Rustico Filippi
Sonetti
Edizione elettronica a cura del Bolero di Ravel
luglio 2002
Edizione di riferimento: Rustico Filippi: Sonetti, a cura di P. V. Mengaldo, Einaudi, Torino 1971
I
A voi, messere Iacopo comare,
Rustico s'acomanda
fedelmente,
e dice, se vendetta avete a fare,
ch'e' la farà di buon cuor lëalmente. 4
Ma piaceriagli forte
che 'l parlare
e·rider vostro fosse men sovente,
ché male perdere uom,
che guadagnare,
suole schifare più la mala gente. 8
E forte si crucciò di monna Nese
quando sonetto udì di lei novello;
e credel dimostrar
tosto in palese. 11
Ma troppo siete conto di Fastello,
fino a tanto ch'egli ha danar
da spese:
ond'e' si crede bene esser
donzello. 14
II
Fastel, messer fastidio de la cazza,
dibassa i ghebellini
a dismisura,
e tutto il giorno aringa in su la piazza
e dice ch'e' gli tiene 'n aventura. 4
E chi 'l contende, nel viso gli sprazza
velen, che v'è mischiato
altra sozzura,
e sì la notte come 'l dì schiamazza.
Or Dio ci menovasse la
sciagura! 8
Ond'io 'l ti fo saper,
dinanzi assai
ch'a man vegni de' tuo' nemici guelfi,
s'è temp'e se vendetta
non ne fai. 11
Ma tu n'avrai merzé,
quando il vedrai.
Fammi cotanto: togligli Montelfi,
così di duol morir
tosto il vedrai. 14
III
A voi, che ve ne andaste per paura:
sicuramente potete tornare;
da ch'e' ci è dirizzata la ventura,
ormai potete guerra inconinzare. 4
E' più non vi bisogna stare a dura,
da che nonn-è chi vi
scomunicare:
ma ben lo vi tenete 'n isciagura
che non avete più cagion
che dare. 8
Ma so bene, se Carlo fosse morto,
che voi ci trovereste ancor cagione;
però del papa nonn-ho
gran conforto. 11
Ma io non voglio con voi stare a tenzone,
ca·llungo temp'è
ch'io ne fui acorto
che 'l ghibellino aveste per garzone. 14
IV
Su, donna Gemma, co·la
farinata
e col buon vino e co·l'uova
ricenti,
che la Mita per voi sia argomentata,
ch'io veggio ben ch'ell' ha alegati i denti. 4
Non vedete com'ell'è sottigliata?
Maravigliar ne fate tutte genti.
Donna Filippa assai n'è biasimata
da tutti i suoi amici e da' parenti. 8
Or acendete il foco e
sì cocete
cosa che spesso in bocca si metta;
se non, per certo morir la farete: 11
ché la gonella, che sì
l'era stretta,
se ne porian far due, be·llo vedete,
così è fatta magra e sotiletta. 14
V
Se no l'atate, fate
villania,
però ch'io dubbio non sia intisichita:
di belle tortellette
le faria,
ché vedete che nonn-ha
de la vita. 4
Oi lasso me, com'ell'è gita via!
Per Dio, pensate come sia guerita,
ché, non ch'a voi, a me ne 'ncresceria:
più rangola dovreste
aver di Mita. 8
E spïate qual fosse la cagione
ond'ell'ha sì perduto il manicare,
che si suole sì atar
per ficazone; 11
e quando fosse sopra al vendemmiare,
non si tenea le man
sotto il gherone:
ed or s'è sì lasciata dimagrare! 14
VI
Volete udir vendetta smisurata
c'ha·fatta di sua
donna l'Acerbuzzo?
La barba lunga un mese n'ha portata,
orando che dovea far Giovannuzzo. 4
Dio, com' bene le stette a la sciaurata,
quand'ella soferia
così gran puzzo!
Per quella via ne va da la cognata,
s'altra vendetta nonn-è
di Cambiuzzo. 8
Dunque, ben n'anderà
per quella via:
che 'nmantenente fue passato il duolo
ch'e' la disotterrò,
perché putia. 11
Almen faccia vendetta del
figliuolo!
Ma per quel ch'io ne spero che ne sia,
per un fiorin voglio
esser cavigliuolo. 14
VII
No riconoscereste voi l'Acerbo,
ancor che voi il vedeste molto a sera?
Sì fareste, ch'e' non fue
da Viterbo
nonn-è ancora una semana intera. 4
Del compagno nol dico,
ché 'l mi serbo,
ché troppo arosserebbe
ne la cera;
in pasto il tegno e
tuttavia lo 'nerbo,
ché verrà or con via maggiore schiera. 8
Non ch'io v'aprisse, monna lëonessa!
