XIX
[1801]
Coronata di rose e di viole
Scendea di Giano a rinserrar le
porte
La bella Pace pel cammin del sole,
E le spade stringea
d'aspre ritorte,
5 E cancellava con l'orme divine
I luridi vestigi de la morte;
E la canizie de le pigre brine
Scotean dal dorso, e de le verdi
chiome
Si rivestian le valli e le colline;
10 Quand'io fui tratto in
parte, io non so come,
Io non so con qual possa o con quai
piume,
Quasi sgravato da le terree some.
E mi ferì le luci un vivo lume [[1]],
Ove non potea l'occhio essere
inteso,
15 E vinto fu del mio veder l'acume,
Com'uom che da profondo sonno è
preso,
Se una vivida luce lo percote,
Onde subitamente è l'occhio offeso,
Le confuse palpebre agita e scote,
20 Né può serrarle, né fissarle in lei,
Che sua virtute sostener non puote;
Così vinti cadevan gli occhi miei,
Ma il Ciel forze lor diè più che
mortali,
Da sostener la vista de gli Dei.
25 Non cred'io già che fosser
questi frali
Occhi deboli e corti e spesso
infidi,
Cui non lice fissar cose immortali.
Forse fu, s'egli è ver che in noi
s'annidi,
Parte miglior che de le membra è
donna;
30 Onde come io non so, so ben ch'io vidi.
Vidi una Dea; nulla era in lei di
donna,
Non era l'andar suo cosa mortale [[2]],
Né mai fu tale che vestisse gonna.
Di portamento altera [[3]], e quanta e quale
35 Su gli astri incede quella al maggior
Dio
Del talamo consorte e del natale.
Nobile, umano, maestoso e pio
Era lo sguardo, e l'armonia celeste
Comprenderla non può chi non l'udio.
40 Sovra l'uso mortal fulgida
veste
Copre le sante immacolate membra,
E svela in parte le fattezze oneste.
Tessuta è in Paradiso, e un velo
sembra;
Ma a tanto già non giunge uman
lavoro;
45 Oh con quanto stupor me ne rimembra!
Siede su cocchio di finissim'oro
Umilemente altera, ed il decenne
Berretto il crine affrena, aureo decoro.
Stringe la manca la fatal bipenne,
50 E l'altra il brando scotitor de'
troni,
Onde a cotanta altezza e poter venne
La gran madre de' Fabj e de'
Scipioni;
Sotto cui vide i Regi incatenati
Curvar l'alte cervici umili e proni.
55 Pronte a' suoi cenni stanle
d'ambo i lati
Due Dive, dal cui sdegno e dal cui
riso
Pendon de l'universo incerti i fati.
L'una è soave e mansueta in viso,
E stringe con la destra il santo
ulivo,
60 E il mondo rasserena d'un sorriso.
E l'altra è la ministra di Gradivo,
Che si pasce di gemiti e d'affanni,
E tinge il lauro in sanguinoso rivo.
Due bandiere scotean de l'aure i
vanni;
65 Su l'una scritto sta: Pace a le
genti,
Su l'altra si leggea: Guerra ai Tiranni.
Taceano al lor passar l'ire de'
venti,
Che, survolando intorno al sacro
scritto,
Lo baciavano umili e reverenti.
70 Quinci è Colei, che del
comun diritto
Vindice, a l'ima plebe i grandi
agguaglia,
Sol diseguai per merto o per delitto;
E se vede che un capo in alto
saglia,
E sdegni assoggettarsi a la sua
libra,
75 Alza la scure adeguatrice, e taglia.
E con la destra alto sospende e
libra
L'intatta inesorabile bilancia,
Ove merto e virtù si pesa e libra.
Non del sangue il valor, ch'è lieve
ciancia,
80 E tanto nocque alle cittadi, e
nuoce;
E sal Lamagna, e 'l seppe Italia e Francia.
Dolce in vista ed umano e in un
feroce
Quindi era il patrio Amor, che ai
figli suoi
Il cor con l'alma face infiamma e cuoce;
85 E i servi trasformar puote
in Eroi,
E non teme il fragor di tue ritorte,
O Tirannia, né de' metalli tuoi;
Non quella cieca che si chiama
sorte,
Che i vili in Ciel locaro, e fecer
Diva;
90 E scritto ha in petto: O Libertate o morte.
D'ogn'intorno commosso il suol
fioriva,
L'aura si fea più pura e più serena,
E sorridea la fortunata riva.
E a color che fuggir l'aspra
catena,
95 Prorompeva su gli occhi e su le
labbia
Impetuosa del piacer la piena;
Come augel, che fuggì l'antica
gabbia,
Or vola irrequieto tra le frondi,
Rade il suol, poi si sguazza ne la sabbia.
100 Quindi s'udian romor cupi e
profondi,
Un franger di corone e di catene,
Un fremer di Tiranni moribondi.
Impugnando un flagel d'anfesibene
La Tirannia giacevasi da canto,
105 E si graffiava le villose gene.
E i torbid'occhi si copria col
manto;
Ché la luce vincea l'atre palpebre,
E le spremea da le pupille il pianto;
Come notturno augel, che le latebre
110 Ospiti cerca allor che il Sole
incalza
Ne' buj recinti l'orride tenebre.
Èvvi una cruda, che uno stile
innalza,
E 'l caccia in mano a l'uomo e dice:
Scanna,
E forsennata va di balza in balza.
115 Nera coppa di sangue ella
tracanna,
E lacerando umane membra a brani,
Le spinge dentro a l'insaziabil canna.
E con tabe-grondanti orride mani
I sacrileghi don su l'ara pone,
120 E osa tendere al Ciel gli occhi profani.
Che più? Sue crudeltati ai Numi
appone,
E fa ministro il Ciel di sue
vendette;
E il volgo la chiamò Religione.
Si scolorar le faccie maledette,
125 E l'una a l'altra larva
s'avviticchia,
E stan fra lor sì avviluppate e strette,
Che il cor de l'una al sen de
l'altra picchia,
Ansando in petto, e trabalzando, e
poscia
La coppia abbominosa si rannicchia.
130 Qual'è lo can che tremando
s'accoscia,
Se il signor con la verga alto il
minaccia,
Tal ristrinsersi i mostri per l'angoscia.
Ma poi che di quell'altra in su la
faccia
Vide languir
la moribonda speme,
135 Colei che in sacri ceppi il volgo allaccia,
Incorolla dicendo: E mute insieme
Morremo e inoperose? e il nostro
lutto
Fia di letizia a chi 'l procaccia seme?
Tutto si tenti e si ritenti tutto;
140 E se morire è forza pur, si moja [[4]],
Ma acerbo il mondo ne raccolga
frutto.
Qualunque aspira a
Libertate moja,
Né onor di tomba o pianto abbia il
ribaldo.
E l'altra surse e gorgogliava: Moja.
145 Moja, sì moja, e temerario e
baldo
Cerchi in Inferno Libertade; il fio
Paghi col sangue fumeggiante e caldo.
Acuto allor s'intese un sibilio
Via per le chiome
ed un divincolarsi
150 E di morsi e percosse un mormorio.
Poscia terribilmente sollevarsi
E un barlume di speme fu veduto
Brillar sui ceffi lividi e riarsi;
Come allor che nel fosco aer
sparuto
155 In fra 'l notturno vel si mostra e
fugge
Un focherello passeggiero e muto.
L'infame coppia si rosicchia e
sugge
Di preda ingorda la terribil ugna,
Si picchia i lombi risonanti e rugge.
160 Contra miglior voler voler mal
pugna [[5]];
E fra la vil perfidia e la virtute
Secura è sempre e disegual la pugna.
Ma stavan l'aure pensierose e mute,
E il Ciel di brama e di timor
conquiso,
165 E pendevan le rive irresolute.
La Dea mirolle, e rise un cotal riso [[6]]
Di scherno e di disdegno, che
dipinge
Di gioja al giusto, al rio di tema il viso.
E immobile in suo seggio il cocchio
spinge
170 Su le attonite larve, e le
fracassa,
E l'auree rote del lor sangue tinge.
Né per timore o per desio
s'abbassa,
Ma disdegnosa e nobile in sua possa
Alteramente le sogguarda, e passa.
