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OSSERVAZIONI SULLA MORALE CATTOLICA
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Alessandro Manzoni

 

CAPITOLO IV.

SUI DECRETI DELLA CHIESA

–  SULLE DECISIONI DEI PADRI  –  E SUI CASISTI.

 

Elle (l'Église) substitua l'autorité de ses décrets, et les décisions des Péres aux lumières de la raison et de la conscience, l'étude des casuistes à celle de la philosophie morale.... pag. 413.14.

 

La Chiesa fonda la sua autorità sulla parola di Gesù Cristo: essa pretende d'essere depositaria e interprete delle Scritture e della Tradizione; e protesta, non solo di non aver mai insegnato nulla che non derivi da Gesù Cristo, ma d'essersi sempre opposta, e di volersi sempre opporre a ogni novità che tentasse introdursi; d'esser pronta a cancellare, appena scritto, ogni iota che una mano profana osasse aggiungere alle carte divine. Non ha mai preteso d'avere l'autorità d'inventare princìpi di morale essenziale; anzi la sua gloria è di non averla; di poter dire che ogni verità le è stata insegnata fino dalla sua origine, che ha sempre avuti gli insegnamenti e i mezzi necessari per salvare i suoi figli; d'avere un'autorità che non può crescere, perchè non è mai stata mancante. Afferma, in conseguenza, che i suoi decreti sono conformi al Vangelo, e che non riceve le decisioni de' Padri, se non in quanto gli sono pure conformi, e sono una testimonianza della continuazione della stessa fede e della stessa morale. Se la Chiesa afferma il vero, non si potrà dire che sostituisca questi decreti e queste decisioni ai lumi della ragione e della coscienza; come non si può dire sostituita alla legge una sentenza che ne spieghi lo spirito, e che ne determini l'esecuzione. Si dovrà anzi confessare ch'essa regola l'una e l'altra con una norma infallibile, come è quella del Vangelo. Che se non si vuol credere a questa asserzione della Chiesa, si dovrà dire quali siano le massime di morale proposte dalla Chiesa, che non vengano dal Vangelo, che siano contrarie, o anche solamente indifferenti al suo spirito. Questa ricerca non farà altro che mettere sempre più in chiaro la maravigliosa immutabilità della Chiesa nella sua morale perpetuamente evangelica, e l'infinita distanza che passa tra essa e tutte le scole filosofiche, o anteriori alla Chiesa, o che si dichiarano independenti da essa; nelle quali non s'è fatto altro che edificare e distruggere, affermare e disdirsi; nelle quali i più savi sono stati stimati quelli che più hanno confessato di dubitare.

In quanto ai casisti, principio dal confessare di non averli letti, non dico tutti, che dev'essere l'occupazione d'una vita intera, ma neppur uno; e di non averne altra idea, e d'alcuni solamente, se non per le confutazioni di altri scrittori, e per le censure inflitte da autorità ecclesiastiche a varie loro proposizioni. Ma la cognizione delle loro opere non è necessaria per stabilire il punto che interessa la Chiesa a loro riguardo; ed è, che alla Chiesa non si possono attribuire le dottrine de' casisti: essa non si fa mallevadrice dell'opinioni de' privati, nè pretende che alcuno de' suoi figli non possa errare: questa pretesa contradirebbe alle predizioni del suo Fondatore divino. Essa non ha mai proposto i casisti come norma di morale: era anzi impossibile il farlo, perchè le decisioni loro devono essere un ammasso d'opinioni non di rado opposte.

La storia della Casistica può dar luogo a due osservazioni importanti. L'una, che le proposizioni inique fino alla stravaganza, che sono state messe fuori da qualche casista, sono motivate sopra sistemi arbitrari e independenti dalla religione. Alcuni di loro s'erano costituiti e divisi in scole di filosofi moralisti profani, e si perdevano a consultare e citare Aristotele e Seneca dove aveva parlato Gesù Cristo. Questo è lo spirito che il Fleury notò ne' loro scritti: Il s'est à la fin trouvé des casuistes qui ont fondé leur morale plutôt sur le raisonnement humain, que sur l'Écriture et la Tradition. Comme si Jésus.Christ ne nous avoit pas enseigné toute vérité aussi bien pour les moeurs que pour la foi: comme si nous en etions encore a cherchez avec les anciens philosophes [1]. L'altra osservazione è che gli scrittori e le autorità che nella Chiesa combatterono o condannarono quelle proposizioni, opposero ad esse costantemente le Scritture e la Tradizione. Gli eccessi d'una parte de' casisti vennero dunque dall'essersi essi allontanati dalle norme che la Chiesa segue e propone; e a queste si dovette ricorrere per mantenere la morale ne' suoi veri princìpi.

 

 

CAPITOLO V.

 

SULLA CORRISPONDENZA DELLA MORALE CATTOLICA

COI SENTIMENTI NATURALI RETTI.

 

La morale fut absolument dénaturée entre les mains des casuistes; elle devint étrangère au coeur comme à la raison: elle perdit de vue la souffrance que chacune de nos fautes pouvoit causer à quelqu'une des créatures, pour n'avoir d'autres lois que les volontés supposées du Créateur: elle repoussa la base que lui avoit donnée la nature dans le coeur de tous les hommes pour s'en former une toute arbitraire.... pag. 414.

 

Benchè non abbiamo nè il desiderio di difendere i casisti in monte, come sono presentati nel testo che esaminiamo, nè le cognizioni per difenderne neppur uno, crediamo di potere appellar francamente da una condanna che li comprende tutti. Una tal condanna è evidentemente, non solo altrettanto arbitraria, ma meno ragionevole di quello che sarebbe una giustificazione ugualmente generale. Independentemente da ogni altra considerazione, e secondo le sole probabilità umane, come pensare che, tra tanti scrittori di quella materia, alcuni de' quali noti per sapere e per santità di vita, non ce ne siano di quelli che abbiano rettamente e utilmente applicata la morale cristiana ai casi particolari di cui trattavano?

Ma siccome la Chiesa è poco sopra accusata d'aver sostituito lo studio de' casisti alla filosofia morale; e siccome il non tenere altra norma, che le volontà (non supposte ma rivelate) del Creatore non è una massima privata de' casisti, ma universale della Chiesa, così queste censure vengono a ricadere sopra di essa. A ogni modo, credo bene d'esporre lo spirito della Chiesa su questo punto, per mostrare che ciò che viene da lei è sapientissimo, e per impedire che le si attribuisca ciò che non è suo. Che se l'intenzione dell'illustre autore non è stata di censurare la Chiesa, tanto meglio: io avrò avuto il campo di renderle omaggio, senza contradire a nessuno.

La Chiesa non ha poste le basi della morale, ma le ha trovate nella parola di Dio: Io sono il Signore Dio tuo [2]: questo è il fondamento e la ragione della legge divina, e per conseguenza della morale della Chiesa. Il principio della sapienza è il timor di Dio [3]. Ecco le basi sulle quali sole la Chiesa doveva edificare.

Ma col far questo ha essa potuto distruggere le basi naturali della morale, cioè i sentimenti retti, ai quali tutti gli uomini hanno una disposizione? Tutt'altro, giacchè questi sentimenti non possono mai essere in contradizione con la legge di Dio, dal Quale vengono anch'essi. La legge è fatta anzi per dar loro una nova autorità e una nova luce, onde l'uomo possa discernere nel suo core ciò che Dio ci ha messo da ciò che il peccato ci ha introdotto. Perchè, queste due voci parlano in noi; e troppo spesso, tendendo l'orecchio interiore, l'uomo non sente una risposta distinta e sicura, ma il suono confuso d'una trista contesa. Di più (e quanto di più!) la legge divina ha estesi que' sentimenti al di là della natura; gli ha sollevati di novo al loro oggetto infinito, dal quale il peccato gli aveva sviati. Conformare la morale a questa legge, è dunque un farla essere conforme al core retto e alla ragione perfezionata. E questo ha fatto la Chiesa; e essa sola può farlo, come interprete infallibile e perpetua di questa legge.

Perchè, cosa giova che il regolo sia perfetto, se a chi lo tiene trema la mano? A che varrebbe la santità della legge, se l'interpretazione ne fosse abbandonata al giudizio appassionato di chi ci si deve assoggettare? se Dio non l'avesse resa independente dalle fluttuazioni della mente umana, affidandola a quella Chiesa che ha promesso d'assistere?

Se dunque il riguardo al dolore degli altri, se il dovere di non contristare un'immagine di Dio, è uno di questi sentimenti stampati da Dio nel cuore dell'uomo, la Chiesa non l'avrà certamente perduto di vista nel suo insegnamento morale, perchè non l'avrà perduto di vista la legge divina. Così è infatti.

È insegnamento catechistico universale, che i peccati s'aggravano in proporzione del danno che con essi si fa volontariamente al prossimo. La Chiesa insegna esser peccati una quantità d'azioni, alle quali non si può assegnare altra reità, che il torto che con esse si fa a degli altri. L'intenzione d'affliggere un uomo è sempre un peccato: l'azione più lecita, l'esercizio del diritto più incontrastabile diventa colpevole, se sia diretto a questo orribile fine.

La Chiesa ha dunque tenuto di vista un tal sentimento; e ci ha poi aggiunta la sanzione, insegnando che il dolore fatto agli altri diventa infallibilmente un dolore per chi lo fa; il che la natura non insegna; nè la ragione potrebbe acquistarne la chiara e piena certezza, senza l'aiuto della rivelazione.

La Chiesa vuole che i suoi figli educhino l'animo a vincere il dolore, che non si perdano in deboli e diffidenti querele; e presenta loro un esemplare divino di fortezza e di calma sovrumana ne' patimenti. Vuole i suoi figli severi per loro; ma per il dolore de' loro fratelli li vuole misericordiosi e delicati; e per renderli tali, presenta loro lo stesso esemplare, quell'Uomo.Dio che pianse al pensiero dei mali che sarebbero piombati sulla città dove aveva a soffrire la morte più crudele [4]. Ah! certo, non lascia ozioso il sentimento della commiserazione quella Chiesa che, nella parola divina di carità, mantiene sempre unito e, per dir così, confuso l'amore di Dio e degli uomini: quella Chiesa che manifesta il suo orrore per il sangue, fino a dichiarare che anche quello che si sparge per la difesa della patria, contamina le mani de' suoi ministri, e le rende indegne d'offrire l'Ostia di pace. Tanto le sta a core che si veda che il suo ministero è di perfezione; che se ci sono delle circostanze dolorose, nelle quali può esser lecito all'uomo di combatter l'uomo, essa non ha istituiti dei ministri per far ciò che è lecito, ma ciò che è santo; che quando si creda di non poter rimediare ai mali se non con altri mali, essa non vuole averci parte; essa il cui solo fine è di ricondurre i voleri a Dio; essa che riguarda come santo il dolore, solamente quand'è volontario, quand'è una espiazione, quand'è offerto dall'animo che lo soffre.

 

 

CAPITOLO VI.

SULLA DISTINZIONE DE' PECCATI IN MORTALI E VENIALI.

 

La distinction des péchés mortels d'avec les péchés véniels effaça celle que nous trouvions dans notre conscience entre les offenses les plus graves et les plus pardonnables. On y vit ranger les uns a cóté des autres les crimes qui inspirent la plus profonde horreur, avec le fautes que notre foiblesse peut à peine éviter. Pag. 414.

 

Si può credere che l'illustre autore ammetta in sostanza, con la Chiesa cattolica, la distinzione de' peccati in mortali e veniali di loro natura; poichè divide le offese in più gravi e in più perdonabili. È noto che questa distinzione fu apertamente rigettata da Lutero e da Calvino; i quali ritennero in vece i due vocaboli, ma dandogli un tutt'altro significato, repugnante alla ragione comune, non meno che alla fede cattolica. Ecco una delle proposizioni del primo su questo punto: Perciò dissi [5] che nessun peccato è veniale di sua natura, ma che tutti meritano la dannazione; e che l'essere alcuni veniali è da attribuirsi alla grazia di Dio [6]<. E, in termini non meno espliciti, il secondo: Tengono i figlioli di Dio, che ogni peccato è mortale [7]; perchè è una ribellione contro il voler di Dio, la quale provoca necessariamente la sua ira; perchè è una prevaricazione dalla legge, prevaricazione alla quale è intimato, senza eccezione, il giudizio di Dio; e che le colpe de' santi sono veniali, non di loro natura, ma perchè ottengono il perdono dalla misericordia di Dio.

La censura dell'illustre autore non cade dunque che sull'applicazione della massima, cioè sulla classificazione de' peccati, che dice opposta a quella che trovavamo nella nostra coscienza. Su di che mi fo lecito di osservare prima di tutto, che la nostra coscienza, priva della rivelazione, non può mai essere un'autorità a cui ricorrere per riformare in ciò il giudizio, non solo della Chiesa, ma qualunque giudizio: non sarebbe che appellare da una coscienza a un'altra.