Sì gra·lezzo vi vien per la quintana
ch'altri avrà quella peverada
spessa. 11
Molto vi mostravate piemontana;
fatta siete reina, di
contessa:
Frian v'aspetta quest'altra semana. 14
VIII
Due donzei nuovi ha
oggi in questa terra
c'hanno sì vinti ciascun fiorentino
che più non possor sofrire la guerra:
l'un è l'Acerbo e l'altro è Guadagnino. 4
Questi due ci hanno messi a sì gran serra
che ne ripiace molto Bonfantino;
e quinci si racorga, s'alcun ci erra,
che macine non son già
di molino: 8
ch'elle non hanno fondo, ma stranezza
hanno di peso, sì che lo palmento
n'andria giù in perfondo per gravezza, 11
ché di piombo è ciascun lor
reggimento.
Chi gli bestemmia, molto abbia alegrezza,
e chi non, sì gli basti esto
tormento. 14
IX
Collui che puose
nome al Macinella
al mio parer non fue strolago fino,
ché – dico questo a voi non per novella –
ch'egli 'l dovea
serbar per ser Laino. 4
Ché qual cavallo il porta in su la sella
non vuole esser puledro né ronzino:
ch'e' vela gli occhi e sì grale
favella
che 'l mar passo per esser saracino! 8
Ched egli avanza e passa ogn'altro grave
che fosse o sia o possa essere al mondo,
e di·cciò porta ben
seco la chiave. 11
Ed haccene un, che non
ha il capo biondo,
che 'n mar vorria che
fosse co·llui i·nave,
perch'ambendue n'andassero in
profondo. 14
X
Messer Bertuccio, a
dritto uom vi cagiona
che Fazo non guardate
del veleno,
e ciascun fiorentin di
ciò ragiona,
ch'e' non va ben sicuro a pallafreno. 4
Un gran distrier di
pregio hae a Chermona,
che mille livre il
dice in tutto 'l meno:
fate che vegna per la
sua persona;
non siate scarso in sua guardia, né leno. 8
E questo dico, e vo'
che sia sentenza,
credendo il me' di voi
dicer, per vero:
messer Bertuccio il
guardi per Fiorenza, 11
che de lo 'ngegno suo
sta cavaliero;
e 'l Chiocciolo gli deggia far credenza.
Non ch'io ne dotti, tant'ha
il viso fero. 14
XI
Oi dolce mio marito
Aldobrandino,
rimanda ormai il farso
suo a Pilletto,
ch'egli è tanto cortese fante e fino
che creder non déi ciò che te n'è detto. 4
E no star tra la gente a capo chino,
ché non se' bozza, e fòtine disdetto;
ma sì come amorevole vicino
co·noi venne a dormir nel
nostro letto. 8
Rimanda il farso
ormai, più no il tenere,
ch'e' mai non ci verrà oltre tua voglia,
poi che n'ha conosciuto il tuo volere. 11
Nel nostro letto già mai non si spoglia.
Tu non dovéi gridare,
anzi tacere:
ch'a me non fece cosa ond'io
mi doglia. 14
XII
D'una diversa cosa ch'è aparita
consiglio ch' abbian
guardia i fiorentini;
e qual è quei che vuol campar la vita,
sì mandi al Veglio per suoi asessini. 4
Ché ci ha una lonza sì fiera ed ardita
che, se Carlo sapesse i suo'
confini
e de la sua prodezza avesse udita,
tosto n'andrebbe sopra i Saracini. 8
Ma chi è questa lonza or lo sacciate:
Paniccia egli è. Che fate, o da
Fiorenza,
ch'oste no stanzïate o cavalcate? 11
Che s'e' seguisce inanzi sua valenza
com'egli ha fatta adietro,
sì gli date
sicuramente in guardia la Proenza. 14
XIII
Una bestiuola ho vista
molto fera,
armata forte d'una nuova guerra,
a cui risiede sì la cervelliera
che de·legnaggio par
di Salinguerra. 4
Se 'nsino 'l mento
avesse la gorgiera,
conquisterebbe il mar, non che la terra;
e chi paventa e dotta sua visera
al mio parer nonn-è
folle ned erra. 8
Laida la cera e periglioso ha 'l piglio,
e burfa spesso a guisa
di leone:
torrebbe l' tinto a cui desse di
piglio; 11
e gli occhi ardenti ha via più che leone:
de' suoi nemici asai mi maraviglio
sed e' non muoion sol di pensagione. 14
XIV
Quando Dïo messer Messerin
fece
ben si credette far
gran maraviglia,
ch'ucello e bestia ed uom ne sodisfece,
ch'a ciascheduna natura s'apiglia: 4
ché nel gozzo anigrottol
contrafece,
e ne le ren giraffa m'asomiglia,
ed uom sembia, secondo che si dice,
ne la piagente sua
cera vermiglia. 8
Ancor risembra corbo nel cantare,
ed è diritta bestia nel savere,
ed uomo è sumigliato
al vestimento. 11
Quando Dio il fece, poco avea
che fare,
ma volle dimostrar lo suo potere:
sì strana cosa fare ebbe in talento. 14
XV
Quando egli apre la bocca de la tomba
per dir parole, messer Casentino,
sì nel gozzo la boce
gli rimbomba
che diserta le donne e guasta 'l vino. 4
E Baldanza si dorme, quando tromba,
ed hal per gica messere Ugolino:
ma quest'è il gran fastido,
che colomba
si crede che ver' sé
fosse Merlino. 8
...
