Edizione di riferimento
Ugo Foscolo, Lettere d'amore, Introduzione e note di Guido Bezzola, Biblioteca universale Rizzoli, Milano 1983
... Giunto sul lago di Como il 31 luglio 1809, ancora il 9 agosto scriveva al Brunetti della sua piaga amorosa: ... può quindi sorprendere chi non conosca il carattere di Ugo l'esordio in cui si accenna all'anno di amore silenzioso per Francesca Giovio. Le relazioni del Foscolo con la nobile famiglia comasca dei Giovio risalivano almeno al 1807: il conte G. B. Giovio (1747-1814), letterato e a modo suo filosofo, profondamente cattolico, era uomo retto e probo. Nel 1780 aveva sposato Chiara dei marchesi Parravicini da cui Francesca, quarta di otto figli, nata il 1° aprile 1789. A parte Francesca, i più vicini al F. furono Benedetto, compagno d'armi di Giulio fratello del poeta, Vincenzina, poi tornata col marito a vivere in famiglia a causa di rovesci economici, Felicia, un po' letterata anch'essa. Nella grande casa di Como e nella villa sul lago a Borgovico il F. fu frequentemente ospite e così poté nascere il suo amore con la Francesca, di cui ci restano poche lettere e dove la miglior figura la fa la ragazza: in questa lettera si vede che il F. sta cercando una via d'uscita e accampa pretesti tanto onorevoli quanto, appunto, pretestuosi. In ogni modo i genitori si accorsero della vicenda, non ruppero col F. ma spinsero la figlia a sposare (13 settembre 1810) il colonnello francese Victor Vautré col quale essa poi andò a vivere in Francia (si spense, più che ottantenne, a Parigi). Innanzi tutto il matrimonio fu celebrato il 13 settembre 1810 secondo il rito civile, il 14 settembre secondo il rito religioso, nella cappella di casa Giovio. Lo sposo, era colonnello comandante il 9' reggimento di fanteria francese di stanza a Brescia; dai documenti ufficiali allegati risulta che era nato il 10 maggio 1770 a Dompaire circondario di Mirecourt nei Vosgi, figlio di Claudio Giuseppe ex procuratore e notaio e di Anna Francesca Padox: tutti e due i genitori del Vautré erano morti al momento del matrimonio. Il Vautré aveva quindi quarant'anni, diciannove più della sposa, otto più del Foscolo. I rapporti coi Giovio però non cessarono, anche per la vivissima stima nutrita dal conte per l'ingegno del F. e per la consolazione che egli riceveva dalle lettere di lui, soprattutto dopo la notizia della morte di Benedetto, tornato ferito dalla Russia per spegnersi a Gubingen in Prussia il 17 dicembre 1812 senza poter rivedere la patria: quella morte portò alla tomba anche il conte il 17 maggio 1814. Nel complesso, un episodio apparentemente breve ma molto intenso e molto amaro, dove il F. mostrava la sua sostanziale incapacità di accettare responsabilità dirette e chiare nei suoi rapporti con l'altro sesso: non basta infatti saper fare innamorare, occorre anche saper mantenere in vita l'amore e la stima, soprattutto là dove manchi ii comodo paravento di un marito. Quanto alla reale forza di quell'amore da parte di Ugo, ci sia concesso dubitarne: forse per lui fu un diversivo che la Francesca, ingenua e schietta, prese profondamente sul serio. Aggiungiamo infine, per scrupolo di totale completezza, che secondo Cesare Cantù (Monti e l'età che fu sua, Milano, Treves, 1879, p. 177), il F. amò anche «le tre figliole del conte Giovio». Tra le cinque figlie occorrerà pensare che si tratti, oltre che della Francesca, di Vincenzina e Felicia, ma non è che ci restino documenti effettivi e irrefragabili. Più recentemente Adriano Bozzoli (Studi e note di filologia e di esegesi, Milano, Cisalpino 1968, p. 78 sgg. nel capitolo Il Foscolo e Felicita Porro Giovio) ha riesumato l'affermazione del Cantù, almeno per la Felicia, basandosi principalmente anzi esclusivamente sulla lettera del 18 luglio 1808 (642 dell'epistolario) dove in chiusa il F. dice «ma voi, e i sentimenti, e le rimembranze che mi avete lasciate nell'anima resteranno perpetue ». Espressioni tenere senza dubbio, che fanno pensare davvero a un flirt almeno iniziato, ma che si tratti di « amore e di passione» ci sembra un po' eccessivo. Il nome della signora è poi certamente Felicia e non Felicita, come scrive il Bozzoli contraddetto dall'atto di nascita ove figura il nome Felix, anche se nell'estratto (non nell'originale, da noi non rinvenuto) dell'atto di matrimonio la sposa è detta Felicita; quanto alla Vincenzina, non ne sappiamo nulla.
