IL CONTE DI CARMAGNOLA |
Alessandro Manzoni
TRAGEDIA
AL SIGNOR
CARLO CLAUDIO FAURIEL
IN ATTESTATO
DI CORDIALE E RIVERENTE AMICIZIA
L’AUTORE
Pubblicando un’opera d’immaginazione che non si
uniforma ai canoni di gusto ricevuti comunemente in Italia, e sanzionati dalla
consuetudine dei più, io non credo però di dover annoiare il lettore con una
lunga esposizione de’ princìpi che ho seguiti in questo lavoro. Alcuni scritti
recenti contengono sulla poesia drammatica idee così nuove e vere e di così
vasta applicazione, che in essi si può trovare facilmente la ragione d’un
dramma il quale, dipartendosi dalle norme prescritte dagli antichi trattatisti,
sia ciò non ostante condotto con una qualche intenzione. Oltrediché, ogni
componimento presenta a chi voglia esaminarlo gli elementi necessari a
regolarne un giudizio; e a mio avviso sono questi: quale sia l’intento
dell’autore; se questo intento sia ragionevole; se l’autore l’abbia conseguito.
Prescindere da un tale esame, e volere a tutta forza giudicare ogni lavoro
secondo regole, delle quali è controversa appunto l’universalità e la certezza,
è lo stesso che esporsi a giudicare stortamente un lavoro: il che per altro è
uno de’ più piccoli mali che possano accadere in questo mondo.
Tra i vari espedienti che gli uomini hanno
trovati per imbrogliarsi reciprocamente, uno de’ più ingegnosi è quello
d’avere, quasi per ogni argomento, due massime opposte, tenute egualmente come
infallibili. Applicando quest’uso anche ai piccoli interessi della poesia, essi
dicono a chi la esercita: siate originale, e non fate nulla di cui i grandi
poeti non vi abbiano lasciato l’esempio. Questi comandi che rendono difficile
l’arte più di quello che è già, levano anche a uno scrittore la speranza di
poter rendere ragione d’un lavoro poetico; quand’anche non ne lo ritenesse il
ridicolo a cui s’espone sempre l’apologista de’ suoi propri versi.
Ma poiché la quistione delle due unità di
tempo e di luogo può esser trattata tutta in astratto, e senza far parola della
presente qualsisia tragedia: e poiché queste unità, malgrado gli argomenti a
mio credere inespugnabili che furono addotti contro di esse, sono ancora da
moltissimi tenute per condizioni indispensabili del dramma; mi giova di
riprenderne brevemente l’esame. Mi studierò per altro di fare piuttosto una
picciola appendice, che una ripetizione degli scritti che le hanno già
combattute.
I. L’unità di luogo, e la così detta unità
di tempo, non sono regole fondate nella ragione dell’arte, né connaturali
all’indole del poema drammatico; ma sono venute da una autorità non bene
intesa, e da princìpi arbitrari: ciò risulta evidente a chi osservi la genesi
di esse. L’unità di luogo è nata dal fatto che la più parte delle tragedie
greche imitano un’azione la quale si compie in un sol luogo, e dalla idea che
il teatro greco sia un esemplare perpetuo ed esclusivo di perfezione
drammatica. L’unità di tempo ebbe origine da un passo di Aristotele,([1])
il quale, come benissimo osserva il signor Schlegel,([2])
non contiene un precetto, ma la semplice notizia di un fatto; cioè della
pratica più generale del teatro greco. Che se Aristotele avesse realmente
inteso di stabilire un canone dell’arte, questa sua frase avrebbe il doppio
inconveniente di non esprimere un’idea precisa, e di non essere accompagnata da
alcun ragionamento.
Quando poi vennero quelli che, non badando
all’autorità, domandarono la ragione di queste regole, i fautori di esse non
seppero trovarne che una, ed è: che, assistendo lo spettatore realmente alla
rappresentazione d’un’azione, diventa per lui inverisimile che le diverse parti
di questa avvengano in diversi luoghi, e che essa duri per un lungo tempo,
mentre lui sa di non essersi mosso di luogo, e d’avere impiegate solo poche ore
ad osservarla. Questa ragione è evidentemente fondata su un falso supposto,
cioè che lo spettatore sia lì come parte dell’azione; quando è, per così dire,
una mente estrinseca che la contempla. La verosimiglianza non deve nascere in
lui dalle relazioni dell’azione col suo modo attuale di essere, ma da quelle che
le varie parti dell’azione hanno tra di loro. Quando si considera che lo
spettatore è fuori dell’azione, l’argomento in favore delle unità svanisce.
II. Queste regole non sono in analogia con
gli altri princìpi dell’arte ricevuti da quegli stessi che le credono
necessarie. Infatti s’ammettono nella tragedia come verisimili molte cose che
non lo sarebbero se ad esse s’applicasse il principio sul quale si stabilisce
la necessità delle due unità; il principio, cioè, che nel dramma rappresentato
siano verosimili que’ fatti soli che s’accordano con la presenza dello
spettatore, dimanieraché possano parergli fatti reali. Se uno dicesse, per
esempio: que’ due personaggi che parlano tra loro di cose segretissime, come se
credessero d’esser soli, distruggono ogni illusione, perché io sento d’esser
loro visibilmente presente, e li veggo esposti agli occhi d’una moltitudine;
gli farebbe precisamente la stessa obiezione che i critici fanno alle tragedie
dove sono trascurate le due unità. A quest’uomo non si può dare che una
risposta: la platea non entra nel dramma: e questa risposta vale anche per le
due unità. Chi cercasse il motivo per cui non si sia esteso il falso principio
anche a questi casi, e non si sia imposto all’arte anche questo giogo, io credo
che non ne troverebbe altro, se non che per questi casi non ci era un periodo
d’Aristotele.
III. Se poi queste regole si confrontano
con l’esperienza, la gran prova che non sono necessarie alla illusione è, che
il popolo si trova nello stato d’illusione voluta dall’arte, assistendo ogni
giorno e in tutti i paesi a rappresentazioni dove esse non sono osservate; e il
popolo in questa materia è il miglior testimonio. Poiché non conoscendo esso la
distinzione dei diversi generi d’illusione, e non avendo alcuna idea teorica del
verosimile dell’arte definito da alcuni critici pensatori; niuna idea astratta,
niun precedente giudizio potrebbe fargli ricevere un’impressione di
verosimiglianza da cose che non fossero naturalmente atte a produrla. Se i
cangiamenti di scena distruggessero l’illusione, essa dovrebbe certamente
essere più presto distrutta nel popolo che nelle persone colte, le quali
piegano più facilmente la loro fantasia a secondar l’intenzioni dell’artista.
Se dai teatri popolari passiamo ad
esaminare qual caso si sia fatto di queste regole ne’ teatri colti delle
diverse nazioni, troviamo che nel greco non sono mai state stabilite per
principio, e che s’è fatto contro ciò che esse prescrivono, ogni volta che
l’argomento lo ha richiesto; che i poeti drammatici inglesi e spagnoli più
celebri, quelli che sono riguardati come i poeti nazionali, non le hanno
conosciute, o non se ne sono curati; che i tedeschi le rifiutano per
riflessione. Nel teatro francese vennero introdotte a stento; e l’unità di
luogo in ispecie incontrò ostacoli da parte de’ comici stessi, quando vi fu
messa in pratica da Mairet con la sua Sofonisba, che si dice la prima tragedia
regolare francese: quasi fosse un destino che la regolarità deva sempre
cominciare da una Sofonisba noiosa. In Italia queste regole sono state seguite
come leggi, e senza discussione, che io sappia, e quindi probabilmente senza
esame.
IV. Per colmo poi di bizzarria, è accaduto
che quegli stessi che le hanno ricevute non le osservano esattamente in fatto.
Perché, senza parlare di qualche violazione dell’unità di luogo che si trova in
alcune tragedie italiane e francesi, di quelle chiamate esclusivamente regolari,
è noto che l’unità di tempo non è osservata né pretesa nel suo stretto
senso, cioè nell’uguaglianza del tempo fittizio attribuito all’azione col tempo
reale che essa occupa nella rappresentazione. Appena in tutto il teatro
francese si citano tre o quattro tragedie che adempiscano questa condizione. Comme
il est très-rare (dice un critico francese) de trouver des sujets qui puissent
être resserrés dans des bornes si étroites, on a élargi la règle, et on l’a
étendue jusqu’à vingt-quatre heures.([3])
Con una tale transazione i trattatisti non hanno fatto altro che
riconoscere l’irragionevolezza della regola, e si sono messi in un campo dove
non possono sostenersi in nessuna maniera. Giacché si potrà ben discutere con
chi è di parere che l’azione non deva oltrepassare il tempo materiale della
rappresentazione; ma chi ha abbandonato questo punto, con qual ragione
pretenderà che uno si tenga in un limite fissato così arbitrariamente? Cosa si
può mai dire a un critico, il quale crede che si possano allargare le regole?
Accade qui, come in molte altre cose, che sia più ragionevole chiedere il molto
che il poco. Ci sono ragioni più che sufficienti per esimersi da queste regole;
ma non se ne può trovare una per ottenere una facilitazione a chi le voglia
seguire. Il serait donc à souhaiter (dice un altro critico) que la
durée fictive de l’action pût se borner au temps du spectacle; mais c’est être
ennemi des arts, et du plaisir qu’ils causent, que de leur imposer des lois
qu’ils ne peuvent suivre, sans se priver de leurs ressources les plus fécondes,
et de leurs plus rares beautés. Il est des
licences heureuses, dont le Public convient tacitement avec les poètes, à
condition qu’ils les employent à lui plaire, et à le toucher; et de ce nombre
est l’extension feinte et supposée du temps réel de l’action théâtrale.([4]) Ma le licenze felici sono parole
senza senso in letteratura; sono di quelle molte espressioni che rappresentano
un’idea chiara nel loro significato proprio e comune, e che usate qui
metaforicamente rinchiudono una contradizione. Si chiama ordinariamente licenza
ciò che si fa contro le regole prescritte dagli uomini; e si danno in
questo senso licenze felici, perché tali regole possono essere, e sono spesso,
più generali di quello che la natura delle cose richieda. Si è trasportata
questa espressione nella grammatica, e vi sta bene; perché le regole
grammaticali essendo di convenzione, e per conseguenza alterabili, può uno
scrittore, violando alcuna di queste, spiegarsi meglio; ma nelle regole
intrinseche alle arti del bello la cosa sta altrimenti. Esse devono essere
fondate sulla natura, necessarie, immutabili, indipendenti dalla volontà de’
critici, trovate, non fatte; e quindi la trasgressione di esse non può esser
altro che infelice. — Ma perché queste riflessioni su due parole? Perché nelle
due parole appunto sta l’errore. Quando s’abbraccia un’opinione storta, si usa
per lo più spiegarla con frasi metaforiche e ambigue, vere in un senso e false
in un altro; perché la frase chiara svelerebbe la contradizione. E a voler
mettere in chiaro l’erroneità della opinione, bisogna indicare dove sta
l’equivoco.
V. Finalmente queste regole impediscono
molte bellezze, e producono molti inconvenienti.
Non discenderò a dimostrare con esempi la
prima parte di questa proposizione: ciò è stato fatto egregiamente più di una
volta. E la cosa resulta tanto evidentemente dalla più leggiera osservazione
d’alcune tragedie inglesi e tedesche, che i sostenitori stessi delle regole
sono costretti a riconoscerla. Confessano essi che il non astringersi ai limiti
reali di tempo e di luogo lascia il campo a una imitazione ben altrimenti varia
e forte: non negano le bellezze ottenute a scapito delle regole; ma affermano
che bisogna rinunziare a quelle bellezze, giacché per ottenerle bisogna cadere
nell’inverosimile. Ora, ammettendo l’obiezione, è chiaro che
l’inverosimiglianza tanto temuta non si farebbe sentire che alla
rappresentazione scenica; e però la tragedia da recitarsi sarebbe di sua natura
incapace di quel grado di perfezione, a cui può arrivare la tragedia, quando
non si consideri che come un poema in dialogo, fatto soltanto per la lettura,
del pari che il narrativo. In tal caso, chi vuol cavare dalla poesia ciò che
essa può dare, dovrebbe preferire sempre questo secondo genere di tragedia: e
nell’alternativa di sacrificare o la rappresentazione materiale, o ciò che
forma l’essenza del bello poetico, chi potrebbe mai stare in dubbio? Certo, meno
d’ogni altro quei critici i quali sono sempre di parere che le tragedie greche
non siano mai state superate dai moderni, e che producano il sommo effetto
poetico, quantunque non servano più che alla lettura. Non ho inteso con ciò di
concedere che i drammi senza le unità riescano inverosimili alla recita: ma da
una conseguenza ho voluto far sentire il valore del principio.
Gl’inconvenienti che nascono
dall’astringersi alle due unità, e specialmente a quella di luogo, sono
ugualmente confessati dai critici. Anzi non par credibile che le
inverosimiglianze esistenti nei drammi orditi secondo queste regole, siano così
tranquillamente tollerate da coloro che vogliono le regole a solo fine
d’ottenere la verosimiglianza. Cito un solo esempio di questa loro rassegnazione:
Dans Cinna il faut que la conjuration se fasse dans le cabinet d’Emilie, et
qu’Auguste vienne dans ce mêne cabinet confondre Cinna, et lui pardonner: cela
est peu naturel. La sconvenienza è assai bene sentita, e sinceramente
confessata. Ma la giustificazione è singolare. Eccola: Cependant il le faut.([5])
Forse si è qui eccessivamente ciarlato su
una questione già così bene sciolta, e che a molti può parer troppo frivola.
Rammenterò a questi ciò che disse molto sensatamente in un caso consimile un
noto scrittore: Il n’y a pas grand mal à se tromper en tout cela: mais il
vaut encore mieux ne s’y point tromper, s’il est possible.([6])
E del rimanente, credo che una tale questione abbia il suo lato importante.
L’errore solo è frivolo in ogni senso. Tutto ciò che ha relazione con l’arti
della parola, e coi diversi modi d’influire sulle idee e sugli affetti degli
uomini, è legato di sua natura con oggetti gravissimi. L’arte drammatica si
trova presso tutti i popoli civilizzati: essa è considerata da alcuni come un
mezzo potente di miglioramento, da altri come un mezzo potente di corruttela,
da nessuno come una cosa indifferente. Ed è certo che tutto ciò che tende a
ravvicinarla o ad allontanarla dal suo tipo di verità e di perfezione, deve
alterare, dirigere, aumentare, o diminuire la sua influenza.
Quest’ultime riflessioni conducono a una
questione più volte discussa, ora quasi dimenticata, ma che io credo tutt’altro
che sciolta; ed è: se la poesia drammatica sia utile o dannosa. So che ai
nostri giorni sembra pedanteria il conservare alcun dubbio sopra di ciò, dacché
il Pubblico di tutte le nazioni colte ha sentenziato col fatto in favore del
teatro. Mi sembra però che ci voglia molto coraggio per sottoscriversi senza
esame a una sentenza contro la quale sussistono le proteste di Nicole, di
Bossuet, e di G. G. Rousseau, il di cui nome unito a questi viene qui ad avere
una autorità singolare. Essi hanno unanimemente inteso di stabilire due punti:
uno che i drammi da loro conosciuti ed esaminati sono immorali: l’altro che
ogni dramma deva esserlo, sotto pena di riuscire freddo, e quindi vizioso
secondo l’arte; e che in conseguenza la poesia drammatica sia una di quelle
cose che si devono abbandonare, quantunque producano dei piaceri, perché
essenzialmente dannose. Convenendo interamente sui vizi del sistema drammatico
giudicato dagli scrittori nominati qui sopra, oso credere illegittima la conseguenza
che ne hanno dedotta contro la poesia drammatica in generale. Mi pare che siano
stati tratti in errore dal non aver supposto possibile altro sistema che quello
seguito in Francia. Se ne può dare, e se ne dà un altro suscettibile del più
alto grado d’interesse e immune dagl’inconvenienti di quello: un sistema
conducente allo scopo morale, ben lungi dall’essergli contrario. Al presente
saggio di componimento drammatico, m’ero proposto d’unire un discorso su tale
argomento. Ma costretto da alcune circostanze a rimettere questo lavoro ad
altro tempo, mi fo lecito d’annunziarlo; perché mi pare cosa sconveniente il
manifestare una opinione contraria all’opinione ragionata d’uomini di
prim’ordine, senza addurre le proprie ragioni, o senza prometterle almeno([7]).
Mi rimane a render conto del Coro
introdotto una volta in questa tragedia, il quale, per non essere nominati
personaggi che lo compongano, può parere un capriccio, o un enimma. Non posso
meglio spiegarne l’intenzione, che riportando in parte ciò che il signor
Schlegel ha detto dei Cori greci: Il Coro è da riguardarsi come la
personificazione de’ pensieri morali che l’azione ispira, come l’organo de’
sentimenti del poeta che parla in nome dell’intera umanità. E poco sotto: Vollero
i greci che in ogni dramma il Coro... fosse prima di tutto il
rappresentante del genio nazionale, e poi il difensore della causa dell’umanità:
il Coro era insomma lo spettatore ideale; esso temperava l’impressioni violente
e dolorose d’un azione qualche volta troppo vicina al vero; e riverberando, per
così dire, allo spettatore reale le sue proprie emozioni, gliele rimandava
raddolcite dalla vaghezza d’un’espressione lirica e armonica, e lo conduceva
così nel campo più tranquillo della contemplazione.([8])
Ora m’è parso che, se i Cori dei greci non sono combinabili col sistema
tragico moderno, si possa però ottenere in parte il loro fine, e rinnovarne lo
spirito, inserendo degli squarci lirici composti sull’idea di que’ Cori. Se
l’essere questi indipendenti dall’azione e non applicati a personaggi li priva
d’una gran parte dell’effetto che producevano quelli, può però, a mio credere,
renderli suscettibili d’uno slancio più lirico, più variato e più fantastico.
