POEMETTI

Alessandro Manzoni (1801-1810)

 

XIX

DEL TRIONFO DELLA LIBERTÀ

[1801]

 

CANTO PRIMO

 

                        Coronata di rose e di viole

            Scendea di Giano a rinserrar le porte

            La bella Pace pel cammin del sole,

                        E le spade stringea d'aspre ritorte,

5          E cancellava con l'orme divine

            I luridi vestigi de la morte;

                        E la canizie de le pigre brine

            Scotean dal dorso, e de le verdi chiome

            Si rivestian le valli e le colline;

10                    Quand'io fui tratto in parte, io non so come,

            Io non so con qual possa o con quai piume,

            Quasi sgravato da le terree some.

                        E mi ferì le luci un vivo lume [[1]],

            Ove non potea l'occhio essere inteso,

15        E vinto fu del mio veder l'acume,

                        Com'uom che da profondo sonno è preso,

            Se una vivida luce lo percote,

            Onde subitamente è l'occhio offeso,

                        Le confuse palpebre agita e scote,

20        Né può serrarle, né fissarle in lei,

            Che sua virtute sostener non puote;

                        Così vinti cadevan gli occhi miei,

            Ma il Ciel forze lor diè più che mortali,

            Da sostener la vista de gli Dei.

25                    Non cred'io già che fosser questi frali

            Occhi deboli e corti e spesso infidi,

            Cui non lice fissar cose immortali.

                        Forse fu, s'egli è ver che in noi s'annidi,

            Parte miglior che de le membra è donna;

30        Onde come io non so, so ben ch'io vidi.

                        Vidi una Dea; nulla era in lei di donna,

            Non era l'andar suo cosa mortale [[2]],

            Né mai fu tale che vestisse gonna.

                        Di portamento altera [[3]], e quanta e quale

35        Su gli astri incede quella al maggior Dio

            Del talamo consorte e del natale.

                        Nobile, umano, maestoso e pio

            Era lo sguardo, e l'armonia celeste

            Comprenderla non può chi non l'udio.

40                    Sovra l'uso mortal fulgida veste

            Copre le sante immacolate membra,

            E svela in parte le fattezze oneste.

                        Tessuta è in Paradiso, e un velo sembra;

            Ma a tanto già non giunge uman lavoro;

45        Oh con quanto stupor me ne rimembra!

                        Siede su cocchio di finissim'oro

            Umilemente altera, ed il decenne

            Berretto il crine affrena, aureo decoro.

                        Stringe la manca la fatal bipenne,

50        E l'altra il brando scotitor de' troni,

            Onde a cotanta altezza e poter venne

                        La gran madre de' Fabj e de' Scipioni;

            Sotto cui vide i Regi incatenati

            Curvar l'alte cervici umili e proni.

55                    Pronte a' suoi cenni stanle d'ambo i lati

            Due Dive, dal cui sdegno e dal cui riso

            Pendon de l'universo incerti i fati.

                        L'una è soave e mansueta in viso,

            E stringe con la destra il santo ulivo,

60        E il mondo rasserena d'un sorriso.

                        E l'altra è la ministra di Gradivo,

            Che si pasce di gemiti e d'affanni,

            E tinge il lauro in sanguinoso rivo.

                        Due bandiere scotean de l'aure i vanni;

65        Su l'una scritto sta: Pace a le genti,

            Su l'altra si leggea: Guerra ai Tiranni.

                        Taceano al lor passar l'ire de' venti,

            Che, survolando intorno al sacro scritto,

            Lo baciavano umili e reverenti.

70                    Quinci è Colei, che del comun diritto

            Vindice, a l'ima plebe i grandi agguaglia,

            Sol diseguai per merto o per delitto;

                        E se vede che un capo in alto saglia,

            E sdegni assoggettarsi a la sua libra,

75        Alza la scure adeguatrice, e taglia.

                        E con la destra alto sospende e libra

            L'intatta inesorabile bilancia,

            Ove merto e virtù si pesa e libra.

                        Non del sangue il valor, ch'è lieve ciancia,

80        E tanto nocque alle cittadi, e nuoce;

            E sal Lamagna, e 'l seppe Italia e Francia.

                        Dolce in vista ed umano e in un feroce

            Quindi era il patrio Amor, che ai figli suoi

            Il cor con l'alma face infiamma e cuoce;

85                    E i servi trasformar puote in Eroi,

            E non teme il fragor di tue ritorte,

            O Tirannia, né de' metalli tuoi;

                        Non quella cieca che si chiama sorte,

            Che i vili in Ciel locaro, e fecer Diva;

90        E scritto ha in petto: O Libertate o morte.

                        D'ogn'intorno commosso il suol fioriva,

            L'aura si fea più pura e più serena,

            E sorridea la fortunata riva.

                        E a color che fuggir l'aspra catena,

95        Prorompeva su gli occhi e su le labbia

            Impetuosa del piacer la piena;

                        Come augel, che fuggì l'antica gabbia,

            Or vola irrequieto tra le frondi,

            Rade il suol, poi si sguazza ne la sabbia.

100                  Quindi s'udian romor cupi e profondi,

            Un franger di corone e di catene,

            Un fremer di Tiranni moribondi.

                        Impugnando un flagel d'anfesibene

            La Tirannia giacevasi da canto,

105      E si graffiava le villose gene.

                        E i torbid'occhi si copria col manto;

            Ché la luce vincea l'atre palpebre,

            E le spremea da le pupille il pianto;

                        Come notturno augel, che le latebre

110      Ospiti cerca allor che il Sole incalza

            Ne' buj recinti l'orride tenebre.

                        Èvvi una cruda, che uno stile innalza,

            E 'l caccia in mano a l'uomo e dice: Scanna,

            E forsennata va di balza in balza.

115                  Nera coppa di sangue ella tracanna,

            E lacerando umane membra a brani,

            Le spinge dentro a l'insaziabil canna.

                        E con tabe-grondanti orride mani

            I sacrileghi don su l'ara pone,

120      E osa tendere al Ciel gli occhi profani.

                        Che più? Sue crudeltati ai Numi appone,

            E fa ministro il Ciel di sue vendette;

            E il volgo la chiamò Religione.

                        Si scolorar le faccie maledette,

125      E l'una a l'altra larva s'avviticchia,

            E stan fra lor sì avviluppate e strette,

                        Che il cor de l'una al sen de l'altra picchia,

            Ansando in petto, e trabalzando, e poscia

            La coppia abbominosa si rannicchia.

130                  Qual'è lo can che tremando s'accoscia,

            Se il signor con la verga alto il minaccia,

            Tal ristrinsersi i mostri per l'angoscia.

                        Ma poi che di quell'altra in su la faccia

            Vide languir la moribonda speme,

135      Colei che in sacri ceppi il volgo allaccia,

                        Incorolla dicendo: E mute insieme

            Morremo e inoperose? e il nostro lutto

            Fia di letizia a chi 'l procaccia seme?

                        Tutto si tenti e si ritenti tutto;

140      E se morire è forza pur, si moja [[4]],

            Ma acerbo il mondo ne raccolga frutto.

                        Qualunque aspira a Libertate moja,

            Né onor di tomba o pianto abbia il ribaldo.

            E l'altra surse e gorgogliava: Moja.

145                  Moja, sì moja, e temerario e baldo

            Cerchi in Inferno Libertade; il fio

            Paghi col sangue fumeggiante e caldo.

                        Acuto allor s'intese un sibilio

            Via per le chiome ed un divincolarsi

150      E di morsi e percosse un mormorio.

                        Poscia terribilmente sollevarsi

            E un barlume di speme fu veduto

            Brillar sui ceffi lividi e riarsi;

                        Come allor che nel fosco aer sparuto

155      In fra 'l notturno vel si mostra e fugge

            Un focherello passeggiero e muto.

                        L'infame coppia si rosicchia e sugge

            Di preda ingorda la terribil ugna,

            Si picchia i lombi risonanti e rugge.

160                  Contra miglior voler voler mal pugna [[5]];

            E fra la vil perfidia e la virtute

            Secura è sempre e disegual la pugna.

                        Ma stavan l'aure pensierose e mute,

            E il Ciel di brama e di timor conquiso,

165      E pendevan le rive irresolute.

                        La Dea mirolle, e rise un cotal riso [[6]]

            Di scherno e di disdegno, che dipinge

            Di gioja al giusto, al rio di tema il viso.

                        E immobile in suo seggio il cocchio spinge

170      Su le attonite larve, e le fracassa,

            E l'auree rote del lor sangue tinge.

