PROEMIO
Rispetto alla dedica del
libro, io la offro a me stesso. Ed è questo, dacchè mi son posto a cucire la
mia Odissea, l'unico pensiero veramente commodo, e pronto. Non mi costa un
minuto di sì, di no, di ma; e mi risparmia la fatica e il
rossore di scrivere una dedicatoria. Ond'io posso dal mio canto risparmiare e
al mecenate e al lettore due pagine per lo meno di noja. Le cose tra me e me si
passano in confidenza. D'altronde de' miei avi, bisavi e proavi non saprei che
mi dire; non li conosco. Potrei rimediare a questa ignoranza, e al vuoto della
carta col mio panegirico: ma non si può nè si deve, e l'ipocrisia lo proscrive
assolutamente; e poi... chi crederebbe? – Biasimiamoci. Progetto nuovo e in
salvo dalle mentite. – Ecco per altro violate le regole, e la mia dedicatoria
non sarebbe più una dedicatoria.
Nondimeno bisogna
confessare che il libro è mutilato.
Vittoria, lettore!
m'alzo a mezzo il pranzo per non lasciarmi scappare il più bel pensiero del
mondo. La dedica sarà scritta o dall'editore, o dallo stampatore, o dal
librajo, o da un amico, o da qualche letterato, o da... – odore di rancidume!
Dovrete dunque sempre,
vergini muse, baciare la mano della ricchezza che offre sprezzatamente un tozzo
di pane al vostro sacerdote?[1]
Lettore, finiamola; tu
m'hai fatto tastare una certa corda... – ed io non ci vo' più pensare: non ci
pensar nemmen tu.
Ma lo stampatore per non
caricarsi la conscienza del pentimento de' compratori che crederanno di
portarsi a casa il libro con tutte le adiacenze e pertinenze, aggiunga nel
frontespizio a lettere maiuscole: Vi sarà l'epigrafe; non la dedica: Chi la
vuole se la scriva.[2]
1.
Il mio cavallo andava di
passo per la via dell'Apennino, e il mio cane mi seguitava.
“Addio, addio beato
paese ove la fortuna mi avea fatto obbliare per alcun poco le miserie dei
mortali!” Il mio cavallo intanto si fermava perch'io potessi rivolgermi, e salutar
da lontano i colli di Bologna, e la mia solitudine, e te, o Luigi, che forse
parlavi secretamente di me.
Il nominarmi era
delitto. –
E te e te... deliziosa
fanciulla che allora, chi sa? non ti accorgevi nemmeno più ch'io ti mancassi.
Ma.... addio! – il
destino forse mi ricondurrà più felice e più saggio. – Ma.... conviene dunque
ch'io beva la saviezza nel calice della sventura? Sia: quand'io sarò stanco
della burrasca il naufragio sarà sempre pronto. Addio dunque. Che se mai, se
mai non mi vedeste più.... e se....
2.
Se….–
Conviene per altro ch'io
mi faccia conoscere a tutti quelli che non mi conoscono. Io dunque sono uno
strumento fatto per ogni tuono, e appunto appunto per modulare le transazioni.
Nel momento de' miei Addio
un reggimento di Usseri trottava verso la Toscana. Il mio cavallo era normando
di razza, di alta taglia, bajo dorato, coda all'inglese, ampio petto, gambe
snelle, collo e testa marziale... e v'era da scommettere cento contr'uno che
nelle prime campagne della guerra presente egli avesse avuto il nome, le
funzioni e le qualità di Bajardo. Vero è ch'egli avea bisogno d'una valdrappa
assai larga che gli coprisse la groppa; e se si deve credere alla cronologia
de' cinque compratori che mi hanno preceduto, egli non contava che sedici anni....
più o meno..
Ma gli si leggeva per
altro e nella fronte e nel portamento Storie de' prischi tempi e forti fatti;
onde è naturale che il trottar degli altri cavalli gli abbia ridestato la
memoria delle antiche battaglie, e il pizzicore di farsi apprezzare. Aggiungi
la mia divisa militare, la mia lunga scimitarra, e un gran pennacchio che mi
ondeggiava sopra il cappello....
Insomma il mio cavallo
cominciò prima a corbettare e poi a gareggiare di trotto. Lo dirò? Mi sono in
un momento passate dalla testa le care e meste memorie – io precedeva la
cavalleria arieggiando il valor di Rinaldo, non parlando più ai colli di
Bologna i quali ad onta de' miei saluti patetici non m'avrebbero mai dato
risposta.… così almeno credo.
