OSSERVAZIONI SULLA MORALE CATTOLICA |
Alessandro Manzoni
L'autore è ben lontano dal pretendere che nei discorsi seguenti sia sviluppata la materia che è annunziata nei titoli rispettivi. Oltre le idee che egli non ha trovate, e che ha ommesse per ignoranza, ha ommesse scientemente tutte quelle che erano già state dette, quando la serie del ragionamento non richiedesse di includervele. Si ponno quindi considerare questi discorsi come una picciola appendice alle opere che trattano i medesimi argomenti, o, se si ama meglio, come una collezione di frammenti.
Due cose io ho avute principalmente di mira nelle osservazioni precedenti: l'una di porre in salvo la morale della Chiesa cattolica da ogni eccezione, di provare che ella è perfetta, e che tutti i mali morali fuori ed entro la Chiesa vengono dall'ignorarla, dal non seguirla, dall'interpretarla a rovescio. L'altra che nelle accuse di fatto che si danno alla disciplina pratica dei cattolici, conviene andar guardinghi prima di creder tutto, perché molte sono dettate da spirito di parte, e ricevute inconsideratamente per un falso spirito d'imparzialità, quasiché per essere imparziale si dovesse stare a tutto ciò che si ode di contrario alla propria causa. Molte di queste accuse sono esaggerate, molte sono assolutamente false, molte, benché vere, sono ingiuste nelle conseguenze perché si attribuiscono ai soli cattolici, molte nascono dal desiderio di trovare guasti tutti i frutti per condannar l'albero e gittarlo al fuoco. Ma siccome a questo secondo articolo, cioè alla parte apologetica del fatto, si può dare più estensione ch'io non abbia inteso dargli, mi trovo in debito di spiegare più distesamente le idee generali ch'io possa avere su questo proposito, per oppormi alle conseguenze false, al mio parere, che si potrebbero dedurre da quanto io ho detto.
V'è in tutti gli uomini una inclinazione a giustificare sé stessi fondata sul desiderio che ognuno ha della perfezione. Non volendo noi per lo più fare il meglio perché ripugnante alle nostre passioni, e non volendo rinunziare alla idea di essere quali dobbiamo, ci appoggiamo ad ogni pretesto per lusingarci che siamo tali. E siccome dalle verità stesse che dovrebbero condurci al miglioramento, si cavano questi pretesti, così uno dei più comuni per farci essere contenti di noi si è quello di essere nella vera religione.
Che un individuo appartenga ad una società che ha il deposito della vera ed eterna morale, ad una società che ha i mezzi per condurre alla salute, è una condizione di probabilità favorevole per la bontà di quell'individuo; ma fondare su questa condizione sola la lusinga di esser buono, è una illusione che parrebbe impossibile in un uomo ragionevole se l'esperienza non la dimostrasse comune. Il giudizio sopra di sé stesso ognuno di noi deve fondarlo soltanto sulla conformità e difformità nei nostri sentimenti e delle nostre azioni colla legge. Pare impossibile che si dimentichi: eppure è troppo spesso così. Gli Ebrei segregati dalle genti, protetti visibilmente da Dio, soli liberi dell'abbominevole gioco della idolatria sotto al quale s'incurvava vergognosamente tutto il genere umano, il solo popolo che avesse idea della unità di Dio, dogma che poscia apparve così grande, così semplice e così ragionevole alle nazioni intere ed si sommi ingegni, quando fu diffuso dagli Ebrei dopo la venuta della luce del mondo, aventi una legge divina, un rito divino, e un tempio, il solo della terra dove si adorasse il vero Dio, ripetevano le parole del profeta: Non fecit taliter omni nationi; giammai azioni di grazie non furono più giuste, né ebbero un oggetto più importante. Ma troppo spesso gli stessi Ebrei, invece di esaminare se la loro riconoscenza era sincera e predominante, cioè se si manifestava colle opere, cavarono da questi doni di Dio una falsa fiducia che fu loro tanto rinfacciata dai magnanimi e santi loro profeti. « Non ponete fidanza in quelle false parole: il tempio del Signore, il tempio del Signore, il tempio è del Signore »: ecco il grido di Geremia (Cap. VII, 4, S, 6, 7, 8) per disingannare coloro che dall'essere nel popolo dei veri adoratori arguivano di essere veri adoratori; ecco come gli richiamava all'esame di loro medesimi perché giudicassero se erano tali. « Perciocché se voi rivolgerete al bene i vostri costumi ed i vostri affetti; se renderete giustizia fra uomo e uomo; se non farete torto al forestiero ed al pupillo ed alla vedova, e non ispargerete in questo luogo il sangue innocente, e non anderete dietro agli dei stranieri per vostra sciagura; Io abiterò con voi in questo luogo, nella terra che io diedi ai padri vostri per secoli e secoli. Ma voi ponete fidanza sopra bugiarde parole che a voi non gioveranno. » Questa illusione che pur troppo dura, e che durerà finché gli uomini non saranno perfetti come la legge, io non intendo favorirla in nulla. Se il libro di cui ho creduto dovere confutare tutto ciò che condanna la dottrina della Chiesa, e tutto ciò che, al parer mio, condanna a torto la condotta dei cattolici, se questo libro può fare in alcune parti una impressione salutare sopra alcuno, voglio dire far pensare alcuno sopra di sé, fargli risovvenire che taluno dei rimproveri di che il libro è pieno possano esser giusti per lui, e porlo in pensiero di correggersi, io non voglio distruggere questa impressione.
Uno dei più gravi sintomi di degenerazione tanto in un uomo come in una società è l'esser contenti del suo stato morale, il non trovar nulla da togliere, nulla da perfezionare. Gli abusi che si giustificano con un pretesto religioso, ma che in realtà si sostengono per fini temporali, io non intendo in nulla difenderli, protesto anzi di bramare ardentemente che sieno sempre più conosciuti, e condannati da quegli stessi a cui potessero sembrare utili, e ai quali non sono utili certamente, poiché anch'essi debbono un giorno morire. Che vi sieno di questi abusi è pur troppo innegabile, e una prova che si riconoscono, si vede nel rispondere che si fa agli oppugnatori della religione che essi hanno il torto di condannare la religione per gli abusi: la quale risposta sarà sempre concludentissima, e, benché tanto ripetuta, si dovrà sempre ripeterla, finché gli oppugnatori cadranno nello stesso errore. Ma pur troppo alcuni di quelli che in monte confessano l'esistenza degli abusi, non sanno poi trovarne un solo, quando si venga a specificarli: difendono tutto ciò che esiste, e se si domandasse loro di citare un solo abuso non lo saprebbero forse rinvenire. Io so che questa riservatezza si chiama per lo più prudenza cristiana, so che lo è talvolta, so che molti risparmiano gli abusi, che dico, gli difendono, non per amore di essi, ma per rispetto alla religione. Ma il primo carattere della prudenza cristiana è di non andar mai contra la verità, ma la sua norma non è altro che l'applicazione della legge di Dio e dello spirito del Vangelo a tutti i casi possibili. Ma siamo in tempi in cui sarebbe somma follia il credere che gli abusi possano passare inosservati, e correggersi senza scandalo, esser tolti senza che il mondo si sia accorto che abbiano esistito. Non si può più sperare che il mondo, imitando la carità dei due figli benedetti di Noè, getti il pallio sui mali della Chiesa. Egli ne ride e ne trionfa, egli scopre gli abusi, i libri ne sono pieni da un secolo, egli gli esaggera, gli inventa, non vede altro nella Chiesa, e se gli si nega di riconoscere gli abusi reali, egli non tace per questo, ma si crede autorizzato a supporre abusi in tutto, egli dà questo nome alle cose più sacre, la religione stessa è un abuso per lui. Egli rinfaccia gli abusi come una prova decisiva contra la religione, e pare che supponga che la fede dei cattolici non regga che per la loro ignoranza degli abusi stessi. Ma se i cattolici fossero i primi ad abbandonargli per quello da cui dipende, e tutti gli altri a deplorarli, se dicessero questi altamente: noi sappiamo questi mali, ma la nostra credenza è fondata sopra ragioni troppo superiori, perché la vista di questi mali possa farla vacillare, io credo che il mondo sarebbe costretto ad essere più riservato, io credo che molti, veggendo come si può conoscere gli abusi ed essere cristiani, avrebbero una falsa scusa di meno. Osservazione importante. Quelli che hanno autorità nella Chiesa possono impedire talvolta e in qualche luogo che si parli contro gli abusi: ma non ponno impedire che gli uomini se ne scandalizzino e rinuncino alla religione. Ora questo è il vero male da evitarsi.
Ho detto tutto questo non per fare il dottore nella Chiesa, troppo sentendo come questo uficio non mi convenga per nessun verso; ma siccome è lecito anche al minimo dei cristiani il difendere la Chiesa quando è attaccata, siccome a questa difesa è troppo facile dare più estensione che non si debba, così ho creduto ridurre l'apologia ai suoi termini più precisi.
Tutto questo si applica pure alle superstizioni. Pur troppo la Chiesa è accusata delle superstizioni che essa condanna, pur troppo si esaggerano le superstizioni che regnano in alcuni cattolici, mentre si tace sulle superstizioni che dominano fra i non cattolici o fra tanti increduli, o almeno non se ne tira argomento contro la loro credenza: pur troppo [si chiamano superstizioni] i dogmi più sacri, quelli a cui sottomettere la propria ragione i santi e grandi uomini di diciotto secoli stimarono il più alto uficio della ragione. Ma pur troppo anche vi ha delle superstizioni; e molte sussistono, oltre i motivi generali, per alcune regole di falsa prudenza che conducono, a risparmiarle talvolta quegli stessi che dovrebbero combatterle. V'ha chi difende e loda il silenzio su certe superstizioni col pericolo che, essendo esse nelle menti del popolo tanto collegate coi principi religiosi, non si possa sterparle senza sradicare in quelle menti la fede stessa. Ma quanti motivi di pusillanimità possono nascondersi sotto questo pretesto! Quanto è facile trovare ragioni per dimostrare dannose e imprudenti quelle cose per cui bisogna sottoporsi al pericolo del biasimo ingiusto! Questo pretesto mi sembra non solo falso, ma ingiurioso alla religione, come se la religione non trovasse nella parte più vera dell'animo nostro una corrispondenza per appoggiarvisi, e convenisse porla sopra fondamenti falsi: come se ogni superstizione non avesse un principio di opposizione e di incompatibilità colla religione, giacché la superstizione non è altro che sostituire i principi arbitrari, e carnali, a quello che è rivelato: ogni superstizione è una illusione per essere irreligioso coll'apparenza della fede. La religione ha due avversari, che sono pure avversari fra loro, cioè l'incredulità e la superstizione. Questa è combattuta dall'altra, e siccome le sue basi sono false, così col raziocinio semplice si possono abbattere, e allora chi non ha saputo discernere la superstizione dalla religione corre il rischio di abbandonare l'una e l'altra. Perché si deve lasciare nell'animo di un cattolico una opinione erronea, sulla quale un impugnatore della religione possa avere il vantaggio sopra di lui, e metterlo dalla parte del torto? Giacché, bisogna qui pure ripeterlo, non è da credere che il mondo voglia lasciarle passare in silenzio. Iddio però non ha permesso che le voci contra la superstizione si levassero solo nel campo degli avversari della religione: uomini piissimi le hanno svelate e combattute per zelo, e basti nominare il dotto Muratori (Della regolata divozione dei cristiani). Né si deve negare la dovuta lode ai molti che tuttodì alzano la voce contro esse.
Ma mi sembra che la guerra dovrebbe esser più viva e perpetua nel seno del cattolicismo, che il disinganno non dovrebbe venire che dai ministri della verità, da quelli che, combattendo un errore, vi sostituiscono una verità di fede, e non un altro errore più dannoso. Se fosse lecito ad un uomo, che nella Chiesa è peggio che nulla, il rivolgersi a quelli che sono maestri, io direi a coloro che pascono il gregge cristiano, e lo direi colla umiltà e colla confusione con cui deve parlare l'uomo inutile a quelli che portano il peso del giorno e del caldo: guardatevi intorno, interrogate la fede di molti del popolo, vedete se la speranza non è posta talvolta in quelle cose da cui non viene la salute, se le tradizioni volgari, se le favole animali non sono talvolta sostituite alle cose più gravi della legge; voi che spregiate i clamori del mondo, voi che combattete le sue false massime, vedete se talvolta il vostro silenzio non lascia i semplici in errori indegni della sapienza cristiana, vedete se non convenga combatterli direttamente e infaticabilmente. Questi errori svaniranno, ma v'è troppo a temere che in tante parti del mondo cattolico non isvanisca con essi anche la fede. Rimondate voi stessi l'albero dai rami secchi e infruttuosi prima che l'uomo inimico possa porvi il ferro della distruzione.
La situazione di chi, professando altamente la religione cattolica, confessa nello stesso tempo e condanna gli abusi e le superstizioni è la più esposta a tutte le inimicizie, e la più lontana dagli applausi; e questa considerazione deve portare sempre più gli amici della verità a porsi in questa situazione, come la più sicura e la più gloriosa dinnanzi a Dio. Le parti che tengono opinioni estreme hanno soventi vincoli di fratellanza pur troppo più forti che non quelli che legano i pochi e non arruolati difensori del vero: e mancare di questi appoggi dev'essere per loro un grande argomento di consolazione e di speranza. Altronde, come è già stato detto, i partiti estremi hanno vicendevolmente qualche indulgenza, e l'odio più costante e più vivo è per quelli che stanno nel mezzo. Coloro che amano gli abusi, temono meno gli uomini che si dichiarano nemici della fede, perché questi non ponno avere autorità alcuna presso i fedeli; ma quelli che danno loro ombra, quelli che vorrebbero screditare, sono coloro che, stando fermi al fondamento, biasimano che vi si fabbrichi sopra fieno e stoppie (I Corinth. III, 12 et seq.), perché questo è l'edifizio che a loro piace, e non possono opporre a chi lo vorrebbe abbattere ch'egli rigetti il fondamento. L'ira poi dei nemici della fede è assai più rimessa verso i partigiani degli abusi, perché veggono in essi una prova che a loro par concludente contro la religione, un argomento di scherno e di biasimo, un pretesto perpetuo alla incredulità; ma quelli contro cui si mostrano più esacerbati, sono gli uomini che deplorando gli abusi dicono nello stesso tempo e provano col fatto che si può conoscerli ed esser fedele, e che tentando di toglierli tentano di toglier loro di mano Tarme di cui fanno più uso. Quindi contro di questi si rivolgono gli uni e gli altri, e credono di scoraggiarli, e di proferire la loro condanna, mentre rendono loro la più gloriosa testimonianza, dicendo cioè che essi scontentano tutti i partiti. Felici se essi amano e gli uni e gli altri, se, posti in una posizione così difficile, sentono che non ci si possono sostenere che coll'aiuto di Dio, se dai contrasti che soffrono cavano argomento di speranza e non di orgoglio, se li sopportano come pene meritate pei loro falli, se persuasi di sopportarli per la verità tremano pensando quanto sieno indegni di un tale incarico, se non rivolgono un occhio di desiderio e di invidia agli applausi del mondo, se non li spregiano per un sentimento di superbia, se non desiderano la confusione dei loro avversari di ogni genere, ma la loro concordia, aspettando con ogni pazienza i momenti del Signore.
Una accusa che si fa comunemente ai nostri giorni alla religione cattolica, è ch'ella sia in opposizione collo spirito del secolo. Questa accusa può in un senso essere dalla religione ricevuta come un elogio: se per spirito del secolo s'intende la tendenza violenta ad alcune cose transitorie come beni da ricercarsi per sé, l'amore e l'odio insomma delle creature non diretto si fini voluti da Dio, la religione si protesta, come sempre si è protestata, nemica di questo spirito; e quando venisse a far tregua con esso, allora si potrebbe trovarla in contraddizione e diffidare di essa. Guai alla Chiesa se ella facesse un giorno pace col mondo! se desistesse dalla guerra che il Vangelo ha intimata, e che ha lasciata alla Chiesa come la sua occupazione e il suo dovere; ma questo timore non può mai esser fondato, perché l'espressa parola di Gesù Cristo assicura il contrario.
