EPOCHE DELLA LINGUA ITALIANA  

Ugo Foscolo

 

Edizione di riferimento

Opere di Ugo Foscolo, a cura di Mario Puppo, Mursia editore, Milano 1962

PREFAZIONE

Molti hanno scritto intorno alle doti che distinguono la lingua italiana da tutte le antiche e moderne. Pochi, per quanto sappiamo, ne hanno trattato con critica, in guisa da far discernere come e quanto essa lingua sia stata fin ad oggi applicata all’eloquenza, alla poesia ed alla letteratura in generale degl’Italiani. Finalmente nessuno ha considerato filosoficamente le origini, le epoche e la formazione di essa, a fine di conoscere per via d’analogia i principi, i progressi oscurissimi delle formazioni e trasformazioni di tante altre lingue. Infatti, chi potesse rintracciare si fatte trasformazioni saprebbe quando la terra fu gradualmente popolata, e come il genere umano fu diviso e suddiviso in differenti nazioni. I patti reciprochi delle società umane si creano e mantengono unicamente per mezzo della parola; e gli uomini, che a cagione della diversità delle loro lingue non si possono intendere fra di loro, si dividono naturalmente sotto leggi diverse. Alcune nazioni che, abitando opposti climi ed emisferi con leggi e governi tutti propri e differenti, parlano ad ogni modo la stessa lingua, sono colonie recentissime di altri popoli; ma tardi o tosto la lingua della madre patria dovrà necessariamente alterarsi in guisa che diviene, se non un’altra lingua, certamente un altro dialetto. Il che appare evidentemente nell’immenso tratto d’Europa dove si parla la lingua illirica, e dove i Russi, i Boemi e i Dalmati, originari dello stesso suolo, e serbando pur tuttavia le radici di uno stesso idioma, non possono intendersi senza interprete. Così verrà tempo in cui le vicissitudini della terra e le continue alterazioni delle lingue faranno che i dizionari dell’Inghilterra e dell’America settentrionale offriranno la differenza stessa di suoni e di significati che oggi si trova nella lingua italiana e nella francese, che pur sono evidentissimi dialetti del latino, ch’era inteso e parlato in tutti i paesi ove i Romani stabilirono e mantennero per più secoli le loro conquiste. Le alterazioni nondimeno e la metamorfosi di una in un’altra lingua succedono per così minimi gradi, e insieme con tanta velocità, che riesci sempre oltremodo difficile di tracciare il processo del cambiamento; e finché le lingue sono più popolari che letterarie e più parlate che scritte, le loro mutazioni trascorrono impercettibili dalla bocca dell’avo e del padre a quella del nepote e del figlio; quindi il poco che noi sappiamo dell’origine della lingua greca è sì destituito di fatti positivi, che la questione, dopo anni infiniti e volumi di dispute, rimanesi tuttavia fra’ termini delle speculazioni metafisiche, per la ragione che la lingua o le lingue da cui derivò la greca ci sono del tutto ignote. Bensì sull’origine della lingua latina abbiamo maggiori nozioni non solo dalla quantità immensa di radici e vocaboli greci, ma ben anche dalle terminazioni; così dalle lettere e suoni dell’alfabeto, dal sistema metrico e dalla prosodia comune a’ Greci ed ai Latini. Pure, mentre sappiamo come il latino si perfezionò continuamente imitando il greco, ignoriamo tuttavia in quali guise il greco cominciò a trasformarsi in latino.

Le lettere, le arti e le scienze trapiantate dalla Grecia in Italia, le conquiste e la legislazione del popolo romano ampliate e diffuse resero la lingua latina universale in Europa; e le invasioni de’ popoli settentrionali la trasformarono in alcune delle nuove lingue che oggi si parlano e scrivono. Pensi la lingua latina, innanzi che divenisse italiana, francese e spagnuola, trapassò per cambiamenti graduali e infinite vicissitudini, durante l’era del medio evo; tanto più difficili a conoscersi, quanto che fu l’epoca della barbarie e della ignoranza e della servitù del genere umano europeo. Molte tracce restano pur nondimeno visibili anche fra le tenebre di quei secoli; se i fatti somministrati dalla storia e accertati dalla critica saranno applicati ai principi generali che la natura segue invariabilmente, né mai produce gli stessi effetti da diverse cause, noi forse, esaminando l’origine, le epoche e il genio della lingua italiana, riusciremo a stabilire alcune norme o certe, o probabili almeno, a scoprire il metodo che le lingue seguono a operare le perpetue lor metamorfosi. E preferirem la lingua italiana, come quella che è di data più antica fra tutte le viventi, e quindi somministra più numero di fatti, e una più lunga serie di annali letterari. La grammatica, l’ortografia, e per conseguenza la pronunzia, e tutte le parole e frasi della lingua italiana sono oggi, con rare e irrilevanti eccezioni, precisamente quelle medesime che si trovano non solo nelle prose di Dante, ma di scrittori che vissero innanzi a lui. E vi sono lunghi tratti di poemi, e pagine numerose di storie del secolo XIII nelle quali non s’incontra un unico vocabolo che gli scrittori viventi a’ dì nostri non possano usare senza la minima taccia di affettazione. Gl’Inglesi e i Francesi che scrivevano a que’ tempi, ed anco posteriormente, non sono intesi; né le lingue antiche subirono minori variazioni. Il vocabolario d’Omero e de’ tragici ateniesi e de’ poeti de’ Tolomei non sono gran fatto diversi; ma le diversità grammaticali e ortografiche son pur tali e tante, che costituiscono altrettanti differenti dialetti. La ragione universale adottata della divisione della Grecia in parecchi piccoli stati, che serbarono la pronunzia peculiare a’ loro antenati, e quindi ne vennero i vari dialetti, non fa molto al proposito. Perché i Romani non ebbero sì fatte divisioni, e nondimeno la latinità di Ennio, di Lucilio e dei frammenti degli annalisti della repubblica è diversa molto da quella di Virgilio, d’Orazio e di Livio. Né da Ennio a Virgilio corsero più di dugento cinquant’anni, mentre dall’età de’ primi libri grammaticalmente scritti in Italia sino a’ dì nostri se ne contano più di seicento, e, paragonati con la lingua scritta oggi, presentano il fenomeno di pochi e appena visibili cambiamenti essenziali. Se sì fatto fenomeno fu talvolta osservato, certamente non ne fu mai non che data, ma neppure tentata la soluzione. E noi ci proveremo più volentieri, in quanto che noi, sciogliendolo, avremo l’occasione di manifestare alcune idee forse nuove, desunte, a quanto speriamo, dalle nozioni generalmente adottate intorno alla lingua e alla letteratura d’Italia. La storia di una lingua non può tracciarsi se non nella storia letteraria della nazione; né la storia può somministrare fatti certi e fondamentali a trovare in materie intricatissime il vero, se non per mezzo di epoche distinte, in guisa che le cause non diventino effetti, e gli effetti non sieno pigliati per cause. E a noi parrà di scrivere brevemente se, per conoscere a fondo l’origine, le vicissitudini e il genio della lingua italiana, spenderemo poche pagine per ogni secolo degli annali letterari d’Italia.

PRINCIPI  DI  CRITICA  POETICA

CON SPECIALE RIFERIMENTO

ALLA LETTERATURA ITALIANA

Nel dare principio alla serie de’ discorsi intorno alla storia letteraria, ed a’ poeti d’Italia, giudico cosa necessaria, quantunque forse non dilettevole, di premettere l’opinione mia su l’origine della poesia fra gli uomini. —

Tutti i ragionamenti su la poesia in generale, e quindi tutti i giudizi intorno alle qualità ed ai gradi di merito di ogni poeta di tutte le età, e gli infiniti canoni e teorie degli antichi retori e de’ moderni metafisici si sono sempre fondate su l’osservazione: «Che l’uomo animale essenzialmente imitatore, e l’origine della poesia manifestamente ed unicamente ritrovasi nella naturale tendenza che l’uomo ha di riprodurre ogni cosa per mezzo d’imitazioni ». Da questa osservazione, che realmente trovasi in Aristotele, sgorgò la conseguenza che gli fu attribuita, e commentata in mille volumi: « Che la poesia non è che imitazione della natura, e che i poeti eccellenti sono soltanto quelli da’ quali la natura è fedelmente imitata ».

In quanto all’osservazione « che l’uomo è animale essenzialmente imitatore » noi la crediamo vera in sé stessa, ma non in tutto applicabile alla poesia; e quanto alla conseguenza, « che la poesia non è che imitazione della natura » noi la crediamo più falsa che vera.

Ad ogni modo da che tanto il principio quanto la conseguenza sono, per così dire, santificati dalla tradizione di molti secoli, e dal consenso universale degli uomini dotti; io, se non mi vedessi stretto dall’obbligo, non mi attenterei neppure d’accennare i miei dubbi intorno a questa teoria, e la lascerei nel possedimento dell’autorità che gode da tanto tempo. Perché io temo che l’indagare l’origine delle facoltà umane e dell’arti intellettuali non sia le più volte uno de’ mille tentativi più ambiziosi che utili, ne’ quali i mortali spendano l’ore e l’ingegno: e credo fermamente che l’uomo sia creato per tentare di conoscere non le fonti della sua esistenza, non la natura delle sue facoltà, non i principi delle arti; bensì per trovare e seguire il modo migliore a giovarsi delle facoltà, delle arti e della vita, onde ricavarne il maggior piacere possibile per sé stesso, e la maggiore possibile utilità per la communità de’ mortali. E però, non solamente in quasi tutto ciò che spetta la politica e la morale, ma ben anche in tutto ciò che riguarda le dottrine letterarie, i prudenti diriggono le loro azioni e l’ingegno piuttosto a norma della esperienza de’ fatti, che secondo la specolazione di teorie, quantunque forse innegabili. In fatti anche nelle scienze astratte una verità sola utilmente applicata giova più di mille altre dimostrate evidentemente, ma non applicabili. Ma appunto la nozione che l’uomo è animale essenzialmente imitatore, e che per conseguenza la poesia dev’essere fedele imitazione della natura, nozione la quale da principio era una metafisica specolazione, fu considerata coll’andar del tempo un assioma; e fu quindi, e segue ad essere anche al dì d’oggi applicata con una specie d’implicita fede tradizionale. Ma se il principio, come pare a me, non è vero, l’applicazione non può riuscire se non dannosa; cd io avendo adottato principio diverso, i miei particolari pareri su’ poeti devono necessariamente discordare da’ giudizi oggimai pronunciati di molti critici. Per evitare dunque la taccia d’ambiziosa novità e d’affettata stranezza di opinioni, a me corre l’obbligo di manifestare innanzi tratto per quali ragioni io dubito della verità della comune teoria intorno a’ principi primitivi della poesia, c con quali nuove norme io desumerò i miei giudizi su i poeti.

L’universale dottrina « che la poesia non è che imitazione della natura: » originò primamente da una delle tante opinioni che vennero poi venerate con religione, interpretate ed applicate in mille maniere, perché s’è creduto che Aristotile le avesse pronunciate in via d’oracolo; quando in fatti egli non le avea che enunziate vagamente, e quanto bastava all’oggetto particolare ch’egli aveva scrivendo.

Il nominare Aristotile in altri luoghi fuorché nelle scuole è oggimai considerato pedanteria; e nondimeno molte delle sue opinioni, in parte giuste ed in parte false, continuano a vivere ed a regnare, e sono spesso l’unico fondamento di molti critici che nel tempo medesimo arrossirebbero di citare la sua autorità.

Le vicissitudini della fama di questo filosofo dovrebbero somministrare utili lezioni a que’ tanti, i quali colla loro fantasia si odono ricevere dalla posterità fra gli applausi, e che, pur sapendo com’ei son destinati a una vita limitatissima, aspirano a una gloria infinita. Aristotile fu uno di que’ potenti intelletti che la natura non mostra alla terra se non a lunghi intervalli; ed i suoi scritti esercitarono sovra tutti gl’intelletti d’Europa per molti secoli una preponderanza che non fu mai agguagliata dagli scritti di molti filosofi riuniti.

Ma era uomo, e non poteva se non errare; scrisse molto, e avendo trattato quasi di tutte le parti dell’umano sapere, i suoi errori non potevano che moltiplicarsi. Per una delle tante inesplicabili disposizioni della fortuna i suoi libri furono negletti, sepolti, corrosi in un sotterraneo d’Egitto e distrutti quasi per sempre; nondimeno furono quasi i soli libri che, dopo la decadenza di Grecia e di Roma, rimasero come unico testo e lume infallibile nel corso de’ secoli della barbarie che invase l’Europa. Nel medio evo gli errori d’Aristotile furono accolti come verità, ed ei venerato come infallibile. A questa popolarità nelle scuole contribuì l’oscurità de’ suoi scritti, e la severità del suo metodo. In fatti, per mezzo della sua oscurità i maestri potevano insegnare quello ch’ei stessi non intendevano, spesso inculcare sotto l’autorità d’Aristotile le loro proprie arbitrarie interpretazioni e dottrine; e nel tempo stesso l’applicazione del suo metodo dava ad essi il mezzo e l’opportunità di assoggettare ad una superstiziosa servitù gli intelletti de’ loro discepoli. Poscia, crescendo i lumi col rinascere delle lettere, la venerazione verso Aristotele andò dileguandosi, ed egli allora comminciò a partecipare della pena meritata non già da lui, ma da quelli che avevano abusato del suo nome e delle sue dottrine.

Molte delle sue dottrine nondimeno, essendo fondate sul vero, non potevan distruggersi. Ma non sono più conosciute per sue, furono travestite sott’altra forme, ed occupate come loro proprie da vari scrittori d’ogni nazione moderna: e lo stesso avvenne anche di alcune altre sue dottrine, le quali, benché non siano in tutto vere, sono espresse con una maravigliosa apparenza di verità, e furono conservate, illustrate e ampliate, e spesso anche usurpate da molti, i quali, senza più oggimai darne merito e attribuirle ad Aristotele, continuano a farne la pietra angolare de’ loro sistemi. Di quest’ultimo genere sono quasi tutte le opinioni espresse da Aristotele nel suo trattato della poesia; e particolarmente le celebri parole «che l’uomo è animale essenzialmente imitatore», e « che la poesia è imitazione della natura per opera dell’uomo, onde l’uomo, per essere poeta, deve assolutamente imitare la natura ».

La perpetua preponderanza delle dottrine poetiche d’Aristotile sembra un forte argomento in favore della loro intrinseca verità. Ma considerando il cuore umano, e sopra tutto le passioni di quella specie di mortali distinti del titolo di Critici, la lunga venerazione per le teorie aristoteliche può essere attribuita ad altre e più giuste cagioni. I critici, quantunque dotati della facoltà di giudicare le creazioni del genio, sono per lo più poverissimi d’immaginazione, e destituiti della facoltà di creare. Quindi originò naturalmente la loro secreta invidia verso gli uomini destinati dall’autorità della natura ad essere creatori e poeti; invidia che, incalzata dal desiderio che tutti i mortali possedono più o meno di esercitare autorità sovra gli altri, indusse i critici ad attribuirsi il diritto che nessuno loro disputò di stabilire leggi, e di citare gli scrittori al loro tribunale. Giovandosi dell’autorità d’Aristotile in tempo che il solo nome di questo filosofo era onnipotente anche nelle scuole di teologia, i professori di critica riescirono a divenire legislatori e giudici a un tempo. Il breve trattato che quel filosofo lasciò, non saprei dire se compito o abbozzato, sulla poesia essendo stato da lui scritto con oscurissima brevità, ed essendo inoltre arrivato a’ nostri avi orribilmente sfigurato dagli anni, fu opportunissimo all’intento de’ critici di fondare un codice di leggi per incatenare il genio, e per giudicare i poeti.

Né le leggi, a dir vero, né le sentenze potevano essere sempre evidentemente giustificate con la poetica di Aristotele; ma non potevano neppure essere rivocate in dubbio. In fatti, con qualunque pagina di quel libro ogni uomo può e tutto credere e dubitare di tutto; e ogni interprete può tutto asserire e tutto negare; e, come avviene negli oracoli, vi si può trovare ogni cosa, o nulla ad un tempo. Ma appunto il libro, quant’era più oscuro, tanto più bisognava d’illustrazioni, e tanto più i commentatori moltiplicaronsi; e quanto più Aristotele era venerato come profondissimo scrittore, tanto più i suoi interpreti venivano ammirati come acutissimi ingegni.

Così a’ critici riesci fatto d’instituire in tutta l’Europa una tal quale aristocrazia letteraria, che professava di assistere gl’ingegni creatori con profondi consigli ricavati dall’Alcorano poetico d’Aristotile; ma i consigli s’erano convertiti in precetti; né tardarono a divenire inesorabili leggi. Così i critici consigliando volevano governare; e governando tiranneggiarono; sì che alle volte l’aristocrazia de’ critici si constituì in gerarchia sacerdotale che, inspirata dalla divinità d’Aristotile, scommunicava i colpevoli d’eresia letteraria.

Non s’hanno dunque da apporre a questo filosofo tutti i precetti che s’inculcano come desunti dalle sue dottrine. La preponderanza esercitata sotto il suo nome fu estorta per mezzo d’interpretazioni spesso arbitrarie delle sue parole, e talvolta al tutto contrarie al suo intendimento. Da poco più d’un anno fu qui pubblicato un volume sopra una questione risguardante un poeta antico; e l’autore fabbrica un sistema tutto suo, fondandolo sopra un passo, ch’ei cita, della poetica d’Aristotile: ei lo cita, ma il passo non si trova nella poetica. L’autore nondimeno lo cita di buona fede, come lo trova citato da Pope nella sua prefazione alla traduzione d’Omero; e Pope lo cita anch’egli di buona fede, come lo trova nella traduzione della poetica d’Aristotile di Dacier. Ma Dacier parteggiando a que’ di nella controversia intorno la preminenza fra’ poeti antichi e i moderni, e ingegnandosi di abbattere i suoi avversari con l’autorità dell’oracolo comune, parafrasava quel passo in guisa, che chi lo cerca nel testo greco non lo ritrova. Quindi Dacier indusse Pope in errore, e Pope indusse in errore il critico moderno, al quale sottraendo l’autorità del passo a cui egli s’appoggia, si rovescia da’ fondamenti tutto l’edificio del suo dottissimo libro.

I poeti, che soli aveano diritto e forze d’opporsi più ch’altri alla autorità legislatrice usurpata da’ critici, contribuirono invece a legittimare le usurpazioni. I grandi poeti creatori, certi della gloria che si sarebbero acquistata, e dotati d’una mente sdegnosa insieme e impaziente d’affaccendarsi in disquisizioni di metafisica e sottigliezze di critica, non rigettarono nà approvarono il codice prevalente nelle scuole; e il loro silenzio fu ascritto a un tacito assenso. Al contrario i poeti mediocri, presso de’ quali risiede la pluralità de’ suffragi, votavano apertamente in favore del codice; beatissimi di potere appoggiarsi a legislatori, e farsi benevoli i giudici aristotelici ch’erano gli arbitri assoluti della loro fama. Inoltre i critici ebbero per confederati que’ poeti più fortunati che grandi, i quali non sono si soggetti al ridicolo quanto i poeti mediocri, e sono accessibili alle menti del popolo assai più de’ poeti creatori. Sì fatta specie fra i mediocri ed i grandi somiglia a quelle piante di rose che il giardiniere, per produrle ad altezza d’arbuscelli, suole innestare su’ tronchi, sì che spesso paiono grandi, quando la natura non le aveva create se non per essere vaghissime piante; e per quanto tentino d’innalzarsi, non potranno mai sorgere ad essere nobili alberi, mai. Questa specie di poeti godono quasi sempre di procacciarsi ad un tempo la gloria del lauro e l’autorità della critica dittatura; e, sia che non avessero mente tanto profonda che potesse investigare nuovi principi dell’arte che volevano insegnare, o che credessero i principi correnti più agevoli a essere intesi se fossero ridotti in apparente poesia, scrissero regole poetiche in versi eleganti insieme e noiosi perché sono più dettati dall’arte che dalla natura, ma tanto più ammirati quanto più la materia pare ritrosa agli ornamenti dello stile; e Pope e Boileau allettarono molti lettori, perché i loro ingegni erano amaramente disposti contro gli autori loro contemporanei, e si servivano di un metro per cui la necessità delle rime vicine contribuisce mirabilmente alla spiritosa malignità dell’epigramma. Così i poeti di questa classe se non riuscirono a stabilire inconcusse le teorie chiamate aristoteliche, che già cominciavano a essere meno implicitamente credute, — pervennero ad ogni modo a non far dimenticare i precetti derivati da quell’imperfettissimo libro.

Nuove specolazioni intorno alla poesia ed alle belle arti (colle quali la poesia à strettamente connessa) si sono ideate da mezzo secolo in qua; e i medesimi metafisici che vittoriosamente distrussero in gran parte le teorie attribuite ad Aristotile vissero, ed alcuni vivono tuttavia, per vedere i loro propri sistemi validamente prostrati da nuovi che si succedono, edificandosi e rovesciandosi vicendevolmente gli uni su gli altri. E nondimeno, anche fra questi nuovi legislatori la opinione « che la poesia non è che imitazione della natura » mantenne il suo grado d’assioma, ed è predicata come una delle pochissime verità che non bisogna[no] di prove.

Fors’io mi sono dilungato più che non avrei dovuto a tracciare storicamente le guise, per le quali prevalse e prevale la opinione, la quale è tuttavia l’unico cardine su cui s’aggira la critica su l’arti d’immaginazione. Ma questa specie di digressione gioverà a dimostrare ancor più ampiamente che la popolarità della teoria à dovuta non tanto alla sua intrinseca verità, quanto alle circostanze che hanno contribuito a diffonderla e consolidarla in tutte le scuole d’Europa. Questa osservazione gioverà a scemare la necessità di combattere la generale opinione punto per punto, e lascerà maggiore adito ad esporre l’opinione ch’io professo su l’origine della poesia.

L’animale umano è imitatore; ma la sua propensione all’imitazione non deriva, come forse in tutti gli altri animali, dal solo istinto di imparare i modi ond’evitare i dolori imminenti, accrescere i piaceri presenti, e provvedere a’ bisogni della sua esistenza. L’imitazione nell’uomo è perpetuamente accompagnata da quella ingenita ed inesplicabile, ma costantissima sempre e spesso sciagurata incontentabilità, che è la sorgente di tutte le sue miserie maggiori e de’ suoi più vivi piaceri. Però quando ha bisogni desidera, e desiderando immagina, e immagina cose le quali, se esistessero realmente, contribuirebbero forse alla sua felicità; ma non esistono; e finché la natura delle cose e dell’uomo rimane com’è, non possono esistere; e quanto è così immaginato da noi si riduce inevitabilmente a sogno che si dilegua. E nondimeno, dov’è mai quel mortale il quale vorrebbe o potrebbe rassegnarsi ad esistere senza si fatti sogni che perpetuamente gli abbelliscono la trista realtà delle cose, e gli rendono varia agli occhi la monotonia della vita? Tutte le arti d’immaginazione, e soprattutto la poesia, che è la più antica e l’origine di tutte le altre, nacquero dal bisogno di abbellire e variare e aggrandire tutti gli oggetti ed i sentimenti che attraggono irresistibilmente i sensi, il cuore e la fantasia de’ mortali. Il poeta, il pittore e lo scultore non imitano copiando, — ma scelgono, combinano e immaginano, perfette e riunite in una sola, molte belle varietà che forse realmente esistono sparse e commiste a cose volgari e spiacevoli, ma che non esistono, o almeno non si veggono mai né perfette né riunite in natura.

La natura imita sempre in tutti i suoi lavori sé stessa; e li distingue ad uno ad uno, e li fa nuovi e mirabili per mezzo di pochissime, minime e spesso impercettibili varietà. Dove la natura imita invariabilmente sé stessa, le arti sue imitatrici non possono togliere, aggiungere, variare mai nulla. Bensì maggior pittore e poeta è colui che sortì tale anima da sentire vivamente gli effetti delle varietà sparse sopra gli oggetti della natura; e tale ingegno da osservarle prontissimo; e tal fantasia da immaginarle riunite, e creare di varie parti esistenti un nuovo tutto ideale — e finalmente, tale giudizio da sapere applicare le varietà dove e come consuonano in armoniche proporzioni fra loro. Queste quattro facoltà di sentire fortemente, di osservare rapidamente, di immaginare nuovamente, e di applicare esattamente, quando sono riunite, equilibrate, vigorosissime in uno stesso individuo e operanti simultaneamente, non già per industria o per forza di regole bensì con la spontaneità con che opera la stessa natura, par che costituiscano il Genio. L’Arte, imitando la creazione invariabile, coglie il Vero; ma il Genio crea l’Ideale, indovinando, radunando e distribuendo sopra un solo oggetto, con le stesse leggi e con la stessa spontaneità della natura, le varietà ch’ella ha sparso sopra diversi oggetti, o che ella avrebbe potuto creare e spargere onde rendere più belle le opere sue. L’Ideale scompagnato dal Vero non è che o stranamente fantastico, o metafisicamente raffinato; ma senza l’Ideale, ogni imitazione del Vero riescirà sempre volgare; non avrà né la grazia delle figure del Coreggio, né la divina beltà della Venere de’ Medici e della Madonna della Seggiola, né il sublime dell’Apollo di Belvedere. L’Apollo e la Venere, come figure umane, sono tutte realmente vere; e sono insieme ideali per una riunione che non si può analizzare, e si sente, d’infinite bellezze che potrebbero essere state sparse dalla natura sopra un solo individuo, ma che pur non si veggono mai; e l’immaginazione del Genio ha saputo o vederle, o indovinarle, e poi raccoglierle e disporle in guisa da farle irresistibilmente sentire a chiunque getta l’occhio su quelle statue.