175 Fumò la terra di quel sangue
rossa,
Ond'esalava abbominoso lezzo,
E da l'ime radici ne fu scossa.
Ondeggia, crolla, e alfin si
spacca, il mezzo
Apre del sen
tenebricoso, e ingoja
180 Quei vituperj, e parne aver ribrezzo.
Quinci acuto s'udì grido di gioja,
E quindi un fioco rimbombar di
duolo,
Simile a rugghio di Leon che moja.
S'alzò tre volte, e tre ricadde al
suolo
185 Spossata e vinta l'Aquila grifagna,
Ché l'arse penne ricusaro il volo.
Alfin, strisciando dietro a la
campagna,
Le mozze ali e le tronche ugne,
fuggio
A gl'intimi recessi di Lamagna.
190 Allor prese i Tiranni un
brividio,
Che gli fe' paventar de la lor
sorte,
E mal frenato in su le gote uscio,
E gliele tinse d'un color di morte.
Col pensier, con gli orecchi e con le ciglia
I' era immerso in quell'altera
vista,
Come colui che tace e maraviglia;
Qual dicon che de' Spirti in fra la
lista,
5 Stette mirando le magiche note
Il furente [[7]] di Patmo Evangelista.
Quand'io vidi la Dea, che su
l'immote
Maladette sorelle il cocchio spinse,
E su le infami cigolar le rote,
10 Primamente un terror freddo
mi strinse,
Poi surse in petto con subita forza
La letizia, che l'altro affetto estinse.
Qual se fiamma divora arida scorza
Avidamente, e
d'improvviso d'acque
15 Talun l'inonda, subito s'ammorza,
Così sotto la gioja il timor
giacque;
Poi surse un novo di stupore
affetto,
E l'uno e l'altro moto in sen mi tacque.
Però ch'io vidi un bel drappello
eletto
20 Di Lor che sordi furo al proprio
danno,
Caldi d'amor di Libertade il petto.
Vidi colui che contro al rio
Tiranno
Fe' la vendetta del superbo strupo [[8]],
Poi che s'avvide del lascivo inganno,
25 E corse furioso, come lupo,
Se mai rapace cacciator gli fura
I cari figli dal natio dirupo.
E seco è Lei, che d'alma intatta e
pura,
Benché polluta ne la spoglia in
vita,
30 Lavò col sangue la non sua lordura.
Quei che ritolse ai figli suoi la
vita,
Poi che ne fero uso malvagio e rio,
Immolando a la Patria, ostia gradita,
L'affetto di parente, e dir s'udio:
35 Quei che di fede a la sua patria
manca
Non è figlio di Roma, e non è mio.
Siegue Quei che la destra ardita e
franca
Cacciò fremendo ne le fiamme pie,
E fe' tremar Porsenna colla manca.
40 Ve' la Vergin che corse a le
natie
Piaggie, fuggendo del Tiranno
l'onte,
Per le amiche del Tebro ospite vie.
Ecco quel forte, che al famoso
ponte
Contra l'Etruria
congiurata tenne
45 Ferme le piante e immobile la fronte.
E l'urto d'un esercito sostenne,
E contra mille e mille lancie
stette,
Onde immortale a' posteri divenne.
Ma ben poria le più sottili erbette
50 Annoverar nel prato e 'n ciel le
stelle
E le arene nel mar minute e strette
Chi noverar volesse l'alme belle
Ch'ivi eran, di valore inclito
speglio,
Sol de la Patria e di Virtute ancelle.
55 Sorgea fra gli altri il
generoso Veglio,
Che involò del Tiranno ai sozzi
orgogli
La figlia intatta, e ben fu morte il meglio.
Fu la figlia che disse al padre:
Cogli
Questo immaturo
fior: tu mi donasti
60 Queste misere membra, e tu le togli,
Pria che impudico ardir le incesti
e guasti;
E in quello cadde il colpo, e
impallidiro
Le guancie e i membri intemerati e casti,
E uscì dal puro sen l'ultimo spiro,
65 Ed a la vista orribile fremea
Il superbo e deluso Decemviro,
Cui stimolava la digiuna e rea
Libidine, e struggea l'insana
rabbia,
Che i già protesi invan nervi rodea;
70 Qual lupo, che la preda
perdut'abbia,
Batte per fame l'avida mascella,
Rugge, e s'addenta le digiune labbia.
Quindi segue una coppia rara e
bella,
Che ria di ben
oprar mercede colse
75 Ahi! da la Patria troppo ingrata e fella.
V'è quel grande che Roma ai ceppi
tolse,
Indi de l'Afro le superbe mine
E le audaci speranze in lui rivolse:
Per cui sovra le libiche ruine
80 Vide Roma discesa al gran tragitto
Il fulgor de le fiaccole Latine.
E quei che Magno detto era ed
invitto,
Che, insiem con Libertà, spoglia
schernita
Giacque su l'infedel sabbia d'Egitto.
85 V'era la non mai doma Alma,
che ardita
Temé la servitù più de la morte,
Amò la Libertà più de la vita;
Dicendo: Poi che la nimica sorte
Tanto è contraria
a Libertate, e invano
90 La terribile armò destra quel forte,
Alzisi omai la generosa mano,
E l'alma fugga pria che servir
l'empio,
Ch'io nacqui e vissi e vo' morir Romano.
E seco è Lei, che con novello
scempio
95 Dietro la fuggitiva Libertate
Corse animata dal paterno esempio.
Quindi un drappel venia d'ombre onorate
Sacre a la patria, che di sangue
diro
Ne spruzzar le ruine inonorate.
100 Bruto primo sorgea, che torvi
in giro
Pria torse i lumi, indi a Roma gli
volse,
E da l'imo del cor trasse un sospiro.
E a l'ombre circostanti si rivolse,
In cui non fu la virtù patria doma,
105 Indi la lingua in tai parole sciolse:
Ahi cara Patria! Ahi Roma! ah! non
più Roma,
Or che strappotti il glorioso lauro
Invida man da la vittrice chioma.
Ov'è l'antico di virtù tesauro?
110 Ove, ove una verace alma Latina?
Ove un Curio, un Fabricio, ove uno Scauro?
Ahi! de la Libertà l'ampia ruina
Tutto si trasse ne la notte eterna,
Ed or serva sei fatta di reina;
115 Ché il celibe Levita ti
governa
Con le venali chiavi, ond'ei si
vanta
Chiuder la porta e disserrar superna.
E i Druidi porporati: oh casta, oh
santa
Turba di Lupi mansueti in mostra,
120 Che de la spoglia de l'agnel s'ammanta!
E il popol reverente a lor si
prostra
In vile atto sommesso, e quasi Dii
Gli adora e cole: oh sua vergogna e nostra!
Che valse a me di sacri ferri e pii
125 Armar le destre, e franger la
catena?
Lasso! e per chi la grande impresa ardii?
Spento un Tiranno, un altro surse,
piena
Di schiavi de la terra era la Donna,
Infin che strinse la temuta abena
130 Quei che la Galilea dimessa
donna
Trasse dal fango, e i membri sozzi e
nudi
Vestì di tolta altrui fulgida gonna;
E maritolla a’ suoi nefandi Drudi [[9]]
Incestamente, e al vecchio
Sacerdote
135 A la canna scappato e a le paludi,
Che infallibil divino a le devote
Genti s'infinse, che a la Putta
astuta
Prestaro omaggio e le fornir la dote.
E nel Roman bordello prostituta,
140 Vile, superba, sozza e scellerata
Al maggior offerente era venduta.
Ivi un postribol fece, ove
sfacciata
Facea di sé mercato, ed a' suoi
Proci
Dispensava ora un detto, ora un'occhiata.
145 Ma poi che ferma in trono fu,
feroci
Sensi vestì, l'armi si cinse, e
infece
D'innocuo sangue le mal compre croci.
E sue ministre ira e vendetta fece,
L'inganno, la viltà, la scelleranza,
150 E fe' sua legge: Quel che giova lece.
Quindi la maladetta Intolleranza
Del detto e del pensier, quindi
Sofia
Stretta in catene, e in trono l'Ignoranza.
O ditel voi, che di saver sì ria
155 Mercede aveste di sospiri e pianto
Da l'empia de l'ingegno tirannia.
O ditel voi, ch'io già non son da
tanto;
Gridino l'ossa inonorate, e il suono
A l'Indo ne pervenga e al Garamanto.