Borgo Vico 19 Agosto 1809
È un anno ormai ch'io sopporto le angosce del silenzio, e ch'io mi struggo nell'ardore secreto che ci consuma, e che sarà di rimorso e di lagrime a tutta la vita che mi rimane: è un anno ch'io vo combattendo me stesso; e forse la lunga abitudine di sacrificarmi a' miei principj e all'altrui pace m'avrebbe conceduto di vincermi. Ma come potrò io obbedire a' miei doveri, e lasciarvi ad un tempo nel dubbio ch'io vi ho abbandonata più per indifferenza che per virtù, e ch'io pago di ingratitudine un cuore che mi si mostra sì passionato e sì nobile? No, mia cara amica: non vi lascerò senza prima accertarvi che voi siete riamata; amata caldamente, teneramente. La riconoscenza a' vostri sentimenti spontanei verso di me, la pietà per la vostra gioventù, la stima alle doti dell'animo vostro fanno puri ed ardenti, faranno sacri e perpetui quei palpiti che la vostra bellezza e le vostre grazie mi hanno eccitato nel cuore dal primo giorno che vi ho veduta. Felice giorno! – Ma per quanti sentieri di desiderj, di pentimenti e d'affanni vo errando miseramente dopo quel tempo! e sempre, sempre senza la speranza di possedervi mai; e solo mi sostiene e m'illude la certezza d'essere amato: eppure da questa certezza nacque e crebbe e si nutre il mio disperato dolore. Sapeva d'essere amato, sentiva d'amarvi, e non ho potuto parlarvi mai; e all'occasione non mi sarei forse attentato. Sovente io vi scriveva; ma i riguardi al mio carattere, al vostro pudore e alla vostra famiglia mi faceano considerare come delitto ogni linea, e non osava nemmen conservare que' frammenti scritti per voi. – Ma ormai sono costretto a una colpa che ho tentato fino ad or d'evitare: vedo che il silenzio va d'ora in ora accrescendo la nostra sciagura; e chi sa forse a qual mortale necessità potrebbero trarci la speranza in voi non disingannata, e in me la risoluzione non palesata! Oh potessi almeno scrivendovi, non dirò consolarvi (ah! i sacrifizi non promettono che una tarda consolazione!), bensì apparecchiarvi a uno sforzo che le mie circostanze e la vostra famiglia e il nostro onore domandano; e lo domandano efficace e prontissimo. Vi scriverò dunque, e forse a costo di non essere più amato da voi. Sì, sì, racquistate la pace e dimenticatemi: io non potrò obbligarvi mai più; ma nel mio dolore avrò almeno il conforto d'essermi per amor vostro rassegnato costantemente al mio destino, e d'avere obbedito ai doveri d'un uomo d'onore.
Vi confesso che da quando io vi vedeva le prime volte, niun desiderio, niun progetto, niuna idea d'amore mi parlò nel pensiero per voi: perché gli ostacoli, che ora mi spaventano il cuore, allora si presentavano tranquillamente alla mia ragione. Io guardava la vostra bella fisonomia, quasi ringraziando il cielo che me l'avesse offerta d'innanzi per consolare gli occhi miei, che da molti anni si vanno disgustando ognor più di tutte le cose del mondo; ma nel tempo stesso l'amore per vostro fratello e le gentilezze di vostro padre e la coscienza del mio povero stato vi rendevano meno pericolosa al mio cuore, che volgevasi a voi, ma senza timore né rimorso. Vedeva, è vero, talora gli occhi vostri fissarsi sopra di me: vi vedeva sul volto e più sulle labbra un silenzio mesto e soave: ma io non aveva avuto ancor tempo di distinguere il linguaggio dei vostri sguardi: forse, io diceva a me stesso, gli occhi suoi si volgono così sempre e naturalmente sopra di tutti, e quella mestizia è carattere; e chi sa! fors'anche quel cuore geme in qualche passione. – Così io vi compiangeva, e senz'accorgermi incominciava forse ad amarvi. Ma poteva io presumere che l'indole mia risentita e severa, i miei modi troppo schietti, le mie parole assolute, l'età mia che avea già smarrita la freschezza e l'amabilità della prima gioventù, il mio volto solcato innanzi gli anni dalla trista mano delle passioni; poteva io presumere che queste qualità innamorassero una giovinetta che vedevami appena, e che forse non mi avrebbe veduto mai più? Amandovi, sarei stato ingrato con la vostra famiglia; e lusingandomi d'amore, sarei stato ridicolo a me medesimo. Vi giuro, mia cara amica, ch'io avrei sognata tutt'altra speranza, fuor che d'essere amato da voi; avrei temuta ogni sventura, non mai d'amarvi disperatamente, e di vedermi obbligato a persuadervi al maggiore e al più necessario de' sacrifizi.