Perch'io reputo meno
degenerata la schiatta de' cavalli che de' cavalieri. I nostri eroi stanchi
delle strane avventure movono guerra, e vincasi per fortuna o per ingegno,
all'opulenza e al piacere: ed offrono in tributo alle Dulcinee una parte della
conquista. E qual Venere mai oserebbe appressarsi all'alloro se non sentisse da
lungi l'odore del mirto intrecciato e lo splendore del...
Ma voi, signor generale,
m'intendete senza ch'io vi annoj di più, e mi credete senza ch'io giuri. – Ve'
nondimeno un dubbio insolente: vi sono stati mai degli Eroi? – non vi
corrucciate, vi prego, questo sia per non detto.
Un pensiero per altro
rovescia tutte le riflessioni precedenti, le quali si potrebbe far a meno di
leggere. Dico dunque che la cavalleria di que' generosi erranti non ha potuto
mai esistere.... se non come la sovranità popolare.... ed eccone la ragione.
Non si legge mai ch'essi
avessero dell'oro.
E non so come... non
sieno stati cacciati dai castellani dov'essi albergavano a spese dell'aria. Non
v'è dunque oggetto di comparazione fra i Paladini e voi, signor Generale. – Ma
con gli Eroi di Plutarco? Appunto appunto. Se non che la più gran parte di que'
grand'uomini erano nati ricchi; e voi che lo sapevate, vi siete arricchito da
voi stesso....–
Fra tanto e tanto è vero
egualmente.
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Ma così svagandomi mi
sono obbliato di dirti che ho veduto il tuo B.... – Mi accolse di buon cuore;
forse perchè non ha sospettato della mia trista fortuna – o forse ancora per lo
stato cadaverico in cui lo aveva lasciato una febbre maligna che non gli
permetteva ancora di respirare il libero soffio dell'aria. Gli uomini non
perdono l'orgoglio se non con le forze. –
– Io torno dalla soglia
della morte – mi disse fievolmente porgendomi la mano tremante.
Quel giorno mi sono
guardato di nominarti.
Io avrei toccato nel
cuore del povero malato una corda la di cui vibrazione non avrebbe cessato sì
tosto.
A PSICHE
Che fai, deliziosa
fanciulla? – Io credeva che il tuo cuore volando dietro a' piaceri non si
ricordasse più del suo Lorenzo. Tu non sei sventurata, [non][3]
sospiri con me la perduta felicità. Una mesta illusione ti chiama sovente nella
mia solitudine. Io ti parlo e mi faccio rispondere. Talvolta rammentandomi le nostre
ore di paradiso ti mando de' baci; e mi sento su le labbra una certa fresca
soavità come se tu m'avessi baciato in quel momento. E ieri io mi alzava dal
letto salutandoti: “Addio, addio, piccola Deità: tu forse non sai, nè
t'importa, s'io vivo.” Ma verso sera la tua lettera mi ha rimproverato i miei
sospetti; ed io l'ho bagnata di lagrime riconoscenti.
Buon giorno dunque. Che
la tua bellezza e la tua gioventù sorridano sempre come l'aurora di questa
mattina. Sempre? – Cielo cielo, abbi pietà della mia giovinetta!
Che ti dirò intanto? – I
miei mali?.... no: la tua compassione sarebbe un balsamo, è vero, al mio povero
cuore; non sarà però mai ch'io voglia avvelenare la pace e la voluttà fatte per
la tua anima angelica, e per la tua sacra bellezza.
Tu vuoi nondimeno ch'io
ti scriva quello che ho imparato nel mio viaggio. Innocente! Gli uomini son
tutti bassi con la ricchezza e orgogliosi con la povertà. Ciascuno è scellerato
quando il proprio interesse non lo strascini a offrire delle ippocrite
adorazioni a quel fantasma che la società cui torna d'ingannarsi, e
d'ingannare, chiama pomposamente virtù. – Ecco tutto.
Ma io scrivo a te, e non
alla ippocondriaca filosofessa che comincia finalmente a moralizzare.... e ne
appello ai vecchi amici di casa tornati nella grazia di madonna dopo l'ingrato
abbandono. – Cura per altro di non nimicartela. Le antiche galanti sono per lo
più di buon cuore e cercano per le altre quello che hanno perduto con la
giovinezza fuggitiva.