160 Questi i diletti de l'Eterno
sono?
Questi i ministri del divin volere?
E questi è un Dio di pace e di perdono?
Dillo, o gran Tosco, tu, che de le
spere
Librasti il moto,
e a’ tuoi nepoti un varco
165 Di veritate apristi e di sapere.
Contra te i dardi dal diabolic'arco
Sfrenò l'invidia, e contra i tuoi
sistemi
Indarno trasse in campo e Luca e Marco.
Empj! che di ragione i divi semi
170 Spegner tentaro ne gli umani petti,
E colpirono il ver con gli anatemi.
Van predicando un Nume, e a' suoi
precetti
Fan fronte apertamente, e a chi
gl'imita
Fulminan le censure e gl'interdetti.
175 Povera, disprezzata, umil la
vita
Quel che tu adori in Galilea menava,
E tu suo servo in Roma un Sibarita.
O greggia stolta, temeraria e
prava,
Che col suo Nume e con se stessa
pugna;
180 Di Dio non già, ma di sue voglie schiava.
Altri nemico di se stesso impugna
Crudo flagello, e il sangue fonde, e
'l fura,
A la Patria, e de' suoi dritti a la pugna,
Devoto suicida, ed a la dura
185 Verginità consacrasi, i desiri
Soffocando e le voci di natura.
Stolto crudel, che fai? de' tuoi
martiri
Forse l'amante comun Padre frue?
O si pasce di sangue e di sospiri?
190 Oh stolto! Ei nel tuo core, Ei
con le sue
Dita divine la diversa brama
Pose Colui, che disse “sia”, e fue.
Ei con la voce di natura chiama
Tutti ad amarsi, e gli uomini
accompagna,
195 E va d'ognuno al cor ripetendo: Ama.
E tu fuggi colei che per compagna
Ei ti diede, e i fratei credi
nemici,
E invan natura, invan grida e si lagna.
E tal sotto i flagelli ed i cilici
200 Cela i pugnali, e vassi a capo
chino
Meditando veleni e malefici.
O degenere figlia di Quirino,
Che i tuoi prodi obliando, al
Galileo
Cedesti i fasci del valor Latino,
205 Questi sono i tuoi Cati, e in
sul Tarpeo
Dei nostri figli si fan scherno e
gioco...
Ma qui si tacque, e dir più non poteo;
Ché tal la carità del natio loco
Lo strinse, e sì
l'oppresse, che morio
210 La voce in un sospir languido e fioco.
Quindi tra le commosse ombre s'udio
Sorgere un roco ed indistinto
gemito,
Poscia un cupo e profondo mormorio;
Sì come allor che con interno
tremito
215 Quassano i venti il suol che ne
rimbomba,
S'ode sonar da lunge un sordo fremito,
Che tra le foglie via mormora e
romba.
I tronchi detti e il lagrimoso
volto
Di quella generosa Anima bella
Avean là tutto il mio pensier raccolto,
Quando tutto a sé 'l trasse una
novella
5 Turba, che di rincontro a me venia,
D'abito più recente e di favella.
Confuso e irresoluto io me ne gìa,
Com'uom che in terra sconosciuta
mova,
Che lento lento dubbiando s'avvia.
10 Ed erano color che per la
nova
Libertade s'alzar fra l'alme prime,
Di sé lasciando memoranda prova.
Grandeggiava fra queste una sublime
Alma, come fra 'l salcio umile e l'orno [[10]]
15 Torreggian de' cipressi alto le cime.
Avea di belle piaghe il seno
adorno,
Che vibravan di luce accesa lampa,
E fean più chiaro quel sereno giorno;
Ché men rifulge il sol quando più
avvampa,
20 E sovra noi da lo stellato arringo
L'orme fiammanti più diritte stampa.
Allor ch'egli me vide il pie'
ramingo
Traggere incerto per l'ignota riva,
Meditabondo, tacito e solingo,
25 A me corse, gridando: Anima
viva,
Che qua se' giunta, u' solo per
virtute,
E per amor di Libertà s'arriva;
Italia mia che fa? di sue ferute
È sana alfine? è in Libertate? è in
calma?
30 O guerra ancor la strazia e servitute?
Io prodigo le fui di non vil alma,
E nel cruento suo grembo ospitale
Giacqui barbaro pondo, estrania salma.
35 Né m'accolse nel seno il
suol natale,
Né dolce in su le ceneri
agghiacciate
Il suon discese del materno vale.
Barbaro estranio tu? non son sì
ingrate
L'anime Italiane, e non è spento
L'antico senso in lor de la pietate.
40 Oh qual non fece Insubria
mia lamento
Più sul tuo fato, che sul suo
periglio!
Ahi! con lagrime ancor me ne rammento.
E te, discinta e scarmigliata,
figlio
Chiamò, baciando il tronco amato e
santo,
45 E con la destra ti compose il ciglio.
E adorò 'l tuo cipresso al quale
accanto
Il caro germogliò lauro e l'ulivo,
Che i rai le terse del bilustre pianto.
Li terse? Ahi no! ché a lei
costonne un rivo,
50 Che inondò i membri inanimati e
rubri
Di te, che 'n cielo e ne' bei cor se' vivo.
Deh! resti a noi, dicean le rive
Insubri,
Deh! resti a noi, ma l'onorata
spoglia
Trasse Francia gelosa a' suoi delubri.
55 Ma de l'itala sorte, onde
t'invoglia
Tanto desio, come farò parola?
Ché un seme di Tiranni vi germoglia.
E sotto al giogo de la greve stola
La gran Donna del Lazio il collo
spinse,
60 E guata le catene, e si consola.
E Partenope serve a lei, che vinse
In crudeltà la Maga empia di Colco,
E de' più disumani il grido estinse.
Ed il Siculo e 'l Calabro bifolco
65 Frange a crudo signor le dure
glebe,
E riga di sudore il non suo solco.
Al mio dir disiosa urtò la plebe
Un'ombra, sì com'irco spinge e cozza
In su l'uscita le ammucchiate zebe.
70 Avea i luridi solchi in su
la strozza
Del capestro, e la guancia scarna e
smunta,
E la chioma di polve e sangue sozza.
E' surse de le piante in su la
punta,
Come chi brama violenta tocca,
75 E uno sciame d'affetti in sen gli spunta,
Ed il cor sopraffatto ne trabocca
Inondato e sommerso, e l'alma fugge [[11]]
Su la fronte, su gli occhi e su la bocca.
Poi gridò: L'empia vive, e non
l'adugge
80 Il telo, che temuto è sì là giue?
E 'l dolce lume ancor per gli occhi sugge? [[12]]
Né pur la pena di sue colpe lue,
Ma vive, e vive trionfante, e regna:
Regna, e del frutto di sue colpe frue.
85 O tu, diss'io, che sì contra
l'indegna
Ardi, che in crudeltate al mondo è
sola,
Spiegami il duol che sì l'alma t'impregna.
Più volte egli tentò formar parola,
Ma sul cor ripiombò tronca la voce;
90 Che 'l duol la sospingeva ne la gola;
Sì come arretra il suo corso veloce,
E spumeggia e gorgoglia onda restia,
Se impedimento incontra in su la foce.
Ma poi che vinse il duol la
cortesia,
95 E per le secche fauci il varco
aperse,
E fu spianata al ragionar la via,
Gridò: Tu vuoi ch'io fuor dal seno
verse
Il duol, che tanto già mi punse e
punge,
Se pur si puote anco qua su dolerse.
100 Ma in quale arena mai grido non giunge [[13]]
Di sua nequizia e de' fatti empi e
rei?
E sia pur, quanto esser si voglia, lunge.
Io di sua crudeltà la prova fei,
E giacqui ostia innocente in su
l'arena,
105 Per amor de la Patria e di Costei,
Di ciò l'alma e la bocca ebbi ognor
piena,
Che a me fu sempre fida stella e
duce,
Ed or mi paga la sofferta pena.
Poi che apparve un'incerta e dubbia
luce
110 Sovra l'Italia addormentata, e
sparve,
Onde la notte nereggiò più truce,
E una benigna Libertade apparve,
Che al duro appena ci rapì servaggio,
Indi sparì come notturne larve,
115 Io corsi là, com'a un lontano
raggio
Correndo e ansando il pellegrin
s'affretta,
Smarrito fra 'l notturno ermo viaggio.