                        Né per timore o per desio s'abbassa,

            Ma disdegnosa e nobile in sua possa

            Alteramente le sogguarda, e passa.

175                  Fumò la terra di quel sangue rossa,

            Ond'esalava abbominoso lezzo,

            E da l'ime radici ne fu scossa.

                        Ondeggia, crolla, e alfin si spacca, il mezzo

            Apre del sen tenebricoso, e ingoja

180      Quei vituperj, e parne aver ribrezzo.

                        Quinci acuto s'udì grido di gioja,

            E quindi un fioco rimbombar di duolo,

            Simile a rugghio di Leon che moja.

                        S'alzò tre volte, e tre ricadde al suolo

185      Spossata e vinta l'Aquila grifagna,

            Ché l'arse penne ricusaro il volo.

                        Alfin, strisciando dietro a la campagna,

            Le mozze ali e le tronche ugne, fuggio

            A gl'intimi recessi di Lamagna.

190                  Allor prese i Tiranni un brividio,

            Che gli fe' paventar de la lor sorte,

            E mal frenato in su le gote uscio,

                        E gliele tinse d'un color di morte.


 

            CANTO SECONDO

 

            Col pensier, con gli orecchi e con le ciglia

            I' era immerso in quell'altera vista,

            Come colui che tace e maraviglia;

                        Qual dicon che de' Spirti in fra la lista,

5          Stette mirando le magiche note

            Il furente [[7]] di Patmo Evangelista.

                        Quand'io vidi la Dea, che su l'immote

            Maladette sorelle il cocchio spinse,

            E su le infami cigolar le rote,

10                    Primamente un terror freddo mi strinse,

            Poi surse in petto con subita forza

            La letizia, che l'altro affetto estinse.

                        Qual se fiamma divora arida scorza

            Avidamente, e d'improvviso d'acque

15        Talun l'inonda, subito s'ammorza,

                        Così sotto la gioja il timor giacque;

            Poi surse un novo di stupore affetto,

            E l'uno e l'altro moto in sen mi tacque.

                        Però ch'io vidi un bel drappello eletto

20        Di Lor che sordi furo al proprio danno,

            Caldi d'amor di Libertade il petto.

                        Vidi colui che contro al rio Tiranno

            Fe' la vendetta del superbo strupo [[8]],

            Poi che s'avvide del lascivo inganno,

25                    E corse furioso, come lupo,

            Se mai rapace cacciator gli fura

            I cari figli dal natio dirupo.

                        E seco è Lei, che d'alma intatta e pura,

            Benché polluta ne la spoglia in vita,

30        Lavò col sangue la non sua lordura.

                        Quei che ritolse ai figli suoi la vita,

            Poi che ne fero uso malvagio e rio,

            Immolando a la Patria, ostia gradita,

                        L'affetto di parente, e dir s'udio:

35        Quei che di fede a la sua patria manca

            Non è figlio di Roma, e non è mio.

                        Siegue Quei che la destra ardita e franca

            Cacciò fremendo ne le fiamme pie,

            E fe' tremar Porsenna colla manca.

40                    Ve' la Vergin che corse a le natie

            Piaggie, fuggendo del Tiranno l'onte,

            Per le amiche del Tebro ospite vie.

                        Ecco quel forte, che al famoso ponte

            Contra l'Etruria congiurata tenne

45        Ferme le piante e immobile la fronte.

                        E l'urto d'un esercito sostenne,

            E contra mille e mille lancie stette,

            Onde immortale a' posteri divenne.

                        Ma ben poria le più sottili erbette

50        Annoverar nel prato e 'n ciel le stelle

            E le arene nel mar minute e strette

                        Chi noverar volesse l'alme belle

            Ch'ivi eran, di valore inclito speglio,

            Sol de la Patria e di Virtute ancelle.

55                    Sorgea fra gli altri il generoso Veglio,

            Che involò del Tiranno ai sozzi orgogli

            La figlia intatta, e ben fu morte il meglio.

                        Fu la figlia che disse al padre: Cogli

            Questo immaturo fior: tu mi donasti

60        Queste misere membra, e tu le togli,

                        Pria che impudico ardir le incesti e guasti;

            E in quello cadde il colpo, e impallidiro

            Le guancie e i membri intemerati e casti,

                        E uscì dal puro sen l'ultimo spiro,

65        Ed a la vista orribile fremea

            Il superbo e deluso Decemviro,

                        Cui stimolava la digiuna e rea

            Libidine, e struggea l'insana rabbia,

            Che i già protesi invan nervi rodea;

70                    Qual lupo, che la preda perdut'abbia,

            Batte per fame l'avida mascella,

            Rugge, e s'addenta le digiune labbia.

                        Quindi segue una coppia rara e bella,

            Che ria di ben oprar mercede colse

75        Ahi! da la Patria troppo ingrata e fella.

                        V'è quel grande che Roma ai ceppi tolse,

            Indi de l'Afro le superbe mine

            E le audaci speranze in lui rivolse:

                        Per cui sovra le libiche ruine

80        Vide Roma discesa al gran tragitto

            Il fulgor de le fiaccole Latine.

                        E quei che Magno detto era ed invitto,

            Che, insiem con Libertà, spoglia schernita

            Giacque su l'infedel sabbia d'Egitto.

85                    V'era la non mai doma Alma, che ardita

            Temé la servitù più de la morte,

            Amò la Libertà più de la vita;

                        Dicendo: Poi che la nimica sorte

            Tanto è contraria a Libertate, e invano

90        La terribile armò destra quel forte,

                        Alzisi omai la generosa mano,

            E l'alma fugga pria che servir l'empio,

            Ch'io nacqui e vissi e vo' morir Romano.

                        E seco è Lei, che con novello scempio

95        Dietro la fuggitiva Libertate

            Corse animata dal paterno esempio.

                        Quindi un drappel venia d'ombre onorate

            Sacre a la patria, che di sangue diro

            Ne spruzzar le ruine inonorate.

100                  Bruto primo sorgea, che torvi in giro

            Pria torse i lumi, indi a Roma gli volse,

            E da l'imo del cor trasse un sospiro.

                        E a l'ombre circostanti si rivolse,

            In cui non fu la virtù patria doma,

105      Indi la lingua in tai parole sciolse:

                        Ahi cara Patria! Ahi Roma! ah! non più Roma,

            Or che strappotti il glorioso lauro

            Invida man da la vittrice chioma.

                        Ov'è l'antico di virtù tesauro?

110      Ove, ove una verace alma Latina?

            Ove un Curio, un Fabricio, ove uno Scauro?

                        Ahi! de la Libertà l'ampia ruina

            Tutto si trasse ne la notte eterna,

            Ed or serva sei fatta di reina;

115                  Ché il celibe Levita ti governa

            Con le venali chiavi, ond'ei si vanta

            Chiuder la porta e disserrar superna.

                        E i Druidi porporati: oh casta, oh santa

            Turba di Lupi mansueti in mostra,

120      Che de la spoglia de l'agnel s'ammanta!

                        E il popol reverente a lor si prostra

            In vile atto sommesso, e quasi Dii

            Gli adora e cole: oh sua vergogna e nostra!

                        Che valse a me di sacri ferri e pii

125      Armar le destre, e franger la catena?

            Lasso! e per chi la grande impresa ardii?

                        Spento un Tiranno, un altro surse, piena

            Di schiavi de la terra era la Donna,

            Infin che strinse la temuta abena

130                  Quei che la Galilea dimessa donna

            Trasse dal fango, e i membri sozzi e nudi

            Vestì di tolta altrui fulgida gonna;

                        E maritolla a’ suoi nefandi Drudi [[9]]

            Incestamente, e al vecchio Sacerdote

135      A la canna scappato e a le paludi,

                        Che infallibil divino a le devote

            Genti s'infinse, che a la Putta astuta

            Prestaro omaggio e le fornir la dote.

                        E nel Roman bordello prostituta,

140      Vile, superba, sozza e scellerata

            Al maggior offerente era venduta.

                        Ivi un postribol fece, ove sfacciata

            Facea di sé mercato, ed a' suoi Proci

            Dispensava ora un detto, ora un'occhiata.

145                  Ma poi che ferma in trono fu, feroci

            Sensi vestì, l'armi si cinse, e infece

            D'innocuo sangue le mal compre croci.

                        E sue ministre ira e vendetta fece,

            L'inganno, la viltà, la scelleranza,

150      E fe' sua legge: Quel che giova lece.

                        Quindi la maladetta Intolleranza

            Del detto e del pensier, quindi Sofia

            Stretta in catene, e in trono l'Ignoranza.