Ascolta. Le donne belle
sono nate per amare, e per essere amate. E tu forse mi dici sorridendo: lo so
meglio di te. Bada; ancora non t'avvedi che mille basse passioni e il cieco
delirio dell'amore turbano quasi sempre le delizie del piacere. Imita la
celeste Temira. A questa sacerdotessa di Venere ho consacrato le primizie della
mia gioventù. Ella amava le buone qualità delle donne, e sfuggiva senza
maldicenza i lor vizi. Ammirava in taluna lo spirito, in tal altra il cuore, in
questa la gioventù, in quella i vezzi, ed ammirava tutti questi doni in sè
stessa... Ma non n'era avara per questo. Viveva e lasciava vivere. Il mistero
apriva e chiudeva le cortine del suo letto: – il mistero; intendi? – Era amante
per cinque giorni, ma amica per tutta la vita.
Era un dopo-pranzo
d'estate. Ella stava ignuda sopra il suo letto. Appoggiava il gomito sui
guanciali, e la testa alla palma della mano. Io le giaceva vicino ancora
anelante, e appena uscito dagli arcani ove la Dea mi aveva iniziato. Mi
accarezzava scherzando; ed io alzava di tratto in tratto la testa e la baciava
quasi per ringraziarla libando dalle sue labbra i respiri per i quali ella
rinveniva a poco a poco dalla sua voluttuosa agonia. Il desiderio intanto
calmato ma non estinto mi porgeva il nettare del piacere; ed io lo assaporava a
piccoli sorsi. Le mie mani e i miei sguardi erravano qua e là estatici su
quelle bellezze che l'impeto della passione m'avea dapprima mostrato
confusamente. La sua bocca umida e socchiusa, la fisonomia passionata, gli occhi
più azzurri che mai nuotanti in un languore voluttuoso; le guance impallidite e
rugiadose di sudore; le chiome sparse in onde dorate su le braccia su le spalle
e sul petto; le poppe lievemente sommosse dai palpiti del cuore.... Eterno
Iddio! perchè hai scolpito così tenacemente nella memoria la felicità che tu
tu... m'hai rapito per sempre?
Oh! – ma la mia
curiosità mi teneva sospeso su le sue forme. – Da quel giorno l'anima mia ha
sempre filosofato sul bello, e ha sdegnato i vezzi troppo comuni di tant'altre
donne. –
La mia mano scorrea
mollemente per le sue membra bianchissime incarnate di rosa. . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Piccolo birichino, disse
Temira baciandomi, e sorridendo della mia ingenuità. M'ami tu dunque? Io
la guardai. Fedelmente? replicò Temira, che avea sentita tutta
l'eloquenza della mia occhiata.
S'io t'amo, s'io
t'amo?... esclamai.
“Oh in questa età,
proruppe Temira abbracciandomi, solo in questa età gli incensi degli uomini
sono puri. Allora soltanto noi respiriamo per un momento il profumo delicato
del candore e della fedeltà.... ma.... un momento!”
“Io, proseguì, stava tra
il sì e il no sul pensiero d'offrire io medesima il tuo primo sacrificio alla
natura. Temeva di aprire al tuo cuore inesperto ed impetuoso la via del
dissipamento. Io già sentiva il rimorso di sviarti dalle utili discipline e di
rapirti gli amabili vaneggiamenti di un amore non ancora conosciuto.... ma
d'altra parte mi parea di vederti strascinato dalla prepotenza del tuo naturale
a comprare i baci da una bocca affannata[4],
guastando la tua salute e la tua gioventù. Talvolta ti sentivo a piedi di una
superba maledire l'amore, e gemere respinto e sprezzato. Le donne virtuose nei
sospiri de' loro amanti sfortunati non altro alimentano che una perfida
compiacenza – vien dunque, vieni. Gli abbracciamenti d'una donna che t'ama
t'ammaestrino nel vivere e t'allontanino dal vizio.”
“Bada!... non
innamorarti!”
(Oh! avessi creduto a
Temira. Non avrei tentato di offrire a' tuoi piedi, o Teresa, il mio cadavere
senza neppure la speme di una lagrima. Ma.... così è: ho dovuto sempre bevere
la saviezza nel calice della sventura. Io ti sarò amico sino all'ultimo fiato;
ma.... amarti! Non più mai! Io fuggo le memorie della tua bellezza e della tua
crudeltà, simile a un'ombra lamentosa....)
