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OSSERVAZIONI SULLA MORALE CATTOLICA
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Alessandro Manzoni

 

CAPITOLO XIV.

 

DELLA  MALDICENZA.

 

La morale proprement dite n'a cependant jamais cessé d'être l'objet des prédications de l'Église; mais l'intérêt sacerdotal a corrompu dans l'Italie moderne tout ce qu'il a touché. La bienveillance mutuelle est le fondement des vertus sociales; le causiste, la réduisant en précepte, a déclaré qu'on péchoit en disant du mal de son prochain; il a empêché chacun d'exprimer le juste jugement qui doit discerner la vertu du vice; il a imposé silence aux accens de la vérité; mais en accutumant ainsi à ce que les mots n'exprimassent point la pensée, il n'a fait que redoubler la secrète défiance de chaque homme à l'égard de tous les autres. Pag. 419.420.

 

La dottrina che proibisce di dir male del prossimo, è tanto manifestamente della Chiesa, che, in questo, i casisti che l'hanno professata, possono francamente chiamarla mallevadrice. Che se alla Chiesa si domandano le ragioni che l'hanno determinata a farne un precetto, risponderà che non l'ha fatto, ma l'ha ricevuto; che, oltre all'esser consentaneo a tutta la dottrina evangelica, questo precetto è intimato espressamente e spesso ne' due Testamenti. Eccone, per brevità, una sola prova. Non v'ingannate ... i maledici non possederanno il regno di Dio [1].

Ma questa sentenza ha ella bisogno d'esser giustificata? E chi vorrebbe sostener la contraria?

Un carico le vien fatto qui; ed è che impedisce a ciascheduno d'esprimere il giusto giudizio che deve discernere la virtù dal vizio; impone silenzio alla verità, e accresce la diffidenza tra gli uomini. Ma l'illustre autore non vorrà certo che si consideri da un lato solo una questione complessa e multiforme. Quand'anche un precetto fosse d'ostacolo a qualche bene, è giusto di pesare tutti i suoi effetti, e di mettere in bilancia il male, che previene: perchè sarebbe troppo singolare che una proibizione, la quale ha per oggetto di portar gli uomini a risparmiarsi l'uno con l'altro, non fosse d'impedimento che a cose utili.

L'amore della verità, il desiderio di fare un giusto discernimento tra la virtù e il vizio, sono forse il motivo principale e comune che determina a dir male del prossimo? E l'effetto ordinario ne è forse di mettere la verità in chiaro, la virtù in onore, e il vizio in abbominazione?

Un semplice sguardo alla società ci convince subito del contrario, facendoci vedere i veri motivi, i veri caratteri e gli effetti comuni della maldicenza.

Perché, ne' discorsi oziosi degli uomini, dove la vanità di ciascheduno, che vorrebbe occupare gli altri di sè, trova un ostacolo nella vanità degli altri che tendono allo stesso fine; dove si combatte destramente, e qualche volta a forza aperta, per conquistare quell'attenzione che si vorrebbe così di rado accordare; perchè riesce tanto facilmente a conciliarsela colui che, con le prime parole, annunzia che dirà male del prossimo? se non perchè tante passioni se ne promettono un triste sollievo? E quali passioni! È l'orgoglio, che tacitamente ci fa supporre la nostra superiorità nell'abbassamento degli altri, che ci consola de' nostri difetti col pensiero che altri n'abbiano de' simili o de' peggiori. Miserabile traviamento dell'uomo! Bramoso di perfezione, gli aiuti che la religione gli offre a progredire verso la perfezione, assoluta, per la quale è creato, e s'agita dietro una perfezione comparativa; anela, non a esser ottimo, ma, a esser primo; vuol paragonarsi, e non divenire. È l'invidia, inseparabile dall'orgoglio, l'invidia che si rallegra del male come la carità del bene, l'invidia che respira più liberamente quando una bella riputazione sia macchiata, quando si provi che c'è qualche virtù o qualche talento di meno. È l'odio, che ci rende tanto facili sulle prove del male: è l'interesse che fa odiare i concorrenti d'ogni genere. Tali e simili sono le passioni, per le quali è così comune il dire e l'ascoltare il male: quelle passioni che spiegano in parte il brutto diletto che l'uomo prova nel ridere dell'uomo e nel condannarlo, e la logica indulgente e facile sulle prove del male, mentre spesso s'istituisce un giudizio così severo prima di credere una bona azione, o l'intenzione retta e pura d'una bona azione. Non c'è da maravigliarsi che la religione non sappia che fare di queste passioni, e di ciò che le mette in opera: materiali fradici e repugnanti a ogni connessione, come entrerebbero nell'edifizio d'amore e d'umiltà, di culto e di ragione, chi essa vuol innalzare nel core di tutti gli uomini?

C'è nella maldicenza un carattere di viltà che la rende simile a una delazione segreta, e fa risaltare anche da questa parte la sua opposizione con lo spirito del Vangelo, che è tutto franchezza e dignità, che abbomina tutte le strade coperte, per le quali si nuoce senza esporsi; e che, ne' contrasti che si devono pur troppo avere con gli uomini per la difesa della giustizia, comanda per lo più una condotta che suppone coraggio. Il censurare gli assenti è le più volte senza pericolo di chi lo fa; sono colpi dati a chi non si può difendere; è non di rado un'adulazione, tanto più ignobile quanto più ingegnosa, verso chi ascolta. Non parlerai male d'un sordo [2], è una delle pietose e profonde prescrizioni mosaiche: e i moralisti cattolici che l'applicarono anche all'assente, hanno fatto vedere che entravano nel vero spirito d'una religione; la quale vuole che quando uno è costretto a opporsi, lo faccia conservando la carità, e fuggendo ogni bassa discortesia.

La maldicenza, si dice da molti, è una specie di censura che serve a tenere gli uomini nel dovere. Sì, come un tribunale composto di giudici interessati contro l'accusato, dove l'accusato non fosse nè confrontato, nè sentito, dove chi volesse prendere le sue difese fosse per lo più scoraggito e deriso, dove per lo più tutte le prove a carico fossero fatte bone; come un tal tribunale sarebbe adattato a diminuire i delitti. È una verità troppo facile a osservarsi, che si presta fede alle maldicenze sopra argomenti che, se s'avesse un interesse d'esaminarne il valore, non basterebbero a produrre nemmeno una piccola probabilità.

La maldicenza rende peggiore chi parla e chi ascolta, e per lo più anche chi n'è l'oggetto. Quando colpisce un innocene (e per quanto sia grande il numero de' falli, quello dell'accusa ingiuste è superiore di molto), qual tentazione non è questa per lui! Forse percorrendo a stento la strada erta della probità, si proponeva per fine l'approvazione degli uomini, era pieno di quell'opinione, tanto volgare quanto falsa, che la virtù è sempre conosciuta e apprezzata: vedendola sconosciuta in sè, principia a credere che sia un nome vano; l'animo suo, nutrito dell'idee ilari e tranquille d'applauso e di concordia, principia a gustare l'amarezza dell'odio; allora l'instabile fondamento sul quale era stabilita la sua virtù, cede facilmente: felice lui, se questo in vece gli fa pensare che la lode degli uomini non è nè una mercede sicura, nè la mercede. Ah! se la diffidenza regna tra gli uomini, la facilità del dir male ne è una delle principali cagioni. Colui che ha visto un uomo stringer la mano a un altro, col sorriso dell'amicizia sulle labbra, e che lo sente poi farne strazio dietro le spalle, come non sarà portato a sospettare che in ogni espressione di stima e d'affetto, possa esser nascosta un'insidia? La fiducia crescerebbe al contrario, e con essa la benevolenza e la pace, se la detrazione fosse proscritta: ognuno che, abbracciando un nomo, potesse star sicuro di non esser l'oggetto della sua censura e della sua derisione, lo farebbe naturalmente con un più puro e più libero senso di carità.

Si crede da molti, che la repugnanza a supporre il male nasca da eccessiva semplicità o da inesperienza; come se ci volesse una gran perspicaca a supporre che ogn'uomo, in ogni caso, scelga il partito più tristo. E, invece, la disposizione a giudicare con indulgenza, a pesare l'accuse precipitate, e a compatire i falli reali, richiede l'abitudine della riflessione sui motivi complicatissimi che determinano a operare, sulla natura dell'uomo e sulla sua debolezza.

Quello a cui vien riferita la mormorazione fatta contro di lui (e i rapportatori sono la discendenza naturale de' maledici), ci vede spesso un'ingiustizia che lui solo può conoscere, ma della quale tutti possono, e quindi tutti devono, riconoscere il pericolo. Ha operato in circostanze delle quali lui solo abbraccia il complesso: il censore non se n'è fatto carico, ha giudicato nudamente un fatto con delle regole di cui non può giustamente misurare l'applicazione; forse biasima un uomo, solamente perchè non ha fatto ciò che farebbe lui, forse perchè non ha le sue stesse passioni. E quand'anche il censurato sia costretto a confessare a sè stesso che la maldicenza è affatto esente da calunnia, non ne è portato per lo più al ravvedinnento, ma allo sdegno; non pensa a riformarsi, ma si volge a esaminare la condotta del suo detrattore, a cercare in quella un lato debole e aperto alla recriminazione: l'imparzialità è rara in tutti, ma pia negli offesi. Così si stabilisce una miserabile guerra, una continua faccenda nell'esaminare e propalare i difetti altrui, che accresce la noncuranza de' propri.

Quando poi gl'interessi ci mettono a fronte l'uno dell'altro, qual maraviglia che l'ire e le percosse siano così pronte, che ci facciamo tanto male a vicenda? L'averne tanto pensato e tanto detto, ci ha preparati a ciò; siamo avvezzi a non perdonarci nel discorso, a godere dell'abbassamento altrui, a straziare quegli stessi coi quali non abbiamo contrasti; trattiamo gli sconosciuti come nemici: come mai ci troveremo tutt'a un tratto disposti alla carità e ai riguardi ne momenti appunto che la cosa è più difficile, e richiede un animo che ci sia esercitato di lunga mano? Perciò la Chiesa, che vuol fratellanza, vuole anche uomini che non pensino il male, che ne gemano quando lo vedono, che parlino degli assenti con quella delicata attenzione che l'amor proprio ci fa ordinariamente usare verso i presenti. Per regolare l'azioni, frena le parole, e, per regolar queste, mette la guardia al core.

Si separano spesso, e si condannano due specie di prescrizioni religiose, che si dovrebbero in vece mettere insieme e ammirare. Della prima specie è la preghiera continua, la custodia de' sensi, il combattimento perpetuo contro ogni attacco eccessivo alle cose mortali, il riferir tutto a Dio, la vigilanza sul primo manifestarsi d'ogni sentimento disordinato, e altre tali. Di queste si dice che sono miserie, vincoli che restringono l'animo senza produrre alcun effetto importante, pratiche claustrali. Della seconda specie sono le prescrizioni dure, ma giuste e inappellabili, che in certi casi richiedono de' sacrifizi ai quali il senso repugna, de' sacrifizi che chiamiamo eroici, per dispensarci dall'esaminare se non siano doverosi. E a queste s'oppone, che bisogna prendere gli uomini come sono, e non pretendere cose perfette da una natura debole. Ma la religione, appunto perchè conosce la debolezza di questa natura che vuol raddrizzare, la munisce di soccorsi e di forza; appunto perchè il combattimento è terribile, vuole che l'uomo ci si prepari in tutta la vita; appunto perchè abbiamo un animo che una forte impressione basta a turbare, che l'importanza e l'urgenza d'una scelta confondono di più, mentre gli rendono più necessaria la calma; appunto perchè l'abitudine esercita una specie di dominio sopra di noi, la religione impiega tutti i nostri momenti ad abituarci alla signoria di noi stessi, al predominio della ragione sulle passioni, alla serenità della mente. La religione è stata, fino ne' suoi primi tempi, e da' suoi primi apostoli, paragonata a una milizia. Applicando questa similitudine, si può dire che chi non vede o non sa apprezzare l'unità delle sue massime e delle sue discipline, fa come chi trovasse strano che i soldati s'addestrino ai movimenti della guerra, e ne sopportino le fatiche e le privazioni, quando non ci sono nemici.