Hanno inoltre sugli antichi il vantaggio d’essere senza inconvenienti: non
essendo legati con l’orditura dell’azione, non saranno mai cagione che questa
si alteri e si scomponga per farceli stare. Hanno finalmente un altro vantaggio
per l’arte, in quanto, riserbando al poeta un cantuccio dove egli possa parlare
in persona propria, gli diminuiranno la tentazione d’introdursi nell’azione, e
di prestare ai personaggi i suoi propri sentimenti: difetto dei più
notati negli scrittori drammatici. Senza indagare se questi Cori potessero mai
essere in qualche modo adattati alla recita, io propongo soltanto che siano
destinati alla lettura: e prego il lettore d’esaminare questo progetto
indipendentemente dal saggio che qui se ne presenta; perché il progetto mi
sembra potere essere atto a dare all’arte più importanza e perfezionamento,
somministrandole un mezzo più diretto, più certo e più determinato d’influenza
morale.
Premetto alla tragedia alcune notizie
storiche sul personaggio e sui fatti che sono l’argomento di essa, pensando che
chiunque si risolve a leggere un componimento misto d’invenzione e di verità
storica, ami di potere, senza lunghe ricerche, discernere ciò che vi è
conservato di avvenimenti reali.
Francesco di Bartolommeo Bussone,
contadino, nacque in Carmagnola, donde prese il nome di guerra che gli è
rimasto nella storia. Non si sa di certo in qual anno nascesse: il Tenivelli,
che ne scrisse la vita nella Biografia Piemontese, crede che sia stato
verso il 1390. Mentre ancor giovinetto pascolava delle pecore, l’aria fiera del
suo volto fu osservata da un soldato di ventura, che lo invitò a venir con lui
alla guerra. Egli lo seguì volentieri, e si mise con esso al soldo di Facino
Cane, celebre condottiero.
Qui la storia del Carmagnola comincia ad
esser legata con quella del suo tempo: io non toccherò di questa se non i fatti
principali, e particolarmente quelli che sono accennati o rappresentati nella
tragedia. Alcuni di essi sono raccontati così diversamente dagli storici, che è
impossibile formarsene e darne una opinione, certa e unica. Tra le relazioni
spesso varie, e talvolta opposte, ho scelto quelle che mi sono parse più
verosimili, o sulle quali gli scrittori vanno più d’accordo.
Alla morte di Giovanni Maria Visconti Duca
di Milano (1412), il di lui fratello Filippo Maria Conte di Pavia era rimasto
erede, in titolo, del Ducato. Ma questo Stato, ingrandito dal loro padre
Giovanni Galeazzo, s’era sfasciato nella minorità di Giovanni, pessimamente
tutelata, e nel suo debole e crudele governo. Molte città s’erano ribellate,
alcune erano tornate in potere de’ loro antichi signori, d’altre s’erano fatti
padroni i condottieri stessi delle truppe ducali. Facino Cane uno di questi, il
quale di Tortona, Vercelli ed altre città s’era formato un piccolo principato,
morì in Pavia lo stesso giorno che Giovanni Maria fu ucciso da’ congiurati in
Milano. Filippo sposò Beatrice Tenda vedova di Facino, e con questo mezzo si
trovò padrone delle città già possedute da lui, e de’ suoi militi.
Era tra essi il Carmagnola, e ci aveva già
un comando. Questo esercito corse col nuovo Duca sopra Milano, ne scacciò il
figlio naturale di Barnabò Visconti, Astorre, il quale se n’era impadronito, e
lo sforzò a ritirarsi in Monza, dove assediato, rimase ucciso.
Il Carmagnola si segnalò tanto in questa
impresa, che fu nominato condottiero dal Duca.
Tutti gli storici riguardano il Carmagnola
come artefice della potenza di Filippo. Fu il Carmagnola che gli riacquistò in
poco tempo Piacenza, Brescia, Bergamo, e altre città. Alcune ritornarono allo
Stato per vendita o per semplice cessione di quelli che le avevano occupate: il
terrore che già ispirava il nome del nuovo condottiero sarà probabilmente stato
il motivo di queste transazioni. Egli espugnò inoltre Genova, e la riunì agli
stati del Duca. E questo, che nel 1412 era senza potere e come prigioniero in
Pavia, possedeva nel 1424 venti città «acquistate» a, per servirmi delle parole
di Pietro Verri, «colle nozze della infelice Duchessa,([9])
e colla fede e col valore del Conte Francesco». Venne il Carmagnola creato dal
Duca conte di Castelnovo; sposò Antonietta Visconti parente di esso, non si sa
in qual grado; e si fabbricò in Milano il palazzo chiamato ancora del Broletto.
L’alta fama dell’esimio condottiero,
l’entusiasmo de’ soldati per lui, il suo carattere fermo e altiero, la
grandezza forse de suoi servizi, gli alienarono l’animo del Duca. I nemici del
Conte, tra i quali il Bigli, storico contemporaneo, cita Zanino Riccio e
Oldrado Lampugnano, fomentarono i sospetti e l’avversione del loro signore. Il
Conte fu spedito governatore a Genova, e levato così dalla direzione della
milizia. Aveva conservato il comando di trecento cavalli; il Duca gli chiese
per lettere che lo rinunziasse. Il Carmagnola rispose pregandolo che non
volesse spogliare dell’armi un uomo nutrito tra l’armi: e ben s’accorse, dice
il Bigli,([10])
che questo era un consiglio de’ suoi nemici, i quali confidavano di poter tutto
osare, quando lo avessero ridotto a condizione privata. Non ottenendo risposta
né alle lagnanze, né alla domanda espressa d’essere licenziato dal servizio, il
Conte si risolvette di recarsi in persona a parlare col principe. Questo
dimorava in Abbiategrasso. Quando il Carmagnola si presentò per entrare nel
castello, si sentì con sorpresa dire che aspettasse. Fattosi annunziare al
Duca, ebbe in risposta ch’era impedito, e che parlasse con Riccio. Insistette,
dicendo d’aver poche cose e da comunicarsi al Duca stesso; e gli fu replicata
la prima risposta. Allora rivolto a Filippo, che lo guardava da una
balestriera, gli rimproverò la sua ingratitudine, e la sua perfidia, e giurò
che presto si farebbe desiderare da chi non voleva allora ascoltarlo: diede
volta al cavallo, e partì coi pochi compagni che aveva condotti con sé,
inseguito invano da Oldrado, il quale, al dir del Bigli, credette meglio di non
arrivarlo.
Andò il Carmagnola in Piemonte, dove
abboccatosi con Amedeo duca di Savoia suo natural principe, fece di tutto per
inimicarlo a Filippo; poi attraversando la Savoia, la Svizzera e il Tirolo, si
portò a Treviso. Filippo confiscò i beni assai ragguardevoli che il Carmagnola
aveva nel Milanese.([11])
Giunto il Carmagnola a Venezia il giorno
23 di febbraio del 1425, vi fu accolto con distinzione, gli fu dato alloggio
dal pubblico nel Patriarcato, e concessa licenza di portar armi a lui e al suo
seguito. Due giorni dopo, fu preso al servizio della repubblica con 300 lance.([12])
I Fiorentini, impegnati allora in una
guerra infelice contro il Duca Filippo, chiedevano l’alleanza dei Veneziani: il
Duca instava presso di essi perché volessero rimanere in pace con lui. In
questo frattempo un Giovanni Liprando, fuoruscito milanese, pattuì col Duca
d’ammazzare il Carmagnola, purché gli fosse concesso di ritornare a casa. La
trama fu sventata, e levò ai Veneziani ogni dubbio che il Conte fosse mai più
per riconciliarsi col suo antico principe. Il Bigli attribuisce in gran parte a
questa scoperta la risoluzione dei Veneziani per la guerra. Il doge propose in
senato che si consultasse il Carmagnola: questo consigliò la guerra: il doge
opinò pure caldamente per essa: e fu risoluta. La lega coi Fiorentini e con
altri Stati d’Italia fu proclamata in Venezia il giorno 27 gennaio del 1426. Il
giorno 11 del mese seguente il Carmagnola fu creato capitano generale delle
genti di terra della repubblica; e il 15 gli fu dato dal doge il bastone e lo
stendardo di capitano, all’altare di san Marco.
Trascorrerò più rapidamente che mi sarà
possibile sugli avvenimenti di questa guerra, la quale fu interrotta da due
paci, fermandomi solo sui fatti che hanno somministrato materiali alla
tragedia.
«Ridussesi la guerra in Lombardia, dove fu
governata dal Carmagnola virtuosamente, ed in pochi mesi tolse molte terre al
Duca insieme con la città di Brescia; la quale espugnazione in quelli tempi, e
secondo quelle guerre, fu tenuta mirabile.»([13])
Papa Martino V s’intromise; e sul finire dello stesso anno fu conclusa la pace,
nella quale Filippo cedette ai Veneziani Brescia col suo territorio.
Nella seconda guerra (1427) il Carmagnola
mise per la prima volta in uso un suo ritrovato di fortificare il campo con un
doppio recinto di carri, sopra ognuno de’ quali stavano tre balestrieri. Dopo
molti piccoli fatti, e dopo la presa d’alcune terre, s’accampò sotto il
castello di Maclodio, ch’era difeso da una guarnigione duchesca.
Comandavano nel campo del Duca quattro
insigni condottieri, Angelo della Pergola, Guido Torello, Francesco Sforza, e
Nicolò Piccinino.([14])
Essendo nata discordia tra di loro, il giovine Filippo vi mandò con pieni
poteri Carlo Malatesti pesarese, di nobilissima famiglia; ma, dice il Bigli,
alla nobiltà mancava l’ingegno. Questo storico osserva che il supremo comando
dato al Malatesti non bastò a levar di mezzo la rivalità de’ condottieri;
mentre nel campo veneto a nessuno repugnava d’ubbidire al Carmagnola, benché
avesse sotto di sé condottieri celebri, e principi, come Giovanfrancesco
Gonzaga, signore di Mantova, Antonio Manfredi, di Faenza, e Giovanni Varano, di
Camerino.
Il Carmagnola seppe conoscere il carattere
del generale nemico, e cavarne profitto. Attaccò Maclodio, in vicinanza del
quale era il campo duchesco. I due eserciti si trovarono divisi da un terreno
paludoso, in mezzo al quale passava una strada elevata a guisa d’argine: e tra
le paludi s’alzavano qua e là delle macchie poste su un terreno più sodo: il
Conte mise in queste degli agguati, e si diede a provocare il nemico. Nel campo
duchesco i pareri erano vari: i racconti degli storici lo sono poco meno. Ma
l’opinione che pare più comune, è che il Pergola e il Torello, sospettando
d’agguati, opinassero di non dar battaglia: che lo Sforza e il Piccinino la
volessero a ogni costo. Carlo fu del parere degli ultimi; la diede, e fu
pienamente sconfitto. Appena il suo esercito ebbe affrontato il nemico, fu
assalito a destra e a sinistra dall’imboscate, e gli furono fatti, secondo
alcuni, cinque, secondo altri, otto mila prigionieri. Il comandante fu preso
anche lui; gli altri quattro, chi in una maniera, chi nell’altra, si
sottrassero.
Un figlio del Pergola si trovò tra i
prigionieri.
La notte dopo la battaglia, i soldati
vittoriosi lasciarono in libertà quasi tutti i prigionieri. I commissari
veneti, che seguivano l’esercito, ne fecero delle lagnanze col Conte; il quale
domandò a qualcheduno de’ suoi cosa fosse avvenuto de’ prigionieri; ed
essendogli risposto che tutti erano stati messi in libertà, meno un
quattrocento, ordinò che anche questi fossero rilasciati, secondo l’uso.([15])
Uno storico che non solo scriveva in que’
tempi, ma aveva militato in quelle guerre, Andrea Redusio, è il solo, per
quanto io sappia, che abbia indicata la vera ragione di quest’uso militare
d’allora. Egli l’attribuisce al timore che i soldati avevano di veder presto
finite le guerre, e di sentirsi gridare dai popoli: alla zappa i soldati.([16])
I Signori veneti furono punti e
insospettiti dal procedere del Conte; ma senza giusta ragione. Infatti,
prendendo al soldo un condottiero, dovevano aspettarsi che farebbe la guerra
secondo le leggi della guerra comunemente seguite; e non potevano senza indiscrezione
pretendere che prendesse il rischioso impegno d’opporsi a un’usanza così utile
e cara ai soldati, esponendosi a venire in odio a tutta la milizia, e a
privarsi d’ogni appoggio. Avevano bensì ragione di pretender da lui la fedeltà
e lo zelo, ma non una devozione illimitata: questa s’accorda solamente a una
causa che si abbraccia per entusiasmo o per dovere. Non trovo però che dopo le
prime osservazioni de’ commissari, la Signoria abbia fatte col Carmagnola altre
lagnanze su questo fatto: non si parla anzi che d’onori e di ricompense.
Nell’aprile del 1428 fu conclusa tra i
Veneziani e il Duca un’altra di quelle solite paci.
La guerra, risorta nel 1431, non ebbe per
il Conte così prosperi cominciamenti come le due passate. Il castellano che
comandava in Soncino per il Duca, si finse disposto a cedere per tradimento
quel castello al Carmagnola. Questo ci andò con una parte dell’esercito, e
cadde in un agguato, dove lasciò prigionieri, secondo il Bigli, secento cavalli
e molti fanti, salvandosi lui a stento.
Pochi giorni dopo, Nicola Trevisani,
capitano dell’armata veneta sul Po, venne alle prese coi galeoni del Duca. Il
Piccinino e lo Sforza, facendo le viste di voler attaccare il Carmagnola, lo
rattennero dal venire in aiuto all’armata veneta, e intanto imbarcarono gran
parte delle loro genti di terra sulle navi del Duca. Quando il Carmagnola
s’avvide dell’inganno, e corse per sostenere i suoi, la battaglia era vicino
all’altra riva. L’armata veneta fu sconfitta, e il capitano di essa fuggì in
una barchetta.
Gli storici veneti accusano qui il Carmagnola di
tradimento. Gli storici che non hanno preso il tristo assunto di giustificare i
suoi uccisori, non gli danno altra taccia che d’essersi lasciato ingannare da
uno stratagemma. Par certo che la condotta del Trevisani fosse imprudente da
principio, e irresoluta nella battaglia.([17])
Fu bandito, e gli furono confiscati i beni; «e al capitano generale
(Carmagnola), per imputazione di non aver dato favore all’armata, con lettere
del Senato fu scritta una lieve riprensione».([18])
Il giorno 18 d’ottobre, il Carmagnola
diede ordine al Cavalcabò, uno de’ suoi condottieri, di sorprender Cremona.
Questo riuscì ad occuparne una parte; ma essendosi i cittadini levati a stormo,
dovette abbandonare l’impresa, e ritornare al campo.
Il Carmagnola non credette a proposito
d’andar col grosso dell’esercito a sostenere quest’impresa; e mi par cosa
strana che ciò gli sia stato imputato a tradimento dalla Signoria. La
resistenza, probabilmente inaspettata, del popolo spiega benissimo perché il
generale non si sia ostinato a combattere una città che sperava d’occupare
tranquillamente per sorpresa: il tradimento non ispiega nulla; giacché non si
sa vedere perché il Carmagnola avrebbe ordinata la spedizione, il cattivo esito
della quale non fu d’alcun vantaggio per il nemico.
Ma la Signoria, risoluta, secondo
l’espressione del Navagero, di liberarsi del Carmagnola, cercò in qual maniera
potesse averlo nelle mani disarmato; e non ne trovò una più pronta né più
sicura, che d’invitarlo a Venezia col pretesto di consultarlo sulla pace. Ci
andò senza sospetto, e in tutto il viaggio furono fatti onori straordinari a
lui, e al Gonzaga che l’accompagnava. Tutti gli storici, anche veneziani, sono
d’accordo in questo; pare anzi che raccontino con un sentimento di compiacenza
questo procedere, come un bel tratto di ciò che altre volte si chiamava
prudenza e virtù politica. Arrivato a Venezia, «gli furono mandati incontro
otto gentiluomini, avanti ch’egli smontasse a casa sua, che l’accompagnarono a
San Marco».([19])
Entrato che fu nel palazzo ducale, si rimandarono le sue genti, dicendo loro
che il Conte si fermerebbe a lungo col doge. Fu arrestato nel palazzo, e
condotto in prigione. Fu esaminato da una Giunta, alla quale il Navagero dà
nome di Collegio secreto; e condannato a morte, fu, il giorno 5 di maggio del
1432, condotto con le sbarre alla bocca tra le due colonne della Piazzetta, e
decapitato. La moglie e una figlia del Conte (o due figlie, secondo alcuni) si
trovavano allora in Venezia.
Nulla d’autentico si ha sull’innocenza o
sulla reità di questo grand’uomo. Era da aspettarsi che gli storici veneziani,
che volevano scrivere e viver tranquilli, l’avrebbero trovato colpevole. Essi esprimono
quest’opinione come una cosa di fatto, e con quella negligenza che è naturale a
chi parla in favore della forza. Senza perdersi in congetture, asseriscono che
il Carmagnola fu convinto coi tormenti, coi testimoni e con le sue proprie
lettere. Di questi tre mezzi di prova il solo che si sappia di certo essere
stato adoprato è l’infamissimo primo, quello che non prova nulla.