Con questa vana sicurezza io mi pasceva del piacere di contemplarvi come un'opera gentile della natura: io amava nelle vostre le sembianze di Benedetto, e presumeva in voi la nobiltà d'animo che mi fe' caro quel giovine; la riconoscenza alle accoglienze de' vostri parenti, la vista di un paese che pareami prediletto dal cielo, la gratitudine a quest'aria piena di vita che m'aveva come destato dalla tristezza in cui l'anima mia stava da gran tempo assopita, tutti questi sentimenti si confondevano col sentimento ch'io provava per voi; e tanto ancora io mi credeva, ed era forse, innocente, che trovandomi una sera a Grumello, e guardando il lago, i colli e la casa dove io vi aveva veduta la prima volta, e pensando ch'io dovea presto lasciarli, il mio desiderio di dimorarvi sempre non distingueva voi dai luoghi e dalle persone che m'erano divenute sì care. Fors'anche io mi ingannava, e l'amarezza della partenza non derivava che da voi sola, e senza ch'io potessi avvedermene. Felice me nondimeno s'io non fossi stato disingannato, e dopo pochi minuti, e dalla imprudenza, pur troppo, di chi anzi dovea lasciarmi in errore! Quella sera appunto la Marchesa Porro, che non m'aveva veduto in tutto quel giorno. mi accolse con certo sorriso, dicendomi: «Ortis vuol lasciare dappertutto delle Terese». Supponendo ch'ella intendesse di sé e pretendesse una corte galante ch'io non so né voglio mai fare, risposi «che l'anima dell'Ortis non era forse morta con lui. ma che le Terese non si trovano dappertutto». «Eppure, soggiunse, eppure un signore ha osservato che una bella persona e voi vi guardate un po' troppo: ed io lo credo, continuò seriamente, perché quel signore non suole ingannarsi». – Sentii rimorso di averla accusata di troppo amor proprio: e d'altra parte io non poteva ideare ch'ella alludesse mai a sua sorella e a suo padre. E sospettai che volesse ferire la Bellini la quale infatti e in chiesa e all'Olmo [1], m'avea guar-dato con certa curiosità; e quando vostro padre mi volea presentare a lei quel giorno stesso al passeggio, io tuttoché non l'abbia accostata tenni per qualche tempo gli occhi fissi sopra di lei. Onde replicai sdegnosamente alla Porro, «che le pie lingue fanno il loro debito se spargono congetture galanti contro l'onor delle donne; ma le persone discrete faranno meglio a non credere, e meglio a non ridire le ciarle; e molto più quando si rischia di seminare gelosie tra gli amici: del resto, le dissi, partendo, io non sono ne sì perfido, né sì leggiero da piantare amoretti in ogni paese, e molto meno con donne che sono amate ed amanti». — Allora ella vi nominò: mi sentii battere il cuore, ma io non era ancora colpevole: restai sbigottito per le conseguenze di questo sospetto; e mi pareva già di sentirmi rinfacciare da Benedetto tutto ciò che l'altrui malignità avea potuto fargli credere contro di me. Vi rividi per altri due giorni: prima mi sembrò, poi temeva, poi sperava; finalmente m'accertai d'esservi caro. Ed io già misero e fortunato ad un tempo, in mezzo ai rimorsi e a' combattimenti, io vi amava. Partii, e chiamo in testimonio, mia cara amica, quanto v'è per me di più sacro nel mondo, partii colla speranza più d'essere obliato che d'obliarvi. Accusai l'imprudenza di vostra sorella che m'avea provocato ad una osservazione che forse mi sarebbe sfuggita; accusai me stesso di troppa credulità, e meditava di non più rivedervi finché voi non foste sposa di un altro.