Ma, si risponde, lo spirito del secolo presente non è altro che il complesso di molte verità utili e generose, presentite già da alcuni uomini grandi, diffuse di poi, e divenute il patrimonio di tutti i popoli colti, verità, il legame ed il punto centrale delle quali, non osservato nemmeno da quei sommi che le promulgarono, è stato sentito ai nostri tempi, è divenuto il fondo, per dir così, della opinione pubblica, e distingue questa epoca sommamente ragionevole. Ora questo spirito che onora la ragione umana meno ancora per la sua evidenza che per la sua bellezza, non è secondato dalla religione cattolica, anzi molte volte essa vi si oppone; e quando siamo a questo punto non bisogna stupirsi, se l'intelletto si volge da quella parte dove sta la dimostrazione, e la coscienza della dignità umana. Perché se voi trovate ardita o erronea una proposizione che sia il risultato delle riflessioni degli uomini i più illuminati d'una generazione, se tremate ad ogni esame che si istituisca, non dovete poi lagnarvi se si dirà che la vostra religione è nemica del pensiero, e che essa non vuole che il sacrificio del raziocinio ad una cieca sommissione: e dovreste esser convinti che su questa non è più da far conto. Che se la religione non è realmente opposta a queste verità, perché suscitate voi alla nostra fede un nemico che essa non avrebbe senza di voi? E se credete di poter provare che lo spirito della Chiesa è veramente opposto a quello del secolo, l'evidenza stessa della vostra tesi dovrebbe determinarvi a non sostenerla, perché il secolo è disposto a conservare il suo spirito ad ogni costo.
Questo mi sembra a un dipresso il sugo dei rimproveri che si fanno in questo genere alla morale della Chiesa cattolica. L'obbiezione è semplice, ma è impossibile che la risposta lo sia: perché deve aggirarsi su molte e varie cose, e fare assai distinzioni e nello spirito del secolo e in quello della Chiesa, e nel modo di manifestarsi dell'uno e dell'altro.
Uno dei caratteri dello spirito predominante di tutti i secoli è una certa persuasione di alcune idee che degenera in tirannia di opinione, che condanna chi lo contraddice, a passare per ignorante o per male intenzionato, dal che nasce un timore che impedisce a molti di esporre i loro dubbi, ed a moltissimi di concepirne. Questa tirannia è, come tutte le altre, precipitosa, impaziente di ogni obbiezione e di ogni esame, vaga di parlare, e nemica di ascoltare, e di dare spiegazioni; come tutte le altre, essa non vorrebbe dar campo alle risposte perché, come tutte le altre, è in dubbio di quella sua autorità che pure vorrebbe far riconoscere da tutti e fare ammettere come fondata sulla ragione senza lasciarla vagliare dal ragionamento. Eppure in tutte le discussioni è necessaria la calma, la pazienza, la libertà; eppure bisogna esaminar tutto, ed anche lo spirito del secolo.
Senza entrare a discutere tutti i punti nei quali si pretende, a ragione o a torto, che lo spirito della Chiesa contrasti a quello del secolo, io esporrò di seguito alcuni princìpi, i quali, a quello che mi sembra, deggiono essere gli elementi logici di ogni questione di questo genere.
I princìpi sono questi:
Una generazione può avere la più forte persuasione di sentir rettamente, ed essere in errore: In questo caso non è da stupirsi se i princìpi della religione saranno in opposizione collo spirito di questa generazione. Nelle opinioni di una generazione vi può essere del vero e del falso. Essa può cavare conseguenze storte da princìpi retti, o stabilire princìpi storti per dedurne delle conseguenze che sono verità, e che verrebbero logicamente da altri princìpi che essa non vuol riconoscere per qualche prevenzione. In questo caso la religione si opporrà alla parte falsa, e sarà d'accordo colla vera.
Una generazione può esaggerare i principi giusti, estendere la loro importanza oltre la verità: la religione, riconoscendo i princìpi giusti, e rivendicandoli come suoi, si opporrà alla esaggerazione.
Una generazione può sostenere dei principi giusti per motivi di passione e con passione. La religione riconoscerà pure i princìpi, e condannerà le passioni.
Una generazione può conoscere assai poco la religione, e non amarla, e travisare i suoi dogmi e le sue massime, e creare una opposizione chimerica con altre massime vere.
Finalmente alcuni di quelli che difendono la religione possono o per ignoranza o per fini particolari sconoscere lo spirito della religione, presentare come conseguenza della sua dottrina il loro spirito particolare, e creare essi una opposizione chimerica.
Se questi princìpi si avessero presenti quando ci si affaccia un caso in cui ci sembri che la ragione del secolo sia in contrasto colla ragione eterna della fede, la ricerca sarebbe più lunga e più difficile sì, ma si potrebbe avere un po' più di fiducia nel giudizio che si porterebbe con queste precauzioni, e il giudizio sarebbe in molti casi che l'opposizione non esiste, e dove si trovasse si vedrebbe che l'errore è dalla parte del mondo, che non fa che disdirsi, che passare dall'entusiasmo al disprezzo, che confessarsi fallibile nel passato, pretendendo poi di essere riconosciuto infallibile ad ogni nuovo sentimento che adotta, e che la verità è con quella religione che, diciotto secoli sono, disse al mondo: Io non mi cangerò mai;e che non è mai cangiata. Mi sia lecito di ripetere ad uno ad uno questi princìpi per avvalorarli con qualche esempio e con qualche spiegazione.
I. « Una generazione può avere la più forte persuasione di sentir rettamente, ed essere in errore. In questo caso non è da stupirsi se i principi della religione saranno in opposizione collo spirito di questa generazione. »
Per ridurre la questione si suoi termini precisi, ed evitare ogni equivoco, s'intenda che la parola secolo si adopera in vari sensi; talvolta significa la pluralità di coloro che si occupano di scrivere e di parlare di princìpi generali e di interessi comuni; ognun sa che finora la massa delle nazioni rimane o nella ignoranza o nella indifferenza e talvolta nella avversione di questi princìpi. Talvolta però vi partecipa. Ho detto poi la pluralità degli altri perché in ogni secolo vi sono proteste e riclami di alcuni contro lo spirito predominante, proteste che possono venire o da ostinazione di pregiudizi o d'interessi contro la verità, o da tranquilla e indipendente ragione che rigetti opinioni false e fanatiche. Mi sembra necessario fare questa distinzione perché la parola spirito del secolo è adoperata indifferentemente e quando si tratti di quasi tutta Europa, o di una nazione, o di una gran parte di essa, o di alcune classe di varie nazioni, concordi fra di loro, e discordi ognuna dagli altri suoi nazionali, o d'una setta nazionale. Ora in tutte queste società diverse può entrare l'errore, ed esservi sostenuto come un principio. Chi lo nega? mi si dirà: nessuno lo nega, ma non basta riconoscere la massima, bisogna ricordarsene al momento di applicarla, nel tempo in cui la adesione universale ad una opinione, o la franchezza di alcuni in sostenerla, diventa senza che ce ne accorgiamo il principale o l'unico argomento per farcela ricevere. L'errore è spesso opposto all'errore, e non è raro di vedere gli uomini di una età, predicando una massima falsa, deplorare la cecità dei loro avi che tenevano l'altro estremo, enumerare le circostanze per cui essi poterono ingannarsi così grossolanamente, e non vedere ch'essi sono da circostanze simili tratti e tenuti nell'inganno contrario. Chi nei tempi chiamati i bei tempi della repubblica romana avesse detto che la guerra fatta per comandare ad altri popoli è una crudele pazzia, come sarebbe stato udito? Chi avesse detto agli Spartani: gl'Iloti hanno gli stessi diritti alla libertà ed alle leggi che avete voi; l'esser vinto o figlio di un vinto non gli toglie; il fine della società non può essere altro che procurare a tutti gli stessi vantaggi; la parola giustizia non ha senso se non si applica a tutti gli uomini; quando voi ubbriacate gli schiavi per far abborrire l'intemperanza ai vostri figli, l'azione vostra è di assai più brutto esempio che non quella di cui volete ispirar loro il disprezzo, perché pervertire gli uomini a disegno è cosa più vile che l'ubbriacarsi; chi avesse parlato così sarebbe stato stimato degno di risposta? E se alla metà del secolo decimosettimo in Francia fossero state proposte quelle opinioni che ora vi sono quasi universalmente proclamate, sarebbero state accolte non come rivelazioni imprudenti di verità ardite, ma come paradossi volgari, come sogni di intelletto ineducato, progetti appena buoni per una società di mercanti. E se un secolo ha avuto un'alta e ferma idea della eccellenza del suo spirito, è quello sicuramente. Queste idee predominanti in un'epoca si chiamano di moda, vocabolo che dovrebbe per sé renderle sospette, perché significa: essere determinato a seguire un sentimento o un uso dall'autorità, escluso l'esame. Quando alcuna di esse si trova contraria alla religione, la tentazione è forte per molti: a pochi è dato di volere e potere uscire, per dir così, dall'atmosfera generale delle idee, e trasportarsi in un campo più tranquillo e sereno, per consultare più la ragione propria che le mille voci concordi su un oggetto, e pesare quello che quasi tutti gli altri affermano. Due classi di persone schivano questa tentazione o la superano: quelli cioè che senza molta coltura, con un cuore illuminato dalla fede sono fermi in essa, e diffidando di sé stessi, temono ogni pensiero che possa esser contrario a ciò che essi sentono essere principalmente e incontrastabilmente vero; e quelli che accoppiando all'amore per la legge divina la ragionata ammirazione di essa, che conoscendo l'immutabilità delle verità rivelate e la mutabilità dei cervelli umani, considerano attentamente queste opinioni opposte alla religione, finché trovino dove sta l'errore di esse. I primi talvolta si tengono per una certa timidità in una ignoranza utile perché esclude le idee false come le vere: talvolta rigettano fatti certi e dottrine fondate perché, veggendo che da esse si derivano conseguenze irreligiose, le stimano false, mentre l'errore non è che nelle conseguenze. Rigettando il vero e il falso, essi cadono nell'errore opposto dei loro avversari, che ricevono l'uno e l'altro, ma l'errore di quelli è di poca importanza perché non è contro le verità essenziali: è una applicazione mal fatta della regola certa di prescrizione, ma l'effetto di escludere gli errori in fatto di fede essi l'ottengono. Intendo che l'errore è di poca importanza nei privati che tacciono, non già in coloro che possono influire sulle idee o sulla manifestazione delle idee altrui: questi sono obbligati a studiare, e ad ascoltare.
Una di queste opinioni predominanti e contrarie alla religione fu quella tanto in voga per tutta almeno la metà del secolo scorso, sul celibato lodato e comandato dalla Chiesa. L'aumento della popolazione era tenuto come un indizio e una cagione così certa e così universale di prosperità, che tutto ciò che tendeva a limitarlo in qualche parte era considerato cosa dannosa, improvvida e barbara; e questi caratteri si davano per conseguenza al consiglio ed alla legge della Chiesa. Ben è vero che alcuni scrittori e singolarmente Gianmaria Ortes si opposero alla esaggerazione di questo principio, ma le opere di questo autore erano in pochissime mani, nelle altre l'argomento non era trattata compiutamente. Di più, ai tratti sparsi qua e là in favore d'una opinione conforme alla religione, se venivano da uomini noti per pensare cristiano non si dava generalmente retta, si consideravano come pregiudizi della loro professione; se venivano da uomini che avessero riputazione di filosofi, si supponevano sacrifici fatti per politica alla opinione dominante nel popolo. A parte, adunque, qualche eccezione, si può dire che il sentimento di una classe d'uomini riputatissimi aveva portata l'esaggerazione fino a sostenere che la popolazione non poteva essere mai eccessiva, e che il celibato era sempre antisociale, quasi un delitto. Che san Paolo avesse lodata la verginità, che la Chiesa dai primi tempi avesse interdette le nozze ai suoi ministri, si attribuiva al non avere essa saputo indovinare il perfezionamento delle idee in questo proposito, ad un sistema temporario e locale, anzi da questa sua istituzione si cavava argomento della falsità della religione. Questa opinione cominciava ad essere predicata con manco ardore, come suole accadere, quando finalmente un economista inglese, il Dr. Malthus trattò la questione a fondo, e con un ampio corredo di fatti e di osservazioni. E contro le grida di tanti scrittori egli poté stabilire alcuni principi tanto evidenti che all'udirli si vede che la sola tradizione continua e persistente di una dottrina fanatica aveva potuto farli dimenticare: che la popolazione potrebbe crescere indefinitamente, ma non le sussistenze necessarie a conservarla; che quando l'equilibrio fra queste e quella sia tolto è forza che si ristabilisca; che i mezzi infallibili con che l'equilibrio si ristabilisce sono sempre grandi e violenti mali; che è utile e saggio il prevenire la necessità di questi mezzi; che non v'è altro modo di prevenirli che mantenere più che si può l'equilibrio: ma come mantenerlo fra una potenza indefinita, ed una molto circoscritta? determinando quella a non spiegarsi tutta, a proporzionarsi all'altra che le è necessaria. Fra i mezzi leciti ed utili e ragionevoli, pare che il celibato dovrebb'essere uno de' più conducenti a questo scopo: l'Autore non si serve di questo vocabolo condannato presso i suoi, ma lo definisce e vi applica un'altra denominazione: Parmi les obstacles privatifs, l'abstinence du mariage jointe à la chasteté est ce que j'appelle contrainte morale (Tom. I, pag. 21, Trad. de Mr. Prévost). Il che è appuntino il celibato lodato dalla Chiesa, e proposto a quelli che sentono di esservi chiamati: senonché, oltre le ragioni di prudenza e di ragionevolezza e di dignità morale addotte da quel profondo ed accurato scrittore, la Chiesa vi include quelle di un particolare perfezionamento di sacrifizio delle inclinazioni proprie, di staccatezza dagli oggetti terreni, idee che essa associa a tutti i suoi consigli, perché non può mai dimenticare in ogni sua istituzione quello che ha proposto ai suoi figli come fondamento di esse: che sono veri beni quelli soli che conducono ai beni eterni.
L'opinione che il celibato, con qualunque limite e restrizione, sia una istituzione antisociale e sempre dannosa, opinione alla quale è stato dato l'ultimo colpo nel nuovo Prospetto delle Scienze Economiche, è ora, a quello ch'io stimo, quasi del tutto abbandonata. Intanto quanti uomini hanno portata nel sepolcro la persuasione che la morale cattolica era viziosa e falsa perché lodava il celibato!
Quegli i quali hanno considerate le vicende delle opinioni umane troveranno altri esempi di questa fede prestata a cose riconosciute false dappoi; quegli che hanno fatto studi nelle scienze fisiche, ne troveranno in esse, poiché da esse in tutti i tempi si son cavate obbiezioni contro la fede. Una di esse è ricordata da quel Pascal che fu tanto incontrastabilmente un grand'uomo che nessuno di quelli che combatterono le sue idee profferì il suo nome senza ammirazione: Combien les lunettes nous ont découvert d'astres, qui n'étoient point pour nos philosophes d'auparavant. On attaquoit hardiment l'Écriture sur ce qu'on y trouve en tant d'endroits du grand nombre des étoiles: il n'y en a que mille vingt-deux, disait-on; nous le savons (Pascal, Pens. Chrét., pag. 59). Se in questi casi la Chiesa avesse, per una supposizione impossibile, ceduto alle grida ed alla autorità di tanti uomini colti, se avesse confessato di non aver tutto preveduto quando accettò i consigli di un Maestro infallibile, se si fosse ritrattata, questa generazione presente non avrebbe ogni ragione di tacciarla di servilità, di precipitazione e di incostanza? Ma questi rimproveri non potranno toccarla mai: ella è paziente perché le è promesso che nulla sulla terra le sopravviverà; ella lascia scorrere le opinioni, sicura che tutte quelle che le sono contrarie svaniranno; e noi che passiamo sulla terra, noi che esaminando noi stessi troviamo nei nostri pensieri stessi tanta successione di certezza e di disinganno, abbandoneremo noi quella guida che non ha mai ingannato nessuno? e [potendo nelle cose essenziali avere il giudizio certo di tutti i secoli] vorremo farci così schiavi del nostro da non riflettere ch'esso ci travia ogni qual volta si allontana da quella società, con cui Cristo starà fino alla consumazione di tutti?
