SERMONI

Alessandro Manzoni (1803-1804)

 

XV

I – AMORE A DELIA

SCIOLTI DI ALESSANDRO MANZONI

            Amore a Delia. A te non noto ancora,
            Se non di nome, io vengo, io quel di Cipri
            Fra gli uomini e gli Dei fanciul famoso;
            Dubbio innoltrando il pie’, che già due lustri
5               Da queste stanze ad altre sedi io trassi,
            Quando la Madre tua savia divenne,
            E cessò d'esser bella. Or riconosco
            De' miei trionfi i monumenti; or veggio
            Il fido letto, ch'io nel dì lucente,
10        La notte il sonno coniugal calcava,
            E or sola, dopo il sibilar di molte
            Preci e molto sbadiglio, in su la sera
            L'accoglie. Imen vuol che dapprima i suoi
            Seguaci il sonno abbian comune e il cibo
15        Indi fuor che la mensa a parte il tutto.
            Qui gli sdegni, le tregue, indi le paci,
            Indi novelli sdegni e nove paci
            Lungo tempo alternati ad arte usai.
            Su questa sedia or per età vetusta
20        Cader lasciossi da gelosa rabbia
            Oppressa a un tratto, i languidi chiudendo
            Occhi, scomposta il crin, madido il fronte
            Di sudor freddo; il natural rossore
            Abbandonolle il volto, e sol restovvi
25        L'imposta rosa; l'innocente lino
            Provò le ingiurie de l'acuto dente.
            Qui l'immaturo Giovane inesperto
            Modesta accolse in pria, che dopo lungo
            Conversar con Minerva e con le Muse
30        A me pur venne alfin, piena la mente
            Di sermon Lazio e di raccolti Dommi.
            Qui si sdegnò de l'ardir suo, qui ruppe
            Un nascente sorriso, qui compose
            A matronal severitade il guardo;
35        E con la dotta man compose il velo
            In modo tal che ne apparisse il seno.
            Placossi alfin: più debolmente alfine
            L'audace man respinse; l'ostinata
            Garrula voce infievolissi, e tacque;
40        E con un guardo di sdegno, e d'amore
            Parea dicesse: a te do in sacrificio
            Mia virtù novilustre; e stanca ormai
            Di sonanti virili ispidi nèi,
            Anco sentì sollicitarsi il volto
45        Da la molle lanuggine cedente
            Che ancor la mano del tonsor non seppe.
            Ma quali veggio a le pareti appese
            Nove immagini, tetri simulacri
            D'occhi incavati, e di compunti visi?
50        Oh strano cangiamento! or finta in tela
            La penitente grotta di Marsiglia
            Sostiene il chiodo, onde pendea dipinto
            Il Latmio bosco e la Vulcania rete.
            Addio pertanto, o meste stanze! A voi
55        Ritornerò quando novella Nuora
            Venga a mutar le imagini e gli arredi;
            E dato esiglio a le canute chierche,
            I bei tumulti e i giochi e me richiami
            E la letizia, di giocondi amici
60        Popolando la casa del marito.
            .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .
            Già i Parenti e i Congiunti e i fidi Amici
            Van disegnando ne lo stuol crescente
            Di te degno e di lor Genero, cui
            Nuova cura di pubbliche faccende
65        E veste di pretorio oro insignita
            Faccia illustre, o i non ben dimenticati,
            Con l'arse pergamene e con le rase
            Da l'alte porte e dai lucenti cocchi
            Mistiche insegne, titoli vetusti.
70        Ben nel mio Regno inviolata io serbo
            Equalitade; io spesso anche al sublime
            Talamo esalto del Signor beato
            Il rude Servo, a lui per indomata
            Fedeltade e destrezza e pronto ingegno,
75        E a la sposa di lui per giovanili
            Membra caro e per inguine possente.
            Anco avran caro, a cui rivestan molti
            Le Briantee colline arsi racemi,
            Onor d'Insubri mense: e molti buoi
80        Rompan le pingui Lodigiane glebe