Ma, anche presupponendo che individui come l’Apollo e la Venere esistano realmente nel mondo, essi son pure tanto infrequenti, che meriterebbero d’essere considerati come eccezioni ch’escono dal corso abituale delle creazioni della natura; ed anche esistendo naturalmente non potrebbero continuare nello stato di bellezza e di perfezione in cui l’artista le ha perpetuate nel marmo. L’immaginazione del pittore e dello scultore, e più assai l’immaginazione del poeta, agisce costantemente per via d’astrazioni e d’addizioni. Infatti astrae tutto quello che esistendo in natura nuoce alla perfezione, ed aggiunge quanto può conferire alla sublimità e alla bellezza, e sopratutto alla novità. Questo desiderio innato di abbellire, diversificare e migliorare quello che la Natura ci ha dato, produce anche fra le tribù de’ selvaggi, le mutilazioni de’ loro orecchi, de’ loro nasi e delle loro labbra, e le ferite nelle loro membra per appiccarvi strani ornamenti e dipingersi a rabeschi di vari colori. I loro abbellimenti sono rozzi e deformi perché il loro ingegno non è educato dal progresso delle arti, i loro sentimenti, la loro immaginazione e il lor gusto partecipano della barbarie in cui vivono. Ma non è men vero che, barbari come pur sono, tentano per ingenito istinto di mutare, e credono di adornare la Natura in sé stessi. Bensì col progresso della civilizzazione il Genio dell’uomo con opere d’immaginazione meglio educata supplisce alla perfezione ch’egli desidera, e ch’ei non trova esistente in Natura. Il mondo in cui viviamo ci affatica, ci affligge e, quel che è peggio, ci annoia; però la poesia crea per noi oggetti e mondi diversi. E se imitasse fedelissimamente le cose esistenti e il mondo qual’è, cesserebbe d’essere poesia, perché ci porrebbe davanti agli occhi la fredda, trista, monotona realtà. Or che necessità, che desiderio abbiamo noi di vederla dipinta e descritta, se già ne siamo assediati, volere o non volere, dì e notte? La immaginazione dell’artista corregge idealmente la Natura anche quando sa cogliere e rappresentare la gioventù e la bellezza nel più bel punto della lor maggior perfezione. È un rapidissimo punto perché, in natura, un momento d’infermità, un atto poco grazioso, una parola, un semplice moto scemano l’effetto magico della gioventù e della bellezza d’una donna vivente. La sua perfezione, quand’anche sia nata e cresciuta perfetta, è soggetta a mille varietà ed accidenti d’ora in ora, di minuto in minuto, e non esiste se non se per fuggire ad un tratto e dileguarsi per sempre. E nondimeno l’artista imitando la natura la corregge in guisa da fermare e perpetuare le sue più belle creazioni in quel punto quasi impercettibile di perfezione. Queste osservazioni desunte dalle belle arti servono a illustrare l’origine e lo scopo della poesia, tanto più che le altre arti agiscono su[lle] immaginazioni per la via de’ sensi, mentre la poesia ci eccita ad immaginare per la via più potente del cuore. E davvero, per quanto altri congetturino diversamente, è da credere che la poesia, secondata dalla musica, sia stata la madre di altre belle arti, e la maestra de’ più nobili artisti.

Esiste nel mondo una universale secreta armonia, che l’uomo anela di ritrovare come necessaria a ristorare le fatiche e i dolori della sua esistenza; e quanto più trova si fatta armonia, quanto più la sente e ne gode, tanto più le sue passioni si destano ad esaltarsi e a purificarsi, e quindi la sua ragione si perfeziona. Questa armonia nondimeno di cui l’esistenza è sì evidente, e di cui la necessità è sì fortemente esperimentata più o meno da tutti i mortali, vedesi (come tutte le cose che la natura offre all’uomo) commista a una disarmonia di cose, le quali cozzano e si attraversano, e spesso si distruggono fra di loro. Però nella musica più che nelle altre arti appare evidentemente che l’immaginazione umana trovò il modo di combinare i suoni, ch’esistono in natura onde produrre melodia ed armonia, sottraendone tutti i suoni rincrescevoli o discordi. Il potere universale della musica è prova evidente della necessità che noi sentiamo dell’armonia. L’effetto dell’armonia che la musica produce all’anima per gli orecchi, per mezzo di suoni uniti con diversi modi e gradi, vien pure egualmente prodotto dalla scultura, dalla pittura, e dalla architettura per la via degli occhi e per mezzo di forme, di tinte e di proporzioni che armonizzano fra di loro. Ma la poesia unisce l’armonia delle note musicali per mezzo della melodia delle parole e della misura del verso; — e l’armonia delle forme, de’ colori e delle proporzioni per mezzo delle immagini e delle descrizioni. Vero è che la specie d’armonia propria a ciascuna delle altre arti è più espressa, e conseguentemente più efficace; tuttavia l’efficacia della poesia è più potente, tanto a cagione della riunione di tutti i generi d’armonia, quanto per la simultaneità e rapidità del loro progresso. L’Apollo di Belvedere, per quanto sia ammirabile, pur non si move; ma l’Apollo omerico —

«E da gioghi d’Olimpo, acerbo in core

precipitò agitando arco e faretra

tutta chiusa, e fremea pregna di dardi

strepitanti per gli omeri: ei calava

simile a notte, e sovrastando al campo

disfrenò la saetta; uscia dal grande

arco raggiante un suono orrido all’aere. »

S’adira, precipita dal cielo, vola, minaccia dinanzi a noi; vediamo agitarsi l’arco alle sue spalle, udiamo il doppio suono del cupo fremito ripetuto de’ dardi dentro una faretra chiusa, e il suono della corda [che] divide l’aria con lo stridore d’una vibrazione lunghissima, — e l’immagine del Dio, standoci d’innanzi, occupa l’anima nostra con l’oscurità d’una notte improvvisa, e col terrore d’una imminente celeste vendetta.

Ma questa è la descrizione d’un essere soprannaturale; né io insisterò dicendo cite Omero, per sublimare la sua e la nostra fantasia, ha dovuto elevarsi oltre natura; bensì dirò che quando descrive individui viventi che sentono e soffrono e parlano da uomini, egli nell’imitare la natura la esalta sempre con la sua immaginazione. Quando Achille dice al giovine che lo pregava di non ucciderlo: «Mori, amico, non vedi tu? — Son giovine anch’io e bello gagliardo, nato da un eroe e di madre immortale, e morte m’aspetta; a sera, all’alba o a mezzodì, m’aspetta. — Mori tu dunque.» Questa è infatti natura; — ma si consideri che queste parole ci colpiscono appunto molto più, perché le fa pronunciare da un uomo dotato di tante qualità preeminenti, che non pareva destinato a morire. Sente egli stesso il terror della morte, ancorché, nel presentarsi a combattere, il terrore ch’egli ispirava lo facesse parere a nemici come s’ei venisse lampeggiando la fiamma:

«Ignea su l’elmo

e dal volto e le membra e per lo scudo

gli balenava una continua luce;

sì dalla Dea sospinto ove più dense

eran l’armi, apparia fiero di lampi,

ardea come se puro esce da’ fonti

dell’Oceàno, e racquistando i cieli

l’astro d’Autunno infiamma aureo la notte. »

Quando Dante fa raccontare al conte Ugolino com’ei, destandosi e udendo i suoi figliuoli dimandar del pane, si morse per dolore le mani, non fece che rappresentare la natura reale; ma quando tutti i quattro suoi figliuoli, credendo ch’egli volesse mangiare le sue proprie mani per fame, si alzano tutti e quattro ad un tempo, e gli fanno ad una voce l’offerta:

«Padre, assai ci fia men doglia

se tu mangi di noi, tu ne vestisti

queste misere carni e tu le spoglia »,

questa non è natura reale; è natura esaltata spinta quanto può andare, e che riesce terribile appunto perché nessuno potea prevedere la disperata offerta di quegli innocenti. Quando gli amici di Job siedono muti e non gli dicono parola perché vedevano che il suo dolore non ammetteva consolazioni, la natura è fedelmente imitata; ma l’imitazione, benché fedelissima, non avrebbe prodotto la metà dell’effetto, se non vi fosse aggiunta la circostanza ideale, facilissima ad immaginarsi, ma improbabilissima e quasi impossibile a succedere realmente, che gli amici di Job stavano seduti su la terra per sette giorni e sette notti, e senza mai dirgli parola. vero che queste illustrazioni sono ricavate dai più sublimi libri di poesia che forse esistono, — e che forse siano per esistere mai fra’ mortali. Ma se si consideri la poesia fin anche nelle commedie, v’è egli carattere comico che colpisca veracemente, se non è caricato? Inoltre l’immaginazione del poeta comico non solo deve aggiungere, ma sottrarre assai cose alla natura reale. E certo che i Greci, i quali innanzi l’età d’Aristotile ciarlavano men di noi in fatto di critica, scrivevano le loro commedie in versi non per forza di teoria, ma per un senso naturale del vero scopo della poesia; che è, di abbellire ed aggrandire la natura reale per mezzo della facoltà immaginativa del genio; appunto perché il genere umano ha bisogno di vestire de’ sogni della immaginazione la noiosa realtà della vita.

Innanzi di concludere, gioverà di dar cenno d’un’altra dottrina attribuita ad Aristotile, la quale pure tuttavia ha molti e dotti fautori, segnatamente in Inghilterra. Da alcune poche parole, equivoche per l’usata oscurità di quel filosofo, e pel guasto che gli anni hanno fatto negli antichi manoscritti, i suoi interpreti più illustri intendono, che i poeti, senza eccettuare neppure l’autore dell’Iliade e dell’Odissea, scrivono e devono scrivere non per altro che per far passare il tempo a’ lettori, e non tendono mai a istruire, né devono prefiggersi mai nessuno scopo morale. L’oscurità del testo assolve Aristotile dall’avere pronunciata sì fatta sentenza; ma non posso se non maravigliarmi di quegli uomini dotati di dottrina e d’ingegno, i quali si giovano d’un passo oscurissimo per sostenere una dottrina rcpugnante alla naturale e invariabile propensiti umana. Perché ognuno che legga un poeta o uno scritto qualunque, che ascolti tragedie, o commedie, o discorsi pubblici o privati, non se ne diletta, se non se per le ragioni che gli producono sensazioni ed idee nel tempo medesimo, e quando non gli producessero che sensazioni, ogni sensazione presto o tardi è la causa imminente di nuove idee, e l’esempio solo di quanto ognuno di noi ode e vede gli serve insensibilmente, ed anche malgrado suo, di paragone, quindi di nuove occasioni e di mezzi di ragionare, e per conseguenza d’istruzione. Il fatto sta che la poesia istruisce molto più, perché diletta ad un tempo; e perché col piacere di moltiplicare sensazioni ed idee non è unita la fatica che accompagna più o meno gli atti sensitivi perpetuamente nell’uomo.

Vive perpetuamente nell’uomo il bisogno di rendere con le parole facile all’intelletto ed amabile al cuore la verità? Qual taciturna contemplazione può apprendere ed insegnare questo nostro sapere, che ci fa sempre più superbi e più molli? Le nostre passioni hanno forse cessato d’agire, o le nostre potenze vitali hanno cangiata natura? E le scienze morali e politiche, che prime ed uniche forse influiscono nella vita civile, perché sole possono prudentemente giovarsi delle scienze speculative e delle arti, a che pro tornerebbero, se ci ammaestrassero sempre co’ sillogismi e coi calcoli? L’uomo non sa di vivere, non pensa, non ragiona, non calcola se non perché sente; non sente continuamente se non perché immagina; e non può né sentire né immaginare senza passioni, illusioni ed errori. La filosofia non cambia che l’oggetto delle passioni; e il piacere e il dolore sono i minimi ter-mini d’ogni ragionamento. Quindi la verità, quantunque d’un aspetto solo ed eterno, appare moltiforme e indistinta al nostro intelletto; perché noi, dovendo incominciare a concepirla coi sensi, e a giudicarla con l’interesse della sola nostra ragione, la vestiamo di tante e sì diverse sembianze; e le sembianze constano di tanti accidenti quante sono le disparità de’ climi, de’ governi, dell’educazione e de’ nostri individuali caratteri: onde anche le cose men dubbie sono assai volte mirate dai saggi con mente perplessa, e dagli altri tutti con occhio incredulo ed abbagliato. Or per me stimo non potersi mai volgere l’intelletto degli uomini verso le cose meno incerte, e per continuo esperimento giovevoli alla loro vita, prima di correggere le cose dannose del loro cuore, e di distruggere le false opinioni; il che non può farsi se non eccitando col sentimento del piacere e del dolore nuove passioni, e, con la speranza dell’utilità, secondando di più utili sogni la lor fantasia. Come mai dunque lo scopo morale starà disgiunto dalla poesia?

Bensì questa distinzione d’illuminare e di dilettare fu a principio pretesto di dotti che non sapeano rendere amabile la parola, e di poeti che non sapeano pensare. La filosofia morale e politica ha rinunziato la sua preponderanza su la prosperità degli stati da che, abbandonando l’assistenza delle arti d’immaginazione, si smarrì nella metafisica e ne’ calcoli; e la poesia ha perduta la sua virtù e la sua dignità da che fu manomessa dai critici di professione. Si professarono architetti di un’arte senza posseder la materia; fantasticarono limiti alle forze intellettuali dell’uomo; s’eressero dittatori de’ grand’ingegni; l’ozio, la vanità, la venalità accrebbero la moltitudine de’ poeti ignoranti senza immaginazione, e de’ critici senza filosofia. Invano la natura esclamava: io non ti elessi al ministero di ammaestrare i tuoi concittadini; l’arte lusingava, insegnando a non errare, perché giudicava gli scritti derivati dalle passioni degli altri; ma l’arte non parlò più alle passioni perché non le sentiva; la fantasia, destituta dalle fiamme del cuore, si ritirò fredda nella memoria; destituta dal criterio, inventò mostri e chimere; e la poesia, anzi la letteratura, si ridusse a musica senza pensiero, a declamazione senza ragione.

Questa sinistra decadenza avvenne ad ogni nazione, — e i discorsi seguenti manifesteranno per quali cagioni e con quali vicissitudini caddero spesso, e risorsero, e tornarono a cadere la poesia e le lettere in Italia.

ORIGINI E VICISSITUDINI DELLA LINGUA ITALIANA

POETI MINORI

Nel precedente discorso ho giudicato opportuno di manifestare de’ principi generali, che guideranno i miei giudizi nel corso delle letture sulla poesia italiana; e così spero d’avere dato a chi mi ascolta la ragione delle opinioni ch’io andrò manifestando. Il soggetto del discorso d’oggi ha lo stesso intento di somministrare una serie di idee generali insieme e distinte, non già de’ miei propri principi, come ho dovuto fare ier l’altro, ma della origine, del progresso, delle vicende e dello stato presente della lingua italiana. La poesia, e ogni parte qualunque di letteratura d’ogni popolo, è incorporata con la lingua; dipende in tutto assolutamente dalla lingua, né senza lingua esisterebbe letteratura; cosicché i caratteri distintivi e le forme e le vicissitudini della letteratura d’ogni nazione nascono, crescono, si alterano in mille modi e decadono, secondo la origine e le alterazioni della lingua. Oggi dunque mi proverò di tracciare una storia, per quanto mi sarà possibile, breve insieme e distinta della lingua italiana dalla prima sua introduzione in Europa come lingua letteraria sino a’ giorni nostri. E perché è storia che abbraccia seicento e più anni, e lo spazio del tempo non mi consentirebbe di illustrare con moltitudine di riflessioni la lunghissima serie de’ fatti, sopprimerò riflessioni per lasciare luogo ai fatti. Tanto più che le riflessioni essendo mie proprie, possono essere e vere, e false, e dubbie; — ma i fatti appartengono alla verità, ed hanno in sé stessi tale ingenito vi-gore da eccitare da sé soli le altrui menti a fare considerazioni migliori di quelle ch’io non potrei suggerire. Tuttavia, per rendere meno necessario l’accompagnamento di riflessioni co’ fatti ch’io vado esponendo, mi gioverà di fare precedere su la critica letteraria risguardante le lingue una osservazione generale, che poscia senza essere ripetuta si andrà applicando da sé medesima in tutto il processo della mia narrazione.

La distinzione che s’è fatta sempre, e che si continua pur sempre in letteratura, di lingua e di idee, è soggetta ad oscurità ed incertezza e ad errori, come pure sono tutte quante le distinzioni di cose le quali non si trovano mai disunite fra loro. Tale è nelle scienze fisiche la distinzione di forma e materia — ma senza materia non vi sarebbe mai forma; e siccome la materia non può apparire mai sotto a’ nostri sensi che sotto una forma qualunque, così ne viene di conseguenza che ogni ragionamento fatto da noi, ogni sistema edificato mediante la distinzione di materia e forma crolla inevitabilmente da sé, perché si fonda sopra nozioni astratte di cose che realmente non esistono per noi se non sì strettamente conteste, che non si può separarle senza distruggerle — e quindi ne devono risultare delle teorie e applicazioni fallaci. — Così pure nelle scienze politiche si distingue l’uomo in natura e in diritti naturali, e l’uomo in società e in diritti sociali. E dove cercheremo mai la nostra natura, e come potremo, almeno in parte, conoscerla, se non la guardiamo nello stato di società, in cui solo possiamo vivere, e da cui non potremmo dividerci senza rinunziare a tutti i piaceri, senza sopprimere tutti i bisogni, senza cangiar gli organi del nostro individuo, e perdere e dimenticare la facoltà dcl pensiero e della parola che unisce gli uomini più di tutt’altra specie di animali che ci sicno note, senza riformare in somma la nostra essenza intrinseca ed immutabile, quell’essenza che non è opera nostra, quell’ordine, quella necessità che sentiamo, ma che non sappiamo definire noi stessi? Come dunque distingueremo i liberi diritti dell’uomo in natura da’ legami dell’uomo in società? E quanto più s’è tentato di restituire all’uomo sociale i sognati suoi diritti naturali, tanto più gli scrittori ed i popoli, pascendosi di visioni, si trovarono nelle sciagure che accompagnano i sogni di chiunque rinunzia alla esperienza de’ fatti. Così da questa distinzione in natura e in società, immaginata in tutti i tempi e paesi, ma celebrata in Francia più che altrove, e illustrata nel Contratto sociale di Rousseau, nacquero le teorie e le illusioni politiche, i sistemi e gli errori, i delitti e le sciagure che infamarono nel nostro secolo la libertà, ed atterriscono anche i savi che più la bramano, e danno pretesto a’ governi di imporre un sistema di perpetue catene all’Europa. —

La filosofia, e quella che specialmente si chiama analitica perché procede da divisioni e suddivisioni di parti, malgrado il suo metodo evidentissimo in apparenza ed esatto, s’inganna e conduce in inganno, appunto perché guarda partitamente ciò clic forma un [complesso] per se stesso inseparabile, di modo che appena diviso nelle sue parti perde il suo tutto. Così ne’ ragionamenti morali de’ filosofi divide anima e corpo: ma chi vide anima quando non è unita al corpo? chi vide vivere il corpo senz’anima? Divideteli per ipotesi, e come mai coglierete esattissimi i punti di tal divisione? e quali sono gli attributi di una metà che fugge all’analisi, e quelli dell’altra che disgiunta perde ogni vita? Quindi le tenebre metafisiche e le battaglie da ciechi, appunto perché non consideriamo le cose in quell’unico stato in cui la natura le riproduce; perché facciamo astrazioni che stanno nel nostro cervello, il quale, senza conoscere perché e come pensi, crede ad ogni modo di pensar bene; così si perde anche la cognizione e l’uso di quelle poche verità che l’esperienza continua de’ fatti potrebbe sempre somministrare.

Le stesse fallacie, errori, controversie, i sistemi ideali che l’artificiale divisione di cose naturalmente indivisibili produce nelle specolazioni fisiche e nella politica, e nella morale, sono appunto le stesse fallacie, gli stessi errori, le medesime controversie e gli stessi sistemi riprodotti dalla divisione che sempre s’è fatta, e non dappertutto, ma certamente in Italia, di lingua e di pensieri, e la solenne sentenza che i nostri critici pronunciarono da più secoli sui libri divide sempre scrupolosamente il merito d’un autore come pensatore e come scrittore; onde giornalmente si ode pronunziata gravemente da uomini dottissimi la contraddizione: «il libro è ottimo, ma è male scritto », o: « il libro è ottimamente scritto, ma è sì cattivo che non si può leggere ». — I fatti che ora andrò esponendo somministreranno le chiavi a conoscere le occulte cagioni e i tristissimi effetti di questa assurdità.

Una lingua comincia a essere letteraria quando incomincia a essere scritta, e scritta in modo che sia intesa da tutta una nazione; — e allora gli scritti si diffondono necessariamente sopra tutta la superficie di quel paese, e si conservano da tutte le provincie e da’ posteri. Però la lingua propriamente chiamata italiana non può considerarsi letteraria se non se dal principio del secolo duodecimo, cento anni circa prima che Dante scrivesse. Infatti quanto fu scritto un secolo innanzi Dante s’intendeva allora, e si intenderebbe anche oggi più o meno da tutti gli Italiani. — Ma poiché la nazione, o, per parlare più generalmente, le popolazioni delle differenti provincie d’Italia esistevano anche per le tenebre più fitte del medio evo, certo è che parlavano e s’intendevano fra di loro; e, benché non possedessero lingua letteraria, avevano ad ogni modo una lingua. Certo dunque dev’essere che da questa lingua parlata fra il sesto e il duodecimo secolo in Italia, dev’essere di necessità derivata la lingua che poi fu scritta e diventò letteraria. —

Ma quale fosse quella sì fatta lingua parlata fra’ sei secoli della barbarie fu ed è una quistione che occupò per i sei secoli seguenti tutti gli eruditi e gli antiquari italiani, e che gli occuperà forse per altri sei secoli, e rimarrà pur sempre quistione. Rimane questione, perché gli eruditi vogliono fondare sistemi, e — da un principio forse giustissimo in sé, vogliono applicare le lor conclusioni a fatti che non possono conoscere, perché quella barbarie ed il tempo li han seppelliti per sempre; e gli antiquari dall’altra parte, sdegnando non solamente principi metafisici e assiomi generali incontrovertibili perché sono nella natura e nella storia del genere umano, vogliono decidere sì oscure questioni su la testimonianza di monumenti ed autorità di documenti. Or rari letterari monumenti esistono del medio evo, e mutilati in gran parte; e spesso falsificati; onde la loro autorità è debolissima. E nondimeno sopra sì incerta testimonianza gli antiquari si sono fondati in Italia su la questione della prima formazione della lingua italiana, — come antiquari d’altri paesi si fondano sopra poche medaglie, alquante corrose iscrizioni o vecchie pergamene per decidere materie che sono forse più rilevanti. —

Quattro partiti letterari che, se fossero armati, sarebbero degenerati in fazioni, assordarono l’Italia con la disputa su l’origine della lingua. — I primi e più dotti volevano che la lingua italiana non fosse che il dialetto plateale che la plebe romana parlava sino nell’epoca più antica e più splendida di Roma. — E stabilirono le loro ragioni così. —

E certo che i grandi oratori romani parlavano non romano ma latino, e gli autori scrivevano non romano ma latino; perché il dialetto del popolo romano era volgare e pronunciato tronco, senza leggi esatte di grammatica, e come in fatti ogni dialetto è parlato dal popolo in tutti i paesi. — Ma il popolo, sopratutto gli abitanti della campagna, conservano sempre i loro usi antichi, le loro fogge di vestire ed il loro dialetto di padre in figlio e di generazione in generazione: dunque la lingua del popolo italiano nel tempo delIa barbarie era la stessa che parlava a’ tempi d’Augusto, e la stessa che discese a’ tempi di Dante.

Il fatto che la lingua latina fosse distinta da quella degli abitanti di Roma, e fosse una specie di lingua più letteraria che parlata, è attestato e illustrato assai volte da Cicerone, e sopratutto nella breve ammirabile storia critica ch’ei scrisse degli oratori illustri di Roma. Ma l’altro fatto, che il popolo conservò per più di dodici secoli la sua lingua, è appoggiato più a congetture che alla storia. La storia al contrario e la osservazione giornaliera ne accertano che nulla cangia quanto il dialetto; — in Italia dovea cangiare pel concorso d’infiniti diversi popoli settentrionali che la invasero, la spopolarono e la ripopolarono; ma dovea anche cangiare per la naturale tendenza che tutte le cose dell’universo hanno di alterarsi, e le lingue molto più, perché la loro pronunzia si altera leggermente di secolo in secolo, di generazione in generazione, e forse anche di anno in anno nella pronunzia; e l’alterazione [del]la pronunzia fa mutamenti di suoni, e i mutamenti di suoni nelle parole finiscono coll’andar del tempo ad accrescersi in guisa, che la lingua, se non si muta del tutto, si altera sì fattamente [d]a parere diversa da quella ch’era pochi secoli addietro. — Il cangiamento di pronunzia, essendo impercettibile a’ contemporanei, accade senza lasciarsi osservare; — ma se si nota che in molte lingue si scrivono più lettere che non si pronunziano in fatti, e che quelle lettere che ora si scrivono e non si pronunziano dovevano essere pronunziate, altrimenti non si sarebbero scritte, si ricaverà la conclusione che la pronunzia si altera sensibilmente in tutte le lingue. E non vediamo che gli stessi caratteri della scrittura si alterano di secolo in secolo sì fattamente che una mediocre esperienza basta a far distinguere i codici manoscritti di un secolo da quelli di un altro? Quanto più dunque non deve essere soggetta ad alterazioni la pronunzia e la lingua, che è cosa vaga ed incerta da per sé, facile ad adottare espressioni straniere, parole nuove, per invenzioni arti fogge ed idee nuove? Anzi io credo che quante lingue si parlano sulla superficie della terra, non siano originate che da un solo tronco, e che la loro diversità non sia prodotta che dalle diverse pronuncia cagionate dalla diversità de’ climi, dalla mistura de’ popoli diversi fra loro, da nuovi costumi e dagli anni. — Non ignoro che questa proposizione, che tutte le lingue derivino da una sola, può sembrare assai strana; — ma, o bisogna ammetterla, o adottare la congettura seguente: che il genere umano non sia a principio nato in una sola contrada, d’onde moltiplicandosi e diffondendosi su la terra, l’abbia popolata gradatamente; ma che sia nato in tutte le parti del mondo, e che abbia inventato [in ciascuna] una lingua diversa. La congettura, è al mio parere, più strana che il genere umano abbia pullulato tutto ad un tempo in diverse parti del globo; che le nazioni si siano formate non da una origine unica e primitiva, ma da differenti origini, e diverse, e che ciascuna nazione, così nata per così dire da sé si sia formata una lingua tutta sua pro-pria. Ma, se invece si ammette che il genere umano originò a principio in una sola parte del globo, che moltiplicandosi e diffondendosi su la terra gradatamente l’abbia popolata e come d’una sola famiglia si formarono tribù vaganti e quindi città, e si distinsero nazioni, così d’un solo scarsissimo dialetto primitivo si formarono lingue ed idiomi distinti. — Ed aggiungerò che questa mia opinione non nacque per via di meditazione, ma da due accidentali osservazioni: l’una delle quali può essere ripetuta da chiunque volesse farne l’esperimento, e l’altra può essere facilmente avverata da molti individui che viaggiano in Svizzera. Due ragazzi — Friburgo. Ne venne dunque distrutta l’opinione, benché acremente e lungamente sostenuta da uomini dotti, che la lingua italiana sia, con pochissime differenze, la lingua parlata dalla plebe romana.