Le filosofie puramente umane, richiedendo molto meno, sono molto più esigenti: non fanno nulla per educar l'animo al bene difficile, prescrivono solo azioni staccate, vogliono spesso il fine senza i mezzi: trattano gli uomini come reclute, alle quali non si parlasse che di pace e di divertimenti, e che si conducessero alla sprovvista contro de' nemici terribili. Ma il combattirnento non si schiva col non pensarci; vengono i momenti del contrasto tra il dovere e l'utile, tra l'abitudine e la regola; e l'uomo si trova a fronte una potente inclinazione da vincere, non avendo mai imparato a vincere le più fiacche. Sarà forse stato avvezzo a reprimerle per motivi d'interesse, per una prudenza mondana; ma ora l'interesse è appunto quello che lo mette alle prese con la coscienza. Gli è stata dipinta la strada della giustizia come piana e sparsa di fiori; gli è stato detto che non si trattava se non di scegliere tra i piaceri, e ora si trova tra il piacere e la giustizia, tra un gran dolore e una grand'iniquità. La religione, che ha reso il suo allievo forte contro i sensi, e guardingo contro le sorprese, la religione, che gli ha insegnato a chieder sempra de' soccorsi che non sono mai negati, gl'impone ora un grand'obbligo, ma l'ha messo in caso d'adempirlo; e avergli chiesto un gran sacrifizio, sarà un dono di più che gli avrà fatto. La religione, chiedendo all'uomo cose più perfette, chiede cose più facili, vuole che arrivi a una grand'altezza, ma gli ha fatta la scala, ma l'ha condotto per mano: le filosofie umane, contentandosi che tocchi un punto molto meno elevato, pretendono spesso di più; pretendono un salto che non è della forza dell'uomo.

Credo di dover dichiarare che sono lontano dal pensare che l'illustre autore non veda gl'inconvenienti della maldicenza, e voglia quasi farne l'apologia; ma ho dovuto mostrare che è eminentemente evangelico e morale l'insegnamento della Chiesa che dir male del prossimo è peccato.

Ma il giusto giudizio che deve discernere la virtù dal vizio, vuol forse impedirlo? No, certamente: vuol impedire le superbe, leggiere, ingiuste, inutili accuse, il giudizio dell' intenzioni, nelle quali Dio solo vede anche ciò che è sentito confusamente nel core stesso dove si formano; ma il testimonio dell'azioni, vuol regolarlo, non levarlo di mezzo; lo comanda anzi quasi in tutti i casi in cui non lo condanna, cioè quando non ci porti a darlo la voglia di deprimere o di disonorare, ma dovere d'ufizio o di carità; quando si tratti di preservare il prossimo dall'insidie de' maligni; quando insomma sia richiesto da giustizia e da utilità. Certo, in questi casi, è necessaria tutta la prudenza cristiana, ma la religione c'insegna i mezzi d'ottenerla. Con essa l'uomo può governarsi nelle difficili circostanze, nelle quali e il parlare e il tacere hanno qualche apparenza di male; in cui si deve opporsi a un maligno, e nello stesso tempo potersi render testimonianza di non esserci condotti da malignità. Il gemito dell'ipocrita che sparla di colui che odia, le proteste che fa d'essere addolorato de' difetti dell'uomo che denigra, di parlar per dovere, sono un doppio omaggio e alla condotta e a' sentimenti che la religione prescrive.

La Chiesa è tanto aliena dall'imporre silenzio alla voce della verità, quando sia mossa dalla carità; è tanto aliena dal trascurare alcun mezzo per cui gli uomini possano migliorarsi a vicenda, che condanna i rispetti umani. E quest'espressione medesima è sua; è una di quelle che il mondo non avrebbe sapute trovare, perchè intende e accenna un obbligo e un motivo soprannaturale di non tacer la verità in certi casi. Così ha prevenuto l'animo debole contro il terrore che la forza, che la moltitudine, che la derisione, che il possesso delle dottrine mondane, gli sogliono incutere; così ha resa libera la parola in bocca all'uomo retto. Essa ha anche comandata la correzione fraterna, mirabile tempra di parole, in cui, all'idea di correzione, che urta tanto il senso, è unita immediatamente l'idea di fraternità, che rammenta i fini d'amore, e la comune debolezza, e la disposizione a ricever la correzione in chi la fa agli altri. La Chiesa non impedisce alcuno de' vantaggi che possono venire dalla sincera e spassionata espressione della verità, e dal fondato e giusto discernimento tra la virtù e il vizio.

Mi si permetta di collocar qui una riflessione che è sottintesa in molti luoghi di questo scritto, e che sarà espressamente riprodotta e svolta in qualche altro. Ogni qual volta si crede trovare nella religione un ostacolo a qualche sentimento o a qualche azione o a qualche istituzione giusta e utile, generosa e tendente al miglioramento sociale, si troverà, esaminando bene, o che l'ostacolo non esiste, e la sua apparenza era nata dal non avere abbastanza osservata la religione; o che quella cosa non ha i caratteri e i fini ch'era parso alla prima. Oltre l'illusioni che possono venire dalla debolezza del nostro intendimento, c'è una continua tentazione d'ipocrisia, dirò così, verso noi medesimi, dalla quale non sono esenti gli animi più puri e desiderosi del bene; d'un'ipocrisia che associa subito l'idea d'un bene maggiore, l'idea d'un'inclinazione generosa ai desidèri delle passioni predominanti: dimanierachè ognuno, chiamando a esame sè stesso, non può qualche volta esser certo dell'assoluta rettitudine de' fini che lo movono; non può discernere che parte ci abbia, o l'orgoglio o la prevenzione. Se allora condanniamo le regole della morale, perchè ci paiono più corte de' nostri ritrovati, serviamo a de' sentimenti riprovevoli che non confessiamo nemmeno a noi stessi, o che forse combattiamo in noi ; ma che non s'estinguono interamente in questa vita.

S'osservi finalmente che, se l'aumento della diffidenza fosse un effetto della proibizione di parlar male, siccome questa proibizione è intimata in tutto il mondo cattolico [3], così ne verrebbe, o che la diffidenza n'è accresciuta pertutto, o che in Italia i precetti sono più osservati che altrove: la qual cosa sarebbe invece un indizio d'un migliore stato morale. Io non so se noi Italiani siamo più diffidenti degli altri Europei; so che ci lamentiamo di non esserlo abbastanza; so che (come, del resto, tutte l'altre nazioni) diciamo in vece di peccare di troppa credulità e bona fede. Se però la diffidenza fosse universale tra di noi, mi pare che converrebbe darne la colpa a tutt'altro che al non mormorare; giacchè siamo lontani dall'aver perduta quest'abitudine.

 

 

CAPITOLO XV.

 

SUI  MOTIVI  DELL'ELEMOSINA

 

La charité est la vertu par excellence de L'Évangile mais le casuiste a enseigné à donner au pauvre pour le bien de sa propre âme, et non pour soulager son semblable... Pag. 420.

 

Dare al povero per il bene dell'anima propria, non è suggerimento di casisti, ma insegnamento della Chiesa.

Escludere dall'elemosina il fine di sollevare il prossimo, è un raffinamento anti.cristiano, il quale non so se sia mai stato dottrinalmente insegnato da alcuno: ma credo che non ce ne sia vestigio in Italia.

Per ciò che riguarda il proporsi, in quella come in ogni altra opera, il bene dell'anima propria, la Chiesa non fa altro che insegnare ciò che ha imparato dal suo Fondatore. E non c'è forse nel Vangelo verun altro precetto, al quale vada così spesso unita la promessa della ricompensa. Nel Vangelo, l'elemosina è un tesoro che uno s'ammassa nel cielo: è un amico che ci deve introdurre nei padiglioni eterni; nel Vangelo, il regno è promesso ai benedetti del Padre, i quali avranno satollati, vestiti, ricoverati, visitati coloro, che il Re, nel giorno della manifestazione gloriosa, non sdegnerà di chiamare suoi fratelli [4], memore d'avere avute comuni con loro le privazioni e i patimenti, d'esser passato, anche lui, come uno sconosciuto, davanti agli sguardi distratti de' fortunati del mondo. Tutta la Scrittura parla così: Non avrà bene chi non fa elemosina [5]. Che più? le parole stesse che qui si danno come insegnamento di casisti, sono quelle della Scrittura: Il misericordioso fa del bene all'anima sua [6].

Questo motivo va unito a tutti i comandamenti: la sanzione religiosa non si fonda che su di esso.

Dopo di ciò, non c'è bisogno certamente di giustificare, su questo punto, la dottrina della Chiesa. Non sarà però fuori di proposito l'osservare come una tale dottrina sia superiore bensì, ma insieme consentanea alla ragione, e quanto sia opposto ad essa il supporre che il motivo d'una ricompensa, di qualunque genere sia, possa, per sè, detrarre alla perfezione e al merito dell'azioni virtuose. Illusione, nella quale sono caduti anche degli ingegni tutt'altro che volgari; e dalla quale, se è lecito il dirlo, è venuto il rimprovero fatto dall'illustre autore all'insegnamento cattolico sui motivi dell'elemosina.

La virtù, si dice, è tanto più pura, più nobile, più perfetta, quanto più è disinteressata. Sentenza verissima, quando alla parola « disinteresse » s'applichi un concetto giusto e preciso. Per disinteresse s'intende in astratto, e un poco in confuso, la disposizione a rinunziare a delle utilità. E cos'è che fa riguardare come bella questa disposizione, come ignobile, o meno nobile, la disposizione contraria? In primo luogo, l'essere, in molti casi, un'utilità d'un uomo opposta a un'utilità d'un altro, o d'altri; dimanierachè il rinunziare a quella sia posporre un godimento privato alla benevolenza; sentimento più nobile, per consenso universale; anzi il solo de' due, al quale s'attribuisca questa qualità. L'altra cagione è il consenso divenuto comune dopo il Cristianesimo (quantunque più o meno avvertito e ragionato), che tutte l'utilità nelle quali è unicamente contemplato il godimento di chi le acquista, sono d'un prezzo inferiore a quello della virtù: d'onde viene che il non proporsi alcuna di esse, o in altri termini alcuna ricompensa, come motivo, nemmeno accessorio, d'un'azione virtuosa, è avere una giusta stima della virtù, e riconoscere col fatto, che essa è un motivo sufficiente, anzi soprabbondante, di qualunque azione. Ragioni vere, ma che non sono intrinseche all'idea stessa di ricompensa; e non si possono quindi applicare a ogni genere di ricompensa, se non per uno di que' sofismi che scappano così facilmente nelle conclusioni precipitate. Considerata in astratto, l'idea di ricompensa non è altro che quella d'un bene dato al merito, cioè l'idea d'una cosa, non solo bona e giusta, ma la sola bona e giusta: nel caso, s'intende, d'un vero merito e d'una vera ricompensa. Si supponga quindi una ricompensa, contro la quale non militi nè l'una nè l'altra di quelle due ragioni; e il proporsela per motivo non potrà levar nulla alla nobiltà dell'azioni e de' sentimenti; il non proporsela (senza cercare ora come deva qualificarsi), non potrà meritare l'onorevole qualificazione di disinteresse.

Di questo genere appunto, anzi l'unica di questo genere, è la ricompensa di cui si tratta. Essendo infinita, non può essere da verun uomo ceduta a verun altro, come il goderla non può mai essere a scapito di verun altro. E non può nemmeno essere inferiore in dignità alla virtù, poichè, non è altro che il più perfetto esercizio della virtù medesima.

Infatti, cosa intende il cristiano per il bene dell'anima sua? Riguardo all'altra vita, intende, una felicità di perfezione, un riposo che consisterà nell'esser assolutamente nell'ordine, nell'amar Dio pienamente, nel non avere altra volontà che la sua, nell'esser privo d'ogni dolore, perchè privo d'ogni inclinazione al male. Beati, disse la sapienza incarnata, quelli che hanno fame e sete della giustizia; perchè saranno satollati [7]; che è quanto dire: saranno eternamente giustissimi.

E riguardo alla vita presente, il cristiano intende una felicità di perfezionamento; che consiste nell'avanzarsi verso quell'ordine. Felicità non intera, certamente; ma la maggiore, come la più nobile, che si possa godere in questa vita; felicità che nasce da quella stessa fame e sete, accompagnata dalla speranza che conforta, e dalla carità che fa pregustare. Così la pietà è utile a tutto, avendo con sè la promessa della vita presente e della futura [8].

Posto ciò, si dovrà dire che, in quelli a cui una tale ricompensa è stata annunziata, il non proporsela per motivo, non che aggiunger perfezione alla virtù, non può nascere che dal disprezzo di questa perfezione medesima, essendo essa inseparabile dalla ricompensa medesima, cioè dal gaudio celeste; il quale, per ripeter la cosa con parole e più autorevoli e migliori delle mie, non è altro che il colmo, la soprabbondanza, la perfezione dell'amor di Dio [9], val a dire della virtù che sovrasta a tutte, e le comprende tutte.