Ma oltre la mancanza assoluta di
testimonianze dirette storiche, che confermino la reità del Carmagnola, molte
riflessioni la fanno parere improbabile. Né i Veneziani hanno rivelato mai
quali fossero le condizioni del tradimento pattuito; né da altra parte s’è
saputo mai nulla d’un tale trattato. Quest’accusa è isolata nella storia, e non
si appoggia a nulla, se non a qualche svantaggio di guerra, il quale anche si
spiega senza ricorrere a questa supposizione: e sarebbe una legge stravagante
non meno che atroce quella che volesse imputato a perfidia del generale ogni
evento infelice. Si badi inoltre all’essere il Conte andato a Venezia senza
esitazione, senza riguardi e senza precauzioni: si badi all’aver sempre la
Signoria fatto un mistero di questo fatto, malgrado la taccia d’ingratitudine e
d’ingiustizia che gli si dava in Italia; si badi alla crudele precauzione di
mandare il Conte al supplizio con le sbarre alla bocca, precauzione tanto più
da notarsi, in quanto s’adoprava con uno che non era veneziano, e non poteva
aver partigiani nel popolo; si badi finalmente al carattere noto del Carmagnola
e del Duca di Milano, e si vedrà che l’uno e l’altro ripugnano alla
supposizione d’un trattato di questa sorte tra di loro. Una riconciliazione
segreta con un uomo che gli era stato orribilmente ingrato, e che aveva tentato
di farlo ammazzare; un patto di far la guerra da stracco, anzi di lasciarsi
battere, non s’accordano con l’animo impetuoso, attivo, avido di gloria del
Carmagnola. Il Duca non era perdonatore; e il Carmagnola che lo conosceva
meglio d’ogni altro, non avrebbe mai potuto credere a una riconciliazione
stabile e sicura con lui. Il disegno di ritornare con Filippo offeso non poteva
mai venire in mente a quell’uomo che aveva esperimentate le retribuzioni di
Filippo beneficato.
Ho cercato se negli storici contemporanei
si trovasse qualche traccia d’un’opinione pubblica, diversa da quella che la
Signoria veneta ha voluto far prevalere; ed ecco ciò che n’ho potuto
raccogliere.
Un cronista di Bologna, dopo aver raccontata la fine
del Carmagnola, soggiunge: «Dissesi che questo hanno fatto perché egli non
faceva lealmente per loro la guerra contra il Duca di Milano, come egli doveva,
e che s’intendeva col Duca. Altri dicono che, come vedevano tutto lo Stato loro
posto nelle mani del Conte, capitano d’un tanto esercito, parendo loro di stare
a gran pericolo, e non sapendo con qual miglior modo potessero deporlo, han
trovato cagione di tradimento contra di lui. Iddio voglia che abbiano fatto
saviamente; perché par pure, che per questo la Signoria abbia molto diminuita
la sua possanza, ed esaltata quella del Duca di Milano.»([20])
E il Poggio: «Certuni dicono che non abbia meritata la
morte con delitto di sorte veruna; ma che ne fosse cagione la sua superbia,
insultante verso i cittadini veneti, e odiosa a tutti.»([21])
Il Corio poi, scrittore non contemporaneo,
ma di poco posteriore, dice così: «Gli tolsero il valsente di più di trecento
migliaia di ducati, i quali furono piuttosto cagione della sua morte che
altro.»
Senza dar molto peso a quest’ultima
congettura, mi pare che le prime due, cioè il timore e le vendette private
dell’amor proprio, bastino, per que’ tempi, a dare di questo avvenimento una
spiegazione probabile, e certo più probabile di un tradimento contrario
all’indole e all’interesse dell’uomo a cui fu imputato.
Tra quegli storici moderni, che non
adottando ciecamente le tradizioni antiche, le hanno esaminate con un libero
giudizio, uno solo, ch’io sappia, si mostrò persuaso affatto che il Carmagnola
sia stato colpito da una giusta sentenza. Questo è il Conte Verri; ma basta
leggere il passo della sua Storia, che si riferisce a questo avvenimento, per
esser subito convinti che la sua opinione è venuta dal non aver lui voluto
informarsi esattamente de’ fatti sui quali andava stabilita. Ecco le sue
parole: «O foss’egli allontanato, per una ripugnanza dell’animo, dal portare
così la distruzione ad un Principe, dal quale aveva un tempo ottenuto gli
onori, e sotto del quale aveva acquistata la celebrità; ovvero foss’egli ancora
nella fiducia, che umiliato il Duca venisse a fargli proposizioni di
accomodamento, e gli sacrificasse i meschini nemici, che avevano ardito di
nuocergli, cioè i vilissimi cortigiani suoi; o qualunque ne fosse il motivo, il
Conte Francesco Carmagnola, malgrado il dissenso dei Procuratori veneti, e
malgrado la decisa loro opposizione, volle rimandare disarmati bensì, ma liberi
al Duca tutti i generali ed i soldati numerosissimi, che aveva fatti
prigionieri nella vittoria del giorno 11 di ottobre 1427... Il seguito delle
sue imprese fece sempre più palese il suo animo; poiché trascurò tutte le
occasioni, e lentamente progredendo lasciò sempre tempo ai ducali di
sostenersi. In somma giunse a tale evidenza la cattiva fede del Conte Francesco
Carmagnola, che, venne, dopo formale processo, decapitato in Venezia... come
reo di alto tradimento.» Fa stupore il vedere addotto in prova della reità d’un
uomo in giudizio segreto di que’ tempi, da uno storico che ne ha tanto
conosciuta l’iniquità, e che tanto si studia di farla conoscere a’ suoi
lettori. In quanto al fatto de’ prigionieri, ognuno vede gli errori della
relazione che ho trascritta. Il Conte di Carmagnola non rimandò liberi tutti i
soldati, ma quattrocento soli; non rimandò i generali, perché di questi non fu
preso che il Malatesti, e fu ritenuto; non è esatto il dire che i soldati
fossero rimandati al Duca: furono semplicemente messi in libertà. Non vedo poi
perché si entri in congetture per ispiegare la condotta del Carmagnola in
questa occasione, quando la storia ne dà per motivo un’usanza comune.
La sorte del Carmagnola fece un gran
rumore in tutta l’Italia; e pare che in particolare i Piemontesi la sentissero
più acerbamente, e ne serbassero memoria, come lo indica il seguente aneddoto
raccontato dal Denina.
Il primo sospetto che i Veneziani ebbero
del segreto della lega di Cambrai venne dalle relazioni d’un loro agente di
Milano, il quale era venuto a sapere «che un Carlo Giuffredo Piemontese che si
trovava fra i Segretarj di Stato del Governo di Milano ai servigi del Re Luigi,
andava fra i suoi famigliari dicendo essere venuto il tempo in cui sarebbesi
abbondantemente vendicata la morte del Conte Francesco Carmagnola suo
compatriotto».([22])
Non ho citato questo tratto per applaudire a un sentimento di vendetta,
e di patriottismo municipale, ma come un indizio del caso che si faceva di
questo gran capitano in quella nobile e bellicosa parte d’Italia, che lo
considerava più specialmente come suo.
A quegli avvenimenti che si sono scelti
per farne il materiale della presente Tragedia, s’è conservato il loro ordine
cronologico, e le loro circostanze essenziali; se se ne eccettui l’aver
supposto accaduto in Venezia l’attentato contra la vita del Carmagnola, quando
in vece accadde in Treviso.
TRAGEDIA
*
PERSONAGGI STORICI
Il Conte di Carmagnola.
Antonietta Visconti, sua
moglie.
Una loro Figlia, a cui nella tragedia si è attribuito il nome di Matilde.
Francesco Foscari, Doge
di Venezia.
Condottieri al
soldo dei Veneziani:
Giovanni Francesco Gonzaga,
Paolo Francesco Orsini,
Nicolò Da Tolentino,
Condottieri al
soldo del Duca di Milano:
Carlo Malatesti,
Angelo Della Pergola,
Guido Torello,
Nicolò Piccinino, a cui nella tragedia si è attribuito il
cognome di Fortebraccio,
Francesco Sforza,
Pergola Figlio.
MARCO, Senatore
Veneziano.
MARINO, uno de’
Capi del Consiglio dei Dieci.
PRIMO COMMISSARIO
veneto nel campo.
SECONDO
COMMISSARIO.
UN SOLDATO Del
CONTE.
UN SOLDATO
prigioniero.
ATTO PRIMO
SCENA I
Sala del Senato, in Venezia.
IL DOGE e SENATORI seduti.
IL DOGE
È giunto il fin de’ lunghi dubbi, è giunto,
nobiluomini, il dì che statuito
fu a risolver da voi. Su questa lega,
a cui Firenze con sì caldi preghi
incontro il Duca di Milan c’invita, 5
oggi il partito si porrà. Ma pria,
se alcuno è qui cui non sia noto ancora
che vile opra di tenebre e di sangue
sugli occhi nostri fu tentata, in questa
stessa Venezia, inviolato asilo 10
di giustizia e di pace, odami: al nostro
deliberar rileva assai che’ alcuno
qui non l’ignori. Un fuoruscito al Conte
di Carmagnola insidiò la vita;
fallito è il colpo, e l’assassino è in ceppi. 15
Mandato egli era; e quei che a ciò mandollo
ei l’ha nomato, ed è... quel Duca istesso
di cui qui abbiam gli ambasciatori ancora
a chieder pace, a cui più nulla preme
che la nostra amistà. Tale arra intanto 20
ei ci dà della sua. Taccio la vile
perfidia della trama, e l’onta aperta
che in un nostro soldato a noi vien fatta.
Due sole cose avverto: egli odia dunque
veracemente il Conte; ella è fra loro 25
chiusa ogni via di pace; il sangue ha stretto
tra lor d’eterna inimicizia un patto.
L’odia... e lo teme: ei sa che il può dal trono
quella mano sbalzar che in trono il pose;
e disperando che più a lungo in questa 30
inonorata, improvida, tradita
pace restar noi consentiamo, ei sente
che sia per noi quest’uom; questo tra i primi
guerrier d’Italia il primo, e, ciò che meno
forse non è, delle sue forze istrutto 35
come dell’arti sue; questo che il lato
saprà tosto trovargli ove più certa,
e più mortal sia la ferita. Ei volle
spezzar quest’arme in nostra mano; e noi
adoperiamla, e tosto. Onde possiamo 40
un più fedele e saggio avviso in questo,
che dal Conte aspettarci? Io l’invitai;
piacevi udirlo?
(segni di adesione)
S’introduca il Conte.
SCENA II
IL CONTE, e detti.
IL DOGE
Conte di Carmagnola, oggi la prima
occasion s’affaccia in che di voi 45
si valga la Repubblica, e vi mostri
in che conto vi tiene: in grave affare
grave consiglio ci abbisogna. Intanto
tutto per bocca mia questo Senato
si rallegra con voi da sì nefando 50
periglio uscito; e protestiam che a noi
fatta è l’offesa, e che sul vostro capo
or più che mai fia steso il nostro scudo,
scudo di vigilanza e di vendetta.
IL CONTE
Serenissimo Doge, ancor null’altro 55
io per questa ospital terra, che ardisco
nomar mia patria, potei far che voti.
Oh! mi sia dato alfin questa mia vita,
pur or sottratta al macchinar de’ vili,
questa che nulla or fa che giorno a giorno 60
aggiungere in silenzio, e che guardarsi
tristamente, tirarla in luce ancora,
e spenderla per voi, ma di tal modo,
che dir si possa un dì, che in loco indegno
vostr’alta cortesia posta non era. 65
IL DOGE
Certo gran cose, ove il bisogno il chieda,
ci promettiam da voi. Per or ci giovi
soltanto il vostro senno. In suo soccorso
contro il Visconte l’armi nostre implora
già da lungo Firenze. Il vostro avviso 70
nella bilancia che teniam librata
non farà piccol peso.
IL CONTE
E senno e braccio
e quanto io sono è cosa vostra: e certo
se mai fu caso in cui sperar m’attenti
che a voi pur giovi un mio consiglio, è questo. 75
E lo darò: ma pria mi sia concesso
di me parlarvi in breve, e un core aprirvi,
un cor che agogna sol d’esser ben noto.
IL DOGE
Dite: a questa adunanza indifferente
cosa che a cor vi stia giunger non puote. 80
IL CONTE
Serenissimo Doge, Senatori;
io sono al punto in cui non posso a voi
esser grato e fedel, s’io non divengo
nemico all’uom che mio signor fu un tempo.
S’io credessi che ad esso il più sottile 85
vincolo di dover mi leghi ancora,
l’ombra onorata delle vostre insegne
fuggir vorrei, viver nell’ozio oscuro
vorrei, prima che romperlo, e me stesso
far vile agli occhi miei. Dubbio veruno 90
sul partito che presi in cor non sento,
perch’egli è giusto ed onorato: il solo
timor mi pesa del giudizio altrui.
Oh! beato colui cui la fortuna
così distinte in suo cammin presenta 95
le vie del biasmo e dell’onor, ch’ei puote
correr certo del plauso, e non dar mai
passo ove trovi a malignar l’intento
sguardo del suo nemico. Un altro campo
correr degg’io, dove in periglio sono 100
di riportar, forza è pur dirlo, il brutto
nome d’ingrato, l’insoffribil nome
di traditor. So che de’ grandi è l’uso
valersi d’opra ch’essi stiman rea,
e profondere a quel che l’ha compita 105
premi e disprezzo, il so; ma io non sono
nato a questo; e il maggior, premio che bramo,
il solo, egli è la vostra stima, e quella
d’ogni cortese; e, arditamente il dico,
sento di meritarla. Attesto il vostro 110
sapiente giudizio, o Senatori,
che d’ogni obbligo sciolto inverso il Duca
mi tengo, e il sono. Se volesse alcuno
de’ benefizi che tra noi son corsi
pareggiar le ragioni, è noto al mondo 115
qual rimarrebbe il debitor dei due.
Ma di ciò nulla: io fui fedele al Duca
fin che fui seco, e nol lasciai che quando
ei mi v’astrinse. Ei mi balzò dal grado
col mio sangue acquistato: invan tentai 120
al mio signor lagnarmi. I miei nemici
fatto avean siepe intorno al trono: allora
m’accorsi alfin che la mia vita anch’essa
stava in periglio: a ciò non gli diei tempo.
Ché la mia vita io voglio dar, ma in campo, 125
per nobil causa, e con onor, non preso
nella rete de’ vili. Io lo lasciai,
e a voi chiesi un asilo; e in questo ancora
ei mi tese un agguato. Ora a costui
più nulla io deggio; di nemico aperto 130
nemico aperto io sono. All’util vostro
io servirò, ma franco e in mio proposto
deliberato, come quei ch’è certo
che giusta cosa imprende.
IL DOGE
E tal vi tiene
questo Senato: già tra il Duca e voi 135
ha giudicato irrevocabilmente
Italia tutta. Egli la vostra fede
ha liberata, a voi l’ha resa intatta,
qual gliela deste il primo giorno. È nostra
or questa fede; e noi saprem tenerne 140
ben altro conto. Or d’essa un primo pegno
il vostro schietto consigliar ci sia.
IL CONTE
Lieto son io che un tal consiglio io possa
darvi senza esitanza. Io tengo al tutto
necessaria la guerra, e della guerra, 145
se oltre il presente è mai concesso all’uomo
cosa certa veder, certo l’evento;
tanto più, quanto fien l’indugi meno.
A che partito è il Duca? A mezzo è vinta
da lui Firenze; ma ferito e stanco 150
il vincitor; voti gli erari: oppressi
dal terror, dai tributi i cittadini
pregan dal ciel su l’armi loro istesse
le sconfitte e le fughe. Io li conosco,
e conoscer li deggio: a molti in mente 155
dura il pensier del glorioso, antico
viver civile; e subito uno sguardo
rivolgon di desio là dove appena
d’un qualunque avvenir si mostri un raggio,
frementi del presente e vergognosi. 160
Ei conosce il periglio; indi l’udite
mansueto parlarvi; indi vi chiede
tempo soltanto de sbranar la preda
che già tiensi tra l’ugne, e divorarla.
Fingiam che glielo diate: ecco mutata 165
la faccia delle cose; egli soggioga
senza dubbio Firenze; ecco satolle
le costui schiere col tesor de’ vinti,
e più folte e anelanti a nove imprese.
Qual prence allor dell’alleanza sua 170
far rifiuto oseria? Beato il primo
ch’ei chiamerebbe amico! Egli sicuro
consulterebbe e come e quando a voi
mover la guerra, a voi rimasti soli.
L’ira, che addoppia l’ardimento al prode 175
che si sente percosso, ei non la trova
che ne’ prosperi casi: impaziente
d’ogni dimora ove il guadagno è certo,
ma ne’ perigli irresoluto: a’ suoi
soldati ascoso, del pugnar non vuole 180
fuor che le prede. Ei nella rocca intanto,
o nelle ville rintanato attende
a novellar di cacce e di banchetti,
a interrogar tremando un indovino.
Ora è il tempo di vincerlo: cogliete 185
questo momento: ardir prudenza or fia.
IL DOGE
Conte, su questo fedel vostro avviso
tosto il Senato prenderà partito;
ma il segua, o no, v’è grato; e vede in esso,
non men che il senno, il vostro amor per noi. 190
(parte il Conte)
SCENA III
IL DOGE, e SENATORI
IL DOGE
Dissimil certo da sì nobil voto
nessun s’aspetta il mio. Quando il
consiglio
più generoso è il più sicuro, in forse
chi potria rimaner? Porgiam la mano
al fratello che implora: un sacro nodo 195
stringe i liberi Stati: hanno comuni
tra lor rischi e speranze; e treman tutti
dai fondamenti al rovinar d’un solo.
Provocator dei deboli, nemico
d’ognun che schiavo non gli sia, la pace 200
con tanta istanza a che ci chiede il Duca?
Perché il momento della guerra ei vuole
sceglierlo, ei solo; e non è questo il
suo.
Il nostro egli è, se non ci falla il
senno,
né l’animo. Ei ci vuole ad uno ad uno; 205
andiamgli incontro uniti. Ah! saria questa
la prima volta che il Leon giacesse
al suon delle lusinghe addormentato.
No; fia tentato invan. Pongo il partito
che si stringa la lega, e che la guerra 210
tosto al Duca s’intimi, e delle nostre
genti da terra abbia il comando il Conte.
Contro sì giusta e necessaria guerra
io non sorgo a parlar; questo sol chiedo,
che il buon successo ad accertar si pensi. 215
La metà dell’impresa è nella scelta
del capitano. Io so che vanta il Conte
molti amici tra noi; ma d’una cosa
mi rendo certo, che nessun di questi
l’ama più della patria; e per me, quando 220
di lei si tratti, ogni rispetto è nulla.
Io dico, e duolmi che di fronte io deggia,
serenissimo Doge, oppormi a voi,
non è il duce costui quale il richiede
la gravità, l’onor di questo Stato. 225
Non cercherò perché lasciasse il Duca.
