O amabile Dameta,
Dì, figlio mio, del tuo maggior fratello
Non ti ricordi tu? più non rammenti
Il tuo Filino? Ei t'ha lasciato, e un anno
È che nol vedi più. Le prime rose
Spuntavano, com'or, su quella fratta,
Quando, i suoi giuochi abbandonati, il vidi
Seder pallido, e muto. Io gli chiedea:
Figlio, perchè qui sei? perchè non giuochi?
Perchè non vai con tuo fratello al prato?
Su scendi a sollazzarti. Hai forse male?
No, padre, ei mi dicea, no, nulla io sento,
Ma stanco io sono, e qui riposo; or ora
Tornerò con Dameta a trastullarmi.
Così sempre ei dicea, ma sempre il male
Più gli apparia sul viso. Un dì di Festa
Alfine ei si levò l'estrema volta,
Poi più non sorse. Oh come, allor che a casa
La sera mi vedea tornar dal campo,
Lieto in chiamarmi mi tendea le mani,
E la mia mi baciava, e mi chiedea
Se stanco fossi, e sempre a sè vicino
M'avria voluto. Un giorno alfin (dimani
Quel dì funesto riconduce il sole)
Mi levai, corsi a lui, chino sul letto
Gli diedi un bacio, e come stasse il chiesi.
Ei più non rispondea: l'occhio mi volse
Cui luccicante lacrima copria:
Ma nulla dir potè, più non dischiuse
Il moribondo labbro. Un opportuno
Rimedio al male, il vecchio Alcon, quel Saggio,
Cui sì spesso vedesti, e cui sì spesso
Della villa consultano i pastori,
Indicato ci avea. Per procacciarlo
Impaziente alla città mi volsi.
Saliva il sole in cielo, e la marina
Di lontano splendea: ma la campagna
Era tacita ancor. Passai non lungi
A quell'alto palagio, che alla luna
Or vedi biancheggiar dietro alle piante,
Colà vicino alla maestra via.
Della villa i Signori eran sepolti
Nel dolce sonno del mattin. Pur vidi
Aperta una finestra, intorno a cui
Sporgea ferrea ringhiera, e dentro l'ampia
Camera Signoril, sul pavimento
E il lucido apparato, che l'opposta
Parete ricopria, dal sol dipinta
L'immagine mirai della finestra.
A cui dinanzi con negletta veste
Un dei servi passar vidi, che intento
Sulla scopa pendea. Quanto lugubri
Per me fur quei momenti! Alla cittade
Giunsi, tolsi il rimedio, e qua tornai.
Fra speme, e fra timor, tremante, incerto
Entrai sospeso... Morto era Filino.
Pallido il rimirai: finito io vidi
Il respirar sulle gelate labbra:
Serrate le palpebre, e rilucenti
Pel ghiacciato sudor l'umide chiome.
Ahi mio Filino! Da quel tempo ancora
Quel mesto orror, quei funebri momenti,
Quel tristo dì dimenticar non posso.