Ahi breve umana gioja ed
imperfetta!
Venne, con l'armi
no, con le catene
120 Una ciurma di schiavi maladetta.
E gli abeti secati a le Rutene
Canute selve del Cumeo Nettuno
Gravaro il dorso, e ne radean le arene.
Corse fremendo ed ululando il bruno
125 Tartaro antropofàgo, che per fame
Spalanca l'atro gorgozzul digiuno.
E l'Anglo avaro, che mercato infame
Fa de le umane vite, e in quella
sciarra
Lo spinsero de l'or le ingorde brame.
130 Né più i solchi radea sicula
marra,
Né più la falce, ma le verdi biade
Mieteva la cosacca scimitarra.
E non bastar le peregrine spade;
Ché la Patria ancor essa, ahi danno
estremo!
135 Vomitò contra sé fiere masnade.
Ahi che in pensando ancor ne
scoppio e fremo!
Qual dal carcer sboccato e qual dal
chiostro,
Qual tolto al pastorale e quale al remo.
Oh ciurma infame! e un porporato
mostro
140 Duce si fe' de le ribelli squadre,
Celando i ferri sotto al fulgid'ostro.
Costor le mani violente e ladre
Commiser ne la Patria, e tutta
quanta
D'empie ferite ricovrir la madre.
145 Di Libertà la tenerella pianta
Crollar, sì come d'Eolo irato il
figlio
L'aereo pin da le radici schianta.
Poscia un confuso regnava
bisbiglio,
Un sordo mormorar
fra denti ed una
150 Paura, un cupo sovvolger di ciglio;
Come allor che da lunge il ciel
s'imbruna,
Siede sul mar, che a poco a poco
s'ange,
Una calma che annunzia la fortuna;
Mentre cigola il vento, che si
frange
155 Tra le canne palustri, e cupo e
fioco
Rotto dai duri massi il fiotto piange.
Ma surse irata la procella, poco
Durò la calma e quel servir
tranquillo;
Sangue al pianto successe e ferro e foco.
160 E l'aer muto ruppe acuto
squillo
Annunziator di stragi, e sulla torre
L'atro di morte sventolò vessillo.
Il furor per le vie rabido scorre,
E con grida i
satelliti, e con cenni
165 Incora e sprona, e a nova strage corre.
Allor s'ode uno strider di bipenni,
Un cupo scroscio di mannaje. Ahi
come
Oltre veder con questi occhi sostenni!
Chi solo amò di Libertate il nome,
170 O appena il proferì, dai sacri lari
Strappato e strascinato è per le chiome.
Ai casti letti venian que' sicari,
Qual di lupi digiuni atro drappello,
D'oro e di sangue e di null'altro avari.
175 E invan le spose al violato
ostello,
Di lagrime bagnando il sen discinto,
Fean con la debil man vano puntello;
Ché fin fu il ferro, ahimè!
cacciato e spinto
Entro il seno pregnante: oh
scelleranza!
180 E il ferro, il ferro da l'orror fu vinto.
Gli empj no, che con fiera
dilettanza
Pascean gli sguardi disiosi e cupi,
E fean periglio di crudel costanza.
E i pargoletti a que' feroci lupi
185 Con un sorriso protendean le mani,
Con un sorriso da spetrar le rupi.
Ed essi, oh snaturati! oh in volti
umani
Tigri! col ferro rimovean
l'amplesso,
E fean le membra tenerelle a brani.
190 Non era il grido ed il sospir
concesso;
Era delitto il lagrimar, delitto
Un detto, un guardo ed il silenzio istesso.
Morte gridava irrevocando editto.
La coronata e la
mitrata stizza
195 L'avean col sangue d'innocenti scritto.
Intanto a mille eroi l'anima
schizza
Dal gorgozzule oppresso, e
brancolando
Il tronco informe su l'arena guizza.
Anelando, fremendo, mugolando
200 Gli spirti uscien da' straziati
tronchi,
Non il lor danno, ma il comun plorando.
Ivi sorgean due smisurati tronchi,
Cui l'adunato sangue era lavacro,
E d'intorno eran membri e capi cionchi.
205 Quinci era il tronco infame a
morte sacro,
Irto e spumoso di sanguigna gruma,
Quindi stava di Cristo il simulacro;
E il percotea la fluttuante
schiuma,
Che fea del sangue e de la tabe il
lago,
210 Che ferve e bolle e orrendamente fuma.
Fiero portento allor si vide, un
vago
Spettro spinto da voglia empia ed
infame
Lieto aggirarsi intorno al tristo brago.
Avidamente pria fiutò il carname,
215 E rallegrossi, e poi con un
sogghigno
Guatò de' semivivi il bulicame.
Quindi il muso tuffò smilzo ed
arcigno,
E il diguazzò per entro a la
fiumana,
E il labbro si lambì gonfio e sanguigno.
220 Come rabido lupo si distana,
Se a le nari gli vien di sangue
puzza,
E ringhia e arrota la digiuna scana,
E guata intorno sospicando, e
aguzza
Gli orecchi e ognor s'arretra in su
i vestigi,
225 Così colei, che di sua salma appuzza
Le viscere cruente di Parigi,
Rigurgitando velenosa bava,
La barbara consorte di Luigi,
Venia gridando: Insana ciurma e
prava,
230 Che noi di crudi e di Tiranni incolpe,
E al regno agogni, nata ad esser schiava,
Godi or tuoi dritti, e de le nostre
colpe
Il fio tu paga, e sì dicendo morse
Le membra, e rosicchiò l'ossa e le polpe.
235 Indi da l'atro desco il grifo
torse
Gonfia di sangue già, ma non
satolla,
Quando novo spettacolo si scorse.
Venia uno stuolo di Leviti, colla
Faccia di rabbia e di furor
bollente,
240 E inzuppata di sangue la cocolla.
Ciascun reca una coppa, e
d'innocente
Sangue l'empiero, e le posar su
l'ara.
E lo vide e 'l soffrì l'Onnipossente!
E disser: Bevi, e fean quegli empj
a gara.
245 Danzava intorno oscenamente Erinni,
E scoteva la cappa e la tiara.
E i profani s'udian rochi tintinni
De' bronzi, e l'aria, con le negre
penne,
Gl'infernali scotean diabolic'inni.
250 Bramata alfine ed aspettata
venne
A me la morte, ed il supremo sfogo
Compì su la mia spoglia la bipenne.
Allora scossi l'abborrito giogo,
E, l'ali aprendo a la seconda vita,
255 Rinacqui alfin, come fenice in rogo.
Ed ancor tace il mondo? ed impunita
È la Tigre inumana, anzi felice,
E temuta dal mondo e riverita?
Deh! vomiti l'accesa Etna [[14]] l'ultrice
260 Fiamma, che la città fetente copra,
E la penetri fino a la radice.
Ma no: sol pera il delinquente,
sopra
Lei cada il divo sdegno e sui
diademi,
Autori infami de l'orribil'opra.
265 E fin da lunge ne' recessi
estremi,
Ove s'appiatta, e ne' covigli
occulti
L'oda l'empia Tiranna, odalo e tremi.
E disperata mora, e ai suoi
singulti
Non sia che cor s'intenerisca e
pieghi,
270 E agli strazj perdoni ed a gli insulti,
O dal Ciel pace a l'empia spoglia
preghi;
Ma l'universo al suo morir tripudi,
E poca polve a l'ossa infami neghi.
E l'alma dentro a le negre paludi
275 Piombi, e sien rabbia assenzio e
fel sua dape,
E tutto Inferno a tormentarla sudi,
Se pur tanta nequizia entro vi
cape.
Tacque ciò detto, e su l'enfiate
labbia
Gorgogliava un suon muto di
vendetta,
Un fremer sordo d'intestina rabbia.
E le affollate intorno ombre,
“vendetta”
5 Gridar, “vendetta”, e la commossa
riva
Inorridita replicò “vendetta”.
I torbid'occhi il crino a lui
copriva;
Fascio parea di vepri o di gramigna,
Onde un'atra erompea luce furtiva;
10 Come veggiamo il sol, se una
sanguigna
Nugola il raggio ne rinfrange,
obbliqua
Vibrar l'incerta luce e ferrugigna.