Ei fu l’offeso; e sia pur ver: l’offesa
è tal che accordo non può darsi; e questo
consento: io giuro nelle sue parole.
Ma queste sue parole importa assai 230
considerarle, perché tutto in esse
ei s’è dipinto; e governar sì ombroso,
sì delicato e violento orgoglio,
o Senatori, non mi par che sia
minor pensier della guerra istessa. 235
Finor fu nostra cura il mantenerci
la riverenza de’ soggetti; or altro
studio far si dovria, come costui
riverir degnamente. E quando egli abbia
la man nell’elsa della nostra spada, 240
potrem noi dir d’aver creato un servo?
Dovrà por cura di piacergli ognuno
di noi? Se nasce un disparer, fia degno
che nell’arti di guerra il voler nostro
a quel d’un tanto condottier prevalga? 245
S’egli erra, e nostra è dell’error la
pena,
ché invincibil nol credo, io vi domando
se fia concesso il farne lagno; e dove
si riscotan per questo onte e dispregi,
che far? soffrirli? Non v’aggrada, io
stimo, 250
questo partito; risentirci? e dargli
occasion che, in mezzo all’opra, e nelle
più difficili strette ei ci abbandoni
sdegnato, e al primo altro signor che il
voglia,
forse al nemico, offra il suo braccio, e
sveli 255
quanto di noi pur sa, magnificando
la nostra sconoscenza, e i suoi gran
merti?
IL DOGE
Il Conte un prence abbandonò; ma quale?
un che da lui tenea lo Stato, e a cui
quindi ei minor non potea mai stimarsi; 260
un da pochi aggirato, e questi vili;
timido e stolto, che non seppe almeno
il buon consiglio tor della paura,
nasconderla nel core, e starsi all’erta;
ma che il colpo accennò pria di
scagliarlo: 265
tale è il signor che inimicossi il Conte.
Ma, lode al ciel, nulla in Venezia io vedo
che gli somigli. Se destrier, correndo,
scosse una volta un furibondo e stolto
fuor dell’arcione, e lo gettò nel fango; 270
non fia per questo che salirlo ancora
un cauto e franco cavalier non voglia.
MARINO
Poiché sì certo è di quest’uomo il Doge,
più non m’oppongo; e questo a lui sol
chiedo:
vuolsi egli far mallevador del Conte? 275
IL DOGE
A sì preciso interrogar, preciso
risponderò: mallevador pel Conte,
né per altr’uom che sia, certo, io non
entro;
dell’opre mie, de’ miei consigli il sono:
quando sien fidi, ei basta. Ho io proposto 280
che guardia al Conte non si faccia, e a
lui
si dia l’arbitrio dello Stato in mano?
Ei diritto, anderà; tale io diviso.
Ma s’ei si volge al rio sentier, ci manca
occhio che tosto ce ne faccia accorti, 285
e braccio che invisibile il raggiunga?
MARCO
Perché i princìpi di sì bella impresa
contristar con sospetti? E far disegni
di terrori e di pene, ove null’altro
che lodi e grazie può aver luogo? Io
taccio 290
che all’util suo sola una via gli è
schiusa;
lo star con noi. Ma deggio dir qual cosa
dee sovra ogni altra far per lui fidanza?
La gloria ond’egli è già coperto, e quella
a cui pur anco aspira; il generoso, 295
il fiero animo suo. Che un giorno ei
voglia
dall’altezza calar de’ suoi pensieri,
e riporsi tra i vili, esser non puote.
Or, se prudenza il vuol, vegli pur
l’occhio;
ma dorma il cor nella fiducia; e poi 300
che in così giusta e grave causa, un tanto
dono ci manda Iddio; con quella fronte,
e con quel cor che si riceve un dono,
sia da noi ricevuto.
MOLTI SENATORI
Ai voti, ai voti!
IL DOGE
Si raccolgano i voti; e ognun rammenti 305
quanto rilevi che di qui non esca
motto di tal deliberar, né cenno
che presumer lo faccia. In questo Stato
pochi il segreto hanno tradito, e nullo
fu tra quei pochi che impunito andasse. 310
SCENA IV
Casa del Conte.
IL CONTE
Profugo, o condottiero. O come il vecchio
guerrier nell’ozio i giorni trar, vivendo
della gloria passata, in atto sempre
di render grazie e di pregar, protetto
dal braccio altrui, che un dì potria
stancarsi 315
e abbandonarmi; o ritornar sul campo,
sentir la vita, salutar di nuovo
la mia fortuna, delle trombe al suono
destarmi, comandar; questo è il momento
che ne decide. Eh! se Venezia in pace 320
riman, degg’io chiuso e celato ancora
in questo asilo rimaner, siccome
l’omicida nel tempio? E chi d’un regno
fece il destin, non potrà farsi il suo?
Non troverò tra tanti prenci, in questa 325
divisa Italia, un sol che la corona,
onde il vil capo di Filippo splende,
ardisca invidiar? che si ricordi
ch’io l’acquistai, che dalle man di dieci
tiranni io la strappai, ch’io la riposi 330
su quella fronte, ed or null’altro agogno
che ritorla all’ingrato, e farne un dono
a chi saprà del braccio mio valersi?
SCENA V
MARCO, e IL CONTE
IL CONTE
O dolce amico; ebben qual nova arrechi?
MARCO
La guerra è risoluta, e tu sei duce. 335
IL CONTE
Marco, ad impresa io non m’ accinsi mai
con maggior cor che a questa: una gran
fede
poneste in me: ne sarò degno, il giuro.
Il giorno è questo che del viver mio
ferma il destin: poi che quest’alma terra 340
m’ha nel suo glorioso antico grembo
accolto, e dato di suo figlio il nome,
esserlo io vo’ per sempre; e questo brando
io consacro per sempre alla difesa
e alla grandezza sua.
MARCO
Dolce disegno! 345
non soffra il ciel che la fortuna il
rompa...
o tu medesmo.
IL CONTE
Io? come?
MARCO
Al par di tutti
i generosi, che giovando altrui
nocquer sempre a sé stessi, e superate
tutte le vie delle più dure imprese, 350
caddero a un passo poi, che facilmente
l’ultimo de’ mortali avria varcato.
Credi ad un uom che t’ama: i più de’
nostri
ti sono amici; ma non tutti il sono.
Di più non dico, né mi lice; e forse 355
troppo già dissi. Ma la mia parola
nel fido orecchio dell’amico stia,
come nel tempio del mio cor, rinchiusa.
IL CONTE
Forse io l’ignoro? E forse ad uno ad uno
non so quai siano i miei nemici?
MARCO
E sai 360
chi te gli ha fatti? In pria l’esser tu
tanto
maggior di loro, indi lo sprezzo aperto
che tu ne festi in ogni incontro. Alcuno
non ti nocque finor; ma chi non puote
nocer col tempo? Tu non pensi ad essi, 365
se non allor che in tuo cammin li trovi;
ma pensan essi a te, più che non credi.
Spregia il grande, ed obblia; ma il vil si
gode
nell’odio. Or tu non irritarlo: cerca
di spegnerlo; tu il puoi forse. Consiglio 370
di vili arti ch’io stesso a sdegno avrei,
io non ti do, né tal da me l’aspetti.
Ma tra la noncuranza e la servile
cautela avvi una via; v’ha una prudenza
anche pei cor più nobili e più schivi; 375
v’ha un’arte d’acquistar l’alme volgari,
senza discender fino ad esse: e questa
nel senno tuo, quando tu vuoi, la trovi.
IL CONTE
Troppo è il tuo dir verace: il tuo
consiglio
le mille volte a me medesmo io il diedi; 380
e sempre all’uopo ei mi fuggì di mente;
e sempre appresi a danno mio che dove
semina l’ira, il pentimento miete.
Dura scola ed inutile! Alfin stanco
di far leggi a me stesso, e trasgredirle, 385
tra me fermai che, s’egli è mio destino
ch’io sia sempre in tai nodi avviluppato
che mestier faccia a distrigarli appunto
quella virtù che più mi manca, s’ella
è pur virtù; se è mio destin che un giorno 390
io sia colto in tai nodi, e vi perisca;
meglio è senza riguardi andargli incontro.
Io ne appello a te stesso: i buoni mai
non fur senza nemici, e tu ne hai dunque.
E giurerei che un sol non è tra loro 395
cui tu degni, non dico accarezzarlo,
ma non dargli a veder che lo dispregi.
Rispondi.
MARCO
È ver: se v’ha mortal di cui
la sorte invidii, è sol colui che nacque
in luoghi e in tempi ov’uom potesse aperto 400
mostrar l’animo in fronte, e a quelle
prove
solo trovarsi ove più forza è d’uopo
che accorgimento: quindi, ove convenga
simular, non ti faccia maraviglia
che poco esperto io sia. Pensa per altro 405
quanto più m’è concesso impunemente
fallire in ciò che a te; che poche vie
al pugnal d’un nemico offre il mio petto;
che me contra i privati odii assecura
la pubblica ragion; ch’io vesto il saio 410
stesso di quei che han la mia sorte in
mano.
Ma tu stranier, tu condottiero al soldo
di togati signor, tu cui lo Stato
dà tante spade per salvarlo, e niuna
per salvar te... fa che gli amici tuoi 415
odan sol le tue lodi; e non dar loro
la trista cura di scolparti. Pensa
che felici non son, se tu nol sei.
Che dirò più? Vuoi che una corda io
tocchi,
che ancor più addentro nel tuo cor risoni? 420
Pensa alla moglie tua, pensa alla figlia
a cui tu se’ sola speranza: il cielo
dié loro un’alma per sentir la gioia,
un’alma che sospira i dì sereni,
ma che nulla può far per conquistarli. 425
Tu il puoi per esse; e lo vorrai. Non dire
che il tuo destin ti porta; allor che il
forte
ha detto: io voglio, ei sente esser più
assai
signor di sé che non pensava in prima.
Tu hai ragione. Il ciel si prende al certo 430
qualche cura di me, poiché m’ha dato
un tale amico. Ascolta; il buon successo
potrà, spero, placar chi mi disama:
tutto in letizia finirà. Tu intanto
se cosa odi di me che ti dispiaccia, 435
l’indole mia ne incolpa, un improvviso
impeto primo, ma non mai l’obblio
di tue parole.
Or la mia gioia è intera.
Va, vinci, e torna. Oh come atteso e caro
verrà quel messo che la gloria tua 440
con la salute della patria annunzi!
FINE DELL’ATTO
PRIMO
ATTO SECONDO
SCENA I
Parte, del
campo ducale con tende.
MALATESTI e PERGOLA
PERGOLA
Sì, condottier; come ordinaste, in pronto
son le mie bande. A voi commise il Duca
l’arbitrio della guerra: io v’ho ubbidito,
ma con dolor; ve ne scongiuro ancora,
non diam battaglia.
MALATESTI
Anzian d’anni e di fama, 5
o Pergola, qui siete; io sento il peso
del vostro voto; ma cangiar non posso
il mio. Voi lo vedete; il Carmagnola
ci provoca ogni dì: quasi ad insulto
sugli occhi nostri alfin Maclodio ha
stretto: 10
e due partiti ci rimangon soli;
o lui cacciarne, o abbandonar la terra,
che saria danno e scorno.
PERGOLA
A pochi è dato,
a pochi egregi il dubitar di novo,
quando han già detto: ell’è così. S’io
parlo 15
è che tale vi tengo. Italia forse
mai da’ barbari in poi non vide a fronte
due sì possenti eserciti: ma il nostro
l’ultimo sforzo è di Filippo. In ogni
fatto di guerra entra fortuna, e sempre 20
vuol la sua parte: chi nol sa? Ma quando
ne va il tutto, o Signore, allor non
vuolsi
dargliene più ch’ella non chiede; e questo
esercito con cui tutto possiamo
salvar, ma che perduto in una volta 25
mai più rifar non si potria, non dèssi
come un dado gittarlo ad occhi chiusi,
avventurarlo in un sì piccol campo,
e in un campo mal noto, e quel che è
peggio
noto al nemico. Ei qui ci trasse: un torto 30
argin divide le due schiere: a destra
e a sinistra paludi, in esse sparsi
i suoi drappelli; e noi fuori de’ nostri
alloggiamenti non teniamo un palmo
pur di terren. Credete ad un che l’arti 35
conosce di costui, che ha combattuto
al fianco suo: qui c’è un’insidia. Forse
la miglior via di guerreggiar quest’uomo
saria tenerlo a bada, aspettar tempo,
tanto che alcun dei duci ai quali è sopra 40
prendesse a noia il suo superbo impero;
e il fascio ch’egli or nella mano ha
stretto
si rallentasse alfin. Pur, se a giornata
venir si deve, non è questo il loco:
usciam di qui, scegliamo un campo noi, 45
tiriam quivi il nemico: ivi in un giorno,
senza svantaggio almanco, si decida.
MALATESTI
Due grandi schiere a fronte stanno; e
grande
fia la battaglia: d’una tale appunto
abbisogna Filippo. A questi estremi 50
a poco a poco ei venne, e coi consigli
che or proponete: a trarnelo, fia d’uopo
appigliarci agli opposti. Il rischio vero
sta nell’indugio; e nel mutare il campo
rovina certa. Chi sapria dir quanto 55
di numero e di cor scemato ei fia,
pria che si ponga altrove? Ora egli è
quale
bramar lo puote un capitan; con esso
tutto lice tentar.
SCENA II
SFORZA,
FORTEBRACCIO, e detti.
MALATESTI
Ditelo, o Sforza,
e Fortebraccio; voi giungete in tempo: 60
ditelo voi, come trovaste il campo?
Che possiamo sperarne?
SFORZA
Ogni gran cosa.
Quando gli ordini udir, quando lor parve
che una battaglia si prepari, io vidi
un feroce tripudio: alla chiamata 65
esultando venièno, e col sorriso
si fean cenno a vicenda. E quando io corsi
entro le file, ad ogni schiera un grido
s’alzava; ognuno in me fissando il guardo
parea dicesse: o condottier, v’intendo. 70
FORTEBRACCIO
E tai son tutti: allor ch’io venni a’
miei,
tutti mi furo intorno. Un mi dicea:
quando udremo le trombe? Altri: noi siamo
stanchi d’esser beffati; e tutti ad una
la battaglia chiedean, come già certi 75
dell’ottenerla, e dubbi sol del quando.
Ebben, compagni, io rispondea, se il segno
presto s’udrà, mi date voi parola
di vincere con me? Gli elmi levati
sull’aste, un grido universal d’assenso 80
fu la risposta, ond’io gioisco ancora.
E a tai soldati ci venia proposto
d’intimar la ritratta? e che alle mani,
che già posate sulle spade aspettano
l’ordin di sguainarle e di ferire, 85
si comandasse di levar le tende?
Chi fronte avria di presentarsi ad essi
con tal ordine ormai?
PERGOLA
Dal parlar vostro
un novo modo di milizia imparo;
che i soldati comandino, e che i duci 90
ubbidiscano.
FORTEBRACCIO
O Pergola, i soldati
a cui capo son io, fur da quel Braccio
disciplinati, che per tutto ancora
con maraviglia e con terror si noma;
e non son usi a sostener gli scherni 95
dell’inimico.
PERGOLA
Ed io conduco genti
da me, qual ch’io mi sia, disciplinate;
e sono avvezze ad aspettar la voce
del condottiero, ed a fidarsi in lui.
MALATESTI
Dimentichiamo or noi che numerati 100
sono i momenti, e non ne resta alcuno
per le gare private?
SCENA III
TORELLO, e
detti.
SFORZA
Ebben, Torello,
siete mutato di parer? Vedeste
l’animo ardente de’ soldati?
TORELLO
Il vidi;
udii le grida del furor, le grida 105
della fiducia e del coraggio; e il viso
rivolsi altrove, onde nessun dei prodi
vi leggesse il pensier che mal mio grado
vi si pingeva: era il pensier che false
son quelle gioie e brevi; era il pensiero 110
del valor che si perde. Io cavalcai
lungo tutta la fronte: io tesi il guardo,
quanto lunge potei; rividi quelle
macchie che sorgon qua e là dal suolo
uliginoso che la via fiancheggia: 115
là son gli agguati, il giurerei. Rividi
quel doppio cinto di muniti carri,
onde assiepato è del nemico il campo.
Se l’urto primo ei sostener non puote,
ha una ritratta ove sfuggirlo e uscirne 120
preparato al secondo. Un novo è questo
trovato di costui, per torre ai suoi
il pensier primo che s’affaccia ai vinti,
il pensier della fuga. Ad atterrarlo
due colpi è d’uopo: ei con un sol ne
atterra. 125
Perché, non giova chiuder gli occhi al
vero,
non son più quelle guerre, in cui pe’
figli
e per le donne e per la patria terra
e per le leggi che la fan sì cara,
combatteva il soldato; in cui pensava 130
il capitano a statuirgli un posto,
egli a morirvi. A mercenarie genti
noi comandiamo, in cui più di leggieri
trovi il furor che la costanza: e’ corrono
volonterosi alla vittoria incontro; 135
ma s’ella tarda, se son posti a lungo
tra la fuga e la morte, ah! dubbia è
troppo
la scelta di costoro. E questo evento
più che tutt’altro antiveder ci è forza.
Vil tempo in cui tanto al comando cresce 140
difficoltà, quanto la gloria scema!
Io lo ripeto, non è questo un campo
di battaglia per noi.
MALATESTI
Dunque?
TORELLO
Si muti.
Non siam pari al nemico; andiamo in luogo
dove lo siam.
MALATESTI
Così Maclodio a lui 145
lascerem quasi in dono? I valorosi,
che vi son chiusi, non potran tenersi
più che due giorni.
TORELLO
Il so; ma non si tratta
né d’un presidio qui, né d’una terra;
trattasi dello Stato.
SFORZA
E di che mai 150
se non di terre si compon lo Stato?
E quelle che indugiando, ad una ad una
già lasciammo sfuggir, quante son elle?