Il secondo partito che la lingua italiana derivasse dagli Aramei popoli della Caldea era sostenuto specialmente da alcuni antiquari fiorentini, i quali ammettevano che una gran parte di parole era di origine latina, ed un’altra era teutonica, per l’anteriore dominio de’ Romani, e poi de’ popoli settentrionali in Toscana. — Ma contendeva[no] ad un tempo che il fondo primitivo della lingua era arameo. Essi ragionavano parte sopra etimologie di un gran numero di parole siriache, che que’ dotti dicevano di trovare tuttavia viventi nella lingua toscana, e parte sopra erudizioni di autori, come Beroso e Sanconiatone, di cui non hanno mai esistito che i nomi; i quali avevano lasciato scritto che una colonia di Caldei aveva navigato il Mediterranco, e s’era stabilita antichissimamente in Etruria, d’onde non era mai ritornata, e onde fondò una nazione, e portò riti religiosi e l’arte degli auguri e delle divinazioni, riti ed arti che infatti i Toscani portarono poscia a Roma, e la prima origine de’ quali era da’ Romani stessi assegnata a’ Caldei. — Ed io credo la Toscana sia stata popolata un tempo da tribù d’avventurieri che navigarono sia dall’Egitto, sia dall’Arabia; e lo desumo da quella forte aspirazione peculiare a’ Toscani, segnatamente a’ Fiorentini, ed ignota a tutto il resto d’Italia ed anche all’Europa, dagli Spagnoli in fuori; la quale chiamano gorgia; e ognuno sa che pronunziano hasa, haro, harrozza, invece di casa, caro, carrozza, come pur fanno tutti gli altri Italiani; e questa profondissima aspirazione gutturale è propria a molti [de]gli. Egiziani ed a tutti gli Arabi, ed alle lingue che si propagarono dall’Arabia. Questa, opinione era per me quasi certezza finché venni in Inghilterra, dove trovai il Θ greco pronunziato appunto come in Grecia, benché scritto col th come scrivevasi da’ Latini, per indicare parole derivate dal greco, bench’essi non lo potessero mai ben pronunziare. Né so che sia distintamente pronunziato se non dagli Inglesi; onde, se la aspirazione gutturale de’ Fiorentini bastasse a indicare la loro origine arabica, la aspirazione dentale del Θ basterebbe a indicare l’origine greca de’ Britanni; così il primo assurdo mi strascinerebbe al secondo e a molti altri.

Ma anche quand’io supponeva i Fiorentini discendenti dagli Arabi, non ho mai creduto che la loro lingua fosse altro che una modificazione di quella che parlavano sotto a’ Romani; — senza però arrendermi ad alcuna delle altre due opinioni che, difese da due opposti eserciti di dotti con uomini di grande fama per loro capitani, sostenevano, gli uni che la lingua italiana fosse derivata dal dialetto siciliano, — ed altri che fosse derivata dal dialetto provenzale. La prima opinione era stata pronunziata da Dante, e la seconda dal Petrarca; e l’autorità di testimoni sì competenti e di sì grandi nomi, accresceva l’accanimento de’ due partiti.

Dante peraltro e Petrarca potevano errare anch’essi, — nondimeno l’uno e l’altro avevano proposta la congettura la più ragionevole; e quando i letterati, specialmente italiani, non si compiacessero di tutte le occasioni per prolungare le loro battaglie e i loro trionfi di penna e di grida accademiche, e sopratutto di funeste e vilissime animosità provinciali, le due opinioni di Dante e Petrarca, benché diverse, potevano, col ravvicinarle, condurre alla verità.

Il dialetto siciliano e provenzale, e il catalano, e quel di Linguadoca, e quel di Toscana, e degli altri popoli d’Italia e di molte parti dell’Europa meridionale non derivarono l’uno dall’altro, né prevalsero l’un dopo l’altro; ma erano tutti contemporanei, cd erano tutti nati quasi ad un tempo, e si modificarono l’uno per mezzo dell’altro al tempo del lungo dominio de’ Romani in Europa. Allora ogni popolo si chiamava romano, ed ogni dialetto d’ogni provincia si chiamava romanzo, o lingua romanza. I Greci stessi che, per la traslazione dell’impero in Costantinopoli e per i primi padri della Chiesa scismatica che scrissero in greco, conservarono fra bene e male la loro lingua e la loro letteratura, adottarono nondimeno tante parole da’ Romani, che la loro lingua fu allora, cd anch’oggi è nominata romeiki, e dagli Inglesi romaica. E chi analizzasse questa lingua romaica, vi troverebbe infinite parole della barbara latinità del medio evo; — come pure avviene nella lingua inglese, la quale, al dire d’autori che ne scrissero ex professo, e d’uomini dotti co’ quali ne ho tenuto discorso, [pur] essendo composta di molte lingue diverse, il maggior numero delle sue parole è latino; — vero è che molte sono state introdotte dalla Francia, ma per qualunque via abbiano approdato, non sono meno latine; e per quanto altri sia di parere diverso, io fermamente credo che la più parte, e segnatamente verbi, perché quanto a’ nomi in tutte le lingue han minore antichità, sono stati introdotti nel medio evo dalle colonie militari romane in Inghilterra.

Così i nomi latini grace, elegance, che non hanno cambiato quasi ortografia e appena si sono alterati nella pronunzia, gratia, elegantia in latino; grazia, eleganza in Italia; grace, elegance in francese; grace, elegance in inglese, sono d’introduzione più tarda e appartengono al secolo di cui parliamo: i verbi extraho, extracturn, stretch’d, exert, excrucio, to screw, exsecare, to scorn, excortico, to scratch —, sono di antichissima introduzione, e divenuti di suono sassone e settentrionale. —

Questa lingua barbara derivata dalla romana e chiamata allora e anch’oggi romanza, ed esistente vivissima in alcuni paesi, aveva sotto il lungo dominio de’ Romani e le perpetue colonie militari, abolite, se non estinte, le diverse lingue nazionali dei popoli, — come la lingua inglese d’oggi ha fatto e farà sempre più dimenticare i dialetti parlati dagli antenati della Scozia, dell’Irlanda e degli abitanti di Galles: — e come avviene nell’inglese parlato oggi dagli Scozzesi e Irlandesi. Ma la lingua romana, adattandosi agli organi di popoli di differenti climi e d’abitudini e lingue diverse, quantunque in sostanza la lingua romanza, divenne modificazione apparentemente diversa in ogni provincia d’Europa.

Di questi dialetti rimangono documenti scarsissimi, perché la lingua letteraria continuava ad essere pur sempre la latina, barbaramente scritta e nella quale si pubblicavano le leggi, i decreti, gl’istrumenti legali, — e quel poco che i maestri poteano insegnare lo dettavano in latino, primamente perché sinché i Romani dominarono, vollero che nelle faccende pubbliche la loro lingua fosse anche intesa da tutti i loro sudditi; — in seguito perché all’invasione de’ barbari il Clero rimase crede degli avanzi della giurisprudenza, della legislazione e della lingua latina, e nessuno sapea scrivere fuorché il Clero, — e finalmente perché i popoli settentrionali generalmente doveano servirsi di una lingua nella quale le leggi erano scritte, e che, se non intesa dal popolo, era pure interpretata da’ legali e da’ maestri delle scuole, da’ preti, da’ monaci e da’ vescovi, che in quasi tutta l’Europa d’allora ottenevano una grande preponderanza.

Pur la questione sarebbe involta in congetture, se di questi ultimi anni un letterato italiano, che da pochi mesi non vive più, non avesse con somma industria e con eguale imparzialità raccolti ed esaminati quanti avanzi scritti rimanevano della lingua romanza anteriori al secolo di Dante, e, paragonandoli l’uno all’altro, riesci a convincere sé medesimo e i suoi lettori che quegli scritti, benché di diversi paesi d’Italia, e talvolta anche di diversi popoli d’Europa, quantunque differissero nella terminazione delle parole, e in alcune varietà di sintassi, erano nondimeno composti degli stessi vocaboli, e con la stessa legge grammaticale; cosicché tutti possono con pochissime alterazioni essere letteralmente tradotti nella lingua italiana d’oggi. Gl’Italiani, e sopratutto i Fiorentini, conservarono più gran numero di voci latine, sì perché continuavano ad abitare il paese dove la lingua latina era stata la lingua nazionale, e dove era la sede de’ pontefici e la gerarchia della [Chiesa] che continuavano a servirsi di latino; — e continuavano a pronunziare i vocaboli della lingua romanza men corrotti che dagli altri Italiani; sì perché la Toscana fu meno che altro paese d’Italia sotto il diretto governo de’ conquistatori settentrionali, e i loro organi avvezzi a pronunziare le parole intere, lunghe e rotonde del latino, erano stati preservati nella stessa abitudine, parte dalla mollezza del clima, e parte dal poco commercio co’ popoli del Nord. —

Molte parole nondimeno delle lingue teutoniche restarono alla lingua letteraria italiana; e v’è un criterio sicuro per distinguerle. Rare, se pur ve n’è alcune, riguardano la vita domestica e gli usi comuni della vita, che non siano latine; ma le parole appartenenti a cose di guerra o titoli militari sono teutoniche, e sottentrano a quelle de’ Romani. Così brando, elmo, panciera, invece di ensis o gladiem, o galea; — marciare, marescalco, invece di proficisci o procedere, e Dux; e, per lasciare altri esempi, invece del latino bellum dissero guerra da war, donde venne il nome de’ Germani di War-man. — Lo stesso avvenne, benché più tardi, per altri oggetti in Inghilterra e fu al tempo delle conquiste normanne; perché le voci esprimenti bue, vitello, porco, agnello, montone, — ed altre necessità della vita somministrate dalla agricoltura, restarono sassoni nella campagna; ma i soldati, andandoli a comprare al mercato o fors’anche il conquistatore avendo disposta una tariffa, prevalsero con il tempo e restarono alla cucina i nomi franco-romanzi di veal, beef, mutton.

Come la lingua italiana abbia troncato e modificato le terminazioni della latina, e sia ricorsa agli articoli, non è difficile a intendersi. —

Così, sino al secolo XII tutte le provincie italiane parlavano la lingua romanza più o meno modificata nella pronunzia, secondo il genere d’organi loro naturali, e più o meno arricchita di parole forestiere, secondo che era stata generata da diverse nazioni forestiere, e il contatto e commercio che essa aveva tenuto con esse. Così i Napolitani e Siciliani non hanno quasi parole di origine teutonica, e ne hanno di arabiche e di normanne; — i Genovesi, e più ancora i Veneziani, che navigavano in Grecia e sulle coste dell’Affrica, hanno molte voci di origine greca e alcune di origine arabica che sono poi passate nella lingua toscana e in tutte le lingue d’Europa; come fra l’altre: Ammiraglio, — in inglese Admiral; — Arzanà, come Dante lo scrive, e Darzena come lo pronunziano i Genovesi, ed Arsenal, come oggi è proferito da’ Veneziani; e in italiano scrivesi Arsenale, e Arsenal in inglese, onde il dottore Johnson a torto lo chiamò vocabolo d’origine italiana, quando è pretto affricano; se non che pare che il dottor Johnson non abbia giudicato che etimologie e derivazioni delle parole fossero degne del suo studio. Ma, se di tanto uomo è permesso di dire meno che lodi, egli avrebbe fatto da savio disprezzandole e tralasciandole affatto; ma, avendole ammesse nel suo dizionario e degnate di esame, pare che egli disprezzasse anche i suoi lettori. —

Nel duodecimo secolo, quando si cominciò più o meno a scrivere la lingua romanza, gli Italiani cominciarono a chiamarla volgare per distinguerla dalla latina, e il nome di romanza restò alla provenzale; la quale fu chiamata linguotta.

Per un capriccio singolare delle lingue, la latina ch’era parlata da un popolo di conquistatori, dal popolo più assoluto o, per valermi della nozione inglese, dal più positivo popolo della terra, mancava dell’affermazione positiva. Non vi è nel latino un termine apposito esclusivamente per affermare; però affermando dicevano Utique, — oppure hoc, hoc, — e sic, sic ed altre espressioni. Dall’utique mozzato venne l’oui nella francese in settentrione, dall’hoc venne l’hoc de[lla] Francia meridionale; e però la lingua provenzale fu chiamata la lingua dell’hoc, quindi il nome della provincia di Linguadoca; — e dal sic più usitato in Italia venne il nostro sì. — E questa osservazione illustra il verso di Dante che, alludendo alla Toscana, la definisce

del bel paese là dove il sì suona,

e spesso nelle sue prose ci chiama il provenzale la lingua dell’hoc. —

Ma la Provenza aveva avuto una corte e principi e gli uomini più distinti d’Europa, e alcuni negli ultimi tempi delle Crociate, molto innanzi che l’Italia si fosse affatto riscossa dal giogo teutonico; però quella lingua fu scritta innanzi della italiana, e diventò letteraria; cosicché Brunetto Latini maestro di Dante, volendo scrivere più per la gente educata che pe’ letterati di professione, e non essendovi a’ tempi suoi né molti scrittori, né molti lettori di lingua italiana, s’appigliò a scrivere il suo trattato di Rettorica e Filosofia in lingua romanza provenzale, perch’era intesa da tutti.

Ma la poesia che precede la prosa in tutti i paesi, e più in climi ed età dove regnano le immaginazioni e le passioni, era stata coltivata in lingua romanza chiamata siciliana, cinquanta anni innanzi di Dante, secondo il suo proprio computo; e i poeti siciliani incominciarono a ridurre la lingua italiana al grado di letteraria. Quindi le due asserzioni di Dante e di Petrarca, asserzioni che divisero e divideranno per lungo tempo i grammatici antiquari, si accordano mirabilmente. Perché molte lingue romanze italiane, senz’essere formate dalla romanza provenzale, e la siciliana, esistevano contemporaneamente; e quando di queste differenti gli scrittori cominciarono a farne una sola generale ed intelligibile a tutta l’Italia, spogliandola de’ latinismi, de’ francesismi e de’ plebeismi, vi tennero tutte le parole utili e le frasi eleganti che appartenevano tanto alle lingue romanze di Francia, quanto a quelle d’Italia e di Sicilia.

Né Dante e Petrarca allegarono un’opinione differente su questo proposito con l’intenzione di decidere della origine della lingua; — questi due poeti non alludevano che ai Trovatori, come allora si chiamavano gli scrittori di rime, che oggi si onorano del titolo di poeti. Senza intendere di decidere un punto d’antichità, Dante affermava agli Italiani che dovevano coltivare la loro lingua materna, scriverla invece della latina, e non arricchire di opere la Francia, componendo in dialetto romanzo-provenzale, — ma scegliere piuttosto il dialetto romanzo-siciliano, che era men aspro, più pieno di vocali e più vicino e conforme agli organi ed alla pronunzia degli Italiani, e [in] conseguenza più intelligibile; ma che per altro non bisognava addottare nessun dialetto romanzo particolare, ma combinare il meglio di tutti e formare una lingua universale a tutta l’Italia; e Dante diede i precetti e l’esempio; ed oltre le rime e il poema, scrisse in prosa italiana de’ trattati ammirabili per la lingua, e di tale stile stampandoli, che con pochissime alterazioni di ortografia parrebbero scritti oggi. Petrarca al contrario non ha mai considerato la lingua italiana come capace di trattare soggetti in prosa: scrisse seriamente e gravemente per ambizione di fama opere in latino, né mai scrisse in italiano se non in versi per descrivere la sua passione; e anch’egli, come Dante, si formò una lingua tutta sua propria, scegliendo e combinando i più eleganti ed espressivi ed armoniosi vocaboli ed idiomi da molti vari dialetti romanzi sì italiani che francesi. — Ma tanto Dante che Petrarca, avendo succhiato il loro dialetto materno col latte di madri e nudrici fiorentine, dovevano necessariamente [avere] il dialetto toscano per fondo della loro lingua italiana scritta; ma non ritennero, per così dire, che l’ossatura, perché col potere del loro genio ciascuno de’ due si creò una lingua nuova. Quella di Dante è più originale e più italiana, sì perché fu il primo, e sì perché aveva ricavati materiali del suo stile da vari dialetti d’Italia; e quella del Petrarca è più elegante e più raffinata di frasi, si perché egli, essendo venuto dopo, perfezionò molti modi di lingua introdotti da altri, e essendo stato educato da giovinetto in Provenza, dove abitò lunga-mente, ed amò, e scrisse le sue poesie amorose, si servi più che Dante di idiomi del romanzo-provenzale, e diede ai Provenzali il merito, forse vero forse non vero, d’avere introdotto non la lingua, ma i metri delle poesie italiane. Ed in questo particolare vedremo che si ingannò; perché la forma del sonetto fu trovata in Sicilia, e la forma della canzone lunga è tutta d’invenzione toscana. Questi due grandi uomini, e il Villani loro contemporaneo, ed altri storici, e poscia il Boccaccio contribuirono grandemente alla diffusione e popolarità del dialetto toscano in Italia e al fondamento della lingua letteraria italiana. Ma, anche senza questi grandi scrittori, il dialetto toscano aveva acquistato da sé qualità che lo rendevano migliore di tutti gli altri dialetti italiani. Aveva, come s’è detto, più numero di parole latine ed indigene, per così dire, all’Italia e più confacentisi a una lingua letteraria; — aveva ne’ vocaboli conservato più rotondità di pronunzia. Avevano i Toscani, e l’hanno tuttavia i Fiorentini, i Pistoicsi e Sancsi, fra gli altri, una corretta modulazione naturale di suoni nell’esprimere le parole. La Repubblica di Firenze era democratica, e il genere umano in tutti i paesi è destinato a essere strascinato per le sue lunghissime orecchie: ne’ paesi liberi e dove il popolo fa leggi, i suoi conduttori devono essere eloquenti. — E, col parlare continuo in pubblico, gli uomini creati dalla natura per essere eloquenti diventano oratori, ed arricchiscono e perfezionano la loro lingua. Finalmente, per un singolare concorso di circostanze, ogni padre di famiglia in Firenze teneva un registro domestico di quanto accadeva nella sua casa e siccome dal più ricco al più povero tutti si credevano membri non solo della loro famiglia, ma anche della Repubblica, tutti ne’ loro diari mescevano le faccende pubbliche così che, esercitandosi a parlare in pubblico e scrivere di cose importanti, la lingua acquistava perfezione, esattezza e colore. Molti di questi manoscritti furono pubblicati, e sono davvero tesori di lingua, di composizione e di storia. Leggendoli, il grammatico si meraviglia della correzione della sintassi nell’elocuzione, — il critico non sa come spiegare quella spontanea, secreta e però tanto più potente arte cd ordine di stile e lo storico vi trova particolarità e date e riflessioni politiche che sarebbero sfuggite anche al genio d’Erodoto e Tacito. A questo esercizio di facoltà naturali aggiungevasi il profitto che ritraevano dal tradurre gli scrittori latini, e quasi sempre in prosa, — spesso non intendendoli perfettamente, ma le traduzioni de’ classici seri, comunque siano fatte quanto alla fedeltà, servono mirabilmente a portare varietà, novità ed abbondanza e nobiltà ad una lingua; sopratutto se la lingua è vivente e docilissima agli innesti. — Tale è il carattere generale degli scrittori fiorentini, durante il secolo illustre per Dante, Petrarca c Boccaccio; nel qual tempo, per un fenomeno di cui io non ho mai udito, né ho mai saputo trovare la spiegazione in nessuno di quegli scrittori fiorent[ini,] molti de’ quali artigiani, e le opere de’ quali si trovano tuttavia manoscritte a centinaia, non si trova una sola inesattezza grammaticale; mentre nelle rarissime lettere che Petrarca scriveva in fretta in italiano, alle volte non v’è grammatica.

Ma la lingua italiana non rimase in questo stato di prosperità più di un secolo; perché poco più di trent’anni dopo la morte del Boccaccio non vi fu, per così dire, più né scrittore, né lingua. Tutti gli uomini dotti si vergognavano di scrivere in altra lingua fuorché in latino, — e fra l’anno 1400 e l’anno 1480, in cui comincia l’epoca celebre di Lorenzo de’ Medici, appena troviamo tre o quattro scrittori che meriti[no] d’essere studiati per la correzione. Fra l’altre ragioni che si paleseranno da sé, allorché il corso di queste letture ci condurrà a quell’epoca, ve n’è una non osservata, ch’io mi sappia, da quanti trattano la storia della letteratura italiana; ed è, che i padri e i maestri, per favorire lo studio del greco e del latino, proibivano non solo [lo] scrivere in italiano, ma lo studiare gli autori più celebri della loro patria. Il Varchi, che era giovinetto verso la fine dell’epoca di Lorenzo de’ Medici, scrive ingenuamente di sé e del suo maestro; ed io citerò le sue parole: « Quando il magnifico Giuliano fratello di papa Leone era vivo, che sono più di quaranta anni passati,... la lingua fiorentina, come che altrove non si stimasse molto, era in Firenze per la maggior parte in dispregio: e mi ricordo io, quando era giovanetto che il primo e più severo comandamento che facevano generalmente i padri a’ figliuoli, e i maestri a’ discepoli, era che eglino né per bene, né per male non leggesseno cose volgare (per dirlo barbaramente, come loro); e maestro Guasparri Mariscotti da Marradi, che fu nella gramatica mio precettore, uomo di duri e rozzi, ma di santissimi e buoni costumi, avendo una volta inteso, in non so che modo, che Schiatta di Bernardo Bagnesi ed io leggevamo il Petrarca di nascoso, ce ne diede una buona grida, e poco mancò che non ci cacciasse di scuola » .

 

LETTERATURA ITALIANA: EPOCA PRIMA

DALL’ANNO 1180 AL 1230

Proponendoci di prendere successivamente in esame porzioni regolari delle epoche diverse dilla letteratura italiana, la quale, per essere la piú antica e copiosa tra tutte le moderne, può contribuire più efficacemente alla storia della civiltà e della critica letteraria, abbiamo nel numero precedente dato uno sguardo alle vicissitudini della lingua italiana dalla sua prima alba fino ai giorni nostri:

Ausi sumus Italorum

omne aevum tribus explicare chartis. —

Jupiter!" —

A tale classica esclamazione che già noi avvertiamo risonare ironicamente dall’Italia, dove per ogni decennio di storia letteraria si costretti a ingoiare dieci volumi, risponderemo con un’osservazione che, per non essere forse assai peregrina, non è perciò meno opportuna; ed è questa — che chiunque prima di cominciare a scrivere non abbia dinanzi agli occhi della mente schierato per ordine tutto il proprio soggetto, deve di necessità a lungo vagare in cerca di esso, e alla fine ritrova se stesso e i propri lettori sperduti in un labirinto: d’onde gli infiniti volumi in cui tante cose si leggono con sì scarso profitto. All’incontro chi volesse scorgere esattamente il punto da cui parte e quello a cui vuole arrivare, e per qual via e con quale scopo e con quale fiducia riuscire utile, agirà saviamente seguendo l’esempio de’ geografi, i quali usano porre innanzi una carta di vaste regioni delineata con le piú minute e quasi impercettibili indicazioni, che riesce di grandissimo aiuto ai viaggiatori concedendo loro la vista libera e ininterrotta delle varie provincie di ogni regno che essi desiderino d’esaminare piú tardi, diviso e suddiviso in carte parziali di scala maggiore. È ben vero che il piano di una pubblicazione periodica e la varietà che vi è indispensabile non consentirebbero poi il necessario numero di suddivisioni, e costringerebbero anche quelle poche che sono indispensabili entro limiti angusti. Per accompagnar quindi brevità con chiarezza suddivideremo in periodi, ciascuno di cinquant’anni, le epoche che stiamo per prendere in esame. Per tal modo ogni articolo comprenderà la storia della lingua italiana in un’epoca sola; e vi si terrà conto soltanto di quegli autori piú insigni i cui scritti servirono di modello nelle età rese illustri dal loro genio; e soltanto quei fatti vi saranno presi in esame che o non sono stati sin qui bastantemente chiariti, o da cui precedenti scrittori non hanno derivato tutti i vantaggi che se ne sarebbero potuti trarre con il dedurne principi e conclusioni applicabili alla storia e alla letteratura in generale.