Così passarono due mesi, ricordandomi tutti i giorni e dell'amor vostro e de' miei doveri alla vostra virtù. Una mattina per tempo Montevecchio mi mandò un biglietto pregandomi di accompagnarlo ad Asnago; e poco dopo venne egli stesso in carrozza; e quantunque io cercassi malvolentieri la compagnia della Porro, m'arresi alla di lui preghiera. Giunti ad Asnago, il povero Montevecchio di ridente e pacifico divenne subitamente taciturno ed inquieto; impallidì, mi strinse la mano con una mano agghiacciata, e mi fe' cenno che voleva parlarmi. Appartatomi con lui mi disse: « partiamo subito, o quanto più presto». — Io non sapeva se la presenza di P., che ei non credeva di trovare in campagna, o qualche bizzarra accoglienza di vostra sorella avessero in lui prodotto quel cangiamento improvviso. Gli rimostrai «che non si poteva con onesta scusa partire da un luogo ove avevamo annunziato di volersi fermare; che la Porro rimarrebbe compromessa con suo marito e che non sapevamo dove dirigerci; che avevamo rimandato il calesse; che l'ora era tarda; ma che ad ogni modo le sue parole m'affliggevano, ed il suo volto mi spaventava ». – Egli senza dirmi mai la ragione (e la tacque sempre, ed io rispetto quel suo profondo secreto) mi scongiurava ognor più di trovar modo a liberarlo da quell'inferno. Ravvicinandoci alla conversazione, intesi la Porro che diceva «di voler accompagnarci un giorno a Verzago, poich'ella avea promesso di andarvi». Io, mosso dallo stato di Montevecchio, e mosso, è vero, anche dall'amor mio e dal desiderio di rivedervi, colsi l'occasione dicendo «ch'io era occupatissimo, che dovea ritornare sollecitamente a Milano, e che avea intenzione di andare a Verzago quel giorno stesso». – Montevecchio mi secondava insistendo; e U. pareva della nostra opinione. Il Marchese ci prestò i cavalli, ed io vi ho riveduta.
Vi ho riveduta palpitando, e sperando pur sempre che mi avreste accolto più freddamente. Invece io vi ho ritrovata e più gentile e più mesta e più tenera; e tremava d'accostarmi a' giuochi per non vedervi più davvicino. per non parlarvi, per non tradirmi per sempre. Ma io, condannato a' più ostinati combattimenti, per cedere poi perpetuamente al mio debole cuore, m'avvicinai, vi ho parlato, seppi dal vostro labbro ciò che avea da tanto tempo saputo da' vostri sguardi, seppi d'essere amato: vi dissi... oh come porto la pena e il rimorso di quelle poche parole, e chi sa di che pianto dovrò scontarle! — vi dissi che il voto più caro dell'anima mia era stato quello di rivedervi. Affrettai la partenza, perché m'accorsi che la visita non poteva piacere a vostro padre. E posso io non dargli ragione? Non so se ho commessa qualche imprudenza; in mezzo a tutta la mia riserva io vi amava, e forse mi sono tradito; in mezzo alla disperazione dell'amor mio, io sapeva d'essere amato, e amato da voi! – Il mio cuore, vedendovi, esultava in questa unica gioia, e non avrà saputo contenersi abbastanza. Ma voi, più di me, voi, mia cara amica, palesavate troppo il vostro stato ardente ed ansioso: più volte gli occhi di vostro padre si sono fissati ne' vostri, quasi leggendovi nel santuario dell'anima; e più volte i vostri sguardi, il vostro pallore e la vostra malinconia mi strappavano il pianto: io tremava, io gemeva, e per voi e per me: mi rinfacciai e mi rinfaccio d'avervi con quelle parole fomentata una passione ch'io dovea con un perpetuo silenzio disingannare per sempre. Da indi in qua io mi accosto alle vostre scale, alla vostra famiglia, alla presenza di vostro padre con un tremito involontario. Ma io le ho pronunziate quelle parole dal fondo del cuore, né le rivocherò più. Nell'ora della morte d'innanzi al tribunale d'Iddio io dirò che vi amo con tutta la tenerezza e la lealtà; e potesse la mia morte farvi felice! Questo è il miglior premio ch'io possa sperare al mio misero amore; e sarebbe ad un tempo d'espiazione al mio fallo, ed io troverei la tranquillità che la natura dal mio nascere non mi promette che nel sepolcro. Oh sì! potesse la mia morte farvi felice! Ma finché io vivrò non sarò mai traditore; e voi non sarete la moglie d'un uomo che può in faccia al mondo apparire d'avervi acquistata con la seduzione e l'ingratitudine.