Che, tra i gentili, i quali non avevano cognizione di questo Bene, ma solo de beni temporali , alcuni abbiano pensato che ogni ricompensa sia indegna della virtù, non c'è da maravigliarsene. È piuttosto una cosa degna d'osservazione, che, col solo lume naturale, siano arrivati a vedare la verità, sulla quale formarono questo loro errore. Nel confuso, tronco e, dirò così, acefalo concetto che avevano della virtù, videro, dico, una relazione speciale di questa con l'infinito; e ne dedussero che nessun bene finito poteva esser per essa materia di compensazione. E, dopo averla spogliata così d'ogni premio, dovendo però riconoscere che premio e virtù sono idee correlative, c .che ciò che forma questa relazione tra di loro è l'idea di giustizia, troncarono il nodo col dire che la virtù è premio a sè stessa. Parale più vere del pensiero che esprimevano; perchè, nella loro generalità, comprendono il concetto intero, e di virtù e di premio, che non era nella mente di chi le metteva insieme; cioè il concetto di quella virtù, e di quel premio, che non si realizzano se non nell'altra vita, e per il possesso di Dio. Potrebbbe bensì parer più strano, che, anche nella luce del Vangelo, alcuni abbiano potuto immaginarsi una maggior perfezione della virtù, e della virtù cristiana, nell'escludere da' suoi motivi ogni ricompensa. Ma l'ingegno umano può abusare delle verità rivelate, come di quelle che conosce naturalmente. Essendo l'annegazione, e il disprezzo de' piaceri, il precetto continuo, e lo spirito del Vangelo, s'è potuto voler estender quest'annegazione anche alla vita futura, applicando, con un accecamento volontario, le qualità de' beni che Gesù Cristo c'insegna a disprezzare, al bene proposto da Gesù Cristo medesimo. Una dottrina così opposta alla sua e, per necessità, alla retta ragione, fu come doveva essere, condannata dalla Chiesa [10].

La ragione dice e, per dir così, sente che il desiderio della felicità è naturale all'uomo; la religione, nella quale (non sarà mai ripetuto abbastanza) la ragione trova il suo compimento, insegna che il desiderio della felicità eterna, inseparabile dalla santità, è un dovere. All'amor di sè, che i sistemi di morale puramente umana si studiano, ora di combattere, ora di soddisfare, e sempre con mezzi insufficienti, la religione apre una strada verso l'infinito, nella quale può correre con l'illimitata sua forza, senza mai urtare il più piccolo dovere, senza offendere alcun nobile sentimento. Per questa strada, essa ha potuto condur l'uomo al massimo grado di vero disinteresse, e far che disprezzi i beni della terra, appunto perchè mira alla ricompensa [11]. Essa ha potuto farle rinunziare, non solo ai piaceri che sono direttamente dannosi agli altri, ma a molti ancora, che la morale del mondo, economa imprevidente, approva o promette. Perciò Gesù Cristo, dove appunto dà il motivo dell'elemosina, comanda non solo l'azione, ma il segreto; e levando la sanzione umana dell'amor della lode, ci sostituisce quella della vita futura. Il tuo Padre, che vede nel segreto, le ne darà egli la ricompensa [12]. Non vuol guarire l'avarizia con la vanità, non vuole che l'uomo si prenda nello stato presente le ricompense riservate all'altro, e colga, nella stagione in cui deve solo attendere a coltivarla, una messe che, recisa, s'inaridisce e non riempie la mano [13]; non vuol solamente de' poveri sollevati, ma degli animi liberi, illuminati e pazienti. Cos'importa, dice spesso il mondo, da che fine provengano l'azioni utili, perchè ce ne siano molte? Domanda inconsiderata quanto si possa dire, e alla quale è troppo facile rispondere che importa di non distrarre gli uomini dal loro fine, di non ingannarli, di non avvezzarli all'amore di que' beni per i quali si troveranno un'altra volta in contrasto tra di loro; di que' beni che, goduti, accrescono bensì la sete di possederli, ma non la facoltà di moltiplicarli. Questa facoltà ammirabile non appartiene se non ai beni spirituali, che sono beni assolutamente veri, anche in questa vita, e perchè partecipano del Bene sommo e infinito, e perchè conducono a possederlo eternamente.

S'è fatto più volte alla morale cattolica un rimprovero opposto; cioè che non si faccia carico dell'amore di sè, quando prescrive l'annegazione, e l'amare il prossimo come sè stesso. Ma annegazione non vuol dire rinunzia alla felicità: vuol dire resistenza all'inclinazioni viziose nate in noi dal peccato, le quali ci allontanano dalla vera felicità. E in quanto al precetto d'amare il prossimo come sè stesso, ciò che ha potuto farlo parere ad alcuni eccessivo, ineseguibile, contrario alla natura dell'uomo, non è altro che l'ignorare o lo sconoscere quel bene che si può volere agli altri come a sè, perchè, essendo infinito può riempir ciascheduno, senza esser mai nè esaurito, nè diminuito da alcuno. L'amor permanente, irresistibile, incondizionato di sè, è certamente una legge naturale d'ogni anima umana non amar gli altri come sè, non è punto una conseguenza di questa legge, ma un'aggiunta arbitraria, fondata unicamente sulla supposizione, che non ci siano per l'uomo altri beni fuori di quelli, il possesso de' quali ha per condizione che gli altri ne siano privi. La religione, per chi vuole ascoltarla, ha levata di mezzo questa supposizione; e, con la sua scorta, è anche facile il riconoscere che amare il prossimo come sè stesso, non è altro che un precetto di stretta giustizia; perchè la ragione di questi due amori è uguale, anzi la stessa. Qual'è, infatti, la ragione d'amare, non l'uno o l'altro o alcuno de' nostri simili, ma il nostro prossimo, cioè ognuno de' nostri simili, independentemente da ogni nostra particolare inclinazione, da ogni sua particolare qualità, e da ogni suo merito verso di noi? Dove si può, dico, trovar la ragione di questo amore per tutti gli uomini, se non in ciò che è comune a tutti gli uomini, e insieme degno d'amore, cioè la natura umana medesima, l'essere nobilissimo di creatura intelligente, formata a immagine di Dio, e capace di conoscerlo, d'amarlo e di possederlo, val a dire d'un'altissima perfezione morale? Così il precetto divino, non che essere in opposizione col vero e giusto amore di noi medesimi, ce ne fa trovar la ragione nell'amore dovuto a tutti gli uomini: ragione, senza la quale questo invincibile amore di noi medesimi potrebbe parere nulla più che un cieco istinto. Se l'uomo avesse bisogno d'un insegnamento per amarsi, lo troverebbe sottinteso e implicito in questo precetto, che gl'impone d'amar l'umanità intera. Ne ha però bisogno, e quanto! per amarsi rettamente; e lo trova, come in tutti i precetti divini, così anche in questo , il quale, prescrivendogli d'amare il prossimo come sè stesso, gl'insegua a amar sè stesso come il prossimo, cioè a volere a sè quel bene che deve, e può ragionevolmente, volere agli altri: il bene sommo e assoluto, prima di tutto, e i beni finiti e temporali, in quanto possano esser mezzo a quello.

Ora, come mai da questa dottrina d'amore, di comunione e, dirò così, d'assimilazione tra gli uomini, potrebbe venire che s'abbia a escludere dall'elemosina il motivo di sollevare il suo simile? Certo, non è impossibile che ciò sia entrato in qualche mente, come c'entrano tant'altre contradizioni; ma oso asserir di novo, che non fa parte dell'insegnamento religioso in Italia, e che il Segneri ha parlato il linguaggio comune di quest'insegnamento, quando ha detto che « due solamente sono alla fine le porte del cielo: l'una, quella del patire; e l'altra, quella del compatire. » I ministri del Vangelo, quando inculcano di soccorrere i poveri, rappresentano sempre l'angosce del loro stato; e, nella trascuranza di questo dovere, condannano espressamente la durezza e la crudeltà, come disposizioni ingiuste e antievangeliche. Quando Gesù Cristo moltiplicò i pani, per satollare le turbe che, con tanta fiducia, correvano dietro alla parola, l'opera dell'onnipotenza fu preceduta da un ineffabile movimento di commiserazione nel core dell'Uomo Dio. Ho pietà di questo popolo, perchè sono già tre giorni, che non si distaccano da me, e non hanno niente da mangiare; e non voglio rimandarli digiuni, perchè non svengano per la strada [14]. La Chiesa ha ella potuto cessare un momento di proporre per modello i sentimenti di Gesù Cristo?

Bisognerebbe domandare a que' parrochi zelanti e misericordiosi i quali, girando per le case affollate dell'indigenza, e dopo aver soddisfatto, con lacrime di tenerezza e di consolazione, a degli estremi bisogni, ne trovano ancora de novi, e non possono altro che mischiare le loro lacrime con quelle del povero, bisognerebbe domandar loro se, quando ricorrono al ricco per avere i mezzi di saziare la loro carità, non gli parlano che dell'anima sua, se non gli dipingono le miserie e i patimenti e i pericoli del bisognoso, e se quelli a cui sono rivolte preghiere così sante e così generose, le ascoltano con una fredda insensibilità; se l'immagine del dolore e della fame è esclusa da sentimenti che li movono a convertire in un mezzo di salute quelle ricchezze le quali sono così spesso un inciampo, un mezzo di piaceri che portano alla dimenticanza, e fino all'avversione per l'uomo che patisce.

San Carlo, che si spogliava per vestire i poveri, e che, vivendo tra gli appestati per dar loro ogni sorte di soccorso, non dimenticava che il suo pericolo; quel Girolamo Miani, che andava in cerca d'orfani pezzenti e sbandati, per nutrirli e per disciplinarli, con quella premura che metterebbe un ambizioso a diventar educatore del figlio d'un re, non pensavano dunque che all'anime loro? E l'intento di sollevare i loro simili non entrava per nulla in una vita tutta consacrata a loro? L'uomo che vive lontano dallo spettacolo delle miserie, sparge qualche lacrima sentendole descrivere; e quelli che un'irrequieta carità spingeva a cercarle, a soccorrerle, ci avrebbero portato un core privo di compassione?

Certo, non occorre di far qui un'enumerazione degli atti di carità di cui è piena la storia del cattolicismo: ne scelgo uno solo, insigne per delicatezza di commiserazione; e lo scelgo perchè, essendo recente, è un testimonio consolante dello spirito che c'è sempre vivo. Una donna che abbiamo veduta in mezzo a noi, e di cui ripeteremo il nome a' nostri figli, una donna cresciuta tra gli agi, ma avvezza da lungo tempo a privarsene, e a non vedere nelle ricchezze che un mezzo di sollevare i suoi simili, uscendo un giorno da una chiesa di campagna, dove aveva ascoltata un'istruzione sull'amore del prossimo, andò al casolare d'un'inferma, il di cui corpo era tutto schifezza e putredine; e non si contentò di renderle, com'era solita, que' servizi pur troppo penosi, coi quali anche il mercenario intende di fare un'opera di misericordia, ma trasportata da un soprabbondante impeto di carità, l'abbraccia, la bacia in viso, le si mette al fianco, divide il letto del dolore e dell'abbandono, e la chiama più e più volte col nome di sorella [15].

Ah! il pensiero di sollevare una creatura umana, non era certamente estraneo a que' nobili abbracciamenti. Mangiare il pane della liberalità altrui, ottener di che raddolcire i mali del corpo, e prolungare una vita di stenti, non è il solo bisogno dell'uomo sul quale pesa la miseria e l'infermità. Sente d'esser chiamato anche lui a questo convito d'amore e di comunione sociale: la solitudine in cui è lasciato, il pensiero di far ribrezzo al suo simile, il riguardo con cui gli si avvicina quel medesimo che gli porge soccorso, il non veder mai un sorriso, è forse il più amaro de' suoi dolori. E il core che pensa a questi bisogni, e li soddisfa, che vince la repugnanza de' sensi, per veder solamente l'anima immortale che soffre e si purifica, è il più bel testimonio per le dottrine che l'hanno educato, è una prova che queste non mancano mai all'ispirazioni più ardenti e ingegnose della carità universale.