“Cogli i favori
delle belle donne, come i fiori delle stagioni.”
“Se il cielo ti darà una
sposa, dividi con essa tutta la tua felicità, e dividi con essa nelle disgrazie
il pane e le lagrime. Amatevi, e se vi fosse concesso, amatevi eternamente. Ma
questo amore se lo hanno riserbato i Numi. Ancor non è poco se due amanti,
spenta la passione, non s'odiano. Prevenite con nuovi amori gli ultimi giorni
di una passione languente che cede sempre il loco alle furie della gelosia e
dell'onore. La tristezza, il sospetto, e il tradimento passeggiano sempre
intorno il letto di due sposi gelosi. – Non vi rapite la sacra amicizia, unico
balsamo all'amaro calice della vita. L'amore perfetto è una chimera; il
desiderio fa beati alcuni momenti, e l'amicizia conforta tutti i tempi e
contenta tutte l'età. Va', mio ragazzo. Te' un bacio: non mi giurar fedeltà;
ch'io nè lo credo nè lo voglio.”
O Psiche! v'era nel
tempio di Venere un voto con questa iscrizione: Non amo più Tirsi: nè ti
prego, o Dea, d'amarlo ancora: fa' che Dorilo m'ami.
Io voleva insegnarti le
lezioni della mia precettrice fino dal giorno che ti ho detto mi piaci.
Ma chi osava rapire al piacere le prime ore furtive appena appena sfuggite al
sospetto del tuo geloso marito? Tu scrivi pertanto ch'ei s'è corretto. Buon per
lui. Che il cielo e la buona fortuna glie ne rendano il merito. Tu se'
giovinetta, egli vecchio, prenda dunque quello che può, e che per giustizia non
gli viene: la natura in fine de' conti si ride delle leggi ippocrite della
società; basti per lui che tu conservi ancora le immagini della virtù e
dell'amore. Poche mogli fanno altrettanto.
Io non so, birichina,
s'egli fu il primo a cogliere il primo boccio di rosa della tua primavera.
Sorridi? non vo' saperlo; ma non potrei giurare nè per il sì nè per il no.
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. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . torna a lusingarmi con la sua voce che passa tra il fremito delle tarde
generazioni e rompe co' suoi raggi che a me sembrano eterni la caligine de'
secoli remoti. Tutte le mie potenze e i bisogni stessi della vita non parlano
allora in me che con un rispettoso mormorio. Il solo pensiero che il mio nome
sarebbe sepolto col mio cadavere mi distolse due volte dal mio vecchio
proponimento di ingannare la fortuna, di liberarmi dalla noia del mondo e di
contentare la umana malignità rendendo questa misera vita alla terra.
L'ambizioso ha l'anima gonfia, non elevata. Non ho mai brigato il fumo della
letteratura, nè i ricamati vestimenti de' nostri magistrati. E più che l'amore
della virtù, il timore dell'avvilimento mi ha rattenuto sovente da quelle
azioni che la società chiama delitti. Ma s'io... – non forza politica[5]
umana, non prepotenza divina mi faranno rappresentare su questo mortale teatro
la parte del piccolo briccone. – Da questo che ho detto avrai desunto, spero,
quello che non posso dire. Bensì... – Lo dirò? Sogno talvolta di nuotare alla
gloria per un mare di sangue. Or tu puoi desumere ciò ch'io non posso dire.
Un pari accesso avea non
ha guari abbattute le mie facoltà. Io aveva esiliato dal mio ingegno le vergini
muse, e dal mio cuore il dolce spirito dell'amore. Addio patria, addio madre,
addio cara e soave corrispondenza di pacifici affetti. Pareami di consacrare
alla libertà un pugnale fumante ancora nelle viscere de' miei congiunti, e di
piantar la bandiera della vittoria sopra un monte di cadaveri. La mia fantasia
scriveva frattanto il mio nome sulle volte dei cieli. Ma io mi sentiva rodere a
un tempo dalla fame di gloria, l'ulcera sorda del supremo potere. Se non che la
disperazione di conseguirlo[6]
prostrò l'anima mia, la quale giaceva aspettando il soffio distruttore della
morte.