XVI
Le mie fanciulle gridan
pur vivanda
e non fìnaro sera né matino,
e stanno tutte spesso in far domanda:
'Or nonn-è vivo
messere Ugolino?' 4
Però ciascuna a voi si racomanda,
ed in ischiera v'è
Lippo e Cantino,
che non temon che lor botte si spanda,
ché, s'han del pane,
il pozzo è lor vicino. 8
Ond'io vi priego ancor, che la speranza
daria per men
di due fiorin lo staio,
ma le 'mpromesse atendo ad abondanza: 11
ch'a me penna non val
né calamaio,
né me' venir né·ffar far ricordanza,
ned esser ricco più che Min
di Ciaio. 14
XVII
Chi messere Ugolin biasma o riprende
perché nonn-ha
fermezza né misura
e perché sua promessa nonn-atende,
nonn-è cortese, ché·ll'ha da natura. 4
Ma fa gran cortesia chi 'l ne difende,
ch'è sì gentil che no ne mette cura,
e poco pensa se manca od offende,
e se vuol ben pensar, poco vi dura. 8
Ma i' so bene che,
s'e' fosse leale,
ch'egli è di sì gran pregio il suo valore
che men se ne poria dir ben che male. 11
Ed ama la sua parte di bon core,
se non ch'a punto ben no gliene cale,
e ben non corre a posta di signore. 14
XVIII
Io fo ben boto a Dio:
se Ghigo fosse,
ser Cerbiolin
che·ll'hai tanto lodato,
per pilliccion di
quella c'ha le fosse,
non si riscalderia, tant'è gelato. 4
Non vedi che di mezzo luglio tosse
e 'l guarnel tien di sotto foderato?
E dicemi che fuoco
anche nol cosse;
e' par figliuol di
Bonella impiombato: 8
ché tutto il giorno sol seco si siede,
onde 'mbiecare ha·ffatte molte panche,
se non ch'a manicare
in casa riede. 11
Maraviglia che no gli cascar l'anche!
ché, se grande bisogno no·richiede,
da la sua casa non si partio
anche. 14
XIX
Se tu sia lieto di madonna Tana,
Azzuccio, dimmi s'io vertà ti dico;
e se tu no la veggi
ancor puttana,
non ci guardar parente ned
amico: 4
ch'io metto la sentenza in tua man piana,
e di neiente no la contradico,
perch'io son
certo la darai certana;
non ne darei de l'altra parte un fico. 8
Ch'egli è più freddo che detto non aggio:
non vedi come 'l naso il manofesta?
ché redir non saprebbe di Cafaggio. 11
E spesse volte duolegli
la testa;
credo che stesse a balia ne·Rimaggio:
tant'è salvaggio
pare una tempesta. 14
XX
Ne la stia mi par esser col leone
quando a Lutier son presso ad un migliaio,
ch'e' pute più che 'nfermo uom di pregione
o che nessun carname o che carnaio. 4
Li suo' cavegli farian fin buglione
e la cuffia faria
ricco un oliaio
e li drappi de·lin
bene a ragione
sarian per far panei di quel massaio. 8
E' sente tanto di vivarra
fiato
e di leonza e d'altro
assai fragore,
mai nessun ne trovai sì smisurato; 11
ed escegli di sopra un
tal sudore
che par veleno ed olio mescolato:
la rogna compie, s'ha mancanza fiore. 14
XXI
Dovunque vai conteco
porti il cesso,
oi buggeressa
vecchia puzzolente,
che quale-unque
persona ti sta presso
si tura il naso e fugge inmantenente. 4
Li dent'i·le gengìe tue ménar gresso,
ché li taseva l'alito
putente;
le selle paion legna
d'alcipresso
inver' lo tuo fragor, tant'è repente. 8
Ch'e' par che s'apran
mille monimenta
quand'apri il ceffo: perché non ti spolpe
o ti rinchiude, sì ch'om
non ti senta? 11
Però che tutto 'l mondo ti paventa:
in corpo credo figlinti
le volpe,
ta·lezzo n'esce fuor, sozza giomenta. 14
XXII
Al mio parer Teruccio
non è grave,
ma scarso il tegno ismisuratamente;
e' ben cavalca de la man soave
quando l'avere utolità
ne sente. 4
E con tale usa e vanno insieme·nave
che boce glien'è corsa di mordente.
Non so se 'l fa, ma 'l suo sì serra a chiave
che 'l medesmo, che 'n
tôrre è sì saccente 8
non credo che del suo potesse avere.