Al sentire che la distinzione de' peccati mortali da' veniali cancellò quella che trovavamo nella nostra coscienza, tra l'offese più gravi e le più condonabili, parrebbe che, quando la Chiesa insegnò questa distinzione, n'abbia trovata nelle menti degli uomini una anteriore, precisa e unanimemente ricevuta, e che a questa abbia sostituita la sua. Ma il fatto sta che il principio astratto di questa distinzione era bensì universalmente ricevuto, e faceva parte del senso comune; ma che, riguardo all'applicazione, il giudizio della coscienza era (come s'è osservato più volte) vario secondo i luoghi, i tempi, e gl'individui; che ad alcuni faceva parer colpa grave ciò che per altri era colpa leggiera, o non colpa, o anche virtù; che alcuni perfino (e non erano i meno pensatori) tenevano che tutte le colpe fossero pari; e, per conseguenza, rifiutavano il principio medesimo. La Chiesa, istituita per illuminare e per regolare la coscienza, la Chiesa, fondata appunto perché questa non era nè incorrotta, nè unanime, nè infallibile, non può esser citata al suo tribunale.

Quale doveva dunque essere per la Chiesa il criterio a giudicare della gravità delle colpe? Certo, la parola di Dio.

Uno degli uomini che hanno più meditato, e scritto più profondamente su questa materia, sant'Agostino, osserva che: alcune cose si crederebbero leggerissime, se nelle Scritture non fossero dichiarate più gravi che non pare a noi; e da ciò appunto deduce che: col giudizio divino, e non con quello degli uomini si deve decidere della gravità delle colpe [8]. Non prendiamo, dice anche altrove, non prendiamo bilance false per pesare ciò che ci piace, e come ci piace, dicendo, a nostro capriccio, questo è grave, questo è leggiero; ma prendiamo la bilancia divina delle Scritture, e pesiamo in essa ciò che è colpa grave, o per dir meglio, riconosciamo il peso che Dio ha dato a ciascheduna [9]. Perchè, il vero appello è dalla coscienza alla rivelazione, cioè dall'incerto al certo, dall'errante e dal tentato all'incorruttibile e al santo.

Che se, con questa coscienza riformata e illuminata dalla rivelazione, osserviamo quello che la Chiesa c'insegna sulla gravità delle colpe, non troveremo che da ammirare la sua sapienza, e la sua fedeltà alla parola divina, della quale è interprete e depositaria. Vedremo che quelle cose che essa ascrive a peccato grave, vengono tutte da disposizioni dell'animo contrarie direttamente al sentimento predominante d'amore e d'adorazione che dobbiamo a Dio, o all'amore che dobbiamo agli uomini, tutti nostri fratelli di creazione e di riscatto; vedremo che la Chiesa non ha messo tra le colpe gravi nessun sentimento che non venga da un core superbo e corrotto, che non sia incompatibile con la giustizia cristiana, nessuna disposizione che non sia bassa, carnale o violenta, che non tenda ad avvilir l'uomo, a stornarlo dal suo nobile fine, e a oscurare nella sua anima i segni divini della somiglianza col Creatore; e sopra tutto nessuna disposizione per la quale non sia espressamente intimata nelle Scritture l'esclusione dal regno de' cieli. Ma, specificando queste disposizioni, la Chiesa ha ben di rado enumerati gli atti in cui si trovino al punto di renderli colpe gravi. Sa e insegna che Dio solo vede a qual segno il core degli uomini s'allontani da Lui; e fuorchè ne' casi in cui gli atti siano un'espressione manifesta dell'essersi il core ritirato da Lui, essa non ha che a ripetere: Chi è che conosca i delitti [10]?

Oltre le disposizioni, ci sono dell'azioni per le quali nelle Scritture è pronunziata la morte eterna: sulla gravità di queste non può cader controversia.

Oltre di queste ancora, la Chiesa ha dichiarate colpe gravi alcune trasgressioni delle leggi stabilite da essa con l'autorità datale da Gesù Cristo. Non c'è alcuna di queste leggi che tema l'osservazione d'un intelletto cristiano, spassionato e serio; alcuna che non sia, in un modo manifesto e diretto, conducente all'adempimento della legge divina. Non sarà qui fuori del caso di discuterne una brevemente.

È peccato mortale il non assistere alla Messa in giorno festivo.

Chi non sa che la sola enunciazione di questo precetto eccita le risa di molti? Ma guai a noi, se volessimo abbandonare tutto ciò che ha potuto essere soggetto di derisione! Quale è l'idea seria, quale il nobile sentimento, che abbia potuto sfuggirla? Nell'opinione di molti non può esser colpa se non l'azione che tenda direttamente al male temporale degli uomini; ma la Chiesa non ha stabilite le sue leggi secondo questa opinione sommamente frivola e improvida: la Chiesa insegna altri doveri; e quando essa regola le sue prescrizioni secondo tutta la sua dottrina, bisogna prima confessare che è consentanea a sè stessa; e se le prescrizioni non paiono ragionevoli, bisogna provare che tutta la sua dottrina è falsa; non giudicare la Chiesa con uno spirito che non è il suo, e che essa riprova.

È notissimo che la Chiesa non ripone l'adempimento del precetto nella materiale assistenza de' fedeli al Sacrifizio, ma nella volontà d'assisterci essa ne dichiara disobbligati gl'infermi e quelli che sono trattenuti da un'occupazione necessaria; e ritiene trasgressori quelli che, presenti con la persona, ne stanno lontani col core: tanto è vero che, anche nelle cose più essenziali, vuole principalmente il core de' fedeli. Posto ciò, vediamo quali disposizioni certe supponga la trasgressione di questo precetto.

La santificazione del giorno del Signore è uno di que' comandamenti che il Signore stesso ha dati all'uomo. Certo, nessun comandamento divino ha bisogno, d'apologia; ma non si può a meno di non vedere la bellezza e la convenienza di questo, che consacra specialmente un giorno al dovere più nobile e più stretto, e richiama l'uomo al suo Creatore.

Il povero, curvato verso la terra, depresso dalla fatica, e incerto se questa gli produrrà il sostentamento, costretto non di rado a misurare il suo lavoro con un tempo che gli manca; il ricco, sollecito per lo più della maniera di passarlo senza avvedersene, circondato da quelle cose in cui il mondo predica essere la felicità, e stupito ogni momento di non trovarsi felice, disingannato degli oggetti da cui sperava un pieno contento, e ansioso dietro altri oggetti de' quali si disingannerà quando gli abbia posseduti; l'uomo prostrato dalla sventura, e l'uomo inebbriato da un prospero successo; l'uomo ingolfato negli affari, e l'uomo assorto nelle astrazioni delle scienze; il potente, il privato, tutti insomma troviamo in ogni oggetto un ostacolo a sollevarci alla Divinità, una forza che tende ad attaccarci a quelle cose per cui non siamo creati, a farci dimenticare la nobiltà della nostra origine, e l'importanza del nostro fine. E risplende manifesta la sapienza di Dio in quel precetto che ci toglie alle cure mortali, per richiamarci al suo culto, ai pensieri del cielo; che impiega tanti giorni dell'uomo indotto nello studio il più alto, e il solo necessario; che santifica il riposo del corpo, e lo rende figura di quel riposo d'eterno contento a cui aneliamo, e di cui l'anima nostra sente d'esser capace: in quel precetto che ci riunisce in un tempio, dove le comuni preghiere, rammentandoci le comuni miserie e i comuni bisogni, ci fanno sentire che siamo fratelli. La Chiesa, conservatrice perpetua di questo precetto, prescrive a' suoi figli la maniera d'adempirlo più ugualmente e più degnamente. E tra i mezzi che ha scelti, poteva mai dimenticare il rito più necessario, il più essenzialmente cristiano, il Sacrifizio di Gesù Cristo, quel Sacrifizio dove sta tutta la fede, tutta la scienza, tutte le norme, tutte le speranze? Il cristiano che volontariamente s'astiene in un tal giorno da un tal Sacrifizio, può mai essere un giusto che viva della fede< [11]? Può far vedere più chiaramente la noncuranza del precetto divino della santificazione? Non ha evidentemente nel core un'avversione al cristianesimo? non ha rinunziato a ciò che la fede rivela di più grande, di più sacro e di più consolante? non ha rinunziato a Gesù Cristo? Pretendere che la Chiesa non dichiari prevaricatore chi si trova in tali disposizioni, sarebbe un volere che dimenticasse il fine per cui è istituita, che ci lasciasse ricadere nell'aria mortale del gentilesimo.

 

 

CAPITOLO VII.

 

DEGLI ODÎ RELIGIOSI.

Les casuistes présentèrent a l'exécration des hommes, au premier rang entre les plus coupables, les hérétiques, les schismatiques, les blasphémateurs. Quelque fois ils réussirent à allumer contre eux la haine la plus violente... Pag. 111.

 

Certo, ci sono poche cose elle corrompano tanto un popolo, quanto l'abitudine dell'odio: così questo sentimento non fosse fomentato perpetuamente da quasi tutto ciò che ha qualche potere sulle menti e sugli animi. L'interesse, l'opinione, i pregiudizi, le verità stesse, tutto diventa agli uomini un'opportunità per odiarsi a vicenda: appena si trova alcuno che non porti nel core l'avversione e il disprezzo per delle classi intere de' suoi fratelli: appena può accadere ad alcuno una sventura che non sia cagione di gioia per altri; e spesso non per alcun utile che ne venga loro, ma per un interesse ancora più basso, quello dell' odio. Confesso di veder con maraviglia messi tra i pervertitori d'una nazione, in questo senso, e come in capo di lista, i casisti, ai quali finora non avevo sentito dare altro carico, che di voler giustificare quasi ogni opera e ogni persona, che d'insegnare a non odiare nemmeno il vizio.

Ma siano i casisti, o sia qualunque si voglia, che ispiri agli uomini odio contro i loro fratelli, li fa essere omicidi [12]; va direttamente contro il secondo precetto, che è simile al primo, che non ne ha alcun altro sopra di sè [13]; va direttamente contro l'insegnamento perpetuo della Chiesa, che non ha mai lasciato di predicare che il segno di vita è l'amare i fratelli [14]<.

Sia però lecito d'osservare che, tra le cagioni che possono aver cambiato il carattere degli Italiani, questa, se ci fu, deve aver certamente operato assai poco; giacchè non c'è forse nazione cristiana dove i sentimenti d'antipatia col pretesto della religione abbiano avuto meno occasione di nascere e d'influire sulla condotta degli uomini. In verità, riguardando a questa parte della storia, noi troviamo piuttosto da piangere su quella Francia e su quella Germania che ci vengono opposte. Ah! tra gli orribili rancori che hanno diviso l'Italiano dall'Italiano, questo almeno non si conosce; le passioni che ci hanno resi nemici non hanno almeno potuto nascondersi dietro il velo del santuario. Pur troppo noi troviamo a ogni passo nei nostri annali le nemicizie trasmesse da una generazione all'altra per miserabili interessi, e la vendetta anteposta alla sicurezza propria; ci troviamo a ogni passo due parti della stessa nazione disputarsi accanitamente un dominio e de' vantaggi, i quali, per un grand'esempio, non sono rimasti nè all'una nè all'altra; ci troviamo la feroce ostinazione di volere a schiavi pericolosi quelli che potevano essere amici ardenti e fedeli; ci troviamo una serie spaventosa di giornate deplorabili, ma nessuna almeno simile a quelle di Cappel [15], di Jarnac [16] e di Praga [17]. Purtroppo da questa terra infelice sorgerà un giorno gran sangue in giudizio, ma del versato col pretesto della religione, assai poco. Poco dico, in confronto di quello che lordò l'altre parti d'Europa: i furori e le sventure dell'altre nazioni ci danno questo tristo vantaggio di chiamar poco quel sangue; ma il sangue d'un uomo solo, sparso per mano del suo fratello, è troppo per tutti i secoli e per tutta la terra.

Non si può a meno, in quest'occasione, di non riflettere sull'ingiustizia commessa da tanti scrittori nell'attribuire ai cattolici soli questi orribili sentimenti d'odio religioso, e i loro effetti: ingiustizia che appare a chiunque scorra appena le storie di quelle dissensioni. Ma questa parzialità può essere utile alla Chiesa; il grido d'orrore che i secoli alzano contro di quelle, essendo principalmente rivolto contro i cattolici, questi devono averlo sempre negli orecchi, e sentirsi richiamati alla mansuetudine e alla giustizia, non solo dalla voce della Chiesa, ma anche da quella del mondo.

Io so che è stato detto da molti, che queste avversioni e queste stragi, benchè abborrite dalla Chiesa, le possono essere imputate, perchè, insegnando a detestare l'errore, dispone l'animo de' cattolici a estendere questo sentimento agli uomini che lo professano.

A ciò si potrebbe rispondere che, non solo ogni religione, ma ogni dottrina morale, o vera o falsa, insegna a detestare gli errori contro i doveri essenziali dell'uomo, o quelli che pretende esser tali. Tutti coloro che, scindendo il Cristianesimo, fondarono delle sette separate dalla Chiesa, qual altro mezzo adoprarono, che di rappresentare come errori detestabili i suoi insegnamenti? È comune alla verità e all'errore, in tali materie, il detestare il suo contrario; e n'è la conseguenza naturale l'insegnare a detestarlo. E siccome poi l'errore non potrebbe nemmeno prendere una forma apparente, nè proporre per simbolo altro che delle negazioni, se non s'attaccasse a qualche verità; siccome, per conseguenza, ogni setta che si dice cristiana conserva qualche parte della verità cristiana; così non ce n'è alcuna che non riguardi come detestabili (e in questo caso rettamente) gli errori opposti a quel tanto di verità che conserva. Protestare, come fanno alcuni, di venerar, come sacre e rivelate da Dio, alcune verità, e di non avere altro che indifferenza per l'errore che le nega e le disprezza, è un accozzo di parole contradittorie, che contraffà una proposizione.