                        O ditel voi, che di saver sì ria

155      Mercede aveste di sospiri e pianto

            Da l'empia de l'ingegno tirannia.

                        O ditel voi, ch'io già non son da tanto;

            Gridino l'ossa inonorate, e il suono

            A l'Indo ne pervenga e al Garamanto.

160                  Questi i diletti de l'Eterno sono?

            Questi i ministri del divin volere?

            E questi è un Dio di pace e di perdono?

                        Dillo, o gran Tosco, tu, che de le spere

            Librasti il moto, e a’ tuoi nepoti un varco

165      Di veritate apristi e di sapere.

                        Contra te i dardi dal diabolic'arco

            Sfrenò l'invidia, e contra i tuoi sistemi

            Indarno trasse in campo e Luca e Marco.

                        Empj! che di ragione i divi semi

170      Spegner tentaro ne gli umani petti,

            E colpirono il ver con gli anatemi.

                        Van predicando un Nume, e a' suoi precetti

            Fan fronte apertamente, e a chi gl'imita

            Fulminan le censure e gl'interdetti.

175                  Povera, disprezzata, umil la vita

            Quel che tu adori in Galilea menava,

            E tu suo servo in Roma un Sibarita.

                        O greggia stolta, temeraria e prava,

            Che col suo Nume e con se stessa pugna;

180      Di Dio non già, ma di sue voglie schiava.

                        Altri nemico di se stesso impugna

            Crudo flagello, e il sangue fonde, e 'l fura,

            A la Patria, e de' suoi dritti a la pugna,

                        Devoto suicida, ed a la dura

185      Verginità consacrasi, i desiri

            Soffocando e le voci di natura.

                        Stolto crudel, che fai? de' tuoi martiri

            Forse l'amante comun Padre frue?

            O si pasce di sangue e di sospiri?

190                  Oh stolto! Ei nel tuo core, Ei con le sue

            Dita divine la diversa brama

            Pose Colui, che disse “sia”, e fue.

                        Ei con la voce di natura chiama

            Tutti ad amarsi, e gli uomini accompagna,

195      E va d'ognuno al cor ripetendo: Ama.

                        E tu fuggi colei che per compagna

            Ei ti diede, e i fratei credi nemici,

            E invan natura, invan grida e si lagna.

                        E tal sotto i flagelli ed i cilici

200      Cela i pugnali, e vassi a capo chino

            Meditando veleni e malefici.

                        O degenere figlia di Quirino,

            Che i tuoi prodi obliando, al Galileo

            Cedesti i fasci del valor Latino,

205                  Questi sono i tuoi Cati, e in sul Tarpeo

            Dei nostri figli si fan scherno e gioco...

            Ma qui si tacque, e dir più non poteo;

                        Ché tal la carità del natio loco

            Lo strinse, e sì l'oppresse, che morio

210      La voce in un sospir languido e fioco.

                        Quindi tra le commosse ombre s'udio

            Sorgere un roco ed indistinto gemito,

            Poscia un cupo e profondo mormorio;

                        Sì come allor che con interno tremito

215      Quassano i venti il suol che ne rimbomba,

            S'ode sonar da lunge un sordo fremito,

                        Che tra le foglie via mormora e romba.


 

            CANTO TERZO

 

                        I tronchi detti e il lagrimoso volto

            Di quella generosa Anima bella

            Avean là tutto il mio pensier raccolto,

                        Quando tutto a sé 'l trasse una novella

5          Turba, che di rincontro a me venia,

            D'abito più recente e di favella.

                        Confuso e irresoluto io me ne gìa,

            Com'uom che in terra sconosciuta mova,

            Che lento lento dubbiando s'avvia.

10                    Ed erano color che per la nova

            Libertade s'alzar fra l'alme prime,

            Di sé lasciando memoranda prova.

                        Grandeggiava fra queste una sublime

            Alma, come fra 'l salcio umile e l'orno [[10]]

15        Torreggian de' cipressi alto le cime.

                        Avea di belle piaghe il seno adorno,

            Che vibravan di luce accesa lampa,

            E fean più chiaro quel sereno giorno;

                        Ché men rifulge il sol quando più avvampa,

20        E sovra noi da lo stellato arringo

            L'orme fiammanti più diritte stampa.

                        Allor ch'egli me vide il pie' ramingo

            Traggere incerto per l'ignota riva,

            Meditabondo, tacito e solingo,

25                    A me corse, gridando: Anima viva,

            Che qua se' giunta, u' solo per virtute,

            E per amor di Libertà s'arriva;

                        Italia mia che fa? di sue ferute

            È sana alfine? è in Libertate? è in calma?

30        O guerra ancor la strazia e servitute?

                        Io prodigo le fui di non vil alma,

            E nel cruento suo grembo ospitale

            Giacqui barbaro pondo, estrania salma.

35                    Né m'accolse nel seno il suol natale,

            Né dolce in su le ceneri agghiacciate

            Il suon discese del materno vale.

                        Barbaro estranio tu? non son sì ingrate

            L'anime Italiane, e non è spento

            L'antico senso in lor de la pietate.

40                    Oh qual non fece Insubria mia lamento

            Più sul tuo fato, che sul suo periglio!

            Ahi! con lagrime ancor me ne rammento.

                        E te, discinta e scarmigliata, figlio

            Chiamò, baciando il tronco amato e santo,

45        E con la destra ti compose il ciglio.

                        E adorò 'l tuo cipresso al quale accanto

            Il caro germogliò lauro e l'ulivo,

            Che i rai le terse del bilustre pianto.

                        Li terse? Ahi no! ché a lei costonne un rivo,

50        Che inondò i membri inanimati e rubri

            Di te, che 'n cielo e ne' bei cor se' vivo.

                        Deh! resti a noi, dicean le rive Insubri,

            Deh! resti a noi, ma l'onorata spoglia

            Trasse Francia gelosa a' suoi delubri.

55                    Ma de l'itala sorte, onde t'invoglia

            Tanto desio, come farò parola?

            Ché un seme di Tiranni vi germoglia.

                        E sotto al giogo de la greve stola

            La gran Donna del Lazio il collo spinse,

60        E guata le catene, e si consola.

                        E Partenope serve a lei, che vinse

            In crudeltà la Maga empia di Colco,

            E de' più disumani il grido estinse.

                        Ed il Siculo e 'l Calabro bifolco

65        Frange a crudo signor le dure glebe,

            E riga di sudore il non suo solco.

                        Al mio dir disiosa urtò la plebe

            Un'ombra, sì com'irco spinge e cozza

            In su l'uscita le ammucchiate zebe.

70                    Avea i luridi solchi in su la strozza

            Del capestro, e la guancia scarna e smunta,

            E la chioma di polve e sangue sozza.

                        E' surse de le piante in su la punta,

            Come chi brama violenta tocca,

75        E uno sciame d'affetti in sen gli spunta,

                        Ed il cor sopraffatto ne trabocca

            Inondato e sommerso, e l'alma fugge [[11]]

            Su la fronte, su gli occhi e su la bocca.

                        Poi gridò: L'empia vive, e non l'adugge

80        Il telo, che temuto è sì là giue?

            E 'l dolce lume ancor per gli occhi sugge? [[12]]

                        Né pur la pena di sue colpe lue,

            Ma vive, e vive trionfante, e regna:

            Regna, e del frutto di sue colpe frue.

85                    O tu, diss'io, che sì contra l'indegna

            Ardi, che in crudeltate al mondo è sola,

            Spiegami il duol che sì l'alma t'impregna.

                        Più volte egli tentò formar parola,

            Ma sul cor ripiombò tronca la voce;

90        Che 'l duol la sospingeva ne la gola;

                        Sì come arretra il suo corso veloce,

            E spumeggia e gorgoglia onda restia,

            Se impedimento incontra in su la foce.

                        Ma poi che vinse il duol la cortesia,

95        E per le secche fauci il varco aperse,

            E fu spianata al ragionar la via,

                        Gridò: Tu vuoi ch'io fuor dal seno verse

            Il duol, che tanto già mi punse e punge,

            Se pur si puote anco qua su dolerse.

100                  Ma in quale arena mai grido non giunge [[13]]

            Di sua nequizia e de' fatti empi e rei?

            E sia pur, quanto esser si voglia, lunge.

                        Io di sua crudeltà la prova fei,

            E giacqui ostia innocente in su l'arena,

105      Per amor de la Patria e di Costei,

                        Di ciò l'alma e la bocca ebbi ognor piena,

            Che a me fu sempre fida stella e duce,

            Ed or mi paga la sofferta pena.