Ch'è 'n questo è fermo il süo intendimento:
del suo non dare, altrui tôrre a podere. 11
E se per rima fosse il suo lamento,
de' nuovi danni che stima
d'avere
sollazzi n'averemmo il
giorno cento. 14
XXIII
Poi che guerito son de le mascelle
io no rido, ancor
ch'i' smanio, e canto
che si sconciàr per
rider di novelle
che mi contò Cristofan,
dritto santo, 4
cui non bisogna colla e manovelle,
così le ti sciorina ad ogni canto;
e chi non si ralegrerà
di quelle
in paradiso avrebbe doglie e pianto. 8
Oi Cion
del Papa bene aventurato,
lasciati andar di man de lo sterlino,
credi a Cristofan
ch'e' non è donato! 11
Per Dio, soccorri quel gentil Bandino,
ch'e' sia per te di morte suscitato:
è, ne le scritte, conte baladino. 14
XXIV
Buono inconincio,
ancora fosse veglio,
v'ebbe il valente messere Ubertino;
vostra grandezza va di bene in meglio,
ch'a voi ne viene il buon conte Bandino. 4
Quel da Romena, ch'è segnor
del Peglio,
v'intende, so, cagion
de lo sterlino;
e saccio ben, se
moglie non ha il Veglio,
ch'e' gli assesini ha
messi nel camino 8
per domandar la Diana o sua sorella;
ché quel da Senno nonn-è
tanto ardito
ch'egli oggi adomandasse
la fancella. 11
E Tanuccio n'è molto isbigottito
e nonn-ha più speranza
in suo' castella;
né 'l cardinal, secondo ch'aggio udito. 14
XXV
Il giorno avesse io mille marchi d'oro
che la Dianuzza fia contessa Diana,
e sanza grande isfolgòr di tesoro;
e non cavaleressa né cattana. 4
È fermo più che 'l genovese moro
lo detto di Cristofano in Toscana;
e poi apresso, sanza gran dimoro,
farem de l'altra orrevol marchisciana. 8
Fra gli altri partiremo li casati:
Donati ed Adimar sian del Capraccia;
di Donaton, Tosinghi e Giandonati. 11
Se più ve n'ha che non sian
maritati,
dean la parola là ove più lor piaccia:
e se rilievo v'ha, sia degli Abati. 14
XXVI
Da che guerra mì'avete
incominciata,
paleserò del vostro puttineccio,
de la foia, che tanto
v'è montata
che non s'atuteria per
pal di·lleccio. 4
Non vi racorda, donna,
a la fïata
che noi stemmo a San Sebio
in tal gineccio?
E se per moglie v'avesse sposata,
non dubbiate ch'egli
era un bel farneccio. 8
Che foste putta il die
che voi nasceste
ed io ne levai saggio ne la stalla:
ché 'l culo in terra
tosto percoteste, 11
e sed io fosse stato
una farfalla,
maraviglia saria, sì
mi scoteste:
voi spingate col cul, quando altri balla. 14
XXVII
A voi, Chierma, so
dire una novella:
se voi porrete il culo
al colombaio,
cad io vi porgerò tal
manovella,
se non vi piace, io no ne vo'
danaio. 4
Ma tornerete volontier
per ella,
ch'ella par drittamente
d'un somaio:
con tutto che non siate sì zitella
che troppo colmo paiavi
lo staio. 8
Adunque, Chierma,
non ci date indugio,
che pedir vi farabbo come vacca
se porrete le natiche al pertugio. 11
Tutte l'altre torrete
poi per acca:
sì vi rinzafferò col mio segugio
ch'e' parrà ch'Arno v'esca de la tacca. 14
XXVIII
Quando ser Pepo vede
alcuna potta
egli anitrisce sì come
distriere
e no sta queto: inanzi salta e trotta
e canzisce che par pur
un somiere; 4
e com' baiardo ad ella
si ragrotta
e ponvi il ceffo molto
volontiere,
ed ancor de la lingua già non dotta
e spesse volte mordele
il cimiere. 8
Chi vedesse ser Pepo incavallare
ed anitrir, quando sua
donna vede,
che si morde le labbra e vuol razzare, 11
quelli, che dippo par
non si ricrede:
quando v'ha 'l ceffo sì la fa sciacquare,
sì le stringe la groppa ch'ella pede. 14
XXIX
El Muscia
sì fa dicere e bandire,
qual donna non avesse buon marito,
ch'aggia picciol dificio da servire,
che vada a·llui, cad e' n'è ben fornito. 4
Ed ancor questo fa nel bando dire,
ch'è sedici once, sanza
i·rimonito;
e dice ben, se no la fa pedire
a ogni tratto, ch'e' vuol perder lo 'nvito. 8
Ma se se ne aterranno
al mio consiglio,
inanzi il proveranno ver' di mezzo,
que' c'ha la schiena bianca
e 'l co vermiglio; 11
e poi, quando verrà colà 'l da sezzo,
darannovi con ambo man di piglio,
ch'a ben ripalleggiarlo
egli è un vezzo. 14
XXX
Amor fa nel mio cor fermo soggiorno
e quindi non si parte né va fori,
ma manda li suo' messi
spesso intorno
cercando e provedendo
gli amadori. 4
E 'ntende le ragion ciaschedun giorno:
a tal dà gioia, a tal dona dolori;
ma 'l meo Segnore ha me in tal loco adorno
ch'io passo tutti gli altri intenditori. 8
Oi core orrato più di nessun core,
perch'ami la megliore e la più gente;
orrato, poi che torna teco
Amore! 11
Cortese ed amoroso meo
Segnore,
di cui mi credo star leal
servente,
non vi so graze far di
tanto onore. 14
XXXI
Tutte le donne ch'io audo
laudare,
parmi che lor
non aggiano bieltate;
quando posso la mia donna membrare
son neiente
le laude che son date: 4
ma' che vorria
ch'Amor tanto in parlare
mi desse graza ch'io
con veritate
savesse a tutta gente adimostrare
com'è somma de l'altre donne nate. 8
Dëo, che maraviglia sembreria
a dir tanta smisura di
bellezze
quante son quelle di
madonna mia! 11
Perch'io non posso dir le grand'altezze;
io non so se m'aven
per gelosia
ch'io nonn-oso nomar
le sue adornezze. 14
XXXII
Come pote la gente soferire,
donna amorosa, standovi lontana?