Ma, per giustificare la Chiesa, non è mai necessario ricorrere a degli esempi: basta esaminare le sue massime. È dottrina perpetua della Chiesa, che si devano detestare gli errori, e amare gli erranti. C'è contradizione tra questi due precetti? Non credo che alcuno voglia affermarlo. – Ma è difficile il far distinzione tra l'errore e la persona; è difficile detestar quello, e nutrire per questa un amore non di sola apparenza, ma vero e operoso [18]. – È difficile! ma qual è la giustizia facile all'uomo corrotto? ma donde questa difficoltà di conciliare due precetti, se sono giusti ugualmente? È cosa giusta il detestar l'errore? Sì, certo; e non c'era nemmeno bisogno di prove. È cosa giusta l'amare gli erranti? Sì, ancora; e per le ragioni stesse per cui è giusto d'amar tutti gli uomini: perchè Dio, da cui teniamo tutto, da cui speriamo tutto, Dio a cui dobbiamo tutto dirigere, gli ha amati fino a dare per essi il suo Unigenito [19]; perchè è cosa orribile il non amare quelli che Dio ha predestinati alla sua gloria; e è un giudizio della più rea e stolta temerità l'affermare d'alcun uomo vivente, che non lo sia, l'escluderne uno solo dalla speranza nelle ricchezze delle misericordie di Dio. I testimoni che stavano per scagliare le prime pietre contro Stefano, deposero le loro vesti a' piedi d'un giovinetto, il quale non si ritirò inorridito, ma, consentendo alla strage di quel giusto, rimase a custodirle [20]. Se un cristiano avesse allora accolto nel suo cuore un sentimento d'odio per quel giovinetto, di cui la tranquilla ferocia contro i seguaci del Giusto, di Quello in cui solo è la salute [21], poteva parere un segno così manifesto di riprovazione; se avesse mormorata la maledizione che pare così giusta in bocca degli oppressi, ah! quel cristiano avrebbe maledetto il Vaso d'elezione [22].

Donde adunque la difficoltà di conciliare questi precetti, se non dalla nostra corruttela, da cui vengono tutte le guerre tra i doveri? E questa difficoltà è appunto il trionfo della morale cattolica: poichè essa sola può vincerla; essa sola, prescrivendo con la sua piena autorità tutte le cose giuste, non lascia dubbio su alcun dovere; e, per troncare la serie di quelle false deduzioni con le quali si finisce a sacrificare un principio a un altro principio, li consacra tutti, e li mette fuori della discussione. Se, andando di ragionamento in ragionamento, s'arriva a un'ingiustizia, si può esser certi d'aver ragionato male; e l'uomo sincero è avvertito dalla religione stessa d'essere uscito di strada; perchè dove compariste il male, si trova in essa una proibizione e una minaccia. Nessun cattolico di bona fede può mai credere d'avere una giusta ragione per odiare il suo fratello: il Legislatore divino, ch'egli si vanta di seguire, sapeva certo che ci sarebbero stati degli uomini iniqui e provocatori, e degli uomini nemici della Fede; e nulladimeno gli ha detto senza fare eccezione veruna: Tu amerai il tuo prossimo come tè stesso.

È uno dei più singolari caratteri della morale cattolica, e de' più benefici effetti della sua autorità, il prevenire tutti i sofismi delle passioni con un precetto, con una dichiarazione. Così, quando si disputava per sapere se uomini di colore diverso dall'europeo dovessero essere considerati come uomini, la Chiesa, versando sulla loro fronte l'acqua rigeneratrice, aveva imposto silenzio, per quanto era in lei, a quella discussione vergognosa; li dichiarava fratelli di Gesù Cristo, e chiamati a parte della sua eredità.

Di più, la morale cattolica rimove le cagioni che rendono difficile l'adempimento di questi due doveri, odio all'errore, amore agli uomini, proscrivendo la superbia, l'attaccamento alle cose della terra, e tutto ciò che strascina a rompere la carità. E ci somministra i mezzi per essere fedeli all' uno e all'altro; e questi mezzi sono tutte quelle cose che portano la mente alla cognizione della giustizia, e il core all'amore di essa; la meditazione sui doveri, la preghiera, i sacramenti, la diffidenza di noi stessi, la confidenza in Dio. L'uomo educato sinceramente a questa scola, eleva la sua benevolenza a una sfera dove non arrivano i contrasti, gl'interessi, l'obiezioni; e questa perfezione riceve anche nel tempo una gran ricompensa. A tutte le vittorie morali succede una calma consolatrice; e amare in Dio quelli che si odierebbero secondo il mondo, è, nell'anima umana, nata ad amare, un sentimento d'inesprimibile giocondità.

Ci fu però uno scrittore, e non di poca fama certamente, il quale pretese che il conciliare la guerra all'errore e la pace con gli uomini sia una cosa non difficile, ma impossibile. La distinction entre la tolérance civile et la tolérance théologique est puérile et vaine. Ces deux tolérances sont inséparables, et l'on ne peut admettre l'une sans l'autre. Des anges même ne vivroient pas en paix avec des hommes qu'ils regarderoient comme les ennemis de Dieu [23].

Quali conseguenze da una tale dottrina! I primi cristiani non dovevano dunque credere che adorare gli idoli e sconoscer Dio rendesse l'uomo nemico a Lui. Hanno dunque fatto male a combattere il gentilesimo; perchè è un'impresa almeno imprudente e pazza il predicare contro una religione che non rende nemici di Dio quelli che la professano. E quando san Paolo, per accrescere la riconoscenza e la fiducia de' fedeli, rammentava la misericordia usata loro da Dio, nel tempo ch'erano suoi nemici [24], proponeva loro un'idea falsa e antisociale.

Vivere in pace con degli uomini che si hanno per nemici di Dio, non sarà possibile a quelli che credono che Dio stesso glielo comanda? a quelli che non sanno se siano essi medesimi degni d'amore o d'odio [25], a che sanno di certo che diverrebbero nemici di Dio essi medesimi, rompendo la pace? a quelli i quali pensano che un giorno si chiederebbe loro se la fede gli era stata data per dispensarli dalla carità, e con che diritto aspettano la misericordia, se, per quanto era in loro, l'hanno negata agli altri? a quelli che devono riconoscere nella fede un dono, e tremare dell'uso che ne fanno?

Queste e altre ragioni si sarebbero potute addurre a chi avesse fatta una tale obiezione al cristianesimo, quando apparve; ma, ai tempi del Rousseau, essa riesce stranissima, poichè impugna la possibilità d'un fatto di cui la storia del cristianesimo è una lunga e non interrotta testimonianza.

Quello che ne diede il primo esempio era, certo, al di sopra degli angeli; ma era  anche un uomo; ma, ne' disegni della sua misericordia, volle che la sua condotta fosse un modello che ognuno de' suoi seguaci potesse imitare; e pregò morendo per i suoi uccisori. Quella generazione durava ancora, quando Stefano entrò il primo nella carriera di sangue che l'Uomo.Dio aveva aperta. Stefano che, con sapienza divina, cerca d'illuminare i giudici e il popolo, e di richiamarli a un pentimento salutare; quando poi è oppresso, quando sta per compirsi sulla terra l'atto, sanguinoso della sua testimonianza, dopo aver raccomandato il suo spirito al Signore, non pensa a quelli che l'uccidono, se non per dire: Signore, non imputar loro questa cosa a peccato. E detto questo, s'addormentò nel Signore [26].

Tale fu, per tutti que' secoli in cui gli uomini persistettero nella così cieca perversità di venerare gli idoli fatti da loro, e di far morire i giusti, tale fu sempre la condotta de' cristiani: la pace orribile del gentilesimo non fu mai disturbata nemmeno da' loro gemiti. Cosa si può fare di più per conservarla con gli uomini, che amarli e morire? convien dire che questa dottrina sia ben concorde con sè stessa, e ben chiara agl'intelletti cristiani, poichè i fanciulli stessi la trovavano intelligibile: fedeli agli ammaestramenti delle madri, sorridevano ai carnefici; quelli che sorgevano imitavano quelli ch'erano caduti prima di loro; primizie de' santi, fiori rinascenti sotto la falce del mietitore.

Ma la storia del cristianesimo non ha forse esempi d'odî e di guerre? Ne ha pur troppo; ma bisogna chieder conto a una dottrina delle conseguenze legittime che si cavano da essa, e non di quelle che le passioni ne possono dedurre. Questo principio, vero in tutti i tempi, si può ai nostri giorni allegarlo con maggior fiducia d'essere ascoltati, dacchè molti di quelli che lo contrastavano alla religione sono stati costretti a invocarlo per altre dottrine. La memorabile epoca storica nella quale ci troviamo ancora, si distingue per il ritrovamento, per la diffusione e per la ricapitolazione d'alcuni principi politici, e per gli sforzi fatti affine di metterli in esecuzione; da ciò sono venuti dei mali gravissimi; i nemici di que princìpi pretendono che i princìpi ne siano stati la cagione, e che siano, per conseguenza, da rigettarsi. A questo i loro sostenitori vanno rispondendo che è cosa assurda e ingiusta proscrivere le verità, per l'abuso che gli uomini ne hanno potuto fare; che, lasciando di promulgarle e di stabilirle, non si leveranno però dal mondo le passioni; che, mantenendo gli uomini in errori, si lascia viva una cagione ben più certa e diretta di calamità e d'ingiustizie; che gli uomini non diventano migliori, nè più umani, con l'avere opinioni false. La Saint.Barthélemy n'a pas fait proscrire le catholicisme, ha detto a questo proposito un celebrato ingegno [27]; e certo nessuna conseguenza sarebbe stata più stolta e ingiusta. La memoria di quell'atrocissima notte dovrebbe servire a far proscrivere l'ambizione e lo spirito fazioso, l'abuso del potere e l'insubordinazione alle leggi, l'orribile e stolta politica che insegna a violare a ogni passo la giustizia per ottenere qualche vantaggio, e quando poi queste violazioni accumulate abbiano condotto un gravissimo pericolo, insegna che tutto è lecito per salvar tutto; a far proscrivere l'insidie e le frodi, le provocazioni e i rancori, l'avidità della potenza che fa tutto tramare e tutto osare, e l'ingiusto amore della vita che fa sorpassare ogni legge per conservarla; perchè queste e altre simili furono le vere cagioni della strage; per cui quella notte è infame.

Quando, all'opposto, ci trovano nella storia esempi d'influenza benefica e misericordiosa della dottrina cattolica, non c'è bisogno di ricercare come mai, per quali giri di ragionamenti, per quali singolari disposizioni degli animi, i suoi seguaci siano arrivati a trovare in essa tali consigli, a riceverne tali impulsi. È evidentemente una causa che produce il suo effetto proprio. In tempi di violente provocazioni e di feroci vendette, s'alza una voce a proclamare la tregua di Dio: è la voce del Vangelo; e sona per la bocca de' vescovi e de' preti. Sant'Ambrogio spezza e vende i vasi sacri per riscattare gli schiavi illirici, la più parte Ariani: san Martino di Tours intercede per i Priscillianisti presso Massimo imperatore in una parte dell'occidente; e considera come scomunicato Itacio e gli altri vescovi che l'avevano mosso a infierire contro di quelli: sant'Agostino supplica il proconsole d'Africa per i Donatisti, dai quali ognuno sa che travaglio avesse la Chiesa. Non avere a sdegno, dice, che imploriamo da te la vita di quelli, de' quali imploriamo da Dio il ravvedimento [28]. E lasciando stare tanti altri fatti simili, di cui abbonda la storia ecclesiastica di tutti i tempi, giova rammentarne uno tra i meno antichi, anche perchè è stato tentato (e pur troppo, non senza effetto presso di molti), non solo di rapirne la gloria alla Chiesa, ma di cambiarla in ignominia: ed è la condotta del clero cattolico in America. L'ira contro ogni resistenza, l'avarizia resa incontentabile dalle promesse di fantasie riscaldate, il timore che nasce anche negli animi più determinati e li rende crudeli, quando non sono fortificati dall'idea d'un dovere, e quando gli offesi sono molti, tutte in somma le passioni più inesorabili della conquista, avevano snaturati affatto gli animi degli Spagnoli; e gli Americani non ebbero quasi altri avvocati che gli ecclesiastici; e questi non ebbero altri argomenti in favor loro che quelli del Vangelo e della Chiesa. Citiamo qui il giudizio del Robertson, giudizio importantissimo, e per l'imparzialità certa dello storico, e per la quantità e l'accuratezza delle ricerche sulle quali è fondato.