Tornato a Milano, io aveva sempre nell'anima il vostro pallido aspetto e i vostri sguardi languenti; e l'ultima occhiata che voi, appoggiata al camminetto, mi avete gettata mentr'io usciva dalla porta mi affliggeva in tutti i pensieri, e in ogni luogo e in ogni ora pareva che mi domandasse pietà. Ed io amandovi, io desiderandovi sempre più, io più misero forse di voi, perché più di voi combattuto dalla ragione e abbandonato dalla speranza, io chiedeva perdono al vostro povero padre; e sembravami ch'egli mi udisse, e si pentisse dell'opinione ch'egli avea riposta nel mio carattere, ed accusasse la propria credulità e la mia ingrata perfidia. Così i sentimenti del malaugurato amor mio, della mia tenera riconoscenza al vostro cuore, che mi si è dato spontaneo, della mia pietà all'età vostra, del dolore a cui sentiva di abbandonarvi dopo di avervelo esulcerato io medesimo, combattevano fieramente, ostinatamente co' miei principj, co' pensieri sulla mia sorte povera ed incertissima, con le opinioni della vostra famiglia, co' miei doveri verso la mia, con l'amicizia ch'io aveva giurata a vostro fratello; l'amore insomma con tutti i suoi delirii. l'onore e i suoi rimorsi mi laceravano: voi trattanto, voi povera innocente, eravate la causa e la vittima. Mi si prostrarono le forze; la taciturna malinconia, ch'era in me una malattia passeggera, divenne naturale e continua; d'allora in poi sento che l'ingegno mio va oscurandosi, né trovo più nello studio la consolazione che mi soccorse in tante tempeste: sento ch'io non sono sì forte come per lo passato; e appena nell'anima mia, già sì vigorosa ed altera, resta la rimembranza della sua dignità; tutto mi piace, tutto mi dispiace nel mondo, e non ho più intenzioni certe, né volontà. E soltanto mi fermo talor nel pensiero di farvi tranquilla e felice. — Io farvi felice? — Eppure in questo deplorabile stato mi rimane ancor la lusinga di tornare onesto davanti a me stesso; e mi rimane d'implorare dal cielo e da voi che il sacrifizio, a cui mi sono deliberato, sia dal cielo e da voi secondato, perché solo può restituire la pace a voi ed a' vostri parenti.
Per tutto quasi quel lungo tempo che voi dopo la mia visita soggiornaste a Verzago, io non mi sentiva né coraggio, né forza da scrivere al Conte. E vero ch'io in quel tempo era malato; ma in fondo io m'andava prefiggendo di non più rivedervi, e di rompere ogni corrispondenza con vostro padre. Pure io dovea ringraziarlo delle sue cortesie: questo silenzio incivile dovea certamente spiacergli; ed essendo insolito in me, potea forse adombrarlo ancor più ne' sospetti del nostro amore. E l'amore fors'anche moveva in me questi scrupoli.
Scrissi dunque i ringraziamenti un mese dopo: mi rispose; io tardava a scrivergli, quasi cercando che il carteggio si diradasse. Ma quell'ottimo uomo, o che non volesse arrendersi a' suoi sospetti, o che si fidasse di voi e di me, mi replicò molte lettere e a Milano e a Pavia, sebben'io talvolta mancassi, e più spesso tardassi a rispondergli. Intanto io in mezzo alle mie preghiere perché voi mi obbliaste, io mandava voti ardentissimi di rivedervi; e gli occhi miei cercavano qualche orma di voi in tutte le linee di vostro padre.
Ebbi nondimeno tanta costanza da non accompagnar Montevecchio quando a Natale venne a trovare la Porro: mi scusai verso di lui co' lavori per la cattedra; — e lavorava svogliatamente, pensando sempre alla disgrazia di una giovinetta che non mi avea conosciuto che per passare la più bella parte dell'età sua nel dolore, cui io non poteva parlare dell'amor mio, né cercare di consolarla senza rendermi nuovamente colpevole.
Ma la colpa e la piaga andavano più sempre regnando nelle mie viscere più secrete, ed ogni pentimento ed ogni rimedio congiurava ad inferocirle. Essendo a Milano per la stampa della mia prolusione, io mi trovava al teatro, infastidito del mondo tutto, e di me; e v'incontrai la Bellini, a cui fui presentato. La sua vista e le memorie di Como mi svegliarono talmente il desiderio di vedervi, almen per l'ultima volta, ch'io colsi l'offerta di suo marito di albergarmi a Como. E in quel primo momento questo parvemi eccellente partito per celare alla vostra famiglia la ragione vera del viaggio. Ma subito dopo ho arrossito di questa trama; e dall'amore tornando rapidamente al rimorso, deliberai anzi di profittare della ospitalità dei Bellini, perché voi dubitando di me ed accusandomi d'infedeltà, vi pentiste d'avermi amato, e sdegnaste un uomo che non poteva più meritare la vostra stima. Confesso ch'io mi lodai per più giorni del pensiero di questa mia crudele finzione: e m'era già concertato con Montevecchi ch'ei smonterebbe al solito in casa Porro. Ma, salito appena in carrozza, il mio cuore fu nuovamente punito da mille amari e rimordenti pensieri; ed io ripeteva a me stesso: «Restituirò dunque la pace a quella giovinetta, perdendo io dal mio lato la tenerezza e la fede ch'ella ripone sì candidamente nell'amor mio? Tenterò di guarirla col rimedio funesto della gelosia? La compagnia di persone che appena conosco, mi darà forse a Como quella consolazione ch'io cerco sempre nella vista della mia povera amica? E non l'amo io forse? E tutti gli affetti di quel cuore che batte per me, non cercano forse asilo nel mio? Oh io non la tradirò; mi sacrificherò a' miei doveri, ma in modo ch'ella non mi detesti; e queste arti tenebrose e maligne le insegnerebbero a disprezzare l'amante più che ad amar la virtù». – Così abbandonai anche quest'unico partito che mi restava, persuasi Montevecchi lungo la strada di venire meco alla locanda, per avere così una ragionevole scusa di non accettare l'alloggio del Bellini, il quale, non avendo meco amicizia, poteva forse avermelo offerto per semplice moto d'urbanità. L'amico mio s'appagò di questa ragione, e mi compiacque; né indovinò le cause del viaggio e del cambiamento d'alloggio.