                        Poi che apparve un'incerta e dubbia luce

110      Sovra l'Italia addormentata, e sparve,

            Onde la notte nereggiò più truce,

                        E una benigna Libertade apparve,

            Che al duro appena ci rapì servaggio,

            Indi sparì come notturne larve,

115                  Io corsi là, com'a un lontano raggio

            Correndo e ansando il pellegrin s'affretta,

            Smarrito fra 'l notturno ermo viaggio.

                        Ahi breve umana gioja ed imperfetta!

            Venne, con l'armi no, con le catene

120      Una ciurma di schiavi maladetta.

                        E gli abeti secati a le Rutene

            Canute selve del Cumeo Nettuno

            Gravaro il dorso, e ne radean le arene.

                        Corse fremendo ed ululando il bruno

125      Tartaro antropofàgo, che per fame

            Spalanca l'atro gorgozzul digiuno.

                        E l'Anglo avaro, che mercato infame

            Fa de le umane vite, e in quella sciarra

            Lo spinsero de l'or le ingorde brame.

130                  Né più i solchi radea sicula marra,

            Né più la falce, ma le verdi biade

            Mieteva la cosacca scimitarra.

                        E non bastar le peregrine spade;

            Ché la Patria ancor essa, ahi danno estremo!

135      Vomitò contra sé fiere masnade.

                        Ahi che in pensando ancor ne scoppio e fremo!

            Qual dal carcer sboccato e qual dal chiostro,

            Qual tolto al pastorale e quale al remo.

                        Oh ciurma infame! e un porporato mostro

140      Duce si fe' de le ribelli squadre,

            Celando i ferri sotto al fulgid'ostro.

                        Costor le mani violente e ladre

            Commiser ne la Patria, e tutta quanta

            D'empie ferite ricovrir la madre.

145                  Di Libertà la tenerella pianta

            Crollar, sì come d'Eolo irato il figlio

            L'aereo pin da le radici schianta.

                        Poscia un confuso regnava bisbiglio,

            Un sordo mormorar fra denti ed una

150      Paura, un cupo sovvolger di ciglio;

                        Come allor che da lunge il ciel s'imbruna,

            Siede sul mar, che a poco a poco s'ange,

            Una calma che annunzia la fortuna;

                        Mentre cigola il vento, che si frange

155      Tra le canne palustri, e cupo e fioco

            Rotto dai duri massi il fiotto piange.

                        Ma surse irata la procella, poco

            Durò la calma e quel servir tranquillo;

            Sangue al pianto successe e ferro e foco.

160                  E l'aer muto ruppe acuto squillo

            Annunziator di stragi, e sulla torre

            L'atro di morte sventolò vessillo.

                        Il furor per le vie rabido scorre,

            E con grida i satelliti, e con cenni

165      Incora e sprona, e a nova strage corre.

                        Allor s'ode uno strider di bipenni,

            Un cupo scroscio di mannaje. Ahi come

            Oltre veder con questi occhi sostenni!

                        Chi solo amò di Libertate il nome,

170      O appena il proferì, dai sacri lari

            Strappato e strascinato è per le chiome.

                        Ai casti letti venian que' sicari,

            Qual di lupi digiuni atro drappello,

            D'oro e di sangue e di null'altro avari.

175                  E invan le spose al violato ostello,

            Di lagrime bagnando il sen discinto,

            Fean con la debil man vano puntello;

                        Ché fin fu il ferro, ahimè! cacciato e spinto

            Entro il seno pregnante: oh scelleranza!

180      E il ferro, il ferro da l'orror fu vinto.

                        Gli empj no, che con fiera dilettanza

            Pascean gli sguardi disiosi e cupi,

            E fean periglio di crudel costanza.

                        E i pargoletti a que' feroci lupi

185      Con un sorriso protendean le mani,

            Con un sorriso da spetrar le rupi.

                        Ed essi, oh snaturati! oh in volti umani

            Tigri! col ferro rimovean l'amplesso,

            E fean le membra tenerelle a brani.

190                  Non era il grido ed il sospir concesso;

            Era delitto il lagrimar, delitto

            Un detto, un guardo ed il silenzio istesso.

                        Morte gridava irrevocando editto.

            La coronata e la mitrata stizza

195      L'avean col sangue d'innocenti scritto.

                        Intanto a mille eroi l'anima schizza

            Dal gorgozzule oppresso, e brancolando

            Il tronco informe su l'arena guizza.

                        Anelando, fremendo, mugolando

200      Gli spirti uscien da' straziati tronchi,

            Non il lor danno, ma il comun plorando.

                        Ivi sorgean due smisurati tronchi,

            Cui l'adunato sangue era lavacro,

            E d'intorno eran membri e capi cionchi.

205                  Quinci era il tronco infame a morte sacro,

            Irto e spumoso di sanguigna gruma,

            Quindi stava di Cristo il simulacro;

                        E il percotea la fluttuante schiuma,

            Che fea del sangue e de la tabe il lago,

210      Che ferve e bolle e orrendamente fuma.

                        Fiero portento allor si vide, un vago

            Spettro spinto da voglia empia ed infame

            Lieto aggirarsi intorno al tristo brago.

                        Avidamente pria fiutò il carname,

215      E rallegrossi, e poi con un sogghigno

            Guatò de' semivivi il bulicame.

                        Quindi il muso tuffò smilzo ed arcigno,

            E il diguazzò per entro a la fiumana,

            E il labbro si lambì gonfio e sanguigno.

220                  Come rabido lupo si distana,

            Se a le nari gli vien di sangue puzza,

            E ringhia e arrota la digiuna scana,

                        E guata intorno sospicando, e aguzza

            Gli orecchi e ognor s'arretra in su i vestigi,

225      Così colei, che di sua salma appuzza

                        Le viscere cruente di Parigi,

            Rigurgitando velenosa bava,

            La barbara consorte di Luigi,

                        Venia gridando: Insana ciurma e prava,

230      Che noi di crudi e di Tiranni incolpe,

            E al regno agogni, nata ad esser schiava,

                        Godi or tuoi dritti, e de le nostre colpe

            Il fio tu paga, e sì dicendo morse

            Le membra, e rosicchiò l'ossa e le polpe.

235                  Indi da l'atro desco il grifo torse

            Gonfia di sangue già, ma non satolla,

            Quando novo spettacolo si scorse.

                        Venia uno stuolo di Leviti, colla

            Faccia di rabbia e di furor bollente,

240      E inzuppata di sangue la cocolla.

                        Ciascun reca una coppa, e d'innocente

            Sangue l'empiero, e le posar su l'ara.

            E lo vide e 'l soffrì l'Onnipossente!

                        E disser: Bevi, e fean quegli empj a gara.

245      Danzava intorno oscenamente Erinni,

            E scoteva la cappa e la tiara.

                        E i profani s'udian rochi tintinni

            De' bronzi, e l'aria, con le negre penne,

            Gl'infernali scotean diabolic'inni.

250                  Bramata alfine ed aspettata venne

            A me la morte, ed il supremo sfogo

            Compì su la mia spoglia la bipenne.

                        Allora scossi l'abborrito giogo,

            E, l'ali aprendo a la seconda vita,

255      Rinacqui alfin, come fenice in rogo.

                        Ed ancor tace il mondo? ed impunita

            È la Tigre inumana, anzi felice,

            E temuta dal mondo e riverita?

                        Deh! vomiti l'accesa Etna [[14]] l'ultrice

260      Fiamma, che la città fetente copra,

            E la penetri fino a la radice.

                        Ma no: sol pera il delinquente, sopra

            Lei cada il divo sdegno e sui diademi,

            Autori infami de l'orribil'opra.

265                  E fin da lunge ne' recessi estremi,

            Ove s'appiatta, e ne' covigli occulti

            L'oda l'empia Tiranna, odalo e tremi.

                        E disperata mora, e ai suoi singulti

            Non sia che cor s'intenerisca e pieghi,

270      E agli strazj perdoni ed a gli insulti,

                        O dal Ciel pace a l'empia spoglia preghi;

            Ma l'universo al suo morir tripudi,

            E poca polve a l'ossa infami neghi.

                        E l'alma dentro a le negre paludi

275      Piombi, e sien rabbia assenzio e fel sua dape,

            E tutto Inferno a tormentarla sudi,

                        Se pur tanta nequizia entro vi cape.


 

            CANTO QUARTO

 

                        Tacque ciò detto, e su l'enfiate labbia

            Gorgogliava un suon muto di vendetta,

            Un fremer sordo d'intestina rabbia.

                        E le affollate intorno ombre, “vendetta”

5          Gridar, “vendetta”, e la commossa riva

            Inorridita replicò “vendetta”.