            E chiomate cavalle, e quel che il latte
            Dona armento minor pascan gli acquosi
            Immensi prati, onde lo sguardo è vinto.
            Perché tai cure oggi al giurato altare
85        Conducano i garzoni e le nolenti
            Donzelle, ascolta. Acerba lite un giorno
            Ebbi con Pluto; ei per vendetta Imene
            D'una catena d’or tutto ricinse
            E lo trasse con seco e sel fe' schiavo.
90        Ma il favor de l'eterne ali avea tolto
            A sue ricerche. Egli al sacrato patto
            Solo presieder volle. Io con la stessa
            Catena ambo gli avvinsi, e donno e servo
            Sottoposi a mia legge. Indi ei sovente
95        A viso aperto e con mentite forme
            In mio favor combatte. Ei ne le ricche
            Officine s'innoltra, e di lucente
            Crisolito o di limpido adamante
            In aureo anello o di gemmata cifra,
100      Quasi Proteo novel, prende l'aspetto.
            Come talor quel che non fecer preghi
            E sospiri e bellezza, egli m'ottenne!
            E spesso ne' tuguri anco il condussi
            Col villeggiante Cittadin, che sazio
105      Di profumate mogli, ebbe disio
            Di Venere silvestre; ivi la dura
            Per più Lune ad un sol serbata fede
            Ruppe il fulgor del magico metallo.
            Così dopo gran pugna il buon Atlante
110      A lo scudo fatal toglieva il velo,
            Ricorso estremo ne le dubbie cose;
            E abbagliati i Cavalli e i Cavallieri,
            Facendo agli occhi de la destra schermo,
            Lasciate l'arme al suol, cadean prostesi,
115      Abbandonando l'ostinato arcione.
            Già intorno a te molta oziosa turba
            Di Giovani s'aggira, e parte, e torna,
            Come a rosa sbucciante in sul mattino
            Ronzanti pecchie. Altri agli esperti inchini
120      E a le accorte parole assai più grato
            Ti fia degli altri tutti; a cui matura
            Gioventude le gote orna di folta
            Gemina striscia, che il cammin del mento
            Segna a l'orecchio. Ah fuggi, incauta, il troppo
125      Dolce periglio. Egli ne' miei misteri
            Già troppo è dotto, ei sa l'ore diverse,
            Che al Castaldo ed al Tempio ed a Licori
            Sacre ha più d'un Marito; ei le secrete,
            Non da profano pie' trite, conosce
130      Anguste scale, onde ai beati vassi
            Aditi de le mogli mattutine.
            Ivi è Signor, fin che di nuovo giunto
            Seguace di Gradivo indi nol cacci,
            Che da l'Alpi a bear venne la ricca
135      Di messi Insubria e d'uomini sinceri;
            Senza cura o timor, che il mal mentito
            Guascone inviso accento, onde cotanto
            In fine orecchio Parigin s'offende,
            I titoli smentisca, e l'ampie case,
140      Che in Lutezia ei possiede, e le cagioni
            Ond'ei di Marte le abborrite insegne
            Prima seguì, per evitar la cieca
            Famosa falce, che trovò l'acuto
            Gallico ingegno, onde accorciar con arte
145      La troppo lunga in pria strada di Lete,
            E la curva strisciante in su le selci
            Stridula scimitarra in rilucente
            Breve spadina, ed il calzar ferrato
            In nitida calzetta, che il colore
150      Agguaglia de le perle, onde Amfitrite
            Il sen s'adorna e la stillante treccia,
            Cangiò, come a me piacque e a l'alma Pace.
            Quei de' mutati sguardi e del rivolto
            Viso intende il linguaggio, e si ritira
155      Quasi Marito, ma nel cor fremendo.
            E cangiato sentier, giù per le late
            Scale vien saltellando, e per le vie
            Cercando va col curioso sguardo
            Qual fra le case abbandonata Moglie
160      Rinchiuda; ed anco da maligno Genio
            Spinto, a le incaute Vergini s'appiglia,
            A lor tentando il cor, non senza qualche
            Sguardo a la madre e a la fedele Ancella.