II. « Nelle opinioni d'un secolo vi può essere del vero e del falso: esso può cavare conseguenze storte da princìpi retti, o stabilire princìpi storti per dedurne conseguenze che sono verità, e che verrebbero logicamente da altri princìpi che esso non vuol riconoscere per qualche prevenzione. In questo caso la religione si opporrà alla parte falsa e sarà d'accordo colla vera. »
Ora il mondo generalmente non si appaga di queste concessioni parziali. L'uomo è sistematico per natura: egli tiene al complesso delle sue opinioni più che ad ognuna di esse in particolare, ed ama meno la verità particolare che crede vedere in ciascuna di esse, che il risultato di tutte, che risguarda particolarmente come l'opera della sua riflessione. Per con seguenza di questa disposizione egli sarà avverso ad ogni potenza intellettuale che pretenda far distinzioni in queste sue opinioni, e preferirà di difenderle tutte, combattendola come parte avversaria, che riceverne la sentenza come da giudice. L'imparzialità stessa di chi sceglie fra le nostre opinioni facendo le parti del vero e del falso, la ponderatezza, la superiorità di ragione che questo suppone, ripugna al nostro senso, e ci determina talvolta a sostenerle tutte piuttosto che a ricevere un nuovo giudizio da un'altra autorità. Perché questo è un riconoscer che noi abbiamo comparate ed osservate molte idee senza far poi un giusto discernimento fra esse. Quando invece noi vogliamo supporre che quella autorità ci sia in tutto avversa, abbiamo il vantaggio di difendere contro essa anche la parte vera delle nostre opinioni, e si rigetta sovra di essa confusamente l'accusa di opposizione a verità incontrastabili. Questa avversione alle distinzioni si mostra sempre in quelli che tengono opinioni esaggerate e sistematiche: si vede talvolta le due parti opposte manifestare una certa stima l'una dell'altra: ognuno loda dell'avversario ben pronunziato la fermezza, la congruenza ai suoi princìpi, l'ostinazione stessa: loda insomma quella parte in cui gli somiglia. Quegli invece che si frappone e dice: tu hai ragione in questo e tu in quello, e avete ambedue torto in altre cose, quegli è maltrattato dall'uno e dall'altro; e può esser contento, se non ne riporta altro titolo che di visionario e di fanatico.
Questa è una delle, ragioni, a mio credere, per le quali siamo così pronti a credere una serie di idee tutte contrarie allo spirito di religione, mentre converrebbe ad una paragonarle con essa. Eppure come questa mescolanza di vero e di falso può facilmente esistere in tutte le idee degli uomini, facilmente si trova poi anche nel complesso di quelle che formano ciò che si chiama lo spirito di un secolo, perché facilmente appunto vi entra quello spirito che la Chiesa ha sempre condannato, perché si oppone al Vangelo.
Ma si dirà: quand'anche si venga alla discussione parziale di ogni opinione, non si concorderà però per questo: perché alcune di esse saranno false secondo il Vangelo, e il mondo le riterrà per vere, cosicché l'opposizione si troverà essere reale. Certamente essa esisterà sempre poiché il mondo non vuole riconoscere la bellezza e la verità di tutto il sistema di morale cristiana. Ma questa distinzione produrrà il vantaggio di mostrare chiaramente i veri punti di opposizione, ed allora ogni intelletto sincero potrà scegliere. Si vedrà allora per quali massime la religione condanni una tal cosa, come queste massime sieno riconosciute, in tanti altri casi, incontrastabili ed ammirabili dal mondo stesso, come esse sieno legate con tutto il suo sistema, come non si possa negarne l'applicazione senza distruggere altre verità riconosciute dal mondo. Si vedrà che quello che nello spirito d'un secolo la religione chiama falso, lo ha chiamato falso sempre, e che il secolo stesso lo ha riconosciuto falso in altri, perché non avea gli stessi pregiudizi. Si vedrà che la opposizione della Chiesa non nasce dal non aver essa prevedute certe massime, o dall'essere essa troppo semplice, o poco filosofica per adottarle, ma che ad ognuno di questi principi che essa condanna, contrappone sempre un principio più alto, più perfetto, più eroico, più universale, più liberale. Il mondo non converrà colla Chiesa nel discernimento fra i suoi sentimenti, ma si vedrà perché non voglia convenire. Questo è quello che desidera la Chiesa, la quale, avendo la verità con sé, non ha bisogno d'altro che di essere ben conosciuta.
Sarebbe argomento contenzioso e complicatissimo l'osservare lo spirito dei nostri tempi con questa intenzione di discernere quello che concordi colla religione e quello che vi si opponga; facciamo brevemente questo discernimento in uno spirito che ha durato a lungo, si è diffuso in moltissime parti, e ha portata al più alto punto la persuasione della esclusiva eccellenza e ragionevolezza propria: lo spirito cavalleresco. Lasciamo da parte la questione se esso sia mai stato realmente applicato alla condotta reale della vita, o se (come a ragione, a parer mio, afferma il Sig. Simonde) la cavalleria pratica, per dir così, sia una invenzione quasi assolutamente poetica, un nuovo secol d'oro che ogni età ha supposto in un'altra età più antica (Littérature du Midi, Tom. I, Cap. III, pag. 90). Lo spirito, nel senso di cui ora si parla, deve risultare non dalle azioni, ma dalle massime di un'epoca, perché questo spirito teorico e precettivo è appunto quello che si contrappone alla religione. Ora egli è vero che nel medio evo è stata generalmente ricevuta una serie di massime che si può chiamare spirito cavalleresco; e questo spirito si trova nelle istituzioni, nei giuramenti dei cavalieri, quando erano adottati, nelle ragioni della lode e del biasimo dato alle azioni contemporanee, e nelle ragioni con cui si giudicavano le azioni storiche nei caratteri veri o finti degli uomini proposti come esemplari, nelle adulazioni fatte ai potenti inventando fatti o interpretandoli secondo le intenzioni generalmente supposte lodevoli, nella adulazione dei potenti stessi all'opinione generale, nel professare i principj di questa opinione e nell'ostentare o fingere nelle loro opere una conformità a questi principi. È cosa universalmente ricevuta che fra i principi del medio evo erano questi dei principali: sommissione e venerazione alla Fede Cristiana, fedeltà nel mantenere la parola data, rispetto alle donne, protezione dei pupilli e delle vedove e dei deboli in generale contra la forza ingiusta, amore della gloria e delle distinzioni, l'onore riposto nel vendicare le ingiurie, e la infamia nel sopportarle pazientemente, onore esclusivo della professione delle armi, bassezza di quasi tutte le altre, e specialmente della agricoltura e del commercio, dignità dei nobili nel sentire e mantenere la loro superiorità sugli ignobili chiamati villani, viltà nel rinunciare ad essa e confondersi con loro, viltà nel dipendere dalle leggi, e nel riconoscere altra autorità che de' suoi pari. È manifesto che questo spirito si compone di sentimenti e di idee in parte conformi, in parte avverse alla dottrina evangelica. L'uomo che a quei tempi parlava contra il Vangelo era considerato non solo un empio, ma un vile, e (contraddizione singolare!) l'uomo che coll'autorità del Vangelo tanto riconosciuta condannava certe massime ricevute, era pure un vile e un dappoco. È facile però il vedere da che più alti princìpi venga la pazienza e il perdono comandato dal Vangelo, che non la vendetta voluta dallo spirito cavalleresco. Poiché secondo il Vangelo, e la ragione non può disdirlo, l'onore non consiste nella opinione altrui, ma nei sentimenti e nelle azioni proprie, la distruzione di chi ha voluto torre l'onore ad uno non cambia in nulla le cose reali per cui questi è degno o non degno di onore; è disposizione nobile, ragionevole ed energica il vincere l'orgoglio, e l'ira: il giudizio falso contra di noi non è un male, la forza e le armi non sono un paragone del vero. È ingiusto il farsi giudice in causa propria, e le leggi sono appunto necessarie perché escludono il sentimento particolare dell'offesa dalla retribuzione. Questi ed altri principi eterni della religione contra l'esaggerazione del sentimento dell'onore dei secoli bassi sono più universali e più belli certo di quelli su cui era fondato il pregiudizio, e per una conseguenza della loro verità sono eminentemente utili anche alla società. Se quel codice di onore si fosse perpetuato, se si fosse spinto ed applicato in tutte le sue conseguenze, non vi dovrebbero essere né tribunali, né leggi, né civilizzazione di sorta. Gli altri pregiudizi sulla diseguaglianza, sulla sommissione all'ordine sociale, non hanno nemmeno bisogno di essere confutati, gli interessi e le passioni del maggior numero hanno aiutata la ragione a sentirne il falso.
Ognuno può con ponderazione e spassionatezza fare questa disamina dello spirito di altri secoli, e trovati i punti di opposizione, cercare i princìpi su cui è fondata l'una e l'altra dottrina, e scegliere.
Per quanto una opinione sia vera, vi avrà sempre chi non la vorrà riconoscere o per ostinazione o per interesse. Quelli che sono persuasi di essa si sentono portati al disprezzo, all'odio, al furore contro gl'impugnatori; e siccome noi abbiamo sempre bisogno d'un bel,principio per giustificare le nostre passioni, questi sentimenti si considerano come conseguenze dell'amore di verità; ricercando però quello che la religione prescrive, troviamo che il precetto di conservare la carità non ammette eccezioni: sopprimere i ribollimenti del disprezzo, contenersi dal mostrare nelle parole il sentimento profondo che abbiamo della dappocaggine di chi dissente da noi, cercare di persuaderli con pazienza e con fermezza, ed amarli, quando anche si disperi di farlo, sono prescrizioni che sembrano tanto amare al senso corrotto, che si spezzano piuttosto tutte le tavole della legge che riconoscer questa. Eppure quando la consideriamo in astratto, non possiamo a meno di non confessarla bella e sapiente, e sola conforme alla debolezza dei nostri giudizi; perché anche chi si inganna, si fonda sulla persuasione propria, e se non si ammette una regola comune di condotta per chi s'inganna e per chi ha ragione, se è lecito rompere la carità a chi sostiene il vero, chi avrà più carità, se tutti credono di sostenerlo? E noi stessi, quando gli avversari nostri si lasciano contro noi trasportare alla passione, ne facciamo loro rimprovero, e ricordiamo loro che la verità è tranquilla, e pretendiamo che si sottopongano a quel giogo, che diciamo insopportabile quando ci si voglia porre sulle nostre spalle.
Un'altra parte di falso che le passioni mischiano a sistemi veri per sé, per cui gli fanno trovare in opposizione colla religione, è la ammirazione eccessiva, gli affetti troppo estesi, il principio per cui si pretende dover questi sistemi essere abbracciati. Noi siamo tanto desiderosi della felicità e tanto avversi alla via che il Vangelo ci segna per giungervi, che preferiamo di figurarcela ora in una, ora in un'altra cosa creata; l'illusione non dura, è vero, ma è però sovente piena. Quando siamo presi dalla bellezza di una idea, quando l'entusiasmo degli altri accresce, e giustifica il nostro, quando gli sforzi per realizzarla cominciano a dare probabilità di felice successo, allora tutto ciò che non seconda la pienezza ed universalità di questo nostro amore ci sembra meschino, ci spiace, lo allontaniamo da noi, lo escludiamo dai nostri pensieri. Ora la religione ha posti certi termini inamovibili, contro cui vanno ad urtare queste passioni che non si vogliono contenere fra quelli. L'affetto a qualunque cosa temporale, come a fine, è proscritto dal Vangelo. Chi lo ha dato agli uomini ha pensato a tutti i secoli, ha preveduto ogni entusiasmo ed ogni disinganno, sapeva che nulla ci può render felici in questa terra, e ce ne ha ammoniti sempre. Tutto ciò che non è preparazione alla vita futura, tutto ciò che ci può far dimenticare che siamo in cammino, tutto ciò che prendiamo per dimora stabile, è vanità ed errore. La religione introduce in ogni giudizio nostro intorno alle cose temporali l'idea della instabilità, della sproporzione coi nostri desideri, e col nostro fine, della necessità di abbandonarle, e questa idea appunto noi vorremmo escludere da quelle che ci rapiscono. Questo è uno dei motivi per cui nelle grandi commozioni la religione è più dimenticata e più contraddetta per lo più che nei tempi ordinari. Eppure quelle cose stesse si rivolgono sempre in modo, che col tempo noi la ricaviamo da quelle cose medesime, essa diventa come un riposo dopo le agitazioni: la religione non vuole che condurci alla saviezza e alla moderazione senza dolori inutili, che portarci per tranquilla riflessione a quella ragionevolezza a cui giungeremmo per la stanchezza e per una specie di disperazione. E si noti che l'amore a certe verità diretto dalla religione è non solo più moderato, ma più costante, anzi per così dire immutabile, in quanto è attaccato ad un principio immutabile.
È stato molto e bene parlato dei pessimi effetti delle passioni nei grandi avvenimenti politici, ma uno non è stato, ch'io creda, osservato. Gli uomini che abbracciano un sistema per passione veggiono in quello una bellezza e una perfezione al di là del vero, e se ne promettono effetti esaggerati ed impossibili. Questo stato di mente non può durare, e, oltre la mutabilità naturale dell'uomo, i fatti stessi tendono a cambiarlo, succedendo sempre o minori d'assai, o contrari alla aspettazione. Accade quindi pur troppo sovente che si passi da questo eccesso a quello di spregiare tutto quello che si era troppo idolatrato, e che dall'errore dell'entusiasmo si passi ad un altro meno nobile, che si creda disinganno, e perfezione di ragione. In questo caso le passioni sono dannose e nella loro veemenza, e nel raffreddamento medesimo. È facile veder questo effetto nel più grande avvenimento dei nostri giorni, la rivoluzione francese.
Se all'incontro la religione moderasse sempre la tendenza nostra verso qualunque idea, non si andrebbe fino a quel punto ove è impossibile dimorare, e dal quale è troppo difficile ritrocedere soltanto fino alla verità. Né hanno mancato ai nostri giorni esempi di questo genere: uomini i quali non hanno voluto subordinare l'eternità al tempo, né supporre mai che vi potessero essere né epoche né cose alle quali non si potesse applicare la regola infallibile del Vangelo. Alcuni di essi vissero abbastanza per veder cadere gli eccessi che avevano combattuti, per vedere stabiliti in fatto e in massima gli eccessi contrari, e per essere tacciati di caparbietà e di esaggerazione, come lo erano stati di corte vedute e di pusillanimità.
Si appongono spesso alla religione, da coloro che non l'amano, principi e conseguenze che essa non tiene. Non si è detto tante volte che la religione consiglia ed ama l'ignoranza! Sicut blasphemamur et sicut aiunt quidam nos dicere (ad Rom. 111. 8). Che comanda di credere a ciò che sentiamo contrario alla ragione! Supposti questi princìpi alla religione, non era difficile provare che essa era in opposizione col senso comune, e con quello che lo spirito di ogni secolo ha di ragionevole. Ma basta aprire il Vangelo per vedere come queste ed altre simili supposizioni sieno espressamente contrarie a tutta la rivelazione.
Alcuni finalmente di quelli che onorano e difendono la religione cadono nello stesso errore di attribuirle o per ignoranza o per fini particolari massime che essa non ha, la pongono così in opposizione collo spirito di un secolo in punti dove questa opposizione non esiste.
Se noi ci fondiamo su queste autorità per disistimare la religione abbiamo certamente il torto. Poiché a che serve il declamare contro la credulità, predicare l'esame, se in un punto di tanta importanza ce ne rimettiamo poi alla asserzione di persone il giudizio delle quali vale sì poco presso di noi in altri argomenti? Non sarebbe questo il caso di esaminare? Certo la religione ha molte massime che sembrano meschine al mondo, perciò ella è detta follia, ma basta considerarle per iscorgervi la più profonda sapienza, per vedere che non sono follia al senso corrotto dell'uomo se non perché vengono da un punto di perfezione al quale egli non può solo salire nello stato suo di decadimento.
Il vero punto di discernimento è che le massime evangeliche non sono follia che supponendo tutto finito nella vita mortale. Questo stesso senso però non può a meno di non provare una certa ammirazione per esse. Ma quando si ode proporre una massima veramente picciola e falsa come derivata dalla religione; prima di credere che essa ne venga, bisogna ricordarsi che serie di uomini grandi ha impiegata la contemplazione di tutta la vita a considerare e ad ammirare la religione di Cristo; e come dallo studio di essa ricavarono motivi per trovarla sempre più grande e ragionevole. Non già ché l'autorità di essi ci debba portare a crederla tale senza conoscerla, ma deve farci diffidare di tutto ciò che la rappresenta come meschina e bassa, deve portarci ad esaminarla da noi come facevano essi.