Donde è dunque potuta venire un'opinione così arbitraria e opposta al fatto, come quella che s'è esaminata nel presente capitolo? Se non m'inganno, da un'estensione affatto abusiva, anzi dall'alterazione manifesta di quell'insegnamento, non italiano, ma veramente cattolico, che il solo motivo di sollevare il suo simile non basta a render cristiana e santa l'elemosina, e a darle un merito soprannaturale. Mi servirò anche qui d'alcune parole del Segneri, che esprimono questo sentimento, senza contradire, ne punto nè poco, all'altre sue citate dianzi: «Se non che, avvertite che non basta a un vero limosiniere quella pietà naturale, con la quale si compatisce un uomo perch'egli è uomo. Fin qui sanno anche giungere gl'infedeli. .... Troppo più alto prende però la mira l'occhio d'un limosiniere fedele, qual noi cerchiamo. Non solo ha egli compassione del povero, ma gliel'ha per amor di Dio. Anticamente sopra il fuoco che s'era acceso a bruciar la vittima, pioveva Iddio un'altro fuoco più segnalato e più sacro che, giunto al primo, desse compimento più nobile al sacrifizio. Or figuratevi che così faccia la carità sopra quelle fiamme di compassion naturale, per sè lodevole: aggiunge ella anche altre fiamme d'amor cristiano, per cui si compiste l'olocausto in odore di soavità [16]

Ora, se quella falsa credenza ha avuta occasione da quest'insegnamento (e non saprei immaginarmi da cos'altro) basterà, se non è superfluo, l'osservare la differenza, anzi la diversità, che passa tra l'insegnare che l'elemosina dev'esser fatta, non solo per sollevare il suo simile, e l'insegnare che non dev'esser fatta per sollevare il suo simile. E d'altra parte, chi può non vedere quanto sia cosa giusta per sè, e independentemente da qualunque altro riguardo, il riferire ogni nostro sentimento verso qualunque creatura, all'Autore di tutte? chi non riconosce in questo una condizione essenziale e universale del culto medesimo? giacchè, quali nostri sentimenti si dovranno riferire a Dio, se non tutti? Che parte fargli? Quali cose amare per Lui, dependentemente da Lui, e relativamente a Lui, e quali altre per loro medesime, come nostro fine, come ultimo e unico termine dal nostro affetto? È dunque verissimo che, per un insegnamento essenziale del cristianesimo, depositario della vera nozione di Dio e delle creature, e non già per un ritrovato di casisti, l'intento di sollevare il suo simile, si trova subordinato a un intento superiore. Ma è forse a scapito di quella compassione naturale per sè lodevole? Quando mai un bon sentimento qualunque ha potuto perdere la sua giusta attività, per esser collocato nel suo ordine? E nel caso presente, chi non vede quanto l'inclinazion naturale a sollevare il suo simile (naturale bensì, ma da quante inclinazioni opposte combattuta!) deva, acquistar di forza, di prevalenza, d'universalità, dall'amarlo per Dio, e in Dio, come fatto a di Lui immagine, redento da Lui, come quello nel quale Egli ama d'abitare come in suo tempio? Perchè, tale è la sublime estensione data dal cristianesimo alla significazione di quel simile, così ristretta, e, per conseguenza, così poco efficace e feconda, nel solo senso naturale. In un animo dove regni veramente l'amor di Dio, non può aver luogo l'indifferenza per i patimenti del prossimo. O Seigneur! esclama il Bossuet, si je vous aimois de toute ma force, de cet amour j'aimerois mon prochain comme moi même. Mais je suis si insensible à ses maux, pendant que je suis si sensible au moindre des miens. Je suis si froid à le plaindre, si lent à le secourir, si foible à le consoler; en un mot, si indifférent dans ses biens et dans ses maux [17]. Non è raro il trovar degli uomini che si lamentino d'esser troppo sensibili ai mali altrui. Tra questo querulo vanto di sentir troppo, e quell'umile confessione di non sentire abbastanza, qual è che annunzi una contentatura più difficile, e, per conseguenza, un principio più imperioso e più attivo.

 

 

CAPITOLO XVI.

 

SULLA  SOBRIETÀ  E  SULLE  ASTINENZE,

SULLA  CONTINENZA  E  SULLA  VERGINITÀ.

 

La sobrieté, la continence sont des vertus domestiques qui conservent les facultés des individus, et assurent la paix des familles; le casuiste a mis à la place les maigres, les jeunes, les vigiles, les v.ux de virginité et de chasteté; et à côté de ces vertus monacales, la gourmandise et l'impudicité peuvent prendre racine dans les coeurs. Pag. 420.

 

L'istituzioni relative all'astinenza sono di quelle che il mondo s'è ingegnato a render ridicole: per cui molti di que' medesimi che le venerano in cor loro, parlano in loro difesa con timidi riguardi, non osano quasi adoprare i nomi propri, e lasciano credere che la ragione, rispettandole, non faccia altro che sottomettersi ciecamente a una sacra e incontrovertibile autorità. Ma chi cere sinceramente la verità, in vece di lasciarsi spaventare dal ridicolo, deve sottoporre a un libero esame il ridicolo stesso.

Quello di cui si tratta qui, ha una causa e un pretesto. La causa è l'avversione del mondo per la mortificazione del senso, e conseguentemente per tutto ciò che la prescrive, in una forma qualunque. Ma, per non allegar questa vera causa (che sarebbe un confessarsi schiavo del senso), il mondo procura di darsi a intendere che ciò che gli repugna in queste prescrizioni, è qualcosa di contrario alla ragione. E a questo fine, dimentica o finge di dimenticare il loro spirito e i loro motivi: che è certamente il mezzo più spiccio di farle comparire stravaganti. Non si vergognerà, per esempio, di continuar per de' secoli a domandare cos'importi a Dio, che gli uomini usino certi cibi, piuttosto che certi altri, e di mettere in campo altri argomenti di simil peso.

Ciò poi che dà un'occasione, o meglio un pretesto, di ridere di queste prescrizioni, è la maniera con cui sono eseguite da de' cattolici. Le Scritture e la tradizione rappresentano il digiuno come una disposizìone di staccatezza e di privazioni volontarie, della quale, l'astenersi dal cibo, per un dato tempo, è una parte, un modo naturale, una conseguenza necessaria. In uomini affaccendati nella ricerca de contenti mondani d'ogni genere, nemici d'ogni umiliazione e d'ogni patimento, questa sola parte di penitenza, eseguita farisaicamente, produce una dissonanza, nella quale il mondo trova quello che basta a lui per ridere, e del fatto e dell'istituzione insieme. L'astinenza poi da certi cibi in certi giorni, è anch'essa una specie di digiuno, un mezzo prescritto dalla Chiesa, per unire la penitenza e la privazione anche con l'uso necessario degli alimenti. Se alcuni hanno saputo convertirlo in un mezzo di raffinamento, certo che una mostra illusoria e, e per dir così, una millanteria di penitenza, che si vede uscire tutt'a a un tratto da una vita tutta di delizie e di passioni, presenta un contrasto strano tra l'intenzione della legge e lo spirito dell'ubbidienza, tra la difficoltà e il merito. E il mondo ne profitta per ridere anche della legge.

Ma, per levarne ogni occasione a chiunque voglia riflettere (giacchè ci sono degli uomini i quali non lasciano più di ridere d'una cosa che hanno una volta concepita come ridicola), basta distaccar l'astinenze da quel complesso d'idee, nel quale fanno contradizione, e rimetterle in quello che loro è proprio, e nel quale furono collocate dalla legislazione religiosa. Basta osservarle insieme coi fini che la Chiesa ha avuti di mira nell'ordinarle; e insieme non dimenticàre i casi ne' quali producono i loro effetti; allora, non solo svanirà il ridicolo, ma comparirà la bellezza, la sapienza e l'importanza di queste leggi.

La sobrietà, come ha detto benissimo l'illustre autore, conserva le facoltà degl'individui. Ma la religione non si contenta di quest'effetto, nè di questa virtù, conosciuta anche da' gentili; e avendo fatti conoscere i mali profondi dell'uomo, ha dovuto proporzionare ad essi i rimedi. Nei piaceri della gola che si possono conciliare con la sobrietà, vede una tendenza sensuale che svia dalla vera destinazione; e dove non è ancor principiato il male, segna il pericolo. Prescrive l'astinenza come una precauzione indispensabile a chi deve sostenere il combattimento contro la legge delle membra; la prescrive come espiazione de' falli in cui l'umana debolezza fa cadere anche i migliori; la prescrive ancora per ragione di carità e giustizia; perchè le privazioni de' fedeli devono servire a soddisfare ai bisogni altrui, e compartire così tra gli uomini le cose necessarie al vitto, e fare scomparire dalle società cristiane que' due tristi opposti, di profusione a cui manca la fame, e di fame a cui manca il pane.

Queste prescrizioni, essendo così necessarie all'uomo in tutti i tempi, hanno dovuto principiare con la promulgazione della religione; e così è infatti. Nel solo popolo che avesse una civilizzazione fondata sopra idee di giustizia universale, di dignità umana e di progresso nel bene, cioè sopra un culto legittimo, si trovano esse fino da' primi tempi del suo passaggio solenne dallo stato di schiavitù, dov'era ritenuto dalla prepotenza e dalla mala fede, allo stato di nazione; e la tradizione del digiuno discende da Mosè fino a' nostri giorni, come un rito di penitenza e un mezzo d'innalzar la mente al concetto delle cose di Dio, e di mantenersi fedeli alla sua legge.

Al tempo di Samuele, gl'Israeliti prevaricano; ma quando ritornano al Signore pentiti, quande cessano d'adorare le ricchezze della terra, e levano di mezzo a loro gli dei visibili degli stranieri, offrono olocausti al Signore, e digiunano [18].

L'idolatria era il culto della cupidigia, la festa de' godimenti terreni per rompere l'abitudine della servitù de' sensi, per ritornare a Dio, bisognava principiare dalle privazioni volontarie. E quando i figli d'Israele ritornano dalla terra de' padroni stranieri, quando sono per rivedere Gerusalemme, il magnanimo Esdra loro condottiere, li prepara al viaggio col digiuno e con la preghiera [19], per rifare così un popolo religioso e temperante, segregato dalle gioie tumultuose e servili delle genti.

Il digiuno accompagna senza interruzione il primo testamento; Giovanni, precursore del novo, l'osserva e lo predica; e quello che fu l'aspettazione e il compimento dell'uno, il fondatore e la legge dell'altro, e la salute di tutti, Gesù Cristo, lo comanda, lo regola, ne leva l'ipocrita ruvidezza e la malinconica ostentazione, l'attornia d'immagini socievoli e consolanti [20], ne insegna lo spirito, e ne dà Lui stesso l'esempio. Certo, la Chiesa non ha bisogno d'altra autorità, per render ragione d'averlo conservato.

Gli Apostoli sono i primi a praticarlo. Il digiuno e la preghiera precedono l'imposizioni delle mani, che conferì a Paolo la missione verso le genti [21]; e la religione, come disse il Massillon, nasce nel seno del digiuno e dell'astinenze [22]. D'allora in poi, dove si può segnare un tempo di sospensione o d'intervallo? La storia ecclesiastica ne attesta la continuità in tutti i tempi e in tutti i santi; e se si trova pur troppo qualche volta il letterale adempimento del digiuno, scompagnato da una vita cristiana, è impossibile trovare una vita cristiana scompagnata dal digiuno. I martiri e i re, i vescovi e i semplici fedeli eseguiscono e amano questa legge: essa si trova come in un posto naturale tra' cristiani. Fruttuoso, vescovo di Tarragona, rifiutò, andando al martirio, una bevanda che gli era offerta per confortarlo; la rifiutò, dicendo che non era passata l'ora del digiuno [23]. Chi non prova un sentimento di rispetto per una legge così rispettata, nel momento solenne del dolore, da un uomo che stava per dare una testimonianza di sangue alla verità? Chi non vede che questa legge medesima aveva contribuito a prepararlo al sacrifizio, e che per morire imitatore di Gesù Cristo, egli n'era vissuto imitatore?

Ma, prescindendo da questi esempi ammirabili, nelle circostanze più ordinarie d'un cristiano, il digiuno e l'astinenze si legano con ciò che la sua vita ha di più degno e di più puro. Si veda un uomo giusto, fedele a' suoi doveri, attivo nel bene, sofferente nelle disgrazie, fermo e non impaziente contro d'ingiustizia, tollerante e misericordioso; e si dica se le pratiche dell'astinenza non sono in armonia con una tale condotta. San Paolo paragona il cristiano all'atleta che, per guadagnare una corona corruttibile, era in tutto astinente [24] L'agilità e il vigore che ne veniva al suo corpo, era tanto evidente, i mezzi erano così corrispondenti al fine, che a nessuno pareva irragionevole quel tenore di vita, nessuno se ne maravigliava; e noi, educati all'idee spirituali del cristianesimo, non sapremo vedere la necessità e la bellezza di quell'istituzioni che tendono a render l'animo desto e forte contro l'inclinazioni del senso?

