XXV. Potrebbe qui dubitare persona degna da dichiararle onne dubitazione, e dubitare potrebbe di ciò, che io dico d'Amore come se fosse una cosa per sé, e non solamente sustanzia intelligente, ma sì come fosse sustanzia corporale: la quale cosa, secondo la veritate, è falsa; ché Amore non è per sé sì come sustanzia, ma è uno accidente in sustanzia. E che io dica di lui come se fosse corpo, ancora sì come se fosse uomo, appare per tre cose che dico di lui. Dico che lo vidi venire; onde, con ciò sia cosa che venire dica moto locale, e localmente mobile per sé, secondo lo Filosofo, sia solamente corpo, appare che io ponga Amore essere corpo. Dico anche di lui che ridea, e anche che parlava; le quali cose paiono essere proprie de l'uomo, e spezialmente essere risibile; e però appare ch'io ponga lui essere uomo. A cotale cosa dichiarare, secondo che è buono a presente, prima è da intendere che anticamente non erano dicitori d'amore in lingua volgare, anzi erano dicitori d'amore certi poete in lingua latina; tra noi dico, avvegna forse che tra altra gente addivenisse, e addivegna ancora, sì come in Grecia, non volgari ma litterati poete queste cose trattavano. E non è molto numero d'anni passati, che appariro prima questi poete volgari; ché dire per rima in volgare tanto è quanto dire per versi in latino, secondo alcuna proporzione. E segno che sia picciolo tempo, è che se volemo cercare in lingua d'oco e in quella di sì, noi non troviamo cose dette anzi lo presente tempo per cento e cinquanta anni. E la cagione per che alquanti grossi ebbero fama di sapere dire, è che quasi fuoro li primi che dissero in lingua di sì. E lo primo che cominciò a dire sì come poeta volgare, si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna, a la quale era malagevole d'intendere li versi latini. E questo è contra coloro che rimano sopra altra matera che amorosa, con ciò sia cosa che cotale modo di parlare fosse dal principio trovato per dire d'amore. Onde, con ciò sia cosa che a li poete sia conceduta maggiore licenza di parlare che a li prosaici dittatori, e questi dicitori per rima non siano altro che poete volgari, degno e ragionevole è che a loro sia maggiore licenzia largita di parlare che a li altri parlatori volgari: onde, se alcuna figura o colore rettorico è conceduto a li poete, conceduto è a li rimatori. Dunque, se noi vedemo che li poete hanno parlato a le cose inanimate, sì come se avessero senso e ragione, e fattele parlare insieme; e non solamente cose vere, ma cose non vere, cioè che detto hanno, di cose le quali non sono, che parlano, e detto che molti accidenti parlano, sì come se fossero sustanzie e uomini; degno è lo dicitore per rima di fare lo somigliante, ma non sanza ragione alcuna, ma con ragione la quale poi sia possibile d'aprire per prosa. Che li poete abbiano così parlato come detto è, appare per Virgilio; lo quale dice che Iuno, cioè una dea nemica de li Troiani, parloe ad Eolo, segnore de li venti, quivi nel primo de lo Eneida: Eole, nanque tibi, e che questo segnore le rispuose, quivi: Tuus, o regina, quid optes explorare labor; michi iussa capessere fas est. Per questo medesimo poeta parla la cosa che non è animata a le cose animate, nel terzo de lo Eneida, quivi: Dardanide duri. Per Lucano parla la cosa animata a la cosa inanimata, quivi: Multum, Roma, tamen debes civilibus armis. Per Orazio parla l'uomo a la scienzia medesima sì come ad altra persona; e non solamente sono parole d'Orazio, ma dicele quasi recitando lo modo del buono Omero, quivi ne la sua Poetria: Dic michi, Musa, virum. Per Ovidio parla Amore, sì come se fosse persona umana, ne lo principio
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