EPIGRAMMI, SCHERZI E COMPLIMENTI

  Alessandro Manzoni

 

XXXVII

[PARODIA D'ARIETTA MELODRAMMATICA METASTASIANA]

 

                        Tu vuoi saper s'io vado,

            Tu vuoi saper s'io resto:

            Sappi, ben mio, che questo

            Non lo saprai da me.

5                      Non che il pudor nativo

            Metta alla lingua il morso,

            O che impedisca il corso

            Quel certo non so che.

                        Vuoi ch'io dica perché non lo dico?

10        Non lo dico, oh destino inimico!

            Non lo dico, oh terribile intrico!

            Non lo dico, perché non lo so.

                        Lo chieggo alla madre

            Con pianti ed omei:

15        Risponde: Vorrei

            Saperlo da te.

                        Se il chieggo alla sposa:

            Decidi a tuo senno,

            Risponde: un tuo cenno

20        È legge per me.

             Se il chieggo a me stesso

            .  .  .  .  .  .  .  .  .

 

XXXVIII

[I VERSI DEL CONTE GIOVIO]

[1814?]

 

                        Conte Giovio tanto visse

            Ch' a' suoi versi sopravvisse.

 

 

XXXIX

L'IRA D'APOLLO

ODE [BURLESCA]

[Per la Lettera semiseria di Grisostomo]

[1816]

 

                        Vidi (credi, se il vuoi, volgo profano!)

            Vidi là dove innalzasi

            E nel Lario si specchia il Baradello

            Il Delfico calar Nume sovrano,

5          E su la torre aerea

            Ristar dell'antichissimo Castello.

            Gli spirava dal volto ira divina,

            E da la chioma odor d'ambrosia fina.

                         Sperai che, quale in su la rupe Ascrea

10        O sul giogo Parnasio,

            Almo suono ei trarria da la sua cetra;

            Ma il Nume che tutt'altro in testa avea.

            Piegando il braccio eburneo,

            Stese la man sul tergo a la faretra:

15        Tolse uno stral, su l'arco d'oro il tese;

            Lungo e profondo mormorio s'intese;

                        Ove su l'ampio verdeggiar dei prati

            Sacra a le belle Najadi,

            Sorge l'alta Milan, la mira ei volse.

20        Me prese alto terror pei Lari amati,

            E da le labbra tremule

            La voce a stento ad implorar si sciolse:

            “Ferma! che fai? Deh non ferir, perdona,

            Santo figlio di Giove e di Latona!”

25                    Al dardo impaziente il vol ritenne,

            E a me rivolto, in placido

            Sembiante, a dir mi prese il dio di Delo:

            “Fino a noi da que' lidi il grido venne

            D'uom che sfidare attentasi

30        Tutti gli Dei, tutte le Dee del cielo,

            E l'audacia di lui resta impunita?

            Pera l'empia città che il lascia in vita!”

                        “Deh! per Leucotoe”, io dissi, “e per Giacinto,

            Per la gentil Coronide,

35        Per quella Dafne più di tutte amata,

            De la cui spoglia verde il capo hai cinto,

            Poni lo sdegno orribile,

            Frena la furia de la destra irata;

            Pensa, o signor di Delfo, almo Sminteo,

40        Che se enorme è la colpa, un solo è il reo.

                        Un solo ha fatto ai numi vostri insulto,

            Spinto da l'atre Eumenidi;

            Egli è il solo fra noi che non vi adora;

            Non obliar per lui degli altri il culto:

45        Vedi l'are che fumano,

            Vedi il popolo pio che a voi le infiora,

            Ascolta i preghi, odi l'umil saluto,

            Che il Cordusio ti manda e il Bottonuto.

                        Tutto è pieno di voi. Qual rio cultore,

50        Non invocata Cerere,

            I semi affida a l'immortal Tellure?

            Ad ardua impresa chi rivolge il core,

            Se a la Cortina Delfica

            Non tenta il velo de le sorti oscure?