Casal, Bina, Quinzano e... e se vi piace
noveratele voi, ché in tal pensiero 155
troppo caldo io mi sento. Il nobil manto,
che a noi fidato ha il Duca, a brano a
brano
soffriam così che in nostra man si scemi,
e che a lui messo omai da noi non giunga
che una ritratta non gli annunzi. Intanto 160
superbisce il nemico, e ai nostri indugi
sfacciato insulta.
TORELLO
E questo è segno, o Sforza,
ch’ei brama una battaglia.
SFORZA
Oh, che puot’egli
bramar di più, che innanzi a sé cacciarne
con la spada nel fodero?
PERGOLA
Che puote 165
bramar di più? Dirovvel io: che noi
tutto arrischiam l’esercito in un campo
ov’egli ha preso ogni vantaggio. Or questo
poniamo in salvo; ché le terre è lieve
riprender con gli eserciti.
FORTEBRACCIO
Con quali? 170
Non, per mia fé, con quelli a cui
s’insegna
a diloggiar quando il nemico appare,
a non mirarlo in faccia, a lasciar soli
nelle angosce i compagni; ma con genti
quali or le abbiam d’ira e di scorno
accese, 175
impazienti di pugnar, con queste
si riparan le perdite, e si vince.
Che dobbiamo aspettar? Brandi arrotati,
perché lasciarli irrugginir?
SFORZA
Torello,
voi temete d’agguati? Anch’io dirovvi: 180
non son più quelle guerre, in cui minuti
drappelletti movean, con l’occhio teso
ogni macchia guatando, ogni rivolta.
Un’oste intera sopra un’oste intera
oggi rovescerassi: un tanto stuolo 185
si vince sì, ma non s’accerchia; ei spazza
innanzi a sé gl’intoppi, e fin ch’è unito,
dovunque sia, sul suo terreno è sempre.
FORTEBRACCIO
(a Pergola e Torello)
Siete convinti?
TORELLO
Sofferite...
MALATESTI
Io il sono.
Omai vano è più dir. Certo io mi tengo 190
che tutti andrete in operar d’accordo
più che non foste in divisar disgiunti.
Poi che un partito e l’altro ha il suo
periglio,
scegliamo almen quel che più gloria ha
seco.
Noi darem la battaglia: alla frontiera 195
io mi pongo coi miei; Sforza vien dietro
e chiude la vanguardia; il mezzo tenga
della battaglia Fortebraccio: e il nostro
ufizio sia con impeto serrarci
addosso al campo del nemico, aprirlo, 200
e spingerci a Maclodio. Voi, Torello,
e voi, Pergola, a cui sì dubbia sembra
questa giornata, io pongo in vostra mano
l’assicurarla: voi, discosti alquanto,
il retroguardo avrete. O la fortuna, 205
pur come suol, seconda i valorosi,
e rompiamo il nemico; e voi piombate
sopra i dispersi. Ma s’ei dura incontro
l’impeto nostro, e ci vedete entrati
donde uscir soli non possiam; venite 210
a noi, reggete i periglianti amici;
ché, per cosa che avvenga, io vi prometto,
retrocedere a voi non ci vedrete.
FORTEBRACCIO
Non ci vedrete, no.
SFORZA
Siatene certi.
FORTEBRACCIO
Sia lode al ciel, combatteremo alfine: 215
mai non accadde a capitan, ch’io sappia,
per fare il suo mestier contender tanto.
PERGOLA
O Carmagnola, tu pensasti che oggi
il giovenil corruccio alla prudenza
prevarrebbe dei vecchi; e ti apponesti. 220
FORTEBRACCIO
Sì, la prudenza è la virtù dei vecchi:
ella cresce con gli anni, e tanto cresce
che alfin diventa...
PERGOLA
Ebben, dite.
FORTEBRACCIO
Paura;
poi che volete ad ogni modo udirlo.
MALATESTI
Fortebraccio!
PERGOLA
L’hai detto. Ad un soldato 225
che già più volte avea pugnato e vinto
prima che tu vedessi una bandiera,
oggi tu il primo hai detto...
MALATESTI
Da quel lato,
presso Maclodio è posto il Carmagnola.
Quegli fra noi che avere oggi pensasse 230
altro nemico che costui, sarebbe
un traditor: pensatamente il dico.
PERGOLA
Ritratto il voto che dapprima io diedi;
e il do per la battaglia: ella fia quale
predissi allor; ma non importa. Allora 235
potea schifarsi; or la domando io primo:
io son per la battaglia.
MALATESTI
Accetto il voto
ma non l’augurio: lo distorni il cielo
sul capo del nemico.
PERGOLA
O Fortebraccio,
tu m’hai offeso.
MALATESTI
Or via...
FORTEBRACCIO
Se così credi, 240
sia pur così: perché a te spiaccia, o a
quale
altro pur sia, non crederai ch’io voglia
una parola ritirar che uscita
dalle labbra mi sia.
MALATESTI
(in atto di
partire)
Chi resta fido
a Filippo, mi segua.
PERGOLA
Io vi prometto 245
che oggi darem battaglia, e che di noi
non mancheravvi alcuno. O Fortebraccio,
non giunger onta ad onta; io ti ripeto,
tu m’hai offeso. Ascolta, io t’offro il
modo
che tu mi renda l’onor mio, serbando 250
intatto il tuo.
FORTEBRACCIO
Che vuoi?
PERGOLA
Dammi il tuo posto.
Ovunque tu combatta, a tutti è noto
che tu volesti la battaglia, ed io,
io devo ad ogni modo essere in luogo
che l’amico e il nemico aperto veda 255
ch’io non ho... tu m’intendi.
FORTEBRACCIO
Io son contento.
Prendi quel posto; poi che il brami, è
tuo.
O forte, or m’odi: ora m’è dolce il dirti
ch’io non t’offesi, no: per la fortuna
del signor nostro tu soverchio temi: 260
questo dir volli. Ma il timor che nasce
in cor di quel che ama la vita, e l’ama
più dell’onor, ma che nel cor del prode
muore al primo periglio ch’egli affronta,
e mai più non risorge, o valoroso, 265
pensavi tu?...
PERGOLA
Nulla pensai: tu parli
da generoso qual tu sei.
(a Malatesti)
Signore,
voi consentite al cambio?...
MALATESTI
Io ci consento;
e son ben lieto di veder tant’ira
tutta cader sovra il nemico.
TORELLO
(allo Sforza)
Io stava 270
col Pergola da prima; ingiusto, io spero,
non vi parrà...
SFORZA
V’intendo; e con lui state
alla vanguardia: ultimi e primi, tutti
combatterem; poco m’importa il dove.
MALATESTI
Non più ritardi. Iddio sarà coi prodi. 275
(partono)
SCENA IV
Campo
veneziano. Tenda del Conte.
IL CONTE, un
SOLDATO
SOLDATO
Signor, l’oste nemica è in movimento:
la vanguardia è sull’argine, e s’avanza.
IL CONTE
I condottieri dove son?
SOLDATO
Qui tutti
fuor della tenda i principali; e stanno
gli ordin vostri aspettando.
IL CONTE
Entrino tosto. 280
(parte il
Soldato)
SCENA V
IL CONTE
Eccolo il dì ch’io bramai tanto. — Il
giorno
ch’ei non mi volle udir, che invan pregai,
che ogni adito era chiuso, e che deriso,
solo, io partiva, e non sapea per dove,
oggi con gioia io lo rammento alfine. 285
Ti pentirai, dicea, mi rivedrai,
ma condottier de’ tuoi nemici, ingrato!
Io lo dicea; ma allor pareva un sogno,
un sogno della rabbia; ed ora è vero.
Gli sono a fronte: ecco mi balza il core: 290
io sento il dì della battaglia... E
s’io...
No: la vittoria è mia.
SCENA VI
IL CONTE, GONZAGA,
ORSINI, TOLENTINO,
altri CONDOTTIERI
IL CONTE
Compagni, udiste
la lieta nova: l’inimico ha fatto
ciò ch’io volea; così voi pur farete.
E il sol che sorge, a ognun di noi, lo
giuro, 295
il più bel dì di nostra vita apporta.
Non è tra voi chi una battaglia aspetti
per farsi un nome, il so; ma questa sera
l’avrem più glorioso; e la parola
che al nostro orecchio sonerà più grata, 300
omai fia quella di Maclodio. Orsini,
son pronti i tuoi?
ORSINI
Sì.
IL CONTE
Corri all’imboscate
sulla destra dell’argine; raggiungi
quei che vi stanno, e prendine il comando.
E tu a sinistra, o Tolentino. E quindi 305
non vi movete, che non sia lo scontro
incominciato; quando ei fia, correte
alle spalle al nemico. Udite entrambi.
Se dell’insidie egli s’avvede, e tenta
ritrarsi, appena avrà voltato il dorso, 310
siategli addosso uniti: io son con voi.
Provochi, o fugga, oggi dev’esser vinto.
ORSINI
E lo sarà.
(parte)
TOLENTINO
T’ubbidirem, vedrai.
(parte)
IL CONTE
(agli altri)
Tu, Gonzaga, al mio fianco. I posti a voi
assegnerò sul campo. Andiam, compagni; 315
si resista al prim’urto: il resto è certo.
CORO
S’ode a destra uno squillo di tromba;
a sinistra risponde uno squillo:
d’ambo i lati calpesto rimbomba
da cavalli e da fanti il terren.
Quinci spunta per l’aria un vessillo; 5
quindi un altro s’avanza spiegato:
ecco appare un drappello schierato;
ecco un altro che incontro gli vien.
Già di mezzo sparito è il terreno;
già le spade rispingon le spade; 10
l’un dell’altro le immerge nel seno;
gronda il sangue; raddoppia il ferir.
— Chi son essi? Alle belle contrade
qual ne venne straniero a far guerra?
Qual è quei che ha giurato la terra 15
dove nacque far salva, o morir?
— D’una terra son tutti: un linguaggio
parlan tutti: fratelli li dice
lo straniero: il comune lignaggio
a ognun d’essi dal volto traspar. 20
Questa terra fu a tutti nudrice,
questa terra di sangue ora intrisa,
che natura dall’altre ha divisa,
e ricinta con l’alpe e col mar.
— Ahi! Qual d’essi il sacrilego brando 25
trasse il primo il fratello a ferire?
Oh terror! Del conflitto esecrando
la cagione esecranda qual è?
— Non la sanno: a dar morte, a morire
qui senz’ira ognun d’essi è venuto; 30
e venduto ad un duce venduto,
con lui pugna, e non chiede il perché.
— Ahi sventura! Ma spose non hanno,
non han madri gli stolti guerrieri?
Perché tutte i lor cari non vanno 35
dall’ignobile campo a strappar?
E i vegliardi che ai casti pensieri
della tomba già schiudon la mente,
ché non tentan la turba furente
con prudenti parole placar? 40
— Come assiso talvolta il villano
sulla porta del cheto abituro,
segna il nembo che scende lontano
sopra i campi che arati ei non ha;
così udresti ciascun che sicuro 45
vede lungi le armate coorti,
raccontar le migliaia de’ morti,
e la pieta dell’arse città.
Là, pendenti dal labbro materno
vedi i figli che imparano intenti 50
a distinguer con nomi di scherno
quei che andranno ad uccidere un dì;
qui le donne alle veglie lucenti
de’ monili far pompa e de’ cinti,
che alle donne diserte de’ vinti 55
il marito o l’amante rapì.
— Ahi sventura! sventura! sventura!
Già la terra è coperta d’uccisi;
tutta è sangue la vasta pianura;
cresce il grido, raddoppia il furor. 60
Ma negli ordini manchi e divisi
mal si regge, già cede una schiera;
già nel volgo che vincer dispera,
della vita rinasce l’amor.
Come il grano lanciato dal pieno 65
ventilabro nell’aria si spande;
tale intorno per l’ampio terreno
si sparpagliano i vinti guerrier.
Ma improvvise terribili bande
ai fuggenti s’affaccian sul calle; 70
ma si senton più presso alle spalle
anelare il temuto destrier.
Cadon trepidi a pié de’ nemici,
gettan l’arme, si danno prigioni:
il clamor delle turbe vittrici 75
copre i lai del tapino che mor.
Un corriero è salito in arcioni;
prende un foglio, il ripone, s’avvia,
sferza, sprona, divora la via;
ogni villa si desta al rumor. 80
Perché tutti sul pesto cammino
dalle case, dai campi accorrete?
Ognun chiede con ansia al vicino,
che gioconda novella recò?
Donde ei venga, infelici, il sapete, 85
e sperate che gioia favelli?
I fratelli hanno ucciso i fratelli:
questa orrenda novella vi do.
Odo intorno festevoli gridi;
s orna il tempio, e risona del canto; 90
già s’innalzan dai cori omicidi
grazie ed inni che abbomina il ciel.
Giù dal cerchio dell’alpi frattanto
lo straniero gli sguardi rivolve;
vede i forti che mordon la polve, 95
e li conta con gioia crudel.
Affrettatevi, empite le schiere,
sospendete i trionfi ed i giochi,
ritornate alle vostre bandiere:
lo straniero discende; egli è qui. 100
Vincitor! Siete deboli e pochi?
Ma per questo a sfidarvi ei discende;
e voglioso a quei campi v’attende
dove il vostro fratello perì.
Tu che angusta a’ tuoi figli parevi, 105
tu che in pace nutrirli non sai,
fatal terra, gli estrani ricevi:
tal giudizio comincia per te.
Un nemico che offeso non hai,
a tue mense insultando s’asside; 110
degli stolti le spoglie divide;
toglie il brando di mano a’ tuoi re.
Stolto anch’esso! Beata fu mai
gente alcuna per sangue ed oltraggio?
Solo al vinto non toccano i guai; 115
torna in pianto dell’empio il gioir.
Ben talor nel superbo viaggio
non l’abbatte l’eterna vendetta;
ma lo segna; ma veglia ed aspetta;
ma lo coglie all’estremo sospir. 120
Tutti fatti a sembianza d’un Solo,
figli tutti d’un solo Riscatto,
in qual ora, in qual parte del suolo,
trascorriamo quest’aura vital,
siam fratelli; siam stretti ad un patto: 125
maledetto colui che l’infrange,
che s’innalza sul fiacco che piange,
che contrista uno spirto immortal!
FINE DELL’ATTO
SECONDO
ATTO TERZO
SCENA I
Tenda del
Conte.
IL CONTE e IL
PRIMO COMMISSARIO
IL CONTE
Siete contenti?
PRIMO COMMISSARIO
Udir l’alto trionfo
della patria; vederlo; essere i primi
a salutarla vincitrice; a lei
darne l’annunzio; assistere alla fuga
de’ suoi nemici; e mentre al nostro
orecchio 5
rimbomba il suon della minaccia ancora,
veder la gloria sua fuor del periglio
uscir raggiante e più che mai serena,
come un sol dalle nubi; è gioia questa
forse, o signor, cui la parola arrivi? 10
Voi la vedete: essa vi sia misura
della riconoscenza; e ben ci tarda
di rendervi tai grazie in altro nome
che non è il nostro, e del Senato a voi
riferir la letizia e il guiderdone. 15
Ei sarà pari al merto.
IL CONTE
Io già lo tengo.
Venezia è salva; ho liberata in parte
una grande promessa; ho fatto alfine
risovvenir di me tal che m’avea
dimenticato; ho vinto.
PRIMO COMMISSARIO
Ed or si vuole 20
assicurar della vittoria il frutto.
IL CONTE
.... Questa è mia cura.
PRIMO COMMISSARIO
Or che dal vostro brando
sgombra è la via, noi ci aspettiam che
tutta
voi la farete, né starem fin tanto
che non si giunga del nemico al trono. 25
IL CONTE
Quando fia tempo.
PRIMO COMMISSARIO
E che? Voi non volete
inseguire i fuggenti?
IL CONTE
Ora non voglio.
PRIMO COMMISSARIO
Ma il Senato lo crede... E noi ben certi
che pari all’alta occasion, che pari
alla vittoria il vostro ardor saria 30
nel proseguirla, abbiamo a lui...
IL CONTE
Vi siete
troppo affrettati.
PRIMO COMMISSARIO
E che dirà mai quando
udrà che ancor siam qui?
IL CONTE
Dirà, che il meglio
è di fidarsi a chi per lui già vinse.
PRIMO COMMISSARIO
Ma... che pensate far?
IL CONTE
Ve l’avrei detto 35
più volentier pochi momenti or sono;
pur convien ch’io vel dica. Io non mi
voglio
allontanar di qui pria ch’espugnate
non sian le rocche che ci stan d’intorno.
Voglio un solo nemico, e quello in faccia. 40
PRIMO COMMISSARIO
Or dunque i nostri voti...
IL CONTE
I vostri voti
più arditi son del brando mio, più rapidi
de’ miei cavalli;... ed io... la prima
volta
è che mi sento dir pur ch’io m’affretti.
PRIMO COMMISSARIO
Ma pensaste abbastanza?
IL CONTE
E che! Sì nova 45
mi giunge una vittoria? E vi par egli
che questa gioia mi confonda il core
tanto che il primo mio pensier non sia
per ciò che resta a far?
SCENA II
IL SECONDO
COMMISSARIO, e detti.
SECONDO
COMMISSARIO
(al Conte)
Signor, se tosto
non correte al riparo, una sfacciata 50
perfidia s’affatica a render vana
sì gran vittoria; e già l’ha fatto in
parte.
IL CONTE
Come?
SECONDO
COMMISSARIO
I prigioni escon del campo a torme;
i condottieri ed i soldati a gara
li mandan sciolti, né tener li puote 55
fuor che un vostro comando.
IL CONTE
Un mio comando?
SECONDO
COMMISSARIO
Esitereste a darlo?
IL CONTE
È questo un uso
della guerra, il sapete. È così dolce
il perdonar quando si vince! e l’ira
presto si cambia in amistà ne’ cori 60
che batton sotto il ferro. Ah! non
vogliate
invidiar sì nobil premio a quelli
che hanno per voi posta la vita, ed oggi
son generosi, perché ier fur prodi.
SECONDO
COMMISSARIO
Sia generoso chi per sé combatte, 65
signor; ma questi, e ad onor l’hanno, io
credo,
al nostro soldo han combattuto; e nostri
sono i prigioni.