Ahi di Tiranni ria semenza iniqua,
De gli uomini nimica e di natura,
15 Or hai pur spenta l'empia sete antiqua!
Gonfia di sangue la corrente e
impura
Portò l'umil Sebeto, e de la cruda
Novella Tebe flagellò le mura.
Tigre inumana di pietate ignuda,
20 Tu sopravvivi a' tuoi delitti? un
Bruto
Dov'è? chi 'l ferro a trucidarti snuda?
Questi sensi io volgea per entro al
muto
Pensier, che tutto in quell'orror
s'affisse,
Allor che venne al mio veder veduto
25 D'Insubria il Genio, che le
luci fisse
In me tenendo, armoniosa e scorta
Voce disciolse, e scintillando disse:
Mortal, quello che udrai là giuso
porta.
Deh! gli alti
detti a la mal ferma e stanca
30 Mente richiama, o Musa, e mi sia scorta.
Tu la cadente poesia rinfranca,
Tu la rivesti d'armonia beata,
E tu sostieni la virtù, che manca;
Tu l'ali al pensier presta, o Diva
nata
35 Di Mnemosine, e fa' che del mio
plettro
Esca la voce ai colti orecchi grata,
E spargi i detti miei d'eterno
elettro.
Già, proseguiva, del real potere
Sei sciolta, Insubria, e infranto hai l'empio scettro.
40 Ché gli ubertosi colli e le
riviere,
Ove Natura a se medesma piace,
No, che non son per le Tedesche fiere.
Pace altra volta tu le desti, pace,
O Tiranno,
giurasti, e udir le genti
45 Il real giuro, e lo credean verace.
Ma di Tiranno fede i sacramenti
Frange e calpesta, e la legge de'
troni
Son gl'inganni, i spergiuri, i tradimenti.
Venne in fin dai settemplici
trioni,
50 Da te chiamato, e da le fredde rupi
Un torrente di bruti e di ladroni.
Come in aperto ovile iberni lupi,
Tal su l'Insubria si gittar quegli
empi,
Di sangue ghiotti, di rapine e strupi.
55 Fino i sacri vestibuli di
scempi
Macchiaro e d'adulteri. Oh quali
etati
Fur mai feconde di siffatti esempi?
Ma non fur quegli insulti
invendicati,
Né il vizio
trionfò: l'infame tresca
60 Franse il ferro e 'l valor: gli addormentati
Spirti destarsi alfin, e la Tedesca
Rabbia fu doma, e le fiaccò le corna
La virtù Cisalpina e la Francesca.
Torna, arrogante a questi lidi,
torna;
65 Qui roco ancor di morte il telo
romba,
Qui la tua morte appiattata soggiorna.
Qui il cavo suol de' sepolcri
rimbomba
De la tua pube, che ancor par che
gema:
Vieni in Italia, e troverai la tomba.
70 Altra volta scendesti avido,
e scema
Ti fu l'audacia temeraria e sciocca:
Rammenta i campi di Marengo, e trema.
Ché la fatal misura ancor trabocca;
Non affrettar de la vendetta il die,
75 Il dì che impaziente è su la cocca.
Pace avesti pur anco, e questa fie
La novissima volta; in l'alemanno
Confin le tigri tue frena e le arpie.
Ma tu, misera Insubria, d'un
Tiranno
80 Scotesti il giogo, ma t'opprimon
mille.
Ahi che d'uno passasti in altro affanno!
Gentili masnadieri in le tue ville
Succedettero ai fieri, e a genti
estrane
Son le tue voglie e le tue forze ancille.
85 Langue il popol per fame, e
grida: “pane”;
E in gozzoviglia stansi e in
esultanza
Le Frini e i Duci, turba, che di vane
Larve di fasto gonfia e di
burbanza,
Spregia il volgo, onde nacque, e a
cui comanda,
90 A piena bocca sclamando: Eguaglianza;
Il volgo, che i delitti e la
nefanda
Vita vedendo, le prime catene
Sospira, e 'l suo Tiranno al ciel domanda.
De l'inope e del ricco entro le
vene
95 Succian l'adipe e 'l sangue, onde
Parigi
Tanto s'ingrassa, e le midolle ha piene.
E i tuoi figli? I tuoi figli
abbietti e ligi
Strisciangli intorno in atto umile e
chino.
E tal di risse amante e di litigi
100 D'invido morso addenta il suo
vicino,
Contra il nemico timido e vigliacco,
Ma coraggioso incontro al cittadino.
Tal ne' vizj s'avvolge, come ciacco
Nel lordo loto
fa; soldato esperto
105 Ne' conflitti di Venere e di Bacco.
E tal di mirto al vergognoso serto
Il lauro sanguinoso aggiunger vuole,
Ricco d'audacia, e povero di merto.
Tal pasce il volgo di sonanti fole:
110 Vile! e di patrio amor par tutto
accenso,
E liberal non è che di parole.
E questi studio d'allargare il
censo
Avito rode, e quel tal altro brama
Di farsi ricco di tesoro immenso.
115 Senti costui, che “morte,
morte” esclama,
E le vie scorre, furibonda Erinni,
Di sangue ingordo, e dove può si sfama.
Vedi quei, che sua gloria nei
concinni
Capei ripone. Oh
generosi Spirti
120 Degni del giogo estranio e de' cachinni!
Odimi, Insubria. I dormigliosi
spirti
Risveglia alfine, e da l'olente
chioma
Getta sdegnosa gli Acidalj mirti.
Ve' come t'hanno sottomessa e doma,
125 Prima il Tedesco e Roman giogo, e
poi
La Tirannia, che Libertà si noma.
Mira le membra illividite e i tuoi
Antichi lacci; l'armi, l'armi
appresta,
Sorgi, ed emula in campo i Franchi Eroi.
E a l'elmo antico la dimessa cresta
130 Rimetti, e accendi i neghittosi
cori,
E stringi l'asta ai regnator funesta;
Come destrier, che fra l'erbette e
i fiori,
Placido, in diuturno ozio recuba,
135 Sol meditando vergognosi amori,
Scote nitrendo la nitente giuba,
Se il torpido a ferirlo orecchio
giugne
Cupo clangor di bellicosa tuba,
E stimol fiero di gloria lo pugne,
140 Drizza il capo, e l'orecchio al
suono inchina,
E l'indegno terren scalpe con l'ugne.
Contra i Tiranni sol la cittadina
Rabbia rivolgi, e tienti in mente
fiso,
Che fosti serva, ed or sarai reina.
145 Disse e tacque, raggiandomi
d'un riso,
Che del mio spirto superò la forza,
Così ch'io ne restai vinto e conquiso.
Mi scossi, e la rapita anima a
forza,
Come chi tenta fuggire e non puote,
150 Cacciata fu ne la mortale scorza.
Io restai come quel che si riscote
Da mirabile sogno, che pon mente
Se dorme o veglia, e tien le ciglia immote.
O Pieride Dea, che 'l foco ardente
155 Ispirasti al mio petto, e i
sempiterni
Vanni ponesti a la gagliarda mente,
Tu, Dea, gl'ingegni e i cor reggi e
governi,
E i nomi incidi nel Pierio legno,
Che non soggiace al variar de' verni.
160 Tu l'ali impenni al Ferrarese
ingegno,
Tu co' suoi divi carmi il vizio
fiedi,
E volgi l'alme a glorioso segno.
Salve, o Cigno divin, che acuti
spiedi
Fai de' tuoi
carmi, e trapassando pungi
165 La vil ciurmaglia, che ti striscia ai piedi.
Tu il gran Cantor di Beatrice
aggiungi,
E l'avanzi talor; d'invidia piene
Ti rimiran le felle alme da lungi,
Che non bagnar le labbia in
Ippocrene,
170 Ma le tuffar ne le Stinfalie fogne,
Onde tal puzzo da' lor carmi viene.
Oh limacciosi vermi! Oh rie
vergogne
De
l'arte sacra! Augei
palustri e bassi;
Cigni non già, ma Corvi da carogne.
175 Ma tu l'invida turba addietro
lassi,
E le robuste penne ergendo, come
Aquila altera, li compiangi, e passi.