Se però la pietra d'inciampo posta in sulla via non iscusa colui che cadde, perché poteva o schifarla o gettarla dal suo cammino, non si deve lasciare di osservare quanto gran male sia il porre pietre d'inciampo. Ora questo fanno, forse senza avvedersene, forse credendo invece far bene, molti che nello spirito di un secolo pretendono condannare, con argomenti religiosi, opinioni non solo innocenti, atta ragionevoli, ma generose, opinioni le opposte delle quali sono talvolta assurde. Dal che, mi sembra che ai nostri giorni sia necessario guardarsi più che non sia stato mai, giacché, non giova dissimularlo, il più comune rimprovero che si fa oggidì alla religione si è che essa conduca a sentimenti bassi, volgari. Gli oppugnatori di essa parlano come se la filosofia mondana fosse salita ad una sfera di pensieri più elevata, più pura, più celeste che non quella a cui il Vangelo ha portata la mente umana. Ah! quanto questo inganno è più grande e più pericoloso, tanto più deve essere lo studio per non dare alcun pretesto ad alcuno per cadervi.
I partiti in minorità non avendo la forza ricorrono alla giustizia, e questo è avvenuto spesso ai filosofi: essi hanno dette verità utili ed importanti: e sono stati male avvisati quelli che hanno voluto tutto confutare. Conveniva separare il vero dal falso; e se il vero era stato tacciuto, conveniva confessarlo e subire l'umiliazione di averlo tacciuto: non rigettare le verità per confutare. Quando il mondo ha riconosciuta una idea vera e magnanima, lungi dal contrastargliela, bisogna rivendicarla al Vangelo, mostrare che essa vi si trova, ricordargli che sé avesse ascoltato il Vangelo, l'avrebbe riconosciuta dal giorno in cui esso fu promulgato. « Poiché tutto quello che è vero, tutto quello che è puro, tutto quello che è giusto, tutto quello che è santo, tutto quello che rende amabili, tutto quello che fa buon nome, se qualche virtù, se qualche lode di disciplina, tutto è in quel libro divino » (Paolo ai Filippensi, C. IV, 8).
Bisogna mostrare al mondo che anzi quello che la religione può condannare in quelle idee è tutto ciò che non e abbastanza ragionevole, né abbastanza universale, né abbastanza disinteressato. Se il mondo vuol pur sempre rigettare la dottrina di Gesù Cristo, la rigetti come follia, ma non mai come bassezza. La follia che consiste nel disprezzare le cose temporali di cui gli uomini sono più bramosi, nel sacrificare l'utile al vero, nell'affrontare i dolori e gli spregi per esso, è la follia dei martiri e dei padri, è il patrimonio eterno della Chiesa, e nessun cristiano deve soffrir mai che nemmeno per un momento il mondo possa vantarsi di avergliela rapita.
Ma, odo rispondere, si dovrà forse adottare ogni sentimento fanatico ed esaltato che sia in voga, si dovrà correre dietro ad ogni idea profana che il mondo inventi, e metta in adorazione?
Dio liberi. Ma mi sia lecito di fare osservare a molti uomini di rettissime intenzioni, che i pregiudizi sono pure profani perché non vengono dalla verità, che esaminando le loro opinioni, essi ne troveranno molte che non vengono che da abitudine, forse da interesse, e da principi affatto estranei al Vangelo, e che si sostengono come conseguenze di esso; e che nessuna idea morale è straniera al Vangelo: ogni verità morale è di sua natura una verità religiosa. La noncuranza stessa e l'ignoranza dello spirito del secolo da parte di tutti quelli che nella Chiesa sono destinati ad insegnare, sarebbe di gravissimo nocumento. Non già che essi debbano essere diretti da quello, ma dovrebbero anzi diriggerlo, raddrizzarlo, e dove sia duopo confutarlo con cognizione di causa, e con superiorità di ragione, non condannarlo in monte, né abbandonarlo a sé stesso, giacché in questo secondo caso essi lasciano il bell'uficio di maestri a cui sono destinati, e nel primo mostrandosi o parziali, o non informati, perdono l'autorità indispensabile per essere ascoltati e persuadere.
Mi sembra che molti apologisti, della religione nel secolo scorso sieno caduti nell'inconveniente di confutar tutto. I partiti che sono in minorità, non avendo la forza, invocano la giustizia, ed è quasi impossibile che da essi non vengano idee utili e generose. Gli scrittori francesi del secolo scorso che si chiamarono filosofi scrissero cose irreligiose superficiali e false, e cose utili vere e nuove. Alcune idee di Voltaire sull'amministrazione, alcuni princìpi di alta politica di Montesquieu, alcuni metodi di educazione e soprattutto alcune censure delle massime correnti sull'educazione in Rousseau, sono di tale evidenza che hanno trionfato di ogni opposizione, e bisogna render loro giustizia, ma questa giustizia sarebbe stato bello che fosse stata loro resa immediatamente, e da quelli che confutavano il falso de' loro scritti.
Rousseau, parlando nelle sue confessioni della risposta ch'egli fece al libro del re Stanislao contro il celebre Discorso sulle Lettere, si vanta di aver saputo nella critica del re distinguere i passi che erano scritti da lui, e quelli che appartenevano al P. de Ménou gesuita che aveva aiutato il re nel lavoro, e di aver fatto man bassa sulle frasi che gli parvero essere del P. Ménou: tombant sans ménagement sur toutes les phrases jésuitiques, je relevai chemin faisant un anachronisme que je crus ne pouvoir venir que du révérend. Gli apologisti dovevano porre ogni studio a fare un discernimento più importante e più generoso nelle opere dei filosofi, separare cioè diligentemente il vero dal falso, e tombant sans ménagement su questo, rendere al vero gli omaggi che gli son sempre dovuti. Era un dovere di giustizia e di riconoscenza, ed era anche un mezzo per mostrare che l'imparzialità e la gentilezza e l'amore della verità sono naturalmente uniti alla religione. Si sarebbe veduto allora che non era [lo spirito di] partito che moveva a combattere l'errore; e le verità riconosciute in quelli scrittori non darebbero autorità ai loro concetti in fatto di religione.
Un'altra attenzione era pur necessaria, e non si è sempre usata, a quel che mi pare, ed era l'estrema delicatezza che si doveva porre in opera riguardo alle persone. La religione ebbe per una gran parte del secolo XVIII la forza con sé: gli oppositori posero quindi in opera ogni astuzia per attaccarla senza esporsi a rischio di persecuzioni: quindi il rispetto espresso per la fede in otto o dieci frasi di libri tutti destinati a combatterla, quindi il modo indiretto di stabilire massime anti-evangeliche senza nominare il Vangelo, protestando sempre di stare entro i limiti di una filosofia umana. Il veleno era nascosto in quei libri, mostrarlo era mettersi a rischio di fare il delatore, si dovea quindi usare una gran diligenza, una nobile astuzia per illuminare i fedeli, per impedire il trionfo dell'errore senza manifestare la malizia dell'errante. Ma pur troppo l'effetto della forza è tanto contagioso, che è troppo difficile che l'uomo, che può ricorrere ad essa per atterrire il suo avversario, non se ne valga. Questa attenzione era tanto più necessaria che lo stato di depressione in cui talvolta si trovarono i nemici della religione e la potenza dei suoi difensori era una tentazione per gli animi gentili a valutar più gli argomenti di quelli, e a chiudere gli orecchi alle difese. Quando Monsig. di Beaumont, Arcivescovo di Parigi, Duca di Saint Cloud, Pari di Francia, Commendatore dell'Ordine dello Spirito Santo, ecc., pubblicava una Pastorale contro G.G. Rousseau cittadino di Ginevra, povero, infermo, fuggitivo e proscritto, che effetto non dovevano fare nell'opinione pubblica i riclami non solo, ma gli argomenti di quest'ultimo, quali si fossero! M'ingannerò, ma credo che quando la religione fu spogliata in Francia dello splendore esterno, quando non ebbe altra forza che quella di Gesù Cristo, poté parlar più alto, e fu più ascoltata; e almeno coloro che sono disposti a pigliare le parti degli oppressi, ebbero contro di essa un pregiudizio di meno: il linguaggio de' suoi difensori ebbe tosto i caratteri gloriosi di quei primi che la professarono, quando il confessarla non portava che l'obbrobrio della croce.
Mi sembra che tre classi d'uomini abbiano (benché con gran differenza) avuto il torto e fatto danno alle idee della religione: 1° Quelli che unirono cose diverse; 2° Quelli che attaccarono tutto il complesso; 3° Quegli che sostennero e lodarono tutto. Scrittori ai quali non si può negare l'ingegno senza sciocchezza, né la retta intenzione senza calunnia, hanno giustificate, vantate, considerate come effetto di sapienza profonda cose che venivano da corruttela e da cattiva amministrazione, hanno riproposte cose di tempi andati che a quei tempi erano detestate pubblicamente come abusi da uomini venerati allora, venerati adesso, e venerabili sempre.
Benché sia facile l'intendere che gli esempi renderebbero più interessante, ed ecciterebbero l'attenzione, molte ragioni ci obbligano ad astenerci dal moltiplicarli. Non si deve sempre pretendere che uno dica molto, basta che non dica nulla di cui non sia convinto. Del resto il lettore che non ha cominciata la sua lettura in questo libricciuolo saprà facilmente dove trovare gli esempi importanti delle verità e degli errori. Da lungo tempo, se è lecito usare di questa similitudine, la letteratura originale è in un sol luogo; là bisogna cercare i grandi argomenti e i grandi modelli, le grandi bellezze e i grandi difetti, e spesso si trovano in un sol uomo e in un sol libro. Tutto il resto è imitazione, commento, o critica.
Si ricordino che l'avversione del mondo alla religione si appiglia ad ogni pretesto, e quindi bisogna usare la più gran delicatezza, porre il più attento studio a non dare pretesti contro la religione: ora uno dei più forti è quello che quelli che la predicano, resistono a verità riconosciute, e vi resistono per motivi di religione. Certo gli uomini sono obbligati a conoscere la legge, a distinguerla dalle aggiunte che vi fanno gli uomini, ma perché render loro più difficile quest'obbligo, perché non portarsi invece nel punto dove si uniscono la ragione e la religione, per mostrare a quelli che cercano il vero dove deggiano fermarsi? La prevenzione, l'ostinazione, il fanatismo, l'impazienza dell'esame sono spesse volte le armi con cui si combatte la religione, bisogna che non si possano trovare mai nelle mani di chi la difende; bisogna rassicurare quelli che sono affezionati ad una idea vera e generosa, che la religione non gli domanderà mai di rinunziarvi. Ah, i sacrifici ch'ella esigge non sono mai di questo genere. « Ma si dovrà esporsi alla disapprovazione di taluno, di cui converrà combattere gli interessi e i pregiudizi. » Eh quando mai simili scuse furono ricevute nella Chiesa? « Si dovrà per questo stare al fatto delle opinioni correnti, ingolfarsi in istudi profani, mischiarsi alle discussioni degli uomini senza sposare le loro passioni, senza lasciarsi strascinare dal loro entusiasmo. » Eh! i promulgatori della religione non hanno essi operato a questo modo? non si son fatti tutto a tutti per guadagnar tutti a Cristo? Tutto bisogna intraprendere, sottoporsi a tutto, piuttosto che lasciare prevalere l'opinione che la religione sia contraria ad una verità morale, piuttosto che permettere che i figli del secolo si vantino di essere in nulla (intendo sempre delle scienze morali) più illuminati che gli allievi di Cristo. Quando si vogliono opporre agli increduli i buoni effetti della religione, non si enumerano forse le istituzioni e le idee grandi e utili trovate o divolgate da uomini religiosi e dal clero in ispecie? Perché dunque non ricordarsi che quegli stessi trovarono degli ostacoli allora? perché porne dinnanzi a quelli che gli imitano? Si sono anche troppo vantati i servizi resi dagli ecclesiastici alle scienze esatte; servizi che non possono rendere che togliendo al loro ministero una parte di quelle cure che tutte gli hanno promesse. E non si è forse abbastanza reso giustizia ai vantaggi resi da ecclesiastici alle idee morali. Per citare un esempio solo, non si potrebbe forse asserire che la moderna politica è stata fondata da Fénelon in un libro, che pel cattivo gusto dominante nel suo secolo (sia detto con buona licenza) è rivestito di forme gentilesche, ma il cui fondo è in tante parti cristiano? Ah non si lascino mai gli ecclesiastici antivenire nell'esporre una idea conforme alla vera dignità dell'uomo, e sopratutto alla umanità, al rispetto per la vita e pei dolori del prossimo. Si esamini, si studi, si combatta il falso, non dico si conceda, ma si predichi, si stabilisca il vero; il mondo non si raddrizzerà, ma voi avrete fatto il vostro dovere, ma gli animi retti non avranno più pretesti per non ascoltarvi, ma ad ogni opposizione dello spirito del secolo con quello della religione risulterà, non solo che la Chiesa ha sempre ragione, ma che hanno sempre ragione quelli che si gloriano di tenere e di diffondere gli insegnamenti della Chiesa.
Questa è una delle tacce che più frequentemente le si danno ai nostri giorni. Strana taccia alla Chiesa dei martiri! Lascio da parte che le fu data tante volte la taccia di portare alla sedizione, che questi due rimproveri contraddittòri le sono stati talvolta fatti dagli stessi uomini, perché questi la trovarono in diverse occasioni sempre in opposizione ai loro desideri ingiusti. Aspiranti al potere chiamarono servile quella religione che condannava i mezzi violenti e illegali, per cui volevano impadronirsene, giunti al potere chiamarono indocile quella religione che insegnava che bisogna obbedire a Dio più che agli uomini. Accusando doppiamente la religione questi l'hanno giustificata da tutti gli eccessi. Lascio da parte che una religione che insegna a sprezzare quelle cose di cui gli uomini si valgono per farsi servi gli altri, tende a mantenere ognuno nella libertà e franchezza d'animo necessaria ad ognuno per fare il suo dovere. Ma questa taccia di servilità le vien data perché non si esaminano tutte le sue prescrizioni: basta leggere le Scritture e raccogliere tutto quello che in esse è prescritto, comparare tutte le istruzioni relative alla politica, per vedere che tutte hanno per fine la giustizia, la pace, l'ordine, la moderazione e la magnanimità, la pazienza e il coraggio, e nessuna la servilità. Si consideri tutta la legge cristiana, e risulterà anzi che l'adempimento di molti precetti è incompatibile con essa. Pietro e Giovanni risposero al Sinedrio, che intimava loro di non parlare né insegnare nel nome di Gesù: Se sia giusto dinnanzi a Dio l'ubbidire piuttosto a voi che a Dio, giudicatelo voi (Atti, C. IV, 19). Si rifletta quanti sono questi casi in cui il comandamento degli uomini è opposto a quello di Dio. È proibita dalla legge di Dio ogni cooperazione volontaria all'ingiustizia; ma nei casi difficili in cui bisogna disubbidire a Dio o agli uomini, ci sembra di essere disobbligati da questa proibizione, si cita la necessità, si contrappone la prudenza. Dimodoché pur troppo vogliamo il coraggio soltanto quando è necessario per secondare un'impresa, per tentare un vantaggio, ma soffrir soli, soffrire tranquillamente, e col solo conforto di soffrire per la giustizia, e senza applauso, ci sembra quasi una virtù chimerica, tanto siamo affezionati alla terra! Ma riconosciamo almeno che la religione non porta alla servilità, che essa anzi vuole il coraggio il più raro, il più tranquillo, e che non porta ordinariamente pericoli che a colui che lo mostra; riconosciamo che la servilità è tutta di quella prudenza umana che la religione esclude da tutte le cose dove il dovere è chiaro. L'adulazione è, secondo la legge di Dio, un peccato (se non altro come menzogna), e chi non sa quanti sofismi ha inventato il mondo per giustificarla?