Confessiamo apertamente, senza affettazione di modestia, che noi andiamo debitori ad altri scrittori di tutti o presso che tutti i fatti che alleghiamo; ma, allo stesso tempo, senza tema d’incorrere la taccia di vanità, dichiariamo una volta per sempre che le considerazioni suggerite da quei fatti, le varie conseguenze da essi dedotte e i principi generali a cui forse perverremo, veri, falsi o dubbi che siano, nuovi o già da altri scoperti, non sono presi a prestito da opere altrui.

Può dirsi in vero che gli Italiani, e in tal rispetto ogni straniero che amasse la loro lingua non poteva che imitarli, furono tanto abbagliati dallo splendore dell’epoca di Dante, Petrarca e Boccaccio, che non seppero discernere quelle luci minori, che, pallide a paragone dello splendore di quelli e distribuite a lunghi intervalli, hanno nondimeno illustrato di tempo in tempo gli indizi della civiltà nascente e del suo silenzioso progresso attraverso l’oscurità e la barbarie medievale. La civiltà si stabilisce principalmente sul numero e sulla crescente certezza delle idee, e le idee sulla letteratura, e la letteratura sulle lingue delle diverse nazioni. Chi dunque meglio sapesse rintracciare l’origine d’una lingua che è divenuta lingua letteraria ed ha servito di mezzo per la diffusione e l’ornamento del sapere umano, sarà meglio in grado di trarre le piú giuste deduzioni intorno alla storia della civiltà di ciascuna nazione.

Ma il tentativo di rintracciare le origini oscure e remote della lingua italiana sarebbe forse una fatica provocata piuttosto dalla curiosità che dall’utile, se le conoscenze che ne derivassero non fossero applicabili ad altri tempi e paesi. Or chi ammette il principio generale, e crediamo che pochi sian disposti a negarlo, che la natura sempre procede nelle sue operazioni allo stesso modo, e invariabilmente esige che alle stesse cause susseguano i medesimi effetti, si dorrà che in mezzo alla generale avidità di sapere, miglior uso non sia stato fatto di quelle date e di quei documenti che, se pur scarsi per numero, ci avrebbero potuto soccorrere a penetrare il modo con cui la lingua italiana s’è formata; d’onde, procedendo dal noto al men noto, a formulare qualche utile congettura circa l’origine e lo sviluppo d’altre lingue.

La lingua greca può rintracciarsi storicamente fin quasi all’Iliade, ma perché in quel poema la lingua e la poesia avevano raggiunta sì grande perfezione, non siamo in grado di formulare congetture più lontane. Onde i Greci dicono che la loro lingua balzò d’un tratto, con tutta la sua energia, ricchezza ed armonia dal genio d’Omero come Pallade intera ed armata dal cervello di Giove; e nello stesso modo piace agli Italiani di dichiarare che la loro lingua, di poco in verità inferiore alla greca, sorse, crebbe e venne a perfezione nel corso di mezzo secolo dal genio di Dante, del Petrarca e del Boccaccio.

Diversamente pensava Dante, benché sapesse e apertamente dichiarasse di aver resi tali servigi alla sua lingua materna che essa durerebbe fino alla più lontana posterità, aggiungendo all’esempio regole, osservazioni e teorie, neglette bensì durante il corso di molte generazioni, ma accolte oggi come vere e luminose. Nondimeno, pur avendo nobilitato, invigorito e consolidato la lingua, non se ne giudicò, per questo sol conto, il creatore. «In questa lingua volgare, e specialmente per rima — scrive in uno de’ suoi trattati —, apparirono questi scrittori più d’un secolo e mezzo fa». Alludeva principalmente ai Siciliani, i cui versi sono i più antichi che mai fossero scritti in una lingua non molto diversa da quella che usarono gli antichi Toscani, immediati precursori di Dante. Al tempo stesso rammenta certi antichi autori lombardi, tra’ quali esalta specialmente Sordello. Usarono essi un dialetto più vicino al provenzale che al siciliano, e benché non contribuissero quanto i Siciliani a stabilire la lingua italiana, nondimeno giovarono ad arricchirla. La poesia siciliana appartiene più propriamente all’epoca di cui tratteremo nell’articolo successivo, poiché prima che la Sicilia, sotto il regno di Federigo II il quale ivi risiedette, avesse fornito alla Toscana e alle altre regioni meridionali i primi modelli della poesia volgare, i componimenti de’ trovadori lombardi dell’età di Federigo II sono prova che nelle regioni settentrionali della penisola, non doveva trascorrere gran tempo prima che si scrivesse una lingua comune a tutta la nazione. E il dialetto romanzo de’ trovadori lombardi è principalmente composto di parole derivate dal latino e quasi interamente monde del teutone che in quel tempo prevaleva nei dialetti romanzi allora in uso presso altre nazioni. Chiunque paragoni i frammenti di quegli scritti in dialetto romanzo, troverà prove abbondanti di quanto abbiamo suggerito nell’articolo precedente, che cioè la lingua volgare, scaturita dalla corruzione del latino e comune a tutte le nazioni state a lungo sottomesse al dominio de’ Romani, assunse nel corso degli anni e in ogni paese modificazioni sempre più varie e notabili. I due estratti seguenti basteranno a dimostrare quanto diversamente fosse pronunziato, variamente versificato e quanto strettamente intessuto con le forme gotiche delle nazioni settentrionali e con la barbara latinità di quelle meridionali. Il primo estratto è opera di Federigo II imperadore, il secondo di Ottifredo, monaco di Weissenburg, il quale, per inculcare più efficacemente le dottrine religiose, imprese la traduzione de’ Vangeli in versi rimati di lingua volgare:

Plas mi cavallier Francés

e la donna Catalana;

el onrar del Ginoés;

e la court de Castellana;

lon cantar Provensalés,

e la dansa Trivisana;

e lon corps Aragonés;

e la perla Julliana;

la mans e kara d’Anglés,

e lon donzel de Thuscana.

Ed ecco l’estratto in dialetto Romanzo-teutonico:

Nu will il, scriban unser heil,

Evangeliono deil,

so wir no hier bigunnun

in Frenkisga zungun.’

La lingua di Federigo assomiglia al provenzale romanzo, che si suddivideva in molti dialetti, alcuni de’ quali simili al francese che si parla a Marsiglia fatta che si abbia ragione di alcuni mutamenti prodotti dal tempo, mentre gli altri non si distaccavano gran che dall’italiano che si parla pure oggi dagli abitanti di Nizza e da cui poco si diversifica il dialetto della canzonetta.

Or chi non vede che le vocali predominanti nella pronuncia del popolo meridionale son più numerose e producono più lunghe modulazioni nei versi che più somigliano alla lingua italiana? e che quanto più i versi romanzi si assimilano al teutone, tanto più riescono aspri per l’articolazione delle consonanti che di lor natura prevalgono in tutte le lingue settentrionali?

Il nu (ora) due volte usato da Ottifredo è una palese abbreviazione del latino nunc; al modo stesso will e scriban sono i verbi volo e scribo; Evangeliono è l’Evangelium del latino e zungun, d’onde derivano il sostantivo inglese song e il verbo sing, benché sia da alcuno ritenuto di origine teutone, ha certamente la sua radice nel sonum de’ Latini, d’onde poi il sonetto de’ Provenzali e degli italiani. Nessun verso esistette in que’ tempi che non fosse accompagnato dalla musica e dal suono. E la musica, affidata ai dì nostri piuttosto agli istrumenti che alle voci, era allora eseguita in modo opposto; e i versi messi in musica guidavano le danze, né mai versi e musica andarono disgiunti. E quindi sonum che per i Latini significò esclusivamente suono, venne genericamente a indicare nell’età di mezzo parole accompagnate da misure di verso e di canto.

Le parole d’origine teutonica che si possono rintracciare ne’ dieci versi di Federigo sono in minor numero di quelle d’origine latina ne’ quattro versi del monaco alemanno; e seppure la lingua di Virgilio si ritrovi mutilata e imbarbarita nel dialetto romano-italico, nondimeno, se può dirsi così, vi perdura il profumo dei classici come emanasse dai petali d’una rosa appassita. La frase Corps Aragonés non può tradursi letteralmente con grazia, e forse neppure con decenza in nessuna delle lingue moderne, nondimeno essa richiama l’energica eleganza con la quale nell’Eneide ci troviamo improvvisamente offerte agli sguardi, senza velo alcuno, le belle membra delle immortali seguaci di Giunone:

Sunt mihi bis septem praestanti corpore Nymphae,

quarum, quae forma palcherrima, Deïopeiam

d’onde di recente il Monti derivò il bel verso:

Scale bei corpi di Dardanie donne.

La parola kara che può rendersi con faccia venne pronunciata cera dagli Italiani dell’età posteriore a quella di Federigo, ed è graziosamente usata da un antichissimo poeta:

Pen passa rosa e fiore

la vostra gentil cera

lucente più che spera.

Gli antichi tuttavia usarono la parola carnagione nello stesso significato e fu più tardi preferita dagli scrittori come più nobile, ma di fatto a causa della sua lunghezza non penetrò mai nell’idioma popolare che invece adottò cera; poiché la lingua parlata sempre tende ad adottare vocaboli brevi, e li abbrevia eli mutila quando sono lunghi. Onde nella lingua greca e nella francese, e particolarmente nell’inglese, molte lettere e specialmente molte vocali sono scritte bensì, ma non pronunciate; né sarebbe avvenuto diversamente in Italia, se gli abitanti delle varie regioni non avessero parlato i loro particolari dialetti e la lingua nazionale non fosse rimasta sempre assolutamente letteraria. Nell’introduzione a questa serie di articoli abbiamo premesso l’osservazione generale che tutte le caratteristiche peculiari e gli inspiegabili fenomeni della lingua nazionale d’Italia derivano da ciò ch’essa fu sempre scritta soltanto e non mai parlata; onde la sua ortografia, poiché non ebbe ad acconciarsi ai mutamenti e ai capricci della pronuncia popolare, rimase intatta ed uniforme nei libri delle diverse età passate, così che i segni alfabetici d’ogni vocabolo scritto sono esattamente riprodotti dalla modulazione e dall’articolazione della voce de’ lettori. E alla fine tanto il vocabolo popolare cera, quanto la parola carnagione derivano entrambi dal romano kara e sono modificazioni del latino caro (carne); e innumerevoli altre parole potrebbero allegarsi nello stesso modo a mostrare per quale processo la pura lingua de’ Romani venne trasmutata in barbaro latino, nel dialetto romanzo comune all’Europa medievale, nel dialetto romanzo secondo esso fu modificato e reso peculiare ai diversi paesi, nelle varie lingue nazionali e finalmente in una sola lingua scritta che tuttavia non venne parlata in Italia, quantunque a volte si arricchisse e a volte si spogliasse di molte parole de’ dialetti provinciali che tutti derivano dalla stessa unica fonte. Così la natura, nelle lingue come in tutte le cose, procede col medesimo metodo, come si dimostra nella molteplicità de’ vegetali, i semi dei quali conformemente alla diversa qualità del terreno e della coltura, artificialmente o spontaneamente, producono innumerevoli varietà: e il mandorlo per gradi divien pesco grazie all’ingegnoso metodo di coltivazione del Signor Knight; e il bulbo del girasole del mercato fiorentino si trasforma nel Jerusalem artichoke del mercato di Covent Garden.

Coloro i quali possono dedicarsi, come Voltaire, alla ricerca, discernendo in questi residui dell’antichità non soltanto l’origine e le trasmutazioni delle lingue, ma anche il genio, i costumi e la storia delle nazioni, rileveranno da questi versi di Federigo che né il succedersi delle età, né il variare delle rivoluzioni o il largo diffondersi del sapere hanno potuto alterare le caratteristiche per cui si differenziano i vari popoli della età di mezzo. Il bon ton della cavalleria francese era destinato a trasformarsi nel sanculottismo della democrazia e nel giannizzerismo del periodo napoleonico, e sta ora forse per essere infettato del rabido fanatismo degli ultra sotto i Borboni, nondimeno non è tanto sperduto nel tempo da non lasciare larga traccia della propria esistenza. Gli Spagnuoli ancora corteggiano le belle con un ardore di devozione e di galanteria che ignorano gli altri popoli d’Europa; ancora le dame aragonesi vanno celebri per il loro portamento aggraziato di cui sono debitrici alle belle proporzioni delle loro forme; ignoriamo se ancora le Trevigiane si distinguano per grazia ed agilità nella danza, ma certamente queste doti sbocciano più spontanee in quella regione d’Italia dove le dame dimostrano maggior spigliatezza, vivacità -e gaiezza negli atti, ne’ pensieri e nel loro stesso dialetto. Alla carnagione e alle fattezze che l’imperatore Federigo ammirava le dame inglesi debbono l’impressione piacevole ch’esse provocano nella mente di uno straniero il quale le veda per la prima volta, e pur che da’ loro volti spirasse anche il fuoco della bellezza italiana, esse sarebbero sicuramente le più pericolose tra le figlie di Eva. Per lo più esse posseggono ancora mani di bella forma, e se l’imperiale poeta non mostra di aver notati i loro piedi, sarà questo da attribuirsi alla sua cavalleresca galanteria. Voltaire ha tramutato in manufacture il complimento rivolto ai Genovesi; e onrar contrazione di onorar diventa ouvrar [1]; ed essi furono in fatti gli industriali, i navigatori e i banchieri, che è soltanto un nome diverso per usurai, di quasi tutta l’Europa; furono insomma né più né meno che un popolo di bottegai, i quali sono in tutti i paesi i migliori e più destri maestri di cerimonie, e i più eloquenti oratori nell’arte suasiva e nell’adulazioni di cui si valgono per lusingare il cliente ad un affare. Ancora sono notabili per la bellezza e la vivacità delle loro fattezze i giovani della Toscana i quali un tempo servirono di modelli ai nostri antichi dipintori di angeli, tra essi il Mantegna e Frate Angelico, e nominiamo quest’ultimo perché fu uno de’ meglio dotati, se pur dei meno celebri, rinnovatori delle belle arti in Firenze. Quel che significhi Perle Jullienne né sappiamo indovinare, né ritrovare in alcun autore. Ed è qui opportuno di osservare, quel che nessun altro ha notato, che Federigo II non sembra aver giudicati i Tedeschi sui quali regnava meritevoli di venir annoverati fra le nazioni civili. Egli coltivò la poesia romanza, come Federigo il Grande di Prussia coltivava quella francese, ed entrambi trattarono i loro sudditi e concittadini come barbari atti soltanto ad uccidere e venir uccisi in battaglia. Sì fatta deficienza di amor patrio era più perdonabile nel più antico Federigo, perocché soltanto la minor parte de’ suoi domini si trovava in Germania, dove, fuor che tra’ preti e nelle loro opere di teologia e in certi cronisti che usarono un miserevole latino, non sussistette lingua atta ad essere scritta all’infuori di quella romanza. E già vedemmo come il monaco Ottifredo per rendere i Vangeli intelligibili ai Tedeschi, si proponesse di tradurli in romanzo francese riuscendo soltanto a volgerli in romanzo teutonico. Similmente il lungo soggiorno di Federigo in Italia lo indusse ad adottare il dialetto romanzo che era a quel tempo principalmente usato tra i trovadori lombardi.

L’Italia tuttavia ha avuto pochi trovadori a confronto della Francia e della Spagna; ed anche quei pochi portavano in altri paesi l’arte della guerra, de’ versi e dell’amore, cercando il patrocinio dei re, dei conti e dei baroni che si spartivano l’Europa fra loro, dividendola in porzioncelle. Se il genio, il carattere straordinario e la storia romanzesca di Sordello non avessero spinto la curiosità dei posteri a disotterrare le sue poesie, forse fino ad oggi durerebbe viva l’idea che l’Italia non avesse avuto mai trovadori. Pare che la fama di Sordello non riposasse, come quella di altri poeti di quel periodo, sopra i versi da lui diretti alle gentildonne, benché tutti gli autori francesi e italiani, studiosi di antichità letterarie, abbiano errato quando, copiandosi l’un l’altro, hanno asserito non esistere di lui versi d’amore.

Il Tiraboschi ne riporta molti esempi, e il signor Renouard ne ha pubblicati a Parigi vari saggi bellissimi. Veramente Sordello amoreggiò con varie gentildonne, e non di rado ne ottenne corrispondenza; né vi fu bella donna in quella età, che non godesse di confessare la propria debolezza verso qualche celebre trovadore, o che non si sarebbe vergognata di un amante incapace di celebrare in versi le sue attrattive. Ma i tempi, le fortune e il carattere di Sordello cospirarono col suo genio a dargli la riputazione di potentissimo artefice di un alto e sdegnoso genere di poesia, che fulminava amare verità e sfide contro i principi. Dalle stanze che siamo per citare apparisce che egli vedeva un solo eroe in tutta quanta l’Europa, e che era l’amico di Blacas, barone potente, trovadore e guerriero. In occasione della sua morte, Sordello afflitto dal pensiero che il mondo avesse perduto il solo uomo capace di dare esempio di vera magnanimità e di valore, manda il cuore di Blacas a tutti i monarchi dell’Europa, acciocché se lo dividano fra loro, e mangiandone porzione, acquistino quel coraggio che non avevano ricevuto dalla natura:

Pianger vuoil’ en Blacaz en aquest leger son

ab cor trist e marrit: et aien ben rason.

Ch’en lui mescabat ai segnor et amie bon,

e car lutt laip valent en sa mort perdus son

tant es mortal lo dans, che non hai soispeisson

che jamai si revegna, se ’n tal guisa non

ch’ on li tragga lo car, e che ’n manjon i baron

che vivon descorat: poi s’avran de’ cor pron.

Primier mangie del cor, persoché gran ops l’es,

l’emperaire de Roma, se il vol los Milanes

per forsa conquistar, car lui tenon conques,

e vio desertat malgrat de sos ties

e de seguentre manico lo reis Frances,

poi cobrarà sa terra ch’ el perd par sa nescies.

Ma s’ il creirà sa mare, el non mangerà ges

car ben par son pretz ch’el non fai ren che il pes.

Del rei Angles mi plats, car es pane coratios

che manie pro’ del cor, poi ser’ valens e bos,

che cobrarà la terra, per que viv dè pretz blos

qu’ il tol lo rei de Fransa car lo sap nuaillos.

E lo rei Castellan teng ch’en mang per un dos:

car dos regesmes ten, e non es per un pros.

Ma s’ il en vol manjar, teng qu’ en maing a rescos

che s’ il mare o sapia batrial al bastos.

Del rei d’Aragon voil, ge del cor deja manjar,

ch’ epso il farà de l’anta descargar

qu’ un ane de Marseille e de Meilan contar.

Non pot estiers per re que sapcha dir, ne far.

Et apress voit del cor donom al rei d’ Navar,

che valia mas cons che rei: sò unch contar.

Forto es quan dieus fai hom en ricor pojar:

poi sofraicha de cor lo fa de pretz bassar.

Al conte di Tolosa es ops que ne mang ben,

s’ il membra so qu’ el tener, ni so que ten,

car si ab antro cor sa preda non reven,

non par che ja revegna ab quel c’ ha en sen.

El Comt Provensal taing qu’ en mang e si il conven:

ch’om che deseretalz viv gaire, non val rien.

E si tot ab effortz si diffend, nis capten,

ops l’ es manie del cor pel grev fais q’el sosten.

Li baron m’ volran mal de qu’ ien die ver:

mas hen sapihat, qu’ ien il pretz usant pane, com ill me

bel restaurs, sol c’ ab vos posea trobar mercé,

a mon dan get cascun que per amie non m’ ten.

Traduzione

« Io voglio piangere per Blacas, con afflitto cuore. Ed ahi! che ho ben ragione di piangere, imperocché mi fu tolto il mio signore e il mio amico! e tutte le sue alte gesta perirono seco; ed è irreparabile il danno, ammenoché i suoi baroni, rimasti sconfortati per tanta perdita, non gli traggano dal petto il cuore ardito e magnanimo, e se ne cibino, per poi avere anch’essi cuore che basti.

Primo se ne cibi l’imperatore di Roma, imperocché grande n’è il suo bisogno, se vuol riacquistare per forza il Milanese che gli fu tolto, e per la cui perdita, malgrado dei suoi Tedeschi, egli trascina una esistenza maledetta. Poi se ne cibi il re di Francia per riacquistare la sua terra; ma non si lasci consigliare dalla madre, e agisca secondo il proprio, e non secondo il piacere altrui.

Siccome il re d’Inghilterra ha poco coraggio, mangi una buona porzione di cuore; poi sarà buono e saggio, e ricondurrà sotto il suo scettro i regni che Francia gli ha fatti fuggir di mano. Il re di Castiglia ne mangi per due, poiché spinge la regia ala sopra due regni; ma lo mangi in segreto, imperocché se lo sapesse la madre, il bastone glie ne darebbe la ricompensa.

Il re di Aragona mangiandone, potrebbe cancellare la vergogna sofferta a Milano e a Marsiglia; né v’è altra cosa ch’egli possa dire o fare per cancellarla. Dopo di lui, daremo parte del cuore al re di Navarra, che vale meno di un conte. Oh, la è cosa da ridere quando Iddio fa che l’uomo metta tutta la sua fiducia nelle ricchezze. Diamogli un pezzetto di cuore: dopo averlo mangiato, forse che egli terrà da meno il prezzo dei suoi tesori.

Il conte di Tolosa ne mangi bene, perché gli manca un cuore capace di riguadagnare ciò che ha perduto. Se gli piacesse il riposo dato al conte di Provenza, se potesse adattarsi a vivere privo di quanto gli fu caro, egli non varrebbe niente. Se fosse un’altra volta vinto e imprigionato, l’essersi cibato del cuore, gli farebbe sopportare con coraggio il grave peso dei suoi infortuni e delle catene.

I baroni mi odiano perché il vero è sulle mie labbra, e vi starà sempre; ed è noto a tutti che io faccio tanto conto di loro, quanto essi ne fanno di me. Oh! Bel Ristoro! volgetevi a me sorridente, e m’odii pur chi vuole; e il mio ardente sdegno disperderà tutti coloro che non mi danno il nome di amico ».

Offrire un cuore umano come vivanda dilicata pare che non fosse un complimento fuor d’uso. Fra quelle novelle del Boccaccio, nelle quali egli si allontana pochissimo dai fatti storici, ve n’è una in cui la castellana di Rossiglione mangia senza saperlo il cuore dell’amante, che suo marito, dopo averlo ucciso in un bosco, gli ha levato dal petto e fatto cucinare squisitamente. Le circostanze del fatto, come sono raccontate dagli storici francesi, riescono anche più orribili. Nella novella, il marito si contenta di scoprire alla moglie quale specie di cibo le abbia fatto mangiare; ma gli storici, aspirando forse a produrre un effetto più tragico, rappresentano il marito che dopo cena fa vedere alla moglie la testa sanguinosa dell’infelice suo amante. Il dramma moderno in cui un’altra gentildonna riceve il cuore dell’amante come un dono del marito, è fondato anch’esso sulla storia delle Crociate. Finalmente negli antichi racconti francesi, dodici mariti si uniscono per uccidere un cavaliere che era stato l’amante delle dodici loro mogli; gli strappano il cuore, e in una festa data appositamente, lo fanno presentare come un piatto scelto a tutte le dodici donne riunite. [2] Pare per conseguenza, che a quei tempi le descrizioni di atrocità di simil genere non svegliassero nello scrittore e nei lettori il disgusto che immancabilmente ecciterebbero ai tempi nostri. Sordello, in confronto al gusto dei suoi contemporanei per le storie orribili, diede prova di un sentire meno depravato e di originalità maggiore. La distribuzione di cuori umani sminuzzati in intingoli eccita meno orrore, perché non viene rappresentata come un fatto; e il motivo dell’invito ironico al banchetto di Blacas (che è il più nobile elogio che il poeta potesse offrire al suo amico) è l’amaro disprezzo meritato dai principi di quei tempi.

Anche dalla traduzione letterale in prosa trasparisce il vigore di que’ versi, e le idee, benché comuni, hanno un fuoco e una novità di espressione particolare ai poeti antichi che scrissero guidati dalla meditazione e dall’innato sentire, come gli eruditi lo sono quasi sempre dall’arte e dalla reminiscenza.