 

XVI

II – [CONTRO I POETASTRI]

            Se alcun da furia d'irritato nervo
            O da grave Ciprigna o da loquace
            Tosse dannato a l'odiosa coltre
            Me sanator volesse, il poverello,
5          Cred'io, n'andrebbe a giudicar se vera
            D'Aristippo o di Plato è la sentenza.
            Venga un altro e mi dica: Il mal vicino
            Deviò l'acqua dal mio fondo: a lui
            Vo' mover piato e mio legal t'eleggo.
10        Fingi che, posto il trito Flacco, io tenti
            Con l'inesperta man scotere il dritto
            Fuor de la polve de l'enorme Baldo.
            Che fia? Con danno il misero cliente,
            Io con vergogna fuggirem dal Fòro,
15        Molto ridendo l'avversario e Temi.
            Or d'onde è mai che il medico e il perito
            Di legge osin far versi? Anzi non sia
            Chi, dotto appena ad allogare un tempo
            Le sparse membra di Maron, che a lui
20        Disgiunse ad arte il precettor, non creda
            Poter, quando che voglia, esser poeta.
            Nulla di questo appar più lieve: eppure
            Tal vinse acri nemici e tenne il morso
            A genti ardite, che domar non seppe
25        I numeri ritrosi: ed io conosco
            Di questa plebe indocile i tumulti.
            Tu, di cui su quel carme io leggo il nome,
            Se onesto interrogar non è conteso,
            Dimmi, sei tu poeta? — Il ciel mi guardi.
30        — Perché dunque far versi? — A le preghiere
            E a lo sponsal solenne di un amico
            Quattro versi negar come potea?
            E sai che a figlia d'incolpato padre
            Non è minor vergogna al santo giuro
35        Senza un sonetto andar, che se indotata
            Porti a l'avaro conjugal piattello
            La man rapace e l'affamato ventre.
            Amico tal non credere che possa
            Vantar l'antica età; poi che se Oreste,
40        Quando le Dire aveangli guasto il senno,
            A quel suo fido d'amicizia specchio
            Detto avesse: Fa’ versi, io non saprei
            Se quel Pilade saggio avria potuto
            Al matto amico compiacer. Ma dimmi:
45        Se per nuovo pensier questo marito
            Sì t'avesse parlato: Io bramo, o caro,
            Che la mia Betta o Maddalena o quale
            Ch'ella si sia, come conviensi a sposa,
            Esca in publico ornata; ond'io ti prego
50        Che tu con le tue man, se non ti grava,
            A lei la vesta nuzial lavori:
            Che detto avresti? — A le lattughe, ai bagni
            Io mandato l'avrei con tanta fune,
            Quanta al più pingue figlio di Francesco
55        Cinger potria l'incastigato addome.
            Che se avessi obbedito, a me tal pena
            Non converrebbe? Un che sartor non sia,
            Se la rapace forbice e le spille
            Osa trattar con le profane dita,
60        Stolto nol dici? — E chi non è poeta,
            Se mai fa versi, con che nome il chiami?
            O cucir drappi è più difficil opra
            Che concluder poemi? A te vergogna
            Sarà, se donna in publico apparisca
65        Abbigliata da te, sì che i fanciulli
            Petulanti del trivio a lei d'intorno
            Scaglin, gridando, i mezzi pomi e l'altre
            Tante reliquie de la samia cena:
            Ma onor sarà, quando a l'udir tue rime
70        Vanno in fuga le Muse, e al casto orecchio
            De l'indice vocal si fanno scudo?
            Io non dirò, come vantar da molti
            Con riso udii, che l'arte del poeta
            Sia necessaria e sacra. A l'arte prima,
75        Che dal sen de la terra a trarre insegna
            Onde il mondo si nutra; a quella ond'hanno
            Freno i ribaldi e sicurezza i buoni,
            Tanto nome si dia. Ciò solo affermo,