Ciò ch'io seppi a Como in que' giorni mi determinava ancor più di dirvi addio, l'ultimo addio; ma di giustificarmi ad un tempo, e lasciarvi i miei consigli e la sicurezza ch'io non vi abbandonava se non se per preservarvi da maggiori afflizioni. M'accorsi delle vostre gelosie, ed ho sentito stridere nel mio petto il coltello che la mia imprudente conoscenza con la Bellini avea piantato nel vostro. Intanto Paolino mi andava dicendo, «che voi mi amavate, e che da certi vostri discorsi con la Carolina avea capito che vostro padre si sarebbe opposto assai meno di vostra madre». Tentai di far credere a Paolino ch'egli sognava; e finsi di ridere a quelle sue congetture, perch'ei non le ripetesse sul serio. Ma nel mio pensiero cominciai a tremare pel nostro secreto e per la quiete della vostra famiglia; e piansi vedendo quanto una vana speranza aveva sino allora adulata la vostra passione. Ma tremai anche per la vostra fama quando due persone mi dissero, che vostro padre avea detto ch'io era innamorato di voi. Non crederò che vostro padre abbia palesato il suo dubbio ad altri fuorché alla Porro; ma la funesta indiscretezza che lo sparse per Como, e che poteva ridirlo in Milano a que' tanti che mi conoscono, dava il nostro nome in balia de' maligni e de' creduli. Ecco il primo e più amaro frutto d'un amore, che doveva essere o represso per sempre, o almeno celato per sempre dentro di noi! Io non vi ridirò altre ciarle che vi affliggerebbero, e che, non importando a' motivi per cui vi scrivo, basta che abbiano afflitto me solo. Ma io conobbi la necessità di parlarvi per una volta soltanto, o di scrivervi; di mostrarvi il precipizio al quale andavamo avviandoci; di giurarvi un amore delicatissimo, eterno; e di far sì che voi mi prometteste un perpetuo silenzio e una virtuosa rassegnazione alle circostanze e a' voleri de' vostri parenti.
Con questa intenzione tornai a Como per le feste di Pasqua: vi trovai sempre tenera, sempre affettuosa ne' vostri sguardi, sempre riservata e decente nel vostro contegno. Ed io vi amava sempre più, ed io compiangeva più il vostro dolore che il mio, e mi rattristava sino alla superstizione, sino a supplicare ed a credere che Dio avrebbe accettata l'offerta della mia vita, a patto ch'egli vi restituisse la pace perduta per mia cagione. Non ho potuto parlarvi; non ho ardito: non mi sono fidato di scrivervi, e allora vostra madre mostravasi più che mai diffidente. Parvemi anche ch'ella volesse accennarmi d'avere penetrate le mie intenzioni; perché una sera che voi eravate a cena, me ne parlò quasi chiaramente alla presenza del Conte. Risposi, che le mie passioni potevano forse tormentar la mia vita, ma che non avrebbero mai affrontati i pregiudizi o le opinioni degli altri, né danneggiati gl'interessi d'uomo al mondo. Da quell'ora il mio timore nell'avvicinarmi alla porta di casa Giovio crebbe in modo sino a innondarmi talvolta di ribrezzo e di freddo. Parmi che la Contessa mi veda mal volentieri, e chevostro padre ondeggi tra la stima e il sospetto, e tra l'amore per me e la prepotenza delle sue opinioni, e che si fidi e non si fidi, e che voglia e non voglia credermi. Ho quindi tentato e tento sempre di rassicurarli; e parlo della mia povertà; e svelo con troppa forza le mie opinioni, più di quello che si convenga a un uomo il quale in fondo non ha bisogno di nessuno, e non è solito di rendere conto di se stesso a nessuno, e che abborrì sempre l'ostentazione delle altrui ricchezze, e la commiserazione alla propria povertà. Ma io esco dal mio costume per persuadere ché, non volendo ingannare, mi mostro tal quale io mi sono.