Chi vive como si puote partire
da la vostra gioiosa cera umana? 4
Ben me ne maraviglio,
a lo ver dire,
ché de le donne siete la sovrana.
Come si trova i·llor
tanto fallire
ched a·llor
non istate prossimana? 8
Eo nol
dico, madonna, che mi doglia
di questo fallo che la gente face:
paremi così grande maraviglia. 11
E so ben che non fora vostra voglia,
e me dismisuratamente
piace:
tanta di gelosia l'Amor m'apiglia. 14
XXXIII
I' aggio inteso che sanza lo core
non pò l'om viver né durar neiente;
ed io vivo sanz'esso,
e lo colore
però non perdo, né saver,
né mente: 4
ma solo per la forza del Segnore
che 'l n'ha portato, che, tanto potente,
lo dipartì dal corpo, ciò fue
Amore:
e' l'ha miso in balìa de l'avenente. 8
Lo cor, quando dal corpo si partio,
disse ad Amor: 'Segnore,
in quale parte
mi meni?' E que'
rispose: 'Al tuo disio'. 11
'In tale loco è che già mai non parte';
insieme sta il meo
core e 'l disir mio:
così vi fosse il corpo in terza parte! 14
XXXIV
Madonna, quando eo voi
non veggio in viso,
tant'è forte e dogliosa la
mia pena
che 'n su la morte mi conduce e mena,
non m'aucide e tenemi conquiso. 4
E quando eo sto da
voi, bella, diviso,
languisco se l'Amor non mi rimena;
e 'l vostro bel riguardo mi dà lena
e mi ritien ch'io non
mi sono auciso. 8
Volete audire, amor,
gentil penzero
per ch'io donare a me morte non voglio?
che dico: 'Con' vedrei poi 'l viso clero?' 11
E sed io nol vedesse com'io soglio,
come faria? Però non
mi dispero.
Amor, merzé, che tango
aggio d'orgoglio. 14
XXXV
Dovunque eo vo o vegno o volgo o giro,
a voi son, donna mia, tuttor davanti,
e s'eo co·gli occhi altrove guardo o miro,
lo cor non v'è, poi ch'io faccio i sembianti. 4
E spesse volte sì forte sospiro
che par che 'l cor dal corpo mi si schianti:
alor piango e lamento, e non
m'adiro,
ma li mei occhi bagno
tutti quanti; 8
e dolzemente faccio
mio cordoglio,
tuttor, mia donna, a voi merzé chiamando
umilemente più quant'eo più doglio. 11
Durar non posso più disiderando;
non aggio di voi quello ch'aver soglio:
morrò per voi piangendo e sospirando. 14
XXXVI
Merzé, madonna, non mi abandonate,
e non vi piaccia ch'io stessi m'aucida;
poi che venne da voi questa amistate,
dovetemi esser donna, porto e guida. 4
Durar non posso più, se mi tardate
conven per ben la morte mi
conquida.
Oi amorosa somma di bieltate,
piacciavi ch'io diporti e giochi
e rida. 8
In voi è la mia morte e la mia vita:
oi, donna mia, traetemi di
pene;
se nol fate, la vita a
mort'è gita. 11
E se di me, madonna, a voi sovene,
la mia faccia dogliosa e scolorita
ritornerà 'n istato di
gran bene. 14
XXXVII
Amore, onde vien
l'acqua che lo core
agli occhi senza mai rifinar
manda?
Saria per tuo comandamento, Amore?