Questo è il punto di vista vero e importante dell'astinente; questi sono i loro effetti naturali. E se il mondo non se n'avvede, è perchè quelli che le praticano in spirito di fedeltà, si nascondono, e il mondo non si cura di ricercarli, e non fa per lo più attenzione all' astinenze , se non quando presentano un contrasto col resto della condotta.

Ci sono, anche nella Chiesa, dell'istituzioni transitorie, il fine delle quali è solamente di preparare e di condurre gli uomini d'un tempo o d'un luogo a un ordine, più elevato; ce ne sono dell'altre, che la Chiesa mantiene stabilmente, perché affatto connaturali al suo ordine intrinseco e perpetua. Esse attraversano delle generazioni ribelli o noncuranti, rimangono immobili in mezzo a un popolo dimentico o derisore, aspettando le generazioni ubbidienti e riflessive; perchè sono fatte per tutti i tempi. Tali sono, non dico il digiuno, che è d'istituzione divina, ma la più parte delle leggi ecclesiastiche che ne prescrivono delle speciali applicazioni: tali sono, per esempio, le vigilie. Celebrare la commemorazione de' gran misteri, e degli avvenimenti ai quali dev'essere rivolta tutta la considerazione del cristiano, e prepararcisi con la penitenza e con le privazioni, è un'istituzione tanto essenzialmente cristiana, che si confonde per l'origine della religione, e non ha avuto un momento di sospensione.

L'astinenza da certi cibi, come abbiamo detto, è un'altra applicazione dello stesso principio. Se ci sono di quelli che combinano l'esecuzione materiale di questo precetto con l'intemperanza e con la gola; e se ci sono degli altri che prendono da ciò il pretesto di farsene beffe, la Chiesa non ha creduto per questo di dover abolire una memoria vivente dell'antica semplicità e dell'antico rigore, di dover cancellare ogni vestigio di penitenza, e levare a tanti suoi figli un mezzo d'esercitarla ubbidendo. Perchè, non mancano de' ricchi che osservano sinceramente, e per spirito di penitenza, una legge di penitenza; e, tra i poveri, non sono mancati coloro che, forzati a una sobrietà che rendono nobile e volontaria con l'amarla, trovano il mezzo d'usar qualche maggior severità al loro corpo, ne' giorni in cui una particolare afflizione è preceritta dalla Chiesa. Essa li considera come il suo più bell'ornamento, e come i suoi figli prediletti.

Tutte queste pratiche non possono dirsi sostituite alla sobrietà: non ne dispensano; la suppongono invece, e ne sono un perfezionamento.

Lo stesso si dica devoti di verginità e di castità, in relazione con la continenza. Come chiamarle una sostituzione a questa, se ne sono l'esercizio più eminente? È inutile dire che la verginità, lodata e consigliata da san Paolo [25], che ne diede l'esempio, lodata e disciplinata dai Padri, non è un'invenzione de' casisti.

Che se l'impudicizia può metter radice ne' cori, malgrado il voto di verginità, e la gola, malgrado l'astinenze, vorrà dire che tanta è la corruttela dell'uomo, che i mezzi stessi proposti dall'Uomo.Dio non la estirpano totalmente; che sono bensì armi per poter vincere, ma che non dispensano dal combattere: ma chi potrà supporre che ci possano essere de' mezzi migliori? Opporre alla Chiesa, la quale consiglia o comanda l'esercizio più perfetto d'una virtù, che questo può qualche volta essere scompagnato dal sentimento di quella virtù, non può, per quello ch'io vedo, condurre ad alcuna utile conseguenza. Perchè quest'obiezione avesse forza, converrebbe poter asserire che, una religione la quale si limitasse a proporre la sobrietà e la continenza, estirperebbe dal core degli uomini la radice dell'inclinazioni contrarie.

 

 

CAPITOLO XVII.

 

SULLA  MODESTIA  E  SULLA  UMILTÀ.

 

La modestie est la plus aimable des qualités de l'homme supérieur: elle n'exclut point un juste orgueil, qui lui sert d'appui contre ses propres foiblesses, et de consolation dans l'adversité; le casuiste y a substitué l'humilité; qui s'allie avec le mépris le plus insultant pour les autres. Pag. 420, 421.

 

Io non difenderò qui i casisti dall'accusa d'aver sostituita alla modestia, e, per dir così, inventata l'umiltà. Essa è tanto espressamente e ripetutamente comandata nelle Scritture, che una simile proposizione non par che possa esser presa a rigor di termini.

Esporrò invece qualche osservazione sulla natura di queste due virtù, affine di dimostrare che la modestia senza l'umiltà o non esiste o non è virtù; e che chi loda la modestia, o pronunzia una parola senza senso, o rende omaggio alla verità della dottrina cattolica; perchè gli atti e i sentimenti che s'intendono sotto il nome di modestia non hanno la loro ragione che nell'umiltà, quale è proposta da questa dottrina.

Qui è necessario risalire a un principio generale della morale religiosa; in essa le virtù hanno per fondamento delle verità assolute e necessarie. Non credo che ci sia bisogno di giustificare questo principio. Si può, eccome! non farsene carico ne' giudizi pratici, e anche nel fabbricare de' sistemi di morale; ma chi vorrebbe asserire formalmente che il bono possa essere opposto al vero, o, ciò che non sarebbe meno strano, nè opposto, nè conforme? Applicando ora alla modestia questo principio, vedremo che questa, per esser virtù, deve avere due condizioni: esser l'espressione d'un sentimento non finto ma reale, e d'un sentimento fondato sopra una verità; dev'esser sincera e ragionata.

Cos'è la modestia? Non credo facile il dirlo. Per definire, s'intende per lo più specificare il senso unico e costante che gli uomini attribuiscono a una parola: ora, se gli uomini variano nell'applicazione d'una parola, come trasportare nella definizione un senso unico che non esiste ne'concetti? È celebre l'osservazione del Locke: che la più parte delle dispute filosofiche è venuta dalla diversa significazione attribuita alle stesse parole. Sono pochi, dice, que' nomi d'idee complesse che due uomini adoprino a significare precisamente la stessa collezione d'idee [26]. Questa maggiore o minor varietà di significato, si trova più specialmente ne'vocaboli destinati a esprimere disposizioni morali.

È certo, nondimeno, che gli uomini s'intendono tra di loro, se non con precisione, almeno approssimativamente, quando adoprano o ascoltano alcuna di queste parole: non potrebbero anzi disputare, se non andassero d'accordo in qualche parte sul significato della parola che è l'oggetto, o piuttosto il mezzo necessario della loro disputa. Questo si spiega, se non m'inganno, osservando che ognuna di queste parole esprime un'idea riconosciuta per l'ordinario, quantunque più o meno distintamente, da ognuno; ma clte, in troppi casi, ora l'uno, ora l'altro, ora motti, cecgiamo di riconoscere, conservando però tenacemente la parola. E questo accade per più cagioni; ma forse la più attiva e la più frequente, è l'affetto a opinioni o à giudizi arbitrari coi quali quell'idea non potrebbe accomodarsi; anzi li dovrebbe correggere, che è ciò che non vogliamo. Ora, ne' sentimenti, nei pensieri, nell'azioni, nel contegno, a cui s'applica la parola modestia, l'idea predominante mi par che sia: confessione d'una maggiore o minor distanza dalla perfezione.

Posto ciò, l'uomo a cui si dà lode di modesto, perchè dimostra un sentimento della propria imperfezione, o è persuaso, o non lo è. Se non lo è, la sua è tanto lontana dall'esser virtù, che è anzi vizio; è finzione, ipocrisia. Che se è persuaso, o lo è con ragione, o no. In questo secondo caso, sarebbe ignoranza, inganno: ora, non è virtù quel sentimento che un esame più giudizioso, una maggior cognizione della verità, un aumento di lumi, ci farà abbandonare. Altrimenti bisognerebbe dire che ci siano delle virtù opposte alla verità; in altri termini, che la virtù è un concetto falso. Se dunque, quando si loda la modestia d'uno, non si vuol dire che quest'uomo sia o un impostore, o uno sciocco, si dovrà dire che la modestia suppone la cognizione di sè stesso, e che nella cognizione di sè stesso l'uomo deve sempre trovar la ragione d'esser modesto. Ho detto sempre, perchè altrimenti ci sarebbero de' casi in cui l'uomo potrebbe ragionevolmente avere il sentimento opposto a questa virtù. Anzi, quanto più uno diventasse virtuoso, dovrebbe esser meno modesto; giacchè è certo che si sarebbe avvicinato alla perfezione; e così il miglioramento dell'animo condurrebbe logicamente alla perdita d'una virtù; il che è assurdo. Ora, questa ragione perpetua, e senza eccezione, d'esser modesti, si trova nella doppia idea che la rivelazione ci ha data di noi stessi e sulla quale è fondato il precetto dell'umiltà, la quale non è altro che una cognizione di sè stesso. E questa idea è, che l'uomo è corrotto e inclinato al male, e che tutto ciò che ha di bene in sè, è un dono di Dio: dimanierachè ognuno può e deve, in ogni caso, dire a sè stesso: Che hai tu, che non abbi ricevuto? e se l'hai ricevuto, perchè te ne glorii, come se non l'avessi ricevuto [27]?

Per questa sola ultima ragione, Gesù Cristo, quantunque perfetto, anzi perciò appunto, ha potuto essere sovranamente umile; perchè conoscendo in eccellente grado sè stesso, e non essendo accessibile ad alcuna delle passioni che fanno errare l'uomo che giudica sè stesso, ha veduto in eccellente grado, che l'infinite perfezioni che aveva nella sua natura umana, erano doni.

E per riguardo a tutti gli uomini, si darà, un'idea chiara e ragionata della modestia, chiamandola l'espressione dell'umiltà, il contegno d'un uomo il quale riconosce d'esser soggetto all'errore e al traviamento, e riconosce ugualmente, che tutti i suoi pregi sono doni che può perdere per la sua debolezza e per la sua corruttela. Se non ci supponiamo quest'idea, la modestia è o scempiaggine o impostura: se ce la supponiamo, è ragione e virtù: con quest'idea si spiega l'uniformità del sentimento degli uomini in favore di essa; e questo sentimento diventa un raziocinio.

Noi lodiamo l'uomo modesto, non solo perchè, abbassandosi e tenendosi in un canto, lascia a noi un po' più di posto per elevarci e per comparire; non lo lodiamo solo come un concorrente che si ritira. Certo; l'interesse delle nostre passioni ha una parte, che noi stessi non sappiamo sempre discernere, nelle nostre approvazioni e ne' nostri biasimi; ma ognuno, esaminandosi, trova in sè stesso una disposizione ad approvare, independente da quest'interesse, e fondata sulla bellezza di ciò che approva. Si potrebbe dimostrare con degli esempi la realtà di questa disposizione; ma ognuno la sente, è un fatto.

Non lodiamo la modestia solamente come una qualità rara e difficile: ci sono dell'abitudini perverse a cui pochi uomini arrivano, e non ci arrivano, se non per gradi, e facendo violenza a sè stessi; e nessuno le approva.

Non lodiamo neppure la modestia solo perché riunisca questi due caratteri d'utilità e di difficoltà. Il Vecchio della montagna ricavava un vantaggio dalla credulità e dalla devozione dell'uomo pronto a buttarsi nel precipizio, a un suo cenno, e doveva riconoscere uno sforzo difficile in quest'ubbidienza; eppure non poteva trovar degno di stima quest'uomo, ch'egli conosceva meglio d'ogni altro, come un miserabile zimbello della sua impostura.

Noi approviamo e lodiamo l'uomo modesto, perché, malgrado l'inclinazione fortissima d'ogn'uomo a stimarsi eccessivamente, è arrivato a fare un giudizio imparziale e vero di sè stesso; e perché è arrivato a farsi una legge di rendere alla verità questa testimonianza difficile e dolorosa. La modestia insomma piace come utilità e come difficoltà, ma prima di tutto come verità. Si ripassino pure tutti i concetti ragionevoli intorno alla modestia; tutti verranno a combinare con questo: La modestia è una delle più amabili doti dell'uomo superiore. Verissimo; anzi s'osserva comunemente che la modestia cresce in proporzione della superiorità: e questo si spiega benissimo con l'idee della religione. La superiorità non è altro che un grande avanzamento nella cognizione e nell'amore del vero: la prima rende l'uomo umile, e il secondo lo rende modesto.

