confortavano a ridurla in istile moderno, depurandola sovra ogni cosa de’ modi troppo toscani; finalmente in Pavia nessuno si degnò di badare allo stile; notarono nondimeno con geometrica precisione alcuni passi hene o male intesi dal traduttore. Ma io stampandola, sono stato accuratamente all’autografo: e solamente ho mutato verso la fine del capo XXXV un vocabolo; e un altro n’ho espunto dall’intitolazione del capo seguente: perchè mi parve evidente che Didimo contro all’intenzione dell’autore inglese offendesse, nel primo passo il Principe della letteratura fiorentina e nell’altro i nani innocenti della città di Milano.

V. Di questo Itinerario del parroco Lorenzo Sterne, Didimo mi disse due cose (da lui taciute, né so perché nell’epistola a’ suoi lettori) le quali pur giovano a intendere un autore oscurissimo anche a’ suoi concittadini e a giudicare con equità dei difetti del traduttore. La prima si è: “ Che con nuova specie d’ironia, non epigrammatica né suasoria ma candidamente ed affettuosamente storica, Yorick da’ fatti narrati in lode de’ mortali, deriva lo scherno contro a molti difetti, segnatamente contro la fatuità del loro carattere”. L’altra: “Che Didimo, benché scrivesse per ozio, rendeva conto a se stesso d’ogni vocabolo; e aveva tanto ribrezzo a correggere le cose una volta stampate (il che, secondo lui, era manifestissima irriverenza a’ lettori), che viaggiò in Fiandra a convivere con gli Inglesi, i quali vi si trovano anche al dì d’oggi, onde farsi spianare molti sensi intricati: e lungo il viaggio si soffermava per l’appunto negli alberelli di cui Yorick parla nel suo Itinerario, e ne chiedeva notizie a’ vecchi che lo aveano conosciuto; poi si tornò a dimora nel contado tra Firenze e Pistoja, a imparare migliore idioma di quello che s’insegna nelle città e nelle scuole.

VI. Ora per gli uomini dotti, i quali furono dalla lettura di que’ manoscritti e da questa versione dell’Itinerario sentimentale invogliati di sapere notizie del carattere e della vita di Didimo, e me ne richiedono istantemente, scriverà le scarse, ma veracissime cose che io so conte testimonio oculare. Giova a ogni anodo premettere tre avvertenze. Primamente: avendolo io veduto per pochi mesi e con freddissima farmgliarità, io non ho potuto notare (il che avviene a parecchi) se non le cose piú consonanti o dissonanti co’ sentimenti e le consuetudini della mia vita. Secondo: de’ vizi e delle virtú capitali che distinguono sostanzialmente uomo da uomo se pure ei ne aveva, non potrei dire parola: avresti detto ch’ei lasciandosi sfuggire tutte le sue opinioni, custodisse industriosamente nel proprio segreto tutte le passioni dell’animo. Finalmente, reciterà le parole di Didimo, poiché essendo un po’ metafisiche, ciascheduno de’ lettori le interpreti meglio di me, e le adatti alle proprie opinioni.

