DEL PIACERE |
Alessandro Manzoni
Milano, 12 del 1851.
Veneratissimo e carissimo Rosmini,
Mi farei veramente scrupolo di sviarle la mente, e d'affaticarle la vista con una lunga lettera, se non pensassi che potrà farsela leggere quando Le piaccia, e in momenti, direi persi, se ce ne fosse di tali per Lei, dall'ottimo P. Setti, al quale prendo quest'occasione per rammentare la mia affettuosa reverenza. Spero però, riguardo alla vista, che il servirsi dell'altrui sarà piuttosto una precauzione che una necessità, e che Stefano mi potrà subito scrivere bone nove della visita del professore di Pavia.
Ho ricevuta con gran piacere, e letta con ammirazione la lettera sull'unità dell'idea. Ma non ho potuto finora meditarci sopra abbastanza per vedere se potrei cavarne, o bene o male, un dialogo, perché avevo la testa preoccupata dal disegno d'un altro (sul piacere), del quale Le è già stato fatto un cenno. Avendo poi dovuto metter mano alla correzione della Morale Cattolica, ho anche dovuto avvedermi subito, che la correzione non poteva essere semplicemente tipografica; ed eccomi ingolfato in un continuo e minuto lavoro. Questo m'ha stornato anche dal pensare al dialogo che disegnavo; e devo ora, per dir così, rifarmelo in mente, per presentargliene un sunto, e in parte un saggio, affine di sentire da Lei se ci sia il fondamento bono, e d'essere avvertito degli spropositi che avrei potuti mettere anche sul bon fondamento, e delle cose utili che potranno così facilmente essere sfuggite a me, come venire in mente a Lei. Ma questo, s'intende, con tutto il suo comodo; e s'intende principalmente in un tempo, che alle tante sue occupazioni sarà probabilmente aggiunta quella di difendersi dai novi assalti d'una così violenta, eppure così instancabile animosità.
Il dialogo sul piacere, se mai mi trovassi nella o vera o falsa fiducia di poterlo fare passabilmente, potrebbe avvenire tra i due interlocutori già messi in campo. La fretta di Secondo, che non vorrebbe fare la strada lunga dello studio, per arrivare alla questione già accennata nell'altro dialogo, potrebbe somministrare il pretesto d'un novo, e un pretesto drammatico. Ma, con l'intenzione manifestata di studiare insieme, il dibattimento tra que' due non potrebbe esser tirato più in lungo, senza stiracchiamenti. Introdurrei dunque un Terzo, uomo non di studi sistematici, ma di lettura varia e occasionale, il quale, avendo letto di fresco l'opuscolo del Verri « sull'indole del piacere », anderebbe da Primo, per sentire cosa ne pensi. Ci si troverebbero l'interlocutore e il testimonio, dell'altro dialogo. Primo, allegando d'aver letto l'opuscolo una volta sola, e da un pezzo, ne farebbe parlare il novo interlocutore. Si passerebbe in fretta e d'accordo sul vizio essenziale della definizione del Verri, che pone l'essenza del piacere in una negazione. Terzo citerebbe, senza però mostrarsene persuaso, tre altre definizioni confutate dal Verri, una del Descartes, l'altra del Wolf [1], l'altra del Sulzer [2]: sulle quali si passerebbe ancora brevemente, ma non inutilmente per la discussione avvenire. Primo si fermerebbe di più su una quarta e ultima, quella del Maupertuis [3]: « Il piacere è una sensazione che l'uomo vuole piuttosto avere che non avere », definizione che, secondo il Verri, non è tale che in apparenza, poiché viene a dire che il piacere è quello che piace. Mi pare, direbbe Primo, che, con un cambiamento materialmente piccolissimo, ma essenziale, questa definizione potrebbe diventare, se non affatto bona, molto migliore e più vicina al vero, dell'altre tre: cioè col sostituire sentimento a sensazione. E non vedo che sia quell'idem per idem che dice il Verri, poiché ci sono specificati due elementi, che non sono direttamente significati dalla parola piacere; cioè l'essere sentimento e cosa appetita. (Qui si potrebbe forse accennare che il Verri probabilmente non badò all'elemento della sensazione, perché era per lui cosa sottintesa, non solo in tutte l'operazioni, ma in tutti gli stati della mente e dell'animo; ma che, a chi discerna ciò che c'è di diverso, il sentimento è cosa essenzialissima. Ma credo che sarà meglio non interrompere, con questa osservazione, il corso della ricerca.)