Dante celebra Sordello come uomo di eloquenza meravigliosa, e come uno dei fondatori della lingua nazionale italiana, perché né scrivendo né parlando non impiegò mai il suo nativo dialetto mantovano, ma studiò attentamente i vari dialetti di Verona, di Cremona, di Brescia e di altre città di quella parte d’Italia, e scelse le parole più adatte a formare una lingua, gli elementi della quale, benché derivati dalla lingua volgare, pure, combinati con eleganza e armonia, formavano uno stile meno plebeo, e più adattato alla poesia e alla eloquenza. [3] Noi trascriviamo le parole originali perché provano evidentemente che una lingua nazionale era già sorta, e faceva rapidi progressi non solamente in Toscana, ma ancora in Lombardia, già da un’età prima di Dante; e che, sebbene la poesia di Sordello avesse forme provenzali, era non pertanto composta di parole in uso fra gl’Italiani. Il modello delle parole impiegate da Sordello, appartiene, è vero, al dialetto romanzo, ma le radici ne sono tutte latine, e colle medesime modificazioni che distinguono ai tempi nostri il linguaggio letterario dell’Italia da tutti gli altri nati dalla stessa sorgente latina. Un uomo di lettere fece l’esperimento, e riuscì, con pochissime alte-razioni di suoni, a ridurre tutte le parole delle stanze di Sordello, in altrettante della lingua italiana scritta de’ tempi nostri. [4] Un altro scrittore fece un esperimento diverso riguardante le allusioni storiche di quelle stanze, traducendole ed applicandole alle teste coronate che regnavano durante la dittatura di Bonaparte. Egli le esorta a dargli morte, e a dividere tra loro il suo cervello a guisa di manicaretto. Il solo fra i sovrani di quel periodo di tempo, al quale il consiglio non poteva essere applicato, viveva allora sconosciuto anche a sé stesso, e afflitto da una calamità che rendeva doppiamente maligno l’invito di banchettare col cervello di un uomo creduto allora fornito d’onnipotenza, in grazia di solo vigore della sua mente. Se la storia segreta de’ monarchi dell’epoca di Sordello somigliasse a quella delle case regnanti dei nostri giorni, la posterità potrà conoscerlo meglio di noi, posto che la razza umana s’interessi ancora a questi pettegolezzi. Coloro non pertanto che hanno bastante cognizione degli aneddoti regali dei nostri tempi, per istituire un confronto con quelli ai quali allude Sordello, possono ricorrere alle storie ed alle vite dell’imperatore Federigo II, di San Luigi IX re di Francia, di Enrico III re d’Inghilterra e di San Ferdinando III di Castiglia; e ne sapranno tosto più di quello che sia necessario per illustrare queste poche stanze con un volume di dotti commenti. Un’impresa più difficile si è quella di distinguere certi fatti dalle invenzioni romanzesche, le quali invilupparono la vita di Sordello, durante il medio evo. Non vi è dubbio che egli ha goduto vivendo di una celebrità straordinaria, altrimenti la posterità non gli avrebbe attribuito un carattere senza pari, e il compimento delle più incredibili imprese. E ben detto posterità, dacché pochi dei suoi contemporanei sapevano scrivere, e la storia della sua vita, di cui esistette un manoscritto così nel dialetto provenzale come nell’italiano, pare sia stata composta molto tempo dopo la sua morte. È probabile che il provenzale sia il più vecchio, e risalga al XIII secolo, e che l’italiano ne sia una traduzione fatta nel secolo successivo, come avvenne di molte altre opere dello stesso genere; benché qualche critico italiano faccia mostra di credere che l’originale sia invece l’ultimo dei due. Il saggio seguente servir ad illustrare il carattere romanzesco attribuito a Sordello, e lo stato della lingua italiana a quell’epoca.

«Sortiel fo’ Mantovano d’un castel che à nome Goito: gentil cattano: fo’ avvinente omo della persona, e grande amatore. Ma molto el fo’ scaltro, e falso verso le donne, e verso e’ baroni da cui l'istava. E s’intese in Madonna Cunizza, sorore de Ser Eccelino e de Ser Alberico da Romano, ch’era mogliera del Conte de Santo Bonifacio. E per volontate de Ser Eccelino el involò Madonna Cunizza, e menolla via. Poco apresso et el se n’andette nell’Onedese ad un castel de quelli d'Estrue, da Ser Enrico, e da Ser Guillelm, e da Ser Valpertino ch’erano molto suoi amici. Ed isposovvi una sua sorore celatamente ch’avia nome Madonna Otta. Vennesene poi a Treviso. E quando quel d’Estrue lo seppe, sì lo volia offendere de la persona. E li amici del Conte de Santo Bonifacio issamente: Dond’ello istava armato suso in la casa de Misser Eccelino.

Quand’el andava per la terra el cavalcava un bono destriere a grande compagnia di cavalieri. Per paura di quelli che il volian offendere el si partì, ed andossen en Provenza et istette dal Conte di Provenza: e ivi amò una gentil donna e bella: ed appellavala ne’ suoi cantari ch’el facia per lei: Dolce enemica. Per la qual donna el fece mante bone canzoni.

In quest’antico manoscritto le sue galanterie sono senza fine. Sordello è un cavaliere errante, più innamorato, benché meno matto di Orlando, e non meno formidabile al mondo intero. Per mancanza di migliore autorità, gli storici si sono contentati di seguire quei manoscritti, probabilmente avversi a lasciar da parte un personaggio fatto espressamente per abbellire le loro pagine. Quando mancano i documenti per impugnare la verità delle loro narrazioni, quelli scrittori hanno pur sempre buon giuoco, perché vanno sicuri della impunità; ed appunto a quei tempi si mostrarono tanto infervorati a largheggiare nel meraviglioso. Il Platina stesso, le cui biografie cronologiche de’ papi gli tirarono addosso in vita tante persecuzioni, e morto gli assicurarono un posto fra i martiri della causa della verità, ci fa dono nella sua storia di Mantova di particolarità sì romanzesche circa a Sordello, che l’Ariosto avrebbe esitato a metterle ne’ suoi versi. Egli ci dice che Sordello nacque a Goito presso Mantova nel 1189; e parla di lui come di uno dei più nobili progenitori della casa dei Visconti. Ce lo descrive di media statura, di bel portamento, attivissimo, abituato a sopportar la fatica, e di un caldo e voluttuoso temperamento, quantunque al tempo medesimo capace di severe privazioni. Aggiunge che era di coraggio intraprendente, non ricusava mai una disfida, combatteva quasi giornalmente, ed esciva trionfante da tutti i combattimenti. Noi non abbiamo né spazio, né inclinazione di entrare nelle particolarità delle grandi ed eroiche gesta narrate di lui anche dal Platina. Si racconta che egli assediasse la virtù delle più nobili dame e principesse d’Europa, nessuna delle quali resse contro i suoi assalti; di più, lo storico dà gravemente una lista dei nomi di quelle che furono aggiunte al novero delle sue conquiste. Noi lo vediamo provocare i più formidabili guerrieri a misurare seco la propria lancia; e dopo averli vinti, invece di degnarsi di ritenerli suoi prigionieri, mandarli in regalo ai vari monarchi d’Europa. Nulla può eguagliare l’altero disdegno col quale egli tratta molti principi; eppure essi son lieti di invitarlo alle loro corti, e di caricarlo di onori e di doni, perché senza il suo aiuto era impossibile vincere una battaglia, prendere o difendere una fortezza, o conchiudere un trattato di alleanza o di pace. Tale si è la sostanza di molte e lunghe pagine dell’Istoria del Platina, che si lasciò sedurre a spacciar frottole dall’amore del suo paese, giacché lo storico e il suo eroe erano egualmente di Mantova. Spinti da altri motivi, altri scrittori sono andati più oltre; qualcheduno per regalare ai suoi lettori uno scandalo regio, gli altri per dare ad intendere di conoscere fatti ignoti al resto del mondo. Mosso dall’ultima di queste cagioni, il Volterrano fa di Sordello un principe regnante fondatore della dinastia dei duchi di Mantova. Noi potremmo empire le nostre pagine di altri nomi, la cui autorità è quasi eguale a quella del Platina; ma ciò che abbiamo già detto basta a dimostrare, che non vi è forse scrittore, sulla veracità del quale, trattandosi di Sordello, sia da far conto. Molti storici, pur coscienziosi nel non dipartirsi dalla verità, non hanno scrupolo, quando premuti dalla necessità, di far ricorso all’immaginazione con il prendere a prestito quei fatti di cui vogliono stabilire la verità dalla tradizione, senza il soccorso della quale si troverebbero del tutto in fallo.

Non è dubbio che ne’ primi tempi vi furono tra i trovadori parecchi personaggi di alta riputazione, alcuni grandi guerrieri, e persino personalità di rango principesco. Gli esempi più antichi, e non forse i primi della loro poesia, delle loro gesta singolari e della loro vita guerresca e voluttuosa si riscontrano nel secolo XI sotto Guglielmo duca d’Aquitania; ma le regole della loro arte poetica, chiamata gaia scienza, non apparvero che due età più tardi sebbene la gaiezza fosse fin da principio la loro musa ispiratrice. Menarono una vita di guerre e di agitazioni perpetue; perdevano, ricuperavano e riperdevano i loro domini quasi ad un’ora; le loro corti sfoggiavano gran pompa e prodigalità a cui sopperivano per mezzo delle loro violente e non di raro frodolenti estorsioni; l’amore della gloria e un pun-tiglioso senso d’onore ispiravano loro sentimenti magnanimi e alle volte crudeli; la vendetta era il primo de’ loro doveri sociali, e quella vendetta era più applaudita che era più pronta, più inumana, ottenuta attraverso i più astuti espedienti e poco diversa dal tradimento. Quella stessa religione che attenuava ed addolciva le loro passioni, tendeva pure ad irritarle; erigevano chiese, fondavano monasteri, guerreggiavano per liberare il Sepolcro di Cristo, e pagavano le spese di guerra con il denaro estorto ai loro sudditi o rapito a pacifici viaggiatori. Ad attenuare le perpetue inquietudini di una vita e di sentimenti tanto tempestosi ricorrevano ai piaceri del desco, alla danza, agli amori e al fascino della poesia, e pur non avendo forse mai letto un sol verso di Orazio, seguivano il consiglio dato da Chirone ad Achille partente per Troia:

Illic omne malurn vino cantuque levato,

deformis aegrimoniae dulcibus adloquiis.

ORAZIO, Epod., XIII, 17-18.

Non ci è noto se l’eroe greco intonasse versi d’amore, ma quando i principi trovadori cantavano l’armi e i cavalieri, non erano in quanto poeti molto diversi da Achille:

Alle tende venuti ed alle navi

de’ Mirmidoni, ritrovar l’eroe

che ricreava colla cetra il core,

cetra arguta e gentil, che la traversa

avea d’argento, e spoglia era del sacco

della città d’Eezïon distrutta.

Su questa, degli eroi le glorïose

estecantando, raddolcia le cure.

Iliade, IX (trad. Monti), 235-42.

Per quanto diverse possano essere le apparenze, nondimeno chi miri più addentro alle cose, rileva che la Grecia a’ tempi troiani era divisa in piccoli principati; e i suoi istituti politici, l’autorità d’Agamennone fondata sui consigli degli altri capi, la sua forza militare formata dai contingenti volontari delle navi e delle squadre offerti da vari stati indipendenti, la stessa spedizione contro l’Asia a vendicare l’onore offeso, soddisfare l’obbligo di un giuramento e sciogliere un voto religioso, quel misto di superstizione e d’empietà nel carattere degli eroi, la lor vita girovaga e di rapina non che le caratteristiche generiche della loro indole mostrano una stretta rassomiglianza con le condizioni politiche dell’Europa medievale e con i guerrieri delle prime crociate. Ed in vero tanto l’una quanto l’altra di queste epoche fluttuò tra la barbarie e la civiltà; e circostanze simili eccitano e modificano le passioni umane e indirizzano le azioni degli uomini nello stesso modo in tutti gli individui e in tutte le nazioni quantunque differiscano per età, clima e religione. Il centauro filosofante consiglia il ricorso al vino, al banchetto, alla cerchia amichevole ed al canto per alleviare le fatiche della guerra, il dolore per la morte degli amici e il presentimento di una fine improvvisa ed inattesa; ed al rimedio, forse anche più efficace con cui Paride si consola dell’esito sfortunato di un combattimento col suo rivale [Iliade, III, 71-78 trad. Foscolo] e che la bella dea Teti propose all’afflitto suo figlio:

Eppur di cara

donna l’amplesso il col consola: il tempo

ch’a me vivrai, gli è breve, e violenta

già t’incalza la Parca.

Iliade, XXIV (trad. Monti), 170-3.

Tale infatti fu la dottrina e tale la pratica tanto de’ crociati quanto dei bardi guerrieri; ed uno tra essi inculca gli stessi principi con modi d’argomentazione che fortunatamente gli antichi non conobbero e che i moderni hanno ricevuto per fidecommesso dai trovadori: « La gaiezza — egli scrive — desta il valore, e il valore conduce all’onore; pertanto quando i principi e i poeti sanno toccare le corde della gaiezza e trarne suoni come da un istrumento, avranno seguaci fedeli in guerra, generosi cavalieri e dame amanti ». Ma la poesia divenne pure istrumento di vendetta, come in verità è sempre stata, e fu a quei tempi un’arma formidabile quando adoperata dalla stessa mano che teneva la spada e lo scettro: Riccardo Cuor di Leone lanciò versi satirici contro i suoi ricchi vassalli e gli amici che tardavano a riscattarlo quand’era prigioniero in Germania.

Ma l’esempio di personaggi illustri attrasse una gran folla di imitatori, e la poesia che sulle prime era stata arte di grandi e di nobili, divenne alla fine l’arte di cortigiani girovaghi e finì nel ciarlatanismo di parassiti che componevano versi per recitarli durante i conviti dei grandi; onde, in parte per adulazione e in parte per sincera ammirazione, essi magnificarono i nomi cd esaltarono le gesta de’ loro illustri predecessori morti da più d’un secolo. Tale la fonte d’onde originarono tutte le storie di incredibili prodezze ascritte ad uomini, i quali, come Sordello, erano veramente vissuti sulla terra; e la credulità popolare ne venne indotta a ritenere non del tutto fittizie le gesta portentose de’ fantastici eroi celebrati ne’ romanzi cavallereschi del secolo XV che furono poi condannati a perpetuo oblio per opera di un Boiardo e d’un Ariosto.

La prima ordinata compilazione della poesia e della storia letteraria de’ trovadori fu impressa, circa l’anno 1400, da un monaco genovese appartenente alla famiglia Cibo, meglio conosciuto sotto il nome di Moine des Isles d’Or. Questo manoscritto, trascorsi quasi duecent’anni, somministrò la materia e servì di fonte autorevole per le vite romanzesche dei trovadori messe insieme dal Nostradamo. Se poi l’opera del frate andasse distrutta prima che fosse ritrovata e generalmente diffusa l’arte tipografica e più non esistesse ai giorni del Nostradamo, ed ei la citasse soltanto a giustificazione del suo racconto o se questi l’avesse veduta e poi distrutta per dissimulare le notizie apocrife da lui introdotte, o se finalmente l’opera del monaco contenga più fandonie che fatti storici, più verità che assurdi son questioni che sapranno risolvere gli antiquari, ma di cui mi sembra impossibile che altri giudici possano decidere. Il manoscritto che si ritiene autografo è conservato come prezioso cimelio nella biblioteca Vaticana, d’onde fu trasportato a Parigi dai Francesi al tempo della loro invasione; pregio singolare di esso sarebbero le note marginali vergate dalla mano del Petrarca, il quale però era morto e sepolto assai prima che il degno frate scrivesse. E ciò basti per l’autenticità degli antichi manoscritti! Ora l’originale di questo frate non è mai stato sottoposto all’ispezione di quegli studiosi che passano a strettissimo vaglio le tradizioni storiche; e il Crescimbeni, il quale nelle sue prolisse discussioni intorno alle quisquilie della poesia italiana fa professione di scrutare minutamente la verità d’ogni parola che cita e che per tale ragione vien riportato in buona fede da molti dotti inglesi, si sforza sempre di esaltare i propri connazionali d’ogni età e racconta meraviglie per ingrossare i suoi volumi; onde, nel discorrere dei trovadori d’Italia, non soltanto accetta come autentiche le apocrife narrazioni che il Nostradamo asserisce d’aver trascritte dal monaco genovese, ma vi aggiunge pure molte assurdità derivandole da cronache inedite e dai romanzi del medio evo. Sì fatta è la venerazione che molti letterati d’ogni paese e alcuni tra i nostri contemporanei provano per gli antichi manoscritti in virtù della polvere degli archivi da cui hanno avuto il merito di liberarli, che sono indotti ad esaltarli come gli unici depositi della verità; e nondimeno essi stessi ridono della superstizione di coloro che dissotterrano scheletri da molti secoli sepolti per porli sugli altari come oggetti d’adorazione.

I Francesi, più ricchi che non gli Italiani di opere di letteratura moderna e pertanto meno ansiosi di vantare le loro antiche, e forse anche troppo amanti delle novità, trascurarono la poesia e la storia de’ loro trovadori, di numero e di pregio superiori a quelli d’Italia; e soltanto trent’anni avanti la fine del secolo scorso alcuni tra i letterati francesi ritennero che valesse la pena di rimuovere l’oscurità in cui erano avvolti i più antichi scrittori del loro paese. I loro tenaci sforzi, continuati fino ai giorni nostri sono stati coronati da un insperato successo, e, se pur quel che hanno messo in luce possa non meri-tare l’attenzione de’ poeti e de’ critici, nondimeno può riuscir molto utile agli storici e agli osservatori della natura umana. La lingua de’ trovadori fu dal più al meno comune a tutta l’Europa; ed essi furono principi, guerrieri, avventurieri e qualcuno fu anche uomo di genio; l’epoca loro, essendo stata immediatamente preceduta da uno stato di barbarie e seguita da un’epoca di civiltà, assume la fisionomia caratteristica delle età eroiche, l’età delle imprese più ardite: onde furono destate le energie di quegli uomini, eccitate le loro passioni, e le norme del diritto furono costrette a cedere al valore ed al potere: ma fu anche età di generoso sentire, e ciascun uomo che fosse consapevole della propria superiorità, poté liberamente farne uso a vantaggio della propria fama ed al fine della gloria. Il popolo, immune così dalla stupida ottusità del selvaggio, come dalla sazietà e dal pirronismo della nostra società incivilita, amava il meraviglioso ed era incline a confondere i fatti reali con le illusioni della fantasia; e quando una nazione si trova in sì fatta condizione la verità e la favola si frammescono appunto ai nomi e alle imprese di uomini mortali così da investirli, anche agli occhi de’ contemporanei, con alcuno degli attributi appartenenti agli esseri soprannaturali. E in conseguenza di questa mescolanza di favola e verità gli antichi molto saggiamente divisero gli annali dell’umanità in tre periodi, favoloso, eroico e storico, il secondo de’ quali potrebbe opportunamente indicare l’età dei trovadori.

Così di Sordello, descritto come un eroe, è oggimai difficilissimo, e forse impossibile, conoscere esattamente il vero carattere e i fatti della vita. Lo stesso Tiraboschi, solo scrittore che mai tentasse di sciogliere il problema per cui di un uomo tanto famoso tanto poco si sappia, inciampa ad ogni passo tra favole, esagerazioni e contraddizioni, e non riesce a chiarire i propri dubbi con alcun fatto positivo. Nondimeno un uomo che sfidò tutti i monarchi del suo tempo e pubblicamente rinfacciò loro viltà, che contaminò l’onore della famiglia di Ezzelino, tra i più potenti e crudeli tiranni d’Italia, e poté restare impunito da chi considerava perpetua infamia il perdono della più piccola offesa, dovette per certo essere uno degli uomini più straordinari de’ suoi tempi. Per quanto possa essere stato esagerato il fascino di Sordello sui cuori femminili da compilatori di favole meravigliose dopo la sua morte, nondimeno il ratto di Cunizza, sorella di Ezzelino, dal conte di San Bonifacio a cui era sposa è un fatto indubitabile per la testimonianza d’uno storico che visse allora, nella stessa città e si espresse in termini troppo chiari per esser malintesi. [5] E un altro scrittore, non meno notabile per la sua onestà che per la sua informazione, contribuisce una notizia supplementare che Sordello « avendo promesso di non più peccare con la dama evitò la vendetta della famiglia di lei », ma che « la maledetta Cunizza lo trasse di nuovo nel primo errore ». [6]

È probabile che lo scandalo provocato in tutta Italia da questo intrigo inducesse Dante a non assegnare a Sordello un posto nel suo Paradiso, se pur lo scorgesse tra coloro che per aver tardato a pentirsi fino al punto di morte posson soltanto raggiungere il paradiso per la noiosa strada del purgatorio; e il mirabile ritratto che un poeta, non uso a largheggiare di lodi, ha disegnato di quest’uomo straordinario ci fa meravigliare come un così cospicuo personaggio possa esser riuscito luminoso quale meteora attraverso il corso di settecento anni e rimaner poi circondato da impenetrabile oscurità agli occhi dei posteri.

« Ma vedi là un’anima che posta

sola soletta inverso noi riguarda »...

Venimmo a lei: o anima lombarda

come ti stavi altera e disdegnosa

e nel mover de gli occhi onesta e tarda!

Ella non ci dicea alcuna cosa;

ma lasciavane gir, solo sguardando

a guisa di leon quando si posa.

DANTE, Purg., VI, 61 ss.

EPOCA SECONDA

DALL’ANNO 1230 AL 1280

I poeti siciliani furono contemporanei o non molto posteriori e più celebri de’ trobadori lombardi de’ quali abbiamo discorso nell’Epoca precedente; e la lingua letteraria, benché presagita ne’ differenti romanzi provenzali usati dagli antichissimi rimatori in Italia, non cominciò a risuonare se non nel dialetto romanzo de’ Siciliani; né fu nobilitata da grandi scrittori se non dopo che il dialetto siciliano fu innestato nel dialetto romanzo de’ Toscani.

La lingua de’ conquistatori romani che, come nell’introduzione a questi articoli abbiamo accennato, predominava a principio scritta insieme e parlata in tutte le regioni soggette all’impero cominciò fin da’ primi tempi del Medio Evo a dividersi in latino scritto, chiamato curiale ed ecclesiastico, ed in latino parlato, chiamato romano rustico — e poscia romanzo. Questa divisione continuò per oltre a cent’anni anche dopo l’epoca che ora andremo osservando. Bensì nel corso di que’ dodici secoli il latino s’alterava di meglio in peggio e di peggio in meglio sotto la penna degli scrittori senza mai perdere le sue primitive sembianze. Ma il romanzo, alterandosi con la pronunzia che gli anni cangiano gradualmente in tutte le lingue parlate, e innestandosi ne’ linguaggi di tante differenti nazioni alle quali era comune, andò continuamente assumendo forme, suoni, significati e sintassi sempre più dissimili dalla lingua latina; si divise in dialetti infiniti, finché i dialetti provinciali e municipali si ricongiunsero a creare in ogni nazione una lingua letteraria distinta dall’altre nate e cresciute dalla stessa origine e nel medesimo modo. —

Sì fatte metamorfosi non appariranno fenomeni a chiunque non perderà mai d’occhio il principio generale da noi stabilito perché deriva dalla storia di tutte le lingue, e che non cesseremo d’applicare perché è principalmente efficace a farci conoscere i primordi, i progressi, le vicissitudini e lo stato attuale dell’italiana letteratura — ed è: «che le lingue si trasformano e si moltiplicano unicamente per mezzo della pronunzia ». Il romano rustico essendo più parlato che scritto il suono d’ogni sua parola si cangiò in varie guise a norma degli organi e de’ linguaggi anteriori di ciascun popolo: onde il latino presbyter divenne prebstre - prêtre - prevete - prete - priest; la sua origine, benché non possa più omai rintracciarsi oltre al πρεσβυς de’ Greci, dev’essere certamente molto più antica. — Al contrario se una lingua è più scritta che parlata s’imbarbarisce per neologismi, per durezza di costruzioni, per ineleganza d’idiotismi e per assoluta povertà di native grazie spontanee; tuttavia non soggiacendo al potere arbitrario impercettibile e invisibile delle pronunzie popolari serba perpetuamente le sue piene forme. Il latino curiale ed ecclesiastico, scritto e letto sempre, ma pronunziato di rado nel medio evo, si guastava, ma non però trasformavasi; perché ogni sua parola era fedelmente seguita con obbedienza passiva dall’occhio de’ lettori, e gli scrittori per riconoscerla preservavano scrupolosi la medesima ortografia. La parola presbyter infatti era un barbaro neologismo ignoto agli autori classici; cominciò ad essere usato nel terzo secolo dai Padri della chiesa, quando la religione cristiana introducevasi quasi contemporaneamente in tutti i domini romani; pur nondimeno d’indi in qua continuò ad essere scritto ad un modo, e inteso da chiunque sa di latino. Ma le pronunzie dissimili de’ vari popoli le quali si divisero il romano rustico in dialetti infiniti, e che poi dagli scrittori furono ridotti in più lingue letterarie, fecero sì che ogni parola, benché derivante dalla medesima origine, non potesse allora essere intesa, fuorché nel luogo dove ogni dialetto diverso era parlato dal popolo. Quindi le parole medesime che ne’ libri scritti in latino ecclesiastico e curiale giunsero fino a noi perpetuamente immutabili, erano nel latino rustico e ne’ suoi mille dialetti romanzi modificate e moltiplicate nelle varie pronunzie popolari di generazione in generazione, e furono tramandate a noi così travisate che, quand’anche serbano il loro preciso antico significato, non possono raffigurarsi corne modificazione d’una sola parola, se non da chi sa molte lingue viventi. Infatti un uomo letterato tedesco, che sapesse tutte le lingue antiche e nessuna moderna, potrebbe egli intendere che il prevete de’ Grigioni, il prete degli Italiani, il prête de’ Francesi, e il priest degl’Inglesi sono pur tutte derivazioni direttissime, e serbano l’esatto significato del vocabolo presbyter? Ed oggi pur fra L’Italia e la Svizzera, dove alcuni alpigiani parlano un italiano antichissimo ed altri un dialetto romanzo forse più antico, i pastori di due valli vicine difficilmente s’intendono fra di loro senza un interprete.