VII. Teneva irremovibilmente strani sistemi; e parevano nati con esso: non solo non li smentiva co’ fatti, ma come fossero assiomi proponevali senza prove: non però disputava a difenderli, e per apologia a chi gli allegava evidenti ragioni rispondeva in intercalare: opinioni. Portava anche rispetto ai sistemi altrui, o forse anche per noncuranza, non movevasi a confutarli; certo è ch’io in sí fatte controversie, l’ho veduto sempre tacere, ma senza mai sogghignare; e l’unico vocabolo — opinionii — lo proferiva con serietà religiosa. A me disse una volta: Che la gran valle della vita è intersecata da molte viottole tortuosissime; e chi non si contenta di camminare sempre per una sola, vile e muore perplesso, né arrira mai a un luogo dove ognuno di que’ sentieri conduce l’uomo a vivere in pace seco e con gli altri. Non trattasi di sapere quale sia la vera via; bensí di tenere per vera una sola, e andar sempre innanzi. — Stimava fra le doti naturali all’uomo primamente la bellezza, poi la forza dell’animo, ultimo l’ingegno. Delle acquisite, come a dire della dottrina, non faceva conto se non erano congiunte alla rarissima arte d’usarne. Lodava la ricchezza piú di quelle cose ch’essa può dare; e la teneva vile, paragonandola alle cose che non può dare. Dell’Amore aveva in un quadretto un’immagine simbolica diversa dalle solite de’ pittori e de’ poeti, su la quale egli avea fatto dipingere l’allegoria di un nuovo sistema amoroso; ma teneva quel quadretto coperto sempre d’un velo nero. Uno de’ cinque libri de’ quali è composto il manoscritto greco citato poc’anzi, ha per intitolazione: tre amori.—E i tre capitoli di esso libro incominciano: Rimorso primo; Rimorso secondo; Rimorso terzo: e conclude: Non essere l’Amore se non inevitaibili tenebre corporee le quali si disperdono più o men tardi da sè: ma dove la religione, la filosofia o la virtú vogliano diradarle o abbellirle del loro lume, allora quelle ravviluppano l’anima e la conducono per la via della virtù a perdizione. Riferisco le parole; altri intenda.

VIII. Da’ sistemi e dalla perseveranza con che li applicava al suo modo di vivere, derivavano azioni e sentenze degne di riso. Riferisco le poche di cui mi ricordo. Celebrava Don Chisciotte come beatissimo perché s’illudeva di gloria scevra d’invidia e d’amore scevro di gelosia. Cacciava i gatti, perché gli parevano piú taciturni degli altri animali; li lodava nondimeno, perché si giovano della società come i cani, e della libertà quanto i gufi. Teneva gli accattoni per più eloquenti di Cicerone nella parte della perorazione, e periti fisionomi assai piú di Lavater. [1] Non credeva che chi abita accanto a un macellaro, o sulle piazze de’ patiboli, fosse persona da fidarsene. Credeva nell’ ispirazione profetica, anzi presumeva di saperne le fonti. Incolpava il berretto, la vesta da camera e le pantofole de’ mariti, della prima infedeltà delle mogli. Ripeteva (e ciò piú che riso moverà sdegno) che la favola d’Apollo scorticatore atroce di Marsia [2] era allegoria sapientissma non tanto della pena dovuta agl’ignoranti presuntuosi quanto della cattiva invidia de’ dotti. Su di che allegava Diodoro Siculo, lib. III. n. 59, dove, oltre la crudeltà del Dio de’ poeti, si narrano i bassi raggiri co’ quali si procacciò la vittoria. Ogni qual colta incontrava de’ vecchi sospirava esclamando: Il peggio è viver troppo!  e un giorno, dopo assai mie preghiere, me ne disse il perché: La vecchiaja sente con atterrita coscienza i rimorsi, quando al mortale non rimane vigore, né temo d’emendar la sua vita. Nel proferire queste parole, le lagrime gli piovevano dagli occhi; e fu l’unica volta che lo vidi piangere, e seguitò a dire: Ahi! la coscienza è codarda! e quando tu se’ forte da poterti correggere, la ti dice il vero sottovoce e palliandolo di recriminazioni contro la fortezza ed il prossimo: e quando poi tu se’ debole la ti rinfaccia con disperata superstizione, e la ti atterra sotto il peccato, in guisa che tu non puoi risorgere alla virtù. O codarda! non ti pentire, o codarda! Bensì paga il debito, facendo del bene ove hai fatto del male. Ma tu se’ codarda; e non sai che o sofisticare, o angosciarti. — Quel giorno io credeva che volesse impazzare: e stette piú d’una settimana a lasciarsi vedere in piazza. Sì fatti erano i suoi paradossi morali.