« Con ingiustizia ancor maggiore è stato da molti autori rappresentato l'intollerante spirito della Romana Cattolica Religione come la cagione dell'esterminio degli Americani, ed hanno accusati gli ecclesiastici spagnoli d'aver animati i loro compatriotti alla strage di quell'innocente popolo come idolatra ed inimico di Dio. Ma i primi missionari che visitarono l'America, benchè deboli ed ignoranti, erano uomini pii. Essi presero di buon'ora la difesa dei nazionali, e li giustificarono dalle calunnie dei vincitori, i quali descrivendoli come incapaci d'essere istruiti negli uffici della vita civile, e di comprendere le dottrine della Religione, sostenevano esser quelli una razza subordinata d'uomini, e sopra cui la mano della natura aveva posto il segno della schiavitù. Dalle relazioni che ho già date dell'umano e perseverante zelo dei missionari spagnoli nel proteggere l'inerme greggia a loro commessa, eglino compariscono in una luce che aggiunge lustro alla loro funzione. Eran ministri di pace che procuravano di strappare la verga dalle mani degli oppressori. Alla potente loro interposizione doverono gli Americani ogni regolamento diretto a mitigare il rigore del loro destino. Negli stabilimenti spagnoli il clero sì regolare che secolare è ancor dagli Indiani considerato come il suo natural protettore, a cui ricorrono nei travagli e nelle esazioni, alle quali troppo frequentemente sono essi esposti [29]. »

Qual è questa religione, in cui i deboli, quando sono pii, resistono alla forza in favore de' loro fratelli! in cui gli ignoranti svelano i sofismi che le passioni oppongono alla giustizia! In una spedizione, dove non si parlava che di conquiste e d'oro, quelli non parlavano che di pietà e di doveri; citavano al tribunale di Dio i vincitori, dichiaravano empia e irreligiosa l'oppressione. Il mondo, con tutte le sue passioni, aveva mandato agl'indiani de' nemici che essi non avevano offesi; la religione mandava loro degli amici che non avevano mai conosciuti. Questi furono odiati e perseguitati; furono costretti qualche volta a nascondersi; ma almeno raddolcirono la sorte de vinti; ma, co' loro sforzi e coi loro patimenti, prepararono alla religione un testimonio, che essa non è stata nemmeno un pretesto di crudeltà; che queste furono commesse malgrado le sue proteste. Ah! gli avari crudeli avrebbero voluto passare per zelanti, ma i ministri della religione non gli hanno permesso di mettersi al viso questa maschera; gli hanno costretti a cercare i loro sofismi in ogni altro principio, che in quello della religione; gli hanno costretti a ricorrere alle ragioni di convenienza, d'utilità politica, d'impossibilità di stare esattamente alla legge divina; gli hanno costretti a parlare de' gran mali che sarebbero venuti, se gli uomini fossero stati giusti, a dire ch'era necessario opprimer gli uomini crudelmente, perchè altrimenti diveniva impossibile l'opprimerli.

Un solo ecclesiastico disonorò il suo ministero, eccitando i suoi concittadini al sangue; e fu il troppo noto Valverde. Ma, esaminando la sua condotta, come è descritta dal Robertson, si vede chiaro al mio parere, che costui era mosso da tutt'altro che dal fanatismo religioso. Pizarro aveva formato il perfido disegno d'impadronirsi dell'Inca Atahualpa, per dominare nel Perù, e per saziarsi d'oro. Adescato con pretesti di amicizia l'Inca a un abboccamento, questo si risolvette in un'allocuzione del Valverde, nella quale i misteri e la storia della santa e pura religione di Cristo non erano esposti che per venire all'assurda conseguenza, che l'Inca doveva sottomettersi al re di Castiglia, come a suo legittimo sovrano. La risposta e il contegno di Atahualpa servirono di pretesto al Valverde per chiamare gli Spagnoli contro i Peruviani. « Il Pizarro » cito ancora il Robertson, « che nel corso di questa lunga conferenza aveva con difficoltà trattenuti i soldati impazienti d'impadronirsi delle ricche spoglie ch'essi vedevano allora sì da vicino, diede il segno all'assalto. » Il Pizarro stesso, ch'era venuto a quel fine, fece prigioniero l'Inca; il quale poi, con un processo atrocemente stolto, fu condannato a morte; e il Valverde commise anche il delitto d'autorizzare la sentenza con la sua firma. Ora, chi non vede che a degli uomini deliberati a un'azione ingiusta, a degli uomini forti contro uomini ricchi, ogni pretesto era bono? che il Valverde stesso fu istrumento orribile, ma non motore dell'ingiustizia? che la sua condotta svela piuttosto la bassa connivenza all'ambizione e all'avarizia di Pizarro, che il fanatismo religioso? Il solo bon senso fa vedere che non è nella natura, dell'uomo, per quanto sia fanatico, il concepire un odio violento contro degli uomini che non professano il cristianesimo, perchè l'ignorano. Di fatti, se la disposizione degli ecclesiastici spagnoli era tale che dalla religione dovessero ricevere impulsi di questa sorte, perché tutti gli altri parlarono e operarono non solo diversamente, ma all'opposto? E se la condotta del Valverde era conforme al modo di sentire de' suoi concittadini in fatto di religione, perchè è stata censurata da tutti i loro storici, come osserva il Robertson?

Del resto, la religione oltraggiata dal Valverde è stata ben vendicata, non solo da quasi tutti gli ecclasiastici delle diverso spedizioni, ma anche da quelle migliaia di missionari che, portando la fede ai selvaggi e agl'infedeli d'ogni sorte, ci andarono e ci vanno senza soldati, senz'armi, come agnelli tra i lupi [30], e col core diviso tra due sole passioni, quella di condurre molti alla salute, e quella del martirio.

Se il rappresentare l'intolleranza persecutrice come una conseguenza dello spirito del cristianesimo, è una calunnia smentita dalla dottrina della Chiesa, è una singolare ingiustizia il rappresentarla come un vizio particolare ai cristiani. Erano le verità cristiane che rendevano intolleranti gli imperatori gentili? Sano esse che hanno creata quella crudeltà senza contrasto e senza rimorso, che sparse il sangue di tanti milioni, non dirò di innocenti, ma d'uomini che portavano la virtù al più alto grado di perfezione? Sono esse che hanno scatenato il mondo contro quelli di cui il mondo non era degno [31]?

Sul principio del secondo secolo, un vecchio fu condotto in Antiochia davanti l'imperatore. Questo, dopo avergli fatte alcune interrogazioni, l'interpellò finalmente se persisteva a dichiarare di portar Gesù Cristo in core. Al che avendo il vecchio risposto di sì, l'imperatore comandò che fosse legato e condotto a Roma, per essere dato vivo alle fiere. Il vecchio fu caricato di catene; e, dopo un lungo tragitto, arrivato in Roma, fu condotto all'anfiteatro, dove fu sbranato e divorato, per divertimento del popolo romano [32].

Il vecchio era sant'Ignazio, vescovo d'Antiochia. Discepolo degli Apostoli, la sua vita era stata degna d'una tale scola. Il coraggio che mostrò al sentire la sua sentenza, l'accompagnò per tutta la strada del supplizio; e fu un coraggio sempre tranquillo, e come uno di que' sentimenti ultimi che vengono dalla più ponderata e ferma deliberazione, in cui ogni ostacolo è stato preveduto e pesato. Al sentire il ruggito delle fiere, si rallegrò: il supplizio, quella morte senza combattimento e senza incertezza, la presenza della quale è una rivelazione di terrore per gli animi i più preparati, che dico? un tal supplizio non aveva nulla d'inaspettato per lui: tanto lo Spirito Santo aveva rinforzato quel core, tanto egli amava! L'imperatore era Traiano.

Ah! quando alla memoria d'un cristiano si può rimproverare che, per uno zelo ingiusto e erroneo, abbia usurpato il diritto sulla vita altrui, sia pure stato, in tutto il resto, pio, irreprensibile, operoso nel bene; a ogni sua virtù si contrappone il sangue ingiustamente sparso: una vita intera di meriti non basta a coprire una violenza. E perchè nel giudizio tanto favorevole di Traiano non si conta il sangue d'Ignazio e de' tanti altri innocenti, che pesa sopra di lui? perchè si propone come un esemplare? perchè si mantiene a' suoi tempi quella lode che dava loro Tacito, che in essi fosse lecito sentire ciò che si voleva, e dire ciò che si sentiva [33]? Perchè noi riceviamo per lo più l'opinione fatta dagli altri; e i gentili, che stabilirono quella di Traiano, non credevano che spargere il sangue cristiano togliesse nulla all'umanità e alla giustizia d'un principe. È la religione che ci ha resi difficili a concedere il titolo d'umano e di giusto; è essa che ci ha rivelato che nel dolore d'un'anima immortale c'è qualche cosa d'ineffabile; è essa che ci ha istruiti a riconoscere e a rispettare in ogni uomo l'immagine di Dio, e il prezzo della Redenzione. Quando si ricordano gli uomini condannati alle fiamme col pretesto della religione, se alcuno, per attenuare l'atrocità di que' giudizi, allega che i giudici erano fanatici, il mondo risponde che non si deve esserlo; se alcuno allega ch'erano ingannati, il mondo risponde che non bisogna ingannarsi quando si pretende disporre della vita d'un uomo; se alcuno allega che credevano di rendere omaggio alla religione, il mondo risponde che una tale opinione è una bestemmia. Ah! chi ha insegnato al mondo, che Dio non s'onora che con la mansuetudine e con l'amore, col dar la vita per gli altri e non col levargliela, che la volontà libera dell'uomo è la sola di cui Dio si degna ricevere gli omaggi?

Per spiegare le persecuzioni contro i cristiani, si sarebbe quasi indotti a supporre che il rispetto alla vita dell'uomo fosse ignoto ai gentili, che sia un altro mistero rivelato dal Vangelo. In quelle si vedono crudeltà incredibili commesse senza un forte impulso; si vedono principi senza fanatismo secondare il trasporto del popolo per i supplizi, non per timore, non per ira, ma direi quasi per indifferenza; perchè la morte crudele di migliaia d'uomini non era forse un oggetto che meritasse un lungo esame. Non si fa torto a supporre quest'animo a quelli che facevano scannare migliaia di schiavi per una festa.

La famosa lettera di Plinio a Traiano, e la risposta di questo, sono un esempio notabile d'un tale spirito del gentilesimo. Plinio, legato propretore in Bitinia, consulta l'imperatore sulla causa de' cristiani, espone la sua condotta antecedente, parla d'una lettera cieca, per mezzo della quale n'ha scoperti alcuni, e chiede istruzioni. L'imperatore approva la condotta del legato, proibisce di far ricerca de' cristiani, e prescrive di punirli se sono denunziati e convinti; a quelli che neghino d'esserlo, e diano di ciò la prova di fatto, adorando gli dei, vuole che si perdoni, in grazia del pentimento. Finalmente ordina che, delle accuse anonime, non si faccia caso per nessun delitto; essendo, dice, cosa di pessimo esempio, e indegna del nostro secolo [34]. Ma, in fatto di barbarie, qual cosa mai poteva esser indegna d'un secolo in cui un magistrato, celebre per coltura d'ingegno e per dolcezza di carattere, domanda per sua regola, se è il nome solo di cristiano che s'abbia a punire, quantunque senza alcun delitto, o i delitti che porta con sè questo nome; se si deva far distinzione d'età, o trattare ugualmente i fanciulli, per quanto teneri siano, e gli adulti? d'un secolo in cui quest'uomo racconta d'aver fatti condurre al supplizio quelli che, denunziati a lui come cristiani, erano stati duri per tre volte nel confessarsi tali; non dubitando, dice, che, qualunque fosse la cosa che confessavano, la loro inflessibile ostinazione dovesse esser punita? E raccontando poi che altri, i quali dissero d'essere stati cristiani, ma di non esserlo più, e maledissero il Cristo, e adorarono l'immagine dell'imperatore e i simulacri degli dei, affermavano però, che, col professar quella fede, non s'erano impegnati a veruna cosa iniqua, ma, anzi, a non commetter mai nè furti, nè latrocini, nè adultèri, a non mancar di fede, a non negare il deposito; non lascia vedere la più piccola inquietudine per quegli ostinati che aveva fatti morire [35]? Qual cosa poteva essere indegna d'un secolo in cui un principe più celebre ancora, e celebre per sapienza e per mansuetudine, non trova che dire a de' giudizi di questa sorte? e senza farsi carico de' dubbi del magistrato, e riguardo all'età degli accusati, e intorno a ciò che costituisca il delitto, gli rimanda per unica spiegazione la parola Cristiani; e proibisce che se ne faccia ricerca, prescrivendo insieme, che, scoperti, si puniscano, qualunque poi sia per essere la pena? E s'è visto qual'era quella che il magistrato ordinava. Ma che dico? d'un secolo, in cui un vecchio divorato dalle fiere era un passatempo per il popolo, e un tal principe dava al popolo un tal passatempo?

Pur troppo i secoli cristiani hanno esempi di crudeltà commesse col pretesto della religione; ma si può sempre asserire che quelli i quali le hanno commesse, furono infedeli alla legge che professavano; che questa li condanna. Nelle persecuzioni gentilesche, nulla può essere attribuito a inconseguenza de' persecutori, a infedeltà alla loro religione, perchè questa non aveva fatto nulla per tenerli lontani da ciò.