Il mondo giustifica talvolta le cagioni che producono i mali e gli aggravano, e colla gravità dei mali giustifica poi le violenze o le perfidie commesse per liberarsene. Quando Lorenzino de' Medici palpava e assecondava empiamente e vilmente il Duca Alessandro, adduceva in iscusa che era utile l'ingannarlo: infame scusa! e quando poi lo ebbe empiamente e vilmente scannato, si vantò di aver liberata la patria. La religione non ammette ragionamenti contro il precetto; perché il precetto è eterno e universale; chi lo ha posto ha preveduto tutti i casi possibili, e le ragioni che si inventano contro esso non possono essere che ingiuste. I casi straordinari sono anzi quelli in cui bisogna aver più presente la legge, perché appunto gli interessi e le passioni sono più forti allora.
Ma si oppone: se si volesse stare a questi princìpi, che si potrebbe mai fare? Ah! questi princìpi non si seguono, ma intanto che cosa si fa? Ma intanto gli uomini ottengono il fine che si propongono? o non hanno invece per lo più tutti i mali, senza la consolazione di aver fatto il loro dovere?
Insomma quegli che dicono che la religione favorisce il potere ingiusto e violento, si figurino questo potere cinto da uomini religiosi, e pensino se non troverà [esso] ostacoli da tutte le parti. Poiché ad ogni ingiustizia che comanda, troverà una ripulsa; quando interrogherà per avere una approvazione, sentirà invece una verità. Ma, si dice: figurarsi una moltitudine d'uomini che segua fedelmente queste regole, è un sogno. Sia pur così; ma si confessi che questo rimprovero non può stare con l'altro, perché o la dottrina è efficace, opererà effetti conformi al suo spirito, o non lo è, come si accusa di render gli uomini servili? ma si confessi che l'unica censura che si fa alla morale della Chiesa, è ch'ella sia troppo bella e sublime, perché si possa sperare che noi, feccia d'Adamo, siamo tutti per seguirla; si confessi che di tutti i motivi che si ponno inventare per sostituirle un'altra dottrina morale, il più frivolo e assurdo è quello che essa non provegga abbastanza alla dignità umana. Bisogna giudicare una dottrina dalle sue prescrizioni e dagli effetti che produrrebbe se fosse universalmente tenuta: opporre ad una dottrina provata ottima, che gli uomini non la tengono universalmente, che serve? purché non si possa provare che dovrebbero seguirne un'altra. Non serve ad altro che a confermare la verità di questa dottrina, nella quale la frequente trasgressione di essa è tante volte predetta. Basti che se gli uomini si diportassero secondo essa, ne verrebbe il migliore ordine possibile, basti che potrebbero farlo, basti che non lo fanno per motivi che essi stessi condannano, quando si vogliono ridurre ad un principio generale.
A questo si replicherà ciò che è stato ripetuto in tanti scritti, che, essendo appunto il mondo diviso in buoni ed in tristi, la religione assicura il trionfo di questi togliendo ai buoni molti mezzi per combatterli. In questa obbiezione sta il vero punto di opposizione tra la morale del mondo e quella del Vangelo. Il mondo in ultimo propone per fine dell'uomo il conseguimento di alcuni vantaggi temporali; il Vangelo invece, ponendo il premio nell'altra vita, non dà a questa altro scopo che l'adempimento della legge. Ora da Adamo in poi si è sempre veduto che alcuni uomini, sorpassando la legge, hanno procurati a sé molti vantaggi, e ne hanno privati gli altri. A questi talvolta è tolta ogni speranza di ricuperarli, talvolta lo possono con mezzi comandati o consentiti dalla legge divina, talvolta lo potrebbero passando essi pure sopra la legge. Quando si è a questo, la questione si riduce a vedere se non vi siano certe leggi alle quali bisogna sacrificare ogni vantaggio temporale. Fatta la tesi a questo modo, non vi sarà alcuno che non confessi esservene taluna. Se si domanda per esempio se la vita sia da conservarsi a spese dell'onore, tutti gli uomini, son per dire, risponderanno di no. E così si dica di molti altri vantaggi ai quali ognuno converrà doversi rinunciare piuttosto che produrre gravissimi mali. È manifesto adunque che anche il mondo ammette in astratto il principio su cui è fondata la morale della Chiesa, che comanda di patire piuttosto che farsi colpevole. Se le cose che la Chiesa non permette, nemmeno per conservare i propri diritti, sono colpe, essa non farà che applicare un principio vero e riconosciuto. L'utile o il danno non deve stare sulla bilancia quando si voglia pesare la giustizia o l'ingiustizia d'una azione. Chi può sostenere che esista un sistema, in cui si combini sempre l'utile temporale col giusto? Regola generale: tutte le cose che sono contrarie ad una legge riconosciuta, e che si vogliono permesse come eccezioni a questa regola, sono illecite. Col sistema delle eccezioni motivate sul calcolo della utilità, si distrugge ogni idea di morale. Non si deve però lasciare di riflettere che queste infrazioni fatte per un principio di diritto e di virtù (oltreché nessuno può assicurarsi della purità delle sue intenzioni quando si regola pel proprio vantaggio contra la legge), queste infrazioni, dico, sono per lo più non rimedio ai mali esistenti, ma nuovi gravissimi mali, e l'ammetterle in principio sarebbe un togliere ogni forza ai princìpi di morale per cui si mantiene qualche ordine su questa terra. Se per esempio si ammettesse che è lecito il mentire al mentitore, ne verrebbe che la verità non si troverebbe più nemmeno sulle labbra degli uomini onesti. Se riconosciamo che il complesso della morale evangelica porterebbe al miglior ordine, abbiamo tutto il torto nel non volerla noi seguire nella parte che tocca a noi. Se una porzione d'uomini l'abbandona, imitandoli noi non facciamo che allontanare di più quest'ordine. Se quelli che la lodano, che dicono di desiderare di vederla posta in pratica, non sono i primi a seguirla, certo il suo stabilimento sarà sempre un sogno. E se si vede che i motivi che i migliori adducono per francarsi da essa, si riducono a un solo, cioè che nello stato reale della società questo costerebbe troppo, non si potrà cavare la conseguenza, che uomini che temono tanto ogni svantaggio temporale non hanno diritto di parlare di dignità morale, e non è da stupirsi che sieno ben lontani dal sentire quanta ve ne sia in una dottrina tutta fondata sul sacrificio temporale di ciascheduno?
Conchiudiamo che ogni potere ingiusto, per far male agli uomini, ha bisogno di cooperatori che rinuncino ad obbedire alla legge divina, e quindi l'inesecuzione di essa è la condizione più essenziale perché esso possa agire. E che la legge divina predica a tutti gli uomini la giustizia, e se a quelli che la vogliono seguire non propone in molti casi che la pazienza, propone il solo mezzo ch'essi abbiano perla loro felicità, perché tutti gli altri, facendoli rei, li fanno per conseguenza abbietti ed infelici.
E si osservi da ultimo che considerare la pazienza come ina virtù che porti alla debolezza, è un considerarla molto eggermente, perché questa virtù, educando l'animo a superare i mali, lo rende più forte ad affrontarli quando sia necessario per la giustizia; mentre l'insofferenza che trasporta l'uomo alla violenza lo fa poi condiscendente quando vi sia un mezzo di sfuggire i mali, sacrificando il dovere.
Forse si opporrà a queste ragioni che nella Chiesa molti adulatori insegnarono la servilità, e pretesero di consecrarla coll'insegnamento delle Scritture. Pur troppo, ma io m'appello a tutti quelli che sostengono una causa giusta e generosa, e domando loro: sareste voi contenti che la vostra causa fosse giudicata dalle opinioni o esaggerate, o interessate, o fanatiche di alcuni che pretendono difendere la vostra stessa causa? E quando i vostri avversari vi oppongono queste opinioni e questi eccessi, non riclamate voi contro questo giudizio, non dite voi che è dai vostri principi che bisogna giudicarvi? E perché giudicherete la religione dalle mire degli adulatori? Essi hanno detto ai potenti che la religione era loro utile perché favoriva ogni esercizio della loro potenza, mentre dovevano dire ai potenti: che la religione è loro utile perché gli può guidare alla salute, perché posti nella situazione la più pericolosa hanno più d'ogni altro bisogno di guida e di soccorso, perché, oltre la miseria loro propria, la bassezza degli altri cospira ad ingannargli e a perderli.
Tutti siamo pur troppo inclinati a considerare ogni cosa come un mezzo ai desideri nostri temporali, e i potenti hanno pur troppo una tentazione più forte di tutti a questo; quella potenza che tanti esaltano, che tanti invidiano, sembra al più di essi una cosa di tanta importanza che tutto le diventa accessorio, e la religione stessa, cioè la cosa più principale che l'uomo possa concepire, si subordina talvolta nelle loro idee a questo loro idolo. Non è da stupirsi quindi, se adulatori gli abbiano secondati in ciò, se abbiano detto e ripetuto a pochi uomini che sono al pari degli altri strumenti nella mano di Dio, che tutto era per loro, se quella religione che è istituita pel perfezionamento di tutti, per lo stabilimento delle verità morali, per la vittoria dello spirito sulla carne, essi hanno voluto far credere che fosse destinata principalmente a far godere alcuni uomini più tranquillamente di un potere che finisce al sepolcro. Non bisogna stupirsene, ma bisogna esaminare se la religione secondi queste interpretazioni, se quelli che le hanno fatte, rappresentassero sinceramente lo spirito della religione. Se si trova che essi non presentassero mai che alcune parti separate dal gran sistema cristiano, che scelsero per parlarne i tempi in cui queste dottrine potessero portare vantaggi senza pericolo, in cui non incontrassero la contraddizione che di quegli che non possono nulla, che evidentemente rappresentassero la religione come secondaria agli interessi temporali, sarà evidente che non devono essere considerati come i suoi interpreti. Ma perché in grazia di questi dimenticheremo noi la lunga successione di cristiani coraggiosi che seppero non solo astenersi dalla adulazione, ma dire il vero con pericolo? Perché dimenticheremo quei tempi in cui l'adulazione non era più una speculazione di alcuni cortigiani, ma l'entusiasmo di nazioni intere, e nei quali è forza cercare delle prediche e dei libri di pietà per rinvenire una prova di coraggio, per sentire che l'idea della dignità umana non era del tutto perduta?
Dando una occhiata ai primi tempi del Cristianesimo, una delle cose che colpisce più nei cominciamenti di quell'epoca divina, si è la immensa superiorità di lumi nelle idee morali degli Apostoli su tutti i popoli a cui essi andavano a portare quella luce che si è diffusa per essi nel mondo, quella luce da cui vengono tutti i raggi di verità di cui il mondo si fa ora bello, per cui si pretende tanto illuminato da non aver più bisogno di ascoltare i loro successori, che dico! la dottrina eterna che essi predicarono. Si veda S. Paolo dinnanzi all'Areopago, si veda, nel principio della sua Epistola ai Romani, e in ogni altro luogo dov'egli mostra la vanità, e l'insussistenza, e l'irragionevolezza della dottrina etnica; si veda da che alta sfera egli parla; come abbraccia tutto il sistema d'errore per atterrarlo, come scorge in esso i punti principali di assurdità, e di contraddizione, che viste generali per condannare, che grandi principi per stabilire la dottrina ch'egli vuole sostituire, che è certo di sostituire al gentilesimo. Questa superiorità della dottrina cristiana alla etnica non è messa in dubbio da alcuno; chi la volesse negare tenti un poco, non dico di persuadere, ma di persuadersi di alcuno di quei sistemi anteriori o contemporanei al Cristianesimo: si parla dei loro autori come di uomini grandi, si è parlato anche pur troppo degli Apostoli come di uomini da nulla, ma si risusciti una di quelle dottrine che essi hanno abbattute, si trovi una società che la addotti.
È ammesso quasi universalmente che questa superiorità di lumi del corpo dei ministri della Chiesa abbia esistito non solo nei primi tempi del Vangelo, ma anche in molte altre epoche posteriori, nelle quali si conviene che i preti furono, come si dice, alla testa della civilizzazione morale delle nazioni. Ma io affermerò contra l'opinione di molti un fatto, il quale ecciterà senza dubbio le risa di molti: siccome però colle risa sono per lo più accolte tanto le grandi verità quanto i grandi errori, non lascerò per questo di parlarne per quelli che amano più di esaminare che di ridere, pregando chi si compiace di leggere, di attendere al preciso senso della mia proposizione, e a tutte le condizioni con cui è esposta. Dico adunque che chi ammette il Vangelo, deve riconoscere che i preti non hanno mai perduta questa superiorità di lumi nella morale, che il corpo dei preti insegnanti in chiesa è stato sempre ed è più che mai la parte più dotta, più illuminata, più ragionatrice delle nazioni. Ho detto: chi ammette il Vangelo, perché chi lo nega, non riconoscerà questa superiorità in nessun tempo, e con questi bisogna pigliare la questione da più alto, e cominciare a stabilire la divinità della rivelazione. Il che non è nel mio argomento, ed è stato mirabilmente fatto da altri.
Il numero degli scrittori che impugnano direttamente il Vangelo, che lo considerano come una favola, è diminuito d'assai al nostri giorni: gli avversari più noti della religione cattolica ricevono il Vangelo, professano una alta venerazione per esso, e gli argomenti tanto ribattuti e portati in trionfo nel secolo scorso per abbattere la rivelazione, gli riguardano come sbalzi d'ingegno superficiale, incapace di internarsi in una serie di idee morali, di animo non abbastanza serio ed amico del bello, di mente che stima contrario al senso comune tutto ciò che non ha in ogni sua parte una evidenza fisica, tutto ciò che per persuadere la ragione esigge che la ragione vi si fermi a considerarlo con tranquillità, e con serietà.
Vediamo ora che voglia dire credere al Vangelo. Essendo esso un libro rivelato da Dio, un libro che si dà per tale, che assicura di essere infallibile, credere ad esso vuol dire credere a tutto ciò che è rivelato in esso. Bisogna assolutamente che il Vangelo sia ispirato da Dio, o finzione umana: nel primo caso è forza riceverlo tutto, perché Dio non può ispirare un menomo errore. Chi venera il Vangelo dovrà dunque dire che il Vangelo è ispirato da Dio, e allora il punto di massima ragione, il punto più certo, più elevato dell'umano intelletto sarà il concordare col Vangelo: l'uomo sarà ragionevole e illuminato in proporzione della sua fede.
Ora perciò il corpo dei ministri della Chiesa è il più ragionevole ed illuminato perché è il solo che predichi e insegni tutto il Vangelo. Mi sembra che la conseguenza sia logicamente innegabile, non resta che a provare il fatto. Dovendo questa prova dedursi da una grande quantità di fatti, è impossibile portarvi la stessa evidenza; ma io spero che ogni animo spassionato, quando voglia esaminare da sé quello che io non posso che accennare, avrà la più piena persuasione della verità di esso.
È difficile leggere il Nuovo Testamento senza essere colpito da un carattere fra i tanti singolari di quel libro divino: l'unità della dottrina che risulta dai dogmi e dai precetti in un modo meraviglioso. Tutto è legato, tutto è corrispondente, tutto è desunto da princìpi d'un solo genere. La morale vi è fondata sul dogma, il che fa che il sentimento è unito al raziocinio, che è il solo mezzo per dare alla morale tutta l'autorità di che ha bisogno per persuadere gli uomini. Un sentimento non ragionato piacerà per la sua bellezza, ma non resisterà agli argomenti contrari, desunti dal raziocinio, perché vi è nell'uomo una forza che lo costringe a discredere e ad abbandonare tutto ciò che è falso. Non è nel Nuovo Testamento comandato un sentimento di amore e di odio, senza che si trovi un dogma per cui questo sentimento si dimostra ragionevole. Lodare la morale evangelica senza credere il dogma, non è altro che ricevere conseguenze senza ammettere i princìpi. Perché, a cagion d'esempio, l'obbligo di perdonare in ogni caso e di amare i nemici sia ragionevole, conviene che il danno e l'ingiuria ricevuta non sieno un un male; e questo dogma rivelato dal Vangelo è il fondamento del precetto.