            Che un'arte ell'è, qual ch'ella siasi un'arte.
80        Or quale è mai scienza o disciplina
            Tanto volgar, che da se stessa informi
            Non sudato cerebro? Eppur non manca
            Chi fogli empia di versi, onde la mente
            Riposar da le pubbliche faccende
85        E dai privati affari, e per sollievo
            Canti amori o battaglie, o lei che meglio
            Suol gorgheggiar da l'alta scena, o quella
            Che sa dir con le gambe: idolo mio.
            Quando su l'orme de l'immenso Flacco
90        Con italico pie' correr volevi,
            E de' potenti maledir l'orgoglio,
            Divo Parin, fama è che spesso a l'ugne,
            Al crin mentito ed a la calva nuca
            Facessi oltraggio. Indi è che, dopo cento
95        E cento lustri, il postero fanciullo
            Con balba cantilena al pedagogo
            Reciterà: Torna a fiorir la rosa.
            Ma Labeone al truce pedagogo
            Trattar la verga non farà, né Codro
100      Al putto ignaro ruberà la cena.
            La ruota, i serpi e la forata secchia,
            O Pluto, a quel che col dannoso acume
            Primo il tipo scoverse. A lui, di quanti
            Versi in onta d'Apollo uscir da quella
105      Sua macchina infernal, rogo si faccia
            D'eterne fiamme; o per maggior tormento,
            Stretto a leggerli sia. Ché asciutto ancora
            Su le carte febee non è l'inchiostro,
            Che al torchio illustrator vanno. Ed omai
110      Tante fronde l'Aprile, e tanti sofi
            L'Europa oggi non ha, né tante leggi
            Già in venti lune partorì l'invitto
            Senno e polmon degl'Insubri Licurghi,
115      Quanti ogni dì veggo apparir poeti.
            Quando poi da lo scrigno e da le miti
            Orecchie degli amici al banco aperto
            De l'avaro librar passano i versi
            E a le mani del volgo, a cui non lice
            Dannar Flacco e Maron, laudar Pantilio,
120      E al crin di Mevio decretar corona?
            Che dirò dei teatri? O sii tu servo
            O duro fabbro, o venda in sui quadrivi
            Castagne al volgo, un quarto di Filippo
            Ti fa Visco e Quintilio. Entra e decidi.
125      Mentre Emon si spolmona e il crudo padre
            Alto minaccia, o la viril sua fiamma
            Ad Antigone svela, o con l'armata
            Destra l'infame reggia e il cielo accenna,
            Odi sclamar dai palchi: Oh duri versi!
130      Oh duro amante! Dal suo fero labbro
            Un ben mio! non s'ascolta. Oh quanto meglio
            Megacle ed Aristea, Clelia ad Orazio!
            Che ti val l'alto ingegno e l'aspra lima,
            Primo signor de l'Italo coturno?
135      Te ad imparar come si faccia il verso
            De gl’Itali Aristarchi il popol manda.
            Mirabil mostro in su le Ausonie scene
            Or giganteggia. Al destro pie' si calza
            L'alto coturno, e l'umil socco al manco;
140      Quindi va zoppicando. Informe al volto
            Maschera mal s'adatta, ove sul ghigno
            Grondan lagrime e sangue. Allor che al denso
            Spettatore ei si mostra, alzarsi ascolti
            Di voci e palme un suon, che, per le cave
145      Volte romoreggiando, i lati fianchi
            Scote al teatro, e fa restar per via
            Maravigliato il passaggier notturno.
            Io, perché de la plebe il grido insano
            Non mi fieda l'orecchio, in questa cella
150      Mi chiudo, e meco i miei pensieri e libri,
            Quanti con l'occhio annoverar tu possa.
            Ché se alcuno è tra lor che ponga in mostra
            Maldigesta dottrina o versi inetti,
            Nel vimine ibernal presso al camino
155      O in loco va, che nel purgato verso
            Nega pudica rammentar Talia.