Sia pure, direbbe Terzo; ma una tal distinzione non mi pare che dia una cognizione molto chiara, né molto piena, della cosa.
P. È che ci sono vari gradi di definizioni, bone, migliori, ottime; come ci sono vari gradi di cognizioni. Domandiamo a un uomo qualunque, se il piacere è una cosa che si sente, e una cosa che s'appetisce; e risponderà certamente di sì. Abbiamo dunque in questa definizione due elementi, la realtà de' quali è attestata dall'intimo senso, testimonio irrefragabile in una materia d'intimo senso, come questa. Ora, io chiamo definizione bona (in aspettativa delle migliori e dell'ottima) quella che svolge dall'oggetto e manifesta qualcosa che nessuno ci vedeva, e che tutti ci riconoscono, all'esserne avvertiti. E delle volte queste definizioni elementari sono più vicine all'ultima, di quello che si crederebbe: potrà non esserci altro da fare che correggere un'inesattezza, riparare a un'omissione, osservare un nesso tra que' primi elementi cavati fuori naturalmente e semplicemente. A ogni modo, non sarà che un passo, per arrivare a conoscere più pienamente e più intimamente la cosa; ma è un passo nella strada giusta. E sapete che, per andare al fondo della verità, la prima cosa è mettersi nella verità.
T. Avete ragione: è chiaro che, per trovare cosa costituisca il piacere, non c'è altro che cercare quale sia la qualità che rende appetibili certi sentimenti, a differenza degli altri, la qualità comune a tutti i sentimenti piacevoli, e particolare ad essi.
P. Credete? si può provare.
Qui principierebbe un'analisi di diverse sorti di piaceri, nella quale questa qualità non si troverebbe mai. E del resto, Primo troncherebbe, quando paresse bene, quest'analisi, facendo osservare che se ci fosse questa qualità in tutti i piaceri, si dovrebbe poterla trovare nella prima specie che si osservasse, e, trovatala, non dovrebb'esser difficile il riconoscere che non è particolare a quella specie, ma comune a tutte. Noi facevamo, direbbe, come il Ciclope accecato da Ulisse, che, facendo passare le sue pecore a una a una, gli palpava il dorso, senza pensare che ci poteva esser nascosto l'uomo sotto la pancia.
Qui, scoraggimento, reale in uno degl'interlocutori, affettato nell'altro; il quale riprenderebbe la questione sousmain, dicendo: Questo nostro discorso mi fa pensare a una parola che ho sentita tempo fa. Mi trovavo, una sera, in una compagnia numerosa, e ero caduto in un potere d'uno che mi parlava di cose più proprie a esercitar la pazienza, che a cattivar l'attenzione. Vicino a noi c'erano due altri, che facevano una discussione filosofica, e appunto su questo nostro argomento; e io, senza intenzione di stare attento là, ma essendo disattento qui, sentivo, di tempo in tempo, qualche parola, qualche frase staccata. In un momento, uno di que' due, alzando la voce, come si fa quando pare che la cosa meriti un'attenzione particolare, disse: Alla fine delle fini, il piacere non è altro che sentimento. Mi parve una cosa singolare; e tornandomi in mente ogni tanto, pensavo: cos'ha voluto dire? Ma ora che cercando qual sia la cosa comune ai diversi piaceri, non ci troviamo di comune altro che il sentimento... cosa vi pare?
T. Che so io? quasi quasi...
Qui entrerebbe Secondo, per rendere più esplicita la tesi, col pretesto di dare a Terzo un avvertimento ironico. Badate! gli direbbe: costui vi vuol condurre dove non volete. Se gli concedete che il piacere non è altro che sentimento, pretenderà di farvi dire, anzi d'avervi già fatto dire che il sentimento è piacere. So che è persuaso di questo, e mi sono avveduto subito, che voleva tirarvi lì.