Ora questo sistema di parti inseparabili, domando io, dove si sostiene, dove si predica tutto intiero se non nelle chiese, da quale società se non dai preti? Nei libri di morale filosofica forse? o nei discorsi degli uomini? Basta fare attenzione un momento agli uni e agli altri, e aprire il Vangelo, per essere obbligati a confessare che sono due sistemi affatto diversi, che chi non avesse altronde cognizione del Vangelo, è impossibile che ne ricevesse idea, dal più gran numero di quei libri e di quei discorsi. Gli omaggi al Vangelo che si trovano nella maggior parte dei libri filosofici (si sottintendono sempre alcune poche e debite eccezioni) sono in aperta contraddizione collo spirito del Vangelo, e quei libri sono d'altronde pieni di asserzioni opposte letteralmente ai dettami del Codice che lodano. Perché lo lodano in quanto lo considerano conducente a certi loro fini, a cui lo vogliono subordinato: il Vangelo come un mezzo, il Vangelo che non si può più concepire se non è l'unico fine. Questi elogi si possono ridurre in gran parte ad un discorso di questa sorte: « Non si può negare che tu, o religione di Cristo, non sii stata e non sii di molta utilità in questo mondo. Tu insegni, e comandi, la pazienza a quelli che sono privati di tanti vantaggi della vita; e chi sa come andrebbe il mondo se essi si accordassero un giorno a non essere più pazienti? Tu comandi di restituire a colui che nessuno può sospettare di aver rapito l'altrui, la tua voce si fa sentire dove non giunge il braccio della legge. Nei tempi di rozzezza, tu hai raddolciti i costumi, tu hai create istituzioni di misericordia, tu hai dato ad alcuni uno zelo, un eroismo di carità inconcepibile a chi non conosce i tuoi impulsi e le tue promesse, e la società ti deve esser grata di questo. Tu hai conservate le lettere nel tempo della barbarie, e se noi leggiamo Cicerone e Virgilio, questo è uno dei tuoi più bei benefici. Tu hai promosse le arti: qual genio senza di te avrebbe potuto immaginare nella pittura l'ideale della bellezza e della santità? quale altra religione avrebbe dati i soggetti di tanti capi d'opera? V'è in noi una disposizione fantastica che ci porta a desiderare e a rappresentarci qualche cosa al di là del tempo che conosciamo e della terra che abitiamo, e tu accontenti, questa disposizione, e lusinghi così la mente quando gli oggetti terreni fanno poca impressione sopra di essa. Tu diminuisci i mali degl'infelici: tu arricchisci l'animo degli sventurati con un tesoro inesauribile di cui tu hai la chiave, colla speranza; e gli altri devono tanto più lodarti di ciò, ché la speranza che consola gli affitti non toglie nulla a quelli che sono nella gioia. Altronde chi può mai tenersi certo di esser sempre avventurato? la prosperità, la salute, la gioventù, la ricchezza sono beni che devono certamente abbandonare, quelli che li posseggono; e chi può assicurarsi che la sua vita non duri più di essi? In questo caso ognuno deve contare sulle tue consolazioni, ed è sempre dolce il pensare che quando si sieno perduti, tu ci puoi ricordare che erano vanità, e che l'uomo è creato per un'altra felicità ».
A questo mi pare che la religione risponda: « O uomini troppo attaccati alla terra: certo da me vengono questi effetti che voi dite, perché tutto quello che viene da me deve condurre all'ordinato ed al bello; ma voi, col lodarmi di questi benefìci, date a divedere di non conoscermi e di non amarmi, perché dimenticate il primo e solo importante che io posso e voglio farvi, ed è quello di condurvi al fine beato per cui siete creati, di farvi simili a quei santi che voi lodate, di tendervi un mezzo di quei perfezionamenti che voi ammirate. Voi mi approvate negli altri, e non volete che quei soli beni che io posso farvi per mezzo della fede altrui, ma il vero bene che io voglio farvi è quello di dar la fede a voi ».
Io so bene che non tutti gli scrittori di filosofia morale si sono fermati a questa ammirazione del Cristianesimo che non vede nella eternità che un mezzo per il tempo, che subordina l'opera di Dio ai disegni degli uomini; so anzi che molti di essi si sono elevati al disopra di questi sistemi e gl'hanno eloquentemente combattuti. Rousseau non ha quasi lasciato opera dove non si trovi qualche omaggio alla rivelazione, nato non dalla considerazione di alcuni vantaggi temporali, ma da ammirazione profonda della sua bellezza, e della sua conformità colla parte più nobile e più vera della natura umana. E ai nostri giorni uno dei più splendidi intelletti che si sieno in ogni tempo occupati nella contemplazione dell'uomo, che abbiano portata negli scritti la parte più intima, più sottile, più spirituale del pensiero, Madama di Staël, come non si è ella sollevata sopra questi calcoli, come non ha ella forzato quei ragionatori che credevano di riposare alle mete del raziocinio, a levarsi, a ripigliare il cammino, e a correre per campi nemmeno immaginati da essi, per cercare una ragione ben superiore a quella di cui si erano accontentati. Cito due scrittori, e dei più noti, ma chi non sa che queste idee si trovano ora in cento libri? Ma in questi pure la contraddizione di esaltare il Vangelo, e di non predicarne che una parte, è sensibile quanto negli, altri, senonché quelli lo propongono come un mezzo di utilità, e questi come un mezzo di entusiasmo. Si apra il Vangelo, e si confronti con quegli scritti eloquenti: e si vedrà come nel Vangelo essi hanno fatto una scelta, come hanno coltivato qua e là un grano del seme della parola, e come ne lascian tanto perire soffocato fra i sassi e le spine. Io leggo bene che la croyance religieuse est le centre des idées, et la philosophie consiste à trouver l'interprétation raisonnée des vérités divines (Allemagne, Tomo III, pag. 31), io veggio l'ammirazione per le Scritture come a pensieri ispirati dalla Divinità, fonte di ogni intelletto, ma lo spirito delle Scritture, ma il fine che vi è proposto, ma i mezzi che esse comandano di porre in opera, ma il principio per giudicare della moralità di ogni azione, ma i pensieri predominanti ai quali tutto è diretto nelle Scritture, questo è quello che io cerco invano in questi libri. Il punto cardinale del Cristianesimo: andare a Dio per mezzo della Umanità di Gesù Cristo.
Che la sola cosa necessaria è di salvare l'anima sua, che dobbiamo renderci conformi alla immagine di Gesù Cristo, che non possiamo fare alcun bene senza la Sua grazia, che bisogna operare la sua salute con timore e tremore, che la Fede è necessaria per piacere a Dio: queste verità fondamentali della rivelazione, queste a cui Paolo e Pietro, e Gesù Cristo stesso riducono tutti i loro insegnamenti, si trovano esse in questi libri? Ah queste idee sono di quelle che Dio ha nascosto ai prudenti e ai sapienti, bisogna farsi piccoli per intenderle; ma se non le poniamo in cima ai nostri sistemi morali, l'omaggio che rendiamo al Vangelo è una contraddizione. E che? sentiremo che il Vangelo è un libro superiore all'intelletto umano, che è un dono di Dio, e vorremo poi fare le parti dei doni di Dio, e riceverne quello solo, che concorda con altri sistemi? Non è quindi da farsi meraviglia se in questi libri si trovino poi contraddizioni, se il Vangelo tanto lodato in una pagina, sia dimenticato affatto in un'altra; e in punti in cui tutto dovrebbe decidersi colla sua autorità, quando si sia ammessa una volta, se alle volte la contraddizione è tanto rapida che le idee opposte si succedono immediatamente. Cito fra mille un passaggio della stessa opera per tanti capi immortale: Ne faut-il pas pour admirer l'Apollon sentir en soi-méme un genre de fierté qui foule aux pieds tous les serpens de la terre? Ne faut-il pas être Chrétien pour pénétrer la physionomie des Vierges de Raphaël, et de S. Jérôme du Dominiquin? (Allemagne, Tomo III, pag. 405). Bisogna dunque poter farsi un entusiasmo pagano, e un entusiasmo cristiano secondo gli oggetti che si presentano? E si può esser cristiano, quando il sentimento della propria miseria, della carità universale, e della unica speranza in Gesù Cristo, morto per tutti gli uomini, non vinca nell'anímo nostro a riguardo di ogni nostro fratello, per quanto la condotta sua possa parere a noi ed essere abbietta e perversa? Io so che questo è l'improperio di Cristo. Ma bisogna confessarlo e glorificarsi in questo solo, o non citare il Vangelo.
Ho detto che le istruzioni e lo spirito di esso non sono fedelmente conservati, né in generale nei libri di morale filosofica, né nei discorsi degli uomini. Anche per questa seconda parte nulla è più facile che convincersene. Basta qui pure ascoltare, aprire il Vangelo, e confrontare. Chi volesse ridurre ogni discorso morale ai principi evangelici, passerebbe per un ipocrita o per un fanatico, almeno per un bigotto, e per un incivile. Poiché il mondo ha fatto quasi una regola di buona creanza della esclusione della religione dalle considerazioni morali sui fatti particolari, e si vede nell'inconcepibile e strano proverbio: non bisogna entrare in sagrestia, proverbio che si opporrebbe a chi pretendesse di considerare le cose morali dal solo lato vero e importante da quegli stessi che dicono in astratto esser questo il solo lato importante. Supponiamo che si parli di onori e di dignità, che da una parte si pretenda che i pericoli, i dispiaceri, le agitazioni, il timore di perdere, la noia, l'aumento dei desideri superano i beni che quelle arrecano, che altri sostenga che i beni superano i mali, che in questa questione entri uno che dica: Il punto importante è di vedere se le dignità e gli onori rendono più o meno facile la salute eterna, in che casi e con che condizioni possano condurre o allontanare da questo fine? quest'uomo non farà ridere per la sua semplicità? Non si dirà che ogni cosa ha il suo tempo, che è assurdo fare da predicatore in società? La quale proposizione stessa svela da sé la contraddizione e l'assurdità che contiene, perché viene a concedere che quelle cose dette nell'istruzione ecclesiastica sieno vere: ora nulla è più assurdo che il pretendere che una massima riconosciuta vera non si debba poi applicare al caso per cui è fatta, mentre la sua verità non consiste anzi che nel potere essere applicata. Fra gente colta che cerchi cagione di rallegrarsi, chi ricordasse la beata speranza, chi dicesse che il vero soggetto di gioia è che siamo stati redenti da Gesù Cristo si crederebbe fargli grazia a crederlo un pedante. È inutile moltiplicare esempi per un fatto troppo chiaro, che le idee evangeliche sono escluse quasi del tutto dai discorsi degli uomini, che non è lecito che parlarne qualche volta generalissimamente purché non si faccia mai applicazione, eccetto alcuni casi, p. e. di afflizione, nei quali, dopo sperimentati inutili i rimedi umani, non si stima sconveniente ricorrere a considerazioni di un genere superiore.
L'uomo che leggendo il Vangelo sente nel suo cuore la divinità di esso, che confuso ed afflitto di scoprire nel suo senso una contrarietà ad esso, vorrebbe almeno essere animato dal giudizio concorde degli uomini, che cerca invano questa testimonianza nei libri e nelle conversazioni degli uomini, e se ne duole, entri in un giorno festivo nella povera chiesa di un villaggio. Gli uditori rozzi, non esercitati certo a discussioni metafisiche; stanno però aspettando una voce che parli loro di quello che è più importante nell'uomo il più colto come nel più ignorante, dell'anima, del fine per cui siamo creati, della moralità delle azioni, della Divinità. Il prete interrompe il rito e si volge alla turba che aspetta il pane della parola. Sia egli un nobile ingegno ridotto ad esercitare le più nobili funzioni lontano dagli sguardi del mondo, e alla sola presenza di Dio, e di alcuni animi semplici, o sia rozzo egli pure, sia divorato dallo zelo della salute de' suoi fratelli, pieno della sublimità della legge che insegna, e esempio di fedeltà ad essa, o eserciti pur troppo con animo mercenario, e impaziente, il più alto dei ministeri; sia egli un vecchio disingannato dalle speranze del secolo, e desideroso dei riposi immortali, o un giovane che soffoca sotto la croce le passioni, e che passa, nell'insegnare e nel predicare la sapienza e la moderazione, gli anni dell'impeto e dei desideri; sia egli compreso della dignità di cristiano e di sacerdote, o pur troppo un uomo compiacente ai fortunati del secolo; qualunque egli sia, non importa, ascoltiamolo. Egli ha ripetute alcune di quelle parole che diciotto secoli fa portarono la luce nel mondo, un miracolo di beneficenza e di compassione dell'Uomo-Dio, una istruzione alle turbe, un rimprovero agli ipocriti e ai superbi, una parabola di consolazione o di un salutare spavento. Egli interpreta le parole divine, e le adatta ai bisogni del suo popolo, egli conforma ogni suo suggerimento a tutta la legge di Gesù Cristo, egli non dimezza i precetti, non transigge col mondo, chiama vanità, vanità tutto ciò che nella Scrittura è chiamato vanità, egli riduce tutto ad un principio, non si vergogna di nulla, la persuasione è sulla sua fronte; sa che predica dei paradossi, e non gli mitiga in nessuna parte, sa che gli uomini si regolano per altri motivi, e predica questi soli, e chiama tutti gli altri falsi e meschini, egli predica tutta la follia della Croce. O sommi filosofi! voi avete scoperte nel Vangelo perfezioni recondite e sublimi che quest'uomo non vi sospetta forse nemmeno, voi avete più ingegno, e più cognizioni, ma quest'uomo ha più logica di voi. Egli intende il Vangelo come è scritto, egli ha sentito che la ragione che riconosce la divinità di una legge, non ha altro a fare che anteporla ad ogni altro concetto, che insegnarla tutta. L'uomo che ama la religione, si consola nel vedere che la predizione di Cristo non è mancata, che il Vangelo si predica sempre, che quegli a cui Gesù Cristo gli ha detto di ascoltare, sono i più conseguenti e i più illuminati degli uomini, quando si tratti di quelle cose nelle quali è prescritto di ascoltarli. Io so che il prete che spiega le parole di vita, non è infallibile, che talvolta le passioni e gli errori suonano anche dall'altare, ma non voglio già sostenere che non si predichi mai altro che il Vangelo, dico solo che nella Chiesa soltanto si predica tutto il Vangelo. Miserabile contraddizione dell'uomo! Il prete stesso uscito di chiesa, misto ai figliuoli del secolo, partecipe delle loro passioni, talvolta il prete stesso contraddice a sé stesso, e applica i princìpi anticristiani del mondo alle azioni, assume il linguaggio generale intorno ai beni e ai mali, e dice talvolta beati, dove il Vangelo dice guai! e viceversa. Contraddizione miserabile, ma che serve a far più ammirare la mano di Dio nell'insegnamento generale e costante per bocca anche di uomini, su cui non suonerebbero le massime del Vangelo, se Dio non ve le ponesse, se l'imposizione delle mani non gli segregasse dalla cattedra dei derisori, e dalla congregazione dei malignanti. Il gran Massillon stesso, nel suo discorso di ringraziamento all'Accademia, parla come il mondo che ha condannato sì eloquentemente, e adopera le parole esprimenti idee della prima importanza in un senso tutto opposto a quello che hanno nei suoi sermoni.
Quando poi si pensa che questa dottrina, che non si ode intiera che nell'insegnamento ecclesiastico, è quella che ha abbattuto gli idoli per tutto il mondo, quella che ha soggiogata la sapienza Greca e l'orgoglio Romano, la dottrina che ha realizzato in migliaia di migliaia d'uomini un complesso di virtù che sembrava chimerico, quella dottrina che è stata per una lunga serie di secoli professata da uomini di alto ingegno, di animo vacata, e di ottima disciplina, quella dottrina che ha resistito a tanti attacchi dalla filosofia, la dottrina di un libro, al quale gli uomini colti e pensatori si vergognano di essere temuti avversi o indifferenti, si può a buon diritto conchiudere che la primazia dei lumi è presso coloro che la mantengono viva, e la diffondono colla predicazione universale.
Un penseur allemand a dit qu'il n'y avoit point d'autre philosophie que la religion cbrétienne (Allemagne, T. III,pag. 216). E che? vi vogliono tante meditazioni per giungere a scoprire che avendo Dio rivelato agli uomini tutte le principali verità della morale, non devono gli uomini dar fede ad altro? Questa dottrina s'insegna dagli Apostoli in poi, gli uomini i più rozzi la tengono fra i cattolici, i fanciulli la ricevono colle prime istruzioni.