Quest'uomo teme le lodi e le sfugge: ma le lodi sono gradevoli, e non c'è un'ingiustizia apparente nel cercar d'ottenerle spontanee: eppure il suo contegno è approvato da tutti quelli che apprezzano la virtù. Ciò accade perché quel contegno è ragionevole. L'uomo modesto vede che le lodi non gli ricordano che una parte di sè, e quella appunto che è già inclinato a considerare e a ingrandire, mentre, per conoscersi bene, ha bisogno di considerare tutto sè stesso; vede che le lodi lo trasportano facilmente ad attribuire a sè ciò che è dono di Dio, a supporre in sè una eccellenza sua propria, e quindi a ingannarsi deplorabilmente e colpevolniente. Perciò le sfugge, perciò nasconde le sue belle azioni, perciò conserva i suoi sentimenti più nobili nella custodia del suo core; avvertito appunto dallo studio sincero di sè medesimo, che tutto ciò che lo porta a farne mostra, è un desiderio superbo d'esser distinto, osservato, stimato, non quello che è, ma il meglio possibile.

Ma, se la verità e la carità lo richiedono, anche l'uomo modesto lascia apparire il bene che è in lui, e se ne rende testimonianza. Ne è uno splendido modello la condotta di san Paolo, quando l'utile del suo ministero l'obbliga a rivelare ai Corinti i magnifici doni di Dio. Costretto a parlare di ciò che lo può elevare agli occhi altrui, ne restituisce a Dio tutta la gloria, e confessa spontaneamente le miserie più umilianti in un apostolo, in cui la dignità della missione par che escluda l'idea, non solo della caduta, ma della tentazione. Nell'animo sublimato alla intelligenza delle arcane parole che non è lecito a un uomo di proferire [28], chi avrebbe ancora supposta viva la guerra dell'inclinazioni del senso? Egli stesso ne parla; egli discende dalle caste e alte visioni del terzo cielo, a mostrarsi nell'arena de' combattenti carnali: costretto a rivelare il segreto del suo animo, lo rivela tutt'intero per esser tutto conosciuto [29].

Se la modestia è l'umiltà ridotta in pratica, non si può combinare con l'orgoglio, che è il contrario di questa; e non ci sarà alcun giusto orgoglio. L'uomo che si compiace di sè stesso, che non riconosce in sè quella legge delle membra che contrasta alla legge della mente [30], l'uomo che osa promettere a sè stesso, che, per la sua forza sceglierà il bene nell'occasioni difficili, è miserabilmente ingannato e ingiusto; l'uomo che s'antepone agli altri è temerario; è parte, e si fa giudice. Che se, per un giusto orgoglio, s'intende riconoscere la verità del bene che s'è fatto, senza attribuirlo a sè, e senza invanirsene, sarà questo un sentimento legittimo, anzi un sentimento doveroso; ma l'umiltà non l'esclude, ma è l'umiltà stessa, ma la condotta contraria è proscritta dalla morale cattolica come menzognera e superba; poichè chi crede che, facendo un giusto giudizio di sè, avrebbe di che gloriarsi, e che, per poter esser umile, abbia bisogno di contraffarsi, è un povero superbo; ma finalmente bisogna permetterci di chiamare questo sentimento altrimenti che orgoglio; non per cavillare su una parola, ma perché questa è consacrata a significare un sentimento falso e vizioso in tutti i suoi gradi. E poichè la condotta esterna può essere in molti casi la medesima in chi ha il sentimento dell'umiltà, e in chi non l'ha, importa di conservare il suo senso alla parola che è appunto destinata a specificare il sentimento. L'orgoglio non può dunque esser mai giusto; quindi non può mai essere, nè un sostegno alla debolezza umana, nè una consolazione nell'avversità.

Questi sono frutti dell'umiltà: è essa che ci sostiene contro la nostra debolezza, facendocela conoscere e ricordare ogni momento; l'umiltà che ci porta a vegliare e a pregare Colui che comanda la virtù e che la dà; è essa che ci fa alzar lo sguardo ai monti donde ci viene l'aiuto [31]. E nelle avversità, le consolazioni sono per l'animo umile, che si riconosce degno di soffrire, e prova il senso di gioia che nasce dal consentire alla giustizia. Riandando i suoi falli, le avversità gli appariscono come correzioni d'un Dio che perdonerà, e non come colpi d'una cieca potenza; e cresce in dignità e in purezza, perchè, a ogni dolore sofferto con rassegnazione, sente cancellarsi alcuna delle macchie che lo deformavano. Che più? arriva fino a amare l'avversità stesse, perchè lo rendono conforme all'immagine del Figliuolo di Dio [32]; e in vece di perdersi in vane e deboli querele, rende grazie in circostanze, nelle quali, se fosse abbandonato a sè stesso, non troverebbe che il gemito dell'abbattimento, o il grido della ribellione. Ma l'orgoglio! Quando Iddio avrà umiliato il superbo come un ferito [33], l'orgoglio sarà per lui un balsamo? A cosa può servire l'orgoglio nelle avversità, se non a farle odiare come ingiuste, a suscitare in noi perpetuamente un irrequieto e doloroso paragone tra quello che ci par di meritare e quello che ci tocca soffrire? Il punto di riposo per l'uomo, in questa vita, è nella concordia della sua volontà con la volontà di Dio sopra di lui; e chi n'è più lontano che l'orgoglioso, quando è percosso? L'orgoglio è garrulo nella sventura, quando trovi ascoltatori; s'agita e si consuma a dimostrar che le cose non dovrebbero essere come Dio l'ha volute: se si chiude in sè, il suo silenzio è amaro, sprezzante, imposto dal sentimento della propria impotenza, e per fino dal timore della commiserazione altrui. Quelle vantate consolazioni dell'uomo che, nell'avversità, afferma di trovare un compenso in sè, quando questo compenso non sia rassegnazione e speranza, non sono, per lo più, se non un artifizio dell'orgoglio stesso, che rifugge dal lasciar vedere uno stato d'abbattimento, che potrebb'essere un grato spettacolo all'orgoglio altrui. Dio sa quali siano queste consolazioni; e basta leggere le Confessioni dell'infelice Rosseau per averne un'idea, per vedere quale sia lo stato d'un core che, ammalato d'orgoglio, cerca nell'orgoglio il suo rimedio. Nella solitudine, dove s'era promessa la pace, ritorna col pensiero sull'umiliazioni sofferte nella compagnia degli uomini, ne rammemora le più piccole circostanze. Colui che aveva parlato e scritto tanto sulla corruttela dell'uomo sociale, non aveva un animo preparato all'ingiustizia: quando n'è colpito, non se ne può dar pace. Si paragona con quelli che l'offesero, che lo trascurarono; si trova tanto dappiù di essi, e si rode pensando che questi appunto l'abbiano offeso o trascurato. Le parole, gli sguardi, il silenzio, tutto ripensa nell'amaritudine dell'anima sua: i patimenti del suo orgoglio si possono misurare dall'avversione che prova per coloro che l'hanno irritato: come li giudica, come li dipinge! Può esser certo d'aver comunicato all'animo di migliaia di lettori l'odio e il disprezzo che lo tormentano; e quando pare che sia vendicato, esclama: cela me passoit, et me passe encore [34]. Eppure, se ci fu mai, secondo il mondo, un giusto orgoglio; se un ingegno lodato anche dagli avversari; se una parola che si fa sentire pertutto dove c'è qualche coltura, una parola che agita, sorprende, comanda; se una fama che, levando alla folla degli scrittori anche il pensiero della rivalità, soffoga in essi l'invidia, e la fa nascere in que' provetti, che credevano di non aver più altro a fare che incoraggire il merito nascente, senza timore di competenze; se l'esser, non solo mostrato a dito, ma spiato, appostato da una curiosità ammiratrice, ricercato, nella più umile fortuna, da quelli che sono ricercati per la loro fortuna, sono titoli d'un giusto orgoglio, chi n'ebbe di maggiori? E, tra tanti motivi, non dirò di consolazione, ma di trionfo, quali sono poi finalmente i suoi dolori? È un amico del mondo, che vuol fargli l'uomo addosso, e prescrivergli ciò che deva fare; è un altro che, protetto da lui altre volte, vuol parere il suo protettore, e gli leva il posto alla tavola d'un'altra amica dello stesso genere. Ah! certo non bisogna usar parsimonia nel dispensare la compassione, nè pesare sulla nostra bilancia i dolori degli altri: l'uomo che soffre, sa lui quello che soffre; e se è la debolezza dell'animo suo, che ingrandisce il male, questa debolezza, comune a tutti, è quella appunto che merita una maggior compassione. Ma, quando si pensa alle ingiustizie sofferte dai grandi del cristianesimo; quando si pensa alle persecuzioni, alle calunnie, ai disprezzi di cui furono colmati i santi, e alla gioia con cui li sopportarono, alla pazienza con cui aspettarono la manifestazione della verità, senza pretenderla in questa vita, alla delizia che provavano a sfogarsi soli con Dio, e che i loro sfoghi erano azioni di grazie, e tutto ciò perchè erano umili; allora si riconosce dove l'uomo possa trovar davvero un sostegno contro la sua propria debolezza, e una consolazione nell'avversità.

Ah! se nella vita che ci resta a percorrere, ci sono preparati de' passi difficili e dolorosi, se per noi s'avvicina il momento della prova, preghiamo che ci trovi nell'umiltà, che il nostro capo sia pronto a chinarsi sotto la mano di Dio, quando sia per passarci sopra.

Da ciò che s'è detto intorno all'umiltà viene di conseguenza che, se c'è sentimento che distrugga il disprezzo insultante per gli altri, è l'umiltà certamente. Il disprezzo nasce dal confronto di sè stesso con gli altri, e dalla preferenza data a sè stesso: ora, come mai questo sentimento potrà prender radice nel core educato a considerare e a deplorare le proprie miserie, a riconoscere da Dio ogni suo merito, a riconoscere che potrà trascorrere a ogni male, se Dio non lo rattiene?

 

 

CAPITOLO XVIII.

 

SUL SEGRETO DELLA MORALE,

SUI FEDELI SCRUPOLOSI, E SUI DIRETTORI DI COSCIENZE.

La morale est devenue non–seulement leur science, mais leur secret (des docteurs dogmatiques). Le dépôt en est tout entier entre les mains des confesseurs et des directeurs des consciences. Pag. 421.

Se i confessori in Italia hanno fatto della morale un segreto, si sono dunque dimenticati che il Salvatore e Maestro di tutti aveva detto agli apostoli: Dite in pieno giorno quello che io vi dico all'oscuro, e predicate sui tetti quello che v'è stato detto in un orecchio [35]; si sono dimenticati che, negli ultimi momenti del suo soggiorno sulla terra, aveva rinnovato un tal precetto, con quelle solenni parole: Istruite tutte le genti .... insegnando loro d'osservare tutto quello ch'io v'ho comandato [36].

Ma quali sono tra di noi i libri riservati ai soli dottori dommatici? Come si trasmettono essi questo segreto? Non ha detto poco sopra l'illustre autore, che la morale proprement dite n'a pas cessé d'être l'objet des prédications de l'Église? Di cosa parlano i parrochi dall'altare, di cosa parlano tutti i trattati di morale, che ognuno può consultare?

 

Le fldèle scrupuleux doit, en Italie, abdiquer la plus belle des facultés de l'homme, celle d'étudier et de connoître ses devoirs. Ivi.

Ma il clero in Italia non cessa di gridare contro la negligenza nell'istruirsi in quella legge sulla quale saremo giudicati; ma inculca ai parenti l'obbligo d'ammaestrare i loro figli in tutti i loro doveri; ma, lungi dal far abdicare ad alcuno la facoltà di conoscerli, intima a tutti, che essa diverrà la condanna di chi non avrà voluto usarla.

 

On lui recommande de s'interdire une pensée qui pourroit l'égarer, un orgueil humain qui pourroit le séduire. Ivi.

Chi vorrà discolpare su questo punto il clero italiano? Se così è, non resta a desiderare altro se non che sia sempre così, e che queste raccomandazioni siano universali, costanti, figlie della scienza e della carità, che il clero non abbia mai altro linguaggio; poiché è quello del Vangelo.

Del resto, al fedele scrupoloso (intendendo questo termine nel suo stretto senso) si raccomanda in Italia, come altrove, d'interdirsi l'eccessive a lunghe considerazioni sopra ogni azione e sopra ogni pensiero, e di fermarsi sull'idee ilari e confortevoli di fiducia in Dio, e della sua misericordia.