Invano atro velen sovra il tuo nome
Sparge l'invidia, al proprio danno
industre,
180 Da le inquiete sibilanti chiome.
Ed io puranco, ed io, Vate trilustre,
Io ti seguo da lunge, e il tuo gran
lume
A me fo scorta ne l'arringo illustre.
E te veggendo su l'erto cacume
185 Ascender di Parnaso alma spedita,
Già sento al volo mio crescer le piume.
Forse, oh che spero! io la seconda
vita
Vivrò, se a le mie forze inferme e
frali
Le nove Suore porgeranno aita.
190 Ma dove mi trasporti, estro?
mortali
Son le mie penne, e periglioso il
volo,
Alta e sublime è la caduta; l'ali
Però raccogli, e riposiamci al
suolo [[15]].
XX
POEMETTO
[1809]
Su le populee rive e sul bel piano
Da le insubri cavalle esercitato,
Ove di selva
coronate attolle
La mia città le
favolose mura,
5 Prego, suoni
quest'Inno: e se pur degna
Penne comporgli
di più largo volo
La nostra Musa, o
sacri colli, o d'Arno
Sposa gentil, che
a te gradito ei vegna
Chieggo a le
Grazie. Ché dai passi primi
10 Nel terrestre
viaggio, ove il desio
Crudel compagno è
de la via, profondo
Mi sollecita amor
che Italia un giorno
Me de' suoi vati
al drappel sacro aggiunga,
Italia, ospizio
de le Muse antico.
15 Né fuggitive dai
laureti achei
Altrove il seggio
de l'eterno esiglio
Poser le Dive; e
quando a la latina
Donna si feo
l'invendicato oltraggio,
Dal barbaro
ululato impaurite
20 Tacquero, è ver, ma
l'infelice amica
Mai non lasciar;
ché ad alte cose al fine
L'itala Poesia,
bella, aspettata,
Mirabil virgo, da
le turpi emerse
Unniche nozze. E
tu le bende e il manto
25 Primo le desti, e
ad illibate fonti
La conducesti; e
ne le danze sacre
Tu le insegnasti
ad emular la madre,
Tu de l'ira
maestro e del sorriso,
Divo Alighier, le
fosti. In lunga notte
30 Giaceva il mondo, e
tu splendevi solo,
Tu nostro: e
tale, allor che il guardo primo
Su la vedova
terra il sole invia,
Nol sa la valle
ancora e la cortese
Vital pioggia di
luce ancor non beve,
35 E già dorata il
monte erge la cima.
A queste alme
d'Italia abitatrici
Di lodi un serto
in pria non colte or tesso;
Ché vil fra 'l
volgo odo vagar parola
Che le Dive
sorelle osa insultando
40 Interrogar che
valga a l'infelice
Mortal del canto
il dono. Onde una brama
In cor mi sorge
di cantar gli antichi
Beneficj che
prodighe a l'ingrato
Recar le Muse.
Urania al suo diletto
45 Pindaro li cantò.
Perché di tanto
Degnò la Dea
l'alto poeta e come,
Dirò da prima;
indi i celesti accenti
Ricorderò, se
amica ella m'ispira.
Fama è che a lui
ne la vocal tenzone
50 Rapisse il lauro la
minor Corinna
Misero! e non
sapea di quanto dio
L'ira il premea;
ché a la famosa Delfo
Venendo, i poggi
d'Elicona e il fonte
Del bel Permesso
ei salutando ascese;
55 Ma d'Orcomene, ove
le Grazie han culto,
Il cammin sacro
omise. Il dévio passo
Vider da lunge e
il non curar superbo
Del fatal
giovanetto le Immortali,
E promiser
vendetta. Al meditato
60 Inno di lode
liberato il volo
Pindaro avea, quando
le belle irate,
Aerie forme a
mortal guardo mute,
Venner seconde di
Corinna al fianco.
Aglaja in pria su
la virginea gota
65 Sparse un fulgor di
rosea luce, e un mite
Raggio di gioja
le diffuse in fronte:
Ma la fragranza
de' castalj fiori
Che fanno l'opra
de l'ingegno eterna,
Eufrosine le
diede; e tu pur anco,
70 Dolce qual tibia di
notturno amante,
Lene Talia, le
modulasti il canto.
Di tanti doni
avventurata in mezzo
Corinna assurse:
il portamento e il volto
Stupia la turba,
e il dubitar leggiadro
75 E il bel rossor con
che tremando al seno
Posò la cetra; e,
sotto la palpebra
Mezza velando la
pupilla bruna,
Soave incominciò.
Volava intorno
La divina armonia
che, con le molli
80 Ale i cupidi
orecchi accarezzando,
Compungea
gl'intelletti, e di giocondo
Brivido i cori
percotea. Rapito
L'emulo anch'ei,
non alito, non ciglio
Movea, né pria
de' sensi ebbe ripresa
85 La signoria, che
verdeggiar la fronda
Invidiata vide in
su le nere
Trecce di lei,
che fra il romor del plauso
Chinò la bella
gota ove salia
Del gaudio mista
e del pudor la fiamma.
90 Di dolor punto e di
vergogna, al volgo
L'egregio vinto
si sottrasse, e solo
Sul verde clivo,
onde l'aeria fronte
Spinge il
Parnaso, s'avviò. Dolente
Errar da l'alto
Licoreo lo scòrse
95 Urania Dea, cui fu
diletto il fato
Del giovanetto, e
di blandir sua cura
Nel pio voler
propose. È nei riposti
Del sacro monte
avvolgimenti un bosco
Romito, opaco,
ove talor le Muse,
100 Sotto il tremolo
rezzo esercitando
L'ambrosio piè,
ringioviniscon l'erbe
Da mortal orma
non offese ancora.
A l'entrar de la
selva, e sovra il lembo
Del vel che la
tacente ombra distende,
105 Balza l'Estro
animoso, e de le accese
Menti il Diletto,
e, ne la palma alzata
Dimettendo la
fronte, il Pensamento
Sta col Silenzio,
che per man lo tiene.
Bella figlia del
Tempo e di Minerva
110 V'è la Gloria,
sospir di mille amanti:
Vede la schiva i
mille, e ad un sorride.
Ivi il trasse la
Diva. A l'appressarsi,
De l'aura sacra a
l'aspirar, di lieto
Orror compreso in
ogni vena il sangue
115 Sentia l'eletto, ed
una fiamma leve
Lambir la fronte
ed occupar l'ingegno.
Poi che ne l'alto
de la selva il pose
Non conscio
passo, abbandonò l'altezza
Del solitario
trono, e nel segreto
120 Asilo Urania il
prode alunno aggiunse.
Come tal volta ad
uom rassembra in sogno,
Su lunga scala o
per dirupo, lieve
Scorrer col piè
non alternato a l'imo,
Né mai grado
calcar né offender sasso;
125 Tal su gli aerei
gioghi sorvolando,
Discendea la
celeste. Indi la fronte
Spoglia di raggi,
e d'ale il tergo, e vela
D'umana forma il
dio; Mirtide fassi,
Mirtide già de'
carmi e de la lira
130 A Pindaro maestra; e
tal repente
A lui s'offerse.
Ei di rossor dipinto,
A che, disse, ne
vieni? a mirar forse
Il mio rossore? o
madre, oh! perché tanta
Speme d'onor mi
lusingasti in vano?
135 Come la madre al
fantolin caduto,
Mentre lieto al
suo piè movea tumulto,
Che guata
impaurito, e già sul ciglio
Turgida appar la
lagrimetta, ed ella
Nel suo trepido
cor contiene il grido,
140 E blandamente gli
sorride in volto
Perch'ei non
pianga; un tal divino riso,
Con questi detti,
a lui la Musa aperse:
A confortarti io
vegno. Onde sì ratto
“L'anima tua è da
viltate offesa”?
145 Non senza il nume de
le Muse, o figlio,
Di te tant'alto
io promettea. Deh! come,
Pindaro
rispondea, cura dei vati
Aver le Muse io
crederò? Se culto
Placabil mai de
gl'Immortali alcuno
150 Rendesse a l'uom,
chi mai d'ostie e di lodi,
Chi più di me di
preci e di cor puro
Venerò le Camene?
Or se del mio
Dolor ti duoli,
proseguia, deh! vogli
L'egro mio spirto
consolar col canto.