T. Di codesto poi non ho paura. Il paralogismo [4] sarebbe troppo svelato. Ogni piacere è sentimento, dunque ogni sentimento è piacere, è lo stesso che dire: ogni querce è albero, dunque ogni albero è querce: ogni eroe è uomo, dunque ogn'uomo è eroe.
S. Non vi fidate di questa scappatoia. Vi dirà che la parità non regge. Infatti, voi non direste certamente: la querce non è altro che albero; l'eroe non è altro che uomo. Dicendo che il piacere non è altro che sentimento, e astraendo così da qualunque modo e grado del piacere, per non considerare che la sua pura essenza, e dichiarando questa identica al sentimento, avrete dichiarato il sentimento identico al piacere. Ciò che vi fa dire che la querce è bensì un albero, ma non l'albero, che l'eroe è bensì un uomo, ma non l'uomo, sono le qualità speciali della querce e dell'eroe: ma dal piacere voi avrete esclusa ogni qualità speciale, dicendo che non è altro che sentimento.
T. Avrei in pronto l'argomento per mandare in fumo tutto codesto apparato di ragionamenti; ma, giacché mi pare che vogliate divertirvi, voglio divertirmi per un poco anch'io. Ditemi dunque, giacché parlate in suo nome, cosa mi risponderà se gli domando il perché, essendo sentimento e piacere una stessa cosa, ci siano, per esprimerla, due nomi che, se piace al cielo, non sono sinonimi. Ché, se non m'inganno, parrebbe e a voi e a lui una cosa passabilmente curiosa, se uno vi dicesse: ho il sentimento di riverirla; ovvero: il tale è rimasto in campagna per godere i sentimenti della caccia; il tal altro ha tanto da spendere in minuti sentimenti.
S. Vi lascerà ridere, e riderà con voi, ma rimanendo ostinato nel suo proposito. È pronto a tutto, vi dico. Vi rammentate come, da principio, buttò là una parolina d'un nesso che forse si potrebbe trovare tra que' due elementi? Io, che so cosa pensa, m'avvidi subito che ci covava la gatta. Vi dirà che sono due aspetti d'una cosa medesima, e che perciò essa può esser significata con due nomi; che la parola sentimento significa la cosa in sé, e come passione del soggetto, e la parola piacere la significa in quanto è, come lo è essenzialmente, secondo lui, oggetto dell'appetito. Così (è una similitudine che l'ho sentito mettere in campo altre volte), così si dice idea e si dice cognizione, quantunque una qualsiasi cognizione non sia altro che un'idea, in quanto è intuita.
T. E gli parrà proprio, che una tale proposizione non abbia in corpo nulla di strano?
S. Di strano? Vi so dire che gli pare stranissima la proposizione contraria. Cos'è infatti, vi dirà, il sentimento considerato praticamente, se non l'atto della facoltà di sentire? E come intendere che l'atto proprio d'una facoltà possa (in quanto è quell'atto) repugnare al soggetto che possiede quella facoltà?
T. Dunque mi rivolgo a voi per sentire se la pensate proprio così; giacché, per quanto questo sia galantuomo, e voi originale, anzi gran galantomini e quasi altrettanto originali tutt'e due, sono di quelle notizie che meritano conferma. L'accettate voi davvero quella proposizione?
P. Vi dico la verità che, dopo ciò che ha detto costui, mi pare che, per rifiutarla, bisognerebbe anche confutarla. E non ci vedo altro mezzo che tornare indietro a rifare con più diligenza l'analisi di poco fa. Se, osservando più attentamente, possiamo, in un piacere qualunque, trovare quella benedetta qualità comune a tutti i piaceri e...
T. No, no: sono rigiri; e ho imparato da Cesare, che è una minchioneria, auctore hoste, capere consilium. Vi domando, piuttosto, se per rigettare una proposizione basta il vedere che implichi una contradizione, un assurdo manifesto.