Vero è che in tutti i tempi e in ogni parte della terra le città e le provincie riunite sotto le medesime leggi, o costituite da naturali confini e dal clima in una sola regione, benché parlino dialetti differentissimi, si formano sempre una lingua comune, composta di quelle parole che, appartenendo a tutti i dialetti di quella contrada, riescono più o men intelligibili a tutti i suoi abitatori. Ma sì fatta lingua rimansi poverissima, incerta e soggetta a rapidissime trasformazioni fino a tanto che non sia ripulita, arricchita e preservata dagli scrittori. La Francia meridionale e settentrionale, la Sicilia e l’Italia non lasciano travedere orma veruna di lingua nazionale per tutti que’ secoli, ne’ quali quel poco che si scriveva in quelle regioni era scritto barbaramente in latino. I loro mille dialetti popolari s’andavano alterando e sempre più dividendo e intricando ad un tempo, finché la poesia cominciò in ciascuna di quelle contrade, verso l’epoca delle Crociate, a giovarsi di tutti que’ dialetti, ad evitare ogni frase troppo provinciale e plebea, a nobilitare ogni idiotismo, a ridurre i suoni diversi, con cui ogni parola era proferita e storpiata in diverse città, ad una sola pronunzia uniforme e così, per mezzo della scrittura e della ortografia, renderla certa e intelligibile a tutti; e allora i dialetti in ciascuna contrada si riunirono sotto la penna degli scrittori a comporre le tre lingue nazionali chiamate nel duodecimo e decimoterzo secolo lingua d’oc, lingua d’oui e lingua di sì.

Strane, come pur certamente devono sembrare a’ dì nostri sì fatte denominazioni delle tre lingue letterarie appena sorgenti, mostrano come non erano ancor tanto nazionali che non si riconoscessero direttamente connesse alla lingua romanza che continuava ad essere universale, magni nominis umbram; però invece de’ nomi più ovvi di lingua provenzale o catalana, siciliana, toscana o italiana e francese, cominciarono a distinguersi con le tre sillabe oc, sì, oui, ciascheduna delle quali era peculiare a’ que’ dialetti romanzi che presso ciascuna nazione contribuirono a formare una delle nuove lingue.

Or notisi come se una lingua da cui altre derivano non somministra alcune parole necessarie a significare precisamente un’idea, le lingue nuove assegnano il significato preciso a parole che nella madre lingua esprimono idee più vaghe e talvolta anche diverse. I Romani, quegl’imperiosi conquistatori del mondo, arbitrari e inesorabili nelle loro decisioni, assoluti e positivi nelle loro risposte, mancavano (chi ’l crederebbe?), della particella affermativa. Avevano il no; ma non avevano vocabolo esclusivamente appropriato a dir sì. I loro storici oratori e poeti per più eleganza e più forza esprimevano l’affermazione positiva con due negative. Ma da’ loro comici e scrittori di dialoghi appare che nel discorso familiare aveano ricorso or al pronome hoc, or ai verbi aio — ed est; or agli avverbi maxime — utique — ita — sic — immo e sì fatti; ond’anche nel Vangelo di San Matteo, a significare men vagamente il precetto a le vostre parole sicno schiette; dite sì o no », l’autore o il traduttore fu costretto a scrivere: «Sit sermo vester: Est. Est, Non. Non». Diciamo l’autore, perché noi crediamo che il Nuovo Testamento sia stato originalmente scritto in latino, e uno scrittore ci ha recentemente confermata questa credenza con dottrina e argomenti che a nostro parere non ammettono confutazione. Nondimeno la questione di sua natura non ammette termini di conciliazione fra disputanti; e noi non l’abbiamo toccata se non se perché giova a illustrare il nostro soggetto, e aggiungere prove al fatto singolarissimo della varietà della particella affermativa fra’ popoli a’ quali le legioni, le colonie e le leggi romane e parecchi secoli di dominio avevano introdotta e stabilita la stessa lingua. L’hoc (questo) prevalse nel mezzodì della Francia, e fu pronunziato e scritto oc; e nella Francia settentrionale l’utique (di certo) forse da prima accorciossi in uri, come in tutte le lingue avviene ad ogni parola che è perpetuamente usata nel discorso — poscia per la stessa ragione in ui — e perché i Romani pronunziavano, come oggi pur fan gli Italiani la u come l’ou de’ Francesi, la parola finì ad essere scritta oui. Finalmente il sic (così), perdendo anch’esso una lettera diventò sì, e si perpetuò come voce esclusiva d’affermazione de’ Siciliani e degli Italiani. Quindi venne il nome alla provincia della Linguadoca. Il verso di Dante

nel bel paese là dove ’l sì suona

allude all’Italia.

La più celebre delle tre nuove lingue e che sin dal secolo X era stata la prima a rallegrare di poesia e d’armonia le tristi città dell’Europa e a rammollire i duri costumi e le truci passioni di quel-l’età, celebrando

le donne, i cavalier, gli affanni e gli agi

che ne invogliava amore e cortesia,

è lingua oggi affatto perduta; e non ch’esserti intesa, non è quasi più ricordata da’ popoli fra’ quali i monarchi e i condottieri d’eserciti de’ loro antenati la studiavano e la scrivevano come necessaria a’ loro piaceri e alla lor gloria. Invece la lingua d’oui e [quella] del sì che le cedevano allora la preminenza illustrarono la Francia e l’Italia; e non periranno, se non quando nuove rivoluzioni, nuove religioni, nuove invasioni di nazioni settentrionali o transatlantiche ricondurranno un altro medio evo in Europa, e l’empiranno di nuove lingue. Già sin dall’epoca che ora consideriamo i Francesi e gl’Italiani contendeano fra loro per la superiorità della propria lor lingua benché fossero appena sorgenti; e gli uni e gli altri si univano ad esaltarla sopra quella dell’oc, che nondimeno continuava ad avere poeti e mantenere i suoi diritti di primogenita.

I Francesi allegavano ch’essi furono i primi a tradurre in lingua d’oui le storie de’ Troiani e de’ Romani e la Bibbia e ad inventare le meravigliose favole del re Artù e de’ suoi cavalieri, e molte altre narrazioni e dottrine. — Gl’Italiani rispondevano che la lingua del sì nelle sue derivazioni aveva meno corrotta la pronunzia e la grammatica del latino; — che avea minor numero di parole e frasi derivate dalle lingue settentrionali finalmente che da’ versi de’ Siciliani e degl’Italiani appariva che la lingua [del ] era la più armoniosa e poetica fra le sue rivali.

Ma quantunque l’Italia cominciasse a possedere una lingua letteraria e nazionale, le sue varie provincie e città non però cessavano — né mai cesseranno — dal parlare dialetti stranamente diversi fra loro. Dante che per arricchire la lingua andava scegliendo parole e frasi da tutti que’ dialetti e gli esaminava con orecchio attentissimo li trovò divisi in quattordici provinciali, e suddivisi in altrettanti municipali, sì ch’ei disperò di poter accertarne il numero. [7] Dai saggi ch’egli ne reca pare anche che gl’Italiani nativi di differenti provincie non potessero bene intendersi tra di loro. Né la diversità e il numero de’ dialetti italiani è minore a’ dì nostri. Sappiamo per prova che né un Napoletano illitterato intende un Milanese, né un Torinese un Bolognese; né quattr’uomini educati, ognuno de’ quali fosse nativo in una di quelle diverse provincie, potrebbero conversare senza traintendersi se non usassero fra di loro un certo italiano ibrido, che partecipando pur sempre del dialetto provinciale di chi lo parla, assume ad ogni modo le desinenze e la grammatica della lingua letteraria della nazione; e questa lingua nazionale benché non sia parlata né bene né male dal volgo, è nondimeno più o meno intesa anche dall’infima plebe. Abbiamo già accennato che una sì fatta lingua comune dovea esistere anche allora; e fra poco ne daremo le prove: ma non era ancor letteraria. Primi i Siciliani ridussero il loro dialetto nativo a lingua scritta e popolare ad un tempo; ma benché non lo usassero come lo udivano uscire dalle labbra del popolo, tuttavia non lo alteravano in guisa che non si vedesse che apparteneva propriamente ai nativi di quell’isola. Ad ogni modo era molto diverso dal provenzale, e più grato e più intelligibile a tutta l’Italia. — Infatti mentre la poesia de’ trobadori lombardi cadeva in perpetua dimenticanza, quella di Sicilia fioriva in guisa che siciliano e italiano si trovano negli autori di quel secolo adoperati come sinonimi. [8] Ghe se poscia Firenze ottenne, più che la Sicilia, la gloria di aver contribuito principalmente a stabilire la lingua letteraria della nazione, il merito è dovuto non solo a’ suoi grandi scrittori che spettano all’epoca seguente, ma ben anche, e forse molto più, alle cause seguenti: — al dialetto de’ siciliani; — al latino scritto dal Clero romano e nelle Università; — alla lingua francese; — ma sopratutto al regno di Federigo II in Italia.

Or quanto a’ Siciliani anch’essi nel corso de’ secoli del medio evo parlavano la lingua romanza; ma avevano assai prima d’allora innestato il latino sul greco ch’era la loro lingua patria e che con l’affluenza e soave modulazione delle sue vocali comunicò al dialetto de’ Siciliani una tradizionale melodia di pronunzia. Quindi il dialetto che parlano anche a’ dì nostri è fluidissimo di vocali. La strofetta seguente di un siciliano morto prima del 1200 lascia sentire per la moltitudine delle vocali e la scarsezza delle consonanti una grande affinità alla lingua italiana d’oggi, e molta più melodia che nella canzonetta provenzale di Federigo I [e nelle stanze di Sordello] suo contemporaneo da noi citata nel nostro numero precedente.

Rosa fresca aulentissima

c'apari in ver l’estate

le donne te desiano

pulcelle e maritate.

Chi togliesse il latinismo oggi fuor d’uso e che il poeta siciliano, per amore delle vocali in vece di olentissima pronunziava aulentissima, e se invece di c’apari si scrivesse che appari, nessuno mai crederebbe che i quattro versetti non fossero d’un qualche poeta moderno. Queste ed altre poesie posteriori furono imitate dai primi poeti toscani, e forse l’affluenza delle vocali nel dialetto siciliano operò sì che tutte le parole le quali nella lingua latina e in tutti i dialetti e le lingue da lei derivate terminavano in consonanti, terminassero nella lingua letteraria italiana in vocali. Il latino panis — in spagnuolo pan, — in francese pain, odesi in quasi tutte le provincie settentrionali d’Italia pronunziato tronco, [ma] non vedesi mai scritto in tutta l’Italia (fuorché talvolta in poesia) se non pane; né v’è parola italiana che non ammetta la medesima osservazione.

La nascente lingua del sì, nell’acquistar melodia dalla poesia sicilina, traeva vigore e precisione grammaticale dal latino ecclesiastico e curiale, che in Italia fu sempre men barbaro, e segnatamente nella corte de’ Papi, dove stranieri vi concorrevano ad impararlo:

Me transtulit Anglia Romam

tanquam de terris ad coelum; transtulit ad vos

de tenebris velut ad lucem. [9]

Questo buon Inglese peraltro chiamava la poesia col nome di Poetria che in latino significò sempre poetessa; e però la Nuova Arte Poetica ch’ei compose in versi gli attirò meno discepoli de’ precetti da lui scritti a preservare il vino; e fu sempre poi conosciuto sotto il nome di Galfred de Vino Salvo. Ma i classici erano più intesi e imitati meno risibilmente anche fra le tenebre della barbarie dagl’Italiani. [Un’operetta d’autore toscano che trattava della prigionia di Riccardo Cuor di Leone in Germania e che ne discorre come di avvenimento recentissimo, deve essere stata scritta verso la fine del duodecimo secolo, cinquant’anni almeno prima di quella di Galfredo:

Unicus ille Leo fidei vigor, unicus immo

otarie et hostis erat, unicus ille timor;

.   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .

Qui modo regnantes, et fortes fregerat arcus

cui genus et censum robora multa dabant,

nuper idem misero sub paupertatis amictu

captas et inclusus Anglica facta luit].

[Lib. III, vv. 157-58, 161-64].

Non è latinità classica questa — ma non è gotica; ed è da considerare che il poeta era nato contadino, e ch’essendosi educato da sé dovea avere trovato fuori delle scuole alcuni uomini da’ quali egli potesse raccogliere gusto ed istruzione. E da questi appunto la lingua italiana cominciò ad essere scritta, e gradualmente animata dall’energia e abbellita della eleganza e della rotondità della classica latinità, di cui non tutti i libri rimasero sotterrati; anzi, alcuni che allora esistevano, oggi si sono smarriti. Ma fin anche la barbarie del latino con che la Teologia, le Leggi e la Dialettica aristotelica erano insegnate nelle Università, cospirava al progresso della lingua letteraria italiana. Certamente il dizionario, la fraseologia di quei professori sarebbero riesciti enigmatici agli scrittori del secolo d’Augusto. Tuttavia le forme esteriori della lingua, e le regole grammaticali che guidavano la sintassi di Cicerone non erano molto diverse da quelle senza le quali il latino non può essere scritto mai. Infatti lo stile cattedratico de le università del medio evo fu come l’anello intermedio fra il latino puro e l’italiano letterario; perché le leggi grammaticali del latino che s’appressava allo stato di lingua morta, rimanevano a governare le nuove forme e i suoni diversi della lingua nascente.

Questa osservazione sarà meglio illustrata da un estratto delle lezioni di un giureconsulto e ne sccgliam uno che lascia a un tempo conoscere i costumi delle università di quei tempi: « Or Signori, hic colligimus argumentum, quod aliquis, quando venit coram magistratu, debet ei revereri; quod est contra Ferrarienses, qui si essent coram Deo, non extraherent sibi capellum sive birretum de capite, nec flexis genibus postularent. Or Signori, et dico vobis quod in anno sequenti intendo docere, ordinarie, bene et legaliter, sicut unquam feci; extraordinarie non credo legere, quia scholares non sunt boni pagatores, quia volunt scire, sed nollunt solvere, juxta illud: scire volunt omnes, mercede solvere nemo. Non habeo vobis plura licere; satis cum benedictione Domini ». [10] Or chi traducesse tutto questo passo in italiano non avrebbe che da render parola per parola con lo stesso ordine, e lo troverebbe correttissimo nella sintassi; e nondimeno, malgrado la precisione grammaticale, moltissime frasi e parole sono del tutto diverse da quelle che si leggono ne’ classici, senza però cessar d’essere essenzialmente latine. Basti a noi di osservare il titolo di Signore, storpiatura evidente di Senior, e che propriamente significava un uomo più avanzato in età. I primi capi delle congregazioni cristiane furono chiamati Seniores, probabilmente ad imitazione dei Seniores populi sì frequenti nella volgata latina della Bibbia. In seguito il titolo presbyter fu derivato dal greco πρεσβυς, che significa[va] egualmente un vecchio e fu applicato esclusivamente a’ preti; e il Senior restò a denominare un grado qualunque di dignità. Ma il chiamar vecchio per titolo d’onore un uomo quantunque ancor giovane è d’antichissima origine latina e greca. Il titolo di Senatori discese a noi fino da’ tempi di Romolo: e Omero, chiama γεροντας Nestore, Fenice e Priamo quando vuol dire ch’erano molto vecchi, ma chiama egualmente γεροντας per titolo di dignità, anche Agamennone, Ulisse che non poteano essere oltre al cinquantesim’anno, e Diomede ed Aiace ch’erano giovani [11] e Achille che dovea esser partito per la guerra di Troia quand’era imberbe. [12] E quando tutti questi guerrieri s’univano a consulta chiamavansi δημογέροντες [13] che risponde letteralmente al Seniores populi del Vecchio e del Nuovo Testamento. La parola indicante l’età trapassata in titolo di grado ha la sua origine dal primitivo stato sociale e dalla vita patriarcale, quando i più vecchi padri di famiglia formavano un’aristocrazia di legislatori e di giudici, e che fu certo la prima forma di governo in tutti i paesi. Ma per chi studia l’origine e la formazione delle lingue e per conseguenza delle idee, de’ costumi, e della storia d’ogni popolo, e che crede, come noi, che tutte le lingue siano derivate l’una dall’altra, può trovare argomenti alla sua opinione in molte parole simili a questa nella quale il significato primitivo di vecchiaia fu sempre un titolo d’onore tramandato per tanti secoli, di clima in clima, di popolo in popolo e di generazione in generazione, e fin anche in tempi e paesi ne’ quali la vecchiaia è derisa.

Or a dimostrar quanto abbiam indicato che anche la lingua francese contribuì in quell’epoca ad arricchire l’italiana, bisognerebbe l’esposizione di fatti che per la loro oscurità esigerebbero d’essere circostanziati più che non à conceduto a’ limiti di un’opera periodica. Infatti, oltre alla comune origine del latino rustico, le due lingue avevano contratto strettissima affinità sino dal secolo ottavo, dopo che per le conquiste di Carlo Magno l’Italia fu lungamente dominata da principi ed eserciti francesi; e se la dinastia de’ Longobardi avesse continuato a regnare d’allora in qua, forse che gl’Italiani oggi avrebbero una lingua d’indole alquanto diversa. Certo è ad ogni modo che, mentre gli scrittori siciliani e toscani cominciavano a dar carattere proprio e nazionale alla lingua, e la sua sintassi si ordinava naturalmente su le leggi certissime del latino, molta nuova ricchezza di parole, di idee e di stile le veniva dalla Francia. I più antichi libri italiani sono traduzioni delle storie del re Artù, e delle imprese de’ Cavalieri Erranti. I primi crociati che ritornavano in Europa furono Francesi, e portarono nozioni di oggetti, d’arti e di mille cose ignote a’ Cristiani, e per cui bisognavano nuove parole create primamente in Francia e trapassate rapidamente in Italia. La poesia de’ trobadori, la vita cavalleresca, il lusso delle corti de’ principi e le corti d’amore in Francia aveano diffuso un’eleganza di sentire di pensare e di scrivere fra gl’Italiani. Finalmente pare anche che le Scienze diverse dalla Teologia, dalla Giurisprudenza e dalla Medicina potessero allora meglio spiegarsi in francese; Brunetto Latini, ch’era fiorentino e maestro di Dante, scrisse la maggiore delle sue opere intitolata il Tesoro in lingua francese, «perché» dic’egli nella prefazione, «è la più dilettevole e più universale che tutti gli altri linguaggi». Nondimeno l’originale di quest’opera rimase inedito sempre ma due traduzioni italiane eseguite da’ contemporanei dell’autore, accrebbero le idee, i vocaboli, e modi di dire a la lingua; e pare che una d’esse fosse tenuta in gran pregio per più di due secoli, poiché al primo introdursi della arte tipografica fu pubblicata in Italia. [14]

Tuttavia le cagioni enumerate fin qui, che cospirarono simultanee e potenti a creare la lingua, non avrebbero operato sì prospere né con tanta celerità se l’imperadore Federigo II non avesse regnato in Italia. Nel corso di quattrocent’anni che s’interpongono fra questo Principe e Carlo Magno, la Storia non lascia vedere alcun Monarca, se non se forse Ottone I, il quale potesse liberare il genere umano europeo dalla ignoranza in cui stava ravvolto; e intanto Gregorio VII lo sottomise a’ ciechi Demoni della Superstizione e del Fanatismo. Carlo Magno fu certamente maggiore, ma fu anche più fortunato, perch’ebbe sua federata e serva mercenaria la Chiesa quand’era ancora poverissima e debole; e fin d’allora, per non sottostare ai re italiani che, quantunque d’origine lombarda erano nati per varie generazioni in Italia, i Papi cominciarono ad incitare e santificare le invasioni straniere.

Federigo II aspirava a riunire l’Italia sotto un solo principe, una sola forma di governo e una sola lingua, e tramandarla a’ suoi successori potentissima fra le monarchie d’Europa: [15] né dopo l’emigrazione di Costantino e della sede imperiale su l’Ellesponto i tempi erano sembrati mai sì opportuni, se Federigo non avesse dovuto perpetuamente combattere contro i Papi, allora più onnipotenti che mai, quando la loro scomunica bastava a giustificare la ribellione, il regicidio e il parricidio, ed imponeva ad ogni uomo di avventarsi contro i monarchi profughi ed esuli ne’ loro stessi domini. Gli ecclesiastici allora che, quasi gli unici arbitri delle reliquie della letteratura e delle credulità del genere umano, continuavano ad esaltare Carlo Magno e le bolle de’ Papi, appunto al tempo di Federigo dichiaravano che le favole di Turpino, donde il Boiardo e l’Ariosto trassero poscia i loro racconti, erano storie autentiche e vere. [16]

E intanto Papi, Cardinali, Vescovi e Preti e Monaci e Frati incominciavano né fino ad oggi hanno cessato ad esporre alla esecrazione de’ popoli il nome di Federigo II con la taccia ch’era — ed oggi è pur tuttavia facile ed efficacissima — d’Ateismo. Quindi non v’è storico italiano che d’allora in poi, o per sincera aderenza alla Chiesa, o per terrore del Santo Ufficio, non abbia più o meno o dissimulato i meriti, o malignato il carattere, o insultato alle calamità di quel Monarca e de’ suoi figli e de’ suoi nepoti; all’uno d’essi fu mozzato il capo dal carnefice; e il cadavere dell’altro fu dissotterrato, e le sue ossa condannate ad esser bagnate dalla pioggia e mosse dal vento.

Ma finché Federigo e i suoi figli vissero, né le guerre perpetue, né le domestiche sciagure li distolsero mai dal favorire e coltivare le lettere; e se non avessero risieduto lungamente in Sicilia, la lingua italiana o non avrebbe ricavato aiuto veruno dal mollissimo dialetto di quell’isola, o più scarsamente e più tardi. Il palazzo di Federigo e Manfredi era l’ospizio de’ poeti; e i cortigiani che gareggiavano co’ loro principi a compor versi, erano a un tempo oratori, uomini di Stato e guerrieri, generosissimi d’animo ed eleganti ne’ loro costumi. [17] La galanteria cavalleresca esaltava il cuore delle donne, de-stava le loro grazie e raffinava la loro educazione. Talune emulavano d’ingegno i loro amanti, ed una d’esse li superò. Nina siciliana era la Saffo d’Italia, e men infelice, perché le sue poesie forzavano ad amarla anche i Cavalieri che [non] l’aveano mai veduta, ma non pare ch’ella per amore volesse concedere altro che canzonette. Tuttavia le poesie migliori del dialetto siciliano, e men lontane dall’italiano de’ nostri tempi, appartengono a Pietro delle Vigne nato a [Capua], e che pareva un di quegli uomini creati dalla natura per illustrare ogni lingua, ogni scienza a cui si applicano, e ad onorare qualunque epoca e tempo in cui vivono. I suoi scritti latini, malgrado la ineleganza della lingua, hanno l’evidenza, il fuoco e la profondità di stile che appartiene sempre esclusivamente al Genio. La sua Eloquenza riesciva a persuadere alla fedeltà le città intere che, sovvertite da’ Missionari e dalle omelie de’ Papi, correvano a furia di popolo a rovesciare dal trono l’Imperadore; — e Federigo confessava che mentre i suoi vasti domini la possanza e la fede degli amici suoi, il danaro e gli eserciti gli riescivano inefficaci, la sola penna di Pietro delle Vigne era bastante a difenderlo contro a’ Papi. Pietro s’educò da giovinetto nell’Università di Bologna, accattando limosina per potere studiare; né ei s’affliggeva di sì misera condizione se non se perch’ei non poteva ancor liberare la sua madre dal pericolo di morire d’inedia. [18] Ma il suo genio splendeva anche fra l’oscurità dell’indigenza, — e Federigo, al primo vederlo e udirlo a parlare lo raccolse nella sua Corte, e non molto dopo lo creò suo Cancelliere.

Fra l’opere scritte dal ministro e dal principe, quelle di Pietro sono ancor lette per la luce che spargono su la Storia e la diplomazia di quel secolo, e in quelle di Federigo, [sono attestati] il risorgimento e i progressi delle scienze e il trattato ch’ei lasciò non finito e che fu supplito da Manfredi suo figlio, fu il primo libro che dopo la rovina dell’antica letteratura fu scritto su le varie specie e nature degli uccelli. Ei fu il solo sovrano che sia mai stato più dotto di tutti i suoi sudditi: scriveva il romanzo siciliano, i dialetti di Francia, il latino e il tedesco; e sapea l’arabo e il greco. Fece tradurre le opere scientifiche degli antichi, fondò scuole ed accademie; ristorò università che decadeano, e ne creò di nuove ch’emulavano le antiche. Ma tutte le sue istituzioni a promovere la letteratura erano abbominate come derivanti da un Principe eretico. Il famoso libro De tribus impostoribus fu attribuito a Federigo fin anche dal buon Matteo Paris, ch’era il men credulo fra gli Storici e il più imparziale fra i Monaci di qucll’età. [19] Or chi crederebbe che quel libro tante volte citato, attribuito a tanti individui in paesi ed epoche differenti fu dagli scrittori più versati negli annali bibliografici riconosciuto per una chimera? [20] Ma o non s’avvidero, o com’è più probabile, non osavano dire che, come la Chimera dalla Mitologia, era scatenata contro gli Eroi che i Loro nemici volevano uccidere a tradimento.

Note di morte le chiarì, e gl’impose

di uccider la Chimera; essa, dinanzi

Leone, irco era in mezzo, angue diretro,

e col fiato spargea lave di fiamma.

(Iliade, VI, tr. Foscolo).