IX. E quanto alle scienze ed alle arti asseriva, che le scienze erano una serie di proposizioni, le quali aveano bsogno di dimostrazioni apparentemente evidenti, ma sostanzialmente incerte, perché le si fondavano spesso sopra un principio ideale; che la geometria, non applicabile alle arti, era una galleria di scarne definizioni; e che malgrado l’algebra, resterà scienza imperfetta e per lo più inutile, finché non sia conosciuto il sistema incomprensibile dell’Universo. — L’umana ragione, diceva Didimo, si travaglia su le mere astrazioni; piglia le mosse, e senza avvedersi, a principio, dal nulla; e dopo lunghissimo viaggio, si torna a occhi aperti e atterriti nel nulla: ed al nostro intelletto la sostanza della natura ed il nulla furono, sono e saranno sinonimi. Bensí le arti non solo incitano ed albbelliscono le apparenze della Natura, non possono insieme farle rivivere agli occhi di chi le vede o vanissime o fredde; e nei poeti de’ quali mi vo ricordando a ogni tratto, porto meco una galleria di quadri, i quali mi fanno osservare le parti più belle e più animate degli originali che trovo su la mia strada; ed io spesso li trapassai senza accorgermi ch’e’ mi stanno tra’ piedi per avvertirmi con mille nuove senzsazioni ch’io vivo. — E però Didimo sosteneva, che le arti possono piú che le scienze far men inutile e più gradito il vero a’ mortali; e che la vera sapienza consiste nel giovarsi di quelle poche verità che sono c’ertissime a’ sensi; perché o sono dedotte da una serie lunga di fatti, o sono sí pronte che non hanno bisogno di dimostrazioni scientifiche.

X. Leggeva quanti libri gli capitavano; non rileggeva da capo a fondo fuorché la Bibbia. Degli autori ch’ei credeva degni d’essere studiati, aveva tratte parecchie pagine, e ricucitele in un grosso volume. Sapeva a memoria molti versi di antichi poeti, e tutto il poema delle Georgiche. Era devoto di Virgilio; nondimeno diceva: — Che s’era fatto prestare ogni cosa da Omero, dagli occhi in fuori. — D’Omero aveva un busto, e se lo trasportava di paese in paese; e v’area posto per iscrizione due versi greci che suonavano: — A costui fu assai di cogliere la verginità di tutte le Muse: e lasciò per gli altri le altre bellezze di quelle Deità. — Cantava, e s’intendeva da per sè, quattro odi di Pindaro. Diceva, che Eschilo era un bel rovo sopra un monte deserto; e Shakespeare, una selva incendiata che faceva bel vedere di notte, e mandava fumo nojoso di giorno. Paragonava Dante a un gran lago circondato di burroni e di selve, sotto un cielo oscurissimo, sul quale si poteva andare a vela in burrasca; e che il Petrarca lo derivò in tanti canali tranquilli ed ombrosi, dove possano sollazzarsi le gondole degli innamorati co’ loro strumenti; e ve ne sono tante, che que’ canali, diceva Didimo, sono ormai torbidi, o fatti gore stagnanti: tuttavia s’egli intendeva una sinfonia e nominava il Petrarca, era indizio che la musica gli pareva assai bella. Maggiore stranezza si era il panegirico ch’ei faceva di certo poemetto latino da lui anteposto perfino alle Georgiche, perché, diceva Didimo, mi par d’esser a nozze con tutta l’allegra comitiva di Bacco: Didimo per altro beveva sempre acqua pura. Aveva non so quali controversie con l’Ariosto, ma le ventilava da sé, e un giorno, mostrandomi dal molo di Dunkerque [3] le lunghe onde con le quali l’Oceano rompea sulla spiaggia, esclamò: Così vien poetando l’Ariosto! Tornandosi meco verso le belle colonne che adornano la cattedrale di quella città, si fermò sotto il peristilio [4], e adorò. Poi volgendosi a me mi diede intenzione che sarebbe andato alla questua a pecuniare tanto da erigere una chiesa al PARACLETO [5] e riporvi le ossa di Torquato Tasso; purché nessun sacerdote che insegnasse grammatica potesse ufficiarvi, e nessun Fiorentino Accademico della Crusca appressarvisi. Nel mese di giugno del 1804 pellegrinò da Ostenda sino a Montreuil per gli accampamenti italiani: ed a’ militari, che si dilettavano di ascoltarlo, diceva certe sue omelie all’improvviso, pigliando sempre per testo de’ versi delle Epistole d’Orazio. Richiesto da un ufficiale perchè non citasse mai le Odi di quel poeta, Didimo in risposta gli regalò la sua tabacchiera fregiata d’un mosaico d’egregio lavoro, dicendo: — Fu fatto a Roma d’alcuni frammenti di pietre preziose dissotterrate in Lesbo. [6]