Da tanti fogli già scritti e dalla mia stanchezza m'accorgo che la mia penna corre più abbondantemente di quello ch'io mi pensava quand'ho cominciato. Di quanta storia è feconda una passione infelice! Ma io vi ho narrate, se non tutte, almeno le cose e le epoche principali, perché sappiate quali affetti, quante ragioni, e quali accidenti mi hanno diretto, e perché fra non molto non vedendoci forse più, in questa lettera almeno vi resti qualche lume e qualche conforto. E il pensiero di scrivervi mi fece mantenere il proponimento di ritornare a Como, ma per l'ultima volta. Montevecchi desiderava di villeggiare sul Lago con me; ed è un anno ch'io gliel'andava promettendo: ma mi sarei sciolto dalla promessa, e sarei andato a consolarmi tra le braccia di mia madre, e a consolarla, se non vedessi, se non sentissi bisogno estremo, bisogno di dirvi ch'io v'amo, di dirvi ch'io non posso essere vostro mai: di ringraziarvi dalle viscere del cuore dell'amore che mi avete sì nobilmente mostrato, e di supplicarvi, per quanto avete di più dolce e di più santo sopra la terra, a non amareggiare i vostri parenti, a non farmi parere seduttore e sleale, a non rendermi in tutti i modi infelice. – Sì, in tutti i modi infelice! Oh se questo amore si radicasse ognor più anche nelle speranze che vi hanno fino ad or lusingata, che sarebbe mai della vostra salute, della vostra gioventù e della pace dell'anima vostra? Sento io medesimo, io, a cui le sventure e l'età e la conoscenza degli uomini insegnarono ad essere più savio, o almeno più rassegnato: io che amandovi non ebbi mai veruna speranza di possedervi, sento nondimeno tutta l'illusione, tutta la magia dell'amore: né posso starvi vicino senza perdere subito tutta la forza e la ragione che ancora mi assiste, senza dimenticare i miei lunghi proponimenti, senza quasi abborrire i principj dell'onor mio. E che sarà dunque di voi, di voi, giovine ed inesperta? Io posso trovare pretesti alla mia malinconia, e chi può forzarmi a palesarne le cause, e di chi mai posso temere le congetture? — Ma voi avete su tutte le vostre azioni, su tutti i moti del vostro volto gli occhi amorosi e severi di vostro padre; e la diffidenza reciproca andrà più sempre turbando la vostra casa. Brunetti, che pure non vi-ve perpetuamente vicino a me, indovinò che la mia tristezza nasceva da amore, e ne scrisse a vostro padre; ma Brunetti e vostro padre credono ch'io fossi innamorato a Milano: con questa idea forse i vostri parenti si fideranno di me; e io arrossisco che sieno ingannati, benché involontariamente, dall'amico mio; ed arrossirei ancor più se nutrissi in Loro quest'inganno, e ne profittassi. E spesso mi venne in pensiero disperato pensiero! — di aprire a vostro padre il mio cuore, di scongiurarlo ch'egli avesse pietà di sua figlia; di farmi giurare ch'ei non vi avrebbe né rimproverata, né compromessa con vostra madre; e di promettergli nel tempo stesso di non rivedervi mai più. – Ma posso io fidarmi della sua prudenza? e dovrò, palesando il mio secreto, tradire anche ii vostro? No, no, mia cara amica, io non lo paleserò mai: lo terrò sempre sepolto dentro di me, e lo seppellirò col mio cadavere. Ma e voi pure, voi pure tacete per sempre; badate di non abbandonarvi all'altrui fede, e di non fondare speranze su l'altrui consiglio, o su la compassione interessata degli uomini. Non vedete come io stesso stava per tradire il nostro più caro secreto? Non lo tradirò mai, ve lo giuro per le nostre sventure: se ogni nostra salute dipende dal sacrifizio della nostra passione, ogni nostro onore è riposto nella religione di questo secreto. Finché la piaga gronda sangue nel cuore, noi dovremmo dolerci; ma s'ella è svelata, se la malignità correrà ad esulcerarla con la sua mano velenosa, allora noi saremmo obbligati a reprimere i nostri sospiri, e ad arrossire più per altrui calunnia che per nostro fallo.