Non sarà qui fuori di proposito l'osservare come questa malattia morale attesti nello stesso tempo, e la miseria dell'uomo, e la bellezza della religione. Lo scrupoloso ci mette del suo l'incertezza, la trepidazione, la perturbazione, la diffidenza, disposizioni pur troppo naturali all'uomo, e che in alcuni sono predominanti a segno che governano, o piuttosto intralciano tutte le loro operazioni. Ma è una cosa molto notabile, che quell'angustia che l'avaro mette nella conservazione della roba, l'ambizioso nel mantenimento e nell'aumento della sua potenza, quella penosa e minuta sollecitudine che tanti hanno, per gli oggetti delle loro passioni, si eserciti da alcuni cristiani, intorno a che? all'adempimento de' loro doveri. La tendenza alla perfezione è tanto propria alla religione, che si manifesta perfino ne' traviamenti e nelle miserie dell'uomo che la professa. Un animo occupato dal timore di non essere giusto abbastanza, fino a perderne la tranquillità, potrebbe quasi parere un miracolo di virtù, se la religione stessa, tanto superiore al discernimento umano, non ci facesse vedere in quell'animo delle disposizioni contrarie alla fiducia, all'umiltà e alla libertà cristiana; se non ci desse l'idea d'una virtù da cui è escluso ogni movimento disordinato, e la quale, quanto più si perfeziona, tanto più si trova vicina alla calma e alla somma ragione.

 

Et toutes les fois qu'il rencontre un doute, toutes les fois que sa situation devient difficile, il doit recourir à son guide spirituel. Ainsi l'épreuve de l'adversité, qui est faite pour élever l'homme, l'asservit touours davantage. Ivi.

Non c'è forse scoperta più amara all'orgoglio, che l'accorgersi d'essere stato, per troppa semplicità, un cieco istrumento d'un'astuta dominazione, d'avere ubbidito a de' voleri ambiziosi, credendo di seguire de' consigli salutari. A quest'idea, le passioni compagne dell'orgoglio si sollevano con tanto più di veemenza, in quanto trovano un appoggio nella ragione. Perchè, è certo che Dio vuole che la mente si perfezioni nella considerazione de' suoi doveri, è nella libera scelta del bene; e l'uomo che si lascia rapire arbitrariamente il governo della sua volontà, rinunzia alla vigilanza delle sue azioni, delle quali non renderà meno conto per ciò. Il solo sospetto di questa debolezza può quindi portar l'uomo ai pensieri più inconsiderati, e fargli dire senza cagione, e a suo gran danno: Spezziamo le loro catene, e buttiamoci d'addosso il loro giogo [37]. Importa perciò sommamente di separare la voce dell'orgoglio da quella della ragione, perchè unite non ci facciano forza, e d'esaminare tranquillamente quale deva essere, in questa parte, la condotta ragionevole e dignitosa d'un cristiano.

Si possono considerare nel sacerdozio due sorte d'autorità: quella che viene da Dio, e forma l'essenza della missione, l'autorità d'insegnare, di sciogliere e di legare; e un'altra autorità che può esser data volontariamente, in riguardo della prima, da questo e da quel fedele, a questo o a quel sacerdote, per una venerazione e per una fiducia speciale. In quanto alla prima, essa è essenziale al cristianesimo: il sottomettercisi non è servitù, ma ragione e dignità. Non c'è atto di questa, che non sia un atto di servizio, in cui il sacerdote non comparisca come ministro d'una autorità divina, alla quale è sottomesso anche lui, come tutti i fedeli; non ce n'è alcuno che offenda la nobiltà del cristiano.

Sì, noi, cioè tutti i cattolici, e laici e sacerdoti, principiando dal papa, c'inginocchiamo davanti a un sacerdote, gli raccontiamo le nostre colpe, ascoltiamo le sue correzioni e i suoi consigli, accettiamo le sue punizioni. Ma quando un sacerdote, fremendo in spirito della sua indegnità e dell'altezza delle sue funzioni, ha stese sul nostro capo le sue mani consacrate; quando, umiliato di trovarsi il dispensatore del Sangue dell'alleanza, stupito ogni volta di proferire le parole che danno la vita, peccatore ha assolto un peccatore, noi alzandoci da' suoi piedi, sentiamo di non aver commessa una viltà. C'eravamo forse stati a mendicare speranze terrene? Gli abbiamo forse parlato di lui? Abbiamo forse tollerata una positura umiliante per rialzarcene più superbi, per ottenere di primeggiare sui nostri fratelli? Non s'è trattato tra di noi, che d'una miseria comune a tutti, e d'una misericordia di cui abbiamo tutti bisogno. Siamo stati a' piedi d'un uomo che rappresentava Gesù Cristo, per deporre, se fosse possibile, tutto ciò che inclina l'animo alla bassezza, il giogo delle passioni, l'amore delle cose passeggiere del mondo, il timore de' suoi giudizi; ci siamo stati per acquistare la qualità di liberi, e di figliuoli di Dio.

In quanto all'autorità del secondo genere, essa è fondata su un principio ragionevolissimo; ma può avere e ha purtroppo i suoi abusi. Per non giudicare precipitosamente in ciò, un cristiano dove, a mio credere, non perder mai di vista due cose: una, che l'uomo può abusare delle cose più sante; l'altra, che il mondo suol dare il nome d'abuso anche alle cose più sante. Quando siamo tacciati di superstizione, di fanatismo, di dominazione, di servilità, riconosciamo pure, che la taccia può pur troppo esser fondata; ma esaminiamo poi se lo sia, giacché queste parole sono spesso impiegate a qualificare l'azioni e i sentimenti che prescrive il Vangelo.

Ricorrere, per consiglio, alla sua guida spirituale, ne' casi dubbi, non è farsi schiavo dell'uomo; è fare un nobile esercizio della propria libertà. E è forse superfluo l'osservare che una tal massima e una tal pratica non sono punto particolari all'Italia, ma comuni ai cattolici di qualunque paese.

L'uomo che deve esser giudice in causa propria, e che desidera d'operare secondo la legge divina, non può a meno di non accorgersi che l'interesse e la prevenzione inceppano la libertà del suo giudizio; e è savio se ricorre a un consigliere, il quale, e per istituto e per ministero, deve aver meditata quella legge, e esser più capace d'applicarla imparzialmente; a un uomo che dev'esser nutrito di preghiera, e che, avvezzo alla contemplazione delle cose del cielo, e al sacrifizio di sè stesso, deve sapere, in particolar maniera, stimar le cose col peso del santuario.

Ma del consiglio che gli vien dato, è sempre giudice lui: la decisione dipende dal suo convincimento; tanto è vero, che gli sarà chiesta ragione, non solo di questa, ma della scelta medesima del consigliere. E non s'è mai lasciato di predicare nella Chiesa, che Se un cieco ne guida un altro, tutt'e due cadono nella fossa [38].

Purtroppo, quelle due miserabili e opposte tendenze di servilità e di dominazione hanno radice l'una e l'altra nel nostro core indebolito dalla colpa. Pigri e irresoluti, buttiamo volentieri sugli altri il peso dell'anima nostra, e siamo facili a contentarci di tutto ciò che ci risparmia una deliberazione. E dall'altra parte, quando un uomo confidi in noi, rincorati dal suffragio, superbi d'estendere il dominio della nostra piccola volontà, siamo subito tentati di servire a questa più che all'utilità degli altri, siamo tentati di dimenticare che l'uomo è nato a un ben più alto esercizio delle sue facoltà, che a signoreggiare le altrui. Queste debolezze della natura umana possono pur troppo produrre degl'inconvenienti nell'uso del consiglio; e ciò dev'essere per tutti i cristiani un soggetto di confusione e di vigilanza. Ma abbandonare le guide che Dio ci ha date, ma buttar via il sale della terra [39] ma privarsi d'un aiuto necessario perchè può aver con sè de' pericoli, ma non vedere altro che dominatori e che intriganti, tra tanti pastori zelanti e disinteressati, che tremano nel dare il consiglio, e che si riputerebbero stolti, se volessero usurpare un'autorità eccessiva, e esporsi con ciò a un giudizio spaventoso; lungi da noi questi pensieri che ci condurrebbero a rendere in parte inutile il ministero istituito per noi.

 

Et celui même qui a été vraiment et purement vertueux, ne sauroit se rendre compte des règles qu'il s'est imposées. Ivi.

I precetti del Decalogo, le massime e lo spirito del Vangelo, le prescrizioni della Chiesa, ecco le regole che il cattolico virtuoso si propone, e delle quali può rendersi conto quando voglia.

 

 

CAPITOLO XIX.

 

SULLE OBIEZIONI ALLA MORALE CATTOLICA

DEDOTTE DAL CARATTERE DEGLI ITALIANI.

 

Aussi seroit–il impossible de dire à quel degré une fausse instruction religieuse a été funeste à la morale en Italie. Il n'y a pas en Europe un peuple qui soit plus constamment occupé de ses pratiques religieuses, qui y soit plus universellement fidèle. Il n'y a pas un qui observe moins les devoirs et les vertus que prescrit ce christianisme auquel il paroit si attaché. Chacun y a appris non point a obéir à sa conscience, mais à ruser avec elle; chacun met ses passions à leur aise par le bénéfice des indulgences, par des réservations mentales, par le projet d'une pénitence, et l'espérance d'une prochaine absolution; et loin que la plus grande ferveur religieuse y soit une garantie de la probité, plus on y voit un hornme scrupuleux dans ses pratiques de dévotion, plus on peut à bon droit concevoir contre lui de défance. Pag. 421–422.

 

Ecco in poche parole una condanna tanto assoluta, quanto forte. Il popolo italiano è il meno fedele ai doveri e alle virtù del cristianesimo, e quindi il peggior popolo d'Europa. E in esso i peggiori sono quelli che osservano più scrupolosamente le pratiche di divozione.

Come s'è accennato fino dal principio, non è nostra intenzione di confutare un tal giudizio, nè di far l'apologia dell'Italia, e molto meno un'apologia comparativa: assunto d'un genere che richiede o piuttosto richiederebbe due condizioni, una delle quali difficilissima, per non dire impossibile, cioè la cognizione de' fatti necessaria al confronto; l'altra, difficile anch'essa non poco, se si deve argomentare da quello che si vede, cioè l'imparzialità necessaria al giudizio. Si potrebbe, con molto maggior facilità, e senza metterci nulla del nostro, opporre affermazioni a affermazioni, sentenze a sentenze, raccogliendo anche una piccola parte di quelle che da scrittori di ciascheduna parte d'Europa sono state pronunziate contro ciaschedun'altra. Qual è la qualità bassa, ridicola, scellerata, che non sia stata attribuita o all'una o all'altra, o anche a ognuna? Qual è il termine di disprezzo, la formola d'esecrazione, che non sia stata adoprata a un tal uso? Qual è il popolo d'Europa, che non sia stato qualche volta, e più d'una volta, chiamato il peggio d'Europa? Ma il cielo ci guardi dal rimestare una materia simile. Sono giudizi suggeriti dalle passioni; e tra queste, anche quando non è l'unica, ha sempre una bona parte l'orgoglio, che ci fa trovare la nostra esaltazione nell'abbassamento altrui: tanto sente, suo malgrado, il bisogno di cercar qualche aiuto al di fuori. Lasciamo questi giudizi, così vasti e così turbolenti per noi, e ne' quali siamo sempre giudici non abbastanza informati, e quasi sempre parte appassionata, lasciamoli a Quello che, conoscendo ogni cosa, e non avendo bisogno d'innalzarsi per mezza de' paragoni, nè d'accattar lustro da nessuna compagnia, giudica i popoli nell'equità [40].

Del resto, il giudizio di cui si tratta qui specialmente, è espresso in termini tali, che l'accettarlo qual è sarebbe, di certo, oltrepassar l'intenzione dell'autore. Perchè, di certo, dicendo che, in Italia ognuno ha imparato, non a ubbidire alla sua coscienza, ma a giocar d'astuzia con essa; che ognuno mette al largo le sue passioni col comodo dell'indulgenze, con delle restrizioni mentali, con de' progetti di penitenza, e con la speranza d'una prossima assoluzione, non ha voluto dire ciò che dicono queste parole. Non ci sarebbe tra di noi uno solo che ubbidisca sinceramente alla sua coscienza! Nessuno di noi potrebbe sperare d'avere un amico virtuoso, d'esserlo lui medesimo! E le gioconde emozioni della stima e della fiducia, e la gioia che è dato all'uomo di provare, allorché, stringendo la mano dell'uomo, sente con sicurezza che un core risponde al suo, non sarebbe concessa a nessuno di noi! Nel passo medesimo che precede immediatamente quello che stiamo esaminando, si troverebbero, se ce ne fosse bisogno, parole che non permettono d'intendere, senza contradizione, quest'ultime nel loro significato proprio e naturale. Il dire che tra i cattolici d'Italia, anche l'uomo che è stato veramente e puramente virtuoso, non saprebbe rendersi conto delle regole che s'è imposte, è dire indirettamente, ma espressamente, che, anche in Italia, e tra i fedeli scrupolosi d'Italia, ci può essere, se Dio vuole, qualche uomo veramente e puramente virtuoso, e del quale, per conseguenza, sarebbe troppo strano che s'avesse ragione di diffidare in un grado speciale.