55        Quale è il nocchier che sciolga al vento i lini,

            Pria di far sacrificio ai Dei marini?

                        Voi, se Fortuna a noi concede il crine

            O volge il calvo, amabile

            E perenne argomento ai canti nostri:

60        Così le Greche genti e le Latine

            Voi Signori cantavano

            E degli Olimpj e dei Tartarei chiostri:

            E noi, che in voi crediamo al par di loro,

            Non sacreremo a voi le cetre d'oro?

65                    Figlio di Rea, tu faretrato arciero,

            De la donzella Sicula

            Buon rapitor, che regno hai sopra l'ombre,

            Tu che dal suolo uscir festi il destriero,

            Marte, Giunone e Venere,

70        Tu che il virgineo crin d'ulivo adombre,

            Io per me mi protesto, o Numi santi,

            Umilissimo servo a tutti quanti.

                        Fa' luogo, o biondo Nume, al mio riclamo:

            Non render risponsabile,

75        Per un sol che peccò, tutto un paese;

            Lascia tranquilli noi che rei non siamo;

            E le misure energiche

            Sol contra l'empio schernitor sian prese”.

            Tacqui, e m'accorsi dal placato aspetto

80        Che il biondo Dio gustava il mio progetto.

                        Lo stral ripose nel turcasso, e disse:

            “Poi che quest'empio attentasi

            Esercitar le nostre arti canore,

            Queste orribili pene a lui sien fisse:

85        Lunge dai gioghi aonii

            Sempre dimori e dalle nove suore;

            Non abbia di Castalia onda ristauro,

            Ne mai gli tocchi il crin fronda di lauro.

                        Giammai non monti il corridor che vola,

90        Ma intorno al vero aggirisi,

            Viaggiando pedestre il vostro mondo.

            Non spiri aura di Pindo in sua parola:

            Tutto ei deggia da l'intimo

            Suo petto trarre e dal pensier profondo,

95        E sia costretto lasciar sempre in pace

            L'ingorda Libitina e il Veglio edace.

                        E perché privo d'ogni gioja e senza

            Speme si roda il perfido,

            Lira eburna gli tolgo e plettro aurato”.

100      Un gel mi prese alla feral sentenza;

            E, sbigottito e pallido,

            Esclamai: “Santi Numi, egli è spacciato!

            E come vuoi che senza queste cose

            Ei se la cavi?”. “Come può”, rispose.

105                  Tacque, e ristette il Nume, simigliante

            A la sua sacra immagine

            Che per Greco scalpel nel marmo spira,

            Dove negli atti e nel divin sembiante

            Vedi la calma riedere,

110      E sul labbro morir la turgid'ira:

            Spunta il piacer de la vittoria in viso,

            Mirando il corpo del Pitone anciso.

 

XL

[A GIULIO, LODATORE DI “PAZZI SONETTANTI”, O CLASSICISTI]

[1816-1817]

 

                        Dunque il tuo Lesbio per l'estinta Nice

            Va su' tumuli erbosi a sparger pianti

            Veracemente come in versi il dice?

                        Oh, che mi narri di siffatti vanti

5          Sentimentali che a bandir lor nome

            Spandon cotesti pazzi sonettanti?

                        Poi gridan che ahi! gli è indarno offrir le chiome

            Alla Tartarea Giuno, e abbracciar l'are

            Dell'Eumenidi pie per vincer, come

10                    Pur non fu dato al Tracio Orfeo, le avare

            Fauci dell'atra Dite, e all'aureo sole

            Ricondur le rapite anime care.

                        E sentono costoro? e in lor parole

            Dolor tu forse, o amor, od altro senti

15        In mezzo al ghiaccio di cotante fole?

                        Male il Poeta ti pingesti in mente,

            Diletto Giulio, e il tuo veder fallace

            S'accusa in tal subbietto anco ebbramente.