E come chiedervi in moglie, come sperarvi da' vostri parenti? Io non sono nobile, e voi vedete quanto profonda sia nella vostra famiglia, quanto superstiziosa e invincibile la stima a ogni titolo, a ogni idolo, a ogni ombra di nobiltà; ostacoli insormontabili. a cui si aggiunge l'avversione di vostro padre e della Contessa a' miei principj religiosi e politici. Rido spesso delle opinioni mortali, e talora le compiango negli altri e in me stesso; ma in questo caso io mi vedo in obbligo di rispettarle, perché affliggerei persone che in siffatte opinioni ripongono tutta la loro felicità, e perché parrebbe ch'io non le combattessi che per mio proprio interesse. E quando voi persisteste a volermi, io fremo pensando alle minacce, a' rimproveri, alle preghiere de' vostri genitori per distorvi da un matrimonio che li farebbe infelici. Ho nella mia fantasia le ciarle e gli scandali del mondo; presento il vostro immenso dolore in tanto combattimento, e verserei sin d'ora tutto il mio sangue per evitare a voi e a' vostri parenti tanta disgrazia, e a me tanta infamia. Ma se anche disprezzassi questi riguardi, posso io violare que' principj che ho santificati in me stesso con trenta e più anni di sacrifizi e di stenti? Sposerò una giovine creduta ricca, mentr'io sono certo di essere povero? Mi fiderò degl'impieghi e del favore delle corti per mantenerla negli agi in cui fu sempre educata? E gl'impieghi non gli ho già perduti? e quelli che mi possono essere dati, non sarebbero sempre in procinto d'essermi nuovamente ritolti? E che mai posso sperare dal Principe, io che non ho fatto mai nulla di ciò che i Governi esigono dagli scrittori, e che se ardisco difenderlo da' suoi nemici in privato, non ebbi mai la bassezza di adularlo d'innanzi al pubblico? E quando pure per amor vostro cangiassi carattere e m'avvilissi, non perderei la stima del mondo, e voi forse non sareste accusata di avermela fatta perdere? — E dove, e in che casa vi condurrò io, traendovi dalla vostra? Dopo venti anni di domestiche avversità io, di fanciullo ricco, mi vedo uomo povero; e questa è forse la prima volta che l'anima mia geme contro la fortuna: ma ormai conosco che per sostentarmi liberamente e onestamente non posso fidarmi che agli ultimi avanzi del naufragio della mia casa; e questi pure dovrò offerirli a una sorella che fu moglie mal avventurata; dovrò forse un dì sostentare la vecchiezza di mia madre, che d'ora in ora rischia di mancare, per la distanza de' luoghi e per l'ostinazione della guerra marittima, del frutto de' suoi beni nelle isole venete. Scarso dunque ed incerto è ciò che possiedo, e il mio solo tesoro sta nella filosofia insegnatami dalle lezioni della sventura. Ma sarei crudele se pretendessi filosofia da una giovinetta; sarei imprudente se la promettessi. Oh, mia cara amica! Certe virtù sembrano facili fuori dell'occasione; ma, pur troppo, non si possono esercitare senza molti anni di sudori e di prove. E quando pure voi sopportaste senza lamentarvi, io sentirei rimorso della vostra rassegnazione, io gemerei del vostro amoroso silenzio, perché in tante privazioni mi sembrereste infelice, malgrado le doti che la natura e la fortuna vi concedevano per la felicità di vostro marito e de' vostri figliuoli. — E s'io morissi, chi educherebbe più i vostri figliuoli? con che impieghi più, con che mezzi? Vedova misera per mia cagione, condurreste i vostri orfani a limosinare alla porta de' vostri parenti.
Non posso più — non mi regge più né la testa, né il polso.
L'anima mia ha fatto l'ultimo sforzo, e le lagrime mi grondano sulle parole che scrivo col sangue del cuore. Addio: ascoltate per carità i consigli del vostro misero amico: abbiate pietà delle sue preghiere; obbedite a' vostri genitori, che non vorranno mai farvi infelice; sacrificatevi alla virtù, unica consolazione delle disavventure: le passioni passano, ma le sciagure restano perpetue nella nostra vita; e se non possiamo evitarle, non dobbiamo almeno esacerbarle co' nostri rimorsi, e renderle irremediabili. Io vi amerò sempre, ve lo giuro dal profondo del cuore, vi amerò sino all'estremo sospiro; e giuro sull'onor mio di non ammogliarmi finché voi non sarete d'altri. Se l'infermità, se gli anni, se gli accidenti vi rapiranno la beltà e gli agi; se sarete padrona di voi, se sarete disgraziata; se vi mancasse nel mondo un marito, un amico, io volerò a voi: io vi sarò marito, padre, amico, fratello. Ma non sarete mia moglie finché potrò comparire vile d'innanzi a me, seduttore verso i vostri parenti, e crudele con voi. Addio con tutta l'anima, addio.
Nota
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[1] Villa Olmo, sulla strada da Como A Cernobbio