                        I torbid'occhi il crino a lui copriva;

            Fascio parea di vepri o di gramigna,

            Onde un'atra erompea luce furtiva;

10                    Come veggiamo il sol, se una sanguigna

            Nugola il raggio ne rinfrange, obbliqua

            Vibrar l'incerta luce e ferrugigna.

                        Ahi di Tiranni ria semenza iniqua,

            De gli uomini nimica e di natura,

15        Or hai pur spenta l'empia sete antiqua!

                        Gonfia di sangue la corrente e impura

            Portò l'umil Sebeto, e de la cruda

            Novella Tebe flagellò le mura.

                        Tigre inumana di pietate ignuda,

20        Tu sopravvivi a' tuoi delitti? un Bruto

            Dov'è? chi 'l ferro a trucidarti snuda?

                        Questi sensi io volgea per entro al muto

            Pensier, che tutto in quell'orror s'affisse,

            Allor che venne al mio veder veduto

25                    D'Insubria il Genio, che le luci fisse

            In me tenendo, armoniosa e scorta

            Voce disciolse, e scintillando disse:

                        Mortal, quello che udrai là giuso porta.

            Deh! gli alti detti a la mal ferma e stanca

30        Mente richiama, o Musa, e mi sia scorta.

                        Tu la cadente poesia rinfranca,

            Tu la rivesti d'armonia beata,

            E tu sostieni la virtù, che manca;

                        Tu l'ali al pensier presta, o Diva nata

35        Di Mnemosine, e fa' che del mio plettro

            Esca la voce ai colti orecchi grata,

                        E spargi i detti miei d'eterno elettro.

            Già, proseguiva, del real potere

            Sei sciolta, Insubria, e infranto hai l'empio scettro.

40                    Ché gli ubertosi colli e le riviere,

            Ove Natura a se medesma piace,

            No, che non son per le Tedesche fiere.

                        Pace altra volta tu le desti, pace,

            O Tiranno, giurasti, e udir le genti

45        Il real giuro, e lo credean verace.

                        Ma di Tiranno fede i sacramenti

            Frange e calpesta, e la legge de' troni

            Son gl'inganni, i spergiuri, i tradimenti.

                        Venne in fin dai settemplici trioni,

50        Da te chiamato, e da le fredde rupi

            Un torrente di bruti e di ladroni.

                        Come in aperto ovile iberni lupi,

            Tal su l'Insubria si gittar quegli empi,

            Di sangue ghiotti, di rapine e strupi.

55                    Fino i sacri vestibuli di scempi

            Macchiaro e d'adulteri. Oh quali etati

            Fur mai feconde di siffatti esempi?

                        Ma non fur quegli insulti invendicati,

            Né il vizio trionfò: l'infame tresca

60        Franse il ferro e 'l valor: gli addormentati

                        Spirti destarsi alfin, e la Tedesca

            Rabbia fu doma, e le fiaccò le corna

            La virtù Cisalpina e la Francesca.

                        Torna, arrogante a questi lidi, torna;

65        Qui roco ancor di morte il telo romba,

            Qui la tua morte appiattata soggiorna.

                        Qui il cavo suol de' sepolcri rimbomba

            De la tua pube, che ancor par che gema:

            Vieni in Italia, e troverai la tomba.

70                    Altra volta scendesti avido, e scema

            Ti fu l'audacia temeraria e sciocca:

            Rammenta i campi di Marengo, e trema.

                        Ché la fatal misura ancor trabocca;

            Non affrettar de la vendetta il die,

75        Il dì che impaziente è su la cocca.

                        Pace avesti pur anco, e questa fie

            La novissima volta; in l'alemanno

            Confin le tigri tue frena e le arpie.

                        Ma tu, misera Insubria, d'un Tiranno

80        Scotesti il giogo, ma t'opprimon mille.

            Ahi che d'uno passasti in altro affanno!

                        Gentili masnadieri in le tue ville

            Succedettero ai fieri, e a genti estrane

            Son le tue voglie e le tue forze ancille.

85                    Langue il popol per fame, e grida: “pane”;

            E in gozzoviglia stansi e in esultanza

            Le Frini e i Duci, turba, che di vane

                        Larve di fasto gonfia e di burbanza,

            Spregia il volgo, onde nacque, e a cui comanda,

90        A piena bocca sclamando: Eguaglianza;

                        Il volgo, che i delitti e la nefanda

            Vita vedendo, le prime catene

            Sospira, e 'l suo Tiranno al ciel domanda.

                        De l'inope e del ricco entro le vene

95        Succian l'adipe e 'l sangue, onde Parigi

            Tanto s'ingrassa, e le midolle ha piene.

                        E i tuoi figli? I tuoi figli abbietti e ligi

            Strisciangli intorno in atto umile e chino.

            E tal di risse amante e di litigi

100                  D'invido morso addenta il suo vicino,

            Contra il nemico timido e vigliacco,

            Ma coraggioso incontro al cittadino.

                        Tal ne' vizj s'avvolge, come ciacco

            Nel lordo loto fa; soldato esperto

105      Ne' conflitti di Venere e di Bacco.

                        E tal di mirto al vergognoso serto

            Il lauro sanguinoso aggiunger vuole,

            Ricco d'audacia, e povero di merto.

                        Tal pasce il volgo di sonanti fole:

110      Vile! e di patrio amor par tutto accenso,

            E liberal non è che di parole.

                        E questi studio d'allargare il censo

            Avito rode, e quel tal altro brama

            Di farsi ricco di tesoro immenso.

115                  Senti costui, che “morte, morte” esclama,

            E le vie scorre, furibonda Erinni,

            Di sangue ingordo, e dove può si sfama.

                        Vedi quei, che sua gloria nei concinni

            Capei ripone. Oh generosi Spirti

120      Degni del giogo estranio e de' cachinni!

                        Odimi, Insubria. I dormigliosi spirti

            Risveglia alfine, e da l'olente chioma

            Getta sdegnosa gli Acidalj mirti.

                        Ve' come t'hanno sottomessa e doma,

125      Prima il Tedesco e Roman giogo, e poi

            La Tirannia, che Libertà si noma.

                        Mira le membra illividite e i tuoi

            Antichi lacci; l'armi, l'armi appresta,

            Sorgi, ed emula in campo i Franchi Eroi.

                        E a l'elmo antico la dimessa cresta

130      Rimetti, e accendi i neghittosi cori,

            E stringi l'asta ai regnator funesta;

                        Come destrier, che fra l'erbette e i fiori,

            Placido, in diuturno ozio recuba,

135      Sol meditando vergognosi amori,

                        Scote nitrendo la nitente giuba,

            Se il torpido a ferirlo orecchio giugne

            Cupo clangor di bellicosa tuba,

                        E stimol fiero di gloria lo pugne,

140      Drizza il capo, e l'orecchio al suono inchina,

            E l'indegno terren scalpe con l'ugne.

                        Contra i Tiranni sol la cittadina

            Rabbia rivolgi, e tienti in mente fiso,

            Che fosti serva, ed or sarai reina.

145                  Disse e tacque, raggiandomi d'un riso,

            Che del mio spirto superò la forza,

            Così ch'io ne restai vinto e conquiso.

                        Mi scossi, e la rapita anima a forza,

            Come chi tenta fuggire e non puote,

150      Cacciata fu ne la mortale scorza.

                        Io restai come quel che si riscote

            Da mirabile sogno, che pon mente

            Se dorme o veglia, e tien le ciglia immote.

                        O Pieride Dea, che 'l foco ardente

155      Ispirasti al mio petto, e i sempiterni

            Vanni ponesti a la gagliarda mente,

                        Tu, Dea, gl'ingegni e i cor reggi e governi,

            E i nomi incidi nel Pierio legno,

            Che non soggiace al variar de' verni.

160                  Tu l'ali impenni al Ferrarese ingegno,

            Tu co' suoi divi carmi il vizio fiedi,

            E volgi l'alme a glorioso segno.

                        Salve, o Cigno divin, che acuti spiedi

            Fai de' tuoi carmi, e trapassando pungi

165      La vil ciurmaglia, che ti striscia ai piedi.

                        Tu il gran Cantor di Beatrice aggiungi,

            E l'avanzi talor; d'invidia piene

            Ti rimiran le felle alme da lungi,

                        Che non bagnar le labbia in Ippocrene,

170      Ma le tuffar ne le Stinfalie fogne,

            Onde tal puzzo da' lor carmi viene.

                        Oh limacciosi vermi! Oh rie vergogne

            De l'arte sacra! Augei palustri e bassi;

            Cigni non già, ma Corvi da carogne.