Né era mostro diverso il libro De tribus impostoribus ogni qual volta i preti cattolici volevano dare un uomo letterato in preda ai carnefici di San Domenico che ancor oggi presiedono al Santo Ufficio della Santa Inquisizione. Tommaso Campanella benché non forse troppo convinto de’ dogmi della Chiesa Romana, nondimeno difese la Religione contro l’Ateismo, — ma, perch’ei scrisse più da filosofo che da teologo, fu accusato e torturato a morte nelle carceri dell’Inquisizione per fargli confessare ch’egli aveva scritto appunto quel libro che la Chiesa aveva attribuito quattrocent’anni addietro all’imperadore Federigo ed al suo cancelliere. [21] — Così inseguito per tutta l’Europa dalle miriadi di preti, monaci e frati che predicavano contro di lui, assalito fino nel suo santuario domestico e minacciato da’ fulmini della scomunica fino sovra il suo letto matrimoniale, Federigo continuava a promuovere la civilizzazione degl’Italiani. Invano, a placare i Papi, attesine la promessa che essi avevano estorta da lui e lasciò i suoi Stati per la guerra delle Crociate, con la quale essi s’erano costituiti dittatori degli eserciti di tutta l’Europa; arrivò in Gerusalemme, e, appena entrato nel Tempio, una nuova scomunica lo colse sovra il sepolcro di Cristo. [22]

Or non si creda che noi ricorriamo ad escursioni storiche per l’unico fine di divertire noi e i nostri lettori dalle aride disquisizioni grammaticali indispensabili nelle indagini delle lingue; — perché né la storia de’ popoli non può conoscersi se non per mezzo della loro lingua, né lingua veruna si lascia mai rintracciare se non per mezzo della Storia. Se nel notomizzare la proprietà, la derivazione e i vari significati antichi e nuovi de’ quali coll’andar del tempo s’impregnano le parole di tutte le lingue, i grammatici, gli etimologisti e gli antiquari avessero adottato il nostro metodo d’applicare gli avvenimenti politici agli annali della letteratura, forse ch’essi avrebbero disputato mono e si sarebbero intesi più facilmente; se pur b da credere che siffatte specie di dotti bramino piuttosto d’intendersi che di disputare.

Finchè il regno ed il secolo dell’imperadore Federigo non avranno uno storico letterato insieme e filosofo, lo scoppio quasi subitaneo de’ lumi e la loro rapidissima diffusione in Italia e nel rimanente d’Europa si rimarranno fenomeni. Ma al proposito nostro basterà lo spiegare come avvenisse che la letteratura e la lingua fossero sì felicemente promosse da un Principe perpetuamente impedito da quelli, che per mezzo della superstizione e dell’ignoranza governavano le opinioni e i cuori dell’universalità delle Nazioni. I creduli e i ciechi erano allora innumerabili; e quei che sotto il nome di Guelfi parteggiavano in favore de’ Papi erano per lo più uomini a’ quali il traffico aveva procurato ricchezze con le quali s’erano fatti demagoghi potenti nelle loro rispettive città. Ma pochissimi fra sì fatti uomini attendevano alle lettere; mentre i Ghibellini, che sosteneano i diritti degl’imperadori, erano nobili per nascita, aristocratici per sentimento e per sistema, avvezzi sin dall’infanzia a una educazione liberale, — e sì fatti individui quando attendono alle lettere, le propagano prestamente fra’ loro concittadini.

EPOCA TERZA

DALL’ANNO 1280 AL 1330

Qui cessa del tutto ogni predominio di dialetto provenzale, lombardo e siciliano, e vi prevale bella di originalità e di vigore la letteratura e la lingua, che, diffondendosi a un tratto da tutta l’Italia, rinovellò la civiltà del genere umano europeo. Questa età andrebbe propriamente chiamata de’ poeti toscani; quantunque pur molti fossero d’altre provincie; né forse un giusto volume basterebbe a parlare debitamente di tutti. Se non che, oltre alla ragione de’ nostri limiti, il nostro proposito dichiarato sin dall’introduzione a questi articoli, impone a noi di non nominare, se non que’ pochissimi che come luminosi pianeti sono stati preceduti da minori satelliti. Pur, come che avessero meriti letterari assai diseguali fra loro, si somigliano quasi tutti nel loro comune carattere, d’anime non per anche domate dalla servitù dell’Italia. Sentivano fortemente, scrivevano per le loro innamorate e combattevano per la loro fazione; amministravano le leggi e i governi delle loro città e offrirono lo spettacolo di cittadini, guerrieri ed autori; qualità che pur troppo gli Italiani poscia non videro unite ne’ lor letterati se non assai raramente. Pur nondimeno nella storia letteraria d’Italia quest’epoca fu confusa con la seguente, differentissima in tutto; perché nuove vicissitudini cangiarono le condizioni politiche, ed i costumi e i caratteri della seguente generazione. Il Tiraboschi cadendo, parte volontariamente e parte per necessità, in questo errore, contribuì più ch’altri a perpetuarlo. L’opera sua è oggimai fatta più popolare delle altre, e può meritamente chiamarsi l’archivio ordinato de’ fatti, delle date e dei nomi de’ libri e de’ documenti letterari di molti secoli. Bensì con quali e quante precauzioni meriti ad un tempo d’essere consultata quell’opera e le altre su lo stesso soggetto, è noto a chiunque sa che la verità non può essere non che scritta, ma neppure pensata dove la stampa è inceppata. Tutti i critici appartenevano a un’accademia, a una città rivale delle altre; e per lo più a una congregazione di frati. Il Tiraboschi era Gesuita, e non poteva guardare molto addentro in una età nella quale predomina il genio di Dante, poeta di nome terribile e di mente implacabile contro la Chiesa romana.

Nel 1280, col quale principia questa terza delle nostre epoche, Dante aveva quindici anni; e la sua fama crebbe in guisa ch’oggi non v’è forse angolo di terra civilizzata dove non sia conosciuto. — Il suo poema viene esaltato anche dagl’infiniti che non lo leggono, e da moltissimi che non possono intenderlo. Fu quindi tenuto più che uomo mortale; e una specie di religione per lui fa vedere meriti, i quali, esagerando la verità, impediscono il frutto che la storia può ricavare dalle osservazioni degl’individui straordinari della nostra specie. Un letterato inglese, stando a lunga dimora in Toscana, leggendo infaticabilmente, e visitando archivi e pubbliche librerie, compose la prima parte d’un suo nuovo commento pubblicato da poco in qua; e trovò che Dante scrisse uno de’ più graziosi fra’ suoi sonetti quand’egli aveva appena nove anni d’età. [23] Il dottissimo commentatore traintese un passo dell’autore dove racconta in piane parole che, quando vide Beatrice per la prima volta, era nel nono anno dell’età sua, e dopo altri nov’anni compose il suo primo sonetto per lei: vedi la narrazione di Dante nel libro notato qui a piedi. [24] Era da aspettarsi che l’instancabile raccoglitore delle Curiosità letterarie nell’ultima serie correggesse lo sbaglio. Ma lo ripete, e citando le meraviglie del dotto commentatore, vi aggiunge del suo, che il sonetto era sconosciuto fino a’ dì nostri. — « The tender Sonnet free from obscurity, which he composed for Beatrice, is preserved. — There can be no longer any doubt of the story of Beatrice, but the sonnet and the passion must be classed among curious natural phenomena ». [25] Pur se ogni volta si cercasse d’avverare la realtà schietta de’ fatti, appena uno di mille fenomeni letterari mancherebbe di spiegazioni naturalissime e giornaliere. Il vero si è che il meravigliarsi è uno de’ bisogni dell’uomo; e però il procurare che gli altri si meraviglino, è un espediente che riesce egregiamente a comporre volumi piacevoli, dando novità a cose vecchie, e apparenza di aneddoti segreti e appena scoperti a storie pubbliche per chiunque vuol leggerle. L’esistenza di Beatrice e del sonetto e dell’amore che lo produsse, sono circostanze notissime da cinque secoli e più, e registrate puntualmente da Dante nel suo romanzetto intitolato la Vita Nuova.

Certo il suo primo sonetto fu scritto quand’aveva diciott’anni; e considerando non tanto l’età sua, ma lo stato della lingua e della poesia nel suo secolo, pare saggio bellissimo per sé stesso. Se non che non fu mai né ammirata quanto pur merita, né studiata attentamente l’operetta della Vita Nuova; e non pertanto palesa l’anima dell’autore, e la prima concezione del suo grande poema, [26] e l’impulso e il progresso dato in un subito, non solo alla poesia, ma, quel che è più difficile in tutte le lingue, alla prosa italiana. Dante cominciò a fondare non solo gli esempi, ma anche le grandi teorie dalle quali vennero poi tutte le regole, e sono le vere, suggerite dalla pratica di tutti gli scrittori in ogni specie di composizione sino a’ dì nostri. E malgrado le dispute d’accademie grammaticali, e di scuole, e i precetti infiniti di neologisti e cruscanti, la lingua italiana, finché non cesserà d’essere scritta, si governerà perpetuamente co’ principi luminosi e sicuri che Dante ricavò dalla natura d’ogni lingua, e dal carattere di quella ch’egli perfezionava.

I due compagni ch’ebbe in quella impresa furono Brunetto Latini suo precettore, e Guido Cavalcanti suo primo amico, com’ei sempre lo nomina, e l’antepone nel merito a tutti i suoi contemporanei. Da Brunetto Latini Dante e gli altri Fiorentini desunsero la prima educazione letteraria. Vero è che Brunetto, per le ragioni assegnate, scrisse le opere sue maggiori in francese; e fors’anche contribuì l’aver egli vissuto in Francia molta parte dell’età sua, bandito da una delle fazioni politiche di Firenze. Parimente anche quel poco ch’ei scrisse di poesia italiana, merita appena d’essere ricordato. Ma l’arte e l’abitudine di esprimere chiaramente le idee, ed ordinarle logicamente e con la proporzione richiesta dalla composizione; e il secreto ancor più difficile di connettere le parole con armonia ed eleganza, e supplire alla povertà della lingua nobilitando i vocaboli e le frasi del popolo, furono insegnati alla gioventù fiorentina da Brunetto Latini. Fu anche segretario della Repubblica, appunto per l’abilità sua di scrivere, e gli storici lo chiamano comunemente il buon dettatore. Morì verso il 1295, quando Dante aveva già compiuto la Vita Nuova e gliela mandò co’ versi seguenti:

Messer Brunetto, questa pulzelletta

con esso vol si vieti la pasqua a fare;

non intendete pasqua da mangiare,

ch’ella non mangia, anzi vuol esser letta.

La sua sentenza non richiede fretta

né luogo di romor, né da giullare;

anzi si vuol più volte lusingare,

prima che in intelletto altrui si metta.

Se voi non la intendete in questa guisa,

in vostra gente ha molti frati Alberti,

d’intender ciò ch’è porto loro in mano.

Co lor vi restringete senza risa,

e se gli altri de’ dubbi non son certi,

ricorrete alla fine a messer Giano.

Di Guido Cavalcanti non resta fuorché una breve raccolta di versi quasi tutti amatorii, e un gran nome, appena secondo a quello di Dante. L’amore delle sue poesie è spesso più platonico di quello del Petrarca, e non è dir poco; ma talvolta anche sentono la giovialità non molto vereconda d’Anacreonte; e quest’ultima caratteristica è del tutto invisibile negli altri poeti di quell’età. Il suo stile è men amabile in sì fatto genere di composizione che quello di Dante; l’uno e l’altro cedono di molto nella soavità a Cino da Pistoia loro coetaneo. Ma le concezioni di Guido sono profonde; la lingua è ricca e distinguesi sovra gli altri tutti nell’andamento del suo fraseggiare, e ne’ numeri della sua verseggiatura, perché il suo stile spira una fierezza originale, derivante tutta dalla tempra straordinaria dell’anima sua. Era uno di que’ pochi individui che costringono gli altri uomini ad ammirarli, e tramandare la loro memoria alla posterità senza alcun’opera che giustifichi l’ammirazione. Bayle nel suo Dizionario ne ha parlato più esattamente degl’Italiani; e fra le cose sfuggite anche a quel sommo critico, noi non suppliremo se non a quelle poche che sono connesse al nostro soggetto, e degne d’esser ricordate a togliere una o due importanti lacune.

L’anno in cui Guido Cavalcanti morì, fu sorgente di molte liti, e deluse le indagini anche d’un suo discendente, il quale pubblicò non è molto le poesie e una nuova biografia del suo illustre antenato. [27] Ma niuno s’accorse d’un passo d’antico storico ed uomo di stato, il quale inoltre scriveva negli archivi della repubblica fiorentina. Ei narra che Guido morì nell’anno 1301 in esilio, poco dopo che Dante, nella sua magistratura, operò che per la quiete della città fossero confinati i capi de’ Guelfi e de’ Ghibellini; e fra questi ultimi era Guido. [28] Tuttavia se Dante non viveva fino d’allora Ghibellino coperto, era pur sempre amico caldissimo e aperto di Guido; e l’avere tentato di farlo ripatriare, perché s’ammalò mortalmente per la mal’aria del paese ov’era confinato, fu l’uno de’ gravi delitti pe’ quali anche a Dante toccò poi d’errare calunniato, ramingo, mendico, e inseguito con tre sentenze di pena capitale, e non trovare sepolcro che fuori della sua patria. Ma i sacrifizi fatti dall’amico suo non giovarono a Guido, che già consunto dall’infermità si moriva o innanzi di ritornare in Firenze, o subito dopo ch’ei la rivide. Pare che questi siano gli ultimi versi scritti da lui:

Perch’io non spero di tornar giammai,

Ballatetta, in Toscana,

va tu leggiera e piana,

dritta alla donna mia.

Tu senti, Ballatetta, che la morte

mi stringe sì, che vita m’abbandona;

e senti come ’l cor si sbatte forte

per quel, che ciascun spirito ragiona:

tant’è distrutta già la mia persona,

ch’ io non posso soffrire:

se tu mi vuoi servire,

mena l’anima teco,

molto di ciò ti preco,

quando uscirà del core.

Non poca parte della gran fama che sopravvisse sulla tomba di Guido, derivò senza dubbio dalla sua amicizia con Dante, e dalla menzione che questo poeta ne fa con amore insieme e riverenza. Pur vi cospirarono alcune altre di quelle cagioni che assegnano talvolta agli uomini una celebrità non corrispondente alla loro vita. La famiglia di Guido, vero o falso che fosse, traeva l’origine da guerrieri venuti in Italia quando Carlo Magno ne cacciò i re lombardi. Era capo di fazione, fiero d’animo e imperterrito ad affrontare i suoi nemici con l’armi. [29] Era eloquentissimo nelle assemblee popolari. Suo padre, per le sue speculazioni metafisiche sopra i principi d’Aristotile, com’erano commentati dagli Arabi e tradotti in latino, aveva negato arditamente l’immortalità dell’anima; [30] e fu creduto che Guido, sospingendo la filosofia più oltre che il padre suo, avesse studiato a provare che Dio non esisteva. [31] In ogni tempo e paese, ma più assai in un secolo superstizioso e in una repubblica popolare, tutte queste cagioni riunite bastano ad attirare l’attenzione degli uomini, a farli parlare in bene in male intorno ad un individuo, a scrivere d’esso il vero e non vero, a ridurre ogni cosa alla meraviglia e tramandare alla posterità un carattere più straordinario che forse realmente non era. Così, anche due secoli dopo la sua morte, Guido fu descritto ornato d’ogni grande qualità di cuore e di mente, e fin anche dell’esterno della bellezza, da molti suoi concittadini; ma più eloquentemente da Lorenzo de’ Medici; [32] il quale trovò anch’esso storici insieme e panegiristi, superati tutti dal celebre Roscoe.

Se non si fosse smarrito il trattato che Guido Cavalcanti compose su la lingua italiana, s’avrebbe oggi un documento attissimo a lasciarci stimare le sue facoltà intellettuali. Le sue teorie, qualunque si fossero, sarebbero ad ogni modo meno inutili alla letteratura che non furono e saranno mai le speculazioni teologiche, e peggio quelle che gli sono attribuite. Tuttavia, l’accingersi a dar leggi e metodo e norme future a una lingua nascente, e in secolo di ignoranza universale, e prima che Dante scrivesse (perché Guido nacque molti anni innanzi) certo l’accingersi e il solo pensare a sì fatta impresa, basta a darci un’idea della facoltà della mente di Guido. Dante in seguito adempì ciò che l’amico suo non aveva forse che adombrato; ma dopo un intervallo di venti o venticinque anni, e allorché la civilizzazione aveva fatti progressi rapidissimi. La nazione usciva dallo stato di barbarie, e gl’individui erano fieri di passioni, ardenti d’immaginazione, ambiziosi di gloria e non ancora ammolliti dal lusso a temere i pericoli, né ammaestrati dall’esperienza a godere della realtà e a non andare dietro a illusioni. Quando Dante scrivea la Vita Nuova; Guido probabilmente aveva composto i suoi precetti grammaticali, e molti altri con minor genio, ma con eguale perseveranza, sorgevano autori nella loro lingua materna, e specialmente in Firenze. Il volume intitolato Documenti d’Amore del Barberini fu scritto parte in prosa e parte in versi, appunto come la Vita Nuova, o contemporaneamente, o prima di questa. I versi del Barberini sono meschini; ma il resto è pieno di grazie semplici, e d’amabilità di stile. Marco Polo aveva già viaggiato e poi guerreggiato per la sua patria; e, fatto prigioniero da’ Genovesi, componeva la storia de’ suoi viaggi in prigione. Le città, ch’erano già libere da un secolo e mezzo, cominciavano ad avere ciascuna d’esse i loro storici; molti de’ quali nel resto d’Italia scrivevano in latino, ma in Firenze si giovavano del loro dialetto e contribuirono a ornare e diffondere la lingua letteraria, che poi divenne universale nella penisola. Fra questi Giovanni Villani preserva anche a’ dì nostri il doppio merito di storico veritiero e di elegante scrittore: però non concluderemo quest’articolo nostro senza osservare i caratteri del suo stile. Villani era già in età d’intervenire nelle faccende pubbliche quando Dante fu esiliato, e l’uno e l’altro studiavano a scrivere le loro diverse opere quasi nel medesimo tempo.

Così, e quando Dante cominciò a meditare su l’indole e i caratteri della lingua italiana; e mentre si accinse a trovarne le teorie più efficaci a stabilirla ne’ suoi primordi e regolarla ne’ suoi progressi, egli aveva dinanzi a sé molti saggi sì in poesia che in prosa, da’ quali egli poteva desumere molte osservazioni e ridurle a principi sicuri. Infatti il suo primo libro su la lingua chiamato Convito, e nel quale tratta di molte altre questioni d’ogni maniera, cominciò a comporlo dopo ch’ebbe passato l’anno quarantacinque della età sua [33] e l’altro intitolato dell’Eloquio Volgare, e nel quale tratta il soggetto di pieno proposito, lo intraprese poco innanzi di morire. Non ne lasciò scritta che una piccola parte, ma, per quanto la crescente civilizzazione dell’età sua l’abilitasse a trovare alcune delle regole necessarie alla lingua, pur nondimeno i fondamenti inconcussi su’ quali la stabilì non poterono uscire che da una mente straordinaria come la sua.

Il maggiore e migliore numero delle osservazioni gli furono senza dubbio somministrate dalla lingua poetica e dall’intentissimo studio a comporre il suo grande poema. Tuttavia, all’eccezione d’Omero, niuno stile poetico, e molto meno l’italiano, e quello del poema di Dante meno d’ogni altro, può servire di guida ragionata e fedele a ri-durre gl’innumerabili accidenti e bizzarrie di una lingua sotto regole evidenti, ordinate e perpetue. I Greci, per quanto sappiamo, non ebbero libro di prosa se non tre secoli e più dopo l’Iliade. I poemi d’Omero furono i primi, e, per lunghissimo tempo, i soli fonti della lingua letteraria cle’ Greci; e da que’ due modelli poscia i poeti e gli storici e gli oratori, di generazione in generazione e di città in città, desumevano ricchezze, dignità ed eleganza di stile a nobilitare i dialetti diversi della Grecia. Tutti que’ dialetti sono oggi classificati quasi col metodo di Linneo, e distribuiti con tutti i loro caratteristici da professori delle Università; ma non li conoscono che ne’ libri, e non gli udirono mai parlare. Or se, invece di leggerli, gli avessero uditi, non gli avrebbero classificati, né ammirati, e i nostri profondi ellenisti si sarebbero accorti che anche i greci erano dialetti né più né meno come tutti gli altri; e che nella bocca del popolo erano rozzi, incostanti, ritrosi ad ogni guida e ad ogni regola, e alterati sensibilmente e capricciosamente quasi d’anno in anno, e trasformati di provincia in provincia dal tempo, e innestati uno nell’altro dalle conquiste, dal commercio e da’ nuovi usi, come gli altri dialetti d’ogni terra ed età. Bensì, per essere scritti, dovevano conformarsi alla lingua generale e letteraria della nazione; e benché serbassero alcune forme provinciali e suoni peculiari alla provincia, pur nondimeno nel resto erano tutti più o meno somiglianti alla lingua omerica. Questa lingua, tuttoché applicata da principio alla poesia dell’Iliade e dell’Odissea, riesciva in seguito attissima a lasciarsi imitare da tutti in ogni altro genere di composizione; e quindi a contribuire materiali infiniti alle osservazioni pratiche, e a’ precetti e a’ principi perpetui dello stile de’ poeti, degli storici e degli oratori di tutta la Grecia. La poesia d’Omero infatti è narrativa insieme e drammatica, e senza raffinamento vcruno di lingua o di stile. È grande nelle invenzioni, originale e ricca ne’ caratteri, fiera nelle passioni, caldissima ed evidente nelle sue scene diverse; ma nelle parole procede costantemente semplice, e naturalmente grammaticale. Le sue frasi non sono mai troppo pregne di metafore, e non mai applicate a idee metafisiche, né a pensieri o sentimenti che non siano, per così dire, tangibili. Cosicché, se vi si togliesse il metro de’ versi, e l’Iliade e l’Odissea si riducessero in prosa, parrebbero storie romanzesche e meravigliose come mille altre che a’ dì nostri si scrivono in lingue e stili mille volte peggiori, e che trovano infinitamente maggior numero di lettori che non i poemi d’Omero.

La lingua poetica di Dante, al contrario, è talvolta sublime, talvolta strana, e spesso ineguale; ma non mai facile ad essere né imitata dagli scrittori, nà osservata con frutto da’ legislatori di lingua. Quindi non ha potuto, né potrà mai servire di modello a composizioni in prosa. Nel tempo stesso fu lingua soggetta anch’essa a leggi rigorosissime, ma furono inventate da chi la creò, e per non essere applicate fuorché da lui solo, e in quel suo genere di poesia. Molte forse delle sue frasi e modi di dire si potrebbero usare, e si sono usati dagli scrittori; ma risaltano ad un tratto agli occhi quasi ornamenti tolti ad imprestito, ed eccezioni felici a liberare d’ora in ora lo stile dalla monotonia dell’ordinaria andatura grammaticale. I dialoghi nel poema di Dante sono convenientissimi a ciascuno de’ tanti interlocutori d’ogni età, d’ogni costume e d’ogni carattere. Ad ogni modo parlano tutti con tanta profondità di pensiero e forza di concezione, e ardore di passione, e sopra tutto con tanta brevità, da costringere la lingua a forme ed espedienti e metafore maravigliose in que’ luoghi, ma incapaci ad accomodarsi al processo più logico della prosa. I romanzi della Tavola Rotonda raccontano che il Re Arturo uccise di un colpo di lancia il suo figliuolo Mordrec, perché lo colse in adulterio con la sua matrigna. Dante o lesse o immaginò che il fatto avvenisse a giorno chiaro, e in luogo dove splendevano i raggi del sole; e che il colpo di Arturo fece in un subito una ferita larga e profonda in guisa da dare adito al sole di trapassare per mezzo della piaga dal petto alle spalle, così che, mentre il corpo di Mordrec era diviso dal colpo, l’ombra sua sul piano era divisa dal raggio solare. Certo qualunque altro scrittore antico o moderno, e in qualunque lingua, esporrebbe lo stesso fatto piú o men brevemente per via di narrazione o di descrizione o d’immagini; ma nessuno fuorché Dante, e niuna lingua fuorché la sua, avrebbero ristretto il fatto in quei due soli versi:

e quello a cui fu rotto il petto e l’ombra

con esso un colpo per la man d’Artù. [34]

E questo è detto in un dialogo da uno spirito nell’Inferno in via di narrazione. L’energia delle parole, la rapidità delle espressioni e il suono di que’ due versi sono congegnati con tal arte da far sentire in un subito tutta la ferocia e l’istantaneità dell’azione. Quel modo idiomatico con esso un colpo invece di con un colpo, e che in inglese forse non si potrebbe tradurre che con la parafrasi, at one and the very same blow, conferisce nell’originale efficacemente all’intenzione del poeta. L’immagine è nuova insieme e terribile, e posta dinanzi agli occhi; ma non a tutti gli occhi riescirà di vederla senza attentissimo esame. Noi non possiamo concepire in un subito come fosse l’ombra unita al petto, né come fosse rotta anche essa ad un tratto da un medesimo colpo, né come mai l’ombra potesse dividersi a un colpo di lancia. La riflessione del lettore, o la allusione degli antichi romanzieri riescono finalmente a offrire all’immaginazione una pittura evidente dell’azione rappresentata; e la meraviglia si ri-concilia alla realtà naturale. Se questo modo di descrivere sia piuttosto bizzarro che originale, è un’altra questione con la quale qui non abbiamo che fare. Ma questo solo esempio basta a provare l’uso che Dante faceva della lingua nel suo poema. Ben può supplire abbondantissimo numero d’osservazioni particolari, ma nella pratica ognuno s’accorgerà che ciascuna osservazione si rimarrà isolata, e non potranno mai ridursi a metodo grammaticale, né a principi applicabili mai dalla generalità degli scrittori.