XI. Ma quantunque non parlasse che di poeti, Didimo scriveva in prosa perpetuamente; e se ne teneva. Scriveva anche arringhe, e taceva da difensore ufficioso a’ soldati colpevoli sottoposti a’ consigli di guerra; e se mai ne vedeva per le taverne, pagava loro da bere, e spiegava ad essi il Codice militare [7]. Oltre a’ tre manoscritti raccomandatimi serbava parecchi suoi scartafacci: ma non mi lasciò leggere se non un solo capitolo di un suo Itinerario lungo la Repubblica letteraria. In esso capitolo descriveva — un’implacabile guerra tra le lettere dell’abbiccì, e le cifre araldiche, le quali finalmente trionfarono con accortissimi strattagemmi, tenendo ostaggi l’a, la b, la x che erano andati ambasciadori, e quindi furono tirannicamente angariate con inesprimibili e angosciose fatiche. — Dopo il desinare Didimo si riduceva in una stanza appartata a ripulire i suoi manoscritti ricopiandoli per tre volte. Ma la prima composizione, com’ei diceva, la creava all’Opera seria o in mercato. Ed io in Calais lo vidi per piú ore della notte a un caffè, scrivendo in furia al lume delle lampade del biliardo, mentr’io stava giocandovi, ed ei sedeva presso ad un tavolino, intorno al quale alcuni ufficiali quistionavano di tattica, e fumavano mandandosi scambievolmente de’ brindisi. Gl’intesi dire: — Che la vera tribolazione degli Autori veniva a chi dalla troppa economia della penuria, e a chi dallo scialacquo dell’abbondanza, e ch’esso aveva la beatitudine di poter scrivere trenta figlia allegramente di pianta; e la maledizione di volerli ridurre in tre soli, come a ogni modo, e con infinito sudore faceva sempre.  —

XII. Ora dirà de’ suoi costumi esteriori. Vestiva da prete; non però assunse gli ordini sacri; e si faceva chiamare Didimo di norme, e Chierico di cognome. ma gli rincresceva sentirsi dar dell’abate. Richiestone, mi rispose: — La fortuna m’avviò da fanciullo al chiericato; poi la natura mi ha deviato dal sacerdozio; mi sarebbe rimorso l’andare innanzi, e vergogna il tornarmene addietro: e perché io tanto quanto disprezzo chi muta istituto di vita, mi porto in pace la mia tonsura e questo mio abito nero: così posso o ammogliarmi o aspirare ad un vescovato. — Gli chiesi a quale de’ due partiti s’apiglierebbe. Rispose: Non ci  ho pensato; a chi non ha patria non istà bene l’essere sacerdote, né padre. — Fuor dell’uso de’ preti, compiacevasi della compagnia degli uomini militari. Viaggiando perpetuamente, desinava a tavola rotonda con persone di varie nazioni; e se taluno (com’ei s’usa) professavasi cosmopolita, edili si rizzava senz’altro. S’addomesticava alle prime; benché con gli uomini cerimoniosi parlasse asciutto; ad a’ ricchi pareva altero: evitava le sette e le confraternite; e seppi che rifiutò due patenti accademiche. Usava per lo piú ne’ crocchi delle donne, però ch’ei le reputava più liberamente dotate dalla natura di compassione e di pudore; due forze pacifiche le quali, diceva Didimo, temprano sole tutte le altre forze guerriere del genere umano. — Era volentieri ascoltato: né so dove trovasse materie; perché alle volte chiacchierava per tutta una sera, senza dire una parola di politica, di religione, o di amori altrui. Non interrogava mai per non indurre, diceva Didimo, le persone a dir la bugia: e alle interrogazioni rispondea proverbi, o Guardava in viso chi gli parlava. Non partecipava né una dramma del suo secreto ad anima nata: — Perché, diceva Didimo, il mio secreto è la sola proprietà su la terra ch’io degni di chiamar mia, e che, divisa, nuocerebbe agli altri e a me. — Né pativa d’essere depositario degli altrui secreti: — Non ch’io non mifidi di serbarli inviolati: ma avviene che a voler scampare dalla perdizione qualche persona, m’è pure necessità a rivelare alle volte il secreto che m’ha confidato: tacendolo, la mia fede riescirebbe sinistra; e maniifestandolo, m’avvilirei davanti a me stesso. — Accoglieva lietissimo nelle sue stanze: al passeggio voleva andar solo, o parlava a persone che non aveva veduto mai, e che gli davano nell’idea: e se alcuno de’ suoi conoscenti accostavasi a lui, si levava di tasca un libretto, e per primo saluto gli recitava alcuni squarci di traduzioni moderne de’ poeti dieci: e rimanevasi solo. Usava anche sentenze enigmatiche. Nessun frizzo: se non una volta e per non ricaderci, rilesse i quattro Evangelisti. Ma di tutti questi capricci e costumi di Didimo s’avvedevano gli altri assai tardi, perch’ei non li mostrava, né gli occultava; onde credo che venissero da disposizione naturale.