 

XVII

III – A GIO. BATTISTA PAGANI

Saepe stylum vertas

Venezia, 25 marzo 1804

            Perché, Pagani, de l'assente amico
            Non immemore vivi, il ciel ti serbi
            Sano e celibe sempre: or breve al tuo
            Di me benigno interrogar rispondo.
5          Valido è il corpo in prima, e tal che l'opra
            Non chiegga di Galen; men sano alquanto
            Il frammento di Giove; e non è rado
            Che a purgar quei due morbi, ira ed amore,
            O la smania d'onor mi giovin l'erbe
10        De l'orto Epicureo. Che se mi chiedi
            A che l'ingegno giovanetto educhi:
            Non a cercar come si possa in campo
            Mandar più vivi a Dite, o con la forza
            Nel robusto cerebro ad un volere
15        Ridur le mille volontà del volgo;
            Ma misurar parole, e i miei pensieri
            Chiuder con certo pie', questa è la febre,
            Da cui virtù di Farmaco o di voto
            Non ho speranza che sanar mi possa.
20        Pensier null'altro io m'ebbi in fin d'allora
            Che a me tremante il precettor severo
            Segnava l'arte, onde in parole molte
            Poco senso si chiuda; ed io, vestita
            La gonna di Vetturia, al figlio irato
25        Persuadea coi gonfi sillogismi
            Che, posto il ferro parricida, amico
            E umil tornasse e ripentito a Roma,
            Allor sol degno del materno amplesso.
            Me da la palla spesso e da le noci
30        Chiamava Euterpe al pollice percosso
            Undici volte; né giammai di verga
            Mi rosseggiò la man perché di Flacco
            Recitar non sapessi i molli scherzi
            O le gare di Mopso, o quel dolente:
35        “Voi che ascoltate in rime sparse il suono”.
            Ed or, di pel già asperso il volto e quasi
            Fra i coscritti censito, in quella mente
            Vivo; e quant'ozio il fato e i tempi iniqui
            A me concederanno ho stabilito
40        Consecrarlo a le Muse. Or come il mio
            Furor difenda, o dolce amico, ascolta.
            “Il Savio è re, libero, bello e Giove”,
            Zenon barbato insegna; or, perché pari
            Temeaci a lui, quel buon Figliuol di Rea
45        Temprò di molta insania il divo foco,
            Onde il Deucalioneo selce s'informa.
            Quindi brama talun che dal suo muro
            pendan avi dipinti; altri che a lui
            Ridan da l'arca impenetrabil molti
50        Cesari fulvi; altri a l'avita Pale
            Nato in capanna umil vorria la veste
            Sparger d'oro pretorio. Odi quest'altro:
            Oh s'io posso il mio tetto alzar sul fumo
            De l'umile vicino, e nel palagio
55        Entrar da quattro porte! E quei che tenta
            Eccelsi fatti, onde del figlio il figlio
            Di lui favelli; e seminar s'affanna
            Ciò che raccolga ne la tomba? E sano
            Direm colui, che di precetti spera
60        Far sano il mondo? A me più mite forse
            Giove impose il far versi; a che la mente
            Di sì bella follia purgar mi curo,
            Onde ad altra nocente, o men soave
            Dare il voto cerebro e il docil petto?
65        Or ti dirò perché piuttosto io scelga
            Notar la plebe con sermon pedestre,
            Che far soggetto ai numeri sonanti
            Opre d’antichi eroi. Fatti e costumi
            Altri da quel ch'io veggio a me ritrosa
70        Nega esprimer Talia. Che se propongo
            Dir Penelope fida e il letto intatto
            De l'aspettato Ulisse, ecco a la mente
            Lidia m'occorre, che di frutti estrani
            Feconda l'orto del marito, cui
75        Non Ilio pertinace o il vento avverso,
            Ma il prego mattutino o l'affrettata
            Visita de l'amico, o il diligente
            Mercurio tiene ad ingrassare il censo
            De l'erede non suo. L'imprese appena
80        Tento di Cincinnato e il glorioso
            Ferro alternato alla callosa destra
            O i Legati di Pirro innanzi al duro
            Mangiator del magnanimo Legume,
            Tosto Fulvio rammento, il qual pur jeri
85        Villano, oggi pretor, poco si stima
            Minor di Giove, e spaventarmi crede
            Con la forzata maestà del guardo.
            Che se dirai, che di famose gesta
            Non men che al tempo di quei prischi grandi
90        Abbonda il secol nostro, io lo confesso:
            Ma non ho voce onde a cantare io vaglia
            Le battaglie, le Leggi, e i rinnovati
            Fra noi Greci e Quiriti, e quella cieca
            Famosa falce, che trovò l'acuto
95        Gallico ingegno, onde accorciar con arte
            La troppo lunga in pria strada di Lete.

 