Eo credo ben che mova a tua dimanda. 4
E' pare a me che surgia
di dolore,
e convien che con duol degli occhi spanda;
ché, se dagli occhi non uscisse fore,
lo cor morria: Amor no
lo comanda. 8
Amor non vol ch'io moia, ma languendo
viva: così cortese segnoria
mi faccia Amor, po' ch'io non mi difendo. 11
In quest'è tutta la speranza mia:
che tanto le starò merzé
cherendo,
che sia pietosa più sua segnoria. 14
XXXVIII
L' afanno e 'l gran
dolor ch'io meco porto
mi dovria mille fiate
avere auciso;
ma per la dismisura non son
morto,
che men dolor m'avria morto e conquiso: 4
ch'io son degli smarruti capo e porto,
sì come d'ogni gioia paradiso:
adunque chi ha pena e disconforto
comeco i·nullo
logo sia conmiso. 8
Per ch'io voglio esser de l'altrui mal miro,
e voglio a ciaschedun
dar guerigione
veggendo lo mio pianto e lo
sospiro. 11
Non avranno mai dol né
pensagione,
tant'è lo male ch'io comeco tiro:
perché de me' morir nonn-è stagione. 14
XXXIX
Tant'è lo core meo pien di dolore
e tant'è forte la
doglia ch'eo sento,
ca s'e' de la mia pena mi
lamento
la lingua il dice sì, che par dolzore. 4
A me foria mistier che lo mio core
parlasse, ch'e' mostrasse il suo tormento:
eo credo certo, sanza fallimento,
ca di pietà ne piangerebbe
Amore. 8
Oi core meo e occhi, che farete?
Cor, come soferrai
dolor cotanto?
ed occhi, voi che sì spesso piangete? 11
Amor, merzé, ch'aleni lo mio pianto;
e voi, per Dio, madonna, provedete
che lo dolor del cor ritorni in canto. 14
XL
Similmente la notte come 'l giorno
io dormo e poso ed ho sollazzo e gioco,
e simile mi volgo e giro intorno
e sto, senza pensier
doglioso, poco; 4
e spesse volte a pianger mi ritorno
e quindi bagno l'amoroso foco,
e lo pensiero e 'l pianto è 'l mio soggiorno:
oi lasso, che tutto ardo e
'ncendo e coco! 8
E nessun foco mai cangia calore
o che faccia languire o tormentare,
per certo non, con' fa
il foco d'Amore, 11
che 'l natural ti fa
poco durare:
ma quegli ha vita, ca
più tosto more,
a cui non vole Amore alegro fare. 14
XLI
Amore, a voi domando perdonanza,
sì como fin servente
al suo segnore,
s'eo dico cosa che vi si' a pesanza,
ché soferir non pò la doglia il core. 4
Sacciate che segnor
sanza pietanza
tanto non val, con' s'ha pietoso il core.
Oimè, che dissi! Forse che fallanza
terrà che 'nver di·llui dett'aggia Amore. 8
Vengianza, se fallato aggio, ne
prenda,
ché la pena m'incalcia
e dà conforto
ch'io dica, e poco pensa ch'io misprenda. 11
Però perdon dovria trovar del torto;
ma prego la ragion che mi difenda
e de l'altezza mi conduca a porto. 14
XLII
Tutto lo giorno intorno vo fuggendo,
credendomi campar, davanti Amore,
e s'io trovo nessun, forte piangendo
lo prego che mi celi al mio Segnore. 4
Oi lasso, con' gran pene soferendo
condotto ho me medesmo
in questo errore!
ché, quando i' sono
assai gito languendo,
io trovo Amor che m'è dentro dal core. 8
Così la pena c'ho mi mena e caccia,
che mi fa soferir
l'amore amaro,
che spesso il giorno il cor m'arde ed aghiaccia. 11
E non mi manca pena, ched
io saccia;
lo mal m'è vile e 'l ben m'è troppo caro:
Amor, merzé, ch'io non
so ch'io mi faccia. 14
XLIII
Amor, poi che del mio mal non vi dole,
più siete inver' di me fero che fera;
Amor, guardate inver' le mie parole:
s'aggio fallato, piacciavi
ch'io pèra. 4
E s'io nonn-ho
mancato, come sole
lo mio cor ritornate a quella spera,
che tanto quanto guarda o gira il sole
più doglioso di me merzé
non chera. 8
Oi Morte, chi t'apella 'dura Morte'
non sente ciò ched io
patisco e sento,
ché, se mi vuoli aucider, mi conforte; 11
ché la mia vita passa ogni tormento.