Una notte nell'agonia
dell'infermità, mi sono sentito asciugare il sudore del volto. Schiudendo gli
occhi languenti vidi al debile raggio di una lanterna un vecchio scarno, e
coperto di un sajo sdrucito; il capo calvo, la barba canuta e divisa in due
liste. Non conosci me più, mi disse sedendo presso al mio capezzale....[7]
Con tuttociò non mi so
dar pace nell'idea di andare ognora vagabondo come un arabo, portandomi tutto
quello che ho sulle spalle. L'ora del mio ritorno è la più bella ch'io segni
sempre nel mio giornale. Conoscendo la mia e la universale scelleratezza, ho
d'uopo, per guardarmi, di sapere le leggi che mi condannano e mi proteggono [e
di avere alcune migliaia d'uomini interessate a difendermi dall'avidità e
dall'orgoglio del mio vicino][8]. Ogni
sventura che mi succede in un paese straniero mi[9] gli
antichi amici, le benedizioni e gli addio della mia povera madre e il pacifico
piacere di temprare, come suol dirsi, il verno al proprio foco. Chi è
quell'Italiano che tornando a casa non senta scendendo dalle alpi l'aria piena
di vita e di salute e non dica con lacrime di gioja: Beato colui che possiede
in questa terra un....[10] una
casa e un raggio di fortuna!
Pare che la natura ci
abbia costruito il corpo fisico per vivere solamente dove siamo nati.
Mi sovviene del povero
svizzero.
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I numi festeggiavano un
giorno in un convito celeste il ritorno di Venere da gli oracoli d'Amatunta. Le
Dive, per onorar maggiormente la loro sorella, ornarono le Grazie ciascuna del
proprio pregio. Diana concesse a una Grazia il pudore, e i mortali da quel dì
l'adorarono come la Grazia primogenita e la più bella.
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Lettore, se vuoi
terminare la lettera, salta questo paragrafo che non c'entra.
– Immergendomi in quel
laghetto, io cantava un inno alla natura ed invocava le ninfe amabili custodi
delle fontane. Illusioni! grida il filosofo. E non è tutto illusione?
tutto! Beati gli antichi che si credevano [degni][11]
degli abbracciamenti delle dive, che sacrificavano alla bellezza e alle grazie,
che diffondevano lo splendore della divinità su le imperfezioni dell'uomo, e
che accarezzando gl'idoli della lor fantasia trovavano il bello ed il vero.–
Parole dello sfortunato
amico mio Jacopo Ortis. Siegue la lettera.
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E n'abbiamo ragionato
sovente, io e l'amico mio Diogene; il quale non è poi, come si pretende, l'uomo
il più villano del mondo. Nè tutta la sua eloquenza, nè il suo esempio, che
vale assai più, mi hanno potuto mai fare cosmopolita nel cuore.... – non posso.
La mia ragione presa alle strette dagli argomenti e dalla trista verità
dell'esperienza ha detto, scuotendo appena la testa, di sì; ma il cuore –
e Diogene che lo sa ve ne attesti – è restato da quel dì malinconico, e non ha
risposto neppure un et.
Ho dormito più volte i
miei sonni pacifici su la paglia, e ho cenato allegramente sul desco della
povertà. Nelle mie meditazioni ho congedato la vita col disdegnoso sorriso di
tutti gli antichi e moderni sprezzatori di morte; non eccettuato il buon
Seneca che – sia detto fra noi – si accarezzava tremando un fiato di vita con
l'acqua ora di uno ora di un altro ruscello, e coi legumi piantati
sospettosamente dalla propria mano ne' suoi lussureggianti giardini. Ma la
patria?... Il Cielo non me ne ha conceduto; anzi ordinò alla fortuna di
gettarmi nel mondo come un dado.
Dai precedenti tomi
dell'IO che voi, madama, avete già letto, o leggerete, o sarete per non
leggerli mai – non sono ancora scritti, – saprete ch'io nacqui in Grecia, che
io trascorsi l'infanzia fra gli Egiziani, la fanciullezza nell'Illiria; la
giovinezza su e giù per l'Italia; la prima virilità in Francia, come vedete; e
il resto di vita... Dio sa!
Aggiungete che mio padre
mi lasciò erede del suo genio ambulatorio, ed io mi struggo di cercar nuove
terre per anatomizzare sempre più gli uomini, ed adorare la madre natura. – Ma
se voi, madama, leggendo sin qui le poche pagine del mio libro vi siete affezionata
all'autore, che . . . . . . .