                        Come i versi lodar puoi del dicace

20        Spensierato Berillo, ond'è schernita

            Del buon Pacomio la vista verace

                        Perché incerto è nell'opre, ed ogni ardita

            Sentenza il punge, e fugge i crocchi, e gode

            Trar taciturna e solitaria vita?

25                    Poi veggo il duolo che ti cruccia e rode

            Se la scola t'ingiunge altra lettura

            Che poemetti, canzoncine ed ode.

            .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

 

XLI

IL CANTO XVI DEL TASSO

DRAMMA

[1817]

 

Interlocutori:

ARMIDA - RINALDO - UBALDO - CARLO

La scena rappresenta gli orti di Armida.

 

ATTO PRIMO

Scena I

 

RINALDO solo

(col ventaglio in mano, all'ombra).

 

                        Oh! che caldo fa in questo paese!

            Un più forte giammai non m'accese;

            Nemmen quello del Nume d'Amor.

                        E quand'ho la camicia sudata,

5          Non v'è alcun che me l'abbia cambiata;

            Mi s'asciuga sul corpo il sudor.

                        Dacché mi trovo in questo

            Non so se labirinto ovver palazzo

            Rotondo, e di figura irregolare,

10        Giammai non vidi un uomo a cui parlare:

            Tutto lo spasso mio

            Fu il contar le colonne; e son seimila,

            Ma l'architetto non le ha messe in fila.

            Potessi almen sapere

15        Quel che fa Armida dentro il suo casotto!

            Vi sta dalle otto del mattino alle otto

            Della sera: ma zitto... appunto è dessa;

            Dessa la sola fiamma del cor mio;

            Ma è troppo giusto, ché son solo anch'io.

 

Scena II

ARMIDA e DETTO

 

ARMIDA

20        Che fai, bell'idol mio?

 

RINALDO

            Il solito, o mia stella:

            In questa parte e in quella

            Vado portando il piè.

            E tu che fai, mio bene?

25        Se la domanda è onesta.

 

ARMIDA

(accennando il casotto).

            Da quella parte a questa

            Ho già portato il piè.

                        Vedi, mio bel guerriero,

            Quanto io feci per te? Ti addussi in questo

30        Solitario ritiro, e ne raccolsi

            Quanto di bel sa far natura ed arte,

            Se avvien che la natura

            Co' suoi d'imitazion tratti più arditi

            “L'imitatrice sua scherzando imiti”.

35        E perché nulla al sommo piacer manchi

            Il popolai di bella

            E scelta compagnia,

            Orsi, tigri, leoni, aquile, e serpi:

            E quel ch'è più di tutti, un papagallo

40        Che nel periodar non mai fallo.

 

RINALDO

                        Ma pur qualche vivente

            Che parlasse per uso, e non per caso,

            Non farebbe difetto.

 

ARMIDA

            Quando l'esser soletto

45        Con l'adorata donna

            Spiacque ad amante mai?

 

RINALDO

                            Quando s'annoja.

 

ARMIDA

            Deh! non dir tal parola, o cara gioja.

 

RINALDO

            Se 'l dissi, ad arte e non a caso il fei:

            Se non dicessi il resto io creperei.

 

ARMIDA

50        Ohimè! che vuol dir questo?

 

RINALDO

            Vuol dir: panico pesto. È tempo alfine

            Ch'io parli, e tu m'ascolti; e se finora

            Fui di poche parole...

            Basta: so quel che dico:

55        La colpa non fu mia, ma d'un amico.

            È quello il modo, insomma,

            Di trattare un guerriero innamorato?

            Lasciarlo sempre solo

            A parlar con le belve e colle piante:

60        “Se non quando è con te romito amante”?

            Cangiarlo in cacclator senza fucile?

            Cangiarlo in giardinier senza badile?

            So che un certo Ruggiero,

            Che fu antenato mio, trovossi un giorno

65        In questo contingente, in ch'io mi trovo;

            Vedete che il trovato non è nuovo!

            Ma quei si stava in festa,

            A caccia, a giostre, a danze, ed a conviti

            In mezzo ad una bella compagnia.