175                  Ma tu l'invida turba addietro lassi,

            E le robuste penne ergendo, come

            Aquila altera, li compiangi, e passi.

                        Invano atro velen sovra il tuo nome

            Sparge l'invidia, al proprio danno industre,

180      Da le inquiete sibilanti chiome.

                        Ed io puranco, ed io, Vate trilustre,

            Io ti seguo da lunge, e il tuo gran lume

            A me fo scorta ne l'arringo illustre.

                        E te veggendo su l'erto cacume

185      Ascender di Parnaso alma spedita,

            Già sento al volo mio crescer le piume.

                        Forse, oh che spero! io la seconda vita

            Vivrò, se a le mie forze inferme e frali

            Le nove Suore porgeranno aita.

190                  Ma dove mi trasporti, estro? mortali

            Son le mie penne, e periglioso il volo,

            Alta e sublime è la caduta; l'ali

                        Però raccogli, e riposiamci al suolo [[15]].

 

 

XX

URANIA

 

POEMETTO

[1809]

 

            Su le populee rive e sul bel piano

            Da le insubri cavalle esercitato,

            Ove di selva coronate attolle

            La mia città le favolose mura,

5          Prego, suoni quest'Inno: e se pur degna

            Penne comporgli di più largo volo

            La nostra Musa, o sacri colli, o d'Arno

            Sposa gentil, che a te gradito ei vegna

            Chieggo a le Grazie. Ché dai passi primi

10        Nel terrestre viaggio, ove il desio

            Crudel compagno è de la via, profondo

            Mi sollecita amor che Italia un giorno

            Me de' suoi vati al drappel sacro aggiunga,

            Italia, ospizio de le Muse antico.

15        Né fuggitive dai laureti achei

            Altrove il seggio de l'eterno esiglio

            Poser le Dive; e quando a la latina

            Donna si feo l'invendicato oltraggio,

            Dal barbaro ululato impaurite

20        Tacquero, è ver, ma l'infelice amica

            Mai non lasciar; ché ad alte cose al fine

            L'itala Poesia, bella, aspettata,

            Mirabil virgo, da le turpi emerse

            Unniche nozze. E tu le bende e il manto

25        Primo le desti, e ad illibate fonti

            La conducesti; e ne le danze sacre

            Tu le insegnasti ad emular la madre,

            Tu de l'ira maestro e del sorriso,

            Divo Alighier, le fosti. In lunga notte

30        Giaceva il mondo, e tu splendevi solo,

            Tu nostro: e tale, allor che il guardo primo

            Su la vedova terra il sole invia,

            Nol sa la valle ancora e la cortese

            Vital pioggia di luce ancor non beve,

35        E già dorata il monte erge la cima.

            A queste alme d'Italia abitatrici

            Di lodi un serto in pria non colte or tesso;

            Ché vil fra 'l volgo odo vagar parola

            Che le Dive sorelle osa insultando

40        Interrogar che valga a l'infelice

            Mortal del canto il dono. Onde una brama

            In cor mi sorge di cantar gli antichi

            Beneficj che prodighe a l'ingrato

            Recar le Muse. Urania al suo diletto

45        Pindaro li cantò. Perché di tanto

            Degnò la Dea l'alto poeta e come,

            Dirò da prima; indi i celesti accenti

            Ricorderò, se amica ella m'ispira.

            Fama è che a lui ne la vocal tenzone

50        Rapisse il lauro la minor Corinna

            Misero! e non sapea di quanto dio

            L'ira il premea; ché a la famosa Delfo

            Venendo, i poggi d'Elicona e il fonte

            Del bel Permesso ei salutando ascese;

55        Ma d'Orcomene, ove le Grazie han culto,

            Il cammin sacro omise. Il dévio passo

            Vider da lunge e il non curar superbo

            Del fatal giovanetto le Immortali,

            E promiser vendetta. Al meditato

60        Inno di lode liberato il volo

            Pindaro avea, quando le belle irate,

            Aerie forme a mortal guardo mute,

            Venner seconde di Corinna al fianco.

            Aglaja in pria su la virginea gota

65        Sparse un fulgor di rosea luce, e un mite

            Raggio di gioja le diffuse in fronte:

            Ma la fragranza de' castalj fiori

            Che fanno l'opra de l'ingegno eterna,

            Eufrosine le diede; e tu pur anco,

70        Dolce qual tibia di notturno amante,

            Lene Talia, le modulasti il canto.

            Di tanti doni avventurata in mezzo

            Corinna assurse: il portamento e il volto

            Stupia la turba, e il dubitar leggiadro

75        E il bel rossor con che tremando al seno

            Posò la cetra; e, sotto la palpebra

            Mezza velando la pupilla bruna,

            Soave incominciò. Volava intorno

            La divina armonia che, con le molli

80        Ale i cupidi orecchi accarezzando,

            Compungea gl'intelletti, e di giocondo

            Brivido i cori percotea. Rapito

            L'emulo anch'ei, non alito, non ciglio

            Movea, né pria de' sensi ebbe ripresa

85        La signoria, che verdeggiar la fronda

            Invidiata vide in su le nere

            Trecce di lei, che fra il romor del plauso

            Chinò la bella gota ove salia

            Del gaudio mista e del pudor la fiamma.

90        Di dolor punto e di vergogna, al volgo

            L'egregio vinto si sottrasse, e solo

            Sul verde clivo, onde l'aeria fronte

            Spinge il Parnaso, s'avviò. Dolente

            Errar da l'alto Licoreo lo scòrse

95        Urania Dea, cui fu diletto il fato

            Del giovanetto, e di blandir sua cura

            Nel pio voler propose. È nei riposti

            Del sacro monte avvolgimenti un bosco

            Romito, opaco, ove talor le Muse,

100      Sotto il tremolo rezzo esercitando

            L'ambrosio piè, ringioviniscon l'erbe

            Da mortal orma non offese ancora.

            A l'entrar de la selva, e sovra il lembo

            Del vel che la tacente ombra distende,

105      Balza l'Estro animoso, e de le accese

            Menti il Diletto, e, ne la palma alzata

            Dimettendo la fronte, il Pensamento

            Sta col Silenzio, che per man lo tiene.

            Bella figlia del Tempo e di Minerva

110      V'è la Gloria, sospir di mille amanti:

            Vede la schiva i mille, e ad un sorride.

            Ivi il trasse la Diva. A l'appressarsi,

            De l'aura sacra a l'aspirar, di lieto

            Orror compreso in ogni vena il sangue

115      Sentia l'eletto, ed una fiamma leve

            Lambir la fronte ed occupar l'ingegno.

            Poi che ne l'alto de la selva il pose

            Non conscio passo, abbandonò l'altezza

            Del solitario trono, e nel segreto

120      Asilo Urania il prode alunno aggiunse.

            Come tal volta ad uom rassembra in sogno,

            Su lunga scala o per dirupo, lieve

            Scorrer col piè non alternato a l'imo,

            Né mai grado calcar né offender sasso;

125      Tal su gli aerei gioghi sorvolando,

            Discendea la celeste. Indi la fronte

            Spoglia di raggi, e d'ale il tergo, e vela

            D'umana forma il dio; Mirtide fassi,

            Mirtide già de' carmi e de la lira

130      A Pindaro maestra; e tal repente

            A lui s'offerse. Ei di rossor dipinto,

            A che, disse, ne vieni? a mirar forse

            Il mio rossore? o madre, oh! perché tanta

            Speme d'onor mi lusingasti in vano?

135      Come la madre al fantolin caduto,

            Mentre lieto al suo piè movea tumulto,

            Che guata impaurito, e già sul ciglio

            Turgida appar la lagrimetta, ed ella

            Nel suo trepido cor contiene il grido,

140      E blandamente gli sorride in volto

            Perch'ei non pianga; un tal divino riso,

            Con questi detti, a lui la Musa aperse:

            A confortarti io vegno. Onde sì ratto

            “L'anima tua è da viltate offesa”?

145      Non senza il nume de le Muse, o figlio,

            Di te tant'alto io promettea. Deh! come,

            Pindaro rispondea, cura dei vati

            Aver le Muse io crederò? Se culto

            Placabil mai de gl'Immortali alcuno

150      Rendesse a l'uom, chi mai d'ostie e di lodi,

            Chi più di me di preci e di cor puro

            Venerò le Camene? Or se del mio

            Dolor ti duoli, proseguia, deh! vogli

            L'egro mio spirto consolar col canto.

155      Tacque il labro, ma il volto ancor pregava,

            Qual d'uom che d'udire arda, e fra sé tema

            Di far parlando a la risposta indugio.