IL CONTE
E voi potete adunque
creder così: quei che gli han visti a
fronte,
che assaggiaro i lor colpi, e che a fatica 70
su lor le mani insanguinate han poste,
nol crederan sì di leggieri.
PRIMO COMMISSARIO
È questa
dunque una giostra di piacer? Non vince
per conservar, Venezia? E vana al tutto
fia la vittoria?
IL CONTE
Io già l’udii, di novo 75
la devo udir questa parola: amara,
importuna mi vien come l’insetto
che, scacciato una volta, anco a ronzarmi
torna sul volto... La vittoria è vana?
Il suol d’estinti ricoperto, sparso 80
e scoraggiato il resto... il più fiorente
esercito! col qual, se unito ancora
e mio foss’egli, e mio davver, torrei
a correr tutta Italia; ogni disegno
dell’inimico al vento; anche il pensiero 85
dell’offesa a lui tolto; a stento usciti
dalle mie mani, e di fuggir contenti
quattro tai duci, contro a’ quai pur ieri
era vanto il resistere; svanito
mezzo il terror di que’ gran nomi; ai
nostri 90
raddoppiato l’ardir che agli altri è
scemo;
tutta la scelta della guerra in noi;
nostre le terre ch’egli han sgombre... è
nulla?
Pensate voi che torneranno al Duca
que’ prigioni? che l’amino? che a loro 95
caglia di lui più che di voi? ch’egli
abbiano
combattuto per esso? Han combattuto
perché all’uomo che segue una bandiera,
grida una voce imperiosa in core:
combatti, e vinci. E’ son perdenti; e’
sono 100
tornati in libertà; si venderanno...
oh! tale ora è il soldato... a chi
primiero
li comprerà... Comprateli, e son vostri.
PRIMO COMMISSARIO
Quando assoldammo chi dovea con essi
pugnar, comprarli noi credemmo allora. 105
SECONDO
COMMISSARIO
Signor, Venezia in voi si fida; in voi
vede essa un figlio; e quanto all’util
suo,
alla sua gloria può condur, s’aspetta
che si faccia da voi.
IL CONTE
Tutto ch’io posso.
SECONDO
COMMISSARIO
Ebben, che non potete in questo campo? 110
IL CONTE
Quel che chiedete: un uso antico, un uso
caro ai soldati violar non posso.
SECONDO
COMMISSARIO
Voi cui nulla resiste, a cui sì pronto
tien dietro ogni voler, sì ch’uom non vede
se per amore o per timor si pieghi, 115
voi non potreste in questo campo, voi
fare una legge, e mantenerla?
IL CONTE
Io dissi
ch’io non potea: meglio or dirò: nol
voglio.
Non più parole; con gli amici è questo
il mio costume antico, ai giusti preghi 120
soddisfar tosto e lietamente, e gli altri
apertamente rifiutar. Soldati!
SECONDO
COMMISSARIO
Ma... che disegno è il vostro?
IL CONTE
Or lo vedrete.
(a un Soldato
che entra)
Quanti prigion restano ancora?
IL SOLDATO
Io credo
quattrocento, signor.
IL CONTE
Chiamali... chiama 125
i più distinti... quei che incontri i
primi:
vengan qui tosto.
(parte il
Soldato)
Io ’l potrei certo... Ov’io
dessi un tal cenno, non s’udria nel campo
una repulsa; ma i miei figli, i miei
compagni del periglio e della gioia, 130
quei che fidano in me, che un capitano
credon seguir sempre a difender pronto
l’onor della milizia ed il vantaggio,
io tradirli così! Farla più serva,
più vil, più trista che non è!... Signori, 135
fidente io son, come i soldati il sono;
ma se cosa or da me chiedete a forza,
che mi tolga l’amor de’ miei compagni,
se mi volete separar da quelli,
e a tal ridurmi ch’io non abbia appoggio 140
altro che il vostro, mio malgrado il dico,
m’astringerete a dubitar...
SECONDO
COMMISSARIO
Che dite!
SCENA III
I PRIGIONIERI, tra
i quali PERGOLA figlio, e detti.
IL CONTE
(ai
Prigionieri)
O prodi indarno, o sventurati!... A voi
dunque fortuna è più crudel? voi soli
siete alla trista prigionia serbati? 145
UN PRIGIONIERE
Tale, eccelso signor, non era il nostro
presentimento allor che a voi dinanzi
fummo chiamati, udir ci parve il messo
di nostra libertà. Già tutti l’hanno
ricovrata color che agli altri duci, 150
minor di voi, caddero in mano; e noi...
IL CONTE
Voi, di chi siete prigionier?
IL PRIGIONIERE
Noi fummo
gli ultimi a render l’armi. In fuga o
preso
già tutto il resto, ancor per pochi
istanti
fu sospesa per noi l’empia fortuna 155
della giornata; alfin voi feste il cenno
d’accerchiarci, o signor: soli, non vinti,
ma reliquie de’ vinti, al drappel
vostro...
IL CONTE
Voi siete quelli? Io son contento, amici,
di rivedervi; e posso ben far fede 160
che pugnaste da prodi: e se tradito
tanto valor non era, e pari a voi
sortito aveste un condottier, non era
piacevol tresca esservi a fronte.
IL PRIGIONIERE
Ed ora
ci fia sventura il non aver ceduto 165
che a voi, signore? E quelli a cui toccato
men glorioso è il vincitor, l’avranno
trovato più cortese? Indarno ai vostri
la libertà chiedemmo; alcun non osa
dispor di noi senza l’assenso vostro; 170
ma cel promiser tutti. Oh! se potete
mostrarvi al Conte, ci dicean: non egli
certo dei vinti aggraverà la sorte;
non fia certo per lui tolta un’antica
cortesia della guerra,... ei che sapria 175
esser piuttosto ad inventarla il primo.
IL CONTE
(ai Commissari)
Voi gli udite, o signori... Ebben, che
dite?...
Voi, che fareste?...
(ai
Prigionieri)
Tolga il ciel che alcuno
più altamente di me pensi ch’io stesso.
Voi siete sciolti, amici. Addio: seguite 180
la vostra sorte, e s’ella ancor vi porta
sotto una insegna che mi sia nemica...
ebben, ci rivedremo.
(segni di gioia
tra i Prigionieri, che partono;
il Conte
osserva il Pergola figlio, e lo ferma)
O giovinetto,
tu del volgo non sei; l’abito, e il volto
ancor più chiaro il dice; e ti confondi 185
con gli altri, e taci?
PERGOLA FIGLIO
O capitano, i vinti
non han nulla da dir.
IL CONTE
La tua fortuna
porti così, che ben ti mostri degno
d’una miglior. Quale è il tuo nome?
PERGOLA FIGLIO
Un nome
cui crescer pregio assai difficil fia, 190
che un grande obbligo impone a chi lo
porta:
Pergola è il nome mio.
IL CONTE
Che? Tu sei figlio
di quel valente?
PERGOLA FIGLIO
Il son.
IL CONTE
Vieni ed abbraccia
l’antico amico di tuo padre. Io era
quale or tu sei, quando il conobbi in
prima. 195
Tu mi rammenti i lieti giorni, i giorni
delle speranze. E tu fa cor: fortuna
più giocondi princìpi a me concesse;
ma le promesse sue sono pei prodi;
e o presto o tardi essa le adempie. Il
padre 200
per me saluta, o giovinetto, e digli
ch’io non tel chiesi, ma che certo io sono
ch’ei non volea questa battaglia.
PERGOLA FIGLIO
Ah! certo,
non la volea; ma fur parole al vento.
IL CONTE
Non ti doler: del capitano è l’onta 205
della sconfitta; e sempre ben comincia
chi da forte combatte ove fu posto.
Vien meco;
(lo prende per
mano)
ai duci io vo’ mostrarti, io voglio
renderti la tua spada.
(ai Commissari)
Addio, signori;
giammai pietoso coi nemici vostri 210
io non sarò, che dopo averli vinti.
(partono il
Conte e Pergola figlio)
SCENA IV
I due COMMISSARI
SECONDO
COMMISSARIO
(dopo qualche
silenzio)
Direte ancor che a presagir perigli
troppo facil son io? che le parole
de’ suoi contrari, il mio sospetto antico,
l’odio forse, chi sa? mi fanno ingiusto 215
contro costui? ch’egli è sdegnoso, ardente,
ma leal? che da lui cercar non dessi
ossequi, ma servigi, e quando in grave
caso il nostro volere a lui s’intimi,
il dubitar ch’egli resista è un sogno? 220
Vi basta questo?
PRIMO COMMISSARIO
C’è di più. Gli dissi
che a noi premea che s’inseguisse il
vinto:
ei ricusò.
SECONDO
COMMISSARIO
Ma che rispose?
PRIMO COMMISSARIO
Ei vuole
assicurarsi delle rocche... ei teme...
SECONDO
COMMISSARIO
Cauto ad un tratto è divenuto... e dopo 225
una vittoria.
PRIMO COMMISSARIO
La parola a stento
gli uscia di bocca: ella parea risposta
all’indiscreto che t’assedia, e vuole
il tuo segreto che per nulla il tocca.
SECONDO
COMMISSARIO
Ma l’ha poi detto il suo segreto? E questo 230
motivo ond’egli accontentar vi volle,
vi parve il solo suo motivo, il vero?
PRIMO COMMISSARIO
Nol so, non ci badai, tempo non ebbi
che di pensar ch’io mi trovava innanzi
un temerario, e ch’io sentia parole 235
inusitate ai pari nostri.
SECONDO
COMMISSARIO
E s’egli
al suo signore antico, al primo ond’ebbe
onor supremi, all’alta creatura
della sua spada, più terror che danno
volesse far? fargli pensar soltanto 240
quel ch’egli era per lui, quel che gli è
contro?
Tal nemico mostrarglisi, ch’ei brami
d’averlo amico ancor? S’ei non potesse
tutto staccare il suo pensier da un trono
ch’egli alzò dalla polve; ov’ebbe il primo 245
grado dopo colui che v’è seduto?
Se un duca ardente di conquiste, e inetto
a sopportar d’una corazza il peso,
che d’una mano ha d’uopo e d’un consiglio,
e al condottier lo chiede, e gli comanda 250
ciò ch’ei medesmo gl’inspirò, più grato
signor, più dolce al condottier paresse,
che molti, e vigilanti, e più bramosi
di conservar che d’acquistar, cui preme
sovr’ogni cosa il comandar davvero? 255
PRIMO COMMISSARIO
Tutto io m’aspetto da costui.
SECONDO
COMMISSARIO
Teniamo
questo sospetto: il suo contegno, i nostri
accorgimenti il faran chiaro in breve,
o ad altro almen ci guideranno. Ei trama
certo. Colui che trama, e del successo 260
si pasce già, come se il tenga, ardito
parla ancor che nol voglia; e quei che
sprezza
in faccia il suo signor, già in cor ne ha
scelto
un altro, o pensa a diventarlo ei stesso.
No: da Filippo ei non è sciolto in tutto. 265
A quella stirpe onde la sposa egli ebbe
non è stranier: troppo gli è caro il nodo
che ad essa un dì lo strinse. In quella
figlia,
che ha tanta parte in suo pensier, non
scorre
col suo confuso de’ Visconti il sangue? 270
PRIMO COMMISSARIO
Come parlò! Come passò dall’ira
al non curar! Con che superba pace
disubbidì! Siam noi nel nostro campo?
Di Venezia i mandati? Eran costoro
vinti e prigioni? E più sicuro il guardo 275
portavano di noi! Noi testimoni
del suo poter, del conto in cui ci tiene,
de’ nostri acquisti così sparsi al vento,
di tal gioia, di tai grazie, di tali
abbracciamenti! Oh! ciò durar non puote. 280
Che avviso è il vostro?
SECONDO
COMMISSARIO
Haccene due? Soffrire,
dissimular, fargli querela ancora
d’un’offesa che mai creder non puote
dimenticata, e insiem la strada aprirgli
di ripararla a modo suo; gradire 285
che ch’ei ne faccia; chiedergli soltanto
ciò che siam certi d’ottenerne; opporci
sol quanto basti a far che vera appaia
condiscendenza il resto; a dichiararsi
non astringerlo mai; vegliare intanto; 290
scriverne ai Dieci, ed aspettar comandi.
PRIMO COMMISSARIO
Viver così! Che si diria di noi?
Dell’alto ufizio che ci fu commesso,
a cui venimmo invidiati, e or tale
diviene?
SECONDO
COMMISSARIO
È sempre glorioso il posto 295
dove si serve la sua patria, e dove
si giunge ai fini suoi. Soldati e duci
tutti sono per lui, l’ammiran tutti,
nessun l’invidia; a sommo onor si tiene
bene ubbidirlo; e in questo sol c’è gara 300
che ad essergli secondo ognuno aspira.
Voce sì cara e riverita in prima,
che forza avrebbe in lor poscia che udita
l’hanno in un tanto dì, che forza avrebbe
se proferisse mai quella parola, 305
che in core han tutti, la rivolta? Guai!
Che più? gli udimmo pur; come de’ suoi,
è nel pensiero de’ nemici in cima.
PRIMO COMMISSARIO
Ma siamo a tempo? Ei già sospetta.
SECONDO
COMMISSARIO
Il siamo.
Essi armati, e sol essi; avvezzi tutti 310
a prodigar la vita, a non temere
il periglio, ad amarlo, e delle imprese
a non guardar che la speranza, alfine
più ch’uomini nel campo: ah! se fanciulli
non fosser poi nel resto, ed i sospetti 315
facili a palesar come a deporli;
se una parola di lusinga, un atto
di sommessa amistà non li volgesse
a talento di quel che l’usa a tempo;
a che saremmo? ubbidiria la spada? 320
Saremmo ancora i signor noi?
PRIMO COMMISSARIO
Sta bene.
Riesca, o no, questo partito è il solo.
ATTO QUARTO
SCENA I
Sala dei Capi
del Consiglio dei Dieci, in Venezia.
MARCO Senatore,
e MARINO uno dei Capi.
MARCO
Eccomi al cenno degli eccelsi Capi
del Consiglio de’ Dieci.
MARINO
Io parlo in nome
di tutti lor. Vi si destina un grave
incarco, fuor di qui: se un argomento
di confidenza questo sia... la vostra 5
coscienza il diravvi.
MARCO
Essa mi dice
che scarsa al merto ed all’ingegno mio
dee la patria concederla, ma intera
alla fede ed al cor.
MARINO
La patria! È un nome
dolce a chi l’ama oltre ogni cosa, e sente 10
di vivere per lei; ma proferirlo
senza tremar non dee chi resta amico
de’ suoi nemici.
MARCO
Ed io...
MARINO
Per chi parlaste
oggi in Senato? Per la patria? I vostri
sdegni, i vostri terrori eran per lei? 15
Chi vi rendea sì caldo? Il suo periglio,
o il periglio di chi? Chi difendeste...
voi solo?
MARCO
Io so davanti a chi mi trovo.
Sta la mia vita in vostra man, ma il mio
voto non già: giudice ei non conosce 20
fuor che il mio cor; né d’altro esser può
reo
che d’avergli mentito. A darne conto
pur disposto son io.
MARINO
Tutto che puote
por la patria in periglio, essere inciampo
all’alte mire sue, dargli sospetto, 25
è in nostra man. Perché ci siate or voi,
se nol sapete, se mostrar vi giova
di non saperlo, uditelo. Per ora
d’oggi si parli; non vogliam di tutta
la vostra vita interrogar che un giorno. 30
MARCO
E che? fors’altro mi si appon? Di nulla
temer poss’io; la mia condotta...
MARINO
È nota
più a noi che a voi. Dalla memoria vostra
forse assai cose ha cancellato il tempo:
il nostro libro non obblia.
MARCO
Di tutto 35
ragion darò.
MARINO
Voi la darete quando
vi fia chiesta. Non più: quando il Senato
diede il comando al Carmagnola, a molti
era sospetta la sua fede; ad altri
certa parea: potea parerlo allora. 40
Ei discioglie i prigioni, insulta i nostri
mandati, i nostri pari; ha vinto, e perde
in perfid’ozio la vittoria. Il velo
cade dal ciglio ai più. Nel suo soccorso
troppo fidando, il Trevisan s’innoltra 45
nel Po, le navi del nemico affronta;
sopraffatto dal numero, richiede
al Capitan rinforzo, e non l’ottiene.
Freme il Senato; poche voci appena
s’alzano ancor per lui. Cremona è presa, 50
basta sol ch’ei v’accorra; ei non
v’accorre.
Giunge l’annunzio oggi al Senato: alfine
più non gli resta difensor che un solo:
solo, ma caldo difensor. Per lui
innocente è costui, degno di lode 55
più che di scusa; e se ci fu sventura,
colpa è soltanto del destino... e nostra.
Non è giustizia che il persegue: è solo
odio privato, è invidia, è basso orgoglio
che non perdona al sommo, a chi tacendo 60
grida co’ fatti: io son maggior di voi.
Certo inaudito è un tal linguaggio: i
Padri
nel lor Senato oggi l’udiro; e muti
si volsero a guardar donde tal voce
venìa, se uno straniero oggi, un nemico 65
premere un seggio nel Senato ardia.
Chiarito è il Conte un traditor; si vuole
torgli ogni via di nocere. Ma l’arte
tanta e l’audacia è di costui, che reso
ei s’è tremendo a’ suoi signori; è forte 70
di quella forza che gli abbiam fidata;
egli ha il cor de’ soldati; e l’armi
nostre,
quando voglia, son sue; contro di noi
volger le puote, e il vuol. Certo è follia
aspettar che lo tenti; ognun risolve 75
ch’ei si prevenga, e tosto. A forza aperta
è impresa piena di perigli. E noi
starem per questo? E il suo maggior
delitto
sarà cagion perché impunito ei vada?
Sola una strada alla giustizia è schiusa, 80
l’arte con cui l’ingannator s’inganna.
Ei ci astrinse a tenerla; ebben, si tenga:
questo è il voto comun. Che fece allora
l’amico di costui? Ve ne rammenta?