70        Ed io solo così convien che stia!

            Che invenzioni son queste?

            Non si tratta così con casa d'Este.

 

ARMIDA

            E vorresti, o degenere superbo,

            Metterti con Ruggiero?

75        Non sei degno di fargli il cameriero.

            Quello era un uom famoso in tutto il mondo,

            Amato dalle donne, riverito

            Dai guerrieri nell'arme più lodati:

            E tu degno non sei

80        Di comandare a quattro venturieri;

            Se Goffredo, quel re dei galantuomini,

            Sa conoscere il merito degli uomini.

            Ma... finiamola; io voglio pettinarmi,

            E far cent'altre cose...

 

RINALDO

85        Saranno al tuo fedel sempre nascose?

 

ARMIDA

            Solo al Tasso io le rivelo,

            Al mio fido consigliere.

            Quello è un uom che sa tacere,

            E a nessuno le dirà.

 

RINALDO

90        Basta, basta... Mi rimetto.

            Di saperle non m'affretto:

            Se voi fate qualche cosa,

            Qualche cosa si vedrà.

                        Ma questo estraneo arnese

95        Certo per nulla al fianco mio s'appese!

            Questo cristallo netto,

            Che nell'argenteo rivo

            Ripete l'oro fin della tua chioma,

            Guardar non lo dovresti;

100      Ma guàrdati nei specchi, almi, celesti.

 

ARMIDA

            No, mio fedel: favellami sul sodo.

 

RINALDO (a parte).

            Oh quanto di parlare un poco io godo!

 

ARMIDA

            Se fosse proprio vero

            Quel complimento che tu m'hai suonato,

105      Il venditor di specchi è rovinato.

 

RINALDO

                        Scusa se in geroglifico io favello,

            Amabile fanciulla,

            Per dire il vero, anch'io ne intendo nulla.

 

ARMIDA

            Dunque facciamo fine.

 

RINALDO

110      Ahimè! che nuova è questa?

            Caro mio ben, t'arresta...

 

ARMIDA

            Non posso, in verità.

 

RINALDO

            M'ucciderò, crudele,

            Se tu mi volgi il tergo...

 

ARMIDA

115      Torno all'usato albergo...

(Rinaldo vuol seguirla, ma Armida,

accennandogli di star fermo, dice:)

            Più innanzi non si va!

 

ATTO SECONDO

Scena I

 

RINALDO solo

(Ubaldo e Carlo in disparte).

                        Quanto è dolce in erma parte

            Sospirar per un bel volto,

            Per un crin dorato e sciolto,

120      Per li gigli di un bel sen!

                        Quest'è quel che fa felice

            L'oziosa vita mia;

            Ma un tantin di compagnia

            Mi darebbe un gran piacer.

125                  Quanto è dolce, allor che tenero

            In me volge Armida il guardo,

            Dirle: - O cara, un dolce dardo

            M'ha ferito in seno il cor!

                        Il mio cor, che ovunque il giri,

130      Fuor di te nulla desia! -

            Ma un tantin di compagnia

            Mi darebbe un gran piacer.

                        Ed allora che allo specchio

            Ella ha vòlto il suo bei viso,

135      Dirle: - Io vedo un paradiso

            In un vetro piccolin.

                        Questi detti son del core

            Vero indizio e vera spia! -

            Ma un tantin di compagnia

140      Mi darebbe un gran piacer.

                        Dirle: - Son gl'incendi miei

            Un ritratto in miniatura;

            Quale è donna tanto dura

            Che a tal dir resisterà!

145                  Amator di me più fervido

            Mai non fu, giammai non fia! -

            Ma un tantin di compagnia

            Mi darebbe un gran piacer.

 

Scena II

UBALDO, CARLO e DETTO

 

UBALDO (a Carlo).

            Udisti?

 

CARLO

                Udii: non sembra mal disposto.