Con questa discussione parrà forse che ci siamo allontanati dall'argomento; ma essa non sarà affatto inutile, se potrà dare occasione d'osservare che molti scrittori hanno adoprato due pesi e due misure per giudicare de' cristiani e de' gentili; se potrà servire a rimovere sempre più dalla morale cattolica l'orribile taccia di sangue, che tante volte le è stata data, a rammentare che la violenza esercitata in difesa di questa religione di pace e di misericordia è affatto avversa al suo spirito, come è stato professato senza interruzione in tutti i secoli dai veri adoratori di Colui che con tanta autorità gridò ai discepoli che invocavano il foco del cielo sulle città che ricusavano di ricevere la loro salute [36], di Colui che comandò agli Apostoli di scotere la polvere de' loro piedi< [37], e d'abbandonare gli ostinati. Onore a quegli uomini veramente cristiani che, in ogni tempo, e in faccia a ogni passione e a ogni potenza, predicarono la mansuetudine; da quel Lattanzio che scrisse doversi la religione difendere col morire, e non con l'uccidere [38], fino agli ultimi che si sono trovati in circostanze in cui ci volesse coraggio per manifestare un sentimento così essenzialmente evangelico. Onore a essi, giacchè noi non possiamo più averne onore, in tempi e in luoghi in cui non si può sostenere il contrario senza infamia; in cui, se gli uomini non hanno (così avessero!) rinunziato agli odî, hanno almeno saputo vedere che la religione non può accordarsi con quelli; se ammettono troppo spesso il pretesto dell'utile e delle gran passioni per bona scusa di vessazioni e di crudeltà, confessano che la religione è troppo pura per ammetterlo, che la religione non vuol condurre gli uomini al bene se non per mezzo del bene.

 

 

CAPITOLO VIII.

SULLA DOTTRINA DELLA PENITENZA.

 

La doctrine de la pénitence causa une nouvelle subversion dans la morale déjà confondue par la distinction arbitraire des pêchés. Sans doute c'était une promesse consolante que celle du pardon du ciel pour le retour à la vertu; et cette opinion est tellement conforme aux besoins et aux foiblesses de l'homme, qu'elle a fait partie de toutes les religions. Mais les casuistes avoient dénaturé cette doctrine et imposant des formes précises à la pénitence, à la confession et à l'absolution. Un seul acte de foi et de ferveur fut déclaré suffisant pour effacer une longue liste de crimes. Pag.415.

 

Non avendo l'erudizione necessaria per discutere l'asserzione dell'illustre autore, che la promessa del perdono celeste per il ritorno alla virtù è un'opinione comune a tutte le religioni, la lascio da una parte. Da quel poco che ho raccolto ne' libri, sulle varie religioni e sulla pagana in ispecie, m'è rimasta l'idea che alcune avessero delle cerimonie, per mezzo delle quali si potessero espiare le colpe, senza che ci abbisognasse il ritorno alla virtù; e che l'idea della conversione si deva, non meno che la parola, alla religione cristiana. A ogni modo una tale questione, quantunque importante, non ha una relazione necessaria con l'argomento; e si può, senza toccarla, difendere pienissimamente la dottrina cattolica sulla penitenza dalle censure che qui le vengono fatte: anzi queste saranno un'occasione per mettere in chiaro la sua somma ragionevolezza e perfezione.

Tre sono principalmente queste accuse: che l'avere imposte forme precise alla penitenza ne abbia snaturata la dottrina; che i casisti abbiano imposte queste forme; che un atto di fede e di fervore sia stato dichiarato bastante a cancellare i delitti. Noi le esamineremo partitamente, non seguendo però l'ordine con cui sono presentate, ma quello che ci pare più adattato all'intento d'esporre la vera dottrina della Chiesa su questo punto.

 

I.

Chi abbia imposte forme precise alla penitenza.

 

Dall'essere nel Vangelo espressamente data ai ministri l'autorità di rimettere e di ritenere i peccati, ne segue la necessità di forme per esercitarla; ma chi ha potuto imporre queste forme? Se i casisti si fossero arrogato un tale diritto, avrebbero alterata tutta l'economia del governo spirituale; ma come si può supporre che i casisti, i quali non costituiscono un corpo, e non hanno alcun mezzo di deliberare in comune, si siano intesi a stabilire queste forme con gli stessi princìpi, e in una stessa maniera? Come si può supporre che tutte le chiese le abbiano ricevute da persone senza autorità, che le autorità stesse ci si siano assoggettate, di maniera che nessuna se ne crede esente? che i papi stessi si siano lasciati imporre da loro una legge, per la quale si confessano a' piedi d'un loro inferiore, e ne implorano l'assoluzione, e ne ricevono le penitenze? Oltre di che, come mai si può supporre che i Greci, pur troppo divisi, e divisi qualche secolo prima che si parlasse di casisti, abbiano poi accettate da questi le forme della penitenza, che hanno comuni con noi in tutte le partì essenziali? In che tempo i casisti hanno commesso quest'atto d'usurpazione? Finalmente, come s'esercitava l'autorità di sciogliere e di legare prima che venissero i casisti a inventarne le forme? Le forme della penitenza, della confessione e dell'assoluzione sono state imposte dalla Chiesa fino dalla sua origine, come lo attesta la sua storia: nè poteva essere altrimenti; giacchè senza di esse è impossibile l'esercizio dell'autorità d'assolvere e di ritenere i peccati; ed è impossibile immaginarne di più semplici e di più conformi allo spirito di quest'autorità; come è impossibile immaginare chi, se non la Chiesa, avrebbe potuto ingerirsi a regolare un tale esercizio.

 

II.

Condizioni della penitenza secondo la dottrina cattolica.

 

Veniamo ora alla dottrina che è tacciata d'aver corrotta la morale; e vediamo se è quella della Chiesa. Un solo alto di fede e di fervore fu dichiarato bastante a cancellare una lunga lista di delitti. Di questa opinione, una parte è stata condannata; l'altra parte, nè la proposizione intera, non è stata insegnata mai.

In quanto alla prima, basti per ora ricordare che il concilio di Trento proscrisse la dottrina che l'empio sia giustificato con la sola fede, e la chiamò vana fiducia e aliena da ogni pietà [39].

In quanto alla proposizione intera, non solo nessun concilio, nessun decreto pontificio, nessun catechismo, ma, ardirei dire, nessun libricciolo di devozione ha detto mai che un atto di fede e di fervore basti a cancellare i peccati. È bensì dottrina della Chiesa che possono esser cancellati dalla contrizione, col proposito di ricorrere, appena si possa, alla penitenza sacramentale.

Chi credesse che questa sia una questione di parole s'ingannerebbe di molto: è questione d'idee quanto nessun'altra.

Fervore non significa altro che intensità e forza d'un sentimento: suppone bensì per l'ordinario un sentimento pio, ma non ne individua la qualità; contrizione in vece esprime un sentimento preciso. Attribuire quindi al fervore l'effetto di cancellare i peccati, sarebbe proporre un'idea confusa e indeterminata, e che non ha una relazione immediata con quest'effetto; attribuirlo alla contrizione, è specificare quel sentimento che, secondo le Scritture e le nozioni della ragione illuminata da esse, dispone l'animo del peccatore a ricevere la giustificazione. Per avere dunque un'idea giusta della fede cattolica in questa materia, bisogna cercare cosa sia la contrizione, e cercarlo nelle definizioni della Chiesa. « La contrizione è un dolore dell'animo, e una detestazione del peccato commesso, col proponimento di non peccar più.... Dichiara il Santo Sinodo che questa contrizione contiene, non solo la cessazione dal peccato, e il proponimento e il principio d'una vita nova, ma l'odio della passata.... Insegna inoltre che, quantunque avvenga qualche volta, che questa contrizione sia perfetta di carità, e riconcilii l'uomo a Dio, prima che questo e sacramento (della penitenza) sia ricevuto in fatto, non si deve attribuire la riconciliazione alla contrizione, senza il voto del sacramento, che è inchiuso in essa [40]

La ragione sola non poteva certamente trovare questa dottrina, perchè il suo fondamento è nella carità, la quale è fondata essa medesima in quella più elevata e più pura cognizione di Dio, e delle relazioni dell'uomo con Dio, che non poteva venirci se non dalla rivelazione. Ma quando questa dottrina le sia annunziata, la ragione è costretta, o ad approvarla, o a rinnegare le sue proprie e più evidenti nozioni. L'uomo che trasgredisce i comandamenti di Dio, gli diviene nemico, e si rende ingiusto. Ma quando riconosce i suoi falli, ne è dolente, li detesta e, ciò che viene di conseguenza, propone di non commetterne più; quando propone di ritornare a Dio, per que' mezzi che, nella sua misericordia, Dio ha instituiti a ciò; quando propone di soddisfare alla giustizia divina, di rimediare, per quanto può, al mal fatto, allora non è più, per dir così, lo stesso uomo, non è più ingiusto; tanto è vero che, non solo del peccato in generale, ma de suoi propri in particolare, ha un sentimento dello stesso genere che ne ha Dio,fonte d'ogni giustizia. È dunque sommamente ragionevole che quest'uomo così mutato sia riconciliato a Dio.

Ma la conseguenza immorale di questa dottrina, è stato detto tante volte, è che molti credono che sia facile l'avere questo sentimento di contrizione, e s'incoraggiscono a commettere il male, per la facilità del perdono. Perchè lo credono? Chi gliel ha detto? Se credono alla Chiesa quando insegna che la contrizione riconcilia a Dio, Perchè non le credono quando insegna che l'effetto naturale del peccato è l'indurimento del core, che il ritorno a Dio è un dono singolare della sua misericordia, che il disprezzo delle sue chiamate lo rende sempre più difficile? Se, a ogni conseguenza storta che gli uomini deducono dalle dottrine della Chiesa, essa avesse voluto abbandonare una verità, per evitare un tale abuso, la Chiesa le avrebbe da gran tempo abbandonate tutte. Essa s'oppone bensì a questo miserabile traviamento, con l'inculcarle tutte; e in questo caso singolarmente, chi può non riconoscere la sua cura materna nelle precauzioni che usa affinchè il peccatore non inganni sè medesimo, e non cambi in ira i doni della misericordia?

Di queste precauzioni parleremo or ora, trattando dell'amministrazione della penitenza. Ci si permetta intanto d'osservar qui un esempio dell'instabilità, anzi della contradizione che si trova non di rado nell'accuse fatte alla dottrina della Chiesa. Ciò potrà servire, del resto, a provare in un'altra maniera la verità di quella di cui si tratta.

Quelli tra i novatori del secolo XVI, ch'ebbero più seguito, combatterono appunto, quasi dal principio, la dottrina cattolica della penitenza, e soprattutto la parte che la contrizione deva avere in questa. E con quali argomenti? Forse come una dottrina che lusingasse le passioni, che offrisse al vizioso un mezzo tanto illusorio in effetto, quanto facile in apparenza, di cancellare una lunga lista di delitti? Tutt'altro, anzi l'opposto. La combatterono come dura, come tirannica, come tale che imponesse arbitrariamente alle coscienze una legge impossibile a adempirsi. È un'ingiuria al Sacramentoi e un istrumento di disperazione, il non credere efficace l'assoluzione, se non è certa la contrizione, disse Lutero nelle sue tesi Per la ricerca della verità e per consolare le coscienze aggravate [41]. Calvino accusò ugualmente la dottrina cattolica che richiede la contrizione per la remissione de peccati, di tormentare e d'agitare stranamente le coscienze, di ridurle a dibattersi con sè stesse, e ad affannarsi in lunghi contrasti, senza trovar mai un porto, dove finalmente  posarsi [42].

E quale dottrina vollero poi sostituire alla cattolica, così riprovata da loro? Quella appunto che abbiam visto essere, così a torto, attribuita ai cattolici, e che i cattolici non conoscono, se non per la condanna della Chiesa, cioè che il peccatore sia giustificato per la sola fede.

E si noti che, attribuendo alla fede l'efficacia, non solo sufficiente, ma unica e esclusiva, di cancellare i peccati, intendevano per fede il credere ognuno; con intera sicurezza, che i suoi peccati gli siano rimessi, in virtù della promessa del Redentore. Ecco alcuna delle proposizioni di Lutero su questo proposito. È certo che i peccati ti sono rimessi, se li credi rimessi; perchè è certa la promessa di Cristo Salvatore [43]. – Vedi quanto sia ricco l'uomo cristiano o battezzato, che, anche volendo, non può perdere la sua salvezza, con quanti peccati si sia, solo che non voglia lasciar di credere; poichè nessun peccato lo può dannare, se non la sola incredulità [44]. – Secondo l'ordine istituito da Cristo, non c'è altro peccato che l'incredulità, nè altra giustizia che la fede [45]. – La sola fede in Cristo c'è necessaria per esser giusti [46]. – Calvino affermò ugualmente, e sostenne che l'uomo è giustificato per la sola fede, intesa nella stessa maniera [47], cercando poi d'eludere alcune delle conseguenze naturali d'una tale dottrina.