Vediamone un esempio proposto. da Helvetius (Discours, II, Chap. XV, dove vuol dimostrare che i rimedi proposti da molti moralisti non producono che effetti parziali); esso fa benissimo al caso: La médisance est sans doute un vice, mais c'est un vice nécessaire; [parce qu'en tout pays où les citoyens n'auront point de part au maniement des affaires publiques, ces citoyens, peu intéressés à s'instruire, doivent croupir dans une honteuse paresse. Or s'il est, dans ce pays, de mode et d'usage de se jetter dans le monde, et du bon air d'y parler beaucoup, l'ignorant, ne pouvant parler des choses, doit nécessairement parler des personnes. Tout panégirique est ennuyeux et toute satyre agréable: sous peine d'étre ennuyeux, l'ignorant est donc forcé d'étre médisant. On ne peut donc détruire ce vice sans anéantir la cause qui le produit, sans arracher les citoyens à la paresse, et, par conséquent, sans changer la forme du gouvernement].
Chi con queste ragioni volesse sconsigliare un moralista cristiano dal predicare contro la maldicenza sarebbe molto simile a chi dopo una battaglia dicesse ad un chirurgo militare: Perché attendete voi a rimediare le ferite particolari di quei soldati? le ferite sono una conseguenza necessaria delle guerre, togliete le guerre dal mondo, distruggete l'ambizione dei principi, le passioni di tutti gli uomini, altrimenti voi non fate nulla.
Ognun vede ciò che il chirurgo potrebbe rispondere. Ma il moralista cristiano ha ragioni ancor più estese per provare la ragionevolezza e l'utilità dei mezzi ch'egli pone in opera per combattere la maldicenza; egli potrebbe rispondere: Voi mi fate osservare una causa generale della maldicenza alla quale io non aveva mai pensato, ora io non esaminerò s'ella sia o non sia causa; quello però che posso assicurarvi si è che non è la sola: e ve lo assicuro perché io ne conosco molte altre sulle quali ho meditato. Il solo rimedio che voi vorreste, che voi volete è incerto, difficile, complicato, e incompleto. Cangiare la forma del governo: è presto detto: ma a chi farei io questa proposizione? a quelli che tengono il governo? credete voi che gli persuaderei? ai governati? io non parlo dei rischi personali che ci potrebbero essere nel farlo: nessuno deve saper più d'un moralista cristiano che questa non è una obbiezione, ma io vi domando se nella vostra coscienza voi vorreste rispondere delle conseguenze di questa proposizione.
Voi volete che per ottenere un effetto io faccia agire una causa complessa che ne produrrebbe mille; la più parte dei quali io non posso prevedere: perché non vi sembra più ragionevole che io mi serva di mezzi diretti, e dei quali conosco le conseguenze, mezzi che so fin dove possono operare? Ma la vera ragione per cui non posso adottare questo rimedio è ch'io non lo credo un rimedio efficace, e ciò per la ragione ch'io vi diceva, cioè ch'ei non potrebbe in ogni caso toglier di mezzo che una causa, lasciando intatte tutte le altre che portano gli uomini a dir male. Volete ch'io ve lo enumeri? no, sarebbe una predica, e voi le potete trovare spiegate in cento libri. Vi farò invece osservare un fatto, che mostra ad evidenza che queste altre cause esistono, poiché operano anche dove è tolta quella di cui voi parlate. Credete voi che i ministri che hanno tanto a parlare degli affari di Stato non dicano mai male del prossimo? Credete voi che fra gli Ateniesi non vi fosse la maldicenza? Eppure non si può dire che non avessero parte al maneggio degli affari pubblici. Ma questo esempio è troppo difficile a verificarsi: ho inteso dire che presso una nazione moderna, dove i cittadini si occupano assai di affari pubblici, e sono tutt'altro che dediti alla pigrizia, non solo sussiste la maldicenza, ma è stata portata fino nei giornali, tanta è ivi la smania di parlare delle persone: altrove la storia dei fatti particolari non esce dal crocchio dei vicini e de' conoscenti, o al più dalle mura della città; ivi si diffonde per tutta la nazione. Ora supponete un moralista che volesse predicare a questa nazione contro la maldicenza, che potrà mai dire? E vi pare che si tolga una causa che non esiste? Egli dovrà cercare nella natura dell'uomo le cagioni della maldicenza, e nella religione le ragioni per determinare gli uomini a fuggirla: e questo è ciò che faccio io. Bisogna in fine venire a questo sistema, perché è il solo con cui si possa diminuire la forza delle cause perpetue. Non mi opponete che queste ragioni operano solo parzialmente, perché, che importa ciò, purché sieno le vere ragioni? Questo vorrà dire che i mali dell'umanità sono così gravi, che anche i veri rimedi non guariscono tutti gli uomini, ma non già che si debba per questo abbandonare i veri rimedi.
Del resto potete osservare (e questo è della più grande importanza) che i rimedi della religione tendono a produrre gli effetti più generali che si possono immaginare, perché non correggono un vizio, che migliorando tutto l'uomo morale, a differenza di tanti mezzi da voi proposti nel vostro libro, i quali talvolta lasciano intatto il principio di corruttela, e talvolta tendono manifestamente a diffonderne e ad accrescerne l'attività. Di qui si vede quanto ragionevolmente vuole Helvetius (Liv. II, Chap. XVI) che si riconoscano i moralisti che egli chiama ipocriti, dalla indifferenza con cui riguardano i vizi distruttori degli imperi, all'impeto con cui danno addosso ai vizi particolari. Come se il fine della morale fosse di conservare gli imperi, e non di perfezionare gli uomini, come se il parlare ad ognuno dei suoi propri mali non fosse il miglior mezzo di correggere tutta la massa degli uomini, come se non si dovessero porre in opera i mezzi possibili per rimediare ad alcuni mali sotto il pretesto che vi sono altri mali più generali. Coloro che avendo a parlare dei vizi che distruggono gl'imperi ne parlano con indifferenza, o che trattando della distruzione degl'imperi dissimulano i vizi che ne sono cagione, fanno male se per ignoranza, peggio poi se è per adulare i potenti o i pregiudizi dei loro contemporanei. Ma lasciare da parte i grandi effetti politici di alcuni vizi, e restringersi ad insegnare agli uomini a vincere le passioni e ad esser buoni e giusti, non è ipocrisia, è un uficio nobile non meno che salutare, è filosofia più profonda. Rintracciare l'occasione di certi vizi e di certe virtù nella direzione data dalle cause politiche ad una nazione, è una ricerca fondata che ha prodotte belle e importanti scoperte, le quali hanno finito e finiranno col distruggere molte istituzioni cattive: ma supporre in una o più di queste cause tutta la moralità degli uomini, immaginarsi che, tolto quell'inciampo che si ha sotto gli occhi, tutta la via diverrà piana, è dimenticare affatto la natura dell'uomo.
La facoltà di operare sugli uomini indipendentemente dalle relazioni politiche, mi sembra uno dei più bei caratteri di sapienza e di perpetuità della religione. I sistemi politici sono tutti complicati, e il sostenerli e l'attaccarli è impresa nella quale entrano troppo facilmente mezzi onesti e viziosi, e gli effetti che ne vengono sono e misti di bene e di male, e per lo più incalcolabili da quelli stessi che gli vogliono produrre. La vera religione doveva essere una guida all'uomo per operare rettamente in qualunque tempo e in qualunque sistema; essa deve dare mezzi per cui l'uomo che vuole esser giusto, lo possa essere, benché gli altri si ostinino a non esserlo, benché esistano cause che lo porterebbero al male: giacché queste cause non si possono togliere. Essa ha scelto di agire direttamente sopra l'animo di ognuno che la vuole ascoltare, perché questa azione è la sola che sia pronta, sicura, perpetua, ed universale. E si osservi che questa azione, mentre è indipendente dalle cause politiche, influisce però in bene sopra di esse, perché, portando gli uomini alla giustizia ogniqualvolta essa sarà ascoltata, cangerà anche le istituzioni quando sieno dannose. Su che è dunque fondato il rimprovero di Elvezio, che pretende che i precetti di moderazione raccomandati da moralisti, com'egli dice, declamatori e senza spirito, ponno essere utili a qualche particolare, ma rovinerebbero le nazioni che li adottassero? Certo, se tutte li adottassero, non sarebbero rovinate, perché, essendo tutte moderate, l'energia della difesa non farebbe più di bisogno. Ma, si dirà, appunto perché le altre non sono moderate, quella che volesse esserlo soccomberebbe. Questa supposizione è stata molto ripetuta, ma è ella provata? Consta veramente che una nazione moderata e giusta sarebbe meno energica delle altre? Consta che non si possa essere atti alla difesa se non esercitandosi alla offesa? Mi sembra che la storia provi tutto l'opposto. Ma, si dirà da ultimo, questa perfezione è una chimera. Ma la felicità fondata sullo sviluppo delle passioni è ella una realtà? Dove sono le memorie del contento nato dalla violenza? Vediamo nella storia l'inutile pentimento e le lagrime senza consolazione andar dietro alla moderazione ed alla giustizia? Son desse che si trovano ingannate dagli eventi? Son desse che ottenuto il loro intento diventano più inquiete e crucciose? La prima è una chimera per la renitenza degli uomini che potrebbero e non vogliono adottarla: la seconda è una chimera per la natura stessa delle cose.
Le leggi hanno un inconveniente necessario, ed è: che non possono creare un dovere senza far nascere un corrispondente diritto: bisogna quindi che per ottenere il loro effetto armino l'uomo contra l'uomo. La religione impone dei doveri ad una parte, senza dar diritti all'altra; comanda p. es. al ricco di dare il superfluo, senza conferire al povero il diritto di ripeterlo, comanda all'offeso di perdonare, senza che l'offensore possa pretendere il perdono. Da questa differenza consegue che la religione può prescrivere alcune cose bellissime ed utilissime che non possono prescrivere le leggi, perché i diritti che conferirebbero con ciò sarebbero cagione di gravissimi mali, e la legge ne sarebbe inapplicabile, o distruttiva.
La legge non deve parlare che quando abbia una quasi certezza di farsi obbedire: deve dunque avere la forza con sé: e, in quanto impone cose che non si farebbero spontaneamente, essa non comanda che ai più deboli; la voce della religione è sempre viva: essa parla ai più forti, a cui nessuna autorità umana potrebbe comandare, senza opprimerli od esserne oppressa; cioè senza disordini.
Le leggi, supponendole fatte con rette intenzioni, tendono alla giustizia ed alla tranquillità: due fini difficilissimi a conciliarsi, e sono quindi forzate di sacrificare il più sovente la prima alla seconda; la religione tende a condurre tranquillamente alla giustizia perché determina a fare dei passi verso di essa quelli che non possono trovare ostacoli a questo nell'altra parte, che anzi non ne ricevono che benedizioni: determina a cedere volontariamente.
Quegli che hanno scritta e contornata in tanti modi questa sentenza, hanno fatta alla religione una più larga testimonianza di quello che pensavano. Poiché hanno detto che v'è qualche cosa di necessario che i loro sistemi non saprebbero dare: e allora a che servono mai? hanno detto che i loro sistemi sarebbero dannosi se fossero universali, e che la loro divulgazione sarebbe pessima. Del resto questa asserzione mi sembra includere un falso supposto, cioè che i dotti e i potenti e i ricchi, quegli insomma che si intendono esclusi quando si dice popolo, non abbiano bisogno della religione. Se fra il popolo vi ha qualche miscredente, non si può supporre ragionevolmente ch'egli dirà: La religione è necessaria pei potenti, e pei dotti e pei ricchi? Questi riguardano la religione come necessaria nel popolo perch'egli si accontenti dello stato attuale, e quell'altro la vorrebbe in essi per determinarli ad avvicinarsi alla giustizia.
Il tempo e il progresso dei lumi hanno distrutte istituzioni orribilmente ingiuste, ma che nello stesso tempo erano mezzi di conservare la società: tale è la schiavitù degli antichi. Non si può considerare un momento la storia senza vedere che, tolta quella, il moto della macchina sociale è divenuto più complicato: poiché niente rende le questioni politiche più semplici che il silenzio forzato di molti: una parte è contenta dell'ordine delle cose, e l'altra, non può opporvisi: nulla di più quieto. Allora l'influenza della religione è divenuta tanto più necessaria, quanto le tendenze a rompere l'ordine erano meno contenute. Ma allora appunto lo stesso progresso di lumi rendeva impossibile la durata delle assurde religioni esistenti. Ma vi voleva una religione che comandasse la moderazione agli uni e la pazienza agli altri, e sopratutto una religione che potesse persuadere gl'intelletti i più rozzi e i più raffinati, la religione cristiana. Essa diventa necessaria in proporzione del progresso dei lumi. Dico necessaria alla società, non perché io creda ch'ella debba essere un mezzo: nessuna idea mi sembra più falsa di questa; ma per mostrare la sapienza della religione proporzionata a tutti gli stadi della società che è fatta per la religione.
La religione è necessaria per il popolo! Che omaggio rendono senza saperlo alla religione quelli che fanno questa confessione. Con ciò vengono a dire che è necessario, perché vi sia qualche ordine in questo mondo, che gli uomini abbiano certi princìpi di disinteresse, di forza d'animo, di superiorità alle passioni, di moderazione, di sacrificio, e che questi princìpi necessari il raziocinio non li può dare, che i loro sistemi non li sanno istillare, che questi sistemi per conseguenza sarebbero dannosi se fossero universali: e che pregiudizio di falsità per una idea morale non è mai il dire che la sua divulgazione sarebbe pessima. E se questa filosofia non sa dare appunto quello che è necessario, a che servirà ella mai? Del resto questa confessione nasce anche da un doppio errore, cioè dal credere che i dotti e i ricchi non abbiano bisogno della religione per loro medesimi, e che senz'essa esercitino tutte le virtù sociali. Ah! se quegli che si chiamano popolo adottassero un giorno la filosofia miscredente, che Dio non voglia, quanto è da credere che direbbero anch'essi: La religione è necessaria pei dotti e pei ricchi. Nella bocca dei primi questo significa: è necessaria una fede che persuada ai più che è loro utile di accontentarsi della ineguale divisione dei beni della vita. In bocca agli altri verrebbe a dire: è necessaria una fede che persuada ai pochi, che è loro utile di dividere più equabilmente questi beni.
Che distanza da questa dottrina a quella di chi disse: « Predicate sui tetti », e: « Io venni a portare il fuoco sulla terra, e che altro bramo fuorché s'accenda? » Immaginiamo degli uomini che lascino la patria europea, che intraprendano lunghissime navigazioni, che affrontino popoli selvaggi, che si espongano a perire nei deserti per bocca delle fiere, straziati da uomini feroci, per la speranza di adunarli, di farsi ascoltare da essi, e di predicar loro che il piacere temporale è e deve essere il fine delle nostre azioni!
Gli uomini si sono perfezionati abbandonando molte istituzioni che erano ingiustizie, e freno, come la schiavitù: a misura del loro incivilimento la religione è divenuta proporzione necessaria, la religione diventa necessaria a proporzione dei lumi.
I tratti coi quali è dipinto il carattere morale degl'Italiani moderni nel Cap. CXXVII della Storia delle Repubbliche Italiane, sono tali che è difficile ad un Italiano l'esaminarli spassionatamente, e considerare con tranquillità se quello sarebbe mai il vero ritratto della nazione di cui egli è parte.
Imponendo però silenzio, a quello che mi sembra, ad ogni parzialità nazionale, mi è sembrato che questa pittura fosse ingiusta. Ma io non ho creduto di ribattere le accuse fatte a questa infelice Italia che nella parte dove la causa di essa era necessariamente collegata con quella della religione. Questo argomento è già stato mille volte discusso, e quando una questione va troppo in lungo, quando da una parte e dall'altra si ripetono sempre le stesse ragioni senza riguardo alle ragioni opposte, si può esser certi che le passioni se ne sono impadronite, e allora i ragionamenti servono ben poco. Ma la persuasione appunto che le passioni abbiano la maggior parte in questi giudizi che si profferiscono sulle nazioni, mi ha condotto a fare alcune riflessioni generali sopra di essi, e a considerarli dal lato della morale religiosa.
Benché però queste riflessioni sieno fatte all'occasione dell'opera suaccennata, esse sono affatto generali: non vi è ad essa alcuna allusione indiretta; se mi occorrerà di citarla in qualche particolare, io lo farò espressamente con quella stessa lealtà, e con quei riguardi, che spero ogni lettore avrà riconosciuti nelle osservazioni precedenti.