P. Bisognerebbe essere incontentabile, per voler di più.
T. E non vedete, o fate le viste di non vedere, che, secondo quella proposizione, il dolore sarebbe piacere.
P. Una bagattella! Ma come?
T. Volete proprio che vi presenti l'argomento in forma? Ogni sentimento è piacere; ora il dolore è sentimento; dunque il dolore è piacere.
P. La forma è irreprensibile.
T. E la sostanza no? Meno che non voleste dire che il dolore non è un sentimento.
P. Al punto che è stata spinta la questione da quest'amico, codesta sarebbe appunto la cosa da esaminarsi.
T. Da esaminarsi? Ma in che mondo siamo? Non c'è più nulla d'evidente. Volete negare che ci sieno de' sentímenti dolorosi, come ci sono de' sentimenti piacevoli?
P. Codesto, non vorrei né negarlo, né affermarlo, perché sono termini ambigui, e non sono quelli della nostra questione. Sentimenti dolorosi può voler dire sentimenti accompagnati da dolore, che è tutt'altra che dolorosi, in quanto sentimenti. A uno scettico il quale vi domandasse se non ci sono delle cognizioni dubbie, rispondereste che la questione è se la cognizione medesima sia il dubbio. E la nostra è se il sentimento, come sentimento, possa esser dolore.
Qui verrebbe un esame d'alcune specie di dolori; e, prendendo occasione dall'essere la sete addotta in esempio dal Verri, si principierebbe da questa. Mi direte voi, domanderebbe Terzo, che l'esser tormentato dalla sete non sia sentire? Che l'assetato non senta qualcosa che lo fa essere in quello stato speciale e doloroso?
P. Qualcosa sente, di certo; ma cosa sente per l'appunto?
T. Sente... sente il bisogno di bere.
P. Sentire un bisogno? Che s'usi quest'espressione è un altro par di maniche; ma qui s'ha a cercare se si possa dire con proprietà, e significando il fatto com'è. Il bisogno in genere non è altro che una relazione, un concetto della mente; e non si sentono che le cose reali etc. Nel caso speciale, il bisogno è una relazione del soggetto col bere, sia l'acqua, per esempio; e per sentire questa relazione, bisognerebbe sentire i due termini, cioè quell'acqua medesima l'assenza della quale dal sentimento è la cagione del guaio. Qui sì che ci sarebbe la contradizione.
T. Cosa sente dunque l'assetato? Lo domando io a voi, che non avete potuto negare che qualcosa senta, in quanto assetato.
Qui con l'aiuto d'un dizionario di medicina si accennerebbero gli effetti che produce negli organi del corpo la mancanza del liquido necessario o conveniente, e si vedrebbe che la molestia dell'assetato viene dal difetto del sentimento compito di quegli organi. E quello in vece che affoga, cosa sente? L'eccesso dell'acqua? Tanto come si può sentire il bisogno. L'acqua? sì; ma è l'acqua semplicemente sentita che cagiona il dolore? o non viene questo dal sentire il polmone impedito dal respirare, etc., cioè dal non sentire pienamente e interamente quell'organo?
Si passerebbe ai dolori morali, dove, se non m'ínganno, la dimostrazione sarebbe ancora più facile [5]. E dopo altre osservazioni, p. e. sul piacere che cessa, per la stanchezza dell'organo che lo rende incapace di sentire; sul piacere che indirettamente, o comparativamente cagiona un dolore, etc., l'interlocutore a cui si vuole dar la vittoria direbbe: Conclusum est contra Manichaeos. L'altro osserverebbe che ci vuole una grande smania di cantar trionfo, per servirsi d'un epifonema così fuori del caso. Ma Primo sosterrebbe che è molto a proposito, perché il bene e il male inerenti ugualmente all'atto proprio d'una facoltà, e resultanti ugualmente dalla forma di essa, è un concetto che repugna a quello d'un unico e provvidentissimo, sapientissimo, ottimo e onnipotente creatore, e s'accorda in vece, per quanto il falso può accordarsi tra di sé, col concetto stranissimo di due principi contrari, e operanti insieme nel dar la forma a un soggetto medesimo.