Io vel dirò; ché men tranquillo al certo 85
era in quel punto il vostro cor,
dell’occhio
che imperturbato vi seguia. Perdeste
ogni ritegno, oltrepassaste il largo
confin che un resto di prudenza avea
prescritto al vostro ardor, dimenticaste 90
ciò che promesso v’eravate, intero
ai men veggenti vi svelaste, a quelli
cui parea novo ciò che a noi non l’era.
Ognuno allor pensò che oggi in Senato
c’era un uom di soverchio, e che bisogna 95
porre il segreto dello Stato in salvo.
MARCO
Signor, tutto a voi lice: innanzi a voi
quel che ora io sia, non so; però non
posso
dimenticarmi che patrizio io sono,
né a voi tacer che un dubbio tal
m’offende. 100
Sono un di voi: la causa dello Stato
è la mia causa; e il suo segreto importa
a me non men che altrui.
MARINO
Volete alfine
saper chi siete qui? Voi siete un uomo
di cui si teme, un che lo Stato guarda 105
come un inciampo alla sua via. Mostrate
che nol sarete; il darvene agio ancora
è gran clemenza.
MARCO
Io sono amico al Conte:
questa è l’accusa mia; nol nego, io il
sono:
e il ciel ringrazio che vigor mi ha dato 110
di confessarlo qui. Ma se nemico
è della patria? Mi si provi, è il mio.
Che gli si appone? I prigionier disciolti?
Non li disciolse il vincitor soldato?
Ma invan pregato il condottier non volle 115
frenar questa licenza. Il potea forse?
Ma l’imitò. Non ve lo astrinse un uso,
qual ch’ei sia, della guerra? ed al Senato
vera non parve questa scusa? e largo
d’ogni onor poscia non gli fu? L’aiuto 120
al Trevisan negato? Era più grave
periglio il darlo; era l’impresa ordita
ignaro il Conte; ei non fu chiesto a
tempo.
E la sentenza che a sì turpe esiglio
il Trevisan dannò, tutta la colpa 125
non rovesciò sovra di lui? Cremona?
Chi di Cremona meditò l’acquisto?
Chi l’ordin dié che si tentasse? Il Conte.
Del popol tutto che a rumor si leva
non può scarso drappel l’inaspettato 130
impeto sostener; ritorna al campo,
non scemo pur d’un combattente. Al Duce
buon consiglio non parve incontro un novo
impensato nemico avventurarsi;
e abbandonò l’impresa. Ella è, fra tante 135
sì ben compiute, una fallita impresa;
ma il tradimento ov’è? Fiero, oltraggioso
da gran tempo, voi dite, è il suo
linguaggio:
un troppo lungo tollerar macchiato
ha l’onor nostro. Ed un’insidia, il lava? 140
E poi che un nodo, un dì sì caro, ormai
non può tener Venezia e il Carmagnola,
chi ci vieta disciorlo? Un’amistade
sì nobilmente stretta, or non potria
nobilmente finir? Come! anche in questo 145
un periglio si scorge! Il genio ardito
del condottier; la fama sua si teme,
de’ soldati l’amor! Se render piena
testimonianza al ver, colpa si stima;
se a tal trista temenza oppor non lice 150
la lealtà del Conte; il senso almeno
del nostro onor la scacci. Abbiam di noi
un più degno concetto; e non si creda
che a tal Venezia giunta sia, che possa
porla in periglio un uom. Lasciam codeste 155
cure ai tiranni: ivi il valor si tema
ove lo scettro è in una mano, e basta
a strapparlo un guerrier che dica: io sono
più degno di tenerlo; e a’ suoi compagni
il persuada. Ei che tentar potria? 160
Al Duca ritornar, dicesi, e seco
le schiere trar nel tradimento. Al Duca?
All’uom che un’onta non perdona mai,
né un gran servigio, ritornar colui
che gli compose e che gli scosse il trono? 165
Chi non poté restargli amico in tempo
che pugnava per lui, ridivenirlo
dopo averlo sconfitto! Avvicinarsi
a quella man che in questo asilo istesso 170
comprò un pugnal per trapassargli il
petto!
L’odio solo, o signor, creder lo puote.
Ah! qual sia la cagion che innanzi a
questo
temuto seggio fa trovarmi, un’alta
grazia mi fia, se fare intender posso
anco una volta il ver: qualche lusinga 175
io nutro ancor che non fia forse invano.
Sì, l’odio cieco, l’odio sol potea
far che fosse in Senato un tal sospetto
proposto, inteso, tollerato. Ha molti
fra noi nemici il Conte: or non ricerco 180
perché lo siano: il son. Quando nascoste
all’ombra della pubblica vendetta,
le nimistà private io disvelai;
quando chiedea che a provveder s’avesse
l’util soltanto dello Stato, e il giusto; 185
allora ufizio io non facea d’amico,
ma di fedel patrizio. Io già non scuso
il mio parlar: quando proporre intesi
che sotto il vel di consultarlo ei sia
richiamato a Venezia, e gli si faccia 190
onor più dell’usato, e tutto questo
per tirarlo nel laccio... allor, nol
nego...
MARINO
Più non pensaste che all’amico.
MARCO
Allora,
dissimular nol vo’, tutte sentii
le potenze dell’alma sollevarsi 195
contro un consiglio... ah fu seguito!...
Un solo
pensier non fu; fu della patria mia
l’onor ch’io vedo vilipeso, il grido
de’ nemici e de’ posteri; fu il primo
senso d’orror che un tradimento inspira 200
all’uom che dee stornarlo, o starne a
parte.
E se pietà d’un prode a tanti affetti
pur si mischiò, dovea, poteva io forse
farla tacer? Son reo d’aver creduto
che util puote a Venezia esser soltanto 205
ciò che l’onora, e che si può salvarla
senza farsi...
MARINO
Non più: se tanto udii
fu perché ai Capi del Consiglio importa
di conoscervi appien. Piacque aspettarvi
ai secondi pensier; veder si volle 210
se un più maturo ponderar v’ avea
tratto a più saggio e più civil consiglio.
Or, poiché indarno si sperò, credete
voi che un decreto del Senato io voglia
difender ora innanzi a voi? Si tratta 215
la vostra causa qui. Pensate a voi,
non alla patria: ad altre, e forti, e pure
mani è commessa la sua sorte: e nulla
a cor le sta che il suo voler vi piaccia,
ma che s’adempia, e che non sia sofferto 220
pure il pensier di porvi impedimento.
A questo vegliam noi. Quindi io non voglio
altro da voi che una risposta. Espresso
sovra quest’uomo è del Senato il voto;
compir si dee; voi, che farete intanto? 225
MARCO
Quale inchiesta, signor!
MARINO
Voi siete a parte
d’un gran disegno; e in vostro cor bramate
che a voto ei vada: non è ver?
MARCO
Che importa
ciò ch’io brami, allo Stato? A prova ormai
sa che dell’opre mie non è misura 230
il desiderio, ma il dover.
MARINO
Qual pegno
abbiam da voi che lo farete? In nome
del Tribunale un ve ne chiedo: e questo,
se lo negate, un traditor vi tiene.
Quel che si serba ai traditor, v’è noto. 235
MARCO
Io... Che si vuol da me?
MARINO
Riconoscete
che patria è questa a cui bastovvi il core
di preferire uno stranier. Sui figli
a stento e tardi essa la mano aggrava;
e a perderne soltanto ella consente 240
quei che salvar non puote. Ogni error
vostro
è pronta ad obbliar; v’apre ella stessa
la strada al pentimento.
MARCO
Al pentimento!
Ebben, che strada?
MARINO
Il Mussulman disegna
d’assalir Tessalonica: voi siete 245
colà mandato. A quale ufizio, quivi
noto vi fia: pronta è la nave; ed oggi
voi partirete.
MARCO
Ubbidirò.
MARINO
Ma un’arra
si vuol di vostra fé: giurar dovete
per quanto è sacro, che in parole o in
cenni 250
nulla per voi traspirerà di quanto
oggi s’è fisso. Il giuramento è questo:
(gli presenta
un foglio)
sottoscrivete.
MARCO
(legge)
E che, signor? Non basta?..
MARINO
E per ultimo, udite. Il messo è in via
che porta al Conte il suo richiamo.
Ov’egli 255
pronto ubbidisca, ed in Venezia arrivi,
giustizia troverà... forse clemenza.
Ma se ricusa, se sta in forse, e segno
dà di sospetto; un gran segreto udite,
e tenetelo in voi; l’ordine è dato 260
che dalle nostre man vivo ei non esca.
Il traditor che dargli un cenno ardisce,
quei l’uccide, e si perde. Io più non odo
nulla da voi: scrivete; ovvero...
(gli porge il
foglio)
MARCO
Io scrivo.
(prende il
foglio e lo sottoscrive)
MARINO
Tutto è posto in obblio. La vostra fede 265
ha fatto il più; vinto ha il dover:
l’impresa
compirsi or dee dalla prudenza: e questa
non può mancarvi, sol che in mente abbiate
che ormai due vite in vostra man son
poste. (parte)
MARCO
Dunque è deciso!... un vil son io!... fui
posto 270
al cimento; e che feci?... Io prima d’oggi
non conoscea me stesso!... Oh che segreto
oggi ho scoperto! Abbandonar nel laccio
un amico io potea! Vedergli al tergo
l’assassino venir, veder lo stile 275
che su lui scende, e non gridar: ti
guarda!
Io lo potea; l’ho fatto... io più nol devo
salvar; chiamato ho in testimonio il cielo
d’un’infame viltà... la sua sentenza
ho sottoscritta... ha la mia parte anch’io 280
nel suo sangue! Oh che feci!... io mi
lasciai
dunque atterrir?... La vita?... Ebben,
talvolta
senza delitto non si può serbarla:
nol sapeva io? Perché promisi adunque?
Per chi tremai? per me? per me? per questo 285
disonorato capo?... o per l’amico?
La mia ripulsa accelerava il colpo,
non lo stornava. O Dio, che tutto scerni,
rivelami il mio cor; ch’io veda almeno
in quale abisso son caduto, s’io 290
fui più stolto; o codardo, o sventurato.
O Carmagnola, tu verrai!... sì certo
egli verrà... se anche di queste volpi
stesse. in sospetto, ei penserà che Marco
è senator, che anch’io l’invito; e lunge 295
ogni dubbiezza scaccerà; rimorso
avrà d’averla accolta... Io son che il
perdo!
Ma... di clemenza non parlò quel vile?
Sì, la clemenza che il potente accorda
all’uom che ha tratto nell’agguato, a
quello 300
ch’egli medesmo accusa, e che gli preme
di trovar reo. Clemenza all’innocente!
Oh! il vil son io che gli credetti, o
volli
credergli; ei la nomò perché comprese
che bastante a corrompermi non era 305
il rio timor che a goccia a goccia ei fea
scender sull’alma mia: vide che d’uopo
m’era un nobil pretesto; e me lo diede.
Gli astuti! i traditor! Come le parti
distribuite hanno tra lor costoro! 310
Uno il sorriso, uno il pugnal, quest’altro
le minacce... e la mia?... voller che
fosse
debolezza ed inganno... ed io l’ho presa!
Io li spregiava; e son da men di loro!
Ei non gli sono amici!... Io non doveva 315
essergli amico: io la cercai; fui preso
dall’alta indole sua, dal suo gran nome.
Perché dapprima non pensai che incarco
è l’amistà d’un uom che agli altri è
sopra?
Perché allor correr solo io nol lasciai 320
la sua splendida via, s’io non potea
seguire i passi suoi? La man gli stesi;
il cortese la strinse; ed or ch’ei dorme,
e il nemico gli è sopra, io la ritiro:
ei si desta, e mi cerca; io son fuggito! 325
Ei mi dispregia, e more! Io non sostengo
questo pensier... Che feci!... Ebben, che
feci?
Nulla finora: ho sottoscritto un foglio,
e nulla più. Se fu delitto il giuro,
non fia virtù l’infrangerlo? Non sono 330
che all’orlo ancor del precipizio; il
vedo,
e ritrarmi poss’io... Non posso un mezzo
trovar?... Ma s’io l’uccido? Oh! forse il
disse
per atterrirmi... E se davvero il disse?
Oh empi, in quale abbominevol rete 335
stretto m’avete! Un nobile consiglio
per me non c’è; qualunque io scelga, è
colpa.
Oh dubbio atroce!... Io li ringrazio; ei
m’hanno
statuito un destino; ei m’hanno spinto
per una via; vi corro: almen mi giova 340
ch’io non la scelsi: io nulla scelgo; e
tutto
ch’io faccio è forza e volontà d’altrui.
Terra ov’io nacqui, addio per sempre: io
spero
ché ti morrò lontano, e pria che nulla
sappia di te: lo spero: in fra i perigli 345
certo per sua pietade il ciel m’invia.
Ma non morrò per te. Che tu sii grande
e gloriosa, che m’importa? Anch’io
due gran tesori avea, la mia virtude,
ed un amico; e tu m’hai tolto entrambi. 350
(parte)
Tenda del
Conte.
IL CONTE e GONZAGA
IL CONTE
Che dicon essi?
Si mostrar convinti
ai detti miei: dissero in pria, che nulla
dissimular volean; che amaro al certo 365
de’ perduti navigli era il pensiero,
e di Cremona la fallita impresa;
ma che son lieti di saper che il fallo
di te non fu; che di chiunque ei sia,
da te l’ammenda aspettano.
Tu il vedi, 370
o mio Gonzaga; se dai fede al volgo,
sommo riguardo, arte profonda è d’uopo
con questi uomin di Stato. Io fui con essi
quel ch’esser soglio; rigettai l’ingiuste
pretese lor, scender li feci alquanto 375
dall’alto seggio ove si pon chi avvezzo
non è a vedersi altri che schiavi intorno;
io mostrai lor fino a che segno io voglio
che altri signor mi sia: d’allora in poi
mai non l’hanno passato; io li provai 380
saggi sempre e cortesi.
E non pertanto
dar consiglio ad alcuno io non vorrei
di tener, questa via. Te da gran tempo
la gloria segue e la fortuna; ad essi
util tu sei, tu necessario e caro, 385
terribil forse: e tu la prova hai vinta;
se pur può dirsi che sia vinta ancora.
Che dubbi hai tu?
Tu, che certezza? Io vedo
dolci sembianti, e dolci detti ascolto:
segni d’amor; ma pur, l’odio che teme, 390
altri ne ha forse?
No: di questo io nulla
sono in pensier. Troppo a regnar son usi;
e san che all’uom da cui s’ottiene il
molto
chieder non dessi improntamente il meno.
E poi, mi credi, io li guardai dappresso: 395
questa cupa arte lor, questi intricati
avvolgimenti di menzogna, questo
finger, tacere, antiveder, di cui
tanto li loda e li condanna il mondo
è meno assai di quel che al mondo appare. 400
GONZAGA
Se pur non era di lor arte il colmo
il parer tali a te.
No: tu li vedi
con l’occhio altrui: quando col tuo li
veda,
tu cangerai pensiero. Havvene assai
di schietti e buoni; havvene tal che
un’alta 405
anima chiude, a cui pensier non osa
avvicinarsi che gentil non sia:
anima dolce e disdegnosa, in cui
legger non puoi, che tu non sia compreso
d’amor, di riverenza, e di desio 410
di somigliarle. Non temer; non sono
di me scontenti; e quando il fosser mai,
io lo saprei ben tosto.
Il Ciel non voglia
che tu t’inganni.
Altro mi duol: son stanco
di questa guerra che condur non posso 415
a modo mio. Quand’io non era ancora
più che un soldato di ventura, ascoso
e perduto tra i mille, ed io sentia
che al loco mio non m’avea posto il cielo,
e dell’oscurità l’aria affannosa 420
respirava fremendo, ed il comando
sì bello mi parea,... chi m’avria detto
che l’otterrei, che a gloriosi duci,
e a tanti e così prodi e così fidi
soldati io sarei capo; e che felice 425
io non sarei perciò!...
(entra un
Soldato)
Che rechi?
Un foglio
di Venezia.
(gli porge il
foglio, e parte)
Vediam.
(legge)
Non tel diss’io?
mai non gli ebbi più amici: a loro il Duca
chiede la pace, e conferir con meco
braman di ciò. Vuoi tu seguirmi?
Io vengo. 430
Che dì tu di tal pace?
Ad un soldato
tu lo domandi?
È ver; ma questa è guerra?
O mia consorte, o figlia mia, tra poco
io rivedrovvi, abbraccerò gli amici:
questo è contento al certo. Eppur del
tutto 435
esser lieto non so: chi potria dirmi
se un sì bel campo io rivedrò più mai?
FINE DELL’ATTO
QUARTO
ATTO QUINTO
SCENA I
Notte. Sala del
Consiglio dei Dieci illuminata.
Il DOGE, i
DIECI, e il CONTE seduti.
IL DOGE
(al Conte)
A questi patti offre la pace il Duca;
su ciò chiede il Consiglio il parer
vostro.
Signori, un altro io ve ne diedi; e molto
promisi allor: vi piacque. Io attenni in
parte
quel che promesso avea: ma lunge ancora 5
dalle parole è il fatto; ed or non voglio
farle obbliar però: sul labbro mio
imprevidente militar baldanza
non le mettea. Di novo avviso or chiesto,
altro non posso che ridirvi il primo. 10
Se intera e calda e risoluta guerra
far disponete, ah! siete a tempo: è questa
la miglior scelta ancora. Ei vi abbandona
Bergamo e Brescia; e non son vostre?
L’armi
le han fatte vostre: ei non può tanto
offrirvi 15
quanto sperar di torgli v’è concesso.
Ma, da un guerrier che vi giurò sua fede
voi non volete altro che il ver, se il
modo
mutar di questa guerra a voi non piace,
accettate gli accordi.
Il parlar vostro 20
accenna assai, ma poco spiega: un chiaro
parer vi si domanda.
Uditel dunque.
Scegliete un duce, e confidate in lui:
tutto ei possa tentar; nulla si tenti
senza di lui: largo poter gli date; 25
stretto conto ei ne renda. Io non vi
chiedo
ch’io sia l’eletto: dico sol che molto
sperar non lice da chi tal non sia.