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Mi son trovato rinchiuso
fra due montagne nere aride, circondate in tutta la loro altezza da orribili
precipizi e da abissi profondi. Presso le loro vette le nuvole erravano
lentamente fra alberi funebri... stavano sospese su i loro sterili rami.
O conquistatori, qui qui
contemplate lo spettacolo dei sterminj di cui affliggete la terra.
Le brighe della malafede
mercantile.
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Non conoscete persona
del mondo, dicevano a un tavolino due galantuomini a un uomo che avea sembianza
d'essere un viaggiatore.
No.
E che fate qui?
Passo il verno.
Bel clima questo!... ma non vi divertite.
Ho giuocato e ho
perduto.
Che fate dunque?
Passeggio.
Tutto il giorno?
Passeggio.
La sera pure?
Passeggio.
Vi annoierete
Talvolta.
E allora? diss'io, che stava in piedi, levandomi
con due mani il cappello di testa e ponendolo dispettosamente sul tavolino.
E allora, fumo.
Scuoteva intanto la
cenere della sua pipa, e s'apparecchiava a riempirla di tabacco – egli aveva
bisogno di fumare ed io di partire: i due genovesi restarono ad ammazzare il
tempo sui loro sedili; il viaggiatore si pose a fumare, ed io sono andato dove
m'è piaciuto.
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PENSIERI E
APPUNTI
Alla soave
rugiada della laude la laude fiorisce come le piante alla rugiada del cielo.
Ma spetta solo
agli uomini dabbene di lodar l'uomo dabbene.
La vita è un
epigramma, di cui la morte è l'aculeo.
Io cerco qui il
mio cuore ma non lo trovo più. – Oh mia giovinezza!
Onde, o mio confessore,
io spero che questo libro ti desterà i pensieri destati da una lapida
sepolcrale incontrata in un passeggio solitario.
Filippo
domandava alla fortuna di temperare la sua felicità con una disgrazia.
Passeggiere,
va', e di' a Sparta che noi riposiamo qui per avere obbedito alle sue sante
leggi.
Oserei definire, la
civiltà: la perfetta [arte] di fingere.
E la virtù – il secreto
di mascherare tutti i volti.
Ma o tu pure
che vinci dove tu ti lusingassi di un vantaggio su l'umanità...........–
– O mio figlio, la
natura geme al nascere di un eroe, e sorride su la sua tomba. –
Ah! ora m'avvedo che il
saggio vecchio mi ha riserbato questa illusione per non calarmi ad un tratto il
sipario ed affrettare così la mia morte.
La venerabile povertà. –
I tuoi conoscenti t'incontreranno, e torceranno gli occhi per non riconoscerti.
–
O dolci sponde, o sacre
case, o feconde campagne d'Italia echeggianti dei nostri gemiti e rosse del
nostro sangue.
Guai se tu t'abbandoni
alle prime occhiate d'un amante; lo perderai per sempre.
Di coloro che spandono i
loro tesori per disgustarsi di quanto v'ha di più bello nella natura.....–
Quelle piccole cose che
son di tanto valore, la virtù e l'amore, son parole morte, ma le loro immagini
piacciono.
Ogni uomo pare
che sia fatto per vivere nella sua patria, ed io... per abbandonarla.
La nostr'anima riceve
dalla divinità, dalla quale è emanata, una debole conoscenza dell'avvenire.
Ma s'io sono
diffidente... lo giuro per le mie tante e sì crudeli sventure... ch'io in
questo non ho altra colpa se non d'essere stato troppo ingenuo, e d'aver dato
occasione agli uomini di darmi delle lezioni sacrificandomi alla umana
malignità, e alla sociale furberia.
Il male
partecipa della natura dell'infinito, e il bene del finito.
Io mi credo più
savio di tutti poichè rispetto i misteri della natura.
L'abbondanza di
idee non è che penuria.
Scienza,
elezione e perseveranza. ecco la virtù e il delitto.
Prudenza, ecco
tutto.
I filosofi
hanno voluto gli uomini numi.
La virtù unisce
il cielo con la terra.
La nostra vita partecipa
de' principj comici e tragici; l'intreccio sono le nostre follie, e lo
scioglimento la nostra morte.
Talete rispose a quei
che [gli domandò che] ci vuole per esser felice: sanità, ingegno e fortuna.
L'eccesso de' piaceri è
l'unico ristoro ai popoli fatti vili e infelici dalla tirannide.