XVIII

IV – PANEGIRICO A TRIMALCIONE

            Poi che sdegnato dai patrizi deschi
            Partissi Como, ed a la sua nemica
            Temperanza diè loco, a nove mense
            Bacco recando e la seguace Gioja
5          E i rari augelli e i preziosi parti
            De la greggia di Proteo e i macri servi
            Del biondo nume, io, del bel numer uno,
            A la tua ricca mensa, o generoso
            Trimalcione, lo seguo, e a l'affollata
10        Cena il mio ventre e la mia lira aggiungo.
            Ma che dirò che dal tuo divo ingegno
            Merti plauso indulgente? Ed al conviva
            Faccia dal caro piatto ergere il grifo,
            E strappi un bravo, al qual confuso e rotto
15        Contenda il varco l'occupata bocca?
            Cui di tuo cuor l'altezza, e di tua mente
            Non è noto l'acume? E l'infinito
            Favor di Pluto e i greggi e i lati campi,
            Che apprestavano un tempo al cocollato
20        Figliuol di Benedetto e di Bernardo
            Gli squisiti digiuni? Io de' tuoi pregi
            Il men noto finor, forse il più grande,
            Farò soggetto al canto. Io di tua stirpe
            Porrò in luce i gran fatti, e torrò il velo
25        A le origini auguste, a cui non giunse
            Occhio profano mai; siccome un tempo
            Negava il Nil le mistiche sorgenti
            Al curioso adorator d'Osiri.
            L'origin, dunque, gl'incrementi e i casi
30        Dimmi, immortal Camena, onde l'egregio
            Trimalcion da l'occupata mente
            Di Giove e da l'inglorio ozio del caos
            Venne a l'onor de la beata mensa.
            A quel che primo a me rammenta Euterpe
35        Piacquer l'armi eleusine e la divina
            Gloria del campo: come un tempo è fama
            Che profugo dal ciel di Giove il padre
            Col ferro il grembo conjugal fendesse
            De la gran madre de gli Dei Tellure.
40        Ma il pacifico solco e le modeste
            Arti del padre fastidì l'ardente
            Spirto del figlio, e salutato il tetto
            Ed il natal suo regno, andò cercando
            Novo campo d'onor sott'altro cielo.
45        Quei che da Troja fuggitivo e spinto
            Da l'iniqua Giunon tanti anni corse
            Ver la fuggente Italia, ov'ebbe alfine
            L'impero e il tempio e di Maron la tromba,
            Taccio innanzi a costui ch'esule, inerme,
50        Sempre in guerra con Pluto, in terre estrane
            Portò su le pie spalle i Lari algenti.
            Taccio Creusa e l'infelice Elissa;
            Né a sue gran genti aggiungerò l'immenso
            Stuol de’ piccioli Ascanii, ond'egli accrebbe
55        Le discorse città. Te sol rammento,
            Vergin bella e pudica, unico frutto
            Di stabile Imeneo, te che sdegnasti
            Giunger tua destra a mortal destra, e il Divo
            Nome sacro de' tuoi cedere al nome
60        Di terrestre marito. Ohimè! recisa
            Dunque è l'augusta pianta! Or dove sono
            Gli sperati nipoti ed il promesso
            Trimalcione? E tu il comporti, o Giove?
            Ma che favello io stolto? Ecco, oh stupore!
65        Sotto la zona verginal, che appesa
            Al profano sacello Amor non vide,
            Crescer l'intatto grembo; e viva e vera
            Uscirne al mondo l'insperata prole.
            Di qual semenza, di qual gente assai
70        Fu contesa fra il volgo. A me, dal volgo
            Tratto in disparte, la fatal cortina
            Rimove Apollo, ove i gran fatti ei cela.
            E m'accenna col dito il ferreo Marte
            Che in remota selvetta il santo rito
75        d'Ilia rinnova, e l'atterrita virgo
            Che per fuggir s'affanna, rispingendo
            L'istante Nume, e fassi invano usbergo
            Le inviolate bende, e scuoter tenta
            Il futuro Quirin, che il destinato
80        Alvo ricerca, e il puro seggio occupa;
            E Amor che sorridendo i rami affolta,
            Ed intricando i pronubi virgulti
            Fa siepe intorno, e la facella ammorza,
            Perché maligno non penetri il guardo!
85        Tanta agli Dei di sì gran gente è cura!
            Né il sangue avito ed il natal divino
            Smentì il marzio fanciullo; anzi l'antico
            Padre emulando dei rettor del mondo
            Sparse il fraterno sangue, e quanti e quali
90        Entro il solco fatal Romolo accolse
            Volle compagni al fianco. Oh! qual s'avanza
            D'amore esemplo e di gentili studj
            Nobilissima coppia? Io vi saluto,
            Chiari gemelli, onde la fama è vinta
95        Del prisco ovo di Leda: e te cui piacque
            Impor cavalli al cocchio: e te che amasti
            Nei fori e ne le vie sacre a Diana