XIII. Dissi che teneva chiuse le sue passioni; e quel poco che ne traspariva, pareva calore di fiamma lontana. A chi gli offeriva amicizia, lasciava intendere che la colla cordiale per cui l’uomo s’attacca all’altro, l’aveva già data a quei poche ch’erano giunti innanzi. — Rammentava volentieri la sua vita passata, ma non m’accorsi mai ch’egli avesse fiducia nei giorni avvenire o che ne temesse. Chiamavasi molto obbligato a un Don Jacopo Annoni, curato, a cui Didimo aveva altre volte servito da chierico nella parrocchia d’Inverigo; e stando fuori di patria, carteggiava unicamente con esso. Mostravasi gioviale e compassionevole, e benché fosse alloramai intorno a’ trent’anni, aveva aspetto assai giovanile; e forse per queste ragioni Didimo, tuttochè forestiero, non era guardato dal popolo di mal occhio, e le donne passando gli sorridevano, e le vecchie si soffermavano accanto a una porticciola a discorrere seco, e molti fantolini, de’ quali egli si compiaceva, gli correvano lietissimi attorno. Ammirava assai; ma più con gli occhiali, diceva egli, che col telescopio: e disprezzava con taciturnità sì sdegnosa, da far giusto e irreconciliabile il risentimento degli uomini dotti. Aveva per altro il consenso di non patire d’invidia, la quale, in chi ammira e disprezza, non trova mai luogo. E’ diceva: — La rabbia e il disprezzo sono due grandi estremi dell’ira: le forti disprezzano: ma tristo e beato chi non s’adira. —

XIV. Insomma, pareva uomo che essendosi in gioventù lasciato governare dall’indole sua naturale, s’accomodasse, ma senza fidarsene, alla prudenza mondana. E forse aveva più amore che stiano per gli uomini; però non era orgoglioso, né umile. Pareva verecondo, perché non era né ricco né povero. Forse non era avido né ambizioso; perciò parea libero. Quanto all’ingegno, non credo che la natura l’avesse moltissimo prediletto, né poco. Ma l’aveva temprato in guisa da non potersi imbevere degli altrui insegnamenti e quel tanto che produceva da sè, aveva certa novità che allettava, e la primitiva ruvidezza che offende. Quindi derivava in esso per avventura quell’esprimere in modo tutto suo le cose comuni; e la propensione di censurare i metodi delle nostre scuole. Inoltre, sembravami ch’egli sentisse non so qual dissonanza nell’armonia delle cose del mondo: non però lo diceva. Dalla sua operetta greca si desume quanto meritamente si vergognasse della sua giovanile intolleranza. Ma pareva. quando io lo vidi, piú disingannato che rinsavito; e che senza dar noia agli altri, se ne andasse quietissimo e sicuro di se medesimo per la sua strada, e sostandosi spesso, quasi avesse più a cuore di non deviare, che di toccare la meta. Queste a ogni modo sono tutte mie congetture.