E su cosa si fondava poi l'accusa che facevano alla dottrina cattolica', d'imporre alla penitenza una condizione impossibile? Unicamente sulla, autorità di questo loro domma medesimo, cioè sulla supposizione, che, per ottenere la remissione de peccati sia necessario il credere, con certezza di fede, che siano rimessi; e che sia, per conseguenza, necessario il credere, con uguale certezza, d'avere adempita la condizione richiesta. E non c'è dubbio che, posta una legge simile, la condizione voluta dalla dottrina cattolica sarebbe, in regola generale, impossibile a adempirsi; giacchè qual uomo, senza una particolare rivelazione, senza che l'infallibile Conoscitore de' nascondigli del core [48] gli abbia detto: Tu hai amato molto, e perciò, ti sono rimessi i tuoi peccati [49], qual uomo può conoscere, con certezza assoluta e di fede, d'avere una contrizione adequata delle sue colpe? Senonché, con una legge simile, non la sola contrizione, ma qualunque condizione sarebbe impossibile; giacché qual uomo può conoscere, con certezza assoluta e di fede, la perfezione e, dirò così, l'adequatezza d'un suo sentimento qualunque? E quindi impossibile anche la condizione predicata dai due novatori, come unica esufficiente, cioè la fede. Ho qui il vantaggio di potermi servire di parole del Bossuet: Mais, répond.il (Luther), le Fidèle peut dire, je crois, et par là sa foi lui devient sensible; Comme si le même Fidèle ne disoit pas de la même sorte, je me repens, et qu'il n'eût pas le même moyen de s'assurer de sa repentance. Que si l'on répond en fin que le doute lui reste toujours s'il se repent comme il faut, j'en dis autantt de la foi; et tout aboutit à conclure que le pécheur se tient assuré de sa justification, sans pouvoir être assuré d'avoir accompli, comme il faut, la condition que Dieu exigeoit de lui pour l'obtenir [50]. E non si prenda questo per un semplice argomento ad hominem, col quale si possa bensì render comune la difficoltà all'avversario, ma senza levarla da sè. La difficoltà cade tutta quanta sulla dottrina che vuol imporre quella legge; non tocca appunto la dottrina cattolica, la quale non l'ha mai nè immaginata, nè accettata; e secondo la quale, il fedele, applicando la fede al suo oggetto proprio, e escludendola da ciò che non lo è, né lo può essere, crede la remissione de' peccati, e, pentito, spera d'averla ottenuta per i meriti del Redentore.

E di qui chiunque rifletta è condotto a vedere che in questa dottrina sola può trovare il suo luogo la speranza; essendo una, cosa d'immediata evidenza, che la certezza l'esclude, e che non si può, senza la più aperta contradizione, applicar l'una e l'altra a un fatto medesimo. La quale abolizione virtuale della speranza è più manifesta nella dottrina di Calvino, il quale, o estendendo, o applicando più logicamente quel novo domma (il che non occorre qui di ricercare), pronunziò che, non solo della sua attuale giustificazíone, ma della sua perseveranza finale, e della sua eterna salute, deva il fedele avere un'assoluta certezza. Una bella fiducia, dice, ci rimane della nostra salvezza, se, in quanto al presente, non abbiamo che una congettura morale d'essere in grazia, e non sappiamo ciò che potrà essere nel futuro [51]. E più espressamente ancora in un altro luogo: In conclusione, non è veramente fedele, se non chi... affidato alle promesse della divina benevolenza verso di lui, aspetta anticipatamente, con piena certezza, la sua eterna salute [52]. E dovendo però ritenere la parola « speranza, » tanto solenne e tanto ripetuta nelle Scritture, non lo potè fare, se non levandole il suo significato essenziale, e cambiandolo in una contradizione: La speranza, disse, non è, in conclusione, altro che l'aspettativa di ciò che la fede ha creduto esser veramente promesso da Dio [53]: Ma l'intimo senso, e il senso comune replicano, a una voce, che l'aspettativa d'un bene che uno avesse la certezza assoluta di possedere, sarebbe desiderio; non sarebbe speranza. Ogn'uomo, infatti, senza eccezione, conosce per propria esperienza e, se ce ne fosse bisogno, per un consenso non mai contradetto, uno stato dell'animo, relativo a un bene desiderato e, più o meno, probabile, che è, quanto dire, non certo. Ed è appunto questo stato dell'animo, che è significato dal vocabolo « speranza; » vocabolo che ha, senza dubbio, un equivalente in tutti i linguaggi; giacchè, come supporre una società d'uomini, nella quale non si senta il bisogno di significare uno stato dell'animo così universale, così frequente, così inevitabile? Quanto non sarebbe assurdo il dire: Credo, con certezza di fede, che possederò la vita eterna, e spero d'ottenerla! Eppure sarebbe la vera e unica maniera d'esprimere in atto la speranza cristiana, secondo quella dottrina. E sarebbe assurdo nè più nè meno il dire: Credo, con certezza di fede, la resurrezione de' morti, e spero che i morti risorgeranno. Applicare la certezza a una proinessa condizionata, e la speranza a una predizione assoluta e infallibile, sono due forme d'un assurdo medesimo, cioè della confusione di queste due distintissime essenze.

Dopo tali premesse, non c'è da maravigliarsi, per quanto la cosa sia strana, che Calvino accusi di contradizione la dottrina del Concilio di Trento, appunto perchè c'è mantenuta la distinzione tra la speranza e la certezza. Non vogliono, dice, che alcuno si riprometta da, Dio, con certezza assoluta, la perseveranza, quantunque non disapprovino il riporne in Dio una speranza fermissima. Ma, prima di tutto, ci facciano vedere con qual cemento si possano fare stare insieme due cose tanto repugnanti tra di loro, una speranza fermissima, e un'aspe!tativa sospesa [54]. Cemento tra due idee, una delle quali è inclusa nell'altra? Perchà, di novo, chi non sa che la sospensione o, vogliam dire, la non certezza, è un elemento essenziale della speranza? che questa non è altro appunto, che l'aspettativa non certa d'una cosa desiderata? Ma dove gli par di cogliere la contradizione, è in quel « fermissima; » tanto una preoccupazione, principalmente quando è superba; può far dimenticare ciò che è impossibile d'ignorare! Chi non sa che la speranza, come ogni altro affetto umano, è capace di gradi indefiniti? Il linguaggio ha, per dir così, esauriti tutti gli aggiunti, è andato in cerca di tutte le figure che potessero servire, in qualche maniera, a distinguerli e a determinarli. E, essendo poi la speranza cristiana, non un semplice affetto umano, ma una virtù soprannaturale, come non sarà desiderabile che arrivi al più alto grado? Perciò il Concilio non si restringe a non disapprovare (espressione che fa parer quasi una concessione quello che è un precetto) che si riponga nell'aiuto di Dio una fermissima speranza; dice che tutti lo devono [55]. E la ragione del precetto è evidente. Ogni speranza d'un bene promesso condizionatamente (e qual promessa più espressamente e ripetutamente condizionata, di quella della salute eterna?) si fonda, da una parte, sulla fedeltà e sulla potenza dell'autore della promessa, e dall'altra, sulla fedeltà di chi deve adempire la condizione. Quindi la speranza eri.stiana dev' esser fermissima, senza paragone con nessun altro sentimento possibile dello stesso genere, in quanto si fonda sull'infallibilità e sull'onnipotenza dell'Autore della promessa; è speranza e nulla più, o, per parlar più esattamente, speranza e null'altro (giacchè la certezza non è un ultimo e supremo grado della speranza, ma un'altra essenza, e incompatibile con essa), in quanto l'adempimento della condizione dipende dalla libera volontà dell'uomo. Ma speranza fermissima con tutto ciò, perchè quella promessa, data per un'infinita carità, e per i meriti infiniti del Redentore, non ha per unico oggetto la ricompensa. Imponendoci la condizione, Dio non ci ha abbandonati alle sole nostre forze per adempirla; ma ha promesso ugualmente d'aiutare ogni nostro sforzo perchè sincero, e d'accordare alla preghiera tutto, senza eccezione, ciò che possa esser necessario a quell'adempimento. E perchè la cognizione più elevata della verità fa trovare una concordia tra quelle verità subordinate che, a prima vista, possono parere opposte, il fedele istruito da Dio, per mezzo della Chiesa, sa che quell'incertezza la quale rimane nella speranza cristiana, anzi ne è una condizione, quell'incertezza che non ha altra ragione, che nella nostra debolezza, non solo è necessaria a mantenere l'umiltà e la vigilanza; ma ha la virtù di render più ferma la speranza medesima. In altri termini, intende che la diffidenza di noi medesimi , se il core è veramente cristiano, serve a fortificare e a accrescere la nostra fiducia in Dio. Infatti, quanto più l'uomo conosce che debole, che incerto, che sproporzionato assegnamento possa fare sulle proprie forze, e insieme sa e crede che gli è, non già permesso, ma comandato di sperare; tanto più si sente mosso a volgersi e, direi quasi, a buttarsi, con un lieto abbandono, da quella parte dove tutto è forza, tutto è fedeltà, tutto è previdenza, tutto è assistenza. Nelle speranze che hanno per oggetto i beni temporali, que' due opposti e costitutivi sentimenti, fiducia e diffidenza, fanno unicamente il loro ufizio naturale, che è di combattersi, senza mai concorrere, nè direttamente nè indirettamente, a uno stesso fine. Nella speranza cristiana, ogni atto di diffidenza porta con sè la ragione d'un atto prevalente di fiducia, rimanendo la prima sempre viva e sempre vinta. La debolezza finita, senza mai nè sconoscersi, nè scusarsi, anzi per l'umile confessione di sè medesima, si sente insieme e superata da un'infinita bontà, e sostenuta da un'infinita forza; avverandosi anche in questo senso il detto dell'Apostolo, che la potenza divina arriva al suo fine per mezzo della debolezza [56]. Così la religione, che innalza al grado di virtù un affetto naturale, qual' è la speranza, dandogli per motivo la suprema Verità, e per termine il supremo Bene, ci manifesta poi, in questo caso, come in tant'altri, ciò che la ragione stessa trova necessario, anche senza conoscerne il modo; cioè che un elemento essenziale d'una virtù (come l'incertezza lo è della speranza) non può essere opposto alla perfezione di essa.

Oso credere che, se la dottrina della giustificazione per la sola fede fosse proposta in questi tempi, per la prima volta, con qualsisia apparato di ragionamenti, e con qualsisia impeto d'eloquenza, troverebbe difficilmente qualche seguace, non che tirarsi dietro l'intere popolazioni. E credo ugualmente che ognuno sarà ora facilmente d'accordo con l'illustre autore nel riguardarla come naturalmente sovvertitrice della morale. Credo ancora, che non avrebbe maggior seguito l'altra dottrina, o conseguente o analoga, della certezza della salute. Ogni errore, per entrar nelle menti, ha bisogno d'un concorso particolare di circostanze, quantunque possa durare, anche mutate queste; e quantunque possano durare i suoi effetti, anche quando abbia perduta, o affatto o in gran parte, la sua forza; come durano purtroppo le dolorosissime separazioni, delle quali que' nuovi dommi furono quasi le prime cagioni, e, per qualche tempo, cagioni attive e potenti.

 

 

III.

Spirito e effetti delle forme imposte alla penitenza.

 

Quali sono poi finalmente queste forme penitenziali? La confessione delle colpe, per dare al sacerdote la cognizione dell'animo del peccatore, senza la quale è impossibile ch'egli eserciti la sua autorità; l'imposizione dell'opere di soddisfazione; la formula dell'assoluzione. Io non mi propongo di farne l'apologia; giacchè cosa può mai trovarsi a ridire in esse, che non sono altro che il mezzo più semplice, più indispensabile, più conforme all'istituzione evangelica, per applicare la misericordia di Dio, e il Sangue della propiziazione? Farò bensì osservare, non già tutti gli effetti di questa istituzione divina (rimettendomi alle molte opere apologetiche che ne ragionano, e alle lodi che ha avute anche da molti di quelli che non (hanno conservata), farò osservare principalmente quegli effetti che sono in relazione col ritorno alla virtù per i traviati, e col mantenimento della virtù ne' giusti.

L'uomo caduto nella colpa ha purtroppo una tendenza a persisterci; e l'essere privato del testimonio della bona coscienza l'affligge senza migliorarlo. Anzi è una cosa riconosciuta che il reo aggiunge spesso colpa a colpa, per estinguere il rimorso; simile a coloro che, nella perturbazione e nel terrore dell'incendio, buttano nelle fiamme ciò che vien loro alle mani, come per soffogarle. Il rimorso, quel sentimento che la religione con le sue speranze fa diventar contrizione, e che è tanto fecondo in sua mano, è per lo piú o sterile o dannoso senza di essa. Il reo sente nella sua coscienza quella voce terribile: non sei più innocente; e quell'altra più terribile ancora: non potrai esserlo più; e riguardando la virtù come una cosa perduta, sforza l'intelletto a persuadersi che se ne può far di meno, che è un nome, che gli uomini l'esaltano perchè la trovano utile negli altri, o perchè la venerano per pregiudizio; cerca di tenere il core occupato con sentimenti viziosi che lo rassicurino, perchè i virtuosi sono un tormento per lui. Ma per lo più quelli che vanno dicendo a sè stessi che la virtù è un nome vano, non ne sono veramente persuasi: se una voce interna annunziasse loro autorevolmente, che possono riconquistarla, la crederebbero una verità, o, per dir meglio, confesserebbero a sè stessi d'averla, in fondo, creduta sempre tale. Questo fa, la religione in chi vuole ascoltarla: essa parla in nome d'un Dio che ha promesso di buttarsi dietro le spalle le iniquità del pentito: essa promette il perdono, e offre il mezzo di scontare il prezzo del peccato. Mistero di sapienza e di misericordia! mistero, che la ragione non può penetrare, ma che tutta la occupa nell'ammirarlo; mistero che, nell'inestimabilità del prezzo della redenzione, dà un'idea infinita e dell'ingiustizia del peccato e del mezzo d'espiarlo, un'immensa ragione di pentimento, e un'immensa ragione di fiducia.