155 Tacque il labro, ma
il volto ancor pregava,
Qual d'uom che
d'udire arda, e fra sé tema
Di far parlando a
la risposta indugio.
Allor su l'erba
s'adagiaro: il plettro
Urania prese, e
gli accordò quest'Inno
160 Che in minor suono
il canto mio ripete.
―― Fra le tazze d'ambrosia imporporate,
Concittadine degli Eterni e gioja
De' paterni
conviti eran le Muse
Ne' palagi
d'Olimpo, e le terrene
165 Valli non use a
visitar; ma primo,
Scola e conforto
de la vita, in terra
Di Giove il cenno
le inviò. Vedea
Giove da l'alto
serpeggiar già folta
La vaga mortale
orma, e sotto il pondo
170 Di tutti i mali
andar curvata e cieca
L'umana stirpe:
del rapito foco
Piena gli parve
la vendetta; e a l'ira
Spuntate avea
l'acri saette il tempo.
Alfin più mite ne
l'eterno senno
175 Consiglio il Padre
accolse, ed, Assai, disse,
E troppo omai le
Dire empio governo
Fer de la terra;
assai ne' petti umani
Commiser d'odj, e
volser prone al peggio
Le mortali
sentenze. Di felici
180 Genj una schiera al
Dio facea corona,
Inclita schiera
di Virtù (ché tale
Suona qua giù lor
nome). A questi in pria
Scorrer la terra
e perseguir le crude
De l'uom nemiche
ed a più miti voglie
185 Ricondur l'infelice,
impose il Dio.
Al basso mondo
ove la luce alterna,
Sceser gli spirti
obbedienti, e tutto
Ricercarlo, ma in
van; ché non levossi
A tanto raggio
de' mortali il guardo;
190 E di Giove il voler
non s'adempìa.
Però baldanza a
quel voler non tolse
Difficoltà che a
l'impotente è freno,
Stimolo al forte;
essa al pensier di Giove
Novo propose esperimento. Al desco
195 Del Tonante le Muse
una concorde
Movean d'inni
esultanza; inebriate
Tacean le menti
de gli Dei; fe' cenno
Ei la destra
librando; e la crescente
Del volubile
canto onda ristette
200 Improvviso. Raggiò
pacato il guardo
A le Vergini il
Padre; e questo ad elle
D'amor temprato
fe' volar comando,
Figlie, a
bell'opra il mio voler ministre
Elegge or voi.
Non conosciute ancora
205 Errar vedete le
Virtù fra i ciechi
Figli di Pirra:
d'amor santo indarno
Arder tentaro i
duri petti, e vinte
Farsi de l'ardue
menti aprir le porte:
La forza sol de
l'arti vostre il puote:
210 Là giù dunque
movete: a voi seguaci
Vengan le Grazie;
e senza voi men bella
Già la mia reggia
il tornar vostro attende.
Tacque a tanto il
Saturnio; e su gli estremi
Detti, dal ciglio
e da le labra rise
215 Blandamente. Al
divino atto commossa
Balzò l'eterea
vetta, e d'improvviso
Di tutta luce
biondeggiò l'Olimpo.
Nel primo aspetto
de la terra intanto
Il lungo duol de
le Virtù neglette
220 Vider le Muse: ma di
lor la prima
Chi fu che volse
le propizie cure
I bei precetti ad
avverar del Padre?
Calliope fu che
fra i mortali accorta
Orfeo trascelse;
e sì l'amò che il nome
225 A lui di figlio non
negò. Vicina
A l'orecchio di
lui, ma non veduta,
Stette la Diva, e
de l'alunno al core
Sciolse la bella
voce onde si noma.
Il bel consiglio
di Calliope tutte
230 Imitar le sorelle; e
d'un eletto
Mortal maestra al par fatta ciascuna,
L'alme col canto
ivan tentando, e l'ira
Vincea quel canto
de le ferree menti.
Così dal sangue e
dal ferino istinto
235 Tolser quei pochi in
prima; indi lo sguardo
Di lor, che a
terra ancor tenea il costume
Che del passato
l'avvenir fa servo,
Levar di nova
forza avvalorato.
E quei gli occhi
giraro, e vider tutta
240 La compagnia de gli
stranier divini,
Che a le Dire fea
guerra. Ove furente
Imperversar la
Crudeltà solea,
Orribil mostro
che ferisce e ride,
Vider Pietà che,
mollemente intorno
245 Ai cor fremendo, dei
veduti mali
Dolor chiedea;
Pietà, de gl'infelici
Sorriso, amabil
Dea. Feroce e stolta
Con alta fronte
passeggiar l'Offesa
Vider, gl'ingegni
provocando, e mite
250 Ovunque un Genio a
quella Furia opporsi,
Lo spontaneo
Perdon che con la destra
Cancella il torto
e nella manca reca
Il beneficio, e
l'uno e l'altro obblia.
Blando a la Dira
ei s'offeria: seguace
255 Lenta ma certa,
l'orme sue ricalca
Nemesi, e quando
inesaudito il vede,
Non fa motto, ed
aspetta. Un giorno al fine
Ne gl'iterati
giri, orba dinanzi
Le vien l'Offesa:
al tacit' arco impone
260 Nemesi allor l'amata
pena; aggiunge
L'aerea punta
impreveduta il fianco,
E l'empio corso
allenta. Inonorata
La Fatica mirar,
che gli ermi intorno
Campi invano
additava, a cui per anco
265 Non chiedea de la
messe il pigro ferro
Gli aurei doni
dovuti: a lei compagno
L'Onor si fea; se
forse a la sua luce
Più cara a
l'occhio del mortal venisse
L'utile Dea.
Vider la Fede, immota
270 Servatrice dei
giuri, e l'arridente
Ospital Genio che
gl'ignoti astringe
Di fraterna
catena; e tutta in fine
La schiera dia ne
l'opra affaticarsi.
Videro, e novo di
pietà, d'amore
275 Ne gli attoniti
surse animi un senso,
Che infiammando
occupolli. E già de' lieti
Principj in cor
secure, il plettro e l'arte
Sacra del plettro
ai figli lor le Muse
Donar, le Grazie
il dilettar donaro
280 E il suader potente.
Essi a la turba
Dei vaganti
fratelli ivan cantando
Le vedute
bellezze. Al suon che primo
Si sparse a
l'aura, dispogliò l'antico
Squallor la
terra, e rise: e tu qual fosti,
285 Che provasti, o
mortal, quando sul core
La prima stilla
d'armonia ti scese?
Quale a l'ara de'
Numi allor che il sacro
Tripode ferve, e
tremolando rosse
Su le brage stridenti
erran le fiamme,
290 Se la man pia del
sacerdote in esse
Versi copia
d'incenso, ecco di bruno
Pallor vestirsi
il foco, e dal placato
Ardor repente un
vortice s'innalza
Tacito, e tutto
d'odorata nebbia
295 Turba l'etere
intorno e lo ricrea;
Tal su i cori
cadea rorido, e l'ira
V'ammorzava quel
canto, e dolce, in vece,
Di carità, di
pace vi destava
Ignota brama. A
l'uom così le prime
300 Virtù fur conosciute
onde beata,
Quanto ad uom
lice, e riposata e bella
Fassi la vita.
Allor in cor portando
Il piacer de
l'evento, e la divina
Giocondità del
beneficio in fronte,
305 A l'auree torri de
l'Olimpo il volo
Rialzar le
Camene. Ivi le prove
De l'alma impresa
e le fatiche e il fine
Dissero al Padre;
e pieno, in ascoltarle,
Da la bocca di
lui scorrea quel dolce
310 Canto a l'orecchio
dei miglior, la lode.
Ma stagion lunga
ancor volta non era,
Che ne le Nove
ritornate un caro
De la terra desio
nacque; ché ameno
Oltre ogni loco a
rivedersi è quello
315 Che un gentil fatto
ti rimembri: e questa
Elesser sede che
secreta intorno
Religion
circonda, e, l'arti antiche
Esercitando
ancor, l'aura divina
Spirano a pochi
in fra i viventi, e dànno
320 Colpir le menti
d'immortal parola.
E te dal nascer
tuo benigna in cura
Ebbe, o Pindaro,
Urania. E s'oggi, o figlio,
Tanto amor non ti
valse, ell'è d'un Nume
Vendetta:
incauto, che a le Grazie il culto
325 Negasti, a l'alme
del favor ministre
Dee, senza cui né
gl'Immortai son usi
Mover mai danza o
moderar convito.