 

UBALDO

150      Dunque mostriamoci...

 

RINALDO

                           Oh Dei!

            Ecco esauditi alfine i vóti miei:

            Che buon vento vi guida?

 

UBALDO

                              Siam mandati

            Dal pio Goffredo...

 

RINALDO

                         Appunto: cosa fa?

 

UBALDO

            Ove tu lo lasciasti ancora sta:

155      Seda sedizioni col mostrarsi;

            E poi fa quel che fanno i Genovesi.

 

RINALDO

            Mal ti spiegasti, o pure io mal t'intesi.

 

UBALDO

            Dirò: venne un'arsura

            Che diseccò ogni fonte ed ogni roggia...

 

RINALDO

            Oh Dio! com'è finita?

 

UBALDO

                           Colla pioggia.

            Il pio Goffredo la lasciò cadere,

            Affrettandola un po' colle preghiere.

 

RINALDO

            E il solitario Piero

            Comandava gli eserciti frattanto?

 

UBALDO

165      Credo non combattessero in quel canto.

            Fu bruciata una macchina stupenda,

            Talché non si poté più dar l'assalto.

 

RINALDO

            Me ne rallegro!

 

UBALDO

                     E per rifarne un'altra

            Siam venuti a chiamarti.

 

RINALDO

170      Io sono avventuriero,

            Non inventor di macchine: che parli?

 

UBALDO

            È ver: ma è duopo per tagliare un bosco,

            Che sol nell'Asia tutta

            Ha legname che possa in uso porse,

175      D'un uom della tua schiena:

            Ecco l'alta cagion che qui ci mena.

 

RINALDO

            Carlo, Ubaldo, voi tutti, ospiti amici,

            Guerrieri, pellegrini,

            Ditemi: al campo non vi son Trentini?

180                  Quando lo venni in Gerosolima,

            Mi diceva il signor Padre:

            “A fugar le ostili squadre

            Io ti mando, o mio figliuol”.

            Non mi disse: “O mio figliuolo,

185      Io ti mando a spaccar legna”.

 

UBALDO

            Deh! pietà di noi ti vegna;

            Ché ci puoi salvar tu sol.

 

RINALDO

                        Io vengo, oh giubbilo!

            Son fuor d'intrico:

190      Verrei, vi dico,

            Tutto quel bosco

            Anche a segar.

 

UBALDO

            Ei viene, oh giubbilo!

            Che dici, oh Carlo?

 

CARLO

            Per me, non parlo:

195      Tu déi parlar.

 

UBALDO

            Presto, dunque, fuggiam.

 

RINALDO

                              Che fretta avete?

 

UBALDO

            Se qualcuno ci scopre...

 

RINALDO

200      Eh! che non v'è nessuno...

            Se per caso non fosse il pappagallo.

 

UBALDO

            Ecco Armida che viene.

 

RINALDO

                            Or siamo in ballo.

 

 

Scena III

 

ARMIDA e DETTI

 

ARMIDA

                        Il musico gentile

            Pria che la lingua snodi,

            Sussurra in bassi modi

205      Un bel ge - sol - re - ut.

                        Tal l'infelice Armida

            Or che pregar ti deve

            Forma un concento breve

            Per prepararti il cor.

210                  Attenti, miei signori, ed incomincio.

            “Non aspettar...”

 

RINALDO

                       Signora, altro non chiedo:

            Me n'andava.

 

ARMIDA

                  Oh! ch'io preghi, volea dire:

            Deh! non m'interrompete almen l'esordio.

            È la metà dell'opra un bel primordio!

215      Non aspettar ch'io preghi che tu resti:

            Solo ti prego, ingrato,

            Che mi lasci venire ove tu vai;

            Ti potrò far servigio, lo vedrai.

            Io ti starò dinnanzi:

220      “Barbaro forse non sarà sì crudo,

            Che ti voglia ferir per non piagarmi”.

 

RINALDO

            Dite davvero, o fate per burlarmi?

 

ARMIDA

            Anzi ti faccio una proposta in forma.