Oltre l'inesattezze che non saprei vedere in questo aborto, anche guardandolo a occhio riposato, ce n'è di quelle che ho vedute e lasciate correre per la fretta. Ma per l'une e per l'altre, dico a Rosmini: « Se' savio e intendi me' ch'io non ragiono ». Così fossero i bei giorni di Lesa, che le rettificazioni verrebbero pronte, e tanto più gradite!
Stefano Le dirà tante cose in nome mio e di Teresa; e a ogni modo i miei sentimenti di reverentissimo affetto per Lei non hanno bisogno né di ripetizione, né d'interprete.
Il suo Manzoni
Fo le mie scuse al veramente benigno lettore, per le cancellature, e per il progressivo scarabocchiamento.
Note
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[1] Christian Wolff, (Breslavia 1679 - Halle 1754), filosofo tedesco. Dietro presentazione di Leibniz, nel 1706 fu chiamato dall'università di Halle a insegnare matematica. I suoi interessi andavano però ben al di là di tale campo di ricerca, come dimostrano gli scritti di questo periodo, che, stesi in tedesco e non in latino, contribuirono a diffondere il suo pensiero in una cerchia più vasta rispetto al mondo accademico. Questi scritti furono raccolti dall'autore sotto il titolo generale di Pensieri razionali. Federico Guglielmo gli tolse poi la cattedra a causa delle proteste dei colleghi di ispirazione «pietista», che nel suo razionalismo intravedevano un misconoscimento della concezione religiosa dell'uomo. Wolff si trasferì allora a Marburgo, ma nel 1740 ritornò a Halle (dove insegnò fino alla morte) grazie alla protezione del nuovo re, Federico II. Sono di questo secondo periodo le opere in latino, nelle quali è esposto in modo sistematico tutto il suo pensiero filosofico: Philosophia rationalis sive Logica (1728); Philosophia prima sive Ontologia <(1729); Philosophia moralis sive Ethica (1750-53); Oeconomica (1750). L'originalità di Wolff consiste nell'aver posto l'esigenza di un metodo di indagine razionale: è questa la genesi del cosiddetto metodo «della fondazione», che tanto influsso esercitò su tutto l'illuminismo tedesco, compreso Kant. Con esso Wolff intendeva fornire la ragione di un adeguato strumento di ricerca, che dimostrasse la possibilità intrinseca di ogni singolo passo compiuto dalla ragione stessa. Ogni scienza rigorosa doveva dunque richiamarsi al principio di «non contraddizione», attraverso l'analisi o la deduzione in quanto fondamento di ogni «possibile». Di qui la distinzione di un duplice tipo di conoscenza o di scienza: la prima si costituisce appunto in base al principio di non contraddizione, attraverso l'analisi o la deduzione; la seconda si occupa invece induttivamente o sperimentalmente dei rapporti tra le idee e i fatti storici. [EF, Enciclopedia Garzanti di filosofia ecc., Garzanti Milano 1981]
[2] Johann Georg Sulzer (Winterthur 1720 - Berlino 1779), filosofo svizzero. Dopo aver compiuto studi di teologia a Zurigo, fu attratto dai problemi dell'estetica. Trasferitosi a Magdeburgo nel 1724, entrò in rapporto con gli ambienti culturali berlinesi (Eulero, Maupertuis ecc.), e divenne prima membro (1750) e poi (1775) direttore della classe di filosofia dell'Accademia delle scienze. Oltre all'opera più celebre e fortunata, Teoria generale delle belle arti (1771-74), va ricordata la raccolta di Scritti filosofici vari del 1773. La Teoria generale, che è una enciclopedia di temi estetici e critici, mostra una posizione - storicamente assai significativa - di superamento della concezione edonistica dell'arte e di affermazione della portata morale, sociale e storica della poesia, contro ogni forma di puro decorativismo. Se da un lato Sulzer appare come l'esponente delle correnti illuministiche, in particolare per il suo porre l'accento sul concetto di perfezione e di felicità cui l'arte può e deve condurre facendo leva sul senso del bello, per altro verso egli sviluppa, all'interno di tale prospettiva, motivi che andranno oltre l'illuminismo attraverso l'estetica kantiana. Sulzer rivendica infatti la specificità tanto del «bello» quanto dell'«arte bella» (distinta - quest'ultima - dall'arte come semplice processo tecnico o «meccanico») e del relativo sentimento, attraverso un'ampia analisi della peculiarità del gusto e del suo rapporto con il genio.