Ma ciò che importa non è di vedere qual sia, secondo una o un'altra opinione, lo stato morale dell'Italia, in paragone di quello degli altri popoli d'Europa. Ciò che importa o, possiam dire, ciò che importava, era di vedere se, di quel tanto o quanto male morale che c'è sicuramente in Italia, cioè anche in Italia, sia stata cagione un'influenza speciale della religione cattolica. Ora, in questo forse troppo lungo esame, abbiamo visto che, delle dottrine citate come cagione dell'asserito speciale pervertimento,

1.° alcune, veramente opposte alla morale, non hanno, nè ebbero mai corso in Italia, nulla più che tra i cattolici dell'altre nazioni;

2.° altre, che furono e sono insegnate in Italia, lo furono e lo sono ugualmente in tutti i paesi cattolici, come parte essenziale di questa, religione. E abbiamo veduto che queste sono consentanee al Vangelo, e, per natural conseguenza, consentanee insieme e superiori alla ragione. Sull'autorità della religione in punto di morale, sulla distinzione dei peccati in mortali e veniali, sulla dottrina e sulle forme della penitenza, sull'efficacia del pentimento, sulla forza e sulla sanzione de comandamenti della Chiesa, sui motivi dell'elemosina, sull'astinenza, sull'umiltà, su tutti i punti insomma, ch'erano allegati come prova di differenza, l'esame ci ha fatto trovare unità di fede e d'insegnamento.

E torna qui a proposito il rammentare una cosa che s'è accennata da principio, cioè che, nel testo medesimo che abbiamo esaminato, la cagione di quello speciale pervertimento, è attribuita, più d'una volta, non già a dottrine particolari all'Italia, ma alla Chiesa nominatamente. La Chiesa, è detto in quello, s'impadronì della morale, come di cosa tutta sua, e sostituì l'autorità de' suoi decreti e le decisioni de' Padri ai lumi della ragione e della coscienza, lo studio de' casisti a quello della filosofia, un'abitudine servile al più nobile esercizio dello spirito. La Chiesa collocò i suoi precetti accanto alla gran tavola delle virtù e de' vizi ... e diede loro un potere, che le leggi della morale non poterono ottener mai. Accuse, delle quali, con poverissime forze, ma col potentissimo aiuto della verità, abbiamo cercato di far vedere l'insussistenza: ma che, anche senza essere esaminate, si manifestano da sè come incapaci di dimostrare l'effetto speciale e d'eccezione, ch'era proposto a dimostrare. Il resto poi della colpa è attribuito quasi sempre ai casisti; i quali non sono certamente la Chiesa, ma non sono nemmeno una classe d'uomini particolare all'Italia.

E in quanto agli abusi nell'applicazione della dottrina cattolica, che possono esistere in Italia, abbiamo visto che non vengono dall'insegnamento, poichè questo non è altro che l'insegnamento cattolico; il quale li denunzia e li combatte, e gli avrebbe levati di mezzo affatto e per sempre, se l'uomo non avesse il terribile potere d'alterare a sè stesso la verità, e di piegar le dottrine alle passioni. E abbiamo visto che, gli abusi, come vengono da queste cagioni, umane pur troppo e non italiane, così è stato e è necessario di denunziarli e il combatterli in altri paesi cattolici; e che il rimedio a questo, come a tutti i mali morali, è per tutti la cognizione della dottrina, e l'amore di essa, che è il mezzo sicuro d'intenderla rettamente.

 

Note

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[1] Nolite errare ... neque maledici ... regnum Dei non possidebunt. I Corinth. VI, 9, 10.

[2] Non maledices surdo. Levit. XIX, 14.

[3] V. per un esempio il Sermone di Massillon sulla maldicenza: è quello del lunedì della IV settimana.

[4] Si vis perfectus esse, vade, vende quæ habes, et da pauperibus, et habebis thesaurum in c.lo. Matth. XIX, 21.

Facite vobis amicos de mammona iniquitatis, ut, cum defeceritis, recipiant vos in æterna tabernacula. Luc. XVI, 9.

Tunc dicet Rex his qui a dextris eius erunt: Venite, benedicti Patris mei, possidete paratum vobis regnum a constitutione mundi: esurivi enim, et dedistis mihi manducare; sitivi, et dedistis mihi bibere; hospes eram, et collegistis me; nudus, et cooperuistis me; infirmus, et visitastis me, in carcere eram, et venistis ad me.... quamdiu fecistis uni ex fratribus meis minimis, mihi fecistis. Matth. XXV, 34 et seq.

[5] Non est enim ei bene qui assiduus est in malis, et eleemosynas non danti. Eccl. XII, 3.

[6] Benefacit animæ suæ vir misericors. Prov. XI, 17.

[7] Per questa ragione, si chiamano spesso indifferentemente, santi, o beati, quelli che possiedono la vita eterna.

[8] Pietas autem ad omnia utilis est, promissionem habens vitæ quæ nunc est, et futuræ. I Tim. IV, 8.

[9] Non pas méme sur les joies du Paradis, quoique ces joies du Paradis ne soient autre chose que le comble, la surabondance, la perfection de l'amour de Dieu! Bossuet Instruction sur les états d'oraison, III, 5; dove confuta la strana proposizime, che un'anima arrivata, nella vita presente, a un certo grado di perfezione, est dans une si entière désappropriation, qu'elle ne sauroit plus arréter un seul dèsir sur quoi que ce soit.

[10] Tale fu, come è noto, la dottrina sulla quale disputarono il Fenélon e il Bossuet. Il nome de' due gran contendenti ha attirata spesso l'attenzione de' loro posteri su questa controversia; e i giudizi che se ne fecero, sono molti e vari: il meno sensato di questi mi pare quello che la dichiara una questione frivola.

Questa è l'idea che ne volle dare il Voltaire (Siècle de Louis XIV, Chap. XXXVIII, du Quétisme). Certo, se ogni ricerca sulle ragioni di volere, e sui doveri, e sul modo di ridurre tutti i sentimenti dell'animo a un centro di verità, si riguarda come frivola, tale sarà anche questa, poiché è di quella categoria. Ma in quel caso, quale studio sarà importante all'uomo? I filosofi che vennero dopo il Voltaire continuarono a trattar questo punto di morale, benchè in altri termini, e lo considerarono come fondamenrale (V. tra gli altri « Woldemar par Jacobi, trad. de l'allemand par Ch. Wanderbourg. » T. I, pag. 151 e seg.). Le controversie sulla relazione dell'interesse con la morale, sull'amore della virtù per sè stessa, si riducono, nella parte essenziale a quella del Quietismo; a decidere cioè, se il motivo della propria felicità deva entrare nelle determinazioni virtuose. Senonchè, nelle dispute su questa materia, chiamate a torto filosofiche, nelle quali non si contempla che la vita presente, la questione è necessariamente piantata in falso: poichè, o c'è supposto tacitamente che non ci sia un'altra vita, o, ammettendola, almeno come possibile, non se ne fa caso: due modi di ragionare, de' quali non si saprebbe dire qual sia il più arti.filosofico. Nella disputa teologica di cui s'è fatto cenno, l'errore aveva qualcosa di più strano, appunto perchè la questione era posta nella sua integrità. Quest'errore, confutato dal Bossuet con quella sua sapiente eloquenza, non tendeva niente meno che a metter l'amor di Dio in opposizione con una legge necessaria dell'animo, qual è il desiderio della felicità, e a far posporre la perfezione possibile, e promessa, a una perfezione arbitraria e assurda. È inutile aggiungere che queste conseguenze erano ben lontane dall'intenzioni del Fénelon. La sua pronta e costante sommissione alla condanna delle sue proposizioni, l'altre sue opere, e tutta la sua vita sono una prova della sincerità con cui non cessò mai di protestare che non intendeva, nè di proporre, nè d'accettare cosa alcuna che deviasse menomamente dalla fede della Chiesa.

[11] Maiores divitias æstimans thesauro Ægyptiorum, improperium Christi: aspiciebat enim in remunerationem. Paul. ad Hebr. XI, 26.

[12] Ut sit eleemosina tua in abscondito; et Pater tuus, qui videt in abscondito, reddet tibi. Matth. VI, 4.

[13] De quo non implevit manum suam qui metit. Psal. CXXVIII, 7.

[14] Misereor turbæ, quia triduo jam perseverant mecum, et non habent quod manducent; et dimittere eos jejunos nolo, ne deficiant in via. Matth, XV, 32.

[15] Vita della virtuosa matrona milanese, Teresa Trotti Bentivogli Arconati; pag. 82.

[16] Il Cristiano istruito. Parte I. Ragionamento 18.°.

[17] Méditations sur l'Évangile; Sermon de Notre Seigneur sur la montagne, XLVIII jour.

[18] Abstulerunt ergo filii Israel Baalim, et Astaroth, et servierunt Domino soli.... et jéjunaverunt in die illa. I Reg. VII, 4, 6.

Astaroth, greges, sive divitiæ; Baalim, idola, dominantes. Nominum interpretatio in Bibl. jussu cler. gallic. edita. Paris, Vitré, 1652.

[19] Et præedicavi ibi jejunium juxta fluvium Ahava, ut affligeremur coram Domino Deo nostro, et peteremus ab eo viam rectam nobis et filiis nostris, universæque substantiæ nostræ. I Esdr. VIII, 21.

[20] Cum autem jejunans, nolite fieri sicut hypocritæ tristes: exterminant enim facies suas, ut appareant hominibus jejunantes. Amen dico vobis, quia receperunt mercedem suam. Tu autem, cum jejunas, unge caput tuum, et faciem tuam lava; ne videaris ab hominibus jejunans, sed Patri tuo: et Pater tuus, qui videt in abscondito, reddet tibi. Matth. VI, 16, 17, 18.

[21] Tunc jejunantes et orantes, imponentesque eis (Saulo et Barnabæ) manus dimiserunt illos. Act. XIII, 3.

[22] Sermon sur le jeûne. È il primo della Quaresima

[23] Fleury, M.urs des Chrétiens. IX. Jeûnes.

[24] Omnis autem, qui in agone contendit, ab omnibus se abstinet; et illi quidem, ut corruptibilem coronam accipiant; nos autem incorruptam. I Cor. IX, 2

[25] De virginibus autem prceceptum Domini non habeo; consilium autem do, tamquam misericordiam consecutus a Domino, ut sim fidelis. Existimo ergo hoc bonum esse propter instantem necessitatem, quoniam bonum est homini sic esse. Alligatus es uxori? noli quærere solutionem. Solutus es ab uxore? noli quærere uxorem. I Cor. VII; 25, 26, 27.

[26] Essai sur l'entendement humain. Livr. III, Chap. X. De l'abus des mots. § 22.

[27] Quis enim te discernit? Quid autem habes, quod non accepisti? Si autem accepisti, quid gloriaris quasi non acceperis? I Corinth. IV, 7.

[28] Quoniam raptus est in Paradisum, et audivit arcana verba, quæ non licet homini loqui. II Corinth. XII, 4

[29] Et ne magnitudo revelationum extollat me, datus est mihi stimulus carnis meæ, angelus Satanæ, qui me colaphizet. Ibid. 7.

[30] Video autem aliam legem in membris meis, repugnantem legi mentis meæ. Rom. VII, 23.

[31] Levavi oculos meos in montes, unde veniet auxilium mihi. Ps. CXX, 1.

[32] Quos præscivit, et prædestinavit conformes fieri imaginis Filii sui. Ad Rom. VIII, 29.

[33] Tu humiliasti, sicut vulneratum, superbum. Ps. LXXXVIII, 11.

[34] Confessions, 11 Partie, Liv. IX.

[35] Quod dico vobis in tenebris, dicite in lumine; et quod in aura auditis, prædicate super tecta. Matth. X, 27.

[36] Euntes ergo docete omnes gentes... docentes eos servare omnia quæcumque mandavi vobis. Id. XXVIII, 19, 20.

[37] Dirumpamus vincula eorum, et projiciamus a nobis jugum ipsorum. PS. II, 3.

[38] C.cus si c.co ducatum pr.stet, ambo in foveam cadunt. Matth. XV, 14.

[39] Vos estis sal terree. Matth. V. 13.

[40] Quoniam judicas populos in æquitate. Psalm. LXVI, 5