Oi Morte, perché l'arma
non ne porte
e falla far dal secol partimento? 14
XLIV
A nessuno omo adivenne
già mai
ch'Amor prendesse altrui sanza
veduta;
a meve è adivenuto; non pensai
ca sì forte pungesse sua feruta. 4
Ch'e' mi tormenta e dona pena assai,
se madonna amorosa non m'aiuta,
che m'ha in balìa; ed
io medesmo il sai,
che·ll'ho donato il cor sanza partuta. 8
Dunque mi dé' campare,
ed a ragione:
qualunque buon segnore
a suo servente,
che·llui ha messa tutta sua intenzone, 11
non dé' sofrir ch'e' moia di neiente,
ché·lli sarabbe
grande riprensione:
questo fedel son io, donna valente. 14
XLV
Unqua per pene ch'io patisca
amando,
lasso, già non vorria
disamorare:
omè, che per aver disiderando,
ciò ch'io sostegno non porria
mostrare. 4
Ché solo pur le lagrime ch'io spando
sovente fannomi maravigliare;
e quanto più languisco e vo penando,
alor si ferma il cor meo più d'amare. 8
E s'ïo ardisse d'incolpare Amore,
eo diceria ch'avesse di me
torto,
dapoi che fuor di me nonn-è dolore. 11
Se non che spero ancor d'aver conforto,
là dov'è grande pregio e gran valore:
sol è colpa d'Amor s'io pene porto. 14
XLVI
Ispesse volte voi vegno a vedere
per sodisfare agli
occhi ed a lo core;
ma quand'eo parto sì
mi stringe Amore
ch'io non saccio che via
deggia tenere. 4
E di tornar mi sforza lo volere,
sì m'ha 'nfiammato
Amor del suo calore;
e poi, quando mi parto, lo dolore
alor ritorna, e partesi il
piacere. 8
Adunque, lasso, como deggio fare?
Ch'io non posso tuttor
madonna mia
veder co·gli occhi, e
'l cor fare alegrare. 11
Gentile ed amorosa più che sia,
e' sai in che guisa tu mi puoi campare:
non pèra sanza gioia,
ch'io non dovria. 14
XLVII
Sì tosto con' da voi,
bella, partuto
son, mantenente ritornar vorria;
e sentome mortalmente feruto,
perdo la conoscenza e:lla
balìa. 4
Ma sì non perdo ch'io no speri aiuto
di voi, gentil più ch'altra che mai sia:
ch'io son fedel d'Amor tanto vivuto
a la speranza di voi, donna mia. 8
Sì come il partimento
mi dà noia,
amorosa e gentil donna piagente,
così è·ritornar somma
di gioia. 11
E se non fosse l'anoiosa
gente,
la qual disia che
doloroso moia,
eo viveria
per voi alegramente. 14
XLVIII
Io non auso rizzar,
chiarita spera,
inver' voi gli occhi, tant'ho
gelosia,
e feremi nel viso
vostra spera,
e gli occhi abasso e
non so là ove sia. 4
Oi amorosa ed avenante cera,
non mi tardate la speranza mia,
ch'ad onta de la gente malparliera
mi riterrete in vostra segnoria. 8
Deo, como son lontan da me'
pensiero
li falsi e li noiosi maldigenti,
che là non volgo l'arco ov'eo
ne fero; 11
ma tutavia mi fan sofrir tormenti,
ché spesso l'amoroso viso clero
s'asconde per li falsi parlamenti. 14
XLIX
Quant'io verso l'Amor più m'umilìo,
a me più mostra fera segnoria;
e più monta e cresce il meo
disio,
e più mi tien doglioso
notte e dia. 4
Adunque, lasso, como faraggio io,
se non mi soccorrete, donna mia?
Se mi tardate, bella, lo cor mio
durar non pò più vita,
anzi va via. 8
Ciascun mi guarda in viso e fa dimando,
veggendomi cangiato lo visaggio;
ed io celo la doglia mia in parlando, 11
e non ardisco dir lo meo
coraggio,
perch'io l'ho da la mia donna
in comando.
Oi lasso, ch'attendendo mi
morraggio! 14
L
Tanto di cor verace e fino amante
i' son,
madonna, inver' di voi stato,
che quando fosse a voi, cor me',
davante,
eo non pensava d'esservi
incolpato. 4
E s'io facea davanti
altrui sembiante,
già non credea di
nulla esser guardato;
ond'io doglie ne porto e
pene tante
che morte vita mi sarebbe in grato. 8
Qual uomo ama di cor perfettamente,
nonn-ha mai conoscenza né
misura,
tant'è lo foco de l'amore
ardente. 11
E se per nulla cangiasi natura,
sì fa per gli amador
veracemente,
tant'è lor
condizion dogliosa e dura. 14
LI
Or ho perduta tutta mia speranza
e non attendo mai gioia né diporto,
poi che madonna, ch'era il mio conforto,
cangiata m'ha la sua bella sembianza, 4
e fatt'ha co·l'Amore sua acordanza
ch'io viveraggio assai
peggio che morto.
Ai dolce donna mia, pensa che torto
hai di mia greve e dura malenanza! 8
Oi gentil donna, come faraggio eo?