 

RINALDO

            Vedete, amici cari?

225      Parla la bella donna, e par che dorma.

 

ARMIDA

                        Scudiero o scudo,

            Col petto ignudo

            Ti coprirò.

 

RINALDO

            Non farem nulla:

230      Un Turco crudo,

            Bella fanciulla,

            Ti piglierà.

                        E ti dirà:

            “Signore scudo,

235      Signor scudiere,

            Venga al quartiere

            Di Mustafà”.

 

ARMIDA

                        Tu non sei nato

            In casa d'Este:

240      Nelle foreste

            Ti fece il mar,

                        Allor che il Caucaso

            (La cosa è piana)

            Coll'onda insana

245      Si maritò.

                        Vattene pur, crudele;

            Vattene, iniquo, omai:

            Me ignoto spirto a tergo

            Eternamente avrai.

 

RINALDO

250      Non me ne importa un corno,

            Perché non ti vedrò.

 

ARMIDA

            Ma cado tramortita, e mi diffondo

            Di gelato sudor.

 

RINALDO

                                                                       Poter del mondo!

                        Cara Armida! oimè! che fai?

255      Non mi senti e non mi vedi?

            Ma pur gli ultimi congedi

            Per pietade io prenderò.

                        Oh! crudel, tu non rispondi?

            Non mi dici: “Schiavo, cane!”

260      Sta' pur lì fino a dimane;

            Ch'io per me già me ne vo.

 

 

 

XLII

A CARLO PORTA

[Sonetto beroldinghiano]

[1° marzo 1819]

 

                        Lingua mendace che invoca gli Dei

            Essendo in suo cuore ateo mitologico,

            Tu credesti ingannare i sensi miei

            Con stile affettatamente pedagogico.

5                      Del qual giammai creduto io non avrei

            Che mi stimassi tanto cacologico

            Da non discerner sensi buoni e rei

            Sotto il velame del linguaggio anfibologico.

                        Falso avvocato ne fingesti difensore

10        Per tirare in rovina il tuo cliente.

            O stelle! o numi! chi vide un tale orrore?.

                        E per tradire ancor più impunemente

            Pigliare un nome caro all'alme Suore

            Come la tua inizial spergiura e mente!

 

 

XLIII

[POSTILLA AL PRECEDENTE SONETTO]

[1° marzo 1819]

 

                        On badée, che voeur fa da sapienton,

            El se toeu subet via par on badée;

            Ma on omm de coo, che voeur parè mincion,

            El se mett anca in d'on bell cuntée.

 

 

XLIV

AL SIGNOR FRANCESCO HAYEZ

L'AUTORE

[1822?]

 

                        Già vivo al guardo la tua man pingea

            Un che in nebbia m'apparve all'intelletto:

            Altra or fugace e senza forme idea

            Timida accede all'alto tuo concetto:

5          Lieto l'accoglie, e un immortal ne crea

            Di maraviglia e di pietade oggetto;

            Mentre aver sol potea dal verso mio

            Pochi giorni di spregio, e poi l'oblio.

 

 

XLV

AD ANGELICA PALLI

[Agosto 1827]

 

                        Prole eletta dal Ciel, Saffo novella

            Che la prisca Sorella

            Di tanto avanzi in bei versi celesti

            E in santi modi onesti,

5          Canti della infelice tua rivale,

            Del Siculo sleale

            Nello scoglio fatal, m'attristi; ed io

            Ai numeri dolenti

            T'offro il plauso migliore, il pianto mio.

10        Ma tu credilo intanto ad alma schietta,

            Che d'insigne vendetta

            L'ombra illustre per te placata fora,

            Se il villano amator vivesse ancora.

 

XLVI

PER VINCENZO MONTI

[1828]

 

                        Salve, o divino, cui largì Natura

            Il cor di Dante e del suo Duca il canto!

            Questo fia il grido dell'età futura;

            Ma l'età che fu tua tel dice in pianto.