Non l’eravate voi quando i prigioni
sciolti voleste, e il furo? Eppur la
guerra 30
più risoluta non si fea per questo,
né certa più. Duce e signor nel campo,
forse concesso non l’avreste.
Avrei
fatto di più: sotto alle mie bandiere
venian quei prodi; e di Filippo il soglio 35
voto or sarebbe, o sederiavi un altro.
Vasti disegni avete.
E l’adempirli
sta in voi: se ancor nol son, n’è cagion
sola
che la man che il dovea sciolta non era.
MARINO
A noi si disse altra cagion: che il Duca 40
vi commosse a pietà, che l’odio atroce
che già portaste al signor vostro antico,
sovra i presenti il rovesciaste intero.
Questo vi fu riferto? Ella è sventura
di chi regge gli Stati udir con pace 45
l’impudente menzogna, i turpi sogni
d’un vil di cui non degneria privato
le parole ascoltar.
Sventura è vostra
che a tal riferto il vostro oprar s’accordi,
che il rio linguaggio lo confermi, e il
vinca. 50
Il vostro grado io riverisco in voi,
e questi generosi in mezzo a cui
v’ha posto il caso: e mi conforta almeno
che il non mertato onor di che lor piacque
cingere il loro capitan, lo stesso 55
udirvi io qui, mostra ch’essi han di lui
altro pensiero.
Uno è il pensier di tutti.
E qual?
L’udiste.
È del Consiglio il voto
quello che udii?
Sì: il crederete al Doge.
Questo dubbio di me?...
Già da gran tempo 60
non è più dubbio.
E m’invitaste a questo?
E taceste finor?
Sì, per punirvi
del tradimento, e non vi dar pretesti
per consumarlo.
IL CONTE
Io traditor! Comincio
a comprendervi alfin: pur troppo altrui 65
creder non volli. Io traditor! Ma questo
titolo infame infimo a me non giunge:
ei non è mio; chi l’ha mertato il tenga.
Ditemi stolto: il soffrirò, che il merto:
tale è il mio posto qui; ma con null’altro 70
lo cambierei, ch’egli è il più degno
ancora.
Io guardo, io torno col pensier sul tempo
che fui vostro soldato: ella è una via
sparsa di fior. Segnate il giorno in cui
vi parvi un traditor! Ditemi un giorno 75
che di grazie e di lodi e di promesse
colmo non sia! Che più? Qui siedo; e
quando
io venni a questo che alto onor parea,
quando più forte nel mio cor parlava
fiducia, amor, riconoscenza, e zelo... 80
Fiducia no: pensa a fidarsi forse
quei che invitato tra gli amici arriva?
Io veniva all’inganno! Ebben, ci caddi;
ella è così. Ma via; poiché gettato
è il finto volto del sorriso ormai, 85
sia lode al ciel; siamo in un campo almeno
che anch’io conosco. A voi parlare or
tocca;
e difendermi a me: dite, quai sono
i tradimenti miei?
Gli udrete or ora
dal Collegio segreto.
Io lo ricuso. 90
Ciò che feci per voi, tutto lo feci
alla luce del sol; renderne conto
tra insidiose tenebre non voglio.
Giudice del guerrier, solo è il guerriero.
Voglio scolparmi a chi m’intenda; voglio 95
che il mondo ascolti le difese, e veda...
Passato è il tempo di voler.
Qui dunque
mi si fa forza? Le mie guardie!
(alzando la
voce, si move per uscire)
IL DOGE
Sono
lunge di qui. Soldati!
(entrano genti
armate)
Eccovi ormai
le vostre guardie.
Io son tradito!
Un saggio 100
pensier fu dunque il rimandarle: a torto
non si pensò che, in suo tramar sorpreso,
farsi ribelle un traditor potria.
Anche un ribelle, sì: come v’aggrada
ormai potete favellar.
Sia tratto 105
al Collegio segreto.
Un breve istante
udite in pria. Voi risolveste, il vedo,
la morte mia; ma risolvete insieme
la vostra infamia eterna. Oltre l’antico
confin l’insegna del Leon si spiega 110
su quelle torri, ove all’Europa è noto
ch’io la piantai. Qui tacerassi, è vero;
ma intorno a voi, dove non giunge il muto
terror del vostro impero, ivi librato,
ivi in note indelebili fia scritto 115
il benefizio e la mercé. Pensate
ai vostri annali, all’avvenir. Tra poco
il dì verrà che d’un guerriero ancora
uopo vi sia: chi vorrà farsi il vostro?
Voi provocate la milizia. Or sono 120
in vostra forza, è ver; ma vi sovvenga
ch’io non ci nacqui, che tra gente io
nacqui
belligera, concorde: usa gran tempo
a guardar come sua questa qualunque
gloria d’un suo concittadin, non fia 125
che straniera all’oltraggio ella si tenga.
Qui c’è un inganno: a ciò vi trasse un
qualche
vostro nemico e mio: voi non credete
ch’io vi tradissi. È tempo ancora.
È tardi.
Quando il delitto meditaste, e baldo 130
affrontavate chi dovea punirlo,
tempo era allor d’antiveggenza.
Indegno!
Tu mi rendi a me stesso. Tu credesti
ch’io chiedessi pietà, ch’io ti pregassi:
tu forse osasti di pensar che un prode 135
pe’ giorni suoi tremava. Ah! tu vedrai
come si mor. Va; quando l’ultim’ora
ti coglierà sul vil tuo letto, incontro
non le starai con quella fronte al certo,
che a questa infame, a cui mi traggi, io
reco. 140
(parte il Conte
tra i Soldati)
SCENA II
Casa del Conte.
ANTONIETTA, e MATILDE
MATILDE
Ecco l’aurora; e il padre ancor non
giunge.
Ah! tu nol sai per prova: i lieti eventi
tardi, aspettati giungono, e non sempre.
Presta soltanto è la sventura, o figlia:
intraveduta appena, ella c’è sopra. 145
Ma la notte passò: l’ore penose
del desio più non son: tra pochi istanti
quella del gaudio sonerà. Non puote
ei più tardar; da questo indugio io prendo
un fausto augurio: il consultar sì lungo 150
tratto non han, che per fermar la pace.
Ei sarà nostro, e per gran tempo.
O madre,
anch’io lo spero. Assai di notti in
pianto,
e di giorni in sospetto abbiam passati.
È tempo ormai che, ad ogni istante, ad
ogni 155
novella, ad ogni susurrar del volgo
più non si tremi, e all’alma combattuta
quell’orrendo pensier più non ritorni:
forse colui che sospirate, or more.
ANTONIETTA
Oh rio pensier! ma almen per ora è lunge. 160
Figlia, ogni gioia col dolor si compra.
Non ti sovvien quel dì che il tuo gran
padre
tratto in trionfo, tra i più grandi
accolto,
portò l’insegne de’ nemici al tempio?
Oh giorno!
Ognun parea minor di lui; 165
l’aria sonava del suo nome; e noi
scevre dal volgo, in alto loco intanto
contemplavam quell’uno in cui rivolti
eran tutti gli sguardi: inebbriato
il cor tremava, e ripetea: siam sue. 170
Felici istanti!
Che avevam noi fatto
per meritarli? A questa gioia il cielo
ci trascelse tra mille. Il ciel ti scelse,
il ciel ti scrisse un sì gran nome in
fronte;
tal don ti fece, che a chiunque il rechi, 175
n’andrà superbo. A quanta invidia è segno
la nostra sorte! E noi dobbiam scontarla
con queste angosce.
Ah! son finite... ascolta;
odo un batter di remi... ei cresce... ei
cessa...
Si spalancan le porte... ah! certo ei
giunge: 180
o madre, io vedo un’armatura; è lui.
Chi mai saria s’egli non fosse?... O
sposo...
(va verso la
scena)
SCENA III
GONZAGA, e
dette.
ANTONIETTA
Gonzaga!... ov’è il mio sposo? ov’è?... Ma
voi
non rispondete? Oh cielo! il vostro
aspetto
annunzia una sventura.
A chi sventura?
O donne!
Perché un incarco sì crudel m’è imposto?
Ah! voi volete esser pietoso, e siete
crudel: tremar più non ci fate. In nome
di Dio, parlate; ov’è il mio sposo?
vi dia la forza d’ascoltarmi. Il Conte...
Forse è tornato al campo?
Egli preso! perché?
di tradimento.
Oh padre! 195
Or via, seguite: preparate al tutto
siam noi: che gli faran?
GONZAGA
Ei vive?
Non pianger, figlia, or che d’oprare è il
tempo. 200
Gonzaga, per pietà, non vi stancate
della nostra sventura; il ciel v’affida
due derelitte: ei v’era amico: andiamo,
siateci scorta ai giudici. Vien meco,
poverella innocente: oh! vieni: in terra 205
c’è ancor pietà: son sposi e padri
anch’essi.
Mentre scrivean l’empia sentenza, in mente
non venne lor ch’egli era sposo e padre.
Quando vedran di che dolor cagione
è una parola di lor bocca uscita, 210
ne fremeranno anch’essi; ah! non potranno
non rivocarla: del dolor l’aspetto
è terribile all’uom. Forse scusarsi
quel prode non degnò, rammentar loro
quanto per essi oprò; noi rammentarlo 215
sapremo. Ah! certo ei non pregò; ma noi,
noi pregheremo.
(in atto di
partire)
Oh ciel, perché non posso
lasciarvi almen questa speranza! A preghi
loco non c’è; qui i giudici son sordi,
implacabili, ignoti: il fulmin piomba, 220
la man che il vibra è nelle nubi ascosa.
Solo un conforto v’è concesso, il tristo
conforto di vederlo, ed io vel reco.
Ma il tempo incalza. Fate cor; tremenda
è la prova; ma il Dio degl’infelici 225
sarà con voi.
ANTONIETTA
Oh figlia!
(partono)
SCENA IV
Prigione.
IL CONTE
A quest’ora il sapranno. Oh perché almeno
lunge da lor non moio! Orrendo, è vero,
lor giungeria l’annunzio; ma varcata
l’ora solenne del dolor saria; 230
e adesso innanzi ella ci sta: bisogna
gustarla a sorsi, e insieme. O campi
aperti!
o sol diffuso! o strepito dell’armi!
o gioia de’ perigli! o trombe! o grida
de’ combattenti! o mio destrier! tra voi 235
era bello il morir. Ma... ripugnante
vo dunque incontro al mio destin, forzato,
siccome un reo, spargendo in sulla via
voti impotenti e misere querele?
E Marco, anch’ei m’avria tradito! Oh vile 240
sospetto! oh dubbio! oh potess’io deporlo
pria di morir! Ma no: che val di novo
affacciarsi alla vita, e indietro ancora
volgere il guardo ove non lice il passo?
E tu, Filippo, ne godrai! Che importa? 245
Io le provai quest’empie gioie anch’io:
quel che vagliano or so. Ma rivederle!
ma i lor gemiti udir! l’ultimo addio
da quelle voci udir! tra quelle braccia
ritrovarmi... e staccarmene per sempre! 250
Eccole! O Dio, manda dal ciel sovr’esse
un guardo di pietà.
ANTONIETTA,
MATILDE, GONZAGA, e il CONTE
ANTONIETTA
Così ritorni a noi? Questo è il momento
bramato tanto?...
O misere, sa il cielo
che per voi sole ei m’è tremendo. Avvezzo 255
io son da lungo a contemplar la morte,
e ad aspettarla. Ah! sol per voi bisogno
ho di coraggio; e voi, voi non vorrete
tormelo, è vero? Allor che Dio sui boni
fa cader la sventura, ei dona ancora 260
il cor di sostenerla. Ah! pari il vostro
alla sventura or sia. Godiam di questo
abbracciamento: è un don del cielo
anch’esso.
Figlia, tu piangi! e tu, consorte!... Ah!
quando
ti feci mia, sereni i giorni tuoi 265
scorreano in pace; io ti chiamai compagna
del mio tristo destin: questo pensiero
m’avvelena il morir. Deh ch’io non veda
quanto per me sei sventurata!
O sposo
de’ miei bei dì, tu che li festi; il core 270
vedimi; io moio di dolor; ma pure
bramar non posso di non esser tua.
Sposa, il sapea quel che in te perdo; ed
ora
non far che troppo il senta.
No, mia dolce Matilde; il tristo grido 275
della vendetta e del rancor non sorga
dall’innocente animo tuo, non turbi
quest’istanti: son sacri. Il torto è
grande;
ma perdona, e vedrai che in mezzo ai mali
un’alta gioia anco riman. La morte! 280
Il più crudel nemico altro non puote
che accelerarla. Oh! gli uomini non hanno
inventata la morte: ella saria
rabbiosa, insopportabile: dal cielo
essa ci viene; e l’accompagna il cielo 285
con tal conforto, che né dar né torre
gli uomini ponno. O sposa, o figlia, udite
le mie parole estreme: amare, il vedo,
vi piombano sul cor; ma un giorno avrete
qualche dolcezza a rammentarle insieme. 290
Tu, sposa, vivi; il dolor vinci, e vivi;
questa infelice orba non sia del tutto.
Fuggi da questa terra, e tosto ai tuoi
la riconduci: ella è lor sangue; ad essi
fosti sì cara un dì! Consorte poi 295
del lor nemico, il fosti men; le crude
ire di Stato avversi fean gran tempo
de’ Carmagnola e de’ Visconti il nome.
Ma tu riedi infelice; il tristo oggetto
dell’odio è tolto: è un gran pacier la
morte. 300
E tu, tenero fior, tu che tra l’armi
a rallegrare il mio pensier venivi,
tu chini il capo: oh! la tempesta rugge
sopra di te! tu tremi, ed al singulto
più non regge il tuo sen; sento sul petto 305
le tue infocate lagrime cadermi;
e tergerle non posso: a me tu sembri
chieder pietà, Matilde: ah! nulla il padre
può far per te; ma pei diserti in cielo
c è un Padre, il sai. Confida in esso, e
vivi 310
a dì tranquilli se non lieti: Ei certo
te li prepara. Ah! perché mai versato
tutto il torrente dell’angoscia avria
sul tuo mattin, se non serbasse al resto
tutta la sua pietà? Vivi, e consola 315
questa dolente madre. Oh ch’ella un giorno
a un degno sposo ti conduca in braccio!
Gonzaga, io t’offro questa man che spesso
stringesti il dì della battaglia, e quando
dubbi eravam di rivederci a sera. 320
Vuoi tu stringerla ancora, e la tua fede
darmi che scorta e difensor sarai
di queste donne, fin che sian rendute
ai lor congiunti?
Or sono
contento. E quindi, se tu riedi al campo, 325
saluta i miei fratelli, e dì lor ch’io
moio innocente: testimon tu fosti
dell’opre mie, de’ miei pensieri, e il
sai.
Dì lor che il brando io non macchiai con
l’onta
d’un tradimento: io nol macchiai: son io 330
tradito. E quando squilleran le trombe,
quando l’insegne agiteransi al vento,
dona un pensiero al tuo compagno antico.
E il dì che segue la battaglia, quando
sul campo della strage il sacerdote, 335
tra il suon lugubre, alzi le palme,
offrendo
il sacrifizio per gli estinti al cielo,
ricordivi di me, che anch’io credea
morir sul campo.
Sposa, Matilde, ormai vicina è l’ora; 340
convien lasciarci... addio.
Ah no! dovranno
staccarci a forza.
(si sente uno
strepito d’armati)
ANTONIETTA
(s’apre la
porta di mezzo, e s’affacciano genti armate; il capo di esse s’avanza verso il
Conte: le due donne cadono svenute)
IL CONTE
O Dio pietoso, tu le involi a questo 345
crudel momento; io ti ringrazio. Amico,
tu le soccorri, a questo infausto loco
le togli; e quando rivedran la luce
dì lor... che nulla da temer più resta.
FINE DELLA
TRAGEDIA
([1]) Sono differenti in questo (l’Epopea e la Tragedia), che quella ha il verso misurato semplice, ed è raccontativa, e formata di lunghezza; e questa si sforza, quanto può il più, di stare sotto un giro del sole, o di mutarne poco; ma l’Epopea è smoderata per tempo, ed in ciò è differente dalla Tragedia. Traduzione del Castelvetro.
([7]) Altre circostanze non hanno permesso all’autore di mantenere questa promessa. E lo dice senza riguardo, sapendo bene che sono mancanze le quali, lungi dal far perdere a un autore il titolo di galantuomo, gli acquistano spesso quello di benemerito. Del rimanente, questo punto è stato toccato in parte nella Lettre à M.r Ch... sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie. E forse, per ciò che riguarda la questione generale, basta osservare che tutta l’argomentazione di quegli scrittori è fondata sulla supposizione, che il dramma non possa interessare, se non in quanto comunichi allo spettatore o al lettore le passioni rappresentate in esso. Supposizione venuta dall’aver preso per condizione universale e naturale del dramma ciò ch’era un fatto speciale de’ drammi esaminati da loro, e della quale la più parte de’ drammi immortali di Shakespeare sono una confutazione tanto evidente quanto magnifica.
([9]) Filippo la fece decapitare come rea d’adulterio con Michele Orombelli. Il più degli storici la credono innocente.
([14]) Per servire alla dignità del verso, il nome di quest’ultimo personaggio nella tragedia venne cambiato con quello di Fortebraccio. La storia stessa ha suggerito questo cambiamento; giacché il Piccinino era nipote di Braccio Fortebracci, e dopo la morte dello zio fu capo de’ soldati della fazione Braccesca.
([17]) Ai 13 di luglio, essendo stato proclamato Nicolò Trevisano, che fu capitano nel Po, ed essendosi egli assentato, gli Avogadori di Comune andarono al consiglio de’ Pregadi, e messero di procedere contro di lui, per essere stato rotto in Po da’ galeoni del Duca di Milano ai 21 di giugno passato, in vitupero del Dominio, e per non aver fatto il suo dovere, immo vilissime essersi portato; immo perché andò pregando gli altri che fuggissero via. Sanuto, Rer. Ital., xxii, 1017.