Da Orazio, “Sermoni”, I, 3, vv. 1-56
Comune vizio de' cantori è questo,
Che di cantar pregati, infra gli amici,
Non vi s'inducon mai; non dimandati
Non fan più fine. Quel Tigellio Sardo
Fu tale. Augusto, che potea forzarlo,
Se il chiedea per l'amor del padre e il suo,
Nulla ottenea; se gli venia talento,
Da l'uova ai frutti ripetuto avria
“Evoè Bacco”, ora sul tono acuto,
Or sul più basso delle quattro corde.
Non mai tenne quest'uomo un egual modo.
Or correa per le vie siccome quello
Che fugge dal nemico, or come quello
Che di Giunone i sacri arredi porta.
Ora avea dieci servi, ora dugento:
Talor regi e tetrarchi, alte parole,
Risonava; talor: Non più che un desco
A tre piedi e di sal puro una conca
Ed una toga che m'escluda il freddo,
Sia pur succida, io vo'. Se dieci cento
Mila sesterzi avessi dati a questo
Frugal di poche voglie, in cinque giorni
Il borsello era vuoto; infino a l'alba
Vegliar soleva, e tutto il dì russava.
Nessun fu mai più da se stesso impari.
Ma qui dirammi alcuno: E tu? Non hai
Vizio nessuno? Ho i miei, più gravi forse.
Mentre un dì Menio cardeggiando stava
L'assente Novio: Ehi, l'interruppe un tale,
Non conosci te stesso? O a nova gente
Pensi dar ciance? A me fo grazia, ei disse.
Matta iniqua indulgenza e da biasmarsi:
Ne le magagne tue lippo e con gli occhi
Impiastricciati, perché mai sì acuto
Hai ne' difetti de gli amici il guardo,
Come l'aquila o il serpe d'Epidauro?
Indi è che i vizj tuoi spiano anch'essi.
È un po' stizzoso, e il naso fino offende
Di questi amici; rider fa quel tonso
Capo e la toga in fogge un po' villane
Cascante e il pie' che nel calzar tentenna.
Ma è buono a segno che un miglior non trovi,
Ma amico ei t'è, ma una divina mente
Sta sotto il vel di quella spoglia irsuta.
Infine a te rivedi il pel, se forse
T'abbia innestato alcun vizio Natura,
O pur l'abito rio; ché ne gli incolti
Campi la felce sciagurata alligna.
Or vengo a ciò, che de l'amante al guardo
Sfugge il difetto de l'amata, o piace,
Siccome d'Agna il polipo a Balbino.
Così vorrei che in amistà si errasse,
E a tal error nome onorevol dato
Virtute avesse. Qual del figlio al padre,
Tal de l'amico il vizio, ov'ei pur n'abbia,
Non fastidir dobbiam. Strabone il padre
Chiama il guercio, e piccin chi il figlio ha nano,
Come già fu quel Sisifo abortivo.
Varo appella quest'altro che a sghimbescio
Volge le gambe, e quel balbetta Scauro,
Che mal s'appoggia sul tallon viziato.
È un po' gretto costui, frugal si dica:
È inetto e alquanto vantator, leggiadro
Vuol parere a gli amici: oh ma feroce,
Libero egli è più del dover, per dritto
E per forte si tenga. È un po' focoso,
S'ascriva ai forti. Questo modo, estimo,
Gli amici unisce, e li conserva uniti.
Ma le stesse virtù noi stravolgiamo,
E diamo la vernice a schietto vaso.