Ben è vero che la dizione del poema di Dante trasfuse sempre nelle opere degli uomini di genio un certo spirito di originalità, d’energia e di calore che può adattarsi ad ogni specie di composizione. Ma non è che lo stile, o per parlare più esattamente, non è che l’es-senza secreta dello stile di Dante, dalla quale que’ pochi che sanno cercarla e la trovano, possono ricavarne gran frutto. Tuttavia conviene ch’essi spoglino la lingua di quel poema delle forme inventate da Dante, le quali non possono essere maneggiate costantemente che da lui solo. Due moderni scrittori di ingegno, d’anima e di educazione differentissima, e ciascuno d’essi meritamente celebre per un modo diverso, e proprio a ciascuno di essi, di scrivere in poesia, indagarono per tutto il corso della loro vita letteraria le più potenti qualità della lingua italiana, e i secreti dello stile sulla Divina Commedia. L’uno e l’altro gli hanno trovati, e se ne sono giovati felicemente; e professano d’essere debitori in gran parte della loro fama alla loro perseveranza nello studio di Dante. L’uno è l’Alfieri, e l’altro è il Monti; e nondimeno i loro metodi di scrivere sono, non solo diversi, ma assolutamente opposti fra loro, sì che paiono poeti distanti più secoli l’uno dall’altro. E la ragione si è che, indipendentemente dalla tempra diversa delle loro facoltà intellettuali, l’uno e l’altro non si sono imbevuti che dell’essenza dello stile dell’antico creatore della poesia italiana. Così l’Alfieri n’animò i dialoghi delle sue tragedie e il Monti le terzine delle sue cantiche. Ma quanto alle forme della lingua, l’Alfìeri le pigliò principalmente dalle prose del Machiavelli, e il Monti dal poema dell’Ariosto.

L’altro genere di poesia trattato da Dante fu la lirica amorosa, ed era comune a tutti i suoi coetanei; e dopo mezzo secolo essendo stata ridotta dal Petrarca ad inarrivabile perfezione, fu poscia per quattrocent’anni stoltamente imitata anche dagli uomini savi; e analizzata da’ critici e dalle accademie; ma niuno s’avvide mai che sì fatta lingua non si presta a imitazione de’ poeti, né ad analisi di precettori di grammatica. Quanto agli elementi di cui il Petrarca si valse a comporre quella sua lingua, ne faremo parola osservando l’epoca seguente, alla quale egli spetta. Ma quanto al genere della sua poesia, ei lo trovò già introdotto da scrittori anche più antichi di Guido Cavalcanti, di Cino da Pistoia e di Dante. Questi tre, fra’ quali Dante primeggia, superarono i loro antecessori, e spianarono il sentiero al Petrarca a condurre Laura al terzo cielo. È poesia lirica platonica, d’amore platonico, in lingua platonica. Riescono versi mirabili perché sembrano concepiti da anime più che umane; ma parlano raramente alla fantasia nostra per via d’immagini, bensì la rapiscono in estasi; commovono il cuore a sentimenti indistinti, gratissimi, ma fuggitivi perché la passione è rigorosamente disgiunta da’ nostri sensi, che sono i ministri naturali e perpetui d’ogni passione reale; finalmente le idee sono sottilmente derivate da teorie metafisiche e inconcepibili; spesso oscure a’ poeti che si studiano d’illustrarle. Talvolta fin anche nelle poesie del Petrarca un’idea astratta è dedotta dall’altra, concatenata in ragionamenti e sillogismi e conclusioni, di modo che se fossero esposte senza metro, né rime, né metafore e tradotte in piane parole, ne uscirebbe una tesi sostenuta col metodo regolarissimo delle scuole. Bensì i versi, le rime e l’armonia delle parole combinate con arte musicale; le illusioni aeree e meravigliose di quella specie di ancore che illude per un momento, e le frasi adattate a quel genere di composizione hanno fatto spesso ammirare quella lirica, specialmente in que’ tempi. Non già che la in-tendessero meglio di noi; ma perché era accompagnata da note di musica e cantata alle feste e a’ banchetti; ond’era astrusa come poesia, ed insieme popolarissima come musica. Così in Londra di mille persone che concorrono all’opera italiana, appena cento ne intendono le parole.

Ma mentre Dante nelle sue poesie liriche e nella sua Divina Co;nmedia dava esempi che potevano essere piuttosto ammirati che imitati da presso, e trattava due stili diversi poetici, indipendenti da’ metodi ordinarie regolari di tutte le lingue, egli pur nondimeno adempiva a questo oggetto con le sue opere in prosa.

Abbiamo veduto come i dialetti innumerabili chiamati romanzi, che si parlavano universalmente nell’impero Romano e derivati tutti dal latino, si consolidarono nella lingua spagnuola, nella francese e nella italiana; e appena furono scritte da’ poeti e diventarono letterarie e nazionali, assunsero i nomi di lingua d’oc, lingua di oui, e lingua di sì. La prima pretendeva la preminenza per l’antichità de’ suoi poeti; la seconda per la moltitudine de’ suoi traduttori dal latino d’opere in prosa; e la terza, tarda dell’altro, per la sua affinità con la madre lingua latina, per la sua migliore regolarità di sintassi, e per la sua maggiore armonia ed attitudine a scriversi. Della lingua d’oc, benché siasi trasfusa tutta nella spagnuola, oggi non restano vestigi se non nelle canzoni dei Troubadours, illustrate non sono molti anni dal Raynouard. Abbiamo inoltre sott’occhi un volume di poemi ridotti in francese dalla lingua occitanica, come la chiama il traduttore; ma il nome è posteriore alla cosa. Certo è che consisteva or più or meno de’ dialetti romanzi provenzali, guasconi e catalani. Nel tempo stesso, a dir vero, noi non siamo molto disposti a credere all’autenticità di que’ poemi occitanici; e ci sembrano parafrasi moderne di pochi avanzi della lingua d’oc nominata da Dante, e che oggi sarebbe in tutto perduta senza lo studio degli antiquari. Tuttavia i suoi elementi sono evidenti in quel dialetto spagnuolo che è parlato da’ Catalani. La lingua francese ebbe sorte migliore; e poscia il numero e il merito de’ suoi scrittori in prosa la fecero correre a gloria che non le potrà esser rapita, se non dopo che una generale rivoluzione della terra spegnerà nelle nuove nazioni che la abiteranno, ogni memoria di quella da cui saranno state precedute. Pur nondimeno la lingua letteraria francese non arrivò a tanto splendore, se non per mezzo di alterazioni progressive che la trasformarono quasi in tutto da quello ch’era a’ tempi di Dante. Bensì l’italiana nacque, crebbe e si ampliò lingua letteraria con pochissime alterazioni, fuorché quelle recatele dal più o meno di genio degli scrittori. Per quante dottrine grammaticali l’abbiano immiserita, pur non di meno l’essenza intrinseca e le sue forme esteriori rimangono sempre le stesse.

Il sommo merito di Dante consiste nell’avere osservato il processo delle altre lingue derivanti dalla latina, le loro passate, e le loro attuali vicissitudini, e quelle della sua propria, e quindi d’avere saputo prevedere che la lingua italiana non avrebbe patito le fluttuazioni e le metamorfosi delle sue rivali. Vide che poteva migliorare o peggiorare, e che questo dipendeva in parte dagli scrittori, e in parte da’ principi su’ quali si sarebbe stabilita; ma che, peggiorando o migliorando, pur nondimeno le sue apparenze si rimarrebbero sempre le stesse. — A questa conclusione egli giunse e l’addottò per certissima, perché presentì che la lingua italiana non sarebbe stata mai parlata, e quindi avrebbe evitato tutti i mutamenti che accadono in ogni lingua soggetta alle pronunzie popolari, che insensibilmente vanno d’anno in anno alterando i suoni delle parole; sì che il dialetto d’un secolo è vario da quello dell’altro nella stessa città. Al contrario, se la lingua, non essendo parlata mai, continua ad esser scritta, tutte le sue forme esteriori agli occhi, e quindi alla pronunzia degli scrittori e de’ lettori, si rimangono più costanti ne’ segni dell’alfabeto, e tramandate di generazione in generazione, con pochissime alterazioni accidentali, alla più tarda posterità.

A queste conclusioni Dante arrivò, or sono cinquecento e più anni; e chi considera che quanto ei predisse si verificò puntualmente d’allora in qua, potrà facilmente inferirne che l’anima di quell’individuo, quantunque ardente di passioni fortissime sino al furore, e agitata da una immaginazione atta ad architettare e popolare tre mondi ideali, possedeva ad un tempo il potere di lunga e perseverante meditazione su gli argomenti più astrusi. Però da pochissimi fatti e da osservazioni che sfuggono l’altrui attenzione, seppe dirigere il progresso futuro ed inevitabile d’una lingua; e prevedere senza ingannarsi, che quella lingua o doveva perire, o mantenersi secondo le sue predizioni. Infatti che la lingua italiana non sia parlata neppur oggi apparisce a chiunque abita, e chiunque traversa quella penisola. Le persone educate negli altri paesi d’Europa si giovano della lingua nazionale, e lasciano i dialetti alla plebe. Or questo in Italia è privilegio solo di chi, viaggiando nelle provincie circonvicine, si giova d’un linguaggio comune tal quale tanto da farsi intendere, e che potrebbe chiamarsi mercantile ed itinerario. Bensì chiunque, dimorando nella sua propria, si dipartisse appena dal dialetto del municipio, affronterebbe il doppio rischio e di non lasciarsi intendere per niente dal popolo, e di farsi deridere nel bel mondo per affettazione di letteratura. I dialetti italiani d’oggi sono probabilmente mutati di molto da quello che Dante udiva parlare; egli ne contò quattordici principali, suddivisi all’infinito — né oggi il loro numero è forse minore e la loro disparità è sì prominente, che un Bolognese e un Milanese non si intenderebbero fra di loro, se non dopo parecchi giorni di mutuo insegnamento. Inoltre, che la lingua italiana sia stata sempre scritta con le medesime forme apparirà dal solo confronto con le due lingue più letterarie dell’Europa moderna, le quali, per essere state insieme parlate e scritte, mutarono la loro ortografia in guisa, che pochi Inglesi, fuorché i dottissimi, possono leggere e intendere le lettere di Chaucer, e pochi Francesi i libri di Rabelais. I Francesi di Luigi XIV e gl’Inglesi, al tempo ancor meno lontano della regina Anna e anche dopo, esiliarono tanto numero di parole, che oltre ad impoverire i loro idiomi, lasciarono gli antichi libri in dimenticanza. Trasfiguravano la loro ortografia in modo che scrivono in un alfabeto e pronunziano in un altro; ma a’ Francesi basta d’abusare de’ segni delle vocali e pronunziarli per via di dittonghi; bensì gli Inglesi abusano di vocali e di consonanti anzi, a dir giusto, non hanno alfabeto. Tale è la sorte di tutte le lingue, che essendo insieme scritte e parlate devono presto o tardi accomodarsi all’impero mutabile sempre della pronunzia e dell’uso. Al contrario la lingua italiana, per l’essenza sua di essere scritta e non parlata, e la sua ortografia patirono meno trasformazioni, ed ogni suo segno alfabetico scritto è pronunziato in un modo. Pochissime mutazioni qua e là nelle pagine delle prose di Dante basterebbero a far presumere ch’egli scriveva a’ dì nostri. La lingua traversò tanti corsi di secoli e di vicissitudini morali e politiche della nazione, preservando quasi tutte le sue parole armoniose, evidenti ed energiche, tutti i suoi modi eleganti, acquistandone sempre de’ nuovi, e senza perdere mai gli antichi, e scrivendoli tutti con la medesima uniformità. Sì fatti vantaggi non potranno essere controbilanciati che da danni ignoti alla storia delle altre lingue, fra’ quali il peggiore si è: che la lingua rimanendosi esclusivamente letteraria, la nazione in generale non ne ricavò molto profitto; né ha mai potuto decidere sul merito degli scrittori o su le loro dispute grammaticali. Gli autori essendo per lo più i soli lettori in simili argomenti, e certamente i soli giudici, non è meraviglia se le dispute stesse non cessarono mai, e se tutti scrivendo del come si dovrebbe scrivere, pochissimi scrivono di ciò che pur si dovrebbe.

Su ciò che Dante previde con occhio sicuro egli fondava pochi principi generali intorno alla legislazione grammaticale. Erano inerenti nella condizione e nella natura della lingua, onde operarono sempre e quando vennero applicati da parecchi scrittori, e quando vennero trascurati da altri o negati ostinatamente da molti; ed operarono fin anche negli scritti di chi li negava. Bensì ogni altro de’ sistemi posteriori apparve tanto più assurdo, quanto più s’allontanava dal suo; e tutti insieme non solo impedirono, ma fecero retrocedere la lingua ne’ suoi progressi. Non però le hanno potuto far mai rimutare indole né apparenze; cd oggimai l’esperienza ha convinto la più gran parte degli Italiani, che la loro lingua letteraria non può prosperare senza l’applicazione de’ principi di Dante. — E sono: — Che l’uso, il quale è l’arbitro d’ogni lingua, deve applicarsi anche alla lingua letteraria, ma che non essendo parlata, l’uso non può rissiedere negli abitatori d’alcuna città né provincia d’Italia; bensì nel popolo degli scrittori di tutta l’Italia: — Che i miglioramenti e i deterioramenti della lingua dipenderanno sempre dal più o meno d’ingegno o di studio, c soprattutto di liberale e nobile educazione di ciascuno scrittore — Che nelle Università e [nel]le corti de’ principi, clove la dottrina de’ libri, la generosità della vita e l’eleganza de’ costumi e quindi delle idee prevalgono, la lingua si arricchisce, si nobilita, e si raffina. Perciocché molti nuovi idiotismi de’ vari dialetti portati nelle università e nelle corti dal concorso d’uomini ben nati d’ogni provincia si vanno immedesimando in una sola lingua chiamata da Dante nobile, o cortigiana — Che questa lingua essendo così composta dal fiore di tutti i dialetti, e intelligibile a quanti sono educati a formarla e scriverla, non può possibilmente parlarsi da tutta una nazione divisa e suddivisa in popoli e municipi con dialetti diversi; bensì può essere scritta ed intesa da tutti — Che la tempra diversa delle facoltà intellettuali degli uomini d’ingegno avrebbe naturalmente innestato nella lingua nuovi modi, nuove frasi, nuovi spiriti, e sempre con arte diversa, e quindi ne sarebbero risultati diversi stili tutti formati dalla materia dipendente dalle medesime leggi — Che la fama e l’esempio de’ pochi grandi scrittori, i quali avrebbero necessariamente predominato nel loro secolo, avrebbero fatto come da moderatori a’ capricci e alla licenza e agli usi introdotti dal popolo degli autori. — Final-mente dichiara come regola generale, che ogni dialetto d’ogni città d’Italia, fuori della Toscana, e nemmeno quello di Firenze, quantunque paragonandoli fra di loro l’uno sembri men cattivo dell’altro, sono tutti ad un modo assolutamente incapaci a lasciarsi mai ridurre a lingua scritta, in guisa che possa divenire universale alla nazione; ma che gli scrittori dovevano scegliere continuamente da’ vari dialetti ciò che poteva addattarsi alla lingua letteraria, e far sì che, essendo formata di tutti, non mostrasse alcun indizio d’appartenere particolarmente a veruno.

Questi principi metafisici per se stessi furono annunziati in tempi ne’ quali la filosofia, l’arte dialettica e la teologia erano tutto uno, e, credendo di aiutarsi, s’intricavano fra di loro. Quindi il metodo adottato da Dante induce alle volte a credere che le sue idee fossero oscure anche alla sua mente. Locke che facilitò lo studio delle analisi delle idee, e quindi della natura delle lingue, e Condillac che illustrò questa difficilissima parte della metafisica, scrissero quattro secoli dopo. Dante asseriva il suo sistema com’uom che ne vedeva la verità, e n’era convinto; ma non lo esponeva in guisa da convincere gli altri. Il nome e la definizione di lingua Cortigiana sono idee vaghissime per sé. Inoltre senza lunghissima serie di fatti, d’argomenti e di dimostrazioni à cosa difficile a persuadere gli uomini di qualunque tempo, [che] una lingua vivente possa esistere senz’essere mai parlata. Finalmente s’è già veduto ch’ei morì quasi mentre aveva finito appena una parte del suo trattato.

L’applicazione universale, severissima e più che giusta delle sue dottrine contro a tutti i dialetti inimicò al poeta anche la tarda posterità di que’ Fiorentini che l’avevano esiliato. Ben è vero che niun dialetto può mai convertirsi in lingua scritta e permanente se non perde tutte le sue qualità popolari per accoglierne poi moltissime letterarie, in guisa che, serbando la sostanza della sua materia, trasformi a ogni modo tutte le sue sembianze. Ma è vero altresì che la materia della lingua nazionale si trova più nel dialetto fiorentino che in qualunque altro d’Italia e che, quantunque tutti gli scrittori fiorentini, e Dante più ch’altri, abbiano più o meno alterato il loro idioma materno ne’ libri, pur nondimeno la maggior quantità delle parole anche in Dante [sono] pur fiorentine. Certamente non possiamo indovinare come si parlasse in Firenze e in Bologna a que’ tempi; solo vediamo che Dante giudicava il dialetto de’ Bolognesi più atto a giovare alla lingua letteraria che non era il fiorentino; e questa sua decisione à inesplicabile, e nocque a’ suoi principi appunto perché parve ad ogni uomo esagerata ed assurda. Taluni l’attribuirono all’ira ch’ei sentiva contro a’ suoi concittadini. Altri compose ultimamente un libro non solo a difenderlo da questa taccia, ma a provare che i Fiorentini e gli altri Italiani scrivevano a que’ tempi una lingua al tutto letteraria, il che a noi non pare bastantemente provato. Se l’ira contro Firenze ebbe qualche parte a far anteporre a Dante il dialetto bolognese, egli ad ogni modo non lo avrebbe asserito con tanta certezza. Però crediamo ch’egli alludesse non tanto al dialetto municipale, quanto a quello che allora s’era creato per l’immenso e continuato concorso d’uomini d’ingegno, professori e scolari d’ogni eta, d’ogni sapere e d’ogni città d’Italia e d’Europa, i quali necessariamente usavano nell’università di Bologna d’una lingua prossima alla popolare, ma alterata in guisa di quella che per le stesse ragioni si parla e s’è sempre parlata nella corte de’ papi in Roma. E questa era appunto la Cortigiana di Dante. Comunque si fosse, se noi dobbiam giudicare dagli scritti de’ suoi contemporanei, que’ de’ Bolognesi sono pochi, e que’ pochi sono infinitamente inferiori nella lingua a’ moltissimi fiorentini. Inoltre d’allora in qua il fiorentino fu sempre il dialetto che s’approssimò più da vicino alla lingua scritta dagli autori italiani.

Forse fra que’ cent’anni o pochi più da che Dante nacque, e il Petrarca e il Boccaccio morirono, gli altri scrittori fiorentini si giovavano con pochissime alterazioni del dialetto parlato dal popolo. Tuttavia la diversità nella giuntura delle parole in ciascheduno di quegli scrittori fa manifesto, che alcuni d’essi il nobilitavano, altri l’ingentilivano, e tutti vi poneano più o meno studio; ed è studio inculcato dalla natura a chiunque pur sa di dover soggiacere al giudizio del mondo. E se questo non fosse, com’è che Giovanni Villani, tuttoché alla prima ci si mostri scrittore semplicissimo, ridonda, a chi attentamente lo legge, di parole ed eleganze e giunture di frasi tutte sue ed invisibili nelle altre scritture di quell’età? Or quando è pure evidente che tutti scrivevano in modo diverso dal suo, chi affermerà ch’ei scrivesse per l’appunto come parlava, e che la lingua scritta da lui fosse il dialetto del popolo fiorentino né più né meno? Non che tutti i dialetti, e que’ delle città di Toscana più ch’altri, non porgano infiniti modi di dire attissimi a scriversi; ma perché giornalmente sono applicati a fatti e pensieri alieni spesso da quelli che sogliono scriversi, sanno di plateale e di comico e guastano lo stile desiderato da materie più alte onde chiunque gli adopera è costretto a nobilitarli. Poiché dunque il Villani è dottato di eleganza e ricchezza di lingua ignote allo stile de’ suoi coetanei, è da dire ch’egli sapeva come ingentilire gl’idiotismi, e discernere quali comportassero di scriversi e quali no; e, bench’ei più ch’ogni altro egregio scrittore di quella città siasi giovato del dialetto popolare, ebbe l’ingegno di raffinarlo, e lasciò i primi esempi di lingua letteraria in Italia.

Però il fiorentino quanto più diveniva lingua italiana, tanto era più scritto e meno parlato; tanto più era spogliato d’ogni sembianza popolare e municipale; e tanto più il concorso degli scrittori lo arricchì variamente di forme o create di pianta, o trovate per mezzo d’antiche e nuove frasi e parole ringiovinite, combinate con arte. Intendi sanamente, non l’arte vanissima de’ retori e de’ grammatici; ma sì quel tanto d’arte suggerita ad ogni uomo dall’ingegno suo proprio, che per essere dono di natura spontaneo, ciascheduno l’usa com’ei lo possiede; e chi più n’ha, più l’esercita; e trova, quasi per ispirazione, assai modi a diffondere sembianze nuovissime e geniali pur sempre alla lingua. Pur altri mille ornamenti sono meretrici; e mille altri sembrano barbari. Alcuni scrittori per vanità di stile purissimo, non avendo calore da ravvivare le grazie che dissotterrano da vecchi libri, le lasciano cadaveriche, e pur se ne giovano; altri, per necessità d’idee ignote agli antichi, si accattano parole e frasi da’ forestieri, e non le adoprano in guisa che si confacciano spontaneamente alla lingua. Ma né i puristi sarebbero accusati di pedanteria, né gli innovatori di barbarismo, se chiunque scrive potesse insignorirsi dell’arte d’introdurre nel suo stile alcuni vocaboli e modi di dire antichissimi e forestieri si facilmente, che paiano piuttosto invitati che intrusi.

 

Note

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[1] Essai sur les moeurs, cap. LXXXII.

[2] Tableaux du douziéme et du treiziéme siécle, vol. III.

[3] Ut Sordellus de Mantua sua ostendit, Cremonae, Brixiae, atque Veronae confini; qui tantus eloquentiae vir existent, non solum in poetando, sed quomodolibet loquendo patrium vulgare deseruit. — Eloq., lib. I, cap. 15.

[4] Perticari, Dell’amor patrio di Dante.

[5] Sordellus de ipsius familia dominam ipsam latenter a marito subtraxit, cum qua in patris curia permanente dictum fuit ipsum Sordellum concubuisse. Rolandino, in Muratori, RR. II. SS., VIII, col. 173.

[6] Tamen Cunitia maledicta traxit eum in primum fallum. Benvenuto da Imola, in Muratori, Antiq. Ital., I, p. 1166.

[7] Si primas, si secundarias, si subsecundarias vulgaris Italiae variationes calculare velimus, in hoc minimo mundi angulo non solum ed millenam loquelae variationem venire contigerit, sed etiam ad magis ultra. Vulg. Eloq., c. 8.

[8] Nam videtur sicilianum volgare sibi famam prae aliis asciscere eo quad quicquid poetantur Itali sicilianum vocatur. Dante, De Vulg. Eloq., cap. 12 (2-3).

[9] Gaufridi de Vino Salvo, Poetria Nova apud Leiser, p. 856 sgg.

[10] Odofredo, ad finem Comm. Digesti vet. leg.

[11] Iliade, IX, 404.

[12] Iliade, IX, 560-5, trad. Monti.

[13] Iliade, III, 149.

[14] Apud Mehus, Vita Ambros. Carnald., p. 156, dov’è citata un’edizione del 1474.

[15] Gibbon, Decline and Fall of the Rom. Empire, cap. 59.

[16] Tiraboschi, Storia della Letteratura Italiana, vol. 5.

[17] Siquidem illustres heroes Federicus Caesar et benegenitus eius Manfredus nobilitatem ac rectitudinem suae formae pandentes, donec fortuna permansit, humana secuti sunt, brutalia dedignantes, propter quod corde nobiles atque gratiarum dotati inhaerere Cantorum principum maiestati conati sunt. — De volgari eloq. (I., XII, 4).

[18] Petri De Vineis, Epist. 38, apud Martino, Veter. Scriptorom, vol. II.

[19] Iste rex pestilentiac a tribus baratatoribus, ut eius verbis utamur, Christo Jesu et Moyse et Mahometo, totum mundum fuisse deceptum. — Hist. ed. an. 1239.

[20] De Monnoye, Dissertation stampata con Menagiana.

[21] «Accusarunt me, quod composuerim librum De tribus impostoribus, in quinquaginta carceribus huc usque clausus afflictusque fui, septis tormento durissimo examinatus postremumque perduravit horis quadraginta, funiculis arctissimis ossa usque secantibus ligatus, pendens manibus retro de fune super acutissimum lignum, qui carnis sextertium in posterioribus mihi devoravit et decem sanguinis libras tellus abibit. Tandem sanatus post sex menses divino auxilio, in fossa demersus sum».

[22] Muratori, Annali, 1229, 1245.

[23] A Comment on the Divine Comedy, London, 1822, vol. I, pp. 97-100.

[24] Vita Nuova, fra le opere di Dante vol. V, pp. 6-9. Edizione Zatta, Venezia, 1760.

[25] D’Israely, Curiosities of literature, vol. VI, p. 291.

[26] Loc. cit., p. 64.

[27] Rime di Guido Cavalcanti ecc., per opera di Antonio Cicciaporci, Firenze, 1813.

[28] Leonardo Bruni, Vita di Dante.

[29] Dino Compagni, Cronica, lib. I, p. 19, ediz. 1728.

[30] Boccaccio, Dream., Giorn. VI, nov. 9; Dante, Inf., cant. X.

[31] Boccaccio, Prose e Commento a Dante, p. 335, ediz. 1723.

[32] Presso Apostolo Zeno, Note al Fontanini, vol. II, p. 3; e il Cicciaporci, vedi il lungo estratto dell’elogio di Guido scritto da Lorenzo de’ Medici.

[33] Dante, Opere, vol. V, p. 67, ediz. Zatta.

[34] Inferno, canto XXXII, vv. 60-61.