            Allor su l'erba s'adagiaro: il plettro

            Urania prese, e gli accordò quest'Inno

160      Che in minor suono il canto mio ripete.

            ―― Fra le tazze d'ambrosia imporporate,

            Concittadine degli Eterni e gioja

            De' paterni conviti eran le Muse

            Ne' palagi d'Olimpo, e le terrene

165      Valli non use a visitar; ma primo,

            Scola e conforto de la vita, in terra

            Di Giove il cenno le inviò. Vedea

            Giove da l'alto serpeggiar già folta

            La vaga mortale orma, e sotto il pondo

170      Di tutti i mali andar curvata e cieca

            L'umana stirpe: del rapito foco

            Piena gli parve la vendetta; e a l'ira

            Spuntate avea l'acri saette il tempo.

            Alfin più mite ne l'eterno senno

175      Consiglio il Padre accolse, ed, Assai, disse,

            E troppo omai le Dire empio governo

            Fer de la terra; assai ne' petti umani

            Commiser d'odj, e volser prone al peggio

            Le mortali sentenze. Di felici

180      Genj una schiera al Dio facea corona,

            Inclita schiera di Virtù (ché tale

            Suona qua giù lor nome). A questi in pria

            Scorrer la terra e perseguir le crude

            De l'uom nemiche ed a più miti voglie

185      Ricondur l'infelice, impose il Dio.

            Al basso mondo ove la luce alterna,

            Sceser gli spirti obbedienti, e tutto

            Ricercarlo, ma in van; ché non levossi

            A tanto raggio de' mortali il guardo;

190      E di Giove il voler non s'adempìa.

            Però baldanza a quel voler non tolse

            Difficoltà che a l'impotente è freno,

            Stimolo al forte; essa al pensier di Giove

            Novo propose esperimento. Al desco

195      Del Tonante le Muse una concorde

            Movean d'inni esultanza; inebriate

            Tacean le menti de gli Dei; fe' cenno

            Ei la destra librando; e la crescente

            Del volubile canto onda ristette

200      Improvviso. Raggiò pacato il guardo

            A le Vergini il Padre; e questo ad elle

            D'amor temprato fe' volar comando,

            Figlie, a bell'opra il mio voler ministre

            Elegge or voi. Non conosciute ancora

205      Errar vedete le Virtù fra i ciechi

            Figli di Pirra: d'amor santo indarno

            Arder tentaro i duri petti, e vinte

            Farsi de l'ardue menti aprir le porte:

            La forza sol de l'arti vostre il puote:

210      Là giù dunque movete: a voi seguaci

            Vengan le Grazie; e senza voi men bella

            Già la mia reggia il tornar vostro attende.

            Tacque a tanto il Saturnio; e su gli estremi

            Detti, dal ciglio e da le labra rise

215      Blandamente. Al divino atto commossa

            Balzò l'eterea vetta, e d'improvviso

            Di tutta luce biondeggiò l'Olimpo.

            Nel primo aspetto de la terra intanto

            Il lungo duol de le Virtù neglette

220      Vider le Muse: ma di lor la prima

            Chi fu che volse le propizie cure

            I bei precetti ad avverar del Padre?

            Calliope fu che fra i mortali accorta

            Orfeo trascelse; e sì l'amò che il nome

225      A lui di figlio non negò. Vicina

            A l'orecchio di lui, ma non veduta,

            Stette la Diva, e de l'alunno al core

            Sciolse la bella voce onde si noma.

            Il bel consiglio di Calliope tutte

230      Imitar le sorelle; e d'un eletto

            Mortal maestra al par fatta ciascuna,

            L'alme col canto ivan tentando, e l'ira

            Vincea quel canto de le ferree menti.

            Così dal sangue e dal ferino istinto

235      Tolser quei pochi in prima; indi lo sguardo

            Di lor, che a terra ancor tenea il costume

            Che del passato l'avvenir fa servo,

            Levar di nova forza avvalorato.

            E quei gli occhi giraro, e vider tutta

240      La compagnia de gli stranier divini,

            Che a le Dire fea guerra. Ove furente

            Imperversar la Crudeltà solea,

            Orribil mostro che ferisce e ride,

            Vider Pietà che, mollemente intorno

245      Ai cor fremendo, dei veduti mali

            Dolor chiedea; Pietà, de gl'infelici

            Sorriso, amabil Dea. Feroce e stolta

            Con alta fronte passeggiar l'Offesa

            Vider, gl'ingegni provocando, e mite

250      Ovunque un Genio a quella Furia opporsi,

            Lo spontaneo Perdon che con la destra

            Cancella il torto e nella manca reca

            Il beneficio, e l'uno e l'altro obblia.

            Blando a la Dira ei s'offeria: seguace

255      Lenta ma certa, l'orme sue ricalca

            Nemesi, e quando inesaudito il vede,

            Non fa motto, ed aspetta. Un giorno al fine

            Ne gl'iterati giri, orba dinanzi

            Le vien l'Offesa: al tacit' arco impone

260      Nemesi allor l'amata pena; aggiunge

            L'aerea punta impreveduta il fianco,

            E l'empio corso allenta. Inonorata

            La Fatica mirar, che gli ermi intorno

            Campi invano additava, a cui per anco

265      Non chiedea de la messe il pigro ferro

            Gli aurei doni dovuti: a lei compagno

            L'Onor si fea; se forse a la sua luce

            Più cara a l'occhio del mortal venisse

            L'utile Dea. Vider la Fede, immota

270      Servatrice dei giuri, e l'arridente

            Ospital Genio che gl'ignoti astringe

            Di fraterna catena; e tutta in fine

            La schiera dia ne l'opra affaticarsi.

            Videro, e novo di pietà, d'amore

275      Ne gli attoniti surse animi un senso,

            Che infiammando occupolli. E già de' lieti

            Principj in cor secure, il plettro e l'arte

            Sacra del plettro ai figli lor le Muse

            Donar, le Grazie il dilettar donaro

280      E il suader potente. Essi a la turba

            Dei vaganti fratelli ivan cantando

            Le vedute bellezze. Al suon che primo

            Si sparse a l'aura, dispogliò l'antico

            Squallor la terra, e rise: e tu qual fosti,

285      Che provasti, o mortal, quando sul core

            La prima stilla d'armonia ti scese?

            Quale a l'ara de' Numi allor che il sacro

            Tripode ferve, e tremolando rosse

            Su le brage stridenti erran le fiamme,

290      Se la man pia del sacerdote in esse

            Versi copia d'incenso, ecco di bruno

            Pallor vestirsi il foco, e dal placato

            Ardor repente un vortice s'innalza

            Tacito, e tutto d'odorata nebbia

295      Turba l'etere intorno e lo ricrea;

            Tal su i cori cadea rorido, e l'ira

            V'ammorzava quel canto, e dolce, in vece,

            Di carità, di pace vi destava

            Ignota brama. A l'uom così le prime

300      Virtù fur conosciute onde beata,

            Quanto ad uom lice, e riposata e bella

            Fassi la vita. Allor in cor portando

            Il piacer de l'evento, e la divina

            Giocondità del beneficio in fronte,

305      A l'auree torri de l'Olimpo il volo

            Rialzar le Camene. Ivi le prove

            De l'alma impresa e le fatiche e il fine

            Dissero al Padre; e pieno, in ascoltarle,

            Da la bocca di lui scorrea quel dolce

310      Canto a l'orecchio dei miglior, la lode.

            Ma stagion lunga ancor volta non era,

            Che ne le Nove ritornate un caro

            De la terra desio nacque; ché ameno

            Oltre ogni loco a rivedersi è quello

315      Che un gentil fatto ti rimembri: e questa

            Elesser sede che secreta intorno

            Religion circonda, e, l'arti antiche

            Esercitando ancor, l'aura divina

            Spirano a pochi in fra i viventi, e dànno

320      Colpir le menti d'immortal parola.

            E te dal nascer tuo benigna in cura

            Ebbe, o Pindaro, Urania. E s'oggi, o figlio,

            Tanto amor non ti valse, ell'è d'un Nume

            Vendetta: incauto, che a le Grazie il culto

325      Negasti, a l'alme del favor ministre

            Dee, senza cui né gl'Immortai son usi

            Mover mai danza o moderar convito.