Ma la religione non fa solamente questo; essa rimove anche gli altri ostacoli che gli uomini oppongono al ritorno alla virtù. Il reo sfugge la società di quelli che non lo somigliano; perchè li teme superbi della loro virtù: aprirà egli il suo core a loro, che ne profitteranno per fargli sentire che sono da più di lui? Che consolazione gli daranno essi, che non possono restituirgli la giustizia? essi che stanno lontani da lui, per parere incontaminati? che parlano di lui con disprezzo, perchè si veda sempre più che disprezzano il vizio? essi che lo sforzano così a cercare la compagnia di quelli che sono colpevoli come lui, e che hanno le stesse ragioni per ridersi della virtù? La giustizia umana ha pur troppo con sè l'orgoglio del Fariseo che si paragona col Pubblicano, che prende un posto lontano da lui; che non s'immagina che quello possa diventare un suo pari; che, se potesse, lo terrebbe sempre nell'abiezione del peccato.

Ma questa divina religione d'amore e di perdono ha istituiti de' conciliatori tra Dio e l'uomo. Li vuole puri, perchè la loro vita accresca autorità alle loro parole, perchè il peccatore, con l'accostarsi a loro, si senta ritornato nella compagnia de virtuosi; ma li vuole umili, e perchè possano esser puri, e perchè quello possa ricorrere a loro, senza temere d'esserne respinto. Egli s'avvicina senza ribrezzo a un uomo che confessa d'esser peccatore anche lui, a un uomo che dal sentire le di lui colpe, ricava anzi fiducia che chi le rivela sia caro a Dio, e venera nel ravveduto la grazia di Colui che richiama a sè i cori; a un uomo che riguarda in quello che gli sta a' piedi la pecora cercata e portata sulle spalle del pastore, l'oggetto della gioia del cielo; a un uomo che tocca le sue piaghe con compassione e con rispetto, che le vede già coperte di quel Sangue che invocherà sopra di esse. Sapienza mirabile della religione di Cristo! Essa impone al penitente dell'opere di soddisfazione, che diventano per lui un testimonio consolante del suo cambiamento, e con le quali si rinfranca nell'abitudini virtuose e nella vittoria di sè stesso; con le quali mantiene la carità, e compensa, in certa maniera, il mal fatto. Perchè, non solo la religione non gli accorda il perdono, se non a condizione che ripari, potendo, i danni fatti al prossimo; ma, per ogni sorte di colpe, lo assoggetta alla penitenza, la quale non è altro che l'aumento di tutte le virtù, e quella che fa dell'offensore di Dio un ministro umile e volontario della sua giustizia. Essa prescrive a' suoi ministri, che s'assicurino il più che possono della realtà del pentimento e del proposito; indagine che tende, non solo a impedire che s'incoraggisca il vizio con la facilità del perdono, ma a dare una più consolante fiducia all'uomo che è pentito davvero: tatto è sollecitudine di perfezione e di misericordia. E i ministri che riconciliassero leggermente chi non fosse realmente mutato, essa li minaccia che, in vece di scioglierlo, saranno legati essi medesimi; tanta è la sua cura perché l'uomo non cambi in veleno i rimedi pietosi che Dio ha dati alla nostra debolezza.

Chi, con queste disposizioni, è ammesso alla penitenza, è certamente nella strada della virtù; chi s'è sentito dire dal ministro del Signore, che è assolto, si trova come ristabilito nel retaggio dell'innocenza, e principia di novo a battere quella strada con alacrità, con tanto più di fervore, quanto più si rammenta che frutti amari ha colti in quella del vizio, quanto più sente che gli atti e i sentimenti virtuosi sono i mezzi che la religione gli presenta per crescere nella fiducia che le sue tracce su quella trista strada siano cancellate.

La religione ha ricevuto dalla società un vizioso, e le restituisce un giusto: essa sola poteva fare un tal cambio. Chi avrebbe tentato, chi avrebbe pensato d'istituire de' ministri per aspettare il peccatore, per invitarlo, per insegnar la virtù, per richiamare a quella chi ricorre a loro, per parlargli con quella sincerità che non si trova nel mondo, per metterlo in guardia contro ogni illusione, per consolarlo a misura che diventa migliore?

Il mondo si lamenta che molti esercitino un così alto ufizio come un mestiere; e con questa parola gli rende omaggio senza avvedersene, riconoscendo che ogni mira di guadagno, di vantaggio temporale, anche onestissima in ogni altra professione, è sconveniente nell'esercizio di esso. Ma forse che sono cessati i ministri degni d'un tale ufizio? No, Dio non ha abbandonata la sua Chiesa: Egli mantiene in essa uomini che non hanno, che non vogliono altro mestiere che sacrificarsi per la salute de' loro fratelli, e in questa vedono un vero premio de' pericoli, de' patimenti, della vita più laboriosa; qualche volta della morte, del supplizio, e più spesso d'un lento martirio. Ma il mondo che si lamenta degli altri, guarderà dunque questi con venerazione e con riconoscenza; in ogni ministro zelante, umile e disinteressato vedrà un uomo grande; si rammenterà con tenerezza e con ammirazione que' sacerdoti che scorrono i deserti dell'America per parlare di Dio ai selvaggi; al sentire la fine di que' soldati della Chiesa, che, andati alla China per predicar Gesù Cristo, senza una speranza terrena; ci hanno recentemente sofferto il martirio, il mondo se ne glorierà, come fa di tutti quelli che disprezzano la vita per un nobile fine. Se non lo fa, se deride quelli che non può censurare, se li dimentica, o li chiama intelletti deboli, miseri, pregiudicati, si può credere che il mondo odii, non i difetti de' ministri, ma il ministero.

Ma la penitenza sacramentale non è utile e necessaria solamente a quelli che hanno scosso il giogo della legge divina, e aspirano a riprenderlo: lo è non meno ai giusti. In guerra continuamente con le prave inclinazioni interne, e con tutte le potenze del male, essi sono chiamati dalla religione a ripensare nell'amarezza del core le loro imperfezioni, a vegliare sulle loro cadute, a implorarne il perdono, a compensarle con atti di virtuosa annegazione, a proporre di cambiar sempre in meglio la loro vita. La penitenza è quella che distrugge in essi i vizi, al loro nascere, e in vasi di creta conserva il tesoro [57] della giustizia.

Un'istituzione che obbliga l'uomo a formare un giudizio severo sopra sè stesso, a misurare le sue azioni e le sue disposizioni col regolo della perfezione, che gli dà il più forte motivo per escludere da questo giudizio ogni ipocrisia, insegnando che sarà riveduto da Dio, è una istituzione sommamente morale.

Come mai una tale istituzione ha potuto essere mal intesa da tanti scrittori? Come mai le è stato tante volte attribuito uno spirito perfettamente opposto al suo?

Non si puòa meno di non provare un sentimento doloroso per ogni verso, quando, in uno scritto che spira amore per la verità, e per il perfezionautento, in uno scritto, dove le riflessioni le più pensate sono ordinate al sentimento morale, e questo al sentimento religioso, si trova questa propasizione: che il cattolicismo fa comprare l'assoluzione con la manifestazione delle colpe [58].

Qui non si tratta, nè d'induzioni, nè d'influenze recondite e complicate; si tratta d'un fatto. Ognuno può informarsi da qualunque cattolico, se la manifestazione (aveu) delle colpe basti a ottenere l'assoluzione; qualunque cattolico risponderà di no, qualunque cattolico ripeterà col Concilio di Trento: « Anatema a chi nega che alla perfetta remissione de' peccati si richiedano tre atti nel penitente, quasi materia del sacramento, cioè la contrizione, la confessione e la soddisfazione [59]. »

Di più, ricevere questo sacramento senza quelle disposizioni è un sacrilegio, un novo orribile peccato. E tanto è vero che l'assoluzione non si compra con la confessione materiale, che qualche volta l'assoluzione puòesser negata dopo quella confessione, e qualche volta si dà senza di essa, come ai moribondi, i quali non siano in caso di confessarsi, e diano segni d'esserci disposti.

Si consideri un momento lo spirito della Chiesa nella dottrina dei sacramenti, e si vedrà come tutta l'economia di essi sia diretta alla santificazione del core, si vedrà quanto essa sia aliena dal sostituire le pratiche a' sentimenti. L'insegnamento cattolico fa ne' sacramenti una distinzione non meno propria che importante, chiamandone alcuni sacramenti de' vivi, e altri de' morti. Gli uni e gli altri sono istituiti da Gesù Cristo, e tutti per santificare; ma ai primi non è lecito accostarsi se non in stato di grazia: perchè? Perchè, secondo la Chiesa, il primo passo, il passo indispensabile a ogni grado di santificazione è il ritorno a Dio, l'amore della giustizia, l'avversione al male. C'è purtroppo negli uomini una tendenza, superstiziosa insieme e mondana, che li porta a confidare nelle nude pratiche esterne, e a ricorrere a cerimonie religiose per soffogare i rimorsi, senza riparare ai mali commessi, e senza rinunziare alle passioni: il gentilesimo, cred'io, li serviva in ciò secondo i loro desidèri. Ma qual è la religione che essenzialmente, perpetuamente e manifestamente s'oppone a questa tendenza? La religione cattolica senza alcun dubbio. Essendo tutti i sacramenti mezzi efficaci di santificazione, Perchè non sarebbe lecito ricorrere indistintamente a tutti i sacramenti, se le pratiche del culto fossero ammesse a compensare i delitti? Qual mezzo di santificazione potrebbe parere più facile del sacramento dell'Eucaristia, il quale comunica realmente la Vittima Divina, e unisce all'uomo la santità stessa? Eppure la Chiesa dichiara non solo inutile, ma sacrilego il ricevere questo sacramento per chi, non sia in stato di grazia: il Propiziatore stesso diventa condanna in un core ingiusto. Essa obbliga i peccatori che vogliono arrivare a quelle più alte fonti di grazia, a passare per i sacramenti che riconciliano a Dio; cioè la penitenza, alla quale non è lecito avvicinarsi senza dolore del peccato: e senza proposito di nova vita e il battesimo che negli adulti esige le stesse disposizioni. Poteva la Chiesa mostrare più ad evidenza, che non conta, che anzi ricusa le pratiche esterne, quando non siano segni d'un amore sincero della giustizia?

Ma donde può essere nata una opinione tanto contraria allo spirito della Chiesa? Io credo da un equivoco. Essendo la confessione la parte più apparente del sacramento di penitenza, ne è venuto l'uso di chiamare impropriamente confessione tutto il sacramento. Ma s'avverta che quest'inesattezza di parole non ne ha corrotta l'idea; perché la necessità del dolore, del proponimento e della soddisfazione è tanto universalmente insegnata, che si può affermare non esserci catechismo che non la inculchi, nè ragazzo ammesso alla confessione che l'ignori.

 

Note

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[1] M.urs des Chrétiens 4.me partie, LXIV. Multitude des des Docteurs.

[2] Ego sum Dominus Deus tuus. Exod. XX, 2.

[3] Initium sapientiae timor Domini. Psal. CX. 10. Eccl. 1, 16. Prov. I, i. Ibidem IX, 10.

[4] Et ut oppropinquavit, videns civitatem, flevit super illam. Luc. XIX, 41.

[5] Nella tesi sostenuta in Lipsia contro Giovanni Echio, l'anno 1819.

[6] Ideo dixi nullum esse peccatum natura sua veniale, sed omnia damnabilia: quod autem venialia sunt, Dei gratiae, quae mognipendenda est, tribuendum est. Luth. Resolutiones super propositionibus suis, Lipsiae disputatis. Opp. T. I, fol. ccciiii recto; Witebergae, 1515. – La proposizione a cui allude qui, è la seguente: In bono peccare hominem, et peccatum veniale, non natura sua, sed Dei misericordia solum esse tale, aut in puero post baptismum peccatum remanens, negare, hoc est Paulum et Christum semel conculcare. Ibid. fol. CCXLI recto.

[7] Habeant filii Dei, omne peccatum mortale esse; quia est adversus Dei voluntatem rebellio, quae eius iram necessario provocat; quia est Legis prævaricatio, in quam edictum est, sine exceptione, Dei iudicium; sanctorum delicta venialia esse, non suapte natura, sed quia ex Dei misericordia veniam consequuntur. Calvini, Institutio Christianae Religionis, cap. III, 90.