Da lor sol vien se
cosa in fra i mortali
È di gentile, e
sol qua giù nel canto
330 Vivrà che lingua dal
pensier profondo
Con la fortuna de
le Grazie attinga;
Queste implora
coi voti, ed al perdono
Facili or piega.
E la rapita lode
Più non ti dolga.
A giovin quercia accanto
335 Talor felce
orgogliosa il suolo usurpa,
E cresce in
selva, e il gentil ramo eccede
Col breve onor de
le digiune frondi:
Ed ecco il verno
la dissipa; e intanto
Tacitamente il
solitario arbusto
340 Gran parte abbranca
di terreno, e, mille
Rami nutrendo nel
felice tronco,
Al grato
pellegrin l'ombra prepara.
Signor così de
gl'inni eterni, un giorno,
Solo in Olimpia
regnerai: compagna
345 Questa lira al tuo
canto, a te sovente
Il tuo destino e l'amor mio rimembri. ―
Tacque, e porse la cetra: indi rivolta,
Candida luce la
ricinse: aperte
Le azzurre penne
s'agitar sul tergo,
350 Mentre nel folto de
la selva al guardo
Del suo Poeta
s'involò. La Diva
Ei riconobbe, e
di terror, di lieta
Maraviglia
compunto, il prezioso
Dono tenea: ne
l'infiammata fronte
355 Fremean d'Urania le
parole e l'alta
Promessa e il
fato: e la commossa corda,
Memore ancor del
pollice divino,
Con lungo
mormorar gli rispondea.
XXI
Frammenti di LE VISIONI POETICHE
[1809-1810]
In quella età che, di veder
bramoso,
Ancor l'ingegno a le cagioni è cieco,
Ascoso un Genio,
anco a me stesso ascoso,
Disse improvviso
al mio pensier: Son teco.
5 Ei le cose mi
mostra che animoso
Primier, siccome
io valgo, in luce io reco;
Sicché da lui le
tenga ogni cortese
Cui non incresca
de l'averle intese.
Qual compagno
s'avesse a la sua via
10 Infin d'allora il
giovinetto acerbo,
Tal savio il
vide, e a lui ne presagia
Cose che or fora
il rammentar superbo;
Ben di poche
memorie in compagnia
Ne la custodia
del mio cor le serbo;
15 Dubbio le serbo al
paragon sincero
Del Tempo, certo
testimon del vero.
Questo Genio talor
de la mia mente
I freni
abbandonati in man si piglia,
E volge ove a lui
piaccia obbediente
20 Tutta l'alata dei
pensier famiglia;
Tal che dal petto
interno odo sovente
Una voce, che
irata mi consiglia,
Che almen fra
tanti il primo mio concetto
Torni al Fonte
Divin d'ogni intelletto.
25 Ei fra
le piante, ove più spesso io sono
Di campi lodator
non cittadino,
A visitarmi
appare, e porta in dono
Le visioni ed il
furor divino;
Ben talor fra le
cure ed il frastuono
30 De la cittade a me
vien pellegrino:
Dissimulando io
nel mio cor l'accolgo:
L'alta presenza
sua non sente il volgo.
Ma nel mistico
punto allor che l'alma
Dai pigri nodi
del sopor si scote,
35 Che sol di sé
s'accorge, e lieve in calma,
Il soffio de la
vita la percote;
Né giunta a
soverchiarla ancor la salma
È de le cure e de
le voglie note,
Sì che il pensier
disprigionato e solo
40 Batte per aria più
celeste il volo;
Sempre in
quell'ora il veggio, e risplendenti
Schiere ha con sè
d'aerei simolacri;
Quai muovon per
lo spazio i passi lenti,
E quai festivi ed
in lor luce alacri;
45 E fan motti fra
loro e parlamenti
Misteriosi, e
balli ordiscon sacri:
Il Genio li
governa; io stommi e guato
In tanta pompa di
veder beato.
Ma se le viste cose a narrar prendo,
50 Gran parte la
memoria m'abbandona,
Ché, i terrestri
pensier sopravvegnendo,
Al primo tocco di
leggier s'adona;
E quel pur, che a
fatica in carte io stendo,
Del concetto
minor troppo mi suona,
55 Ch'io sento come il
più divin s'invola,
Né può il giogo
patir de la parola.
Lui che di tanto
il guardo mio fe' degno
Io prego or che
anco al dir siemi in aiuto,
Perch' egli è
sacro e fuor del mortal regno
60 E troppo oltre il
narrar quel che ho veduto.
Ei regga l'ali
mie; da lui l'ingegno
Ne l'alta region
sia sostenuto
Tanto che per la
via novella e lunga
L'alto argomento
del mio canto aggiunga.
65 L'alto
argomento del mio canto io dico,
Ben
che tal volgo il chiamerà volgare
.
. . .
. . .
. . .
. . . .
Sonò dentro a un lume che lì era
Tai, che mi vinse, e guardar nol potei.
Disse con grande forza Dante.
[[4]] E se morire è forza. Il ripetere tre volte la stessa parola in fine del verso fu già usato dall'Ariosto. Dante l'adoperò colla parola Cristo e il suo grande emulatore l'usò tre volte certamente; una volta con la parola perdona nella Bassvilliana, un'altra colla parola spada in un Capitolo d'Emenda, e finalmente colla parola pare nel secondo Canto della Mascheroniana.
[[6]] La Dea mirolle, e rise un cotal riso.
Non vorrei che alcuno trovasse troppo ardita questa espressione. Un gran
Poeta de' nostri tempi non si fece scrupolo di dire: E in quel
sospetto sospettò... selva selvaggia... Delle tre parti in che si parte il
giorno. Il grande Alighieri si lasciò sfuggire, non so se a caso o per
vezzo nel Purgatorio:
Ch'a farsi quelle per le vene vane.
E:
Che s'imbestiò nelle 'mbestiate schegge.
E nel Paradiso:
...perché
fur negletti
Li nostri voti, e voti in alcun canto.
E:
Nel modo, che 'I seguente Canto canta.
[[8]] Fe' la vendetta del superbo strupo.
Verso usato da Dante in tutt'altro significato:
Vuolsi nell’alto, là dove Michele
Fe' la vendetta del superbo strupo.
[[9]] E maritolla ai suoi nefandi Drudi.
Io protesto, che qui e dovunque parlo degli abusi. Diffatti ognun vede che qui non si toccan principj di sorte alcuna. Altronde il Vangelo istima la mansuetudine, il dispregio delle ricchezze e del comando, cose tutte, che diametralmente s'oppongono a que' principj, ai quali per conseguenza diametralmente s’opposero e s'oppongono coloro che qui sono descritti. Quindi a coloro, che vedendosi puniti, o a cui vantaggiosi essendo questi abusi, volessero al volgo e alle persone dabbene...
Su la fronte, su gli occhi e su la bocca.
Maravigliosamente espresse questo effetto il Petrarca in quella terzina:
Come chi smisuratamente vole,
Ch'ha scritto innanzi che a parlar cominci,
Ne gli occhi, e nella (sic) fronte le parole.
[[12]] E 'l dolce lume ancor per gli occhi sugge?
Non fiere gli occhi suoi lo dolce lome?
disse Dante.
[[13]] In quale arena mai etc. Leggasi l'energico, e veramente Vesuviano Rapporto fatto da Francesco Lomonaco, Patriotta Napoletano.
[[14]] Deh vomiti l'accesa Etna etc.
Questo sentimento fu già adoperato dal celebre Vincenzo Monti nell'Inno per la caduta dell'ultimo Tiranno di Francia, laddove dice:
Versa, o monte, dall'arsa tua gola
Tuoni e fiamme, onde l'empio punir.
[[15]] Questi versi scriveva io Alessandro Manzoni nell'anno quindicesimo dell'età mia, non senza compiacenza, e presunzione di nome di Poeta, i quali ora con miglior consiglio, e forse con più fine occhio rileggendo, rifiuto; ma veggendo non menzogna, non laude vile, non cosa di me indegna esservi alcuna, i sentimenti riconosco per miei; i primi come follia di giovanile ingegno, i secondi come dote di puro e virile animo.