Accade a molte massime di essere derise come triviali e troppo note quando si annunziano in astratto, e di essere poi tacciate di stravaganti e di raffinate quando si vogliono applicare ad un caso particolare: una tal sorte è da temersi per queste, ma forse qualche ingegno imparziale le degnerà di alcuna attenzione per l'intenzione retta e pacifica, e per lo spirito cosmopolita cioè cristiano, con cui mi sembra che sieno dettate.
Togliete da una serie qualunque di idee morali la sanzione religiosa, l'ordine ne è distrutto immediatamente, tutto diviene confusione e incertezza. Le verità morali della più alta importanza diventano un oggetto di discussione, i sentimenti dei quali il cuore non vorrebbe mai dubitare, che si tengono come il nobile patrimonio dell'uomo, quei sentimenti che ogni uomo pretende che gli altri suppongano in lui, a segno che il mettere in forse se uno gli professi è una ingiuria, diventano una ipotesi: gli uomini gli riconoscono allora a vicenda come una finzione convenuta, come una parte di educazione, come una tradizione ricevuta, ma spingete il ragionamento, cercate il fondamento, e non lo troverete.
L'assenza dei principi religiosi, dannosa in tutto, lo è grandemente nei rapporti reciproci fra le nazioni. La fratellanza universale degli uomini è una bella rivelazione del Cristianesimo. Sono diciotto secoli che nel bollore degli orgogli e delle avversioni nazionali san Paolo (Paul. ad Coloss. III, 11) invitava tutti a rivestirsi dell'uomo nuovo, dove non è Gentile né Giudeo, circonciso e incírconciso, Barbaro e Scita, servo e libero, ma tutto ed in tutti Cristo. La comune miseria e la comune speranza, un solo Salvatore per tutti, ed una patria immortale per tutti, sono idee che dovrebbero opprimere le rivalità e gli odi che, risguardando ai loro effetti ed alle loro cagioni, e alla durata delle vite che occupano, sarebbero ridicoli, se ogni traviamento di uno spirito creato ad immagine di Dio non fosse sempre un oggetto tristo e serio, se tutto quello che separa l'uomo dall'uomo non fosse sempre una grave sventura.
L'uomo riferisce tutto a sé stesso, e se ama qualche cosa, l'ama in relazione a quell'amore ch'egli ha per sé, e che vorrebbe che tutti avessero per lui. Queste sono verità molto volgari, ma che bisogna ripetere sovente perché questo stesso amore primitivo che regola le nostre azioni ci porta a dimenticarci che esso è il mobile di esse, e noi vorremmo potere assegnare tutt'altra ragione di quelle. Ma l'uomo sente nello stesso tempo la sua debolezza, e disperando della stima e della potenza esclusiva, entra in società coi suoi simili; allora l'amor proprio di molti si bilancia e si contempera. Ma in questa società non si sacrifica pur troppo che il meno possibile di questo amore esclusivo di stima e di potenza, e quindi viene che gli uomini lo trasportano ad un corpo, ad una società particolare, non lo estendendo ordinariamente che a quelli con cui si hanno comuni l'interesse e l'orgoglio. Un altro segno di miseria e di debolezza che l'uomo ravvisa in sé, è quello che gli sembra che l'eccellenza propria cresca col confronto, dimodoché quanto più gli altri si abbassano, tanto più egli si eleva ai suoi occhi e gli altrui. L'uomo dunque, trasportando alla società di cui fa parte questa sua disposizione, consente a riconoscere, anche senza esame, dei pregi in questa società, purché lo splendore di essa riverberi sopra di lui; giacché quando uno parla con orgoglio della sua nazione, che vuol dire quel noi ch'egli fa suonare tant'alto, che significa se non vi s'intende l'io? E questa disposizione è tanto universalmente riconosciuta che la parzialità per la sua nazione è una ingiustizia che non fa stupore, si sta in guardia contro i ragionamenti di uno che difende o esalta la sua patria; ma appena gli si appone a biasimo il farlo a spese della verità, si chiama un bel difetto.
Ma quell'altro sentimento che, facendosi diffidare del nostro merito assoluto, ci porta a deprimere l'altrui, noi lo trasportiamo pure in queste affezioni patrie, e siamo pronti a credere, a divolgare e a sostenere ciò che torni in biasimo delle altre nazioni. E in questo è pur facile il trovare nell'amor patrio l'amor proprio, se si osservi che quando poi uno si paragona coi suoi concittadini, non ravvisa in essi quelle perfezioní che suole vantare come ereditarie nella sua patria, e che questa solidarietà di stima è sempre più ferma quando vi sia il confronto con altre nazioni.
Questa è l'origine della maggior parte dei giudizi sfavorevoli che si fanno delle altre nazioni, e della facilità con cui sono ricevuti.
V'ha delle controversie inevitabili: condannarle tutte sarebbe lo stesso che dire che allorquando un errore si manifesti, bisogna permettergli di diffondersi senza combatterlo. Se non si disputasse che contro l'errore, quale cristiano potrebbe condannare una guerra sì necessaria, desiderare che si deponessero le armi della fede, che si venisse nella. Chiesa ad una pace che non sarebbe l'opera della giustizia e della verità? Ma perché dunque gli uomini i più zelanti della gloria della Chiesa gemono su queste controversie, le considerano come una delle piaghe più crudeli, come uno scandalo a quegli che sono fuori, e dai quali importa aver buona testimonianza? Perché per lo più il fine dei combattenti non è di porre in salvo le verità cattoliche, ma di combattere. Io so bene quanti uomini veramente amici della Chiesa e cogli scritti, e colla voce abbiano piante e svergognate queste empie dissensioni, ma se una voce debole e senza autorità, ma sincera può accrescere alcun poco l'orrore contro di esse, se il ricordare lo scandalo, e le derisioni dei nemici della Chiesa, se il mostrarne l'assurdità e la malafede può rallentare in qualche parte le animosità, risparmiare qualche ingiuria, ammorzare un sentimento di odio, togliere da questo vergognoso campo di battaglia un solo soldato di Cristo, io stimo che ogni pacifico e sommesso figlio della Chiesa debba intendere ad un'opera sì utile. Ben è vero che a torto i nemici della Chiesa pigliano scandalo di ciò, che a torto essi dicono: cominciate dall'intendervi fra di voi, e allora vi ascolteremo; mentre nelle cose dove tutti i cattolici vanno d'accordo, e sono le essenziali, non si curano però d'ascoltargli: non pensano che se essi volessero riconoscere la verità della religione, la gioia di tutti i cattolici sospenderebbe le dissensioni intestine, che l'azione di grazie sarebbe unanime, e che tutti i cuori si aprirebbero per stringerli nella carità di Cristo. Questo è vero: perché è vero che contro la religione non vi ponno essere che pretesti; ma tocca ai cattolici il darne? Certo non bisogna sacrificare la verità a nessuna cosa, nemmeno alla pace; ma qui non si tratta di sacrificare che l'odio, che la temerità, che la leggerezza; non fa nemmeno bisogna di un altro scopo per determinarci a questo sacrifizio. Ma quale sarà il criterio per distinguere tra le dispute sostenute per la difesa del vero e quelle che si fomentano per lo sfogo delle passioni? Dire che non si deve nelle dispute cercare altro che il vero, escluderne le prevenzioni, gl'interessi particolari, l'ostinazione è ripetere un principio del quale tutti convengono, ma dal quale tutti pretendono di non dipartirsi. Volete voi provare ad un uomo contenzioso ch'egli. non tiene le parti della verità, voi entrate nella disputa, voi vi fate parte, egli può dirne altrettanto a voi. Vi ha però alcuni princìpi semplici ed incontrastabili, ma troppo dimenticati, che applicati ad ogni caso confonderebbero quelli che perturbassero la pace della Chiesa: perché essi sarebbero costretti di confessare la verità di questi princìpi, ed essi hanno questo vantaggio che, quando uno se ne diparte, si può provargli che se ne è dipartito. Uno dei quali princìpi è questo: che non si debba disputare se non si conosce il punto della questione, le opinioni dell'avversario, l'errore e la verità. Supponiamo che prima di risolversi, a contendere, ognuno esaminasse sé stesso sopra questa condizione, che ad essa si richiamassero per preliminare tutti quelli che contendono che accusano che condannano, non è egli vero che novantanove centesimi di quelli che pigliano parte alle dispute dovrebbero ritirarsi?
Che se volessero ostinarsi a combattere, non sarebbero essi giudicati? chi conterebbe più il loro voto? chi oserebbe averli per ausiliari? Lo zelo, la persuasione, l'amore della verità si possono ostentare da chi non li sente in cuore, ma la scienza non si finge, e quando si pretende da chi decide su di una questione, da chi condanna altamente e con risolutezza il suo fratello, che esponga chiaramente l'opinione erronea di colui che condanna, la domanda è tanto ragionevole che non è possibile rigettarla, è tanto chiara che non è possibile eluderla.
Si riduca così il numero dei contendenti a quelli che sanno dove stia la diversità, a quelli che per le proposizioni espresse dai loro avversari, conoscono le opinioni di essi, o che si credono in caso di dedurle dai principi manifestati da loro; gli altri, se pure hanno voglia di disputare, attendano ad informarsi e a studiare, o si accontentino di pregare per gli uni e per gli altri, e chi dubiterà che le dispute non diminuiscano di quantità, di intensità e di durata? Chi dubiterà che la verità non possa più facilmente manifestarsi, quando si diminuisca il fracasso e l'urto delle passioni? Chi dubiterà che la moltitudine dei fedeli concorde nelle cose necessarie, e muta sulle dubbie che non ha esaminate, intenta a benedire e non a maledire, non presentasse uno spettacolo più dignitoso, più consolante, che non sia quello di uomini che uscendo dallo stesso tempio, che sperando nella stessa misericordia, che confessando la stessa miseria, si lacerano e si riprovano, senza saper perché? È raro che due persone di contrario parere si fermino nella quistione, cerchino pazientemente d'illuminarsi a vicenda, non sostituiscano le passioni agli argomenti; e che sarà quando le dispute saranno trattate da molti che non vi portano altro che le passioni, senza un solo argomento? Quindi tanti cuori che, non amando, rimangono nella morte, e non lo sanno; quindi le maldicenze senza rimorsi, quindi i giudizi sulle persone senza fondamento. Ma si dirà: la carità obbliga forse a consentire alle persone che errano nella fede? Dio liberi: la carità obbliga ad amarli, a compatirli, a pregare per loro e a dissentire da loro; ma l'errore sta appunto nel condannare quelli di cui non si conosce la fede; invece di denunziargli al giudizio altrui, avvicinatevi a loro, interrogategli, e vedrete forse che invece di gridare contro di essi, non vi resta che a piangere sopra di voi. Ma, si dirà ancora, la Chiesa non ha ella usato sempre di segnalare non solo gli errori, ma le persone? Sì, la Chiesa, perché ha l'autorità di farlo, perché ha il dovere di farlo, perché ha i mezzi di accertarsi della verità, perché gli pone in,opera. Ma voi non avete alcuna di queste condizioni, e questo è il vero punto di errore; voi credete di poter fare quello che compete alla Chiesa, di condannare gli erranti, e più ancora, perché voi credete di poterlo fare senza quelle formalità indispensabili, che la Chiesa stima essenziali all'esercizio della sua autorità sui suoi figli, prescindere dalle quali essa stimerebbe un dispotismo incompatibile colla legge stessa dalla quale il giudizio le è confidato. Essa ha avuta sempre questa cura di condannare gli errori, e di non segnalare le persone che quando fosse richiesto dalla giustizia e dalla necessità. Per questo essa ha sempre stimato necessario che contasse per vie legali, che la persona sosteneva l'errore, quindi ha sempre poste in opera le persuasioni perché lo abbandonasse, e, riuscendo queste inutili, essa con gemito e quasi a forza ha dovuto dire ai fedeli: non ascoltate quella persona perché la sua dottrina è opposta al testimonio della Chiesa. Quando p. e. la Chiesa anatemizzò Nestorio citato al Concilio e ostinato, ogni cattolico ha saputo quali erano gli errori di Nestorio, quali le verità cattoliche ch'egli impugnava: Nestorio aveva subìto un giudizio, era colpito da una sentenza, aveva tutti i caratteri di essere rigettato dalla Chiesa, ogni cattolico condannandolo non faceva che applicare il giudizio della Chiesa. Ma voi, voi fate il giudizio, e lo applicate, voi portate la sentenza senza autorità, e senza processo, voi credete forse secondare le intenzioni della Chiesa, ma chi ve le ha rivelate, chi vi ha costituito giudice? Se lo foste, dovreste temere che un odio secreto non facesse pendere la bilancia nelle vostre mani: e voi non siete giudice, e siete pieno di odio, e non temete? La Chiesa è tratta quasi dalla necessità a condannare i suoi figli, vi si riduce da ultimo, e piangendo, e voi cominciate dal condannare i vostri fratelli, e lo fate con ilarità e con indifferenza. Se vi si domandasse quali sono le prove che avete ch'egli erri, forse non potreste dir altro se non che: io l'ho inteso dire. Quando si pensa che questa è la sola risposta che noi porteremo alla interrogazione del Giudice infallibile, non so perché non tremiamo.
Ma gli uomini a cui sta a cuore la giustizia e la carità, perché si accontentano di questa risposta, perché non si credono obbligati, non dico a difendere il fratello che è condannato dinnanzi a loro, ma a domandare con che diritto, con che prova è condannato? Chi sa quale scoraggiamento non porti talvolta nell'animo dell'innocente l'udire un suono di riprovazione contro di lui non meritato? E perché servire a scoraggiare gl'innocenti? Perche non ricordarsi che la causa del fratello assente, che non ode e che non può rispondere, è confidata all'uomo che pretende ricevere un giorno il premio della giustizia? Essere testimonio tranquillo e volontario di un giudizio illegittimo e ingiusto, potrebbe essere lo stesso che divenirne complice. Non osare di rendere testimonianza all'uomo giusto è una debolezza anticristiana, è certo un dimenticarsi della fratellanza, e del coraggio cristiano. Così, per servire ad alcune passioni, si eludono tante cure che la Chiesa ha poste in opera acciocché dalle controversie ne venisse edificazione, più che scandalo, acciocché la verità trionfasse senza danno della carità. Essa ha prescritto l'esame, lo ha confidato a persone rivestite della sua autorità; essa ha voluto che l'errore si opprimesse col testimonio costante ed uniforme della Chiesa, e le forme stesse gravi, ponderate, placide e dignitose che essa impiega in questo giudizio, escludessero ogni idea di contesa. A questo le passioni sostituiscono un cicaleccio di accuse senza motivi, d'improbazioni, di declamazioni senza risultato qualunque.
V'ha di quelli che prendono parte alle dispute per amore del vero, che, combattendo i loro avversari, si guardano dall'ínterpretare odiosamente le loro intenzioni, dallo spargere dubbi temerari sulla loro fede, ma quanto è raro ch'essi pure non dieno scandalo ai credenti e ai miscredenti per l'acrimonia delle loro contenzioni! Quante volte lo scoprire errori nei loro avversari, invece di essere una cagione di dolore, diventa per essi una buona ventura! Quante volte non fanno essi vedere che il contendere coi fratelli, quand'anche sia necessario, è sempre un'opera piena di pericoli! Noi forziamo l'ingegno per cercare la soluzione delle cose astruse, mentre le idee più importanti sono rivelate manifestamente, mentre l'amore così chiaramente prescritto è così facile a risvegliarsi nel cuore.
Vi fu mai un tempo in cui fosse più necessario che la società cristiana si mostri ordinata e concorde come una schiera di prodi che combattono per una nobile causa, e che la conoscono? Vi fu mai un tempo in cui fosse più necessario che le tende d'Israello e i padiglioni di Giacobbe appariscano belli a coloro che salgono sulla cima del Phogor per maledirli? Ah possa questo avvenire! possano le maledizioni cangiarsi in benedizioni sulle loro labbra non solo, ma nei loro cuori, non solo per la gloria d'Israello, ma per la salute loro, ma dimodoché essi entrino in quel campo dove tutti sono accolti, in quel campo che non deve avere altri nemici che le passioni.