[3]Pierre-Louis Maupertuis de Moreau (Saint-Malo 1698 - Basilea 1759), filosofo e scienziato francese. Matematico e fisico, introdusse in Francia il newtonianismo, nel 1732, con la memoria Sulle leggi dell'attrazione e il Discorso sulle differenti figure degli astri. Nel 1740 fu incaricato da Federico ii della riorganizzazione e presidenza dell'Accademia delle scienze di Berlino, il cui programma traccerà nelle Lettere sul progresso delle scienze (1752), nel segno dello sperimentalismo e dell'empirismo. [EF, Enciclopedia Garzanti di filosofia ecc., Garzanti Milano 1981]
Maupertuis rifiuta i «sistemi» metafisici e sostiene che la nostra conoscenza è limitata al mondo come ci appare e non perviene affatto al mondo com'è indipendentemente da come noi lo conosciamo. Questa tesi fenomenistica, derivata dall'empirismo inglese, è d'altronde ben presente nel pensiero del sec. xviii, prima di culminare in Kant. Dal contatto con la cultura tedesca Maupertuis deriva pure elementi leibniziani, che improntano la sua dinamica e la sua biologia (cui già aveva dedicato la Venere fisica, nel 1745), esposte nel Saggio di cosmologia (1750) e nel De universali naturae systemate (1752). La dinamica di Maupertuis ha al centro il principio della « minima azione», secondo il quale, in tutti i mutamenti che avvengono nell'universo, la quantità d'azione per essi necessaria è sempre la minore possibile. Sono evidenti le implicazioni finalistico-deistiche che potevano esser tratte da un siffatto principio, assunto quale testimonianza della saggezza del creatore. Quanto alla biologia, Maupertuis insiste, contro Cartesio, sull'inadeguatezza del meccanicismo a spiegare il fenomeno della vita e della riproduzione di essa; in alternativa, sostiene l'ipotesi vitalistica di molecole organiche, dotate d'un qualche grado di coscienza, per quanto oscura (e quindi di qualcosa di simile alla memoria, al desiderio e all avversione ecc.), quali elementi originari degli organismi viventi. Nel Saggio di filosofia morale (1749), che sollevò discussioni soprattutto in Italia, Maupertuis propone di istituire un «calcolo» dei piaceri e dei dolori, misurandoli in base ai due parametri dell'intensità e della durata e trattandoli come grandezze rispettivamente positiva e negativa. Ne deriva un principio di etica sociale: assicurare al maggior numero di persone la maggiore felicità possibile. È convinzione di Maupertuis che, nella vita degli uomini, all'universalità del desiderio di felicità corrisponda normalmente, di fatto, una prevalenza di infelicità. [EF, Enciclopedia Garzanti di filosofia ecc., Garzanti Milano 1981]
[4] paralogismi: sillogismo falso con apparenza di verità; secondo Aristotele, che per primo usò questo termine, è ogni ragionamento errato quanto alla forma.
[5] A questo punto la tesi manzoniana riesce sufficientemente chiara. Criticato il Verri, il quale, da sensista, pretendeva che il piacere fosse cessazione rapida del dolore, egli comincia col sostituire la parola sentimento alla parola sensazione, un principio attivo a un principio passivo. La conclusione è poi che il sentimento in sé è positivo, e che soltanto la sua privazione, che è il dolore, è negazione di qualcosa. La tesi del Verri viene così rovesciata, e la tesi manzoniana si avvicina alla definizione scolastica di male come privazione di essere. Il Rosmini nella risposta alla lettera ricorderà al Manzoni la differenza tra privazione e negazione. (Quadrelli)