[8] Sunt autem quaedam quae levissima putarentur, nisi in Scripturis demonstrarentur opinione graviora. S. August. Enchirid. de Fide, etc., c. 79. Quae sint autem levia, qua? grava peccata, non humano, sed divino sunt pensanda iudicio. Ibid, c. 78.

[9] Non afferamus stateras dolosas, ubi oppendamus quod volumus, et quomodo volumus, pro arbitrio nostro dicentes, hoc grave, hoc leve est: sed afferamus divinam stateram de Scripturis Sanctis, tamquam de thesauris dominicis, et in illa quod sit gravius appendamus, immo non appendamus, sed a Domino appensa recognoscamus. De Baptismo, contra Donatistas. Lib. II, 9.

[10] Delicta quis intelligit? Psal. XVIII, 12.

[11] Justus autem ex fide vivit. Paul. ad Rom. I, 17, e altrove.

[12] Omnis qui odit fratrem suum homicida est. Ioan. Epist. I, III, 15.

[13] Secundum autem (mandatum) simile est illi: Diliges proximum tuum tamquam te ipsum. Maius horum aliud mandatum non est. Marc. XII, 31.

[14] Nos scimus quoniam translati sumus de morte ad vitam, quoniam diligimus fratres. Ioan. Epist. I, III, 14.

[15] 31 Ottobre 1531.

[16] 16 Marzo 1569.

[17] Novembre 1620.

[18] Filioli mei, non diligamus verbo, neque lingua, sed opere et veritate. Ioan. Epist. I, 111, 18.

[19] Sic enim Deus dilexit mundum, ut Filium suum unigenitum daret. Ioan. III, 16.

[20] Testes deposuerunt vestimenta sua secus pedes adolescentis, qui vocabatur Saulus.... Saulus autem erat consentiens veci ejus. Act. Apost. VII, 57,

59.

[21] Non est in alio aliquo salus. Act. Apost. IV, 12.

[22] Vas electionis est mihi iste. Ibid. IX, 15.

[23] Émile, liv. IV, not. 40.

[24] Si enim, cum inimici essemus, reconciliati sumus Deo per mortem Filii eius; multo magis reconciliati, salvi erimus in vita ipsius. Ad Rom. V, 10.

[25] Nescit homo, utrum amore, an odio dignus sit. Eccl. IX, I.

[26] Domine, ne statuas illis hoc peccatum. Et cum hoc dixisset, obdormivit in Domino. Act. Apost. VII, 59.

[27] Considérations sur la révolution françoise, par Mad. de Stael. Tom. III, pag. 382.

[28] Non tibi vile sit neque contemptibile, fili honorabiliter dilectissime, quod vos rogamus ne occidantur, pro quibus Dominum rogamus ut corrigantur. August. Donato procons. Afr. Epist. C., tom. II, pag. 270, edit. Maur.

[29] Robertson, Storia dell'America. Pisa 1789, vol. 11, pag. 421.

[30] Ecce ego mitto vos sicut agnos inter lupos. Luc. X, 3.

[31] Quibus dignus non erat mundus. Ad Hebr. XI, 38.

[32] Tillemont, Saint Ignace.

[33] Rara temporum felicitate, ubi sentire quae velis, et quae sentias licere licet. Histor. lib. I.

[34] Actum quem debuisti, mi Secunde, in excutiendis causis eorum, qui Christiani ad te delati fuerant, secutus es. Neque enim in universum aliquid quod quasi certam formam habeat constitui potest. Conquirendi non sunt, si deferantur et arguantur, puniendi sunt; ita tamen, ut qui negaverit se Christianum esse, idque re ipsa manifestum fecerit, id est supplicando diis nostris, quamvis suspectus in praeteritum fuerit, veniam ex poenitentia impetret. Sine auctore vero propositi libelli nullo crimine locum habere debent; nam et pessimi exempli, nec nostri saeculi est. Traianus Plinio, in Plin. Epist. X, 98.

[35] Nec mediocriter haesitavi, sit ne aliquod discrimen aetatum, an quamlibet teneri nihil a robustioribus differant.... nomen ipsum, etiam si flagitiis careat, aut flagitia cohoerentia nomini puniantur. Confidentes iterum ac tertio interrogavi, supplicium minatus: perseverantes duci jussi. Neque enim dubitabam, qualecumque esset quod faterentur, pertinaciam certe et inflexibilem obstinationem debere puniri. – Alii, ab indice nominati, esse se Christianos dixerunt, et mox negaverunt: fuisse quidem, sed desiisse.... Omnes et imaginem tuam, Deorumque simulacra venerati sunt: ii et Christo maledixerunt. Affirmabant autem... se sacramento non in scelus aliquod obstringere, sed ne furta, ne latrocinia, ne adulteria committerent, ne fidem fallerent, ne depositum appellati abnegarent. Plinius Traiano Epist. X, 97

[36] Intraverunt in civitateni Samaritanorum, et non receperunt cum. Cum vidissent autem discipuli eius Iacobus et Ioannes, dixerunt: Domine, vis dicimus ut ignis descendat de coelo et consumat illos? Et conversus increpavit illos, dicens: Nescitis cuius spiritus estis. Luc. IX, 52, 53, 51, 55.

[37] Et quicumque non receperit vos, neque audierit sermones vestros; exeuntes foras de domo, vel civitate, excutite pulverem de pedibus vestris. Matth. X, 11.

[38] Defendenda enim est religio, non uccidendo sed moriendo; non saevitia, sed patientia; non scelere, sed fide: illa enim malorum sunt, haec bonorum. Et necesse est bonum in religione versari, non malum. Nam si sanguine, si tormentis, si malo religione defendere velis, iam non defendetur illa, sed polluetur, atque violabitur. Nihil tam voluntarium quam religio, in qua si animus sacrificantis aversus est, iam sublata, iam nulla est. Lactantii, Divin. Institut. Lib. V, c. XX.

[39] Si quis dixerit sola fide impium justificari, ita ut intelligat nihil aliud requiri, quod ad justifcationis gratiam consequendam cooperetur, et nulla ex parte necesse esse eum suæ voluntatis motu proeparari atque disponi; anathema sit. Sess. VI. De Justificatione, Canon. IX. – Vana hæc et ab omni pietate remota fiducia. Ibid. Decreturn de Justificatione, cap. IX.

[40] Contritio, quae primum locum inter dictos poenitentis actus habet, animi dolor ac detestatio est de peccato commesso, cum proposito non peccandi de coetero.... Declarat igitur Sancta Synodus, hanc contritionem, non solum cessationem a peccato, et vitae novae propositum, et inchoationem, sed veteris etiam odium contenere.... Docet praeterea, etsi contritionem hanc aliquando charitate perfectam esse contingat, hominemque Deo reconciliare, priusquam hoc sacramentum actu suscipiatur; ipsam nihilominus reconciliationem ipsi contritioni, sine sacramenti voto, quod in illa includitur, non esse adscribendam. Conc. Trid. sess. XIV, De sacram. poenit. cap. IV.

[41] Iniuria est Sacramenti, et desperationis machina, non credere absolutionem, dona certa sit contritio. – De veritate inquirenda, et oneratis conscientiis consolandis. Luth. Opp. Tom. I, fol. liii, verso.

[42] Contritionem, primam obtinendæ veniæ partem faciunt; eamque debitam exigunt, hoc est iustam et plenam: sed interim non constituunt quando securus aliquis esse possit, se hac contrizione ad iustum modum defunctum esse. Equidem sedulo et acriter instandum esse fateor, ut quisque amare deflendo sua peccata, se ad eorum displicentiam et odium magis acuat... Sed ubi exigitur doloris acerbitas, quæ culpæ magnitudini respondeat, et quæ in trutina appendatur cum fiducia venite; hic vero miseræ conscientim miris modis torquentur et exagitantur, dum sibi debitam peccatorum contritionem imponi vident, nec assequuntur debiti mensuram, ut secum decernere possint se persolvisse quod debebant. Si dixerint faciendum quod in vobis est, eodem semper revolvimur. Quando enim audebit sibi promittere quispiam omnes se vires contulisse ad lugenda peccata? Ubi ergo diu secum luctatæ, et longis certaminibus exercitæ conscientiæ, portum tandem, in quo resideant, non inveniunt; ut se aliqua saltem parte leniant, dolorem a se extorquent, et lacrymas exprimunt, quibus suam contritionem perfaciant. Calvini, Institut. Christ. Relig. III, cap. IV, 2.

[43] Certum est ergo remissa esse peccata, si credis remissa, quia certa est Christi Salvatoris promissio. Luth. Disputationes; Opp. T. I, fol. liii verso

[44] Ita vides quam dives sit homo Christianus sive baptisatus, qui etiam volens non potest perdere salutem suam, quantiscumque peccatis, nisi nolit credere. Nulla enim peccata cum possunt damnare, nisi sola incredulitas. De captivitate Babylonica Ecclesiae; Ibid. T. II, fol. 74 verso.

[45] .... Cum Christus ordinarit, ut nullum esset peccatum, nisi incredulitas, nulla iusticia, nisi fides. Ad lib. Ambros. Catharini, Ibid. T. II, fol. 157 recto

[46] Sola enim fides Christi necessaria est ut iusti simus. In Epist. Pauli ad Gal. Commentarius primus. Ibid. T. V, fol. 225 verso.

[47] Iam perspicit lector, quanta aquitate doctrinam nostram hodie sophistæ cavillentur, quum dicimus hominem sola fide iustificari. Fide iustificari hominem, quia toties in Scriptura recurrit, negare non audent, sed quum nusquam exprimatur sola, hanc adiectionem fieri non sustinent. Institut. Christ. Relig. Lib. III,cap. XI, 19

[48] Ipse enim nolit abscondita cordis. Psalm. XLIII, 22

[49] Propter quod dico tibi: Remittuntur ei pecata multa, quoniam dilexit multum.... Dixit autem ad illam: Remittuntur tibi peccata. Luc. VII,47, 48.

[50] Histoire des Variations des Églises Protestantes. Liv. I, st.

[51] Egregia vero salutis fiducia nobis relinquitur, si ad praesens momentum nos esse in gratia, coniectura morali aestimamus, quid in crastinum sit futurum nescimus. Instit. Christ. Rel. III, II, 40.

[52] In summa, vere fidelis non est, nisi qui... divinae erga se benevolentiae promissionibus fretus, indubitatam salutis expectationem praesumit. Ibid. 16.

[53] Ut in summa nihil aliud sit spes, quam eorum espectatio, 'quae vere a Deo promissa fides credidit. Ibid. 42.

[54] Prohibent capite decimo quarto, ne quis perseverandi constantiam sibi, absoluta certitudine, ex Deo polliceatur; tametsi firmissimam de illa spem in Deo collocari non improbant. Sed nobis primum ostendant quonam cemento coagmentari queant res tantopere dissidentes, firmissima spes, et suspensa expectatio. Antidotum Concilii Tridentini; in sextam sessionem.

[55] Nemo sibi certi aliquid (de perseverantiae munere) absoluta certitudine polliceatur; tametsi in Dei auxilie firmissimam spem collocare et reponere omnes debent. Deus enim, nisi ipsi illius gratiæ defuerint, sicut c.pit opus bonum, ita perficiet, operans velle et perficere. Conc. Trid. Sess. VI, cap. XIII.

[56] Virtus in infirmitate perficitur. Ad Corinth. 11, XII, 9.

[57] Habemus autem thesaurum istum in vasis fictilibus. Paul. II ad Corinth. IV, 7.

[58] Le Catholicisme, en admettant les pratiques à compenser les crimes, en faisant acheter l'absolution par des aveux, et les faveurs par des offrandes, blessoit trop ouvertement les plus simples notion de la raison, pour pouvoir résister au progrès des lumières. Éducation pratique, trad. de l'anglais par M. Pictet. Genève, de l'imprimerie de la Bibliothèque Britannique. Preface du Traducteur, pag. viii, e della seconda edizione pag. vii.

Senza dubbio una tal religione urterebbe le nozioni, più semplici della ragione. Ma, supponendo tale il cattolicismo, rimarrebbe da spiegare come tanti intelletti eminenti, quanti esso ne conta, e, ciò che è più, come tutti i cattolici siano indietro delle prime nozioni della ragione. Questa spiegazione però non è necessaria, non stando punto il fatto.

      Non ci stenderemo sull'altre due tacce date al cattolicismo, perché non sono direttamente dell'argomento, eperchè implicitamente vengono sciolte anch'esse; giacché le pratiche delculto e l'offerte, con le condizioni delle quali s'è piùvolte parlato, sono convenientissime al fine di compensare i peccati, e d'ottenere i favori; e senza di quelle non sono nè proposte, nè valutate dalla dottrina della Chiesa. Volendo addurre un novo esempio di dottrine erroneamente apposte alla Chiesa nella materia della penitenza, ho scelto questo tra moltissimi, perchè, in un libro, dove vorrei che tutto fosse concordia e benevolenza, m'è parso bene di citare scrittori ai quali, ribattendo le loro opinioni, si possa dare un attestato di stima sentita e non comune.

[59] Si quis negaverit ad integram et perfectam remissionem requiri tres actus in p.nitente, quasi materiam Sacramenti P.nitentiæ, videlicet Contritionem, Confessionem, et Satisfactionem.... anathema sit: Conc: Trid. sess. XIV, can. IV