[1] Variante in margine del ms.: E l'impostura sarà sempre.... di voi, vergini muse? Non è poco se la ricchezza offre sprezzatamente un tozzo di pane al vostro sacerdote.
[2] Il Carrer fa seguire questa dedicatoria dall'avvertimento: “Il libro che sta tra le mani del candido lettore è il sesto volume dell'IO, opera annunciata nel paragrafo precedente, che n'è il proemio universale. Mando innanzi il sesto perchè gli antecedenti volumi stanno ancora nel calamaio, e i futuri nel non leggibile scartafaccio del fato. Nè si sospetti che io stampi un tomo alla volta per tastare il giudizio del pubblico. Con pace della critica e del disprezzo, proseguirò sempre a scrivere ed a stampare. Ma perchè scrivi? A ciò ho risposto nel proemio inseritovi ad hoc. Che se poi non avete voluto nè saputo valutare le mie ragioni, eccomi presto a darvi la risposta che di pieno jure vi si spetta. - Poichè lasciate suonare il piffero a chi volendo ingannar la sua noia disturba i vicini, non v'adirate s'io, che non so suonare alcuno strumento, tento d'ingannare i miei giorni perseguitati ed afflitti. - E perchè stampi? - E perchè compri? D'altronde si può comprare e non leggere. E qui potrei citare le biblioteche di N.; ma poichè sono state saccheggiate dagli agenti nazionali, mi trovo forzato a citare quelle dei finanzieri, dei generali, dei nobili e di qualche letterato. Vuoi più? Tutta questa rispettabile ciurma potrà persuadervi ab experto che si può comprare, leggere e non intendere. Fuori di scherzo. Vedimi ginocchione per confessarmi a' tuoi piedi, tollerante conoscitore dell'uomo. Il proponimento di mostrarmi come la madre natura e la fortuna mi han fatto, fu un po' d'ambizione, lo so; ma ti giuro che non sono mai stato ambizioso. Ho sentito, lo dico arrossendo, ho sentito e sento (lascia prima ch'io mi copra colle mani la faccia), ho sentito una febbre di gloria che mi ubbriaca perpetuamente la testa. Nella mia adolescenza le ho sacrificato la quiete della casa paterna e la certezza del pranzo giornaliero; i miei piaceri, i miei vizi, le mie passioni, il mio cuore, e perfino le mie speranze. Ora non ho altro, sono, quand'ella il voglia, sua vittima. È vero ch'io spoglio talvolta questo fantasma della porpora e della tromba, e allora vedo in lui uno scheletro che traballa sull'ossa ammucchiate dei cimiteri, si dissolve e si confonde fra le altre reliquie della morte.”
[3] Questo non, richiesto dal senso, manca nel ms.
[4] Così il ms.: forse è da leggere: affamata.
[5] Le parole in corsivo sono cancellate nel ms.
[6] Il ms. ha: conseguirli.
[7] Seguono alcune parole inintelligibili nel ms. Il Bianchini crede che possa avere qualche relazione con questo frammento il pezzo riportato dal Carrer (Vita di Ugo Foscolo) a pag. 399 e 400, che ora non trovasi più nel manoscritto: “Non dormo, diss'io sospirando profondamente e volgendomi dal suo lato, non dormo. Aspetto qui il sonno eterno. Ma tu che cerchi da me? - Ed egli: O mio figliuolo, tu hai negletto la fortuna, perdute le delizie della vita, consumata la gioventù, e invece di pentirti, ti vai divorando quel poco d'ingegno che ti resta e che può solo acquistarti la gloria, e il cui cieco desiderio ti ha ridotto a questo deplorabile stato. Il mio volto si rasserenava al suo dire, ma quest'ultime parole, destandomi pietà di me stesso, mi trassero una lagrima. Avvedutosi ch'io mi sforzava di alzarmi sulle braccia, rizzossi per aiutarmi; s'assise poscia, e sostenendomi il capo con la palma della sua mano, proseguì: La stima degli uomini grandi spetta, per lo più, tre quarti alla sorte e un quarto ai loro diritti. Il volgo giudica, più che dall'intento, dalla fortuna. Aggiugni che gli amori della moltitudine sono sempre brevi ed infausti.”
[8] Le parole chiuse nella parentesi quadra sono scritte in margine, ma senza nessun richiamo.
[9] Qui è da sottintendere: ricorda, o simile parola.
[10] Qui sono nel ms. tre o quattro parole inintelligibili.
[11] La parola degni manca nell'autografo.