XV. Avendolo io nell’anno 1806 lasciato in Amersfort, e desiderando di dargli avviso del giudizio de’ Maestri suoi intorno ai tre manoscritti da me recati in Italia, scrissi ad Inverigo a domandarne novelle al reverendo Don Jacopo Annoni; e perché questi s’era trasferito da molto tempo in una chiesa su’ colli del lago di Pusiano, presso la villa Marliani, lo visitai nell’estate dell’anno seguente; né ho potuto riportare dalla mia gita se non una notizia ch’io già sapeva; e i lineamenti di Didimo giovinetto. Quel buon vecchio sacerdote, regalandomi il disegno che ho posto in fronte a questo opuscoletto, mi disse afflittissimo: — So che in un paese lontano chiamato Bologna a mare, Didimo regalò tutti i suoi libri e scartafacci a un altro giovine militare che ne usasse a suo beneplacito; e fece proponimento di né più leggere né più scrivere: da indi in qua, e egli è pur molto tempo, non so più dov’e’ sia né se viva.

XVI. Mi diede copia di un epitaffio che Didimo s’era apparecchiato, molti anni innanzi; ed io lo pubblico, affinché, s’egli mai fosse morto, ed avesse agli ospiti lasciato tanto da porgli una lapide, lo facciano scolpire sovr’essa:

DIDYMI . CLERICI

VITIA . VIRTUS . OSSA

HIC .POST . ANNOS . †††

CONQUIEVERUNT.

 

Note

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[1] Lavater Giovanni Gaspare nato in Svizzera (1741-l1801), creò un sistema che portò il suo nome, secondo il quale intendeva scoprire costanti relazioni tra i caratteri degli individui e i tratti della loro fisonomia. Fu amico del Goethe.

[2] Marsia fu, secondo la favola, un satiro di Frigia, il quale, avendo raccolto un flauto sonato da Minierva, cominciò a trarne sí soavi note, che, inorgoglito, sfidò Apollo a musicale tenzone, a patto che il vincitore farebbe del vinto quel governo che piú gli piacesse. Le Muse furono giudici della gara Apollo cominciò a sonare la cetra, Marsia il flauto, ma il primo, avendo aggiunto il canto al suono, fu dichiarato vincitore, Apollo allora legò Marsia ad un albero e lo scorticò vivo, cioè come dice Dante, lo trasse "Della vagina delle membra sue". Parad., I, 20-21.

[3] Dunkerque: Città fiamminga, appartenente alla Francia, nel dipartimento del Nord. Possiede una delle più magnifiche rade dell’Europa. Il suo nome, in fiammingo, significa Chiesa delle dune.

[4] Peristilio: Cortile con colonne tutt’attorno isolate, costruito nella parte interna d’un edifizio.

[5] Paracleto: È il nome dato nel Vangelo allo Spinto Santo. Deriva dal verbo greco paraxleo, consolo

[6] È certo che Orazio nei suoi cinque libri di Odi sopra ogni qualità di argomenti, sacri, politici, morali, erotici e festevoli tolse dai lirici greci la maggior parte dei metri; e alcuni han detto che li imitasse ancora nella sostanza, in maniera da far quasi un lavoro a mosaico ma benché per la perdita dei loro carmi e segnatamente di quelli di Saffo e di Alceo, sia impossibile accertare la verità, nondimeno da molte delle sue piú belle Odi, sacre e politiche massimamente, risulta a evidenza l’originalità e il carattere tutto paesano del poetare di Orazio.

[7] Qui si rivela apertamente il Foscolo.