            Da lor sol vien se cosa in fra i mortali

            È di gentile, e sol qua giù nel canto

330      Vivrà che lingua dal pensier profondo

            Con la fortuna de le Grazie attinga;

            Queste implora coi voti, ed al perdono

            Facili or piega. E la rapita lode

            Più non ti dolga. A giovin quercia accanto

335      Talor felce orgogliosa il suolo usurpa,

            E cresce in selva, e il gentil ramo eccede

            Col breve onor de le digiune frondi:

            Ed ecco il verno la dissipa; e intanto

            Tacitamente il solitario arbusto

340      Gran parte abbranca di terreno, e, mille

            Rami nutrendo nel felice tronco,

            Al grato pellegrin l'ombra prepara.

            Signor così de gl'inni eterni, un giorno,

            Solo in Olimpia regnerai: compagna

345      Questa lira al tuo canto, a te sovente

            Il tuo destino e l'amor mio rimembri. ―

            Tacque, e porse la cetra: indi rivolta,

            Candida luce la ricinse: aperte

            Le azzurre penne s'agitar sul tergo,

350      Mentre nel folto de la selva al guardo

            Del suo Poeta s'involò. La Diva

            Ei riconobbe, e di terror, di lieta

            Maraviglia compunto, il prezioso

            Dono tenea: ne l'infiammata fronte

355      Fremean d'Urania le parole e l'alta

            Promessa e il fato: e la commossa corda,

            Memore ancor del pollice divino,

            Con lungo mormorar gli rispondea.

 

 

XXI

[IL MIO GENIO]

Frammenti di LE VISIONI POETICHE

[1809-1810]

 

I

                        In quella età che, di veder bramoso,

            Ancor l'ingegno a le cagioni è cieco,

            Ascoso un Genio, anco a me stesso ascoso,

            Disse improvviso al mio pensier: Son teco.

5          Ei le cose mi mostra che animoso

            Primier, siccome io valgo, in luce io reco;

            Sicché da lui le tenga ogni cortese

            Cui non incresca de l'averle intese.

II

                        Qual compagno s'avesse a la sua via

10        Infin d'allora il giovinetto acerbo,

            Tal savio il vide, e a lui ne presagia

            Cose che or fora il rammentar superbo;

            Ben di poche memorie in compagnia

            Ne la custodia del mio cor le serbo;

15        Dubbio le serbo al paragon sincero

            Del Tempo, certo testimon del vero.

III

                        Questo Genio talor de la mia mente

            I freni abbandonati in man si piglia,

            E volge ove a lui piaccia obbediente

20        Tutta l'alata dei pensier famiglia;

            Tal che dal petto interno odo sovente

            Una voce, che irata mi consiglia,

            Che almen fra tanti il primo mio concetto

            Torni al Fonte Divin d'ogni intelletto.

IV

25                    Ei fra le piante, ove più spesso io sono

            Di campi lodator non cittadino,

            A visitarmi appare, e porta in dono

            Le visioni ed il furor divino;

            Ben talor fra le cure ed il frastuono

30        De la cittade a me vien pellegrino:

            Dissimulando io nel mio cor l'accolgo:

            L'alta presenza sua non sente il volgo.

V

                        Ma nel mistico punto allor che l'alma

            Dai pigri nodi del sopor si scote,

35        Che sol di sé s'accorge, e lieve in calma,

            Il soffio de la vita la percote;

            Né giunta a soverchiarla ancor la salma

            È de le cure e de le voglie note,

            Sì che il pensier disprigionato e solo

40        Batte per aria più celeste il volo;

VI

                        Sempre in quell'ora il veggio, e risplendenti

            Schiere ha con sè d'aerei simolacri;

            Quai muovon per lo spazio i passi lenti,

            E quai festivi ed in lor luce alacri;

45        E fan motti fra loro e parlamenti

            Misteriosi, e balli ordiscon sacri:

            Il Genio li governa; io stommi e guato

            In tanta pompa di veder beato.

VII

                        Ma se le viste cose a narrar prendo,

50        Gran parte la memoria m'abbandona,

            Ché, i terrestri pensier sopravvegnendo,

            Al primo tocco di leggier s'adona;

            E quel pur, che a fatica in carte io stendo,

            Del concetto minor troppo mi suona,

55        Ch'io sento come il più divin s'invola,

            Né può il giogo patir de la parola.

VIII

                        Lui che di tanto il guardo mio fe' degno

            Io prego or che anco al dir siemi in aiuto,

            Perch' egli è sacro e fuor del mortal regno

60        E troppo oltre il narrar quel che ho veduto.

            Ei regga l'ali mie; da lui l'ingegno

            Ne l'alta region sia sostenuto

            Tanto che per la via novella e lunga

            L'alto argomento del mio canto aggiunga.

IX

65                    L'alto argomento del mio canto io dico,

            Ben che tal volgo il chiamerà volgare

            .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

 



[[1]] E mi ferì le luci etc.

                Sonò dentro a un lume che lì era

                Tai, che mi vinse, e guardar nol potei.

Disse con grande forza Dante.

[[2]] Non era l'andar suo. Verso del grande Petrarca nel maraviglioso sonetto: Erano i capei d'oro.

[[3]] Dagli antichi fu sempre attribuita a Giunone la maestà. Leggansi i Poeti Greci e Latini.

[[4]] E se morire è forza. Il ripetere tre volte la stessa parola in fine del verso fu già usato dall'Ariosto. Dante l'adoperò colla parola Cristo e il suo grande emulatore l'usò tre volte certamente; una volta con la parola perdona nella Bassvilliana, un'altra colla parola spada in un Capitolo d'Emenda, e finalmente colla parola pare nel secondo Canto della Mascheroniana.

[[5]] Contra miglior voler voler mal pugna.

  Verso significantissimo di Dante.

[[6]] La Dea mirolle, e rise un cotal riso.

Non vorrei che alcuno trovasse troppo ardita questa espressione. Un gran Poeta de' nostri tempi non si fece scrupolo di dire: E in quel sospetto sospettò... selva selvaggia... Delle tre parti in che si parte il giorno. Il grande Alighieri si lasciò sfuggire, non so se a caso o per vezzo nel Purgatorio:

Ch'a farsi quelle per le vene vane.

E:

Che s'imbestiò nelle 'mbestiate schegge.

E nel Paradiso:

                ...perché fur negletti

Li nostri voti, e voti in alcun canto.

E:

Nel modo, che 'I seguente Canto canta.

[[7]] Il furente. In Poesia talvolta vale ispirato, e magiche val divine.

[[8]] Fe' la vendetta del superbo strupo.

Verso usato da Dante in tutt'altro significato:

Vuolsi nell’alto, là dove Michele

Fe' la vendetta del superbo strupo.

[[9]] E maritolla ai suoi nefandi Drudi.

Io protesto, che qui e dovunque parlo degli abusi. Diffatti ognun vede che qui non si toccan principj di sorte alcuna. Altronde il Vangelo istima la mansuetudine, il dispregio delle ricchezze e del comando, cose tutte, che diametralmente s'oppongono a que' principj, ai quali per conseguenza diametralmente s’opposero e s'oppongono coloro che qui sono descritti. Quindi a coloro, che vedendosi puniti, o a cui vantaggiosi essendo questi abusi, volessero al volgo e alle persone dabbene...

[[10]] Come fra 'l salcio umile e l'orno

  Quantum lenta solent inter viburna cupressi

                                      (Virg.)

[[11]]                       ...e l'alma fugge

                 Su la fronte, su gli occhi e su la bocca.

  Maravigliosamente espresse questo effetto il Petrarca in quella terzina:

   Come chi smisuratamente vole,

   Ch'ha scritto innanzi che a parlar cominci,

   Ne gli occhi, e nella (sic) fronte le parole.

[[12]]   E 'l dolce lume ancor per gli occhi sugge?

    Non fiere gli occhi suoi lo dolce lome?

  disse Dante.

[[13]]  In quale arena mai etc. Leggasi l'energico, e veramente Vesuviano Rapporto fatto da Francesco Lomonaco, Patriotta Napoletano.

[[14]] Deh vomiti l'accesa Etna etc.

  Questo sentimento fu già adoperato dal celebre Vincenzo Monti nell'Inno per la caduta dell'ultimo Tiranno di Francia, laddove dice:

   Versa, o monte, dall'arsa tua gola

   Tuoni e fiamme, onde l'empio punir.

[[15]] Questi versi scriveva io Alessandro Manzoni nell'anno quindicesimo dell'età mia, non senza compiacenza, e presunzione di nome di Poeta, i quali ora con miglior consiglio, e forse con più fine occhio rileggendo, rifiuto; ma veggendo non menzogna, non laude vile, non cosa di me indegna esservi alcuna, i sentimenti riconosco per miei; i primi come follia di giovanile ingegno, i secondi come dote di puro e virile animo.