            Scagliar pietre volanti, ed incombente
            Corpo atterrar di poderoso atleta.
100      Che più vi resta? Alti nel ciel locarvi
            Fra il Cancro ardente e il rapitor d'Europa.
            Raggio invocato ai pallidi nocchieri,
            E accoglier miti con sereno volto
            Da le salvate prore inni votivi.
105      Spesso Saturnio e il popol suo degnaro,
            Velato intorno di mortal sembianza
            L'inostensibil Dio, scender dal cielo
            A popolar la terra. Il sa di Acrisio
            La invan triplice torre: il sa la bella
110      Sicula piaggia che mirò presente
            L'amante Pluto e vide il puro cielo
            Contaminato d'infernal tenebra
            Ed immonda favilla, e allividite
            L'erbe e i fior pesti da l'ugne fuggenti
115      Dei corsieri d'Averno, e i chiari fonti
            Arsi al passar de le roventi rote.
            Né pochi eroi di sempiterno seme
            Creati o di divin concepimento
            Vanta l'evo primier; ma poi che mista,
120      E adulterata di mortal semenza
            Cresce la stirpe, ne la turba immensa
            Dei morituri si confonde, e accusa
            La comun pasta del Giapezio loto.
            Non così l'alta stirpe, onde cantiamo,
125      Muse figlie di Giove; anzi dal suolo
            Poggia a le sfere, e per sublimi gradi
            De' semidei terrestri ascende ai Numi.
            Ché un Dio ben è colui che segue, al pari
            Del facondo Cillenio abil messaggio
130      Di nunzi arcani e con giocoso furto
            Al par destro a celar quanto gli piacque.
            Quale stupor se a tanto senno, a tanta
            Virtù mercede infami ceppi e dira
            Croce donar di Pirra i ciechi figli!
135      O degnato abitar l'ingrata terra,
            Perché, divo immortal, perché patisti
            Sì ratto esserci tolto? Oh se a la nostra
            Età più saggia eri servato, allora
            Che i primi fasci a noi recò Sofia,
140      Te gran lator di legge e del comune
            Dritto tutor sui clamorosi scanni
            Mirato avria lo stupefatto volgo.
            Or m'aprite Elicona, o Dee sorelle,
            Abitatrici dell'Olimpia rocca
145      Che alta la cima infra le nubi asconde,
            Ov'io poeta or salgo. E qual di voi
            Tant'alto il canto mio sciorrà, ch'io vaglia
            Con degno verso celebrar, se tanto
            Lice a lingua mortal, de l'arbor sacro
150      L'estreme frondi, onde il gran frutto è nato
            Ch'io qui presente adoro? Ei l'arti vostre
            Seguir degnossi, e il nome suo risplende
            Negli annali di Pindo. Ei sol potea
            Cantar se stesso; io le famose gesta
155      Di tenue Musa adombrerò qual posso.
            E certo al nascer suo l'acuto ingegno
            Invase auspice Febo. Ospite muro
            Né certa patria a lui concesse il fato,
            Né d’altro avea del suo fuor che la lira.
160      Tal che il sommo poeta, ohimè! vergogna!
            Fu costretto a varcar le iberne cime;
            E in man recando la frassinea cetra
            Ed il Dircio turcasso, andò gli orecchi
            A lusingar de gli unguentati eroi
165      E del Mavorzio mercator britanno.
            Poi che la sorte e l'onorate prove
            Di Guerrino ei cantava, e i detti alteri,
            Gl'incantati palagi e l'aste infrante,
            Gli arcion vuotati e le guerriere vergini
170      Dei convivi d'Artur. Né tu, ch'io creda,
            A contesa verrai, benché ti vanti
            Secondo ad Alighier, primo ad ogni altro,
            Eridanio cantore. I merti e l'opre
            Di quella tacerò che a lui fu sposa,
175      Madre a Trimalcion. Che non, se cento
            Bocche a voce di bronzo in petto avessi,
            Potrei dir tanto che il soggetto adegui.
            Sol questo io canterò, ch'ella fu prima
            Di Venere ministra e dei suoi doni
180      Larga dispensatrice: e se null'altra
            Luce di padri e nobiltà di sangue
            Ell'avesse quaggiù, ciò fora assai
            Per collocarla infra l'eccelse dame.
            Or chi m'apre il futuro? Oh qual vegg'io
185      Schiera d'eroi non nati! Ecco togati
            Vindici de le leggi e d'oro aspersi
            Correttori di popoli. Tremate,
            Barbare madri: ecco i guerrier di Marte.
            Oh quanto sangue a voi sovrasta! Oh quanto
190      Pianger pe' figli in stranio suol sepolti!
            Ma dove siamo, o Febo? Io te sì ratto
            Seguia con l'ale del pensier su l'alte
            Cime di Pindo, che sul desco adorno
            Il fagian si raffredda, ed il valletto
195      Toglier l'onor già de la mensa anela;
            E me a l'usato uffizio e al lavor dolce

            Chiama il rinato lamentar del ventre.