Dapoi che ver'
di me cangiata siete,
già mai nulla allegranza
non ispero. 11
Ma 'l fino amor ch'io porto, viso clero,
in gioia mi tornerà; come solete
sarete pïetosa, amore meo. 14
LII
Lo vostro dolze ed umìle conforto
sì tosto giugner
com'ho disïanza:
ond'io però la vita in core
porto,
e per aver di voi ferma speranza. 4
Ma rea fortuna non mi lascia in porto
sì tosto giugner
com'ho disïanza:
ma, tosto ch'anderà
via il tempo torto,
mi riterrà madonna in sua possanza. 8
Da che madonna dol
quand'io aggio doglia,
dovria più soferente
esser del male,
poi che 'l mio ne saria
ben per sua voglia. 11
Ed è ben sì cortese e tanto vale
che spesso si lamenta e si cordoglia,
ed ha dolor di mia pena mortale. 14
LIII
'Poi che voi piace ch'io mostri alegranza,
madonna, ed i' 'l faraggio volontiera'.
'Meo sire e tutta mia disideranza,
alegra lo tuo core e la tua cera'. 4
'O donna mïa, merzé e
pietanza
dimando, se mostrat'ho
doglia fera'.
'Meo sire, se ralegri
tua sembianza:
già mai non cangerò disio né spera'. 8
'Merzede, Amor, ch'io
non saccio che dire
ver' la mia donna, tanto m'è
gioiosa:
tu se' il mio core,
Amore, e 'l meo disire'. 11
'Oi amador, di fin cor l'amorosa
lëalmente ama senza mai fallire,
però ch'ell'ama te sovr'ogni cosa'. 14
LIV
(MADONNA)
Oi amoroso e mio fedele
amante,
amato più di null'altro amadore,
se tu ti doli, i'
aggio pene tante
ch'ardo tutta ed incendo
per amore. 4
E se lo core meo fosse
diamante,
non doveria aver forza
né valore;
e se di doglia in cera fai sembiante,
eo sono, eo, quella che la porto in core. 8
Amore meo, cui più
coralmente amo
ch'amasse già mai donna suo servente,
e che non fece Tisbïa Prïamo, 11
l'atender non ti sia disavenente,
ched io tanto del cor disio
e bramo
che picciol tempo,
amor, serai atendente. 14
LV
(MESSERE)
Graza e merzé
vi chero e a voi mi rendo,
donna, ch'io per neiente
non son degno;
l'amoroso consiglio vostro prendo,
sperando venire nel vostro regno. 4
E s'io aggio fallato, al vostro amendo
son, di voi, donna, mio
core e sostegno;
e s'io lamento e doglio e non atendo,
ormai di più doler muto divegno. 8
La vostra doglia sia la doglia mia,
e la mia doglia metto 'n ubrianza;
più pene sofero ch'io
non sofria: 11
ma non, mia donna, che paia sembianza.
Gentile ed amorosa più che sia,
a voi rendo merzé d'esta inoranza. 14
LVI
(MADONNA)
Assai mi son coverta, amore meo:
oi lassa me, più non posso
sofrire;
cotanto forte d'amor son
presa eo
ch'io non aggio potenza, omè,
di dire. 4
Ch'io nonn-amo né temo
tanto Deo
quanto te, amoroso e dolze
sire,
e vo' ben che tu sacce e penzi ch'eo
condotta son per te
presso al morire. 8
E se co·gli occhi
piangi o ti lamente,
e' son quella che non
trovo riposo
lo dì ch'io non ti veggio,
amor piagente. 11
E se due giorni o tre mi stesse ascoso,
io n'anderei piangendo infra
la gente,
cherendo te, meo
sir disideroso. 14
LVII
(MESSERE)
Gentile ed amorosa ed avenente,
cortese e saggia con gaia sembianza,
ben aggia il giorno
che vostro servente
Amor mi fe', di voi
che somiglianza 4
non avete né pare, al mio parvente.
Conforto e doglia m'è vostra pesanza,
pensandome ch'Amor veracemente
vi stringa, dolce donna, per amanza. 8
Di ciò prendo conforto nel coraggio,
e dolemi se voi doglia
portate,
ché quando voi dolete io gioia non aggio. 11
Ma se di me vi pesa o se m'amate,
Amor ringrazo, che 'n
suo segnoraggio
mi tene, e voi, madonn', ha in potestate. 14
LVIII
Due cavalier valenti
d'un paraggio
aman di core una donna
valente;
ciascuno l'ama tanto in suo coraggio
che d'avanzar d'amar saria
neiente. 4
L'un è cortese ed insegnato e saggio,
largo in donare ed in tutto avenente;
l'altro è prode e di grande vassallaggio,
fiero ed ardito e dottato
da gente. 8
Qual d'esti due è più
degno d'avere
da la sua donna ciò ch'e' ne disia,
tra quel c'ha 'n sé cortesia e savere 11
e l'altro d'arme molta valentia?
Or me ne conta tutto il tuo volere:
s'io fosse